PARTE OTTAVA LA GIURISDIZIONE

  • competenza giurisdizionale
  • diritto internazionale privato
  • impiegato dei servizi pubblici
  • conflitto di giurisdizioni

CAPITOLO XXIV

LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE

(di Roberto Mucci )

Sommario

1 I motivi inerenti alla giurisdizione e il sindacato delle Sezioni Unite. - 1.1 Il sindacato sulle decisioni del Consiglio di Stato. - 1.2 Il sindacato sulle sentenze della Corte dei conti. - 1.3 Il riparto di giurisdizione: casistica. - 2 Le questioni processuali. - 2.1 Il regolamento di giurisdizione. - 2.2 I conflitti. - 2.3 Il giudicato implicito sulla giurisdizione. - 3 Il riparto di giurisdizione nel pubblico impiego. - 4 Giurisdizione e diritto internazionale privato.

1. I motivi inerenti alla giurisdizione e il sindacato delle Sezioni Unite.

Nel corso del 2014 le Sezioni unite hanno ulteriormente precisato la nozione di motivi inerenti alla giurisdizione contenuta nell'ultimo comma dell'art. 111 Cost.. Si tratta, come è noto, degli unici motivi per i quali, a mente dell'art. 362, primo comma, cod. proc. civ., possono essere impugnate con ricorso per cassazione le decisioni del Consiglio di Stato (vale al riguardo anche il richiamo alla corrispondente previsione contenuta nell'art. 110 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, cosiddetto codice del processo amministrativo) e della Corte dei conti.

Escluso in ogni caso un sindacato sul modo di esercizio della funzione giurisdizionale (e, dunque, sugli eventuali errores in iudicando e in procedendo, che attengono alla fondatezza o meno della domanda), per costante giurisprudenza i motivi inerenti alla giurisdizione - che concretano il vizio di eccesso di potere giurisdizionale - riguardano quei vizi della pronuncia che abbiano inciso, in positivo o in negativo, l'ambito della giurisdizione, invadendo la sfera riservata al legislatore o all'autorità amministrativa, ovvero rifiutando la giurisdizione sull'erroneo assunto della sua inesistenza in assoluto, oppure abbiano violato i cosiddetti limiti esterni della giurisdizione del giudice speciale (con conseguente sconfinamento nella sfera della giurisdizione ordinaria o delle altre giurisdizioni speciali, ovvero con un sindacato sul merito amministrativo laddove sia riconosciuta soltanto una giurisdizione di legittimità).

Fermi tali principi generali, occorre tuttavia richiamare i noti e recenti approdi interpretativi della Corte, tesi a valorizzare il concetto di giurisdizione come strumento per la tutela effettiva delle parti, nel senso che è norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto a quel potere attraverso le forme di tutela in cui esso si estrinseca, sicché ben può la Corte sindacare le denunzie di rifiuto dell'esercizio della potestà giurisdizionale, "rifiuto" rilevante solo quando il rigetto della richiesta di tutela passi attraverso l'aprioristica affermazione dell'impossibilità di assicurarla per ragioni di "sistema attributivo" e non attraverso errori nell'applicazione o interpretazione di norme sostanziali o processuali (in tal senso, tra le altre pronunce del corrente anno che ribadiscono l'indirizzo già confermato nel 2013, Sez. U, n. 2910, Rv. 629517, est. Macioce).

1.1. Il sindacato sulle decisioni del Consiglio di Stato.

In tema di sconfinamento nella sfera del merito amministrativo, Sez. U, n. 1013, Rv. 629196, est. Rordorf, nel ribadire la sindacabilità per vizi di legittimità e non di merito dei provvedimenti dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, non essendo consentito al giudice amministrativo un controllo di tipo "forte" sulle valutazioni tecniche opinabili, ha fornito interessanti precisazioni sul profilo della valutazione dei concetti giuridici indeterminati commessa alle autorità amministrative indipendenti affermando che tale sindacato "comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicarne della legittimità, salvo non includano valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità (come nel caso della definizione di mercato rilevante nell'accertamento di intese restrittive della concorrenza), nel qual caso il sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica della non esorbitanza dai suddetti margini di opinabilità, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Autorità Garante". Ciò sulla necessaria premessa della natura di autorità indipendente dell'istituzione, cui il legislatore ha affidato compiti di vigilanza e di accertamento in ragione della sua specifica competenza tecnica.

In altro ambito disciplinare, quale l'appalto di opera pubblica per la progettazione ed esecuzione di lavori di adeguamento di un tratto autostradale, Sez. U, n. 16239, Rv. 631803, est. Amatucci, in continuità con l'orientamento della Corte in materia e richiamando anche l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 2014, ha affermato che "il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni della commissione di gara in sede di verifica dell'anomalia di un'offerta non configura eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento, non attenendo tale controllo al merito dell'azione amministrativa, ma all'esercizio di discrezionalità tecnica".

Alcune sentenze hanno riguardato ipotesi in cui veniva in contestazione l'attività interpretativa svolta dal giudice amministrativo e, in tale ambito, il più specifico tema dell'interpretazione ed applicazione delle regole del processo amministrativo.

Così, Sez. U, n. 774, Rv. 629370, est. Vivaldi, relativa ad un caso in cui il Consiglio di Stato, nel rilevare che la convenzione, intervenuta tra un comune ed una società concessionaria di opere viarie, limitava la scelta del primo a tre differenti opzioni di allacciamento e collegamento alla viabilità generale, senza prevedere obblighi aggiuntivi eccedenti i collegamenti con la viabilità generale già esistente, ha ritenuto non conforme a buona fede la successiva imposizione, da parte dell'ente comunale, dell'obbligo di allestire un tronco di un nuovo asse di viabilità sovracomunale, "extra-comparto", non previsto nella convenzione. La Corte ha affermato che "non è affetta dal vizio di eccesso di potere giurisdizionale la decisione con cui il giudice amministrativo interpreti le clausole di una convenzione urbanistica alla luce delle regole di buona fede e correttezza che soprassiedono alle fasi di formazione, conclusione ed esecuzione della convenzione, essendo alla stessa applicabili i comuni principi dell'ermeneutica contrattuale, sebbene si tratti un accordo destinato a disciplinare gli obblighi e le facoltà incombenti alla parte pubblica e privata in connessione con l'esercizio di potestà autoritative da parte della prima".

Circa le regole del processo amministrativo, Sez. U, n. 8056, Rv. 629836, est. Giusti, ha ritenuto che "la decisione con cui il Consiglio di Stato non conceda, sull'istanza della parte, un termine per la presentazione della querela di falso innanzi al tribunale ordinario competente, ritenendo - ai sensi dell'art. 77, comma 2, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 - che la controversia devoluta al proprio esame possa essere decisa indipendentemente dal documento del quale sia stata dedotta la falsità, non integra una ipotesi di rifiuto di giurisdizione ma, eventualmente, un mero error in procedendo, come tale non sindacabile sotto il profilo dell'eccesso di potere giurisdizionale". Sempre in tema di falsità documentale, con riferimento alla giurisdizione del Consiglio di Stato sul contenzioso elettorale, Sez. U, n. 8993, Rv. 630488, est. Rordorf, ha chiarito che ove il Consiglio di Stato abbia ritenuto di identificare la pronuncia definitiva in ordine alla falsità documentale dell'autenticazione delle firme di accettazione della candidatura alla carica di consigliere regionale in quella resa dal giudice penale, piuttosto che in quella adottata dal giudice civile all'esito del procedimento di querela di falso, non risulta affetta da vizio di eccesso di potere giurisdizionale, posto che in tale ipotesi ricorrerebbe, eventualmente, un errore inerente il modo di esercizio in concreto della giurisdizione, come tale non sindacabile dalla Corte.

Per quanto riguarda la revocazione delle sentenze del Consiglio di Stato, Sez. U, n. 3200, Rv. 629520, est. D'Ascola, ha deciso un caso in cui parte ricorrente, alla quale era stata irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, dopo aver adito la giustizia amministrativa, ha sostenuto innanzi alla Corte l'insussistenza di tale giurisdizione, vertendosi in situazioni tipiche di diritto soggettivo. La Corte ha ritenuto non impugnabile per difetto di giurisdizione la sentenza resa dal Consiglio di Stato in relazione alla richiesta di revocazione della sentenza dallo stesso pronunciata poiché il ricorso straordinario e il ricorso per revocazione costituiscono rimedi concorrenti, esperibili solo contro la decisione di merito del Consiglio di Stato. Una diversa soluzione si tradurrebbe in una indebita protrazione dei termini per l'impugnazione straordinaria, considerato che, ai sensi dell'art. 398 cod. proc. civ., la proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione.

Per altro verso, e più in generale, Sez. U, n. 16754, Rv. 631805, est. Vivaldi, ha ribadito che, in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza del Consiglio di Stato pronunciata su impugnazione per revocazione, "può sorgere questione di giurisdizione solo con riferimento al potere giurisdizionale in ordine alla statuizione sulla revocazione medesima, restando esclusa la possibilità di mettere in discussione detto potere sulla precedente decisione di merito", poiché altrimenti sarebbe consentito al ricorrente porre nuovamente in discussione punti oggetto del sindacato di merito del giudice amministrativo ormai coperti da giudicato.

La Corte è altresì ritornata sulle problematiche relative al rispetto dei limiti esterni della giurisdizione in ordine alle decisioni adottate dal Consiglio di Stato in sede di giudizio di ottemperanza. In fattispecie di pubblico impiego, relativa all'ottemperanza di un giudicato in materia di attribuzione di punteggi ai fini della graduatoria per incarico di direzione e coordinamento, ribadendo l'orientamento emerso nel 2011 e 2012, ulteriormente ripreso con alcune pronunce rese lo scorso anno, la Corte (Sez. U, n. 2289, Rv. 629402, est. Nobile), sulla base del rilievo che il giudice dell'ottemperanza correttamente si era limitato a conoscere degli specifici contenuti della sentenza da eseguire, ha affermato che "non incorre in un rifiuto di giurisdizione o diniego di giustizia, sindacabile dalla Corte di cassazione ai sensi dell'art. 362, primo comma, cod. proc. civ., la decisione con cui il Consiglio di Stato, in sede di giudizio di ottemperanza, a conferma della pronuncia di primo grado, rigetti la pretesa del ricorrente relativa alla mancata attribuzione, nella graduatoria relativa al conferimento di un incarico di direzione e coordinamento, di un punteggio aggiuntivo in relazione a titoli non contemplati nella sentenza in esecuzione, nonché al mancato ulteriore riconoscimento della partecipazione a commissioni istituzionali", venendo in evidenza i limiti interni della giurisdizione, senza alcuna esorbitanza dalla giurisdizione propria del giudice dell'ottemperanza.

Da ultimo, meritano di essere evidenziate due decisioni relative alla deducibilità, come motivo afferente alla giurisdizione, del mancato accoglimento della richiesta di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Con una prima pronuncia (Sez. U, n. 2403, Rv. 629620, est. Giusti) la Corte, decidendo su una fattispecie di pubblico impiego in cui si denunciava la violazione dei principi di diritto comunitario con riferimento al divieto di discriminazione tra dipendenti a tempo determinato e indeterminato, ha ribadito che il controllo della Corte sul rispetto del limite esterno della giurisdizione "non include anche una funzione di verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto dell'Unione europea, neppure sotto il profilo dell'osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, dovendosi tener conto, da un lato, che nel plesso della giurisdizione amministrativa spetta al Consiglio di Stato - quale giudice di ultima istanza - garantire, nello specifico ordinamento di settore, la conformità del diritto interno a quello dell'Unione, se del caso avvalendosi dello strumento del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, mentre, per contro, l'ordinamento nazionale contempla - per reagire ad una lesione del principio di effettività della tutela, conseguente ad una decisione del giudice amministrativo assunta in pregiudizio di situazioni giuridiche soggettive protette dal diritto dell'Unione - altri strumenti di tutela, attivabili a fronte di una violazione del diritto comunitario che sia grave e manifesta", secondo una logica di compensazione solidaristica.

L'altra pronuncia (Sez. U, n. 2910, Rv. 629517, est. Macioce) ha riguardato un interessante caso in cui era stata prospettata l'illegittimità costituzionale della devoluzione al giudice amministrativo delle controversie risarcitorie da atti e provvedimenti, assumendosi un quadro di minorata tutela erogabile da quel giudice sia quanto a strumenti processuali, sia quanto a regole sostanziali applicabili, superabile soltanto mediante una rilettura "aperta" dell'art. 111, ottavo comma, Cost., tesa a riespandere il sindacato della Corte sulle violazioni di legge le volte in cui sia resa pronuncia dal giudice amministrativo sui diritti soggettivi. La Corte, nel ribadire che l'attenzione dell'organo regolatore della giurisdizione va applicata, ben più che su di una - non consentita - lettura estensiva del sindacato alle aree di giurisdizione esclusiva, sulla necessità che ciascuna giurisdizione assicuri l'effettiva tutela dei diritti che l'ordinamento chiede di somministrare, ha dunque affermato che "le norme che disciplinano il risarcimento del danno da atti illegittimi della P.A. non si applicano, né possono venire in applicazione, in via immediata, in sede di sindacato sulla giurisdizione e sulla effettività della tutela giurisdizionale. Ne consegue che difetta di rilevanza la richiesta, avanzata in tale sede, di sollevare rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, relativamente al mancato assoggettamento al sindacato della Corte di cassazione delle decisioni rese dal giudice amministrativo in applicazione delle norme suddette".

1.2. Il sindacato sulle sentenze della Corte dei conti.

Anche con riferimento alla giurisdizione contabile sono intervenute, nel corso del 2014, pronunce che hanno contribuito alla definizione del concetto di motivi inerenti alla giurisdizione e, conseguentemente, a meglio precisare gli ambiti della potestà giurisdizionale della Corte dei conti.

La Corte, con Sez. U, n. 5490, Rv. 629687-629688, est. Nobile, relativa a una fattispecie in cui la Corte dei conti aveva ravvisato un'ipotesi di responsabilità per danno erariale a carico di un rettore universitario per aver pattuito, nello stipulare un contratto per il conferimento dell'incarico di direttore generale di un'azienda ospedaliera universitaria, un compenso annuo e un'indennità di risultato in violazione dei limiti di legge, sul presupposto che la presenza di una "specifica e concreta notizia di danno" costituisce condizione di proponibilità dell'azione di responsabilità erariale, ha affermato che "le questioni concernenti la sussistenza di tale requisito non riguardano i limiti esterni della giurisdizione contabile, né l'essenza stessa della suddetta funzione giurisdizionale, ma solo la sua modalità operativa, integrando, così, soltanto eventuali errores in procedendo o in iudicando, come tali afferenti i limiti interni della giurisdizione". Inoltre, in tema di sconfinamento nel merito amministrativo, la medesima pronuncia ha affermato che "l'insindacabilità "nel merito" delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti non comporta che esse siano sottratte ad ogni possibilità di controllo, e segnatamente a quello della conformità alla legge che regola l'attività amministrativa, con la conseguenza che il giudice contabile non viola i limiti esterni della propria giurisdizione quando accerta la mancanza di tale conformità".

Ancora in tema di rapporti tra limiti interni e limiti esterni della giurisdizione contabile, Sez. U, n. 7847, Rv. 629884, est. Rordorf, ha deciso un caso in cui il giudice contabile aveva dichiarato tardivo l'appello incidentale, qualificandolo autonomo, sull'assunto che l'interesse ad impugnare la decisione non poteva discendere dall'impugnazione principale poiché le parti erano state condannate in primo grado a risarcire solo una quota parte del danno. Peraltro, il giudice contabile non aveva escluso l'astratta proponibilità dell'impugnazione incidentale ove un possibile diverso esito della controversia potesse dipendere dall'accoglimento del gravame principale, sicché la Corte ha affermato l'insussistenza dell'eccesso di potere giurisdizionale "trattandosi di soluzione che può integrare un error in procedendo, non inerente all'essenza della giurisdizione o allo sconfinamento dei suoi limiti esterni, ma solo al modo in cui è stata esercitata".

Sempre in applicazione dei detti principi, e con riferimento al peculiare profilo del giudizio di parificazione del rendiconto generale di una regione, Sez. U, n. 23072, Rv. 632419, est. Rordorf, richiamando la natura giurisdizionale della funzione di parificazione, come affermata nel diritto vivente della giurisprudenza costituzionale, ha ribadito che "la decisione della Corte dei conti sulla parificazione del rendiconto generale della regione non è soggetta a ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 362, primo comma, cod. proc. civ., quando i motivi di ricorso non attengano alla giurisdizione, ma alla correttezza del rito applicato dalla Sezione regionale di controllo".

Sui rapporti tra giurisdizione civile e giurisdizione contabile, relativamente alla tematica degli enti pubblici economici, Sez. U, n. 63, Rv. 628861, est. Di Cerbo, ha affermato che "l'esperibilità dell'azione di responsabilità amministrativa da parte del procuratore della Corte dei conti, anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, nei confronti dei dipendenti di un ente pubblico economico (nella specie, l'Ente Poste privatizzato, con riguardo a fatti anteriori alla trasformazione in società per azioni), non esclude la possibilità del datore di lavoro di promuovere l'ordinaria azione civilistica di responsabilità, per violazione della disciplina contrattuale del rapporto di lavoro privatistico, poiché la giurisdizione civile e quella contabile sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, anche quando investono un medesimo fatto materiale, sicché il rapporto tra le due azioni si pone in termini di alternatività anziché di esclusività, dando luogo a questioni non di giurisdizione ma di proponibilità della domanda". In applicazione di tali principi, Sez. U, n. 26659, in corso di massimazione, est. Ambrosio, relativamente ad un'azione risarcitoria nei confronti dell'azienda ospedaliera per morte del soggetto ricoverato addebitata a negligenza ed imperizia dei sanitari, ha escluso la giurisdizione della Corte dei conti con riferimento all'autonoma domanda di manleva proposta dall'azienda ospedaliera nei confronti dei propri sanitari.

Sui rapporti tra giurisdizione penale e giurisdizione contabile, Sez. U, n. 11229, Rv. 630735-630736, est. Cappabianca, nel decidere una fattispecie di responsabilità erariale per la relazzazione di opere per la difesa del litorale ed affermando la giurisdizione contabile nei confronti dei componenti dell'organo tecnico straordinario e dei consulenti della direzione dei lavori - pur non legati da rapporto di servizio con l'ente pubblico danneggiato, ma comunque inseriti, sia pur temporaneamente, nell'apparato organizzativo della P.A. - ha affermato la reciproca indipendenza dei due ambiti, sicché "la dedotta incoerenza tra l'avvenuto proscioglimento in sede penale e l'affermata sussistenza della responsabilità erariale in relazione alla medesima condotta non integra una questione esorbitante dai limiti interni alla giurisdizione del giudice contabile".

In tema di attività interpretativa del giudice contabile, con riferimento ad una fattispecie di discarico automatico di somme iscritte a ruolo, Sez. U, n. 22951, Rv. 632418, est. Virgilio, ha ritenuto che non è viziata da eccesso di potere giurisdizionale la decisione con la quale la Corte dei conti abbia respinto l'istanza di discarico automatico delle somme iscritte a ruolo, per aver ritenuto inidonea la comunicazione di inesigibilità trasmessa dal concessionario del servizio di riscossione, "atteso che l'interpretazione svolta al riguardo dal giudice speciale, condivisibile o meno, esclude che egli abbia travalicato i limiti esterni della giurisdizione ed invaso la sfera di attribuzioni del legislatore".

Infine, relativamente al "perimetro" della giurisdizione contabile, mette conto menzionare, innanzi tutto, la tematica delle cosiddette società in house. In una linea di continuità con l'orientamento espresso dalle Sezioni unite nel 2013, Sez. U, n. 5491, Rv. 629863, est. Nobile ha operato una ricognizione della nozione di società in house - caratterizzata dalla contemporanea presenza di tre requisiti (capitale sociale integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi e divieto statutario di cessione delle partecipazioni a privati; previsione statutaria dello svolgimento dell'attività della società prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l'eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; gestione assoggettata per statuto a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità e intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile) - affermando che "la Corte dei conti ha giurisdizione sull'azione di responsabilità degli organi sociali per i danni cagionati al patrimonio della società solo quando possa dirsi superata l'autonomia della personalità giuridica rispetto all'ente pubblico, ossia quando la società possa definirsi in house". Sulla medesima linea interpretativa, Sez. U, n. 7177, Rv. 629807, est. Macioce, ha affermato che la verifica della ricorrenza dei requisiti propri della società in house - che è presupposto per l'affermazione della giurisdizione della Corte dei conti sull'azione di responsabilità nei confronti degli organi sociali - deve compiersi in relazione alle previsioni contenute nello statuto della società al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita e non a quelle, eventualmente differenti, esisteti al momento della proposizione della domanda di responsabilità da parte del procuratore contabile.

In tema di azione di responsabilità promossa nei confronti degli organi e dei dipendenti dell'ANAS s.p.a., Sez. U, n. 15594, Rv. 631592, est. Rordorf, e Sez. U, n. 16240, Rv. 631800, est. Rordorf, hanno riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti, atteso che la trasformazione dell'azienda autonoma in società per azioni non ne ha modificato gli essenziali connotati pubblicistici, "essendosi tradotta nella mera adozione di una formula organizzativa"; la seconda delle due pronunce citate, resa in fattispecie di appalto pubblico per opere stradali con danni subiti dall'ente per indebito riconoscimento di riserve nella procedura di accordo bonario, ha ritenuto sussistente la giurisdizione contabile anche verso i componenti della commissione di collaudo, attesa la relazione funzionale che li lega all'ente pubblico appaltante. Del pari, in fattispecie di concessione "chiavi in mano", Sez. U, n. 26942, in corso di massimazione, rel. Rordorf, ha ribadito il principio della sussistenza della giurisdizione contabile per l'azione di responsabilità nei confronti del concessionario, atteso che tale tipo di concessione è idonea ad investire il concessionario di poteri spettanti di regola all'amministrazione concedente.

Un'interessante pronuncia (Sez. U, n. 23257, Rv. 632757, est. Cappabianca) ha riguardato la gestione dei fondi pubblici erogati ai gruppi partitici dei consigli regionali. Le Sezioni unite hanno dichiarato la giurisdizione della Corte dei conti, che "può giudicare, quindi, sulla responsabilità erariale del componente del gruppo autore di "spese di rappresentanza" prive di giustificativi", non rilevando la natura - privatistica o pubblicistica - dei gruppi consiliari, attesa l'origine pubblica delle risorse e la definizione legale del loro scopo, o il principio dell'insindacabilità di opinioni e voti, che non può estendersi alla gestione dei contributi, stante la natura derogatoria delle norme di immunità. Del pari, Sez. U, n. 10416, Rv. 630492, est. D'Ascola, non ha ravvisato spazi di insindacabilità risalenti ad atti politici totalmente discrezionali in ordine all'azione di responsabilità erariale promossa contro un ex Presidente regionale, gli ex componenti della Giunta regionale e gli ex membri della competente Commissione legislativa regionale per l'adozione di una delibera di assunzione di numerosi autisti-soccorritori nel servizio "118" ed ha pertanto dichiarato la giurisdizione della Corte dei conti.

Va poi segnalata Sez. U, n. 5805, Rv. 629686, est. Rordorf, che, in sede di regolamento preventivo di giurisdizione avanzato dalla Sezione di controllo della Corte dei conti, in un caso in cui un comune sito in una regione ad autonomia speciale aveva impugnato la deliberazione con cui la sezione regionale di controllo della Corte dei conti aveva accertato la sussistenza delle condizioni previste per la dichiarazione dello stato di dissesto finanziario del comune, senza dare corso all'alternativa procedura di riequilibrio finanziario pluriennale del comune, ha dichiarato la giurisdizione esclusiva delle Sezioni riunite della Corte dei conti sulla relativa controversia.

Infine, circa la materia pensionistica, Sez. U, n. 4325, Rv. 629580, est. Di Palma, ribadendo il conforme orientamento sul punto, ha dichiarato la giurisdizione della Corte dei conti sulla domanda di mero accertamento della causa di servizio, proposta da un dipendente ancora in servizio attivo, ai fini del riconoscimento del trattamento pensionistico privilegiato, atteso il carattere esclusivo di tale giurisdizione, affidata al criterio di collegamento per materia.

1.3. Il riparto di giurisdizione: casistica.

Nel corso del 2014 sono intervenute numerose pronunce per la risoluzione del conflitto tra le giurisdizioni - ossia per definire una volta per tutte quale giudice abbia giurisdizione sulla domanda proposta dalla parte - su una varietà di questioni.

In primo luogo, in tema di sostegno all'alunno in situazione di handicap, merita una particolare menzione Sez. U, n. 25011, Rv. 633145, est. Giusti, che, mutando il precedente orientamento, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario ai fini dell'effettività del diritto del minore disabile agli interventi scolastici di sostegno. La Corte ha infatti ritenuto che, a seguito della redazione conclusiva, da parte dei soggetti pubblici competenti, del "piano educativo individualizzato", contenente l'indicazione delle ore di sostegno necessarie ai fini dell'educazione e dell'istruzione, ci si trovi di fronte, in presenza di una situazione di handicap particolarmente grave, ad un diritto ad essere seguiti da un docente specializzato, già pienamente conformato, nella sua articolazione concreta, rispetto alle specifiche necessità dell'alunno disabile, non residuando per la pubblica amministrazione-autorità uno spazio discrezionale per ridurre gli interventi in favore della salvaguardia del diritto all'istruzione dello studente disabile. Ciò in quanto "dal quadro legislativo di riferimento si evince che una volta che il piano educativo individualizzato, elaborato con il concorso determinante di insegnanti della scuola di accoglienza e di operatori della sanità pubblica, abbia prospettato il numero di ore necessarie per il sostegno scolastico dell'alunno che versa in situazione di handicap particolarmente grave, l'amministrazione scolastica è priva di un potere discrezionale, espressione di autonomia organizzativa e didattica, capace di rimodulare o di sacrificare in via autoritativa, in ragione della scarsità delle risorse disponibili per il servizio, la misura di quel supporto integrativo così come individuato dal piano, ma ha il dovere di assicurare l'assegnazione, in favore dell'alunno, del personale docente specializzato, anche ricorrendo - se del caso, là dove la specifica situazione di disabilità del bambino richieda interventi di sostegno continuativi e più intensi - all'attivazione di un posto di sostegno in deroga al rapporto insegnanti/alunni, per rendere possibile la fruizione effettiva del diritto, costituzionalmente protetto, dell'alunno disabile all'istruzione, all'integrazione sociale e alla crescita in un ambiente favorevole allo sviluppo della sua personalità e delle sue attitudini".

Ancora in tema di diritti "fondamentali", va fatta menzione di Sez. U, n. 1136, Rv. 629069, est. Spirito. La pronuncia è giunta all'esito di un complesso ed innovativo percorso giurisprudenziale inaugurato dalla sentenza "Ferrini" (Sez. U, n. 5044 del 2004, Rv. 571033-571034), teso all'affermazione dell'insussistenza dell'immunità dello Stato dalla giurisdizione civile straniera in presenza di comportamenti di tale gravità da configurare, in forza di norme consuetudinarie di diritto internazionale, crimini internazionali, lesivi dei valori di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statali. Peraltro, a seguito della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 3 febbraio 2012, che, su ricorso della Repubblica Federale di Germania, ha riaffermato l'immunità dello Stato sovrano per le violazioni del diritto internazionale umanitario commesse dal Reich tedesco durante l'occupazione del territorio italiano, e dell'entrata in vigore della legge 14 gennaio 2013, n. 5 di "adeguamento" a tale pronuncia della Corte dell'Aja, la decisione in rassegna non ha potuto che dare continuità al precedente di Sez. U, n. 4284 del 2013, Rv. 625142, dichiarando il difetto di giurisdizione italiana in relazione all'azione risarcitoria promossa, nei confronti della Germania, dal cittadino italiano che lamenti di essere stato catturato a seguito dell'occupazione nazista in Italia durante la seconda guerra mondiale e deportato in Germania. Ciò alla luce dell'art. 3, comma 1, della legge n. 5 del 2013, emanata per determinare le modalità di attuazione della predetta sentenza della Corte dell'Aja che ha escluso la sussistenza della giurisdizione civile rispetto agli atti compiuti iure imperii da uno Stato; disposizione che, nel prevedere la declaratoria del difetto di giurisdizione del giudice italiano, in qualunque stato e grado del processo (e pur dopo una precedente statuizione della cassazione, con rinvio al giudice di merito), costituisce norma di adeguamento dell'ordinamento interno a quello internazionale, in attuazione dell'art. 11, secondo periodo, Cost. Ciò posto, è però successivamente intervenuta la sentenza della Corte costituzionale 22 ottobre 2014, n. 238 che ha, tra l'altro, dichiarato l'illegittimità costituzionale del citato art. 3 della legge n. 5 del 2013, nonché dell'art. 1 della legge 17 agosto 1957, n. 848, sull'esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite, nella parte in cui obbliga il giudice italiano ad adeguarsi alla citata pronuncia della Corte dell'Aja del 3 febbraio 2012 che gli impone di negare la propria giurisdizione in riferimento ad atti di uno Stato straniero che consistano in crimini di guerra e contro l'umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona. Secondo la Corte costituzionale, una siffatta "immunità" non può trovare ingresso nell'ordinamento costituzionale italiano poiché contrasta con il principio fondamentale del "diritto al giudice" ex art. 24 Cost.

Passando ad altro tema, ribadendo l'orientamento del 2013 Sez. U, n. 22116, Rv. 632415, est. Ambrosio, ha statuito che, in caso di inosservanza da parte della P.A. delle regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni (riduzione nei limiti di tollerabilità delle immissioni rumorose prodotte dai convogli ferroviari e conseguente inquinamento acustico), il privato può adire il giudice ordinario "non solo per conseguire la condanna della P.A. al risarcimento dei danni, ma anche per ottenerne la condanna ad un facere, tale domanda non investendo scelte ed atti autoritativi della P.A., ma un'attività soggetta al principio del neminem laedere".

Con riferimento alle sanzioni amministrative irrogate dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Sez. U, n. 10411, Rv. 630829, est. Vivaldi, ha dichiarato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Nella sentenza, riguardante una controversia relativa all'intimazione delle maggiorazioni da ritardato pagamento, la Corte, rilevando il carattere strumentale dell'atto non alla mera esecuzione, ma alla determinazione dell'an e del quantum delle sanzioni aggiuntive, ha optato per "una interpretazione costituzionalmente orientata che impone, al fine di assicurare la funzionalità del sistema processuale, di escludere il frazionamento della medesima materia tra autorità giudiziarie diverse".

Ancora in tema di autorità indipendenti, Sez. U, n. 3202, Rv. 629493, est. Rordorf, ha affermato che l'opposizione avverso il provvedimento della Consob di sospensione cautelare di un promotore finanziario, sottoposto a procedimento penale con l'imputazione di falso in scrittura privata e truffa in danno di un cliente, appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo "atteso che l'emanazione del provvedimento cautelare è frutto di una valutazione dell'interesse generale del mercato finanziario, demandata alla discrezionalità amministrativa e finalizzata ad evitare il rischio che lo strepitus fori derivante dal coinvolgimento del promotore in gravi vicende penali possa compromettere la fiducia del pubblico degli investitori nella correttezza degli operatori di quel mercato" e la sua adozione rientra nell'ambito del generale potere di vigilanza della Consob sul mercato finanziario, con conseguente applicazione dell'art. 133, comma 1, lett. c, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, che ne devolve le controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Nella materia della concessione di pubblici servizi, Sez. U, n. 67, Rv. 628878, est. Mammone, nel ribadire che "In tema di riparto di giurisdizione, ai sensi dell'art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (come modificato dall'art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, nel testo risultante dalla dichiarazione di incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 5 luglio 2004), sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non "tutte" le controversie relative a concessioni di pubblici servizi, ma solo quelle attinenti a materie in cui la P.A. agisce come autorità nei cui confronti è accordata tutela davanti al giudice amministrativo", ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario nella "controversia avente ad oggetto l'impugnazione dell'Accordo provinciale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale dell'11 febbraio 2007, stipulato tra le organizzazioni sindacali e la Provincia di Bolzano (e relativo all'erogazione delle prestazioni assistenziali), per asserito contrasto con le disposizioni dell'Accordo collettivo nazionale della medesima categoria del 25 gennaio 2005, difettando un profilo di oggettivo rilievo pubblicistico e dovendosi applicare l'art. 63, comma terzo, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, concernente le controversie in cui venga in contestazione la validità o l'efficacia di determinate clausole collettive". Sempre sul riparto di giurisdizione in materia di pubblici servizi, Sez. U, n. 16755, Rv. 631804, est. Vivaldi, esaminando una fattispecie relativa ad una controversia sull'indennità di custodia di veicoli in sequestro amministrativo, in relazione alla quale è stata ritenuta la giurisdizione del giudice ordinario, ha ribadito che "la materia dei pubblici servizi forma oggetto della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo quando la P.A. agisca esercitando il potere autoritativo o la facoltà di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, non quando le pretese creditorie ineriscano a diritti patrimoniali di derivazione strettamente convenzionale, essendo insufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse per fondare la giurisdizione del giudice amministrativo". Sez. U, n. 1135, Rv. 629070, est. Travaglino, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di risoluzione del contratto per l'esecuzione di servizi per l'attuazione di un piano di bonifica di siti inquinati nella Regione Campania, in quanto l'attività di bonifica non comporta, di per sé, l'espletamento di un pubblico servizio, né la circostanza che essa contempli l'espletamento della raccolta di rifiuti è sufficiente a determinare la riconduzione della convenzione contrattuale alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, se tale raccolta è prevista quale mero strumento di perseguimento della finalità di bonifica di zone inquinate, in assenza di attività autoritativa di "gestione rifiuti". Infine, in tema di tariffe dei servizi di teleriscaldamento erogati da società privata in base a convenzione con i comuni interessati, Sez. U, n. 23924, Rv. 632895, est. Rordorf, ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo sull'impugnazione delle deliberazioni della conferenza dei sindaci, "trattandosi dell'esercizio di un potere discrezionale in materia di pubblici servizi, che non muta natura per la sua origine convenzionale". Spetta invece al giudice ordinario la giurisdizione nelle controversie sulle richieste di revisione dei canoni, "allorché non vengano in discussione aspetti implicanti l'esercizio di potestà pubbliche, ma unicamente profili inerenti la quantificazione della revisione già riconosciuta dall'amministrazione concedente, acquistando, in tale caso, la posizione soggettiva dell'appaltatore natura e consistenza di diritto soggettivo" (Sez. U, n. 12063, Rv. 630939, est. Petitti). In materia di incentivazione dell'energia elettrica da fonte rinnovabile, Sez. U, n. 4326, Rv. 629552, est. Di Blasi, ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo sull'impugnazione del provvedimento con il quale l'ente erogatore delle tariffe incentivanti (società per azioni a totale capitale pubblico), nell'esercizio di poteri di autotutela, annulli il provvedimento attributivo del beneficio per vizi di legittimità (nella specie, essendo stata accertata la carenza di una delle condizioni legittimanti l'accesso alle tariffe agevolate) ovvero lo revochi per contrasto originario con l'interesse pubblico. In tali casi, infatti, il beneficiario non può vantare che l'interesse legittimo al corretto esercizio di tali poteri.

Per quanto riguarda le controversie risarcitorie per il danno da occupazione appropriativa, Sez. U, n. 3660, Rv. 629535, est. Ceccherini, ha riaffermato i criteri di riparto della giurisdizione chiarendo che tali controversie rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario se iniziate in periodo antecedente al 1° luglio 1998, secondo l'antico criterio di riparto diritti soggettivi-interessi legittimi, al pari delle medesime controversie, se iniziate nel periodo dal 1° luglio 1998 al 10 agosto 2000, data di entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 281 del 2004, che ha dichiarato l'incostituzionalità delle nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva; sono invece attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie risarcitorie instaurate a partire dal 10 agosto 2000, data di entrata in vigore dell'art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998, come riformulato dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000, "non già perché la dichiarazione di pubblica utilità sia di per sé idonea ad affievolire il diritto di proprietà, ma perché ricomprese nella giurisdizione esclusiva in materia urbanistico-edilizia, mentre la stessa giurisdizione è attribuita dall'art. 53 del d.P.R. n. 327 del 2001, se la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta a partire dal 1° luglio 2003, data di entrata in vigore del t.u. espropriazioni".

In tema di espropriazione per pubblica utilità, le controversie relative all'incompleta realizzazione dell'opera, che non dà luogo alla retrocessione totale di quelle aree non ancora utilizzate alla scadenza della data fissata per l'ultimazione dell'opera, ma solo alla retrocessione parziale dei relitti (e ciò anche nel caso in cui uno di essi venga a coincidere con l'intera superficie espropriata), appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo in quanto "il singolo proprietario non è titolare di una posizione di diritto soggettivo tutelabile innanzi all'autorità giudiziaria ordinaria finché non sia intervenuta la dichiarazione di inservibilità di cui all'art. 61 della legge 25 giugno 1865, n. 2359" (Sez. U, n. 10824, Rv. 630826, est. D'Alessandro). Sempre in tema di espropriazione è intervenuta Sez. U, n. 1520, Rv. 629346, est. Forte, così massimata: "allorché siano proposte, dopo l'espropriazione di un'area, due domande congiunte o alternative dell'espropriato, l'una di retrocessione totale, per la parte delle superfici acquisite rimasta inutilizzata (di per sé configurante uno jus ad rem azionabile dinanzi al giudice ordinario), nel regime anteriore come successivo all'entrata in vigore degli artt. 46 e 47 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, l'altra di retrocessione parziale, per la parte su cui sia stata realizzata un'opera di pubblica utilità diversa da quella per cui si era proceduto all'esproprio (rispetto alla quale rileva, invece, un potere discrezionale della P.A. esercitabile a seguito della richiesta di restituzione, cui corrisponde non un diritto, ma soltanto un interesse legittimo dell'espropriato), la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia urbanistico-edilizia, di cui all'art. 34 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (applicabile ratione temporis), comporta che di entrambe le domande debba conoscere il giudice amministrativo, potendo egli decidere sia su interessi legittimi che su diritti soggettivi". Ancora, Sez. U, n. 3661, Rv. 629547, est. Ceccherini, ha affermato che "il giudicato amministrativo, di rigetto della domanda di annullamento di un decreto di espropriazione, non preclude al privato di far valere dinanzi al giudice ordinario la responsabilità dell'amministrazione, per danni cagionati da un comportamento materiale di apprensione e trasformazione del bene posseduto, compiuto in carenza assoluta di potere, in ragione della dedotta giuridica inesistenza della dichiarazione di pubblica utilità, dal momento che il giudicato, per quanto copra sia i vizi dedotti che quelli deducibili, si forma, normalmente, sulla mancanza nel ricorrente del diritto ad ottenere l'annullamento (costituente il bene della vita cui tendeva la domanda), non anche sulla inesistenza giuridica del medesimo atto, derivante dall'essere stato adottato dalla P.A. in carenza di potere, salvo il caso in cui il giudice si sia pronunciato anche su tale questione pur difettando, eventualmente, di giurisdizione". Infine, Sez. U, n. 23470, Rv. 632714, est. Ragonesi, ha ribadito che l'attività espropriativa posta in essere dopo la scadenza del vincolo ad essa preordinato è svolta in carenza di potere, sicché la domanda dell'espropriato per la declaratoria di nullità del decreto di esproprio, la restituzione dell'area occupata e il risarcimento del danno da occupazione appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario.

In tema di destinazione al pubblico servizio (impianto sportivo aperto alla collettività) di un fondo di proprietà comunale incluso nella categoria dei beni patrimoniali indisponibili e poi dismesso, Sez. U, n. 4430, Rv. 629591, est. Piccialli, ha ritenuto la giurisdizione del giudice amministrativo sulla controversia inerente alla risoluzione della convenzione stipulata con un privato per la gestione e l'ampliamento dell'impianto, trattandosi di rapporto di natura concessoria, in quanto la dismissione "necessita di una manifestazione di volontà, espressa in un atto amministrativo, e la materiale cessazione della destinazione al servizio pubblico, non essendo sufficiente, a tale scopo, una trascurata gestione dell'impianto, sebbene prolungata".

In tema di tutela dei beni demaniali, secondo Sez. U, n. 9827, Rv. 630874, est. Petitti, nelle controversie aventi ad oggetto la domanda di annullamento dell'ordinanza di sgombero, emessa in via di autotutela dalla P.A. ai sensi dell'art. 823, secondo comma, cod. civ. nell'esercizio di un proprio potere autoritativo, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo non ponendosi in discussione la proprietà statale del bene oggetto del giudizio e rientrando la controversia nelle fattispecie previste dall'art. 7, comma 1, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104.

Diverse pronunce delle Sezioni unite hanno riguardato l'ambito delle autorizzazioni e concessioni. Sez. U, n. 584, Rv. 629033, est. Vivaldi, ha affermato la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione agli accordi integrativi del contenuto di provvedimenti amministrativi di natura concessoria, i quali, costituendo anche essi espressione di un potere discrezionale della P.A., sono assoggettati al sindacato del giudice a cui appartiene la cognizione sull'esercizio di tale potere. Per le concessioni di uso esclusivo di beni demaniali a privati, Sez. U, n. 1006, Rv. 629031, est. Vivaldi, ha riconosciuto la giurisdizione del giudice amministrativo "in ordine alla controversia che trovi origine in un rapporto di affidamento a terzi, ex art. 45 bis cod. nav., di attività rientranti nell'oggetto di una concessione di un'area portuale, trattandosi di vicenda che postula la necessaria partecipazione nell'amministrazione concedente, alla quale, nell'esercizio del potere autorizzatorio attribuito e volto alla tutela dell'interesse pubblico, spetta espressamente autorizzare, con il rilascio di una subconcessione, il rapporto tra il concessionario e il terzo". Peraltro, in uno specifico caso relativo ad un accordo contrattuale atipico intervenuto fra un soggetto titolare di concessione di un'area del demanio marittimo e terzi, Sez. U, n. 26656, in corso di massimazione, est. Frasca, ha ritenuto la giurisdizione del giudice ordinario, attesa la natura privatistica del rapporto cui è rimasto estraneo il soggetto all'epoca titolare del potere di concessione (l'amministrazione statale marittima, prima del trasferimento delle funzioni amministrative in materia di demanio marittimo alla regione).

Secondo Sez. U, n. 1132, Rv. 629034, est. Travaglino, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle controversie relative ai finanziamenti concessi in sede di formazione ed esecuzione di un patto territoriale, "in quanto - salva l'ipotesi in cui il finanziamento sia riconosciuto direttamente dalla legge e alla P.A. resti demandato solo il compito di verificare l'esistenza dei relativi presupposti senza alcun apprezzamento discrezionale sull'an, sul quid e sul quomodo - l'erogazione dei relativi contributi, sia in via provvisoria che in sede definitiva, implica l'adozione, da parte della P.A., di decisioni istituzionali circa la corretta allocazione di risorse finanziarie destinate ad una programmazione negoziata, che vede coinvolti, in egual misura, soggetti pubblici e privati, e un sindacato sul corretto esercizio della ponderazione comparativa degli interessi valutati in sede di erogazione, e, dunque, postula la sussistenza e la persistenza di un potere amministrativo incompatibile con la cognizione giurisdizionale del giudice ordinario". Hanno invece riguardato la giurisdizione del giudice ordinario in materia di provvedimenti concessori, Sez. Un. n. 13940, Rv. 631198, est. D'Ascola ("le controversie su indennità, canoni od altri corrispettivi, riservate alla giurisdizione del giudice ordinario, sono solo quelle a contenuto meramente patrimoniale, nelle quali non assume rilievo un potere di intervento della P.A. a tutela di interessi generali, mentre la lite che coinvolga l'azione autoritativa della P.A. sul rapporto concessorio sottostante, ovvero l'esercizio di poteri discrezionali-valutativi nella determinazione del dovuto, è attratta nella giurisdizione del giudice amministrativo") e Sez. U, n. 15941, Rv. 631792, est. Travaglino ("appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia sulla revoca di una pubblica sovvenzione qualora la revoca sia stata disposta per l'inadempimento del beneficiario agli obblighi imposti dalla legge o dal provvedimento concessorio nella fase esecutiva del rapporto, in assenza di margini discrezionali di apprezzamento delle ragioni di pubblico interesse sottese all'erogazione del contributo").

Nella materia urbanistica, Sez. U, n. 23256, Rv. 632713, est. Cappabianca, ha dichiarato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria del privato per i danni causati da una variante urbanistica illegittima che abbia impedito la stipula della convenzione di lottizzazione, "trattandosi di domanda in materia di accordi sostitutivi del provvedimento amministrativo discrezionale, cui corrisponde un interesse legittimo di tipo pretensivo". È ancora del giudice amministrativo la giurisdizione sulla controversia nella quale si contesti la spettanza del potere della P.A. di demolire un manufatto, ovvero le modalità in cui esso è esercitato (potere che spetta in maniera autonoma e concorrente al giudice penale ed alla amministrazione comunale), senza che assuma rilievo che la misura sia stata posta in essere a seguito di ingiunzione di demolizione indirizzata al comune da una Procura della Repubblica a seguito di sentenza irrevocabile di condanna per reati edilizi (Sez. U, n. 19889, Rv. 632993, est. Di Iasi). Per quanto invece attiene alle controversie tra proprietari di fabbricati vicini sull'osservanza di norme sulle distanze o sui confini tra le costruzioni, esse "appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che rilevi l'avvenuto rilascio del titolo abilitativo all'attività costruttiva, la cui legittimità potrà essere valutata incidenter tantum dal giudice ordinario attraverso l'esercizio del potere di disapplicazione del provvedimento amministrativo, salvo che la domanda risarcitoria non sia diretta anche nei confronti della P.A. per far valere l'illegittimità dell'attività provvedimentale, sussistendo in questo caso la giurisdizione del giudice amministrativo". (Sez. U, n. 13673, Rv. 631630, est. San Giorgio). Per quanto riguarda le controversie relative all'irrogazione di sanzioni in materia edilizia, esse "sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, posto che la relativa opposizione non genera una controversia nascente da atti e provvedimenti della P.A. relativi alla gestione del territorio, bensì l'esercizio di una posizione giuridica avente consistenza di diritto soggettivo da parte di chi deduce di essere stato sottoposto a sanzione in casi e modi non stabiliti dalla legge" (Sez. U, n. 1528, Rv. 628859, est. Spirito).

Quanto alla materia delle opere pubbliche, in tema di revisione prezzi Sez. U, n. 7176, Rv. 630347, est. Macioce, ha affermato che "ove il rapporto oggetto di controversia risalga ad epoca precedente (ossia anteriore all'art. 6, comma 19, della legge 24 dicembre 1993, n. 537) all'intera devoluzione delle questioni inerenti l'adeguamento o le modifiche del prezzo degli appalti pubblici alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quando la pretesa dell'appaltatore si fondi su una delibera dell'Ente, che riconosca il diritto alla revisione, la cui efficacia non sia venuta meno per effetto di un atto successivo di esercizio del potere di ritiro, la controversia appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, mentre, quando manchi tale riconoscimento, è devoluta al giudice amministrativo". A sua volta, Sez. U, n. 11022, Rv. 630752, est. Cappabianca, ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario per le controversie relative alla fase successiva all'aggiudicazione anche per le concessioni di gestione o di costruzione e di gestione, rinvenendosi la nozione normativa di "concessione di lavori pubblici", che impone il riconoscimento di quella giurisdizione, gia nell'art. 1, lett. d, della direttiva 18 luglio 1989, n. 89/440/CEE, sicché non può invocarsi la violazione del principio della perpetuatio iurisdictionis per affermare la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione a controversie di tale natura che risultino instaurate anteriormente alla direttiva comunitaria di codificazione del 31 marzo 2004, n. 2004/18/ CE, poi recepita dall'art. 3, comma 11, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163. Sempre in tema di appalti di opere pubbliche, Sez. U, n. 1530, Rv. 629387, est. D'Alessandro, ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario, in base al criterio del petitum sostanziale, ove l'appaltatore agisca per la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni sul presupposto dell'illiceità del recesso operato dall'amministrazione in conseguenza delle verifiche disposte dal prefetto, deducendo l'avvenuto rilascio dell'informazione antimafia a sé favorevole: una siffatta controversia attiene invero all'esecuzione di un contratto di diritto privato, senza che venga in questione l'illegittimo esercizio di un potere amministrativo.

In materia di usi civici, Sez. U, n. 9829, Rv. 630647, est. D'Ascola, che ha dichiarato la giurisdizione del commissario agli usi civici sulla domanda diretta a dichiarare la nullità di contratti dispositivi, in favore di un privato, di terreni gravati da uso civico, "trattandosi di questione che presuppone la necessità, anche in assenza di un'esplicita contestazione della qualitas soli, di un accertamento preliminare sull'esistenza di un diritto civico sulle terre oggetto del giudizio". Del pari, Sez. U, n. 19472, Rv. 632748, est. Chiarini, ha ritenuto la giurisdizione del commissario relativamente all'accertamento di una situazione di fatto corrispondente all'esercizio di un diritto di uso civico in favore di un singolo utente, della legittimità degli atti comunali incidenti su tale situazione, nonché delle connesse questioni relative al canone corrisposto ed alla concessione del fondo con obbligo di miglioramento, anche se non sia contestata la qualitas soli poiché la risoluzione di dette questioni implica la necessità di decidere con efficacia di giudicato sull'esistenza, natura ed estensione del diritto di uso civico.

Spetta alla cognizione del giudice ordinario la domanda rivolta a denunciare la illegittimità del provvedimento di revoca della patente di guida, reso dal prefetto a carico di persona sottoposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, in quanto "si ricollega ad un diritto soggettivo" senza che si rinvengano deroghe ai comuni canoni sul riparto di giurisdizione (Sez. U, n. 10406, Rv. 630861, est. San Giorgio).

Anche Sez. U, n. 9826, Rv. 630876, est. Forte, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario nella controversia avente ad oggetto la domanda di restituzione di un finanziamento o di una sovvenzione, erogata con fondi pubblici a fini agevolativi a piccole o medie imprese, rientrando nella comune disciplina dei rapporti di debito e credito l'inadempimento dell'obbligo di restituzione di quanto ricevuto a titolo di pubblica erogazione.

Merita poi segnalare l'interessante Sez. U, n. 9942, Rv. 630494, est. Di Palma, che, dando continuità ad un risalente orientamento, con riferimento al provvedimento amministrativo con cui l'autorità prefettizia ha disposto il riconoscimento della personalità giuridica ad una fondazione ("Allenza Nazionale"), costituita all'esito di deliberazione di scioglimento assunta dall'omonima associazione non riconosciuta, operante come partito politico, ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo. La pronuncia ha evidenziato l'autonomia di tale controversia, concernente la verifica dell'adeguatezza della dotazione patrimoniale del nuovo ente a consentire il raggiungimento dei fini suoi propri, rispetto allo scrutinio circa la validità del negozio di fondazione, ricadente nella giurisdizione del giudice ordinario.

Sulla tematica del risarcimento danni alla salute dei militari italiani in missione in Kosovo esposti all'uranio impoverito, hanno affermato la giurisdizione del giudice amministrativo Sez. U, n. 9666, Rv. 630552, est. Di Amato, e Sez. U, n. 9573, Rv. 630493, est. Di Amato, quest'ultima peraltro distinguendo la posizione degli attori per il ristoro dei danni iure proprio, soggetti alla giurisdizione del giudice ordinario "atteso che l'art. 63, comma 4, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nel riservare al giudice amministrativo, oltre alle controversie relative ai rapporti di lavoro non contrattualizzati, anche i diritti patrimoniali connessi, sottintende la riferibilità degli stessi alle sole parti del rapporto di impiego e non anche a terzi".

In materia di danno ambientale, Sez. U, n. 11229, Rv. 630734, est. Cappabianca, facendo applicazione del criterio di riparto della giurisdizione fondato sul petitum sostanziale, come prospettato nella domanda, ha ritenuto che - pur essendo sottratto alla cognizione della Corte dei conti il danno ambientale ai sensi dell'art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, vigente ratione temporis - "ricade nella giurisdizione contabile la richiesta risarcitoria avente ad oggetto, oltre al danno all'immagine per la perdita di prestigio, patita a causa dell'inefficienza dimostrata, il danno erariale, derivante dall'esecuzione delle opere appaltate in difformità di prescrizioni contrattuali e di capitolato, dettate per la difesa della costa e la salvaguardia del litorale e, quindi, per scongiurare proprio il danno ambientale, la cui menzione in citazione assume una valenza meramente descrittiva della vicenda e delle sue complesse implicazioni".

Ancora in relazione al principio di prospettazione della domanda, in materia di reddito di cittadinanza Sez. U, n. 12644, Rv. 631276, est. Piccialli, ha affermato che "la pretesa che si fondi sul mero possesso dei requisiti, indicati dalla legge reg. Campania 19 febbraio 2004, n. 2, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in base al principio di prospettazione della domanda, senza che assuma rilevanza l'eccezione, sollevata dalla Regione, dell'asserita insussistenza del diritto, perché condizionato, nella sua effettiva esplicazione, dal collocamento dell'interessato nella graduatoria prevista dal regolamento 4 giugno 2004, n. 1, ove non siano stati impugnati gli atti di formazione della stessa e quelli riferiti alla valutazione discrezionale della specifica posizione, trattandosi di questione che non implica l'accertamento di situazioni soggettive esulanti dalla cognizione del giudice ordinario, ma che si traduce nella confutazione nel merito della domanda dell'attore, fatta salva la possibilità per il giudice di disapplicare gli atti amministrativi - a mezzo dei quali il diritto è stato negato - in forza degli artt. 4 e 5 legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E".

Sulla qualificazione giuridica dei soggetti ai fini del vaglio circa la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 133 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 sono intervenute Sez. U, n. 8051, Rv. 629921, est. D'Alessandro (sulla figura dell'"organismo di diritto pubblico" di cui all'art. 3 del d.lgs. 4 dicembre 2006, n. 163, cosiddetto codice dei contratti pubblici) e Sez. U, n. 11917, Rv. 630832, est. Giusti (sulla Fondazione Ordine Mauriziano).

In tema di prestazioni assistenziali, in applicazione degli ordinari criteri di riparto fondati sul contenuto (discrezionale o vincolato) del provvedimento, è stata riconosciuta la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia promossa da un istituto di cura nei confronti dell'azienda sanitaria per il pagamento delle rette di degenza dei malati psichici, atteso che il rapporto dedotto in giudizio non si ricollega all'esercizio di poteri discrezionali della P.A., avendo ad oggetto il corrispettivo per un'obbligazione fondata su presupposti determinati dalla legge (Sez. U, n. 22033, Rv. 632414, est. Di Cerbo). Ugualmente, in tema di accertamenti sanitari delle commissioni mediche per l'invalidità civile, Sez. U, n. 22550, Rv. 632413, est. Greco, ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario, anche quando le controversie investano il contenuto diagnostico del verbale "poiché tali commissioni non hanno poteri autoritativi e i loro giudizi esprimono discrezionalità tecnica, non amministrativa". Esclude la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con riferimento alle controversie patrimoniali tra comuni ed enti erogatori di prestazioni assistenziali per il ricovero di "soggetti deboli" Sez. U, n. 12923, Rv. 631199, est. Di Amato, posto che tali controversie "non afferiscono a rapporti costituiti o modificati da provvedimenti amministrativi, in quanto i presupposti delle obbligazioni poste a carico dei comuni sono stabiliti direttamente dalla legge e le relative prestazioni assistenziali sono configurate quali diritti delle persone che si trovino in stato di bisogno".

In tema di rapporti concessori tra aziende sanitarie locali e case di cura e di controversie sulla cosiddetta "regressione tariffaria", Sez. U, n. 2291, Rv. 629286, est. Massera, ha ribadito il principio affermato da Sez. U, n. 10149 del 2012, Rv. 623050, ritenendo la giurisdizione del giudice ordinario laddove la controversia abbia ad oggetto soltanto l'effettiva debenza dei corrispettivi in favore del concessionario, senza coinvolgere la verifica dell'azione autoritativa della P.A., posto che, nell'attuale sistema sanitario, il pagamento delle prestazioni rese dai soggetti privati accreditati viene effettuata nell'ambito di appositi accordi contrattuali, ben potendo il giudice ordinario direttamente accertare e sindacare le singole voci costitutive del credito fatto valere dal privato.

Infine, peraltro con riferimento ad aspetti di tipo organizzativo, Sez. U, n. 15304, Rv. 631589, est. Bandini, dando continuità ad un orientamento affermatosi nel 2013, ha ribadito che l'individuazione con atto del direttore generale delle strutture operative semplici dell'azienda sanitaria locale, afferenti ad una struttura complessa, con riduzione di esse da tre a due e conseguente nomina di soli due dirigenti, è atto di macro-organizzazione, disciplinato dal diritto privato, in coerenza con il suo carattere imprenditoriale, strumentale al raggiungimento del fine pubblico dell'azienda, sicchè la giurisdizione a conoscere di tali atti spetta al giudice ordinario.

In tema di giurisdizione sullo straniero, Sez. U, n. 22612, Rv. 632416, est. Di Palma, ha affermato che la controversia promossa dallo straniero nei confronti del Ministero degli Affari Esteri per il risarcimento del danno da ritardo nel rilascio del visto d'ingresso per ricongiungimento familiare appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, "non essendo dedotta la violazione del diritto soggettivo al ricongiungimento familiare, ma l'inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo avente ad oggetto il suo riconoscimento". La Corte ha inoltre dato atto della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 133, comma 1, lett. a, n. 1, del codice del processo amministrativo "in quanto il giudice amministrativo assicura una tutela dei diritti fondamentali equivalente a quella garantita dal giudice ordinario".

Per Sez. U, n. 19971, Rv. 632917, est. D'Ascola, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia sulla determinazione del compenso spettante al difensore civico regionale, "atteso che tale compenso, rigidamente predeterminato da un atto normativo regionale, implica che la posizione del ricorrente debba essere qualificata di diritto soggettivo e non di interesse legittimo, stante l'assenza di ogni potere discrezionale della P.A."

Infine, alcune pronunce hanno riguardato la materia tributaria. In primo luogo, Sez. U, n. 3774, Rv. 629555, est. Virgilio, ha dichiarato la giurisdizione del giudice tributario circa la controversia riguardante il rigetto dell'istanza di annullamento in autotutela dell'avviso di accertamento notificato al contribuente, concernente la rettifica del reddito d'impresa, rientrando nella previsione dell'art. 2, comma 1, lett. a, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che fa riferimento alle controversie relative alle "imposte sui redditi".

Così pure Sez. U, n. 13431, Rv. 631300, est. D'Ascola, che ha affermato che "appartiene alla giurisdizione del giudice tributario la controversia relativa alla richiesta di pagamento della tariffa annua forfettaria per il finanziamento dei controlli sanitari ufficiali di cui al d.lgs. 19 novembre 2008, n. 194, attuativo del regolamento n. 882/04/CE, trattandosi di imposizione che, alla luce dei principi enucleati dalla giurisprudenza costituzionale (da ultimo sentenza n. 141 del 2009 della Corte costituzionale), ha natura tributaria attesa la doverosità della prestazione, imposta non solo in forza dell'interesse generale al bene della salute ma anche dei vincoli derivati dalle disposizioni comunitarie, e direttamente collegata alla pubblica spesa, giacché grava sullo Stato - per una platea di destinatari individuati in relazione ad un presupposto economicamente rilevante, costituito dall'attività da essi svolta nel settore alimentare - l'obbligo di organizzare controlli ufficiali e di predisporre strutture, mezzi e personale per la loro effettuazione", nonché Sez. U, n. 15593, Rv. 631591, est. Virgilio, con riferimento alla domanda risarcitoria per il comportamento del concessionario della riscossione tributi, asseritamente illecito per aver omesso, successivamente al provvedimento di fermo amministrativo, di dar corso, per un lungo periodo di tempo, a qualsiasi azione esecutiva ovvero alla revoca del provvedimento medesimo, che hanno affermato la giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di posizione di diritto soggettivo del tutto indipendente dal rapporto tributario. Ancora sul fermo amministrativo (nella specie, di beni mobili registrati), in caso di opposizione al provvedimento di fermo che si fondi su una pluralità di pretese, alcune delle quali di natura tributaria (mancato pagamento della TARSU) ed altre di natura diversa (infrazioni al codice della strada), "ove l'impugnazione sia stata proposta congiuntamente, senza distinguere la natura dei crediti, innanzi al giudice ordinario, questi deve trattenere la causa innanzi a sé in relazione ai crediti d'imposta non tributari, e rimettere la causa innanzi al giudice tributario per la parte in cui il provvedimento si riferisce a crediti di competenza di quest'ultimo" (Sez. U, n. 15425, Rv. 631590, est. Giusti). Dal canto suo, Sez. U, n. 9568, Rv. 630767, est. Di Blasi, ha ritenuto la giurisdizione del giudice tributario sulla controversia relativa alla opposizione avverso il fermo amministrativo del veicolo ed il relativo preavviso, salvo che l'Amministrazione abbia riconosciuto formalmente l'inesistenza del credito ovvero il diritto allo sgravio delle somme pretese, sussistendo in tal caso la giurisdizione del giudice ordinario in rellazione ad un mero indebito oggettivo di diritto comune.

Per altro verso, Sez. U, n. 9567, Rv. 630875, est. Di Blasi, ha ritenuto la giurisdizione del giudice ordinario nella controversia relativa alle sanzioni irrogate ad una banca dall'Agenzia delle entrate per violazione dell'obbligo di tempestiva rendicontazione delle deleghe F24, previsto dall'apposita convenzione, trattandosi di accordo riconducibile allo schema del contratto d'appalto di servizi, di natura civilistica e non tributaria, estraneo all'esercizio del potere impositivo. Ugualmente, Sez. U, n. 9571, Rv. 630766, est. Di Blasi, ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario relativamente all'opposizione all'ordinanza ingiunzione per omessa o inesatta indicazione, negli appositi elenchi riepilogativi, dei dati statistici relativi agli acquisti intracomunitari, trattandosi di violazioni di natura statistica, diverse da quelle di natura fiscale per le quali il potere sanzionatorio è attribuito all'ufficio IVA. Sempre in tema di opposizione a ordinanza ingiunzione (nella specie, applicative di sanzioni per la violazione delle norme sulla circolazione stradale), per Sez. U, n. 8928, Rv. 630305, est. Di Blasi, la relativa cognizione è attribuita all'autorità giudiziaria ordinaria, "dovendosi escludere la configurabilità di una competenza del giudice tributario trattandosi di sanzioni che, se pure irrogate da uffici finanziari, sono conseguenti a violazioni di disposizioni non aventi natura fiscale, per cui la controversia non ha ad oggetto l'esercizio del potere impositivo, sussumibile nello schema potestà-soggezione, bensì un rapporto, che implica un accertamento meramente incidentale".

Con riferimento ai servizi comunali di refezione scolastica, Sez. U, n. 2295, Rv. 629403, est. Cappabianca, ha affermato che "la controversia relativa all'impugnazione di una cartella di pagamento di importo dovuto a titolo di contributo di refezione scolastica, con cui si deduca dall'intimato di non essere affidatario del minore fruitore del servizio comunale, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario e non del giudice tributario, attenendo non ad un'imposta o ad una tassa, quanto all'accertamento dell'inesistenza del potere della P.A. di pretendere la prestazione pecuniaria in relazione a diritti ed obblighi di fonte contrattuale privata".

2. Le questioni processuali.

Anche nel corso del 2014 le Sezioni unite hanno avuto modo di pronunciarsi sulle questioni processuali concernenti i modi - regolamento o ricorso ordinario - per ottenere una decisione della Corte sulla giurisdizione.

Al riguardo, ed in termini generali, mette conto segnalare Sez. U, n. 9936, Rv. 630490, est. Travaglino. Con tale pronuncia la Corte ha deciso una fattispecie di responsabilità ex art. 2051 cod. civ. in occasione di una "vacanza-studio" (organizzata da una società di diritto tedesco) un minore si era infortunato durante una partita di basket durante la quale, alla presenza di un istruttore, a causa di una schiacciata a canestro, si era appeso alla struttura metallica che, cedendo sotto il suo peso, ne aveva causato la caduta e le conseguenti lesioni; il tribunale, dichiarata la propria giurisdizione, aveva rigettato la domanda ritenendo la sussistenza del caso fortuito idoneo a superare la responsabilità del custode; la corte di appello, confermata la statuizione sulla giurisdizione, aveva invece condannato la società convenuta al risarcimento dei danni. Le Sezioni unite, investite da quest'ultima con ricorso articolato su due motivi - relativi il primo, pregiudizialmente, alla eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano e, il secondo, alla violazione dell'art. 2051 cod. civ. - hanno fatto applicazione del principio processuale della "ragione più liquida" - desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., interpretati nel senso che la tutela giurisdizionale deve risultare effettiva e celere per le parti in giudizio - ed hanno esaminato, nonostante la pregiudizialità della prima censura (peraltro infondata), il secondo motivo di ricorso affermando che "deve ritenersi consentito al giudice esaminare un motivo di merito, suscettibile di assicurare la definizione del giudizio, anche in presenza di una questione pregiudiziale". La Corte ha quindi dichiarato l'infondatezza della domanda risarcitoria avendo ravvisato l'origine dell'evento dannoso in una utilizzazione impropria della res da parte del danneggiato, nonostante l'istruttore lo avesse specificamente e reiteratamente avvertito del pericolo.

Altro profilo generale, attinente alla concreta declinazione del principio di ragionevole durata del processo con riferimento al regolamento di giurisdizione, è stato trattato da Sez. U, n. 9251, Rv. 630719, est. Piccialli, che ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario in una fattispecie concernente il superamento dei tetti massimi di spesa da parte di una società di accertamenti diagnostici ed analisi cliniche operante in regime di accreditamento con il Servizio sanitario nazionale (e, per esso, con l'azienda sanitaria locale di Napoli), ribadendo l'orientamento già espresso dalle Sezioni unite in analoghi procedimenti. La Corte è stata adita dalla società in quanto il tribunale amministrativo regionale aveva trattenuto la giurisdizione - sia nel procedimento in questione, che in altri analoghi - nonostante il contrario orientamento delle Sezioni unite nel frattempo intervenuto. Al riguardo, la Corte, a fronte delle deduzioni della Regione Campania e del Commissario straordinario per l'attuazione del piano di rientro dal disavanzo della sanità che avevano eccepito l'inammissibilità del regolamento di giurisdizione poiché la ricusazione del giudice adito dalla società avrebbe integrato un abuso del diritto, ha affermato che "in tema di regolamento preventivo di giurisdizione, il mutamento della linea difensiva della parte, sulla questione attinente alla giurisdizione, inizialmente ravvisata in quella del giudice amministrativo, non costituisce espressione di slealtà processuale o di abuso del diritto di difesa allorché sia frutto di un ragionevole ripensamento imposto da un sopravvenuto orientamento di legittimità e, al contempo, da inattese decisioni, su altre analoghe controversie, da parte del giudice amministrativo che siano concretamente suscettibili di caducazione a causa della loro non conformità ai criteri di riparto della giurisdizione affermate dalle Sezioni Unite, dovendosi apprezzare la posizione della parte come intesa a sollecitare l'iter processuale, in funzione del diritto alla ragionevole durata del processo". Analogamente, Sez. U, n. 13940, Rv. 631197, est. D'Ascola, così massimata: "l'eccezione di difetto della giurisdizione amministrativa, sollevata con l'appello al Consiglio di Stato dalla medesima parte che in primo grado ha adito il giudice amministrativo, non integra abuso del processo, sanzionabile con declaratoria d'inammissibilità dell'eccezione, qualora il tema della giurisdizione sia stato posto dalla controparte, in fattispecie complessa (nella specie, per cumulo di domande), sì da giustificare il ripensamento della linea difensiva e la necessità di chiarimento".

Ancora un richiamo all'art. 111 Cost. è contenuto in Sez. U, n. 3773, Rv. 629605, est. Virgilio, che, ribadendo l'orientamento delle Sezioni unite formatosi nel 2008, ha ritenuto ammissibili le questioni di giurisdizione nell'ambito del giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo, previsto dall'art. 548 cod. proc. civ., "atteso che pur essendo promosso dal creditore in forza di una propria legittimazione ad agire e non in via surrogatoria del debitore, non ha rilevanza limitata alla sola azione esecutiva, ma - anche per motivi di economia e celerità processuale richiesti dai principi del giusto processo ex art. 111 Cost. - si conclude con una sentenza dal duplice contenuto di accertamento: l'uno, idoneo ad acquistare autorità di cosa giudicata sostanziale tra le parti del rapporto, avente ad oggetto il credito del debitore esecutato (che, pertanto, è litisconsorte necessario) nei confronti del terzo pignorato; l'altro, di rilevanza meramente processuale, attinente all'assoggettabilità del credito pignorato all'espropriazione forzata, efficace nei rapporti tra creditore procedente e terzo debitor debitoris e come tale rilevante ai soli fini dell'esecuzione in corso, secondo la forma dell'accertamento incidentale ex lege".

2.1. Il regolamento di giurisdizione.

Le Sezioni unite hanno anzitutto riaffermato che "la pronuncia, da parte del giudice amministrativo, sull'istanza incidentale di sospensione del provvedimento impugnato con il giudizio principale, non rende inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione, proposto con riguardo a tale giudizio, ancorché nell'ordinanza che abbia provveduto sull'istanza cautelare sia stata delibata la questione di giurisdizione" (Sez. U, n. 584, Rv. 629032, est. Vivaldi).

Sempre nella materia cautelare, ma nell'ambito del giudizio civile, la Corte - Sez. U, n. 14041, Rv. 631195, est. Rordorf - ha avuto modo di riprendere l'orientamento da tempo seguito (2007) affermando che "la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione non è preclusa dall'emanazione di un provvedimento cautelare in corso di causa, poiché questo non costituisce sentenza, neppure qualora risolva contestualmente la questione di giurisdizione, tranne che la questione medesima sia stata riferita al solo procedimento cautelare e il regolamento sia stato proposto per ragioni che attengono ad esso in via esclusiva".

Sul profilo della sospensione del processo in cui sia stato eccepito il difetto di giurisdizione del giudice adito, Sez. U, n. 4432, Rv. 629592, est. Piccialli, ha affermato che "nel caso in cui una delle parti eccepisca il difetto di giurisdizione del giudice adito, proponendo il regolamento ex art. 41 cod. proc. civ., il giudice del merito deve disporre la sospensione del processo (salvo il caso di contestazione manifestamente infondata), che impedisce qualsiasi ulteriore pronuncia, anche declinatoria della giurisdizione. Né rileva l'eventuale sopravvenuto accordo tra le parti sull'avvenuto difetto di giurisdizione, che non determina l'inammissibilità del regolamento per carenza di interesse, prospettabile solo quando non sia mai sorto contrasto sulla sussistenza della giurisdizione del giudice adito".

Nella materia fallimentare Sez. U, n. 10823, Rv. 630744, est. Rordorf, ha ribadito l'orientamento delle Sezioni unite affermato a partire da Sez. U, n. 905 del 1999, Rv. 532294): "proposto regolamento preventivo di giurisdizione, la sentenza emessa, nelle more, dal giudice di merito (nella specie, dichiarativa del fallimento) è condizionata alla conferma del potere giurisdizionale e, dunque, non preclude la decisione sul regolamento medesimo in quanto inidonea a far venire meno l'interesse del ricorrente a coltivare il regolamento". Giova sottolineare che la pronuncia in esame ha fatto esplicito riferimento all'orientamento prevalente, motivato dalla citata sentenza del 1999, evidenziando il carattere isolato, condizionato dalla peculiarità della fattispecie, del contrario orientamento dell'inammissibilità del regolamento di giurisdizione per sopravvenuta carenza di interesse a seguito dell'emissione della sentenza dichiarativa di fallimento espresso da Sez. U, n. 6057 del 2009, Rv. 607206, richiamata da Sez. U, n. 10061 del 2013, Rv. 625793); in senso conforme alla pronuncia ora in rassegna anche Sez. U, n. 14041, Rv. 631195, est. Rordorf, citata supra.

Sullo specifico profilo del litisconsorzio in sede di regolamento di giurisdizione, la Corte ha ribadito l'orientamento per il quale "si configura il litisconsorzio necessario cosiddetto processuale relativamente a tutte le parti del processo civile o amministrativo a cui si riferisce la richiesta di regolamento: tale giudizio tale giudizio, pertanto, deve svolgersi nel contraddittorio di tutte le parti del giudizio di merito, comprese quelle che non vi siano costituite, ma, ove il ricorso per regolamento preventivo non le contempli tutte e non a tutte sia stato notificato, non si verifica l'inammissibilità del ricorso, ma deve ordinarsi l'integrazione del contraddittorio, sempreché tale provvedimento non sia prevenuto da una rinnovazione dell'atto con la sua notificazione a tutte le parti" (Sez. U, n. 9663, Rv. 630495, est. Di Amato; in termini analoghi Sez. U, n. 7179, Rv. 630349, est. Petitti, con riferimento all'applicazione dell'art. 331 cod. proc. civ. e alla sufficienza della notifica del controricorso proposto da uno dei soggetti costituiti nel procedimento introdotto con istanza di regolamento ai fini dell'intervento della parte cui non sia stato notificato il ricorso per regolamento).

2.2. I conflitti.

In tema di conflitti di giurisdizione, nel corso del 2014 sono intervenute alcune pronunce delle Sezioni unite. In particolare Sez. U, n. 1527, Rv. 628857, est. Spirito, ha ribadito il principio affermato da Sez. U, n. 5873 del 2012, Rv. 622305, secondo cui "ai fini del regolamento di giurisdizione d'ufficio, l'art. 59, comma terzo, della legge n. 69 del 2009, a norma del quale il giudice davanti al quale la causa è riassunta può sollevare d'ufficio la questione di giurisdizione davanti alle Sezioni Unite "fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito", dev'essere interpretato nel senso che il limite oltre il quale il secondo giudice non può sollevare il conflitto di giurisdizione, nel processo davanti al giudice ordinario, non è costituito dal compimento della prima udienza, se nell'udienza prevista dall'art. 183, primo comma, cod. proc. civ. il giudice adotta i provvedimenti indicati nello stesso primo comma, ma dal fatto che il giudice non si sia limitato all'adozione di provvedimenti ordinatori ed eventualmente decisori su questioni impedienti di ordine processuale, logicamente precedenti quella di giurisdizione; in tal caso, quel limite si sposta all'udienza che il giudice fissa in base al secondo comma del medesimo articolo".

In un caso in cui il ricorrente, dopo la sentenza del tribunale amministrativo regionale dichiarativa del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, non aveva riassunto il giudizio dinanzi al giudice ordinario entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato, fissato dal secondo comma dell'art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69, ma aveva proposto davanti all'autorità giudiziaria ordinaria un nuovo e autonomo ricorso dopo circa otto anni, Sez. U, n. 5493, Rv. 629796, est. Nobile, ha dichiarato inammissibile il regolamento di giurisdizione sollevato d'ufficio dal giudice ordinario affermando che "anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69, il giudice adito non può investire direttamente le Sezioni Unite della Corte di cassazione della risoluzione di una questione di giurisdizione, ma è tenuto a statuire sulla stessa ai sensi dell'art. 37 cod. proc. civ., giacché, ai sensi del citato art. 59, il regolamento di giurisdizione d'ufficio può essere sollevato solo dal giudice successivamente investito mediante translatio iudicii, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito, sempre che le Sezioni Unite non si siano già pronunciate sulla questione di giurisdizione". Analogamente, Sez. U, n. 26655, in corso di massimazione, est. Chiarini, ha dichiarato inammissibile il conflitto negativo di giurisdizione sollevato dal tribunale amministrativo regionale a seguito di declinatoria di giurisdizione da parte del tribunale ordinario, in considerazione della mancata tempestiva riproposizione della domanda ai sensi dell'art. 59 della legge n. 69 del 2009.

Merita infine di essere segnalata un'interessante pronuncia su conflitto resa da Sez. U, n. 10922, Rv. 630835, est. Rordorf. In una causa incardinata innanzi al tribunale ordinario concernente la restituzione di una porzione di terreno di cui i proprietari assumevano l'illegittima appropriazione da parte dell'ANAS s.p.a. nel corso dei lavori di ampliamento di una sede autostradale, in relazione ai quali era stato emesso un decreto di occupazione riguardante un'area più limitata, il tribunale aveva declinato la propria giurisdizione. Riassunta tempestivamente la causa innanzi al tribunale amministrativo regionale, anche tale giudice declinava la propria giurisdizione, con sentenza pronunciata in forma semplificata ed all'esito di un procedimento camerale a norma dell'art. 60 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Investito dell'appello proposto dai proprietari della porzione di terreno, il Consiglio di Stato, pur riconoscendo che il tribunale amministrativo avrebbe dovuto sollevare un conflitto negativo di giurisdizione, ha esso stesso provveduto - anche su sollecitazione degli appellanti - a tanto, ritenendo non sussistere al riguardo alcuna preclusione processuale. Le Sezioni unite - anche qui riprendendo l'insegnamento di Sez. U, n. 5873 del 2012, Rv. 622303) - hanno dichiarato inammissibile il conflitto negativo di giurisdizione sollevato d'ufficio dal Consiglio di Stato oltre il termine stabilito dall'art. 59, comma 3, della legge 18 giugno 2009, n. 69, ossia successivamente alla prima udienza fissata per la trattazione del merito, "dovendosi escludere che la scelta, da parte del giudice amministrativo in primo grado, di definire il procedimento con il rito camerale in luogo di quello ordinario sia idonea a determinare il superamento della barriera temporale stabilita dal legislatore, il cui scopo è quello di evitare che la questione di giurisdizione si trascini oltre la soglia di ingresso del giudizio, né assumendo rilievo un'eventuale richiesta degli appellanti, che non può influire, ampliandone i limiti, sull'esercizio di un potere officioso".

2.3. Il giudicato implicito sulla giurisdizione.

Su tale tematica deve essere in particolare segnalata Sez. U, n. 10414, Rv. 630842, est. Amoroso, che si è occupata di un caso in cui un assegnatario di alloggio di edilizia residenziale pubblica, dichiarato decaduto con ordinanza sindacale, aveva svolto ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, rigettato con d.P.R. conformemente al parere espresso dal Consiglio di Stato in sede consultiva. Proposto ricorso per cassazione deducendo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo (il ricorrente assumeva la sussistenza di una sua posizione di diritto soggettivo), la Corte, con la pronuncia in esame, ha affrontato la questione interpretativa - non risolvibile alla luce delle previsioni del codice del processo amministrativo, stanti le peculiarità del procedimento per ricorso straordinario al Capo dello Stato - attinente al regime processuale della questione di giurisdizione in quel procedimento ponendosi in continuità con l'interpretazione evolutiva del principio del giusto processo e della regola processuale del giudicato implicito adottata a partire dal 2008. Ciò ha consentito alla Corte di "estrarre, in via interpretativa, una regola iuris che governi la questione di giurisdizione nel procedimento promosso con ricorso straordinario al Capo dello Stato" in una logica similare a quella della dottrina del giudicato implicito affermando che "in tema di ricorso straordinario al Capo dello Stato, la parte ricorrente che abbia allegato, come indefettibile presupposto della sua domanda, la giurisdizione del giudice amministrativo, senza che l'intimato abbia esercitato l'opposizione ex art. 48 cod. proc. amm., né abbia contestato la sussistenza di tale presupposto, eventualmente proponendo regolamento preventivo di giurisdizione, non può proporre ricorso per cassazione ex art. 111, comma 8, Cost. e art. 362 cod. proc. civ. avverso il decreto del Presidente della Repubblica che abbia deciso il ricorso su conforme parere del Consiglio di Stato reso sull'implicito - o esplicito - presupposto della sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo allegato dalla parte stessa, sul punto non soccombente".

Sempre in tema di giudicato implicito sono intervenute le seguenti pronunce, così massimate: Sez. U, n. 11912, Rv. 630828, est. Piccininni, "il giudicato sulla condanna risarcitoria in forma specifica preclude ogni questione sulla giurisdizione del giudice adito (nella specie amministrativo) anche relativamente al risarcimento per equivalente, atteso che ogni statuizione di merito comporta una pronuncia implicita sulla giurisdizione e che la pretesa risarcitoria, pur nella duplice alternativa attuativa, è unica, potendo la parte, tramite una mera emendatio, convertire l'originaria richiesta nell'altra ed il giudice di merito attribuire d'ufficio al danneggiato il risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica"; Sez. U, n. 22745, Rv. 632840, est. Spirito, "il passaggio in giudicato di una pronuncia del giudice ordinario o del giudice amministrativo recante statuizioni sul merito di una pretesa riferita ad un determinato rapporto estende i suoi effetti al presupposto della sussistenza della giurisdizione di quel giudice su detto rapporto, a prescindere da un'esplicita declaratoria in tal senso, sicché le parti non possono più contestarla nelle successive controversie tra le stesse, fondate sul medesimo rapporto ed instaurate davanti ad un giudice diverso, in quanto il giudicato esterno ha la medesima autorità di quello interno, perseguendo entrambi il fine di eliminare l'incertezza delle situazioni giuridiche e di garantire la stabilità delle decisioni".

3. Il riparto di giurisdizione nel pubblico impiego.

Nel corso del 2014 sono stati molteplici gli interventi della Corte in materia di riparto di giurisdizione nel pubblico impiego.

Quanto alla nota problematica del frazionamento della giurisdizione per fasi temporali, dopo le importanti pronunce del 2012 - che hanno affermato la necessità della concentrazione del giudizio innanzi ad un unico giudice (di norma quello ordinario, sopravvivendo la giurisdizione amministrativa in ipotesi affatto eccezionali) senza che rilevi l'epoca della pretesa, onde evitare uno spezzettamento del processo a fronte della sostanziale unicità della pretesa, nonché la possibilità di differenti risposte ad una stessa istanza di giustizia -, ribadite nel 2014, per l'anno corrente si segnala Sez. U, n. 10918, Rv. 630751, est. Amoroso, secondo cui "La previsione di cui all'art. 8, comma 4, della legge 21 dicembre 1996 n. 665, che attribuisce alla giurisdizione del giudice ordinario, a partire dal 1° gennaio 1996, le controversie relative al rapporto di lavoro dei dipendenti dell'Azienda autonoma di assistenza al volo per il traffico aereo generale a seguito della sua trasformazione nell'ente pubblico economico ENAV (Ente nazionale di assistenza al volo), va interpretata, secundum constitutionem, nel senso della devoluzione alla giurisdizione del giudice ordinario di ogni controversia promossa successivamente all'intervenuta trasformazione del rapporto di impiego in rapporto di lavoro di diritto privato, ancorché la pretesa dedotta in giudizio concerna, in parte, il periodo antecedente al 1° gennaio 1996, dovendosi escludere, in relazione alla medesima controversia, un frazionamento della giurisdizione".

Nella medesima linea interpretativa, con riferimento ad una residua ipotesi di giurisdizione amministrativa, in una controversia promossa contro la Gestione commissariale governativa di una ferrovia per il conseguimento di differenze per il trattamento di fine rapporto in relazione a rapporto di lavoro cessato dopo l'affidamento della ferrovia medesima, già gestita da un Consorzio di trasporti pubblici locali, alla Gestione commissariale, Sez. U, n. 10916, Rv. 630844, est. Amoroso, ha affermato la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 7, secondo comma, della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, stante la legittimità del decreto ministeriale di affidamento in gestione ed esclusa l'automaticità del passaggio all'Ente Ferrovie dello Stato delle ferrovie già date in concessione, "attenendo al rapporto di pubblico impiego nel quale l'iniziale rapporto di lavoro si è trasformato a seguito dell'assunzione governativa della gestione della Ferrovia, senza che in contrario assuma rilievo la circostanza che la pretesa fatta valere sia riferibile anche a periodo anteriore a tale assunzione ed all'entrata in vigore della legge 29 maggio 1982, n. 297".

Con particolare riferimento alla problematica della disciplina transitoria della giurisdizione sul pubblico impiego privatizzato - fissata, come è noto, in relazione alla data del 30 giugno 1998 dall'art. 69, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 - in un caso in cui la corte di appello aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario poiché la pretesa del ricorrente era fondata sull'illegittimità di una graduatoria concorsuale interna pubblicata nel 1996 ed annullata dal tribunale amministrativo regionale con decorrenza giuridica anteriore al 30 giugno 1998, Sez. U, n. 579, Rv. 628880, est. Di Cerbo, ha cassato la sentenza affermando che "ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, nel caso in cui la lesione del diritto azionato sia stata prodotta da un provvedimento o da un atto negoziale del datore di lavoro, occorre far riferimento alla data di questi ultimi" sul rilievo che il giudice di appello aveva omesso di considerare che, in sede di ottemperanza, la nuova graduatoria, favorevole al ricorrente, era stata approvata nel 2004, consentendo solo da tale data la presentazione della domanda per ottenere a titolo risarcitorio le dovute differenze retributive.

In relazione alla particolare fattispecie relativa al pagamento degli interessi e della rivalutazione monetaria per il personale del comparto ministeri che sia divenuto concretamente azionabile soltanto dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 136 del 2001, dichiarativa dell'illegittimità dell'art. 26, commi 4 e 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, Sez. U, n. 10915, Rv. 630937, est. Amoroso, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario poiché "l'art. 69, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, fissa il discrimine temporale per il passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria alla data del 30 giugno 1998 con riferimento al momento storico dell'avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze in relazione alla cui giuridica rilevanza sia insorta controversia, e, dunque, ove la lesione del diritto sia conseguente all'adozione di uno specifico atto, al momento della sua emanazione, senza che l'eventuale portata retroattiva dello stesso sia idonea ad influire sulla determinazione della giurisdizione", dovendosi identificare il suddetto "momento storico dell'avverarsi dei fatti materiali" nel giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della decisione d'illegittimità costituzionale, ai sensi dell'art. 136 Cost., atteso che, prima della pronuncia, la corresponsione degli accessori era espressamente vietata.

In tema di domanda di risarcimento danni per lesione dell'integrità psicofisica da esposizione all'amianto, avanzata nei confronti della P.A. datrice di lavoro, qualora la patologia sia stata diagnosticata in data successiva al 30 giugno 1998 la relativa controversia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario "in quanto il fatto costitutivo del diritto, in base al quale deve essere determinata la giurisdizione quoad tempus ex art. 69, comma 7, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, va individuato nell'insorgenza della patologia" (Sez. U, n. 22034, Rv. 632689, est. Di Cerbo).

Non viene invece in evidenza un profilo di diritto transitorio - e la relativa controversia appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario - ove si verta sulla domanda relativa al rimborso della quota di contributi a carico dei dipendenti, con qualifica impiegatizia, dell'Ente Foreste Sardegna indebitamente versata dal datore di lavoro per non aver riconosciuto lo sgravio contributivo di cui all'art. 9, comma 5, della legge 11 marzo 1988, n. 67, anche se proposta con riferimento ad un periodo anteriore al 1 luglio 1998, "attesa la natura previdenziale delle ritenute operate dall'ente, trattandosi di ambito che esula dalla giurisdizione amministrativa esclusiva in tema di pubblico impiego esistente ratione temporis" (Sez. U, n. 10407, Rv. 630714, est. Amoroso).

Anche sulla questione del riparto nelle procedure concorsuali di lavoro pubblico contrattualizzato la Corte ha ribadito principi ormai consolidati. Così, Sez. U, n. 7171, Rv. 630227, est. Napoletano, per la quale "rientrano nella giurisdizione amministrativa alla stregua dell'art. 63 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, oltre a quelli preordinati alla costituzione di rapporti di lavoro aperti a candidati esterni, i procedimenti concorsuali che, realizzando una novazione oggettiva del rapporto, consentono l'inquadramento in aree funzionali o categorie più elevate. Appartengono alla giurisdizione ordinaria le controversie attinenti le procedure riservate ai dipendenti, dirette a passaggi di qualifica nell'ambito della medesima area funzionale classificata dal contratto collettivo applicabile, e pertanto comportanti l'esercizio di poteri di diritto privato". La Corte ha pertanto dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia relativa all'esclusione di docenti a tempo indeterminato nelle scuole elementari dalla procedura concorsuale per l'assegnazione degli incarichi di presidenza negli istituti comprensivi e nei circoli didattici per l'anno scolastico 2003/2004, avendo ad oggetto l'attribuzione di un incarico temporaneo e, quindi, non l'accesso (definitivo) in aree funzionali o categorie più elevate.

In tema di scorrimento della graduatoria, Sez. U, n. 72, Rv. 628860, est. Forte, ha affermato, dando continuità a principi consolidati e ribaditi anche nel 2013, che "è devoluta al giudice amministrativo la controversia che abbia ad oggetto l'utilizzazione della graduatoria, redatta da un ente pubblico, all'esito di un bando per il conferimento di incarichi di collaborazione coordinata e continuativa di professionisti esterni, ove la pretesa sia fatta valere attraverso l'impugnazione di atti amministrativi confermativi degli incarichi già in corso, la cui proroga abbia carattere ostativo al conferimento di nuovi incarichi, trattandosi di posizione avente la consistenza di interesse legittimo e non riguarda, direttamente, il rapporto di lavoro con l'ente pubblico".

Ancora con riferimento al tema delle graduatorie (nella specie: graduatorie permanenti del personale della scuola), Sez. U, n. 16756, Rv. 631791, est. Di Cerbo, ha tracciato il discrimine tra collocamento in graduatoria e procedura concorsuale affermando che nelle controversie promosse per l'accertamento del diritto al collocamento in graduatoria ai sensi del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, e successive modificazioni, "la giurisdizione spetta al giudice ordinario, venendo in questione determinazioni assunte con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato (art. 5 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), di fronte alle quali sono configurabili diritti soggettivi, avendo la pretesa ad oggetto la conformità a legge degli atti di gestione della graduatoria utile per l'eventuale assunzione, e non potendo configurarsi l'inerenza a procedure concorsuali - per le quali l'art. 63 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, mantiene la giurisdizione del giudice amministrativo - in quanto trattasi, piuttosto, dell'inserimento di coloro che sono in possesso di determinati requisiti in una graduatoria preordinata al conferimento di posti che si rendano disponibili".

Invece, in tema di ritardata emanazione dell'atto di approvazione della graduatoria di una procedura concorsuale per il passaggio di qualifica funzionale riservata ai dipendenti dell'amministrazione finanziaria, "la domanda risarcitoria per il ritardo illegittimo e colpevole nell'espletamento della procedura concorsuale e nell'emanazione dell'atto conclusivo di approvazione della graduatoria appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, collegandosi il danno lamentato, in forza dell'art. 7, terzo comma, della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, all'esercizio di attività autoritative dal parte della P.A., e, dunque, alla posizione di interesse legittimo del dipendente al corretto espletamento di detta procedura fino al suo atto terminale" (Sez. U, n. 15428, Rv. 631588, est. Bandini).

Sempre con riferimento alle fondamentali linee-guida riformatrici della privatizzazione del pubblico impiego recate dall'art. 5 del d.lgs. n. 165 del 2001 (la P.A. datore di lavoro agisce con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato), Sez. U, n. 15427, Rv. 631587, est. Bandini, ha affermato, in un caso in cui l'INPS aveva classificato, con propria norma regolamentare, come di livello dirigenziale non generale le funzioni di direttore regionale, che "la domanda diretta al riconoscimento del diritto alle differenze retributive, spettanti per il dedotto espletamento di mansioni proprie di una posizione dirigenziale superiore a quella attribuita, ha ad oggetto una posizione di diritto soggettivo perfetto, la cui fonte consiste in un atto di gestione del rapporto di lavoro dirigenziale, sicché appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, cui è attribuito il potere di disapplicare gli eventuali atti amministrativi presupposti illegittimi, incidenti sulle posizioni di diritto soggettivo derivanti dal rapporto lavorativo".

Merita di essere segnalata Sez. U, n. 2397, Rv. 629619, est. Napoletano, che, con riferimento ad una domanda di accesso di un pubblico dipendente - con rapporto contrattualizzato ratione temporis - a taluni documenti del proprio fascicolo personale, ne ha affermato la natura di controversia individuale di lavoro, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, "poiché mira a tutelare una situazione soggettiva che trova la sua fonte nel rapporto di lavoro e non la pretesa, spettante a qualsiasi interessato, di conseguire l'accesso a documenti amministrativi che lo riguardino, con la conseguenza che la stessa resta sottratta all'operatività sia dell'art. 25 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (che devolve al giudice amministrativo la cognizione delle controversie relative alla tutela del diritto di accesso da parte di chiunque vi abbia interesse), sia dell'art. 152, comma 13, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, secondo cui le controversie in materia di trattamento di dati personali sono definite dall'autorità giudiziaria ordinaria con sentenza ricorribile solo per cassazione".

Per contro, Sez. U, n. 26938, in corso di massimazione, rel. Napoletano, risolvendo un conflitto negativo di giurisdizione, ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo in fattispecie di mancata conferma dell'incarico di direttore generale di azienda ospedaliera all'esito della verifica dei risultati amministrativi e di gestione, vertendosi sull'impugnazione di un atto discrezionale di alta amministrazione, espressione di poteri pubblicistici cui sono correlati interessi legittimi.

Con alcuni provvedimenti pubblicati verso la fine dell'anno, infine, le Sezioni Unite hanno affrontato nuovamente - dopo la sentenza della Corte costituzionale 9 maggio 2014, n. 120 che aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni unite (tra l'altro, nel medesimo giudizio) - la delicata questione dell'autodichia degli organi parlamentari (nella vicenda, in particolare, del Senato della Repubblica) in materia di controversie di lavoro del proprio personale dipendente.

La Corte, infatti, con l'ordinanza interlocutoria Sez. U, n. 26934, in corso di massimazione, est. Amoroso, non ha più sollevato, in via incidentale, la questione di legittimità costituzionale della disciplina del Senato ma ha ritenuto che vi fossero i presupposti per sollevare innanzi alla Corte costituzionale conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. Le Sezioni unite, muovendo dalla considerazione della natura derivata, in quanto non direttamente prevista dall'art. 66 Cost., della base legale (la normativa subprimaria regolamentare del Senato) legittimante l'autodichia in materia di personale dipendente, ne hanno evidenziato il "carattere invasivo" rispetto al potere giurisdizionale, poiché preclusiva dell'accesso alla giustizia del giudice ordinario o speciale (in violazione degli artt. 3 e 24 Cost.), o quanto meno dell'accesso al sindacato di legittimità nella forma del ricorso straordinario ex art. 111, settimo comma, Cost.

Sussiste, dunque, una significativa differenza di statuto rispetto alla materia elettorale, che riceve diretta copertura costituzionale, tant'è che - come ribadito anche di recente - Sez. U, n. 26098, Rv. 633353, est. Spirito - in tema di elezione del Parlamento, il principio di autodichia affida esclusivamente alle Camere, tramite le rispettive Giunte delle elezioni, la cognizione di ogni questione concernente le operazioni elettorali, sicché la Corte di cassazione non può neppure sindacare se le Giunte stesse abbiano correttamente negato la loro giurisdizione su una controversia elettorale.

In linea con la su menzionata ordinanza di rimessione, poi, le Sezioni Unite - Sez. U, n. 27396, in corso di massimazione, est. Giusti - hanno ritenuto ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto da alcuni dipendenti dei gruppi parlamentari di quel ramo del Parlamento, in considerazione della obiettiva controvertibilità della questione a seguito dell'incidente di costituzionalità sollevato dalle Sezioni unite, ed hanno affermato la spettanza della giurisdizione al giudice ordinario, attesa la titolarità del rapporto di lavoro in capo esclusivamente ai singoli gruppi parlamentari.

Infine, con riferimento ad una particolare fattispecie relativa alla determinazione dell'importo della trattenuta da operare mensilmente sulla pensione di un pubblico dipendente, per la restituzione di un prestito pluriennale concesso dall'INPDAP (oggi INPS), Sez. U, n. 8930, Rv. 630333, est. Virgilio ha affermato che la relativa controversia non rientra nella giurisdizione della Corte dei conti, appartenendo a quella del giudice del rapporto di lavoro, da individuare - per situazioni soggettive azionate dopo il 30 giugno 1998 - nel giudice ordinario.

4. Giurisdizione e diritto internazionale privato.

In materia di diritto internazionale privato, le Sezioni unite sono in più occasioni intervenute nel corso del 2014.

Con riferimento ad un'interessante fattispecie relativa ad una domanda volta all'eliminazione degli effetti di un insieme di attività negoziali poste in essere in vita dal padre dell'attrice - quali la costituzione di un trust e il conferimento ad esso di partecipazioni sociali cui il disponente era direttamente o indirettamente titolare - così da consentire la ricomprensione di tali partecipazioni nel patrimonio del de cuius, deceduto senza testamento, Sez. U, n. 14041, Rv. 631196, est. Rordorf, ha affermato che "la clausola di proroga della giurisdizione inserita nell'atto costitutivo di un trust vincola, oltre al costituente, i gestori e i beneficiari del trust, pur non firmatari della clausola, ove vengano in rilievo diritti e obblighi inerenti al trust, mentre non vincola i soggetti che rispetto al trust sono in posizione di terzietà, come l'erede del fondatore, qualora si assuma leso nei diritti di legittimario". Ancora in tema di clausola di proroga della giurisdizione - peraltro in complessa fattispecie relativa ad un contratto di investimento in derivati finanziari stipulato da un'amministrazione comunale, evidenziante un complesso intreccio di questioni tra riparto interno di giurisdizione e profili di giurisdizione internazionale - Sez. U, n. 22554, Rv. 633155-633156, est. Rordorf, nel dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice italiano, ha affermato che "ai sensi dell'art. 23 del Regolamento CE n. 44/2001, la competenza esclusiva a conoscere dei vizi negoziali relativi, nella specie, alla causa di un contratto d'investimento in derivati finanziari stipulato da una P.A., recante una clausola di proroga della giurisdizione per le controversie riguardanti la validità ed efficacia dello stesso, va attribuita ai giudici dello Stato membro concordato, trattandosi di controversia in materia civile e commerciale, e non in materia amministrativa".

Per quanto riguarda gli interventi in materia lavoristica, in fattispecie relativa al rapporto di lavoro alle dipendenze delle ambasciate di Stati esteri, Sez. U, n. 22744, Rv. 632902, est. Nobile, ha affermato che "non sussiste la giurisdizione del giudice italiano, ancorché la domanda involga questioni esclusivamente patrimoniali e, in relazione a mansioni di semplice "impiegato consolare", non ricorra alcuna delle ipotesi eccettuate di cui alle lettere dalla a) alla e) dell'art. 11, par. 2, della Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali, degli Stati e dei loro beni, fatta a New York il 2 dicembre 2004 e ratificata con la legge 14 gennaio 2013, n. 5 - i cui principi, pur non essendo la Convenzione applicabile ratione temporis, costituiscono, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU, sentenza 18 gennaio 2011, Guadagnino c. Italia e Francia), parte integrante del diritto consuetudinario internazionale - ove le parti abbiano convenzionalmente devoluto la controversia su pretese disponibili alla giurisdizione esclusiva dei tribunali dello Stato estero, ai sensi dell'art. 11, par. 2, lett. f, della citata Convenzione".

Sullo stesso tema Sez. U, n. 9034, Rv. 630834, est. Nobile, regolando la giurisdizione ha affermato che "la domanda intesa ad ottenere la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro postula apprezzamenti, indagini o statuizioni idonee ad incidere od interferire sugli atti o comportamenti dello Stato estero espressione dei suoi poteri sovrani di autorganizzazione, per cui, in applicazione del principio dell'immunità ristretta, non sussiste la giurisdizione del giudice italiano, dovendosi escludere che le parti possano, in via convenzionale, derogare al suddetto principio. Né è ammissibile una diversa soluzione in relazione ai principi sanciti dall'art. 11 della Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali, degli Stati e dei loro beni, fatta a New York il 2 dicembre 2004 e ratificata con la legge 14 gennaio 2013, n. 5 - i quali, pur non essendo la Convenzione applicabile ratione temporis, costituiscono, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU, sentenza 18 gennaio 2011, Guadagnino c. Italia e Francia, parte integrante del diritto consuetudinario internazionale - atteso che, ai sensi dell'art. 11, par. 2, lett. c, della citata Convenzione, sussiste l'immunità giurisdizionale ove l'azione abbia ad oggetto, tra l'altro, 2il reinserimento2 di un lavoratore, senza che possa essere invocato il disposto del successivo art. 11, par. 2, lett. f, che, nel consentire la devoluzione, convenzionale, alla giurisdizione esclusiva dei tribunali dello Stato estero (e, dunque, con ampliamento dell'immunità giurisdizionale), non può essere interpretato nel senso -inverso - di introdurre una generale derogabilità, convenzionale, all'immunità medesima".

Del pari, Sez. U, n. 19674, Rv. 632600-632601, est. Amoroso, nel dichiarare ammissibile il regolamento di giurisdizione proposto nella prima fase del procedimento di impugnativa di licenziamento di cui alla legge 28 giugno 2012, n. 92 (cosiddetto rito Fornero), sul presupposto della natura semplificata e non cautelare in senso stretto del rito, ha affermato che "Il giudice italiano difetta di giurisdizione in ordine alla domanda proposta contro l'Accademia di Francia in Roma, volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento (intimato, nella specie, ad un dipendente con mansioni di supporto dell'attività del segretario generale dell'ente) e la correlata reintegra, attesa l'operatività del principio dell'immunità ristretta, recepito dall'art. 11 della Convenzione delle Nazioni Unite fatta a New York il 2 dicembre 2004, e ratificata in Italia con legge 14 gennaio 2013, n. 5, ma operante prima ancora che la detta Convenzione sia vincolante per tutti gli Stati aderenti perché ricognitiva di un canone già parte integrante del diritto consuetudinario internazionale, mentre sussiste per le pretese dirette all'attribuzione di differenze retributive, trattandosi di domanda avente ad oggetto aspetti esclusivamente patrimoniali del rapporto, che non incidono sulle potestà pubblicistiche dell'ente estero ove non ricorrano, ex art. 2, lett. d) della Convenzione citata, ragioni di sicurezza dello Stato".

In tema di rilevabilità del difetto di giurisdizione ai sensi dell'art. 11 della legge n. 218 del 1995, Sez. U, 19004, Rv. 631963, est. San Giorgio, ha affermato che "Qualora il giudice ordinario abbia, in primo grado, dichiarato la propria "incompetenza" in favore del giudice straniero, la relativa sentenza non è impugnabile con il regolamento di competenza, né con il ricorso straordinario per cassazione, trattandosi di una decisione sulla "competenza internazionale" che attiene non alla ripartizione interna della competenza tra i giudici dell'ordinamento italiano, ma ad una questione di giurisdizione tra i giudici di diversi Stati". A tale pronuncia è seguita Sez. U, n. 22035, Rv. 633017, est. Ambrosio, secondo cui "il principio sancito dall'art. 11 della legge 31 maggio 1995, n. 218, per il quale il difetto di giurisdizione del giudice italiano è rilevabile d'ufficio, in qualsiasi stato e grado del processo, fino alla costituzione del convenuto, implica che il convenuto contumace può eccepire il difetto di giurisdizione del giudice adito dall'attore anche nel corso del giudizio, purché ciò faccia nella prima difesa e sempre che sulla questione di giurisdizione non si sia formato il giudicato".

La Corte si è poi pronunciata in materia di vendita internazionale di cose mobili: Sez. U, n. 1134, Rv. 629039, est. Travaglino, ha affermato che, in tale ambito, "il giudice chiamato a decidere sulla propria giurisdizione deve applicare, salvo diversa convenzione, il criterio del luogo di esecuzione della prestazione di consegna di cui all'art. 5, n. 1, lett. b) del Regolamento CE 22 dicembre 2001, n. 44, a prescindere da ogni considerazione sulle modalità del trasporto e sul luogo in cui il vettore prenda in carico le merci, come da altri criteri eventualmente previsti dalla legislazione nazionale. Ne consegue che la modificazione ex post delle formalità di adempimento dell'obbligazione di consegna (nella specie, giustificata da imprevisti sopravvenuti dopo la conclusione del contratto, tali da imporre al compratore l'onere di organizzare il trasporto delle cose affidandosi ad un vettore), non è idonea a modificare la corretta identificazione del luogo di consegna e, quindi, ad incidere sulla determinazione della giurisdizione". A sua volta, Sez. U, n. 24279, Rv. 633177, est. D'Ascola, sempre in tema di vendita internazionale a distanza di beni mobili, muovendo dal carattere generale del criterio del luogo di esecuzione della prestazione di consegna, ha precisato che "una diversa convenzione stipulata dalle parti sul luogo di consegna dei beni, per assumere prevalenza, deve essere chiara ed esplicita, sì da risultare nitidamente dal contratto, con possibilità di far ricorso, ai fini dell'identificazione del luogo, ai termini e alle clausole generalmente riconosciute nel commercio internazionale, quali gli Incoterms (International Commercial Terms), purché da essi risulti con chiarezza la determinazione contrattuale".

Infine, sulla delicata questione dei titoli Parmalat, Sez. U, n. 16065, Rv. 631797, est. Travaglino, ha affermato che "La controversia promossa da soggetti investitori nei confronti di istituti bancari, alcuni dei quali aventi sede in Italia, per il risarcimento del danno cagionato dalla negoziazione di "titoli spazzatura" del gruppo Parmalat, la cui insolvenza quegli istituti avrebbero occultato con atti convergenti, appartiene alla giurisdizione del giudice italiano nei riguardi di tutti i convenuti, sia a norma dell'art. 6, n. 1, del regolamento CE n. 44/2001, per l'unitarietà della domanda, che giustifica il cumulo soggettivo, sia a norma dell'art. 5, n. 3, del regolamento medesimo, per lo stretto collegamento tra la controversia e l'Italia, quale luogo dell'evento dannoso".

PARTE NONA IL PROCESSO

  • spese processuali
  • ufficiale giudiziario
  • giurisdizione minorile
  • pubblico ministero
  • domicilio
  • servizio postale
  • competenza giurisdizionale
  • telecomunicazione
  • avvocato
  • interesse ad agire
  • ripartizione delle competenze
  • ricusazione

CAPITOLO XXV

IL PROCESSO IN GENERALE

(di Luigi Giordano, Ileana Fedele, Paolo Spaziani, Paolo Fraulini )

Sommario

1 Il giudice. - 1.1 Momento determinativo della competenza. - 1.2 Criteri determinativi della competenza. - 1.2.a Rapporti tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni. - 1.2.b Foro del consumatore. - 1.3 Decisione sulla competenza. - 1.4 Regolamento di competenza. - 1.4.a Regolamento di competenza a istanza di parte. - 1.4.b Regolamento di competenza d'ufficio. - 1.5 Litispendenza, continenza, connessione. - 1.6 Composizione dell'organo giudicante e immutabilità del giudice. - 1.7 Astensione e ricusazione. - 2 Gli ausiliari del giudice. - 2.1 Il cancelliere. - 2.2 L'ufficiale giudiziario. - 2.3 Il c.t.u. - 2.4 Il custode. - 2.5 Gli "altri" ausiliari. - 3 Il pubblico ministero, le parti e i difensori. - 3.1 La partecipazione del pubblico ministero al processo civile. - 3.2 Le parti. - 3.2.a Capacità processuale. - 3.2.b Rappresentanza processuale legale e organica. - 3.2.c Rappresentanza processuale volontaria. - 3.2.d Curatore speciale. - 3.3 I difensori. - 3.3.a Ius postulandi. - 3.3.b Procura alle liti. - 3.3.c Revoca e rinuncia alla procura. - 3.4 Le spese processuali. - 4 Interesse e legittimazione. - 4.1 L'interesse con riguardo alla domanda. - 4.2 L'interesse con riguardo alla impugnazione. - 4.3 Legittimazione. - 5 Pluralità di parti. - 5.1 Litisconsorzio necessario. - 5.2 Litisconsorzio facoltativo. - 5.3 Interventi. - 5.4 Successione di parti. - 6 I poteri e gli atti del giudice. - 6.1 Le conseguenze dell'art. 111 Cost. sull'esercizio dei poteri del giudice. - 6.2 Corrispondenza tra chiesto e pronunciato. - 6.3 Diritto o equità. - 6.4 I poteri del giudice di direzione e di valutazione. - 6.5 Forma e contenuto dei provvedimenti. - 7 Comunicazioni e notificazioni. - 7.1 Comunicazioni e notificazioni: disciplina. - 7.2 Assenza temporanea ed irreperibilità del destinatario. - 7.3 Il contenuto della relata di notificazione. - 7.4 Elezione di domicilio. - 7.5 La domiciliazione presso la cancelleria. - 7.6 La notificazione alle persone giuridiche. - 7.7 La notificazione a mezzo posta. - 7.8 Inesistenza e nullità della notificazione. - 8 Comunicazioni e notificazioni telematiche. Il domicilio digitale. - 9 I termini. - 9.1 Termini perentori ed ordinatori. - 9.2 Il computo dei termini. - 9.3 La rimessione in termini. - 10 Nullità. - 10.1 Il raggiungimento dello scopo. - 10.2 Nullità relative. - 10.3 Limiti al rilievo della nullità. - 10.4 Estensione della nullità. - 10.5 Conversione della nullità in motivi di impugnazione. - 10.6 Il difetto della composizione del giudice o dell'intervento del pubblico ministero. - 10.7 La rinnovazione degli atti nulli.

1. Il giudice.

La Suprema Corte ha affermato, o ribadito, importanti principî in ordine agli istituti che disciplinano l'individuazione del giudice tra gli uffici (competenza, litispendenza, continenza, connessione) o nell'ufficio (composizione e immutabilità dell'organo giudicante), nonché in ordine agli istituti che ne garantiscono l'imparzialità (astensione e ricusazione).

1.1. Momento determinativo della competenza.

È stata data continuità all'orientamento, ormai consolidato, secondo cui, anche riguardo alla competenza oltre che alla giurisdizione, il fondamento della regola contenuta nell'art. 5 cod. proc. civ. risiede nell'esigenza di favorire - non già di impedire - la perpetuatio iurisdictionis, di tal che lo ius superveniens resta irrilevante unicamente nell'ipotesi in cui privi della competenza il giudice adìto (nel qual caso egli deve trattenere la causa in quanto era competente al momento della domanda) mentre diviene rilevante nella diversa ipotesi in cui attribuisca la competenza al giudice adìto (nel qual caso egli deve trattenere la causa sebbene fosse incompetente al momento della domanda).

In applicazione di questo principio, Sez. 6-3, n. 19833, Rv. 632430, est. Amendola, ha ribadito che la proposizione, in via riconvenzionale, dinanzi alla sezione specializzata agraria, di una domanda di accertamento di un rapporto di affittanza agraria, ovvero la allegazione, anche in via di eccezione, della sussistenza dei presupposti per l'applicabilità delle norme sui rapporti agrari, è idonea a radicare la competenza di quel giudice anche nell'ipotesi in cui egli sia incompetente per la domanda principale.

Nella medesima prospettiva, Sez. 6-1, n. 23117, Rv. 632700, est. Ragonesi - premesso che l'azione sociale risarcitoria cumulativamente esercitata contro più convenuti solidalmente responsabili determina un'ipotesi di litisconsorzio facoltativo originario, sicché le relative cause, benché trattate congiuntamente, sono scindibili e mantengono una propria autonomia, così da poter risultare pendenti, ai fini previsti dall'art. 5 cod. proc. civ., in momenti differenti per la diversa data di notifica a ciascuno di essi dell'atto introduttivo del giudizio - ha statuito che qualora la notificazione ad uno di loro sia avvenuta nel vigore del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, che ha attribuito l'azione alle sezioni specializzate in materia di impresa, la causa appartiene alla competenza funzionale di queste ultime, che si estende, ai sensi dell'art. 3, ultimo comma, del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, alle cause connesse, anche se precedentemente introdotte.

1.2. Criteri determinativi della competenza.

Con riguardo alla competenza per materia numerosi sono stati gli arresti della Corte. In particolare Sez. 6-3, n. 3538, Rv. 629844, est. Frasca, ha statuito che l'espressione "circolazione di veicoli", utilizzata dall'art. 7 cod. proc. civ. per individuare la competenza del giudice di pace, non va riferita solo alla circolazione su strade pubbliche o di uso pubblico, ma comprende anche la circolazione su qualunque strada o area privata; Sez. 6-3, n. 3870, Rv. 629837, est. De Stefano, ha ribadito il carattere funzionale e inderogabile della competenza per il procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, attribuita, ex art. 645 cod. proc. civ., all'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il decreto, facendone discendere la conseguenza che, se si tratti del giudice di pace, la proposizione da parte dell'opponente di una domanda riconvenzionale eccedente i limiti di valore della sua competenza impone la separazione delle cause e la rimessione al tribunale della sola riconvenzionale; Sez. U, n. 10406, Rv. 630860, est. San Giorgio, è tornata ad affermare la competenza ordinaria del tribunale, ex art. 9 cod. proc. civ., in ordine al giudizio di opposizione avverso il provvedimento prefettizio di revoca della patente di guida conseguente ad irrogazione della misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, sul presupposto che esso non rientra tra le sanzioni amministrative comminate in conseguenza di violazioni attinenti alla circolazione stradale (ordinariamente impugnabili dinanzi al giudice di pace), ma è emesso in seguito all'accertamento dell'insussistenza, originaria o sopravvenuta, dei requisiti morali prescritti per il conseguimento del titolo di abilitazione alla guida; Sez. 6-2, n. 16807, Rv. 632573, est. Giusti, ha ribadito che la controversia sulla titolarità di un terreno, un tempo pacificamente parte dell'alveo di un fiume ma abbandonato dalle acque da molti anni, appartiene alla competenza per materia del tribunale ordinario e non a quella del tribunale regionale delle acque pubbliche, non ponendo questioni in ordine alla determinazione dei limiti dell'alveo e delle sponde, né in relazione alla qualificazione dello stesso come alveo, sia con riferimento al passato che al presente; per Sez. 1, n. 6297, Rv. 630045, est. Di Virgilio e Sez. 6-3, n. 20303, Rv. 632383, est. Barreca, infine, le controversie aventi ad oggetto l'adempimento delle obbligazioni di natura economica, imposte al coniuge in sede di separazione, non rientrano nella competenza funzionale del tribunale e sono invece soggette ai criteri ordinari di determinazione della competenza, trattandosi di controversie diverse da quelle concernenti il regolamento dei rapporti tra coniugi ovvero la modifica delle condizioni di separazione.

Con riguardo alla competenza per valore, invece, meritano di essere poste in evidenza le decisioni assunte con Sez. 6-3, n. 17843, Rv. 631993, est. Barreca e Sez. 6-1, n. 7182, Rv. 630018, est. Scaldaferri, le quali si sono soffermate sul criterio generale di valutazione di cui all'art. 10 cod. proc. civ., la prima ribadendo che nell'ipotesi di connessione meramente soggettiva e conseguente cumulo oggettivo (art. 104 cod. proc. civ.) di più domande, alcune rientranti nella competenza per valore del giudice di pace altre in quella per materia del tribunale, l'organo giudiziario superiore è competente a conoscere dell'intera controversia, la seconda riaffermando la necessità di far riferimento esclusivamente alla domanda, senza che rilevino le contestazioni del convenuto, le quali assumono importanza non ai fini della competenza ma ai fini del successivo accertamento di merito; del criterio particolare previsto dall'art. 14 cod. proc. civ. per le cause relative a somme di denaro e beni mobili ha fatto invece applicazione Sez. 3, n. 12900, Rv. 631583, est. D'Amico, per statuire che la domanda di risarcimento del danno da circolazione stradale proposta dinanzi al giudice di pace senza determinazione del quantum, si presume, in difetto di tempestiva contestazione, di competenza del giudice adìto e, quindi, pari all'importo massimo stabilito dall'art. 7, secondo comma, cod. proc. civ.

Con riguardo alla competenza per territorio occorre ricordare, in primo luogo, Sez. 6-1, n. 9028, Rv. 631159, est. Bisogni, secondo la quale, ai fini dell'individuazione del foro generale delle persone fisiche (art. 18 cod. proc. civ.), la coincidenza tra il luogo di residenza e quello di domicilio del convenuto integra una presunzione semplice e, come tale, suscettibile di prova contraria, con la conseguenza che il foro territoriale può essere correttamente radicato nel luogo ove il convenuto abbia il domicilio effettivo, individuato in relazione allo svolgimento della parte più rilevante della sua attività economica e professionale; ai fini dell'individuazione del foro generale delle persone giuridiche (art. 19 cod. proc. civ.) Sez. 6-3, n. 1813, Rv. 629818, est. Segreto, ha invece ribadito che può farsi riferimento, in caso di divergenza tra sede legale e sede effettiva, anche a quest'ultima, in quanto il principio contenuto nell'art. 46, secondo comma, cod. civ. ha valenza generale, e pertanto rileva anche ai fini dell'individuazione del giudice competente per territorio; con particolare riferimento ai giudizi di accertamento dell'obbligo del terzo in ipotesi di pignoramento di crediti vantati da enti sottoposti al regime di tesoreria unica, Sez. 6-3, n. 15676, Rv. 632280, est. Amendola, ha poi affermato il principio secondo cui giudice territorialmente competente è solo quello del luogo dove si trova la filiale dell'istituto, presso il quale è localizzato il rapporto di tesoreria, che sia dotata di autonomia, quale unica abilitata alle operazioni volte a vincolare il relativo ammontare e conseguentemente ad assumere la veste di terzo; in relazione al foro facoltativo per le cause di obbligazione, Sez. 6-3, n. 5456, Rv. 630198, est. Frasca, ha ribadito che i criteri di collegamento di cui all'art. 20 cod. proc. civ. (forum obligationis e forum destinatae solutionis) si applicano anche alle obbligazioni di origine extracontrattuale (il primo coincidendo con il forum commissi delicti) e, in applicazione di questi criteri, per Sez. 6-3, n. 6762, Rv. 630200, est. Ambrosio, nell'ipotesi di domanda di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, per la determinazione del foro competente deve farsi riferimento non già al luogo ove si è verificato l'inadempimento, ma a quello in cui avrebbe dovuto essere eseguita la prestazione rimasta inadempiuta o non esattamente adempiuta, della quale il risarcimento è sostitutivo, e ciò anche quando il convenuto contesti in radice l'esistenza dell'obbligazione stessa; un'applicazione estensiva del foro per le cause ereditarie (art. 22 cod. proc. civ.) si ricava da Sez. 6-3, n. 10097, Rv. 630930, est. De Stefano, secondo la quale la citata norma codicistica, nel prevedere (primo comma, n. 3) la competenza del giudice dell'aperta successione per le controversie relative a crediti verso il defunto o a legati dovuti dall'erede, si riferisce anche ad ogni azione personale per qualsiasi credito vantato nei confronti del defunto, indipendentemente dalla causa o dal titolo da cui è sorto, purché non sia ancora decorso un biennio dall'apertura della successione e senza che rilevi la circostanza che sia stato, o meno, instaurato un giudizio di divisione; in ordine ai rapporti tra foro erariale (art. 25 cod. proc. civ.) e foro per le opposizioni all'ecuzione (art. 27 cod. proc. civ.), si segnala Sez. 6-3, n. 1465, Rv. 629960, est. Segreto, che ha ritenuto sottratte ai criteri previsti dalla prima norma (e soggette invece alle regole contenute nella seconda) le cause di opposizione all'esecuzione proposte ex art. 615 cod. proc. civ. nei confronti della P.A.; infine, in relazione al foro per cause di risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie (art. 30-bis cod proc. civ.), Sez. 3, n. 17982, Rv. 632561, est. Sestini, ha riaffermato che, qualora il magistrato convenuto in giudizio sia trasferito nel distretto di appartenenza dell'ufficio di merito investito della controversia di cui egli è parte, si determina, in deroga alla disciplina generale della perpetuatio della competenza, la necessità della translatio iudicii innanzi al giudice competente, da determinarsi a norma dell'art. 11 cod. proc. pen..

1.2.a. Rapporti tra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni.

Particolarmente interessante la regolazione dei rapporti di competenza tra il tribunale ordinario e il tribunale per i minorenni, specie in considerazione delle recenti modifiche apportate all'art. 38 disp. att. cod. civ., dapprima ad opera della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e successivamente ad opera del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, di riforma della disciplina della filiazione.

In particolare, da un lato, Sez. 6-1, n. 8574, Rv. 631129, est. Scaldaferri, ha statuito che competente a conoscere la domanda riconvenzionale proposta dal genitore naturale - convenuto in giudizio, ai sensi dell'art. 148 cod. civ., davanti al tribunale ordinario per la determinazione dell'assegno di mantenimento in favore del figlio minore regolarmente riconosciuto - con cui si chiede di provvedere in ordine all'affidamento, è lo stesso tribunale ordinario e non il tribunale per i minorenni.

Dall'altro lato, Sez. 6-1, n. 21633, Rv. 632847, est. Bisogni, ha però affermato che la competenza a conoscere della domanda di limitazione o decadenza dalla potestà dei genitori, introdotta prima della novella dell'art. 38 disp. att. cod. civ. disposta dall'art. 3 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, rimane radicata presso il tribunale per i minorenni anche se nel corso del giudizio sia stata proposta, innanzi al tribunale ordinario, domanda di separazione personale dei coniugi o di divorzio, in ossequio al principio della perpetuatio iurisdictionis ed a ragioni di economia processuale che trovano fondamento anche nelle disposizioni costituzionali (art. 111 Cost.) e sovranazionali (art. 8 C.E.D.U. e art. 24 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea).

1.2.b. Foro del consumatore.

Come l'anno passato, il panorama delle pronunce sulla competenza si è arricchito di interessanti decisioni in ordine al foro del consumatore, nelle quali si sono andati consolidando orientamenti recentemente formatisi e altri sono venuti emergendo in relazione a nuove questioni.

Tra le pronunce che hanno affrontato questioni nuove si segnalano: Sez. 6-2, n. 17466, Rv. 631788, est. Bianchini, la quale ha escluso che possa invocare il foro del consumatore l'avvocato che abbia acquistato riviste giuridiche in abbonamento o programmi informatici per la gestione di uno studio legale, sul presupposto che l'assunzione della diversa qualifica di "professionista", ex art. 3, comma 1, lettera c), del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, non postula necessariamente che il soggetto stipuli il contratto nell'esercizio dell'attività propria dell'impresa o della professione, ma richiede soltanto che lo concluda al fine dello svolgimento o per le esigenze dell'attività imprenditoriale o professionale; e Sez. 6-3, n. 1464, Rv. 629961, est. Segreto, la quale ha ritenuto che nei rapporti tra avvocato e cliente quest'ultimo riveste la qualità di "consumatore", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera a), del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (con conseguente applicabilità delle regole sul foro del consumatore di cui all'art. 33, comma 2, lettera u), del citato decreto legislativo), a nulla rilevando che il rapporto sia caratterizzato dall'intuitus personae e sia non di contrapposizione, ma di collaborazione (quanto ai rapporti esterni con i terzi), non rientrando tali circostanze nel paradigma normativo.

Tra le pronunce che hanno ribadito principi già affermati si segnalano: Sez. 6-3, n. 5705, Rv. 630540, est. Amendola, la quale ha riaffermato il principio della prevalenza del foro del consumatore sul foro previsto dall'art. 10 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, in materia di trattamento dei dati personali nei confronti del titolare del trattamento; e Sez. 6-3, n. 5703, Rv. 630504, est. Amendola, la quale ha ribadito la prevalenza dello stesso foro del consumatore sul foro speciale di cui all'art. 637, terzo comma, cod. proc. civ., con riguardo ad un'ipotesi di presentazione, da parte di un avvocato, di un ricorso per ingiunzione per ottenere il pagamento delle competenze professionali da un proprio cliente; entrambi le pronunce hanno argomentato dalle esigenze di tutela, anche sul terreno processuale, che sono alla base dello statuto del consumatore.

1.3. Decisione sulla competenza.

In seguito alla modifica dell'art. 38 cod. proc. civ., operata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, in relazione alla forma della decisione sulla competenza (da adottarsi, ora, con ordinanza anziché con sentenza), si è posta la questione se tale decisione debba comunque essere preceduta dalla rimessione in decisione previo invito a precisare le conclusioni, ai sensi degli artt. 187, 189 e 281-quinquies cod. proc. civ., oppure se la mutata forma del provvedimento consenta una pronuncia immediata in sede di trattazione. La questione, come è noto, ha diviso la giurisprudenza di legittimità dalla dottrina in quanto presso la prima è prevalsa la tesi secondo la quale, nonostante il mutamento formale, la decisione sulla competenza presuppone sempre la rimessione in decisione della causa, preceduta dall'invito a precisare le conclusioni (con la conseguenza che, se invece il giudice esterni in un'ordinanza un convincimento sulla competenza e dia provvedimenti sulla prosecuzione del giudizio senza aver provveduto agli adempimenti sopra indicati, tale ordinanza non ha natura decisoria ma soltanto ordinatoria e non è dunque impugnabile con regolamento necessario di competenza) mentre la seconda ha autorevolmente sostenuto che il cambiamento di forma (con la modifica degli artt. 42, 43, primo e terzo comma, 44, 45, 47, 49, 50, primo comma, e 279, primo comma, cod. proc. civ.) implicherebbe non soltanto il mutamento degli elementi che compongono l'atto decisorio, ma anche un diverso atteggiarsi della scansione procedimentale che lo precede, sicché l'esigenza della rimessione in decisione con la precisazione delle conclusioni, anche di merito, e previo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, si giustificherebbe soltanto quando le questioni scatenanti debbano essere decise con sentenza (questioni di giurisdizione ed altre pregiudiziali o preliminari suscettibili di definire il giudizio), non anche quando debbano essere decise con ordinanza (come nel caso della competenza).

La divisione tra giurisprudenza di legittimità e dottrina (la cui opinione, tra l'altro, ha registrato notevole seguito presso i giudici di merito) ha indotto la Suprema Corte a rimettere alle Sezioni unite (Ordinanza interlocutoria Sez. 2, n. 18577 del 2013, est. Giusti), la questione di massima di particolare importanza se sia impugnabile con regolamento di competenza l'ordinanza (nella specie del giudice monocratico) che, respingendo l'eccezione, affermi la competenza del giudice adito, quando questo provvedimento non sia stato preceduto dal previo invito alla precisazione delle conclusioni.

La questione è stata risolta da Sez. U, n. 20449, Rv. 631956, est. Cappabianca, secondo la quale, anche dopo le modifiche normative conseguenti alla novella di cui alla legge 18 giugno 2009, n. 69, il provvedimento del giudice adito (nella specie monocratico), che, nel disattendere la corrispondente eccezione, affermi la propria competenza e disponga la prosecuzione del giudizio innanzi a sé, è insuscettibile di impugnazione con il regolamento ex art. 42 cod. proc. civ., ove non preceduto dalla rimessione della causa in decisione e dal previo invito alle parti a precisare le rispettive integrali conclusioni anche di merito, salvo che quel giudice, così procedendo e statuendo, lo abbia fatto conclamando, in termini di assoluta e oggettiva inequivocità ed incontrovertibilità, l'idoneità della propria determinazione a risolvere definitivamente, davanti a sé, la suddetta questione.

La Suprema Corte è tornata a pronunciarsi anche sulle questioni più tradizionali poste dall'art. 38 cod. proc. civ. in tema di decisone sulla competenza.

In particolare, circa l'ammissibilità dell'eccezione di incompetenza territoriale derogabile, Sez. 6-3, n. 26094, in corso di massimazione, est. Frasca, ha fatto applicazione del consolidato principio secondo cui la completezza della contestazione (sindacabile anche d'ufficio dalla Corte di cassazione in sede di regolamento di competenza) richiede che essa sia formulata con riguardo a tutti i criteri di collegamento previsti dalla legge ai fini dell'individuazione dei diversi fori concorrenti, generali e speciali, inferendone, nella fattispecie, il corollario per cui l'eccezione di incompetenza territoriale eccepita da una persona giuridica si ha per non proposta se non è svolta con riferimento anche al criterio di collegamento indicato dall'art. 19, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ.

Con riguardo alle modalità della decisione, Sez. 6-3, n. 3845, Rv. 630152, est. Carluccio, ha dato continuità al consolidato orientamento secondo il quale, ai sensi dell'art.38, quarto comma, cod. proc. civ., la decisione sull'eccezione di incompetenza per territorio non può essere preceduta da una istruzione "ordinaria" ma deve essere fondata sulle risultanze emergenti dagli atti introduttivi e dalle produzioni documentali effettuate con essi.

Con riguardo al termine entro cui deve essere decisa la questione, Sez. 6-3, n. 5225, Rv. 630576, est. Ambrosio e Sez. 6-3, n. 3537, Rv. 629922, est. Frasca, hanno ribadito che, ai sensi dell'art. 38, terzo comma, cod. proc. civ., l'incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio nei casi previsti dall'art. 28, sebbene di carattere inderogabile, può essere rilevata, anche d'ufficio, non oltre la prima udienza di trattazione, la quale, nel rito ordinario, si identifica con l'udienza di cui all'art. 183 cod. proc. civ..

1.4. Regolamento di competenza.

La Suprema Corte è tornata numerose volte sul regolamento di competenza, esplorando sia la tematica del regolamento a istanza di parte e del suo ambito di applicabilità (artt. 42, 43 e 46 cod. proc. civ.) sia la tematica dei conflitti di competenza e del regolamento d'ufficio (art. 45 cod. proc. civ.).

1.4.a. Regolamento di competenza a istanza di parte.

La norma codicistica che esclude la proponibilità del regolamento di competenza avverso i provvedimenti del giudice di pace (art. 46 cod. proc. civ.) determina notevoli implicazioni di carattere sistematico ed ha indotto parte della dottrina persino a dubitare dell'applicazione a questo giudice delle regole, introdotte dalla legge n. 69 del 2009, che prevedono che le statuizioni sulla competenza separate dal merito siano rese nella forma dell'ordinanza anziché in quella della sentenza, applicazione dalla quale conseguirebbe l'esclusione di qualsiasi possibilità di impugnazione dei provvedimenti sulla competenza emessi dal giudice di pace.

Un restringimento della portata di questa disposizione, con conseguente allargamento dell'ambito di applicabilità del regolamento di competenza anche in relazione ai provvedimenti del giudice di pace, si desume da Sez. 6-3, n. 16700, Rv. 632062, est. Amendola, la quale ha affermato (ribadendo un principio già precedentemente espresso dalla Suprema Corte) che un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma codicistica impone di ritenere ammissibile l'impugnazione con regolamento necessario di competenza dei provvedimenti di sospensione del processo emessi dal giudice di pace, dovendosi consentire alla parte di avvalersi dell'unico strumento di tutela che impedisce la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo attraverso un'immediata verifica della sussistenza dei presupposti giuridici del provvedimento di sospensione.

Un ampliamento dell'ambito di applicabilità dello strumento impugnatorio previsto dall'art. 42 cod. proc. civ. si evince anche da Sez. 6-3, n. 5313, Rv. 631008, est. Armano, la quale ha statuito che, in applicazione del principio dell'apparenza, è esperibile il regolamento necessario di competenza avverso la sentenza che abbia deciso una questione di distribuzione degli affari civili all'interno dello stesso ufficio giudiziario qualificandola erroneamente come questione di competenza.

Peraltro, con riguardo alla ripartizione di regiudicande tra sede centrale e sezioni distaccate di tribunale, Sez. 6-3, n. 25705, in corso di massimazione, est. Ambrosio, ha ritenuto inammissibile il regolamento di competenza proposto avverso l'ordinanza con cui il giudice adìto aveva aveva trasmesso gli atti al presidente del tribunale affinché provvedesse, ex art. 83-ter disp. att. cod. proc. civ., all'eventuale assegnazione del fascicolo alle sezioni distaccate.

Ancora in una prospettiva ampliativa, Sez. 6-2, n. 20152, Rv. 632403, est. D'Ascola, ha affermato che qualora una sentenza, a fronte di un'unica domanda, articoli la decisione in plurimi capi, uno dei quali pronunci esclusivamente sulla competenza, devolvendo ad arbitri la cognizione di una lite in relazione al solo periodo coperto da clausola compromissoria, è ammissibile l'istanza di regolamento di competenza limitata a tale capo, non operando, in tal caso, il divieto derivante dal limite della decisione di merito.

Nella medesima prospettiva, Sez. 1, n. 17908, Rv. 632217, est. Didone, ha ritenuto inammissibile l'appello avverso la decisione del tribunale declinatoria della propria competenza a favore degli arbitri rituali, poiché l'attività di questi ultimi ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché la relativa questione può essere fatta valere solo con regolamento di competenza.

In senso restrittivo, Sez. 6-3, n. 21255, Rv. 632837, est. Barreca, ha invece statuito che, in tema di esecuzione di sequestro conservativo di crediti, regolata dalle norme sul pignoramento presso terzi, l'ordinanza del giudice che dichiara la propria competenza e raccoglie la dichiarazione positiva del terzo non assume valore di sentenza sulla competenza, sicché non è impugnabile con il regolamento di competenza ma solo con l'opposizione agli atti esecutivi.

Per Sez. 6-1, n. 17876, Rv. 631931, est. Acierno, non sono impugnabili con il regolamento necessario ex art. 42 cod. proc. civ. i provvedimenti resi dal giudice tutelare ex art. 337 cod. civ., anche se meramente declinatori della competenza, essendo privi dei caratteri di decisorietà e definitività ed avendo natura meramente attuativa di quelli adottati dagli organi giudiziari regolatori della potestà genitoriale.

Analogamente, Sez. 6-1, n. 15186, Rv. 631807, est. De Chiara, ha negato l'ammissibilità del regolamento di competenza avverso l'ordinanza con cui il presidente del tribunale, nel corso di un procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, abbia disposto la riduzione dell'assegno di separazione, abbia nominato se stesso giudice istruttore e abbia fissato l'udienza di comparizione delle parti, trattandosi di provvedimento temporaneo ed urgente, adottato ai sensi dell'art. 4, ottavo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come tale avente efficacia esclusivamente provvisoria ed interinale e privo di natura decisoria.

Sulla medesima linea, infine, Sez. 6-3, n. 10211, Rv. 630929, est. Amendola, ha statuito che è inammissibile il ricorso per regolamento di competenza avverso un provvedimento emesso su istanza di sospensione dell'esecuzione della sentenza impugnata per cassazione ex art. 373 cod. proc. civ., trattandosi di atto di natura ordinatoria, privo di definitività e decisorietà, e costituendo la pronuncia ivi contenuta un'affermazione o negazione di competenza preliminare e strumentale alla decisione di merito.

1.4.b. Regolamento di competenza d'ufficio.

In una rilevante decisione è stata riproposta la tradizionale esegesi dell'art. 45 cod. proc. civ., secondo cui il regolamento di competenza d'ufficio - che non è un mezzo di impugnazione - costituisce lo strumento processuale per risolvere il conflitto negativo di competenza tra due uffici giudiziari nelle sole ipotesi di competenza (per materia e per territorio nei casi previsti dall'art. 28 cod. proc. civ.) inderogabile in senso assoluto, allorché il mancato esperimento del regolamento di competenza a istanza di parte - che è il mezzo di impugnazione necessario dell'ordinanza dichiarativa di incompetenza - non può ritenersi sufficiente ai fini dell'incontestabilità di quest'ultima.

In tal senso si è pronunciata Sez. 6-3, n. 15789, Rv. 632531, est. Scarano, la quale ha dichiarato inammissibile il regolamento richiesto d'ufficio dal secondo giudice (per il quale la deroga alla competenza per territorio fuori dai casi ex art. 28 cod. proc. civ. richiedeva l'espressa sottoscrizione delle parti ex art. 1341 e 1342 cod. civ.), sul presupposto che tale strumento può essere richiesto d'ufficio ai sensi dell'art. 45 cod. proc. civ. solo se sussiste un conflitto negativo, tra il giudice adito e quello ad quem, per ragione di materia o di territorio nei casi previsti dall'art. 28 cod. proc. civ., mentre, ove si tratti di questione di competenza per valore o territoriale derogabile, il regolamento è proponibile esclusivamente dalle parti, nella cui mancanza, se la causa sia stata tempestivamente riassunta in termini dinanzi all'altro giudice, la dichiarazione di incompetenza del primo giudice diventa incontestabile e vincolante per il secondo anche se questi la ritenga eventualmente errata.

In diverse altre pronunce, tuttavia, anche con riguardo al regolamento di competenza d'ufficio si sono registrate tendenze interpretative di carattere "ampliativo".

La Corte, Sez. 1, n. 20283, Rv. 632216, est. Scaldaferri, ribadendo peraltro un principio già precedentemente affermato, ha ritenuto denunciabile anche d'ufficio il conflitto positivo di competenza tra due tribunali che abbiano dichiarato il fallimento dello stesso soggetto, affermando altresì che non osta, al riguardo, il giudicato, implicito o esplicito, formatosi su una delle due decisioni.

Per Sez. 6-1 n. 23116, Rv. 632752, est. Ragonesi, anch'essa confermando un orientamento già precedentemente manifestatosi, è ammissibile il regolamento d'ufficio di competenza, richiesto dal tribunale investito di istanza di fallimento nei confronti di società già dichiarata insolvente - in vista dell'eventuale ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria - con sentenza di altro tribunale.

Tornando all'ipotesi classica del conflitto negativo nei casi di competenza inderogabile in senso assoluto (ambito tradizionale di applicazione del regolamento d'ufficio, in ossequio al disposto testuale degli artt. 44 e 45 cod. proc. civ.), deve infine segnalarsi, per la novità della questione affrontata, Sez. 6-1, n. 107, Rv. 629817, est. Bisogni, la quale ha ritenuto che, nel caso in cui il tribunale adìto sull'istanza di declaratoria di esecutività di lodo arbitrale dichiari la propria incompetenza per territorio, il giudice successivamente adito, ove declini a sua volta, anche in sede di appello a seguito del reclamo proposto dalla controparte, la propria competenza, è tenuto a sollevare regolamento di competenza d'ufficio ex art. 45 cod. proc. civ., non ostandovi né la natura camerale del giudizio, né il disposto di cui all'art. 44 cod. proc. civ. (ricorrendo un'ipotesi di competenza funzionale ex art. 28 cod. proc. civ. in relazione all'art. 825 cod. proc. civ.), né, infine, la preclusione di cui all'art. 38 cod. proc. civ., instaurandosi il contraddittorio solo a seguito del reclamo alla Corte d'appello, essendo disposta la declaratoria di esecutività con decreto inaudita altera parte.

1.5. Litispendenza, continenza, connessione.

In tema di litispendenza, è stata risolta la questione - rimessa alle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 374, terzo comma, cod. proc. civ. - concernente l'individuazione del momento di perfezionamento della notificazione dell'atto introduttivo della causa, avuto riguardo al principio di scissione tra notificante e notificato, rilevante ai fini dell'applicazione del criterio di prevenzione ex art. 39 cod. proc. civ.: al riguardo, Sez. U, n. 23675, Rv. 632845, est. Di Iasi, ha statuito che per determinare la litispendenza ai fini della prevenzione tra cause in rapporto di continenza, una iniziata con ricorso monitorio e una iniziata con citazione, per quest'ultima si ha riguardo al perfezionamento del procedimento di notificazione tramite consegna dell'atto al destinatario, non operando la scissione soggettiva del momento perfezionativo per il notificante e il destinatario, che vale solo per le decadenze non addebitabili al notificante.

Le Sezioni Unite sono tornate altresì sui presupposti che giustificano la dichiarazione di litispendenza in applicazione del criterio di prevenzione: in proposito, Sez. U, n. 17443, Rv. 632603, est. Di Cerbo, ha ribadito che occorre il requisito di identità tra le domande, da ritenersi sussistente quando ricorre la totale comunanza di tutti gli elementi identificativi dell'azione, soggettivi (personae) ed oggettivi (petitum e causa petendi), mentre Sez. U, n. 17443, Rv. 632606, est. Di Cerbo, ha riaffermato che è irrilevante ogni indagine sull'effettiva competenza del giudice preventivamente adito a conoscere della controversia pur se il giudice successivamente adito sia titolare della competenza a conoscere della causa, atteso che l'istituto della litispendenza risponde all'esigenza di evitare la contemporanea pendenza di due giudizi con gli stessi elementi processuali, e, dunque, un'inammissibile duplicità di azioni giudiziarie in relazione al medesimo diritto soggettivo, con conseguente pericolo di contraddittorietà di giudicati.

Con riguardo alla continenza, va segnalata Sez. 6-3, n. 5455, Rv. 630197, est. Frasca, la quale ha escluso l'applicabilità della disciplina prevista dall'art. 39, secondo comma, cod. proc. civ. (ed ha ritenuto invece applicabile quella di cui all'art. 295 cod. proc. civ.) tra due cause pendenti in grado diverso (l'una in primo grado, l'altra in appello) pur essendo le stesse in rapporto di continenza, in ragione della comunanza di personae e causa petendi e di una differenza riguardante unicamente l'estensione del petitum.

Questa pronuncia si discosta solo apparentemente da Sez. U, n. 27846 del 2013, Rv. 628456, est. Petitti - la quale, a composizione del precedente contrasto, aveva riconosciuto la configurabilità della litispendenza e l'applicazione della relativa disciplina anche tra cause pendenti dinanzi a giudici di grado diverso - in quanto il discrimine tra le discipline delle due fattispecie (litispendenza da un lato, continenza dall'altro) risiede in ciò che nella seconda, a differenza della prima, al criterio della prevenzione (art. 39, primo comma, cod. proc. civ.) si affianca il criterio della necessità della competenza del primo giudice anche per la causa proposta successivamente (art. 39, secondo comma, cod. proc. civ.), criterio che non può essere soddisfatto nell'ipotesi in cui il giudice della causa contenente, preventivamente introdotta, sia il giudice dell'impugnazione, con la conseguenza che, in questo caso, l'unico rimedio utilizzabile per salvaguardare il principio del ne bis in idem e prevenire il pericolo di contrasto tra giudicati è quello della sospensione della causa contenuta, ex art. 295 cod. proc. civ.

Per quanto concerne la connessione, avuto riguardo al principio della generale derogabilità delle regole sulla competenza territoriale al di fuori dei casi previsti dall'art. 28 cod. proc. civ. (artt. 6, 28, 29 cod. proc. civ.), Sez. 6-1, n. 7183, Rv. 630741, est. Scaldaferri, ha affermato che anche i criteri legali di modificazione della competenza per territorio per ragioni di connessione di cui agli artt. 31 e ss. cod. proc. civ. sono derogabili su accordo delle parti.

Con riguardo alla connessione tra cause soggette a riti diversi (art. 40 cod. proc. civ.), Sez. 1, n. 18870, Rv. 632155, est. San Giorgio, ha escluso che ricorra un'ipotesi di connessione qualificata (artt. 31, 32, 34, 35, 36 cod. proc. civ.), idonea a consentirne la trattazione congiunta, tra le domande di risarcimento dei danni e di separazione personale con addebito, ritenendo che, in ragione della parziale connessione relativa alla causa petendi, ricorra piuttosto una connessione oggettiva non qualificata con conseguente cumulo soggettivo ex art. 33 cod. proc. civ..

Infine, in relazione alle singole ipotesi di connessione che consentono di derogare ai normali criteri di determinazione della competenza, si segnalano due pronunce, l'una sulla connessione qualificata per accessorietà (art. 31 cod. proc. civ.), l'altra sulla connessione qualificata per garanzia (art. 32 cod. proc. civ.).

La prima (Sez. 6-1, n. 8576, Rv. 630658, est. Scaldaferri) ha statuito che, in ragione del disposto dell'art. 31 cod. proc. civ., la clausola derogatoria della competenza per territorio contenuta nel contratto di conto corrente per il quale è sorta controversia determina l'estensione del foro convenzionale anche alla controversia concernente la relativa garanzia fideiussoria, nonostante la coincidenza solo parziale dei soggetti processuali, tenuto conto dello stretto legame esistente tra i due rapporti e del rischio che, in caso di separazione dei procedimenti, si formino due diversi giudicati in relazione ad un giudizio sostanzialmente unico.

La seconda (Sez. L, n. 8898, Rv. 630435, est. Tricomi) ha ribadito la tradizionale distinzione tra garanzia propria (che ricorre quando la causa principale e quella accessoria abbiano lo stesso titolo, ovvero quando ricorra una connessione oggettiva tra i titoli delle due domande) e garanzia impropria (che sussiste quando il convenuto tenda a riversare su di un terzo le conseguenze del proprio inadempimento in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principale, ovvero in base ad un titolo connesso al rapporto principale solo in via occasionale o di fatto) ai fini dell'applicabilità della regola derogatoria contenuta nell'art. 32 cod. proc. civ., circa lo spostamento della competenza territoriale per la causa di garanzia dinanzi al giudice competente per la causa principale.

1.6. Composizione dell'organo giudicante e immutabilità del giudice.

In ordine alla composizione (collegiale o monocratica) dell'organo giudicante, disciplinata dagli artt. 50-bis, 50-ter e 50-quater cod. proc. civ., Sez. 1, n. 13907, Rv. 631509, est. Nazzicone, ha ribadito che l'inosservanza delle predette disposizioni costituisce, in virtù del rinvio operato dall'art. 50-quater cod. proc. civ. al successivo art. 161, primo comma, un'autonoma causa di nullità della sentenza (che può essere fatta valere nei limiti e secondo le regole proprie dei mezzi di gravame per essa previsti) e non già una forma di nullità relativa, derivata da quella degli atti che l'hanno preceduta.

Relativamente al principio di immutabilità del giudice, che impone la coincidenza tra il giudice (o i giudici, intesi come persone fisiche) della decisione e quello (o quelli) dinanzi ai quali è avvenuta la discussione o sono state precisate le conclusioni (art. 276 cod. proc. civ.), Sez. 1, n. 8593, Rv. 630879, est. De Chiara, ha riaffermato che esso è applicabile solo dal momento in cui inizia la discussione e non si riferisce alle eventuali precedenti fasi interlocutorie.

1.7. Astensione e ricusazione.

Riguardo ai casi di astensione e di ricusazione: Sez. U, n. 16627, Rv. 631796, est. Di Iasi, ha affermato che, trattandosi di ipotesi tassative soggette a stretta interpretazione, per un verso la "inimicizia" del ricusato, ai sensi dell'art. 51, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., non può essere desunta dal contenuto di provvedimenti da lui emessi in altri processi concernenti il ricusante (salvo che le "anomalie" siano tali da non consentire neppure di identificare l'atto come provvedimento giurisdizionale), mentre, per altro verso, la "causa pendente" tra ricusato e ricusante, ai sensi della medesima norma, non può essere costituita dal giudizio di responsabilità di cui alla legge 13 aprile 1988, n. 117, che non è un giudizio nei confronti del magistrato, bensì nei confronti dello Stato; sulla stessa linea Sez. 6-1, n. 24934, Rv. 633253, est. De Stefano, ha ribadito che ai fini della ricusazione del giudice civile ex artt. 51, primo comma, nn. 3 e 4, e 52 cod. proc. civ., non costituisce grave inimicizia, né espressione o anticipazione di giudizio sul merito della controversia e neppure cognizione di essa in altro grado la pronunzia di precedenti provvedimenti sfavorevoli, quand'anche ritenuti erronei o manifestamente tali, resi in procedimenti separati o connessi in danno della medesima parte, ove non si alleghi e si provi l'esistenza di ragioni di rancore o di avversione diverse ed esterne alla causa, che si fondino su dati di fatto concreti e precisi, estranei alla realtà processuale ed autonomi rispetto a questa; Sez. 2, n. 25643, in corso di massimazione, est. Picaroni, infine, ha ribadito che soltanto l'attività decisoria determina l'obbligo di astensione ai sensi dell'art. 51, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., traendone la conseguenza che tale obbligo non sussiste allorché uno dei membri del collegio chiamato a conoscere della causa in grado di appello si sia limitato, in primo grado, a pronunciare ordinanza di rigetto di una richiesta di riunione, ai sensi degli artt. 273 e 274 cod. proc. civ., trattandosi di provvedimento di carattere meramente ordinatorio.

Riguardo al procedimento di ricusazione: Sez. 6-3, n. 25709, in corso di massimazione, est. Barreca, ha dato continuità al consolidato orientamento secondo il quale la sola proposizione del ricorso per ricusazione non può determinare ipso iure la sospensione del procedimento, ai sensi dell'art. 52, terzo comma, cod. proc. civ., in quanto spetta al giudice a quo una sommaria delibazione della sua ammissibilità all'esito della quale, ove risultino ictu oculi carenti i requisiti formali posti dalla legge per l'ammissibilità stessa, deve ritenersi escluso l'automatismo dell'effetto sospensivo; Sez. 6-3, n. 25824, in corso di massimazione, est. De Stefano, ha affermato il carattere pregiudiziale della declaratoria di estinzione del giudizio a seguito di rinuncia al ricorso per cassazione avverso l'ordinanza di rigetto dell'istanza di ricusazione, rispetto alla declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo; Sez. U, n. 16627, Rv. 631795, est. Di Iasi, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità dell'art. 53, primo comma, cod. proc. civ., per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui attribuisce la decisione sulla ricusazione del giudice togato ad un collegio di soli giudici togati, atteso che il procedimento di ricusazione non è un procedimento "a carico" del giudice ricusato, e neppure un procedimento del quale egli sia "parte", sicché non rileva il generico sospetto di parzialità del giudice della ricusazione in ragione della mera "colleganza" col giudice ricusato; sempre in relazione all'art. 53 cod. proc. civ. - ma con riguardo al secondo comma, per il quale sulla ricusazione si decide previa audizione del giudice ricusato e assunte, quando occorre, le prove offerte - Sez. U, n. 16627, Rv. 631794, est. Di Iasi, ha infine chiarito che tale disposizione attribuisce al giudice ricusato il diritto di essere ascoltato, ma non lo obbliga a rendere informazioni o chiarimenti, tranne che il giudice della ricusazione lo ritenga necessario per finalità istruttorie.

2. Gli ausiliari del giudice.

In relazione agli ausiliari del giudice in senso ampio si segnalano talune pronunce concernenti gli uffici complementari (cancelliere e ufficiale giudiziario) e altre concernenti gli ausiliari in senso stretto (consulente tecnico d'ufficio, custode e altri ausiliari).

2.1. Il cancelliere.

La Suprema Corte è tornata sia sulla individuazione degli obblighi del cancelliere sia sulle conseguenze, in ordine agli atti processuali, delle irregolarità da lui commesse: sotto il primo profilo, Sez. 6-2, n. 24294, in corso di massimazione, est. Falaschi, è tornata ad escludere - in fattispecie riguardante il giudizio dinanzi al giudice di pace - che, in base al nuovo testo dell'art. 168-bis cod. proc. civ., il cancelliere abbia l'obbligo di comunicare alla parte costituita il rinvio d'ufficio dell'udienza di comparizione, per non esservi udienza nel giorno fissato nell'atto introduttivo, all'udienza immediatamente successiva che sarà tenuta dal giudice designato alla trattazione del processo; sotto il secondo profilo, Sez. L, n. 10224, Rv. 630800, est. Amendola, ha statuito che l'esistenza di irregolarità nel rilascio di copia di atti da parte del cancelliere (nella specie, copia conforme della sentenza rilasciata al procuratore della parte priva di annotazioni circa il pregresso rilascio di copie autentiche e della certificazione dell'avvenuto passaggio in giudicato) non determina la nullità della notificazione della sentenza di primo grado, stante il numerus clausus delle relative ipotesi e considerato che anche la notifica della sentenza fatta in copia non autenticata è idonea a far decorrere il termine breve dell'impugnazione.

2.2. L'ufficiale giudiziario.

In ordine agli obblighi dell'ufficiale giudiziario in sede di notificazione degli atti, si segnala Sez. 5, n. 5669, Rv. 630620, est. Cappabianca, la quale, con riguardo al limite di validità della notificazione eseguita ai sensi dell'art. 139, secondo comma, cod. proc. civ., ha ritenuto che il riferimento normativo alla "palese incapacità" (legalmente equiparata all'immaturità di un infraquattordicenne) consenta di escludere che l'ufficiale giudiziario sia tenuto a compiere indagini particolarmente approfondite sulla capacità dell'accipiens, potendosi limitare ad un esame superficiale.

2.3. Il c.t.u.

Si è confermato l'orientamento secondo il quale, nelle materie in cui le conoscenze tecniche specialistiche sono necessarie non solo per la comprensione dei fatti ma per la loro stessa rilevabilità, al consulente tecnico possono essere affidati compiti di carattere non solo valutativo ma anche accertativo.

In particolare, sulla possibile natura percipiente della consulenza tecnica d'ufficio è tornata Sez. 3, n. 22225, Rv. 632945, est. Carluccio, per statuire, in tema di responsabilità medico-chirurgica, che, quando invece la consulenza medesima formuli una valutazione sull'efficienza eziologica della condotta della struttura sanitaria rispetto all'evento di danno come "meno probabile che non", tale esito è correttamente ignorato dal giudice, atteso che, in applicazione del criterio della regolarità causale e della certezza probabilistica, l'affermazione della riferibilità causale del danno all'ipotetico responsabile presuppone, all'opposto, una valutazione nei termini di "più probabile che non".

Sempre con riguardo all'attività meramente valutativa del consulente tecnico d'ufficio, Sez. 1, n. 26276, in corso di massimazione, est. Campanile, ha poi ribadito che le operazioni puramente valutative che l'ausiliario compie al fine di enucleare e coordinare, sulla base dei dati acquisiti, gli elementi di giudizio, non rientrano tra le vere e proprie operazioni tecniche per le quali è previsto l'intervento delle parti, traendone, con riguardo ad una fattispecie in tema di accertamento giudiziale della filiazione, la conseguenza che non si verifica violazione del contraddittorio nell'ipotesi in cui il consulente d'ufficio provveda autonomamente all'elaborazione dei dati risultanti dai campioni biologici acquisiti in presenza dei consulenti di parte, ponendo poi a disposizione di questi ultimi i risultati ottenuti.

Sotto il profilo strettamente processuale, la Suprema Corte, con un'unica pronuncia, ha ribadito, per un verso, che l'inosservanza, da parte del consulente tecnico d'ufficio, del termine assegnatogli per il deposito della consulenza non comporta di regola alcuna nullità, se non in particolari casi nel rito del lavoro (Sez. 3, n. 6195, Rv. 630566, est. Cirillo) e, per altro verso (Sez. 3, n. 6195, Rv. 630565, est. Cirillo), che il consulente ha unicamente l'obbligo (ex art. 194, secondo comma, cod. proc. civ. e 90, primo comma, disp. att. cod. proc. civ.) di dare alle parti comunicazione del giorno, ora e luogo di inizio delle operazioni peritali, mentre analogo obbligo di comunicazione non sussiste quanto alle indagini successive, incombendo sulle parti l'onere di informarsi sul prosieguo di queste al fine di parteciparvi; Sez. 1, n. 17269, Rv. 631995, est. Acierno, ha poi ritenuto che la parte può presentare osservazioni critiche alla relazione del consulente tecnico d'ufficio pur quando non abbia tempestivamente designato un proprio consulente di parte, atteso che la nomina di un tecnico di fiducia costituisce esercizio del diritto costituzionale di difesa che non può tradursi in un obbligo, nè in una preclusione temporale a prospettare critiche o a richiedere chiarimenti rispetto all'indagine svolta dal consulente tecnico di ufficio.

Con riguardo alle modalità con cui è possibile dedurre censure sull'attendibilità, affidabilità ed imparzialità del consulente tecnico d'ufficio, Sez. 3, n. 8406, Rv. 630221, est. Vincenti e Sez. L, n. 18822, Rv. 631185, est. Manna, hanno chiarito che i fatti relativi vanno allegati unicamente nel procedimento di ricusazione (ex artt. 63 e 192 cod. proc. civ.) e non possono essere oggetto di prova testimoniale.

In tema di liquidazione del compenso del consulente tecnico d'ufficio, Sez. 2, n. 21224, Rv. 632832, est. Oricchio, ha affermato il principio secondo il quale la pluralità dei quesiti non esclude l'unicità dell'incarico ma rileva nella determinazione degli onorari, potendosi sommare quelli relativi a ciascuno dei distinti accertamenti richiesti; nella stessa prospettiva, Sez. 1, n. 22779, Rv. 632890, est. Campanile, ha statuito che, ai fini della quantificazione del compenso spettante al consulente chiamato a svolgere distinti accertamenti, benché nell'ambito di un unico incarico, la possibilità di considerare l'autonomia di talune indagini può determinare l'attribuzione, in suo favore, di un compenso unitario che derivi dalla somma di quelli relativi ai singoli accertamenti, purché i parametri da valutare per ciascuno corrispondano ai rispettivi valori; Sez. 2, n. 21339, Rv. 632583, est. D'Ascola, ha ritenuto che l'aumento fino al doppio degli onorari liquidati al consulente tecnico d'ufficio per le prestazioni di eccezionale importanza, complessità e difficoltà, previsto dall'art. 5 della legge 8 luglio 1980, n. 319 (applicabile ratione temporis), è consentito, anche in misura parziale, qualora ne ricorrrano i presupposti, soltanto se sia stato riconosciuto al consulente il compenso massimo determinato sulla base delle tabelle allegate al d.P.R. 27 luglio 1988, n. 388.

Relativamente al giudizio di opposizione al decreto di liquidazione, Sez. 3, n. 7699, Rv. 630350, est. Rubino, ha ritenuto che il provvedimento di estinzione adottato nel corso di questo procedimento non è appellabile ma ricorribile per cassazione ex art. 111, settimo comma, Cost., perché esso definisce il procedimento in rito, e come tale sottostà al medesimo regime di impugnazione del provvedimento che definisce il procedimento nel merito.

2.4. Il custode.

In ordine alla legittimazione del custode a stare in giudizio, attivamente e passivamente, limitatamente ai rapporti attinenti ai beni custoditi, Sez. 6-1, n. 12072, Rv. 631502, est. Scaldaferri, ha ritenuto che il custode giudiziario delle quote sociali, designato in sede di sequestro preventivo penale, può assumere, in qualità di rappresentante della proprietà del capitale ed in mancanza di una norma di legge che lo vieti, la funzione di amministratore della società, dovendosi escludere il conflitto d'interessi: da tale rilievo, la pronuncia in rassegna ha tratto la conseguenza che il custode, in qualità di amministratore, è legittimato a proporre l'istanza per la dichiarazione di fallimento in proprio.

Invece Sez. 6-1, n. 23461, in corso di massimazione, est. Ragonesi, ha statuito che il sequestro preventivo penale dei beni di una società di capitali non rende il custode giudiziario di tali beni contraddittore necessario nel procedimento per dichiarazione di fallimento, per la validità del quale è invece sufficiente la convocazione dell'amministratore della medesima società, che resta nella titolarità di tutte le funzioni non riguardanti la gestione del patrimonio; la pronuncia in rassegna ha ulteriormente rilevato, al riguardo, che la stessa dichiarazione di fallimento non comporta l'estinzione della società, ma solo la liquidazione dei beni, con conseguente legittimazione processuale dell'organo di rappresentanza a difendere gli interessi dell'ente nell'ambito della procedura fallimentare.

In tema di liquidazione del compenso del custode, Sez. 6-3, n. 10087, Rv. 630691, est. Amendola, ha ritenuto l'inammissibilità, per difetto di interesse ad agire, dell'opposizione al decreto di liquidazione del compenso in favore del custode dell'immobile pignorato ove tale provvedimento risulti non depositato in cancelleria, e, pertanto, mai venuto a giuridica esistenza.

2.5. Gli "altri" ausiliari.

Con riguardo agli "altri" ausiliari di cui all'art. 68 cod. proc. civ. (disposizione atta a ricomprendere interpreti, traduttori, stimatori, notai e, in genere, tutte le persone idonee al compimento di atti che il giudice, il cancelliere e l'ufficiale giudiziario non sono in grado di compiere da soli e dalle quali possono farsi assistere), si segnala Sez. 2, n. 18483, Rv. 632033, est. Picaroni, la quale, ribadendo un principio già precedentemente affermato, ha statuito che in tema di liquidazione del compenso spettante a consulenti tecnici, periti, interpreti e traduttori, la legge 8 luglio 1980, n. 319 ha carattere di specialità, e non è, pertanto, applicabile agli ausiliari del giudice ivi non espressamente menzionati; in applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha dunque escluso l'operatività della legge anzidetta nei confronti del commercialista incaricato della stima, ex art. 2343 cod. civ., dei conferimenti in natura apportati in occasione della trasformazione di una società.

3. Il pubblico ministero, le parti e i difensori.

La Suprema Corte ha affermato, o ribadito, importanti principî in ordine alla partecipazione al processo del pubblico ministero, alle parti e ai loro rappresentanti, ai difensori e alle loro prerogative.

3.1. La partecipazione del pubblico ministero al processo civile.

Relativamente al pubblico ministero interventore necessario: Sez. 1, n. 11223, Rv. 631252, est. Bisogni, ha escluso che la tardiva formulazione delle sue conclusioni, fuori udienza e senza che le parti abbiano potute conoscerle, determini violazione del contraddittorio, atteso che, ai fini della validità del procedimento, non è necessaria né la presenza alle udienze né la formulazione delle conclusioni da parte di un rappresentante dell'ufficio del pubblico ministero, che deve semplicemente essere informato, mediante l'invio degli atti, e posto in condizione di sviluppare l'attività ritenuta opportuna; Sez. 3, n. 22232, Rv. 632972, est. Stalla, ha ribadito che in tema di querela di falso (processo nel quale l'intervento del pubblico ministero è obbligatorio ex art. 221, terzo comma, cod. proc. civ.) è necessario che la pendenza del giudizio di appello (a pena di nullità dello stesso e della relativa sentenza) venga comunicata al P.M. presso il giudice ad quem - affinché sia posto in grado di intervenire - e non al P.M. presso il giudice a quo, che non è legittimato a proporre impugnazione; infine, Sez. 1, n. 16361, Rv. 632203, est. Campanile, ha chiarito che la nullità derivante dall'omessa partecipazione del pubblico ministero ai procedimenti in cui sia previsto il suo intervento obbligatorio (nella specie, giudizio di delibazione di un provvedimento di un'autorità straniera ex art. 796, terzo comma, cod. proc. civ., vigente ratione temporis) si converte in motivo di gravame ai sensi degli artt. 158 e 161 cod. proc. civ., il quale, peraltro, può essere fatto valere solo dalla parte pubblica, non potendosi riconoscere una concorrente legittimazione anche alle parti private.

Relativamente al pubblico ministero interventore facoltativo: Sez. 6-2, n. 1089, Rv. 629096, est. Petitti, e Sez. 6-3, n. 6152, Rv. 630562, est. Vivaldi, hanno chiarito che, per effetto delle modifiche introdotte dagli artt. 75 e 81 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito in legge 9 agosto 2013, n. 98, la partecipazione del P.M. alle udienze che si tengono presso la sesta sezione della Suprema Corte non è più obbligatoria, salva la perdurante sua facoltà di intervenirvi, ai sensi dell'art. 70, terzo comma, cod. proc. civ., ove ravvisi un pubblico interesse.

Relativamente ai poteri del pubblico ministero nel processo civile, Sez. 1, n. 487, Rv. 629800, est. Campanile, ha ricordato che il potere di impugnazione del pubblico ministero ha carattere eccezionale ed è esercitabile solo nei casi previsti dalla legge e non anche in ogni caso in cui egli sia dotato della (sola) legittimazione ad intervenire (nella fattispecie, relativa ad un giudizio di disconoscimento della paternità, la Suprema Corte ha riconosciuto al P.M. la legittimazione ad intervenire, a pena di nullità, ai sensi dell'art. 70, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., trattandosi di controversia in materia di stato, ma ha escluso che sussistesse anche la legittimazione a proporrre impugnazione).

3.2. Le parti.

Numerose e rilevanti le pronunce in tema di capacità processuale, di rappresentanza processuale (legale e volontaria) e di curatela speciale per la rappresentanza processuale provvisoria.

3.2.a. Capacità processuale.

In tema si segnalano pronunce sulla fattispecie generale della sopravvenuta perdita della capacità di stare in giudizio e su quella particolare della perdita della capacità processuale in seguito a dichiarazione di fallimento.

Relativamente alla fattispecie generale, Sez. U, n. 15295, Rv. 631467, est. Spirito, risolvendo il precedente conflitto interpretativo, ha statuito che la morte o la perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, dallo stesso non dichiarate in udienza o notificate alle altre parti, comportano, giusta la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, che: a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, ex art. 285 cod. proc. civ., è idonea a far decorrere il termine per l'impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale di quella divenuta incapace; b) il medesimo procuratore, qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione - ad eccezione del ricorso per cassazione, per cui è richiesta la procura speciale - in rappresentanza della parte che, deceduta o divenuta incapace, va considerata, nell'ambito del processo, tuttora in vita e capace; c) è ammissibile la notificazione dell'impugnazione presso di lui, ai sensi dell'art. 330, primo comma, cod. proc. civ., senza che rilevi la conoscenza aliunde di uno degli eventi previsti dall'art. 299 cod. proc. civ. da parte del notificante.

Con riguardo alla sopravvenuta perdita della capacità di stare in giudizio a seguito di estinzione della persona giuridica, Sez. 5, n. 21188, Rv. 632893, est. Tricomi, ha statuito - in contrasto con quanto affermato da Sez. 6-5, n. 28187 del 2013, Rv. 629566, est. Bognanni, ma conformemente a quanto ritenuto da Sez. 5, n. 22863 del 2011, Rv. 619700, est. Terrusi - che la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese determina l'estinzione dell'ente e, quindi, la cessazione della sua capacità processuale, il cui difetto originario è rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità e comporta, in quest'ultimo caso, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per cassazione: in applicazione di tale principio, la pronuncia in rassegna ha cassato senza rinvio la sentenza con cui il giudice di merito aveva accolto l'impugnazione proposta dal liquidatore della società estinta nei confronti di avvisi di accertamento notificati successivamente alla cancellazione della società dal registro delle imprese e relativi a tributi sorti in epoca anteriore.

Relativamente alla fattispecie particolare della perdita della capacità processuale in seguito a dichiarazione di fallimento, Sez. 3, n. 2608, Rv. 629853, est. Rossetti, ha ricordato che la perdita della capacità processuale del fallito nel periodo compreso tra la dichiarazione di fallimento e la chiusura della procedura non è assoluta, ma relativa, con la conseguenza che il creditore può convenire in giudizio il fallito personalmente, per chiedere nei suoi confronti la condanna al pagamento di un credito estraneo alla procedura fallimentare, da far valere subordinatamente al ritorno in bonis del convenuto.

Di tale principio ha fatto applicazione anche Sez. 6-1, n. 6248, Rv. 629870, est. Ragonesi, la quale, proprio sul presupposto del carattere relativo della perdita della capacità processuale derivante dalla dichiarazione di fallimento, ha statuito che in tema di condono fiscale, e con riferimento alla chiusura delle liti fiscali pendenti prevista dall'art. 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, legittimato a proporre istanza di definizione agevolata, a seguito del fallimento del contribuente, deve essere considerato, in caso d'inerzia del curatore, anche il fallito, il quale non è privato, per effetto della dichiarazione di fallimento, della qualità di soggetto passivo del rapporto tributario.

3.2.b. Rappresentanza processuale legale e organica.

Si segnalano pronunce sulla rappresentanza processuale delle persone giuridiche e degli enti.

In tema di rappresentanza processuale di enti pubblici, Sez. 1, n. 14459, Rv. 631391, est. Giancola, ha ribadito che l'autorizzazione a stare in giudizio è condizione di efficacia e non requisito di validità della costituzione in giudizio dell'ente e può, quindi, intervenire anche in corso di causa, sanando retroattivamente le irregolarità inficianti la precedente fase del procedimento stesso, salvo che sul punto sia intervenuto il giudicato.

In tema di rappresentanza processuale delle persone giuridiche, Sez. 3, n. 20563, Rv. 632726, est. Frasca, ha dato continuità all'orientamento secondo il quale colui che conferisce la procura alle liti ha l'obbligo di indicare la fonte del proprio potere rappresentativo e, ove tale potere derivi da un atto soggetto a pubblicità legale, la controparte che lo contesti è tenuta a provare l'irregolarità dell'atto di conferimento, mentre, in caso contrario, spetta a chi ha rilasciato la procura dimostrare la validità e l'efficacia del proprio operato.

Sullo stesso tema, inoltre, Sez. 6-2, n. 19710, Rv. 633032, est. Giusti, ha ribadito che la procura alle liti rilasciata da persona chiaramente identificabile, che abbia dichiarato la propria qualità di legale rappresentante dell'ente costituito in giudizio, è valida, incombendo su chi nega tale qualità l'onere di fornire la prova contraria.

3.2.c. Rappresentanza processuale volontaria.

Resta fermo il principio - definitivamente affermato da Sez. U, n. 24179 del 2009, Rv. 610170, est. Goldoni - secondo il quale, ai sensi dell'art. 77 cod. proc. civ., il potere rappresentativo processuale può essere validamente attribuito (con procura conferita espressamente per iscritto) soltanto al soggetto che sia investito di un potere rappresentativo anche sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, con la conseguenza che il difetto di tale potere sostanziale si pone come causa di esclusione anche della legitimatio ad processum del rappresentante, il cui accertamento può essere compiuto in ogni stato e grado del giudizio e quindi anche in sede di legittimità con il solo limite del giudicato sul punto.

Si è posta peraltro la questione - sulla quale si è delineato un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni - se "la formazione del giudicato sul punto" debba derivare dall'affermazione espressa del giudice circa la sussistenza del potere rappresentativo in chi agisce in giudizio in nome altrui (giudicato esplicito) o possa desumersi anche implicitamente dall'avvenuta decisione nel merito della causa (giudicato implicito).

Su tale questione, Sez. 2, n. 25353, est. Bucciante, ha da ultimo rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

La tematica della rappresentanza processuale volontaria è stata variamente affrontata nel corso dell'anno anche con riferimento a specifiche fattispecie.

In tema di comunione, Sez. 2, n. 4209, Rv. 629623, est. Carrato, ha ribadito che l'amministratore della comunione non può agire in giudizio in rappresentanza dei partecipanti contro uno dei comunisti, se tale potere non gli sia stato attribuito nella delega di cui al secondo comma dell'art. 1106 cod. civ., non essendo applicabile analogicamente - per la presenza della disposizione citata, che prevede la determinazione dei poteri delegati - la regola contenuta nel primo comma dell'art. 1131 cod. civ., la quale attribuisce all'amministratore del condominio il potere di agire in giudizio sia contro i condomini che contro terzi.

In tema di condominio negli edifici, Sez. 2, n. 4366, Rv. 629598, est. Falaschi, ha ritenuto valida la deliberazione assembleare che autorizza genericamente l'amministratore a "coltivare" la lite con un determinato difensore, essendo rimessa a quest'ultimo la scelta tecnica di modulare le difese, limitandosi a resistere all'altrui ricorso per cassazione ovvero proponendo ricorso incidentale.

In tema di condanna alle spese processuali, Sez. 3, n. 10332, Rv. 630895, est. Cirillo, ha ricordato che, mentre non è ammissibile la condanna dei difensori (che non assumono la qualità di parti), è invece ammissibile quella di colui che abbia agito quale rappresentante processuale di un altro soggetto pur senza essere investito del relativo potere.

3.2.d. Curatore speciale.

Con riguardo al curatore speciale con legittimazione processuale provvisoria nominato nei casi di mancanza del (o di conflitto di interessi col) rappresentante (art. 78 cod. proc. civ.), la Suprema Corte, con un'unica pronuncia, ha affermato, da un lato (Sez. 3, n. 19149, Rv. 633008, est. Rossetti), che la nomina ha efficacia ex tunc (sicché, ove intervenga in appello o dopo lo spirare del termine per appellare, lascia inalterati gli effetti del gravame tempestivamente proposto dal rappresentante dell'appellante in conflitto d'interessi) e, dall'altro lato (Sez. 3, n. 19149, Rv. 633007, est. Rossetti), che il conflitto di interessi fra rappresentante e rappresentato può legittimare la controparte che vi abbia interesse a chiedere la nomina del curatore speciale, ai sensi dell'art. 79 cod. proc. civ., ma non anche a sollevare questione di invalidità della costituzione in giudizio del rappresentante, in quanto l'interesse tutelato dall'art. 78, secondo comma, cod. proc. civ., è esclusivamente quello della parte rappresentata e non quello delle altre parti.

Con specifico riferimento all'azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o maternità, Sez. 1, n. 19790, Rv. 632179, est. Acierno, ha statuito che il curatore speciale, previsto dall'art. 276 cod. civ., come modificato dall'art. 1, comma 5, della legge 10 dicembre 2012, n. 219 (di riforma della disciplina della filiazione), è parte necessaria del relativo giudizio, sicché, ove ne sia stata omessa la nomina, la causa va rimessa al giudice di primo grado, cui compete in via esclusiva la designazione.

3.3. I difensori.

Rilevanti pronunce sono tornate sul contenuto e i limiti dello ius postulandi, sulla procura alle liti e sulla revoca e rinuncia alla stessa.

3.3.a. Ius postulandi.

La classica distinzione tra atti di carattere processuale o difensivo (attinenti rispettivamente al "ministero" o all' "assistenza" del difensore, ai sensi degli artt. 84 e 87 cod. proc. civ.) e atti di carattere sostanziale che importano disposizione del diritto in contesa (il cui compimento compete esclusivamente alla parte, salvo che il difensore abbia ricevuto mandato speciale) sembra emergere da Sez. 6-1, n. 12135, Rv. 631367, est. Cristiano, la quale ha ribadito che le argomentazioni del difensore contenute in uno scritto difensivo, dirette e finalizzate unicamente al conseguimento di un determinato risultato processuale, non possono essere attribuite in via diretta alla parte rappresentata né interpretate come manifestazione di volontà della stessa di disporre del diritto sostanziale o processuale in contesa, rinunciando a farlo valere, posto che per lo svolgimento di un'attività difensiva di tale contenuto occorre un mandato speciale.

La carenza di abilitazione, in capo al difensore officiato per il processo, comporta la nullità - rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento - dell'intero giudizio, riguardando la violazione di norme di ordine pubblico, attinenti alla regolare costituzione del rapporto processuale (in tal senso, Sez. 3, n. 26898, in corso di massimazione, est. Lanzillo, con riferimento ad una fattispecie in cui la difesa della parte convenuta in una causa di risarcimento dei danni di ammontare indeterminato, era stata indebitamente assunta da un praticante avvocato, abilitato al patrocinio nelle cause già di competenza pretorile, dunque di valore non superiore ad un importo pari a cinquanta milioni di lire).

3.3.b. Procura alle liti.

Con riguardo all'efficacia della procura speciale (ad litem) è stato ribadito l'orientamento secondo il quale la formula "in ogni stato e grado della causa" o "in ogni fase, stato e grado del giudizio", contenuta nell'atto, costituisce valida espressione della volontà di non limitare il conferimento ad un determinato grado del processo, ai sensi dell'art.83, ultimo comma, cod. proc. civ..

Costituiscono espressione di tale consolidato indirizzo sia Sez. 3, n. 11536, Rv. 630995, est. Barreca (la quale ha ribadito che la procura conferita al difensore dall'amministratore di una società di capitali "per ogni stato e grado della causa", è valida anche per il giudizio di appello e resta tale anche se l'amministratore, dopo il rilascio del mandato e prima della proposizione dell'impugnazione, sia cessato dalla carica) sia Sez. 6-1, n. 4421, Rv. 630056, est. Acierno, (secondo la quale la procura al difensore rilasciata a margine o in calce al ricorso per decreto ingiuntivo ed estesa ad "ogni fase, stato e grado del giudizio" abilita lo stesso al patrocinio non solo nella fase monitoria, ma anche nell'eventuale procedimento speciale volto ad inficiare l'efficacia del decreto medesimo ex art. 644 cod. proc. civ. e 188 disp. att. cod. proc. civ.).

Sempre con riguardo alla procura speciale, ma con specifico riferimento al giudizio di cassazione, Sez. 3, n. 18323, Rv. 632092, est. Frasca, è tornata ad affermare che il nuovo testo dell'art. 83 cod. proc. civ. secondo il quale la procura speciale può essere apposta a margine od in calce anche di atti diversi dal ricorso o dal controricorso, si applica esclusivamente ai giudizi instaurati in primo grado dopo la data di entrata in vigore dell'art. 45 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (ovvero, il 4 luglio 2009), mentre per i procedimenti instaurati anteriormente a tale data, se la procura non viene rilasciata a margine od in calce al ricorso e al controricorso, si deve provvedere al suo conferimento mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, come previsto dall'art. 83, secondo comma, cod. proc. civ..

Per quanto concerne le conseguenze della procura speciale inesistente o invalida, le problematiche relative si sono attenuate in seguito alla modifica dell'art. 182, secondo comma, cod. proc. civ. operata dall'art. 46 della legge n. 69 del 2009.

Tuttavia, anche senza considerare tale intervento normativo - e facendo anzi applicazione, in fattispecie soggette ratione temporis al diritto previgente, del primo comma dell'art. 182 cod. proc. civ. (non interessato dalla modifica) - la Suprema Corte ha per due volte affermato (Sez. 3, n. 11359, Rv. 630811, est. Barreca e Sez. 3, n. 19169, Rv. 633003, stesso estensore) il principio secondo il quale il giudice che rilevi l'omesso deposito della procura speciale alle liti, enunciata ma non rinvenuta negli atti della parte, è tenuto ad invitare quest'ultima a produrre l'atto mancante, precisando altresì che tale invito può essere rivolto in qualsiasi momento, anche in sede di appello, e solo se infruttuoso il giudice deve dichiarare invalida la costituzione della parte in giudizio.

Tali pronunce, deve aggiungersi, sono particolarmente rilevanti, in quanto si pongono in consapevole contrasto con l'opposto indirizzo sposato in passato dalla stessa Suprema Corte (Sez. 5, n. 28942 del 2008, Rv. 606012, est. Papa).

3.3.c. Revoca e rinuncia alla procura.

A differenza del conferimento della procura che deve avvenire per iscritto, con atto pubblico o scrittura privata autenticata (art. 83, secondo comma. cod. proc. civ.), la revoca della stessa può avvenire anche per facta concludentia.

In tal senso si è pronunciata Sez. 6-3, n. 19331, Rv. 632021, est. Amendola, la quale ha ritenuto che un siffatto comportamento concludente ricorra nell'ipotesi in cui la parte, che abbia la qualità necessaria per esercitare l'ufficio di difensore, decida di costituirsi in giudizio personalmente, nonostante abbia in precedenza conferito mandato alle liti ad altro difensore.

Dalla revoca della procura deve tenersi distinto il caso della sostituzione del difensore per la singola udienza, da operarsi con delega professionale redatta e sottoscritta dallo stesso difensore sostituito, il quale designa il suo sostituto.

Al riguardo, Sez. 1, n. 21840, Rv. 632990, est. Mercolino, ha statuito che la nullità della delega professionale priva di forma scritta può essere rilevata d'ufficio dal giudice o eccepita dalla controparte soltanto prima del compimento dell'atto demandato al sostituto, mentre, successivamente ad esso, può essere dedotta solo dalla parte nel cui interesse è previsto il requisito di forma, ossia da quella il cui procuratore sia stato irregolarmente sostituito.

3.4. Le spese processuali.

Con riguardo alla soccombenza, quale criterio per la ripartizione del carico delle spese processuali (art. 91 cod. proc. civ.), è stata data continuità all'orientamento secondo cui essa deve essere stabilita in base ad un criterio unitario e globale: in tal senso si sono pronunciate sia Sez. 6-L, n. 6259, Rv. 629993, est. Mammone (che ha reputato violato il principio di cui all'art. 91 cod. proc. civ. dal giudice di merito che aveva ritenuto la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado) sia Sez. 6-2, n. 18503, Rv. 632108, est. Manna, secondo cui il criterio della soccombenza deve essere riferito alla causa nel suo insieme, con particolare riferimento all'esito finale della lite, sicché è totalmente vittoriosa la parte nei cui confronti la domanda avversaria sia stata totalmente respinta, a nulla rilevando che siano state disattese eccezioni di carattere processuale o anche di merito.

Con riguardo alla soccombenza reciproca, quale primo presupposto per la compensazione, totale o parziale, delle spese (art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.), Sez. 2, n. 2149, Rv. 629389, est. Manna, ha ribadito che la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un'esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente.

Con riguardo alle "altre gravi ed eccezionali ragioni" (espressione con la quale quale l'art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. - prima della recente modifica operata con d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n.162 - individuava il secondo presupposto della compensazione delle spese), è stato escluso che esse ricorrano per effetto della "natura processuale della pronuncia" (Sez. 6-1, n. 16037, Rv. 631930, est. Acierno), che possano identificarsi nella "peculiare natura" della declaratoria di improcedibilità dell'appello (Sez. 6-3, n. 24634, in corso di massimazione, est. De Stefano) e che possano ravvisarsi nell'oggettiva "opinabilità della soluzione accolta" (Sez. 6-5, n. 319 Rv. 629101, est. Caracciolo).

Relativamente alla liquidazione delle spese, Sez. 6-3, n. 23522, in corso di massimazione, est. De Stefano, ha escluso che il decreto di liquidazione del compenso del c.t.u. posto a carico di entrambe le parti sia implicitamente assorbito dalla regolamentazione delle spese di lite ex art. 91 cod. proc. civ., in quanto quest'ultima attiene al diverso rapporto tra parte vittoriosa e soccombente sicché, ove non sia espressamente modificato dalla sentenza in sede di regolamento delle spese di lite, resta fermo e vincolante anche nei confronti della parte vittoriosa, salvi i rapporti interni tra la medesima e la parte soccombente.

Deve, inoltre, segnalarsi un contrasto di giurisprudenza con riferimento allla fattispecie di omessa liquidazione delle spese nel dispositivo della sentenza nonostante la presenza di una corretta statuizione sulle stesse nella parte motiva: al riguardo, mentre Sez. 2, n. 16959, Rv. 631818, est. Petitti, ha ritenuto che l'omissione sia emendabile con la procedura di correzione di errore materiale (sempre che l'omissione non evidenzi un contrasto tra motivazione e dispositivo, ma solo una dimenticanza dell'estensore), hanno invece negato l'esperibilità del rimedio sia Sez. 6-3, n. 17221, in corso di massimazione, est. Rossetti sia Sez. 1, n. 21109, Rv. 632724, est. Giancola, sul presupposto che, ai fini della concreta determinazione e quantificazione delle spese, si renda necessaria la pronuncia del giudice.

In tema di responsabilità processuale aggravata, Sez. 6-3, n. 24546, in corso di massimazione, est. Barreca, ha statuito che nel giudizio di appello costituisce colpa grave e giustifica la condanna della parte ai sensi dell'art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., il fatto che questa abbia insistito colpevolmente in tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero in censure della sentenza impugnata la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata in modo da evitare il gravame.

Sempre con riguardo alla condanna ex art. 96, terzo comma, cod. proc. civ. (che, come è noto, è stato aggiunto dall'art. 45 della legge n. 69 del 2009), Sez. 6-2, n. 3003, Rv. 629613, est. Proto, ha affermato che trattasi di misura sanzionatoria e officiosa, sicché essa presuppone bensì la mala fede o colpa grave della parte soccombente, ma non corrisponde a un diritto di azione della parte vittoriosa.

4. Interesse e legittimazione.

4.1. L'interesse con riguardo alla domanda.

In generale sull'argomento, Sez. L, n. 13485, Rv. 631328, est. Buffa, rammenta che l'interesse ad agire va valutato esaminando la domanda in astratto, è stimandone la compatibilità con il provvedimento giudiziario richiesto, senza indulgere in prognosi di merito sull'accoglibilità dell'istanza di tutela.

La casistica è quanto mai varia.

In tema di espropriazione per pubblica utilità Sez. 1, n. 11504, Rv. 631420, est. Lamorgese, afferma, in particolare, la sussistenza di una legittimazione ad agire immediata del proprietario per chiedere il pagamento dell'indennità di occupazione, anche in assenza di decreto di esproprio e di definizione della detta indennità in via amministrativa.

In tema di brevetti per invenzioni industriali, Sez. 1, n. 15350, Rv. 631817, est. Ragonesi, afferma che la legittimazione ad agire, in ipotesi di contraffazione del brevetto, spetta non solo al licenziatario in esclusiva ma anche, in coerenza con la normativa comunitaria di riferimento, al distributore dei beni brevettati, in quanto portatore di un interesse economico alla tutela dei prodotti distribuiti.

Si è poi ritenuta - Sez. 1, n. 3885, Rv. 630330, est. Ragonesi - la legittimazione di un imprenditore ad agire con una domanda di accertamento negativo della propria attività di presunta contraffazione.

Di interesse, poi, è la posizione di Sez. 3, n. 25841, in corso di massimazione, est. Rossetti, secondo la quale, in caso di domanda di condanna al pagamento di somme di denaro, sussiste l'interesse ad agire del creditore non munito di titolo esecutivo anche a prescindere dall'atteggiamento, antagonistico o meno, assunto dal debitore in tema di sussistenza del credito vantato.

Con riguardo alla relazione tra capacità e interesse ad agire, Sez. 6-1, ord. n. 13929, Rv. 631513, est. Dogliotti ricorda che, in ipotesi di persona che abbia perduto la propria capacità ad di agire, sussiste un vero e proprio obbligo per il giudice di intervenire a nominare un rappresentante dell'incapace che, in caso contrario, rimarrebbe privato della possibilità di tutelare i propri diritti.

È stata, invece, rilevata - Sez. 1, n. 9996, Rv. 631079, est. Nazzicone - la carenza di interesse ad agire del cliente della banca che intenda far valere la nullità di un contratto di borsa per carenza di forma scritta, essendo comunque tenuto al rimborso del capitale anticipato dell'istituto di credito e potendo solo contestare la misura degli interessi applicati.

Infine Sez. 6-3, ord. n.10087, Rv. 630691, est. Amendola, ha ribadito il principio generale che il provvedimento giudiziario viene ad esistenza solo con il deposito in cancelleria e che, pertanto, prima di tale momento non sussiste l'interesse ad agire per contestarne la legittimità.

4.2. L'interesse con riguardo alla impugnazione.

In generale sull'interesse a impugnare, Sez. L, n. 16016, Rv. 632248, est. Patti, ricorda che, dovendosi stimare sulla base dell'utilità concreta perseguita dalla parte, l'interesse non sussiste ogniqualvolta la domanda della controparte sia stata respinta, a nulla valendo che in ipotesi di nullità se ne potrebbe avere una riproposizione, evento giudicato meramente eventuale e come tale non apprezzabile ai fini della sussistenza di un interesse a proporre il gravame. In applicazione dello stesso principio, Sez. 6-3, n. 25712, Rv. 633763, est. Barreca, ha ritenuto inammissibile l'impugnazione fondata sulla sola aspettativa della modifica della statuizione sulle spese, in assenza di autonoma domanda sul punto.

In tema di ricorso in cassazione, Sez. 6-5, n. 15583, Rv. 631682, est. Bognanni, ricorda che è onere della parte ricorrente impugnare la decisione gravata solo in relazione ai motivi su cui essa si basa, non essendovi invece alcun onere di impugnazione specifica dei motivi dichiarati assorbiti sui quali, non essendovi pronuncia espressa, non si può formare alcun giudicato interno.

Per Sez. L, n. 21652, Rv. 632653, est. Doronzo, è privo di interesse il ricorso incidentale in cassazione, in ipotesi di reiezione del ricorso principale proposto avverso sentenza di rigetto nel merito della domanda originariamente proposta.

La Corte ha poi confermato - Sez. 6-3, n. 15676, Rv. 632279, est. Amendola - che è onere del ricorrente in cassazione dedurre e motivare il proprio interesse all'impugnazione, in difetto di ché quest'ultima va dichiarata inammissibile (fattispecie nella quale la doglianza afferiva la forma del provvedimento declinatorio della competenza).

Sulla questione della funzione del pubblico ministero nel giudizio di cassazione Sez. 1, n. 11211, Rv. 631263, est. Campanile, ricorda che l'omessa notificazione del ricorso al Procuratore generale presso la corte di appello non comporta la necessità dell'integrazione del contraddittorio nella fase di legittimità, atteso che questa è riservata alle parti sostanziali del processo, mentre l'interesse pubblico, anche nei casi di intervento obbligatorio, è garantito dall'intervento del Procuratore generale presso la Corte di cassazione.

Sez. L, n. 14609, Rv. 631635, est. Napoletano, giudica invece ammissibile l'impugnazione incidentale tardiva relativamente a qualsiasi capo della sentenza gravata, anche se non si tratti di capo autonomo e persino se la controparte abbia fatto acquiescenza, poiché l'unica conseguenza espressamente prevista a cagione della tardività è la perdita di efficacia del gravame incidentale in caso di declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione principale.

Nel giudizio di appello Sez. L, n. 14167, Rv. 631343, est. Bandini, valuta ammissibile l'impugnazione limitata ai soli capi di sentenza inerenti questioni di rito qualora il loro accoglimento determini la rimessione della causa al primo giudice, affermando che in tutti gli altri casi è onere della parte impugnante dedurre a pena di inammissibilità anche le censure relative ai capi di merito, mentre, secondo Sez. 3, n. 25848, in corso di massimazione, est. Rossetti, sussiste l'interesse a proporre appello incidentale autonomo nell'ipotesi in cui il danneggiante abbia proposto appello principale chiedendo la liquidazione di un maggior risarcimento, sul presupposto che tale domanda abbia per effetto un ipotetico rischio di incapienza del massimale assicurato.

Ulteriore affermazioni sono state effettuate con riguardo a specifici ambiti.

In materia di arbitrato, Sez. 1, n. 20371, Rv. 632165, est. Campanile, giudica priva di interesse a impugnare la parte che non abbia accettato il lodo nella parte relativa alla liquidazione degli onorari degli arbitri e degli ausiliari, stante la natura di mera proposta contrattuale che, se non accettata, non diviene pertanto vincolante e come tale impugnabile.

In materia di assicurazione obbligatoria dei veicoli, Sez. 3, n. 3621, Rv. 630355, est. Lanzillo, giudica l'assicurato legittimato a impugnare la sentenza di condanna del proprio assicuratore, anche se sia rimasto contumace in primo grado e anche se non abbia espressamente formulato domanda di manleva, rinvenendo la fonte della legittimazione a proporre il gravame nell'inscindibilità delle due posizioni prevista dalla legge.

4.3. Legittimazione.

Sez. 3, n. 11250, Rv. 630996, est. Scarano, rileva che in caso di morte di una parte costituita la legittimazione processuale si trasmette a ciascuno degli eredi, sicché deve considerarsi affetta da nullità - rilevabile ex actis anche nel giudizio di cassazione - la sentenza pronunciata a contradditorio non integro.

Il principio è stato ribadito anche da Sez. 1, n. 6296, Rv. 630505, est. Di Virgilio.

5. Pluralità di parti.

5.1. Litisconsorzio necessario.

La Corte, con ordinanza interlocutoria pronunciata da Sez. U, n. 7179, Rv. 630349, est. Petitti, affermata la sussistenza di un litisconsorzio necessario di tutte le parti del processo nel giudizio per regolamento di giurisdizione, giudica sufficiente la notificazione al pretermesso del solo controricorso, valutato idoneo alla denuntiatio litis al pari del ricorso principale.

Sempre in tema di litisconsorzio processuale, Sez. 3, n. 10243, Rv. 631429, est. Frasca, ha precisato che la natura necessaria della pluralità di parti viene meno qualora in sede di gravame l'originario attore - che abbia proposto una domanda alternativa - impugni la sentenza solo nei confronti di uno dei due originari convenuti, così mostrando di voler implicitamente rinunciare all'unitarietà del processo.

Per Sez. L, n. 18853, Rv. 632373, est. Arienzo, avverte che si ha litisconsorzio necessario processuale nel giudizio di rinvio tra tutti le parti del giudizio di legittimità nei cui confronti è stata emessa la pronuncia di annullamento della precedente sentenza.

In materia di giudizio di rinvio Sez. 1, n. 10282, Rv. 631260, est. Acierno, stabilisce che, nell'ipotesi in cui in sede di giudizio di rinvio il litisconsorzio processuale non venga rispettato, l'appello deve essere dichiarato inammissibile ai sensi dell'art. 331 cod. proc. civ., non trovando applicazione l'art. 339 cod. proc. civ. che si riferisce ad ipotesi di estinzione per altre cause del giudizio di rinvio.

In tema di simulazione contrattuale, Sez. 1, n. 8957, Rv. 631125, est. Mercolino ribadisce l'orientamento consolidato secondo cui sussiste litisconsorzio necessario tra tutti i partecipanti all'accordo (cfr. n. 22054 del 2004; n. 10151 del 2004, n. 10151; n. 3425 del 1998). Affermazione che non collide con quanto insegnato da Sez. U, n. 11523 del 2013, Rv. 626187, secondo cui la necessità del litisconsorzio viene meno solo nella peculiare ipotesi in cui, trattandosi di interposizione fittizia di persona, non si possa identificare un rapporto trilaterale e pertanto si possa ritenere irrilevante per l'interponente la partecipazione al giudizio, essendo la propria posizione sostanziale e processuale già garantita dalla presenza dell'interposto.

In materia contrattuale, Sez. 2, n. 9618, Rv. 630622, est. Picaroni, ricorda che nel giudizio di simulazione avente per oggetto il prezzo della compravendita sussiste litisconsorzio necessario tra tutti gli acquirenti, se è dedotto l'inadempimento dell'obbligazione di pagamento.

Invece, in ipotesi di pluralità di compravendite riunite in un unico atto notarile, Sez. 1, n. 20294, Rv. 632292, est. Mercolino, valuta sussistere la necessità del litisconsorzio solo ove si chieda l'invalidazione del trasferimento di beni indivisi tra gli acquirenti, diversamente dovendosi escludere l'inscindibilità della domanda ove questa abbia per oggetto uno o più beni autonomamente acquistati nell'unico atto pubblico.

In tema di responsabilità medica Sez. 3, n. 8413, Rv. 630183, est. Vivaldi, giudica solidale, e come tale non generante litisconsorzio necessario, la responsabilità di una casa di cura e del sanitario operante presso di essa per i danni arrecati a un paziente a seguito di un intervento chirurgico.

In tema di responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli, Sez. 6-3, ord. n. 9112, Rv. 630682, est. De Stefano, valuta sussistere la necessità del litisconsorzio in fase di appello proposto dall'assicuratore nei confronti dell'assicurato, poiché anche quest'ultimo è interessato alla definizione del giudizio, potendo comunque essere convenuto dall'assicuratore in sede di giudizio di rivalsa.

Nell'ambito di diritti personali Sez. 6-1, ord. n. 17032, Rv. 632065, est. Acierno, ritiene che dal momento che nella procedura per l'istituzione dell'amministrazione di sostegno l'unica parte che può dirsi necessaria è il beneficiario dell'amministrazione, non sussiste litisconsorzio necessario con il p.m., la cui pretermissione non determina pertanto alcuna nullità del giudizio.

Nel giudizio tributario, Sez. 6-5, n. 16813, Rv. 631922, est. Perrino, ritiene non sussistere litisconsorzio necessario tra il soggetto incaricato del servizio di riscossione delle imposte, in quanto mero destinatario del pagamento, e l'Agenzia delle entrate, unica controparte sostanziale del contribuente. Sez. 5, n. 20928, Rv. 632514, est. Olivieri, nega la sussistenza di un litisconsorzio necessario tra i soggetti cui è addebitata l'emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, atteso che le fattispecie tributarie che originano le distinte pretese sono diverse e non riconducibili ad un medesimo fatto generatore d'imposta. Sempre Sez. 6-5, n. 25719, Rv. 633571, est. Iacobellis, evidenzia che in ipotesi di litisconsorzio necessario, sostanziale o processuale, la mancata integrazione del contraddittorio in appello determina la nullità dell'intero procedimento di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso, rilevabile d'ufficio in fase di legittimità.

Resta peraltro ferma la validità dell'instaurazione del contraddittorio effettuata con la notificazione dell'atto processuale nei confronti di uno solo dei litisconsorti necessari, poiché, in tal caso, è necessaria la sola integrazione nei confronti di quelli pretermessi (Sez. 3, n. 26902, in corso di massimazione, est. D'Amico).

5.2. Litisconsorzio facoltativo.

La Corte, con Sez. 2, n. 15539, Rv. 631695, est. Proto, dalla scindibilità delle posizioni delle parti nel litisconsorzio facoltativo, fa derivare l'affermazione della possibile estinzione parziale del processo nei confronti di quelle sole che non siano state correttamente evocate nel corso del giudizio. Sez. 6-1, ordinanza n. 23117, Rv. 632700, est. Ragonesi ha ravvisato la facoltatività del litisconsorzio in ipotesi di azione sociale di responsabilità proposta cumulativamente nei confronti di una pluralità di convenuti, attesa la natura solidale dell'obbligazione risarcitoria derivante dall'art. 2393 cod. civ.

5.3. Interventi.

Con riguardo all'interesse ad intervenire in giudizio, Sez. 1, n. 364, Rv. 629158, est. Lamorgese, richiede l'allegazione da parte del terzo interveniente di una lesione ad un proprio interesse giuridico, non meramente fattuale.

Va segnalata, poi, in tema di procedimento di dichiarazione dello stato di adottabilità, Sez. 1, n. 11221, Rv. 631256, est. Bisogni, secondo la quale l'affidatario è titolare di un mero interesse a non vedere pregiudicata la propria aspettativa all'adozione e non di un vero e proprio diritto e, pertanto, non è legittimato a impugnare autonomamente la relativa pronuncia, potendo spiegare nel giudizio solo un intervento adesivo dipendente.

Di interesse anche Sez. 3, n. 11681, Rv. 630954, est. Stalla, che pone in evidenza che il divieto per il terzo interveniente di compiere atti processuali già preclusi alle parti al momento dell'intervento, previsto dall'art. 268 cod. proc. civ., è di natura meramente processuale e non sostanziale, per cui l'interventore ben può proporre domande nuove ed autonome rispetto a quelle già proposte dalle parti originarie.

5.4. Successione di parti.

La Corte, Sez. 2, n. 15107, Rv. 631699, est. Manna, muovendo dalla considerazione che il trasferimento del diritto controverso comporta la persistente legittimazione dell'alienante a partecipare al processo, giudica necessario il litisconsorzio tra le parti originarie e gli eredi di quella deceduta nel corso del giudizio.

6. I poteri e gli atti del giudice.

6.1. Le conseguenze dell'art. 111 Cost. sull'esercizio dei poteri del giudice.

Prosegue il filone interpretativo della Suprema Corte che trae origine dall'applicazione del principio di ragionevole durata del processo, di rango costituzionale e origine internazionale, che risulta espressamente indicato come ratio decidendi nelle seguenti pronunce:

In primo luogo da Sez. U, n. 9251, Rv. 630719, est. Piccialli, in tema di riparto di giurisdizione, che ha ritenuto legittimo il mutamento della domanda del ricorrente per regolamento, qualora nelle more tra il deposito del ricorso e la sua discussione il criterio di riparto originariamente esistente sia stato oggetto di un mutamento di giurisprudenza, nonché, sotto un diverso profilo, da Sez. U, n. 11021, Rv. 630706, est. Vivaldi, la quale, innovando ad un orientamento risalente, ha ritenuto che sia affetta da nullità sanabile la sentenza che sia priva di una delle due sottoscrizioni (del presidente del collegio ovvero del relatore).

In altri ambiti va ricordata Sez. 1, n. 14, Rv. 629803, est. Giancola, che ha ritenuto non necessaria la rimessione del processo in ipotesi di azione di accertamento della paternità naturale, qualora la pretermissione dei litisconsorti necessari abbia riguardato parti già costituite nel giudizio, seppur in diversa qualità.

Invece Sez. L, n. 6102, Rv. 630607, est. Tria, ha concluso per la rilevabilità officiosa del giudicato esterno anche in assenza di alcuna allegazione di parte sul punto, a condizione che dagli scritti difensivi emerga che le parti abbiano tuttavia conosciuto della pendenza dell'altro giudizio.

Va pure richiamata Sez. L, n. 7826, Rv. 630266, est. Ghinoy, secondo la quale è possibile la decisione nel merito da parte della Corte di cassazione ai sensi dell'art. 384 cod. proc. civ. nell'ipotesi in cui la sentenza di merito nella parte motiva contenga il riconoscimento di un diritto patrimonialmente rilevante, la cui quantificazione risulti peraltro meramente omessa nella parte dispositiva.

È, correlativamente, improcedibile il ricorso per cassazione proposto avverso la stessa sentenza di merito già oggetto di precedente ricorso, deciso dalla Corte senza avvedersi della pendenza del successivo e omettendo quindi di disporne la riunione (Sez. 3, n. 12038, Rv. 630994, est. Scrima).

In tema di rinnovazione della notificazione presso l'Avvocatura dello Stato affetta da nullità perché effettuata presso la sede distrettuale e non quella generale, Sez. L, n. 13972, Rv. 631594, est. Napoletano, ne ha ritenuto l'inammissibilità ove effettuata a distanza di anni dal deposito del ricorso; nella specie, peraltro, attesa la novità del nuovo orientamento la Corte ha ugualmente provveduto attesa la consapevolezza della difformità della giurisprudenza di legittimità precedentemente edita sul punto. Successivamente, peraltro, l'orientamento pregresso è stato ribadito, con l'insorgere di un consapevole contrasto (Sez. 2, n. 22079, Rv. 632870, est. Petitti).

La Corte, Sez. 3, n. 15753, Rv. 632112, est. Carleo, ha invece ritenuto ammissibile l'introduzione con l'atto di riassunzione del giudizio, a seguito di una pronuncia di incompetenza ex art. 50 cod. proc. civ., di una domanda nuova in aggiunta a quella originaria.

È stato anche ritenuto - Sez. 6-3, n. 16700, Rv. 632062, est. Amendola - ammissibile il regolamento necessario di competenza proposto avverso il provvedimento di sospensione del processo adottato dal giudice di pace, quale unico strumento a disposizione della parte per verificare in tempi ragionevoli la legittimità del provvedimento censurato.

Infine, Sez. 6-3, n. 21257, Rv. 632915, est. De Stefano, ha ritenuto ammissibile la decisione nel merito della causa, in ipotesi di rilevata omessa pronuncia da parte del giudice su una domanda comunque infondata, rispondendo tale soluzione ad un principio di economia processuale.

Sotto altro profilo va invece segnalata Sez. 3, n. 26157, in corso di massimazione, est. Vincenti, con riferimento alla necessità di dedurre espressamente la concreta lesione del diritto di difesa connessa al vizio processuale dedotto, non trovando legittimazione un interesse solo formale alla regolarità dello svolgimento dell'attività processuale.

6.2. Corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

In tema di applicazione dell'art. 112 cod. proc. civ., Sez. 3, n. 5952, Rv. 630558, est. Rossetti, onera il contraente di assicurazione della allegazione dei fatti costitutivi della spiegata domanda di nullità parziale di singole clausole, assunte come vessatorie.

Per Sez. 1, n. 6304, Rv. 630579, est. Di Amato, il giudice incorre nella violazione del principio di corrispondenza qualora esamini d'ufficio una questione contenuta nella sentenza impugnata che, pur non essendo ricompresa in un autonomo capo di sentenza e quindi non soggetta a giudicato interno, tuttavia non sia stata espressamente riproposta da una delle parti.

In materia fallimentare integra la suddetta violazione - Sez. 1, n. 12551, Rv. 631497, est. Di Amato - l'ammissione al passivo di un credito oggetto di preventiva impugnazione in via amministrativa dell'atto presupposto da parte di un organo della procedura.

Invece, per Sez. 3, n. 15223, Rv. 631733, est. Carluccio, non è lesiva del principio di corrispondenza l'attività di qualificazione della domanda compiuta dal giudice del merito che qualifichi la domanda di risarcimento del danno da immissioni comprensiva anche del non dedotto profilo indennitario connesso alla diminuzione del valore del bene conseguente all'attività dannosa.

Analogamente nel caso in cui la sentenza di merito affermi, riqualificato come autonomo il rapporto di lavoro originariamente dedotto in giudizio come subordinato, la legittimità del recesso riguardato nell'ottica della nuova qualificazione (Sez. L, n. 18284, Rv. 632324, est. Amoroso).

Va annoverata in tale percorso anche Sez. 3, n. 19865, Rv. 632433, est. Frasca, che giudica conforme al principio di corrispondenza la riqualificazione da parte del giudice del gravame delle ragioni di ammissibilità dell'atto di appello.

Interessante è Sez. 3, n. 21421, Rv. 632593, est. Carleo, secondo la quale la deduzione nel ricorso per cassazione di una erronea qualificazione della domanda, che ridondi in violazione del principio di corrispondenza (art. 112 cod. proc. civ.) o di quello di devoluzione in appello (art. 345 cod. proc. civ.) non costituisca una inammissibile giudizio di fatto, ma attenga ad un errore di diritto inerente la corretta applicazione del principio di qualificazione della domanda e delle allegazioni della parte.

Invece Sez. 1, n. 19304, Rv. 632398, est. Benini, nega la possibilità per il giudice che abbia accolto la domanda principale di decidere quella proposta dalla parte solo in via subordinata al mancato accoglimento della prima, quand'anche le due domande siano logicamente tra loro compatibili.

La Corte, con Sez. 6-3, n. 25714, Rv. 633682, est. Barreca, ha ribadito il tratto distintivo tra l'ipotesi di omessa pronuncia ex art. 112 cod. proc. civ. e di omesso esame su un punto decisivo della controversia: nel primo caso l'omissione deve riguardare una domanda o un'eccezione ritualmente formulate dalla parte, mentre nel secondo caso un fatto che, ove valutato dal giudice, avrebbe comportato una diversa decisione. Invece, con Sez. 3, n. 26896 (in corso di massimazione), est. Stalla, è stato sottolineato che integra violazione del principio di corrispondenza l'ipotesi in cui il giudice di appello, in assenza di specifica domanda della parte, si pronunci sulla domanda di accertamento della responsabilità per inadempimento dell'altra parte, omettendo di rilevare l'avvenuta cessazione della materia del contendere conseguente all'esecuzione della condanna (nella specie ad un facere specifico) contenuta nella sentenza di primo grado.

Da ultimo va rilevato che Sez. 3, n. 26908, Rv. 633936, est. Carluccio, nega la sussistenza della violazione del principio di corrispondenza ad opera della sentenza di appello che abbia parzialmente riformato d'ufficio la sentenza di primo grado, atteso l'effetto integralmente devolutivo del gravame.

6.3. Diritto o equità.

Per Sez. 1, n. 16657, Rv. 632208, est. Lamorgese, è legittimo il ricorso alla liquidazione equitativa da parte del giudice in materia di determinazione del rimborso spettante al genitore naturale per le spese sostenute per il mantenimento figlio dal momento della nascita sino alla data di proposizione della domanda giudiziale di rimborso esperita nei confronti dell'altro genitore.

È pure ammissibile - Sez. 3, n. 18352, Rv. 632613, est. Armano - la domanda di liquidazione de danno ambientale secondo equità, formulata per la prima volta in fase di appello, atteso l'espresso rinvio al criterio equitativo contenuto nell'art. 18, comma 6, della legge 8 luglio 1986, n. 349.

6.4. I poteri del giudice di direzione e di valutazione.

In tema di valutazione officiosa da parte del giudice di fatti rilevanti per il giudizio attraverso il ricorso al notorio o a massime di comune esperienza, Sez. 1, n. 1904, Rv. 629865, est. Benini, ritiene inutilizzabile il fatto notorio per stimare la variazione del valore di un immobile, trattandosi di accertamento che richiede una specifica attività tecnica.

In temini ampi, poi, Sez. 1, n. 6299, Rv. 629937, est. Lamorgese, nega la legittimità del ricorso al fatto notorio non solo in ipotesi di acquisizioni specifiche di natura tecnica, ma anche quando occorrano accertamenti che implichino cognizioni particolari o richiedano il preventivo accertamento di particolari dati, quando siano necessarie nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, anche quando questa derivi dalla pregressa trattazione di analoghe controversie.

Sul profilo, peraltro, va segnalata anche Sez. L, n. 17757, Rv. 631903, est. D'Antonio, che, in applicazione del principio "judex peritus peritorum", reputa legittima la sostituzione da parte del giudice di proprie conoscenze personali di natura tecnica a quelle poste a base di una consulenza tecnica di ufficio, onerando il giudicante solo di una adeguata e congrua motivazione sul punto.

Su questione parzialmente diversa si incentra Sez. 2, n. 20127, Rv. 632340, est. San Giorgio, che esclude il potere del giudice, in difetto dell'accordo di tutte le parti, di separare il giudizio risarcitorio pronunciando solo sull'an debeatur e rinviando al separato giudizio la determinazione del quantum.

6.5. Forma e contenuto dei provvedimenti.

Sulla questione di segnalano due filoni di pronunce rilevanti.

Il primo attiene al contenuto-forma degli atti processuali, con particolare riguardo alla motivazione dei provvedimenti da parte del giudice.

Sul punto si segnalano:

- Sez. 6-5, n. 3594, Rv. 629986, est. Di Blasi, che valuta legittima la motivazione della sentenza di appello che, pur confermando la sentenza di primo grado, adotti un diverso iter argomentativo.

- Sez. 3, n. 5243, Rv. 630077, est. Barreca, che giudica incongrua la motivazione di merito che faccia rinvio a generici parametri di riferimento per la liquidazione del danno biologico, omettendo di specificarne la provenienza e la oggettiva divulgazione.

- Sez. 6-L, n. 6162, Rv. 630464, est. Mancino, che valuta legittima la rinnovazione del potere decisorio da parte del giudice che abbia pronunciato in precedenza una sentenza affetta da giuridica inesistenza.

- Sez. 1, n. 10453, Rv. 631257, est. Di Amato, che giudica valida la sentenza contestuale emessa dal giudice ai sensi dell'art. 281-sexies cod. proc. civ. nell'ipotesi in cui alle parti sia stata consegnata in un primo momento una motivazione inesistente, successivamente integrata e corretta da parte del giudicante mediante deposito in cancelleria.

- Sez. L, n. 13733, Rv. 631334, est. Bandini, che valuta non necessaria la rimessione della causa in primo grado in ipotesi di nullità della sentenza di prime cure per mancanza di motivazione, essendo tale vizio assorbito dalla pronuncia di appello, non essendovi tutela costituzionale del doppio grado di merito.

- Sez. 1, n. 18587, Rv. 632353, est. De Chiara, che giudica non affetta da nullità derivata la sentenza di merito fondata su atto istruttorio nullo, convertendosi il motivo di nullità dell'acquisizione istruttoria in un difetto di motivazione della sentenza, deducibile in cassazione nei limiti consentiti dal novellato art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.

Il secondo riguarda proprio il consolidamento dell'interpretazione del novellato n. 5 dell'art. 360 cod. proc. civ.

Sul punto Sez. U, n. 8053, Rv. 629831, est. Botta, precisa che l'onere del ricorrente è di indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", ricordando che l'omessa indicazione di risultanze probatorie non integra il vizio di omesso esame quante volte risulti dalla motivazione che il giudicante ne abbia comunque avuto consapevolezza, pur non affrontandolo ex professo.

Prima dell'intervento delle Sezioni unite, Sez. 1, n. 5133, Rv. 629647, est. Didone, aveva avvertito che la restrizione dell'area di deducibilità del n. 5) deve intendersi nel senso di imporre al ricorrente un onere specifico di allegazione della decisività ai fini del decidere dell'esame pretesamente omesso.

La Corte, Sez. 1, n. 7983, Rv. 630720, est. Giancola, aveva ritenuto deducibile solo l'omessa motivazione e non anche quella insufficiente o contraddittoria.

Dopo l'intervento delle Sezioni unite, Sez. 6-3, n. 12928, Rv. 631150, est. De Stefano, precisa che la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia articolata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili.

Per gli ulteriori approfondimenti si rinvia al capitolo XXVIII, par. 3.

7. Comunicazioni e notificazioni.

7.1. Comunicazioni e notificazioni: disciplina.

La Suprema Corte, nel 2014, è tornata su alcuni dei principali orientamenti giurisprudenziali in materia di comunicazioni e notificazioni.

Quanto alle prime, Sez. 6-L, n. 21428, Rv. 633165, est. Pagetta, ha affermato che le comunicazioni di cancelleria sono validamente eseguite anche in forme equipollenti a quelle previste dagli artt. 136 cod. proc. civ. e 45 disp. att. cod. purché sia certa l'avvenuta consegna e la precisa individuazione del destinatario. È legittima, pertanto, la prassi del "visto per presa visione" apposto dal procuratore sull'originale del biglietto di cancelleria predisposto per la comunicazione o sul provvedimento del giudice di fissazione dell'udienza di discussione.

Quanto alla disciplina della notificazione, è stato riaffermato il principio di scissione del perfezionamento della notifica tra il notificante ed il destinatario, ormai previsto dall'art. 149 cod. proc. civ. Detta regola è stata ritenuta applicabile da Sez. 3, n. 15234, Rv. 631777, est. Stalla, anche alla notificazione effettuata dall'avvocato, munito della procura alle liti e dell'autorizzazione del consiglio dell'ordine cui è iscritto, a norma dell'art. 1 della legge 21 gennaio 1994, n. 53. Per stabilire la tempestività o la tardività della notifica, pertanto, rileva unicamente la data di consegna del plico all'agente postale incaricato del recapito secondo le modalità stabilite dalla legge 20 novembre 1982, n. 890. Il principio indicato, però, come ha precisato Sez. U, ord. n. 23675, Rv. 632845, est. Di Iasi, vale solo per le decadenze non addebitabili al notificante. Pertanto, per determinare la litispendenza ai fini della prevenzione tra cause in rapporto di continenza, una iniziata con ricorso monitorio e una iniziata con citazione, per quest'ultima si ha riguardo al perfezionamento del procedimento di notificazione tramite consegna dell'atto al destinatario.

Il rifiuto di ricevere la copia dell'atto, come ha confermato Sez. 5, n. 12429, Rv. 631093, est. Federico, è legalmente equiparabile alla notificazione effettuata in mani proprie, ai sensi dell'art. 138, secondo comma, cod. proc. civ., soltanto se provenie con certezza dal destinatario dell'atto ovvero, in forza dell'art. 141, terzo comma, cod. proc. civ., dal suo domiciliatario. Se il destinatario non è stato reperito in uno dei luoghi di cui all'art. 139, secondo comma, cod. proc. civ., pertanto, non equivale a notificazione il rifiuto opposto da una persona diversa, pur se rientra tra coloro che sono abilitati alla ricezione dell'atto. In questo caso, si devono eseguire, a pena di inesistenza della notificazione, le formalità prescritte dall'art. 140 cod. proc. civ.

Proprio relativamente alla notifica nella residenza, nella dimora o nel domicilio, ma persona diversa dal destinatario, Sez. 6-5, ord. 2705, Rv. 629976, est. Iacobellis, ha ribadito l'indirizzo rigoroso in ordine all'individuazione di coloro che sono abilitati alla ricezione dell'atto. La notificazione eseguita mediante consegna a persona che, pur coabitando con il destinatario, non sia a lui legata da rapporto di parentela, o non sia addetta alla casa, alla stregua di questa decisione, non è assistita dalla presunzione di consegna al destinatario stesso, con conseguente nullità.

L'ufficiale giudiziario, però, non è tenuto a compiere indagini particolarmente approfondite sulla capacità della persona abilitata alla ricezione cui consegna l'atto. Sez. 5, n. 5669, Rv. 630620, est. Iofrida, infatti, ha precisato che il limite di validità della notifica ex art. 139, secondo comma, cod. proc. civ. va individuato nella palese incapacità dell'accipiens (legalmente equiparata all'immaturità di un minore di anni 14). In questa prospettiva, non determina la nullità della notificazione la prova della mera incapacità naturale e temporanea del consegnatario, determinata da una grave forma di ipertensione non percepita dall'ufficiale giudiziario.

L'organo notificante non è tenuto neppure a svolgere particolari indagini circa il rapporto di parentela e di convivenza tra il destinatario dell'atto e il consegnatario. Sez. 6-2, n. 4095, Rv. 629737, est. Piccialli, però, ha confermato che l'attestazione dell'ufficiale postale sul punto fa fede solo delle dichiarazioni a lui rese dal consegnatario, ma non anche della veridicità del relativo contenuto. È dunque possibile provare il contrario.

Ricorre la presunzione che il consegnatario sia incaricato della ricezione degli atti diretti al destinatario della notifica, infine, anche nel caso di notifica eseguita, ai sensi dell'art. 139, secondo comma, cod. proc. civ., con consegna dell'atto al portiere di un condominio, che, però, si era qualificato, nella dichiarazione resa all'ufficiale giudiziario, come "addetto" alla ricezione, senza alcun riferimento alle concomitanti funzioni connesse all'incarico di portierato. Per superare detta presunzione, secondo Sez. 6-3, n. 5220, Rv. 630202, est. Ambrosio, non è sufficiente che il destinatario dell'atto provi l'insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con il consegnatario ovvero che questi sia alle dipendenze esclusive di un terzo, ma è necessario che dimostri che il medesimo consegnatario non sia addetto ad alcun incarico per conto o nell'interesse del destinatario nell'ambito del medesimo stabile.

7.2. Assenza temporanea ed irreperibilità del destinatario.

Ai fini dell'utilizzo del modulo procedimentale di cui all'art. 140 cod. proc. civ., la Suprema Corte ha rimarcato la differenza tra temporanea assenza del destinatario e irreperibilità dello stesso. Sez. 1, n. 18595, Rv. 631966, est. Nazzicone, ha ribadito che l'assenza solo momentanea del destinatario della notificazione nel luogo in cui risiede non preclude la notificazione nelle forme previste dalla norma appena richiamata, che presuppone l'impossibilità di consegnare l'atto per mere difficoltà di ordine materiale, come la precaria assenza del destinatario. L'irreperibilità non temporanea, invece, rientra nella previsione dell'art. 143 cod. proc. civ., la cui applicabilità postula l'oggettiva irreperibilità ovvero l'impossibilità di individuare il luogo di residenza, domicilio o dimora del notificando, nonostante l'esperimento di indagini suggerite nei singoli casi dall'ordinaria diligenza. In questi casi, Sez. 6-L, n. 12526, Rv. 631053, est. Marotta, ha fissato nella normalità e buona fede, secondo la regola generale dell'art 1147 cod. civ., i parametri di valutazione dell'ordinaria diligenza cui il notificante è tenuto a conformare la propria condotta per vincere l'ignoranza in cui versa circa i luoghi in cui è possibile reperire il notificando. L'applicazione di tali criteri, invece, non impone di compiere ogni indagine che, in astratto, possa essere utile all'acquisizione delle notizie necessarie per eseguire la notifica a norma dell'art. 139 cod. proc. civ., anche sopportando spese non lievi ed attese di non breve durata. Sono adeguate, al contrario, le ricerche svolte in quelle direzioni (uffici anagrafici, portiere della casa in cui il notificando risulti aver avuto la sua ultima residenza conosciuta) in cui è ragionevole ritenere, secondo una presunzione fondata sulle ordinarie manifestazioni della cura che ciascuno ha dei propri affari ed interessi, siano reperibili informazioni idonee a conoscere il domicilio, la residenza o la dimora attuale del destinatario. In applicazione di queste regole, è stato ritenuto corretto il ricorso alla notificazione effettuata ai sensi dell'art. 143 cod. proc. civ. in un caso in cui il destinatario che risultava aver abbandonato l'abitazione per un domicilio ignoto in base a quanto attestato dall'ufficiale giudiziario per averlo appreso dal portiere in sede di infruttuosa notifica presso la residenza anagrafica.

Le indagini esperite dall'ufficiale giudiziario circa la temporanea assenza del destinatario nel luogo di recapito, secondo Sez. 1 n. 10107, Rv. 631225, est. Ceccherini, danno luogo a presunzioni semplici rispetto alle quali può essere offerta prova contraria. Quest'ultima, tuttavia, non può essere costituita dalla certificazione dell'intervenuta variazione anagrafica che, come atto proveniente dalla stessa parte, rappresenta, a sua volta, una presunzione semplice di pari grado.

7.3. Il contenuto della relata di notificazione.

Come è stato precisato da Sez. 6-5, n. 10030, Rv. 630629, est. Iacobellis, è necessario che dalla relata di notifica sia univocamente identificabile la persona consegnataria per mezzo della sola precisazione del vincolo - familiare convivente o domestico - con il destinatario. Non incide sulla validità dell'atto, pertanto, l'indicazione errata della qualifica del consegnatario.

L'ufficiale giudiziario deve indicare la data della consegna. Qualora emerga una difformità tra quella riportata nella relata di notifica della sentenza in possesso del notificante e quella indicata sull'atto consegnato al destinatario, secondo Sez. 3, n. 19156, Rv. 632944, est. Spirito, la tempestività della impugnazione deve essere valutata con riguardo alla data risultante dalla relata di notifica redatta sull'atto portato a quest'ultimo.

L'omessa apposizione, da parte dell'ufficiale giudiziario, della relazione di notificazione anche sulla copia consegnata al destinatario - ha precisato Sez. 5, n. 15327, Rv. 631549, est. Virgilio - integra, in mancanza di contestazioni circa l'effettuazione della notificazione come indicata nella detta relazione, una mera irregolarità, non essendo la nullità prevista in modo espresso dalla legge e non difettando un requisito di forma indispensabile per il raggiungimento dello scopo, che si consegue con il portare a conoscenza dell'interessato la vocatio in jus per il tramite indefettibile dell'ufficiale giudiziario.

7.4. Elezione di domicilio.

Con la decisione Sez. 3, n. 13243, Rv. 631754, est. Carluccio, la Suprema Corte ha riaffermato che l'elezione di domicilio è un atto giuridico unilaterale che spiega efficacia indipendentemente dal consenso o accettazione del domiciliatario. La facoltà del soggetto, nei cui confronti si è eletto domicilio, di notificare validamente gli atti al domiciliatario, pertanto, è indipendente dalla concreta esistenza di un accordo tra eleggente e domiciliatario, che costituisce soltanto un rapporto interno. Solo la revoca dell'elezione impedisce la notificazione dell'atto al domiciliatario.

Per Sez. 2, n. 4580, Rv. 629763, est. Correnti, la ricezione dell'atto, senza riserve, da parte di un avvocato presente nello studio del procuratore domiciliatario fa presumere che lo stesso sia autorizzato all'incombente, essendo, ancorché temporaneamente, collega di studio, collaboratore o, quanto meno, addetto alla ricezione degli atti. Sez. 3, n. 19737, Rv. 632409, est. Vivaldi, ha affermato che la notificazione di un atto processuale a mani di una persona che si è qualificata "impiegata-dipendente" del procuratore domiciliatario deve considerarsi eseguita presso il domicilio effettivo del domiciliatario stesso. In tale caso, non è stato ritenuto rilevante il mancato riscontro del mutamento del domicilio del procuratore che risultava dall'Albo professionale, venendo "in rilievo il criterio dirimente dell'effettivo raggiungimento dello scopo notificatorio". Secondo questa decisione, in particolare, l'onere della preventiva verifica del domicilio del procuratore è correlato all'assunzione da parte del notificante del rischio dell'esito negativo della notifica in un domicilio diverso da quello effettivo.

Una questione particolare è stata decisa da Sez. 3, n. 10324, Rv. 630908, est. Travaglino. Secondo questa decisione, in presenza di più difensori, qualora quello domiciliatario intra districtum abbia perso lo ius postulandi e non possa essere legittimamente raggiunto dalla notifica della sentenza di primo grado, tale adempimento, nel caso in cui l'altro difensore abbia il proprio domicilio extra districtum, deve essere indirizzato, ai sensi dell'art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934 n. 37 alla cancelleria del giudice adito. In alternativa, però, se il notificante lo ritenga opportuno, la notificazione può essere compiuta al domicilio del secondo procuratore qualora anche quest'ultimo risulti destinatario di una dichiarazione della parte di elezione di domicilio presso il proprio studio. Ne consegue che, in tale evenienza, va esclusa la validità della notifica alla parte personalmente, che resta possibile nella sola ipotesi in cui quest'ultima sia rimasta priva di difensore.

7.5. La domiciliazione presso la cancelleria.

L'applicazione dell'art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 è destinata a ridursi per il progressivo aumento dell'impiego della posta elettronica certificata e del fax ai fini di notificazioni e comunicazioni. Si rinvia, al riguardo, alla parte dedicata specificamente all'impiego delle nuove tecnologie.

Sul tema della domiciliazione in cancelleria, è intervenuta Sez. 3, n. 8411, Rv. 630186, est. Sestini, individuando il margine di operatività della disposizione dapprima richiamata, che riguarda l'esercizio extra districtum dell'attività procuratoria, nel caso in cui sia stato eletto domicilio presso un avvocato del distretto cui appartiene l'ufficio giudiziario adito. In questo caso, secondo la decisione richiamata, la mera elezione di domicilio presso un avvocato, senza che a costui sia conferito dalla parte anche il mandato difensivo, conserva efficacia ed è vincolante - salvo che non sia revocata con atto comunicato alla controparte e all'ufficio - fino a quando tale domicilio risulti concretamente idoneo ad assolvere alla funzione sua propria. A tale riguardo, non produce alcun effetto la cancellazione dall'albo degli avvocati del domiciliatario, al quale, del resto, non era stato conferito alcun incarico professionale. Soltanto nell'ipotesi in cui divenga impossibile eseguire le comunicazioni e le notificazioni nel luogo eletto (come in caso di morte o di irreperibilità del domiciliatario), pertanto, le stesse potranno effettuarsi presso la cancelleria in applicazione dell'art. 82 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37.

7.6. La notificazione alle persone giuridiche.

Con la sentenza Sez. 1, n. 6559, Rv. 630603, est. Di Amato, la Suprema Corte si è soffermata sull'art. 46 cod. civ. che stabilisce che i terzi "possono" considerare come sede della persona giuridica, oltre a quella amministrativa, anche quella effettiva. Secondo questa decisione, la disposizione va interpretata alla luce dei principi di buona fede, di solidarietà e della finalità, proprie delle notifiche, di portare a conoscenza del destinatario gli atti processuali. Il precetto normativo, quindi, non può tradursi nella facoltà di non tenere conto della sede effettiva conosciuta dal notificante. Depone in tal senso la previsione di obblighi di ricerca del destinatario gravanti sull'ufficiale giudiziario ai sensi dell'art. 148, secondo comma, cod. proc. civ. (che presuppongono, a loro volta, l'obbligo del notificante di indicare tutti gli elementi utili in suo possesso) e il disposto di cui all'art. 145 cod. proc. civ., che, non distinguendo ai fini della notificazione tra sede legale ed effettiva, comporta che quest'ultima non possa essere pretermessa ove conosciuta dal notificante, nonché, con riguardo alla materia societaria, il rilievo della conoscenza dei fatti, indipendentemente dalla loro iscrizione nel registro delle imprese, stabilito in via generale dall'art. 2193, primo comma, cod. civ.

Quanto invece alla persona a cui l'atto va consegnato, secondo Sez. 6-5, n. 15742, Rv. 631681, est. Cicala, la notifica alle persone giuridiche deve avvenire mediante consegna a colui che rappresenta l'ente (ovvero ad altri soggetti legittimati indicati dalle norme). Ne deriva che l'avviso di accertamento nei confronti di una società di capitali non può essere notificato all'amministratore di fatto, che non rappresenta la società, ancorché (eventualmente) la gestisca, trovando tale soluzione conferma nell'art. 62 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in forza del quale solo ove la rappresentanza dei soggetti diversi dalle persone fisiche non sia determinabile secondo la legge civile essa è attribuita, ai fini tributari, alle persone che ne hanno l'amministrazione anche di fatto. In senso contrario, Sez. 5, n. 2586, Rv. 629290, est. Crucitti, ha cassato la decisione impugnata, dichiarativa dell'inesistenza della notifica degli avvisi di accertamento, ai fini IRPEF ed ILOR, ad una società a responsabilità limitata, con conseguente decadenza dell'Amministrazione finanziaria dall'azione di accertamento ex art. 49 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634, perché effettuata ad un soggetto a cui era stata negata la qualifica di amministratore di fatto senza adeguatamente valutare che lo stesso era stato indicato dal deceduto amministratore formale come il dominus della società ed il punto di riferimento per ogni relativo fatto gestionale. Secondo questa sentenza, in materia societaria è ravvisabile la figura dell'amministratore di fatto nella persona di cui sia stato accertato l'avvenuto inserimento nella gestione di impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative.

7.7. La notificazione a mezzo posta.

Con la sentenza Sez. 2, n. 4933, Rv. 630361, est. Bianchini, la Suprema Corte ha precisato che una delle differenze tra la notificazione tramite ufficiale giudiziario e quella a mezzo posta consiste nella circostanza che la prima presuppone un solo impulso processuale del richiedente. L'ufficiale giudiziario, infatti, a differenza dell'ufficiale postale, qualora non reperisca il destinatario, non si deve limitare a riscontrare l'effettività dell'indirizzo indicato, ma deve svolgere le ricerche necessarie per una nuova notifica. Egli, pertanto, sia pure nell'ambito territoriale di competenza, può eseguire, di sua iniziativa, l'ulteriore notifica presso il nuovo indirizzo, se le ricerche esperite presso il vecchio ne hanno permesso l'individuazione.

Quanto alla disciplina della notificazione a mezzo del servizio postale, secondo Sez. 5, n. 19563, Rv. 632710, est. Crucitti, la mancata apposizione della relata sull'originale o sulla copia consegnata al destinatario, ai sensi dell'art. 3 della legge 20 novembre 1982 n. 890, ne comporta non l'irregolarità, ma la nullità sanabile con la costituzione del convenuto. La ratio decidendi si fonda sulla considerazione per cui la relata di notifica costituirebbe momento fondamentale dell'iter notificatorio, ai sensi sia del codice di rito, che delle norme speciali del processo tributario, applicabili alla fattispecie esaminata. Corollario della impostazione adottata è che il vizio in oggetto, se non rilevato dal giudice d'appello (con conseguente ordine di rinnovazione della notifica a norma dell'art. 291 cod. proc. civ.) o non sanato dalla costituzione dell'appellato, "comporta, a sua volta, la nullità dell'intero processo e della sentenza che lo ha definito, ma non anche l'inammissibilità dell'impugnazione tempestivamente proposta, trattandosi di nullità attinente non all'impugnazione in senso sostanziale ma soltanto alla sua notificazione". Da ciò, prosegue la decisione, consegue che "qualora il vizio sia rilevato in sede di legittimità, la Corte di cassazione, nel dichiarare la nullità della notifica e dell'intero processo e della sentenza, deve disporre il rinvio ad altro giudice di pari grado, dinanzi al quale, essendo ormai pervenuto a conoscenza dell'appellato l'atto d'impugnazione, ed essendo quindi superflua una sua nuova notificazione, sarà sufficiente effettuare la riassunzione della causa nelle forme di cui all'art. 392 cod. proc. civ.".

Questa sentenza si pone in contrasto con altro indirizzo formatosi nella giurisprudenza della Suprema Corte, a mente del quale la mancata apposizione della relata di notifica sull'originale o sulla copia consegnata al destinatario comporta la mera irregolarità della notificazione. Alla stregua di questa orientamento, espresso da ultimo da Sez. 5, n. 4746 del 2010, Rv. 611630, la fase essenziale del procedimento notificatorio è costituita dall'attività dell'agente postale, mentre quella dell'ufficiale giudiziario (o di colui che sia autorizzato ad avvalersi di tale mezzo di notifica) ha il solo scopo di fornire al richiedente la notifica la prova dell'avvenuta spedizione e l'indicazione dell'ufficio postale al quale è stato consegnato il plico; conseguentemente, qualora sia allegato l'avviso di ricevimento ritualmente completato, l'omessa apposizione della relata integra un semplice vizio, che non può essere fatto valere dal destinatario, non essendo tale adempimento previsto nel suo interesse.

Nella notificazione a mezzo del servizio postale, però, come ha sottolineato Sez. 3, n. 2421, Rv. 630308, est. Vincenti, l'attività legittimamente delegata dall'ufficiale giudiziario all'agente postale in forza del disposto dell'art. 1 della legge n. 890 del 1982 gode della stessa fede privilegiata dell'attività direttamente svolta dall'ufficiale giudiziario ed ha il medesimo contenuto. L'agente postale, infatti, ai fini della validità della notifica, è tenuto a controllare il rispetto delle prescrizioni del codice di rito sulle persone a cui l'atto può essere legittimamente notificato e ad attestare la dichiarazione resa dalla persona che riceve l'atto, indicativa delle propria qualità. Anche nel caso di notificazione eseguita dall'agente postale, pertanto, la relata di notificazione fa fede fino a querela di falso per le attestazioni che riguardano l'attività svolta, ivi compresa l'attestazione dell'identità del destinatario che ha rifiutato di ricevere il piego, trattandosi di circostanza frutto della diretta percezione del pubblico ufficiale nella sua attività di identificazione del soggetto cui è rivolta la notificazione dell'atto.

In particolare, secondo Sez. 5, n. 15973, Rv. 632118, est. Chindemi, qualora l'agente postale consegni l'atto a persona di famiglia che conviva, anche temporaneamente, con il destinatario, il rapporto di convivenza, almeno provvisorio, può essere presunto sulla base del fatto che il familiare si sia trovato nell'abitazione del destinatario ed abbia preso in consegna l'atto da notificare. Non è sufficiente, per affermare la nullità della notifica, la mancata indicazione della qualità di convivente sull'avviso di ricevimento della raccomandata, il cui contenuto, in caso di spedizione diretta a mezzo piego raccomandato, ai sensi dell'art. 16, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, è quello prescritto dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria e non già quello previsto dall'art. 139 cod. proc. civ.

7.8. Inesistenza e nullità della notificazione.

Le decisioni della Suprema Corte continuano a delineare la sottile linea di demarcazione tra nullità ed inesistenza della notificazione. Si tratta di una distinzione che assume un notevole rilievo pratico perché solo la notificazione nulla, e non quella giuridicamente inesistente, all'esito della rinnovazione, è suscettibile di sanatoria con effetti ex tunc.

La nullità, come ha ribadito Sez. 3, n. 12301, Rv. 631130, est. Spirito, ricorre quando, nonostante l'inosservanza di formalità e di disposizioni di legge in tema di individuazione delle persone legittimate a ricevere la consegna dell'atto notificato o in relazione al luogo in cui detta consegna deve essere eseguita, una notificazione sia, comunque, materialmente avvenuta mediante rilascio di copia dell'atto a persona ed in luogo aventi un qualche riferimento con il destinatario dell'atto. La notificazione, invece, è inesistente quando l'atto esorbita completamente dallo schema legale, perché la consegna è avvenuta a persona in nessun modo riferibile al destinatario o in luogo non avente alcun collegamento con il destinatario, essendo a costui del tutto estraneo (oltre che quando non vi sia stata una qualsiasi consegna dell'atto). Tale giudizio, secondo la decisione appena richiamata, va compiuto in forza di una valutazione ex ante, avente ad oggetto l'astratto raggiungimento dello scopo nonostante il vizio della notificazione. È stata reputata nulla e non inesistente, pertanto, la notificazione di un atto d'impugnazione non effettuata con la consegna dell'atto alla AUSL, in persona del commissario liquidatore, ma erroneamente al procuratore AUSL costituito in primo grado, soggetto che, benché diverso, aveva un sicuro collegamento con l'ente pubblico destinatario dell'atto.

La differenza tra le due fattispecie, comunque, è apprezzabile in concreto solo in forza di un'indagine di natura casistica. In particolare Sez. 3, n. 16402, Rv. 632484, est. Rossetti, ad esempio, ha ritenuto nulla e non inesistente la notificazione eseguita in un domicilio dal quale il destinatario si era trasferito, in un caso in cui nella relazione di notificazione l'ufficiale giudiziario aveva attestato che il destinatario era "assente". Nonostante l'avvenuto trasferimento, secondo questa decisione, si verteva in una tipica ipotesi in cui non poteva dirsi "reciso ogni collegamento" tra il destinatario dell'atto ed il luogo della notificazione.

La notifica del ricorso per cassazione alla parte personalmente e non al suo procuratore, secondo Sez. 3, n. 15236, Rv. 631742, est. Cirillo, non determina l'inesistenza, ma la nullità della notificazione, sanabile ex art. 291, primo comma, cod. proc. civ. con la sua rinnovazione, oppure con l'intervenuta costituzione della parte destinataria, a mezzo del controricorso, secondo la regola generale dettata dall'art. 156, secondo comma, cod. proc. civ. (che trova applicazione anche al giudizio di legittimità). La medesima regola di giudizio è stata applicata da Sez. 6-5, n. 2707, Rv. 629456, est. Iacobellis, nel processo tributario, nell'ipotesi di notifica dell'atto di appello eseguita alla parte personalmente e non al suo difensore nel domicilio eletto o dichiarato.

È stata ritenuta nulla e non inesistente da Sez. 3, n. 1990, Rv. 629822, est. Stalla la notifica effettuata dal messo del giudice di pace, in difetto assoluto dell'autorizzazione del presidente della Corte d'appello. L'art. 34 della legge 15 dicembre 1959, n. 1229, infatti, ha equiparato la sua funzione a quella dell'ufficiale giudiziario. Ne consegue che il vizio è sanabile, a seguito della costituzione della parte e in ogni altro caso in cui sia raggiunta la prova della avvenuta comunicazione dell'atto al notificato. Analogamente, secondo Sez. 1, n. 22995, Rv. 632739, est. Genovese, la notificazione del ricorso per cassazione effettuata da un ufficiale giudiziario territorialmente incompetente alla stregua dell'art. 107 del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229 è nulla e non già inesistente: il vizio, pertanto, è sanato, per raggiungimento dello scopo e con efficacia "ex tunc", con la costituzione in giudizio del soggetto intimato.

La mancanza di alcune pagine nella copia notificata di un atto di citazione rispetto all'originale, secondo Sez. 3, n. 23420, Rv. 633208, est. Chiarini, rende nulla la notificazione perché non consente al destinatario di difendersi. La costituzione del convenuto, peraltro, sana il vizio, anche se si deve disporre la sua rimessione in termini per l'espletamento delle difese ed eccezioni ove il termine tra il perfezionamento della notifica e quello per la costituzione, avuto riguardo alla data di vocatio in ius, sia insufficiente.

In tema di notificazione per pubblici proclami, invece, Sez. 2, n. 17742, Rv. 631854, est. Matera, ha ritenuto che, qualora il giudice abbia disposto l'affissione di una copia dell'atto nella casa comunale, anziché il deposito previsto dall'art. 150, terzo comma, cod. proc. civ., la notifica effettuata per deposito, senza affissione, è nulla, ma non inesistente, essendo stata pur sempre adempiuta la formalità dalla legge considerata idonea a garantire la conoscenza dell'atto.

La Suprema Corte, poi, distingue la nullità della notificazione dalle fattispecie di mera irregolarità formale o incompletezza dell'atto. Sez. L, n. 10224, Rv. 630800, est. Amendola, in particolare, ha rimarcato che le ipotesi di nullità della notificazione rappresentano un numerus clausus. Ne deriva che l'esistenza di irregolarità nel rilascio di copia di atti da parte del cancelliere non determina la nullità della notificazione della sentenza di primo grado. Anche la notifica della sentenza fatta in copia non autenticata, del resto, è idonea a far decorrere il termine breve dell'impugnazione.

Secondo Sez. 3, n. 6352, Rv. 630554, est. Stalla, la semplice irregolarità formale o incompletezza nella notificazione dell'atto di citazione del nome di una delle parti non è motivo di nullità, se dal contesto dell'atto notificato risulti con sufficiente chiarezza l'identificazione di tutte le parti e la consegna dell'atto alle giuste parti. In questo ultimo caso, l'atto è idoneo a raggiungere, nei confronti di tutte le parti, i fini ai quali tende e l'apparente vizio va considerato come un mero errore materiale che può essere agevolmente percepito dall'effettivo destinatario, la cui mancata costituzione in giudizio non è l'effetto di tale errore ma di una scelta cosciente e volontaria. Analogamente, secondo Sez. 3, n. 1987, Rv. 629846, est. Sestini, nel caso di notifiche effettuate al difensore, l'erronea indicazione del prenome di questi non è causa di nullità della notificazione se, nonostante il difetto, debba escludersi qualsiasi possibilità di equivoco circa l'effettivo destinatario dell'atto. In tema di notifica a mezzo posta eseguita da un avvocato, infine, costituisce una mera irregolarità la carenza sulla busta con cui è spedita la raccomandata e nel rigo appositamente dedicato di ulteriore e separato segno grafico di sottoscrizione, cioè di ripetizione manoscritta e olografa del nome e cognome ad opera del notificante, purché le suddette indicazioni siano presenti in altra parte del medesimo piego.

Nel caso di notifica ai sensi dell'art. 143 cod. proc. civ., secondo Sez. 3, n. 17964, Rv. 632195, est. Carleo, l'omessa indicazione, nella relata delle ricerche, anche anagrafiche, fatte dall'ufficiale giudiziario, delle notizie raccolte sulla reperibilità del destinatario e dei motivi della mancata consegna, non costituisce causa di nullità della notificazione e, dunque, integra una mera irregolarità, non essendo tale sanzione prevista espressamente nell'elencazione dei motivi indicati dall'art. 160 cod. proc. civ. in questo caso, però, il giudice di merito aveva accertato la diligenza del notificante, che era stato autore di opportune ricerche, tradottesi in più tentativi di notifiche eseguite in luoghi diversi, senza che, per contro, risultasse agli atti la conoscenza o la facile conoscibilità con la normale diligenza, del luogo di residenza o dimora del notificando, il quale, peraltro, aveva abbandonato l'originaria residenza senza preoccuparsi della registrazione anagrafica e del conseguente rischio di una declaratoria di irreperibilità.

8. Comunicazioni e notificazioni telematiche. Il domicilio digitale.

Il c.d "processo civile telematico" comincia ad impegnare anche la Suprema Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi soprattutto sui riflessi processuali in tema di comunicazioni e notificazioni telematiche, nel solco dell'indirizzo elaborato da Sez. U, n. 10143 del 2012, Rv. 622883, in correlazione con le modifiche normative che si sono susseguite nel tempo, sino alla configurazione del nuovo istituto del "domicilio digitale".

In questo senso, è interessante prendere le mosse da Sez. 1, n. 2561, Rv. 629782, est. Di Amato, che, sia pure con riferimento a disposizioni ormai non più vigenti (art. 134, terzo comma, cod. proc. civ., nel testo introdotto dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni in legge 14 maggio 2005, n. 80 ed abrogato dalla legge 12 novembre 2011, n. 183), ha inteso come obbligatoria e non meramente facoltativa la previsione secondo la quale il difensore indica nel primo scritto difensivo utile il numero di fax o l'indirizzo di posta elettronica presso cui dichiara di voler ricevere l'avviso di cancelleria, lasciando unicamente al difensore la scelta tra numero di fax o indirizzo di posta elettronica. Il principio enunciato è fondato da un lato sull'interpretazione letterale della norma (""il difensore indica" e non "può indicare""), dall'altro sull'evidente finalità di agevolare le comunicazioni di cancelleria attraverso l'introduzione di un vero e proprio obbligo a carico del difensore. L'interesse della pronuncia - rispetto alla specifica tematica in rassegna - si incentra sull'ulteriore sviluppo argomentativo, che individua nell'evoluzione della normativa la conferma della volontà del legislatore di imprimere il carattere dell'obbligatorietà all'indicazione già menzionata dall'art. 134, terzo comma, cod. proc. civ.: infatti, ad avviso della Corte, in tal senso depongono univocamente la previsione dell'obbligo del difensore - questa volta enunciato espressamente - di indicare l'indirizzo di posta elettronica certificata ed il proprio numero di fax, inserita direttamente nell'art. 125, primo comma ultima parte, cod. proc. civ. (nel testo introdotto dalla lettera a) del comma 35 ter dell'art. 2 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, in legge 14 settembre 2011, n. 148, e poi ulteriormente specificato dall'art. 25 della legge 12 novembre 2011, n. 183) e la correlata previsione dell'obbligo a carico del personale di cancelleria di effettuare di regola le comunicazioni di cancelleria a mezzo posta elettronica certificata e, solo se ciò non è possibile, a mezzo fax, a norma dell'art. 136, secondo e terzo comma, cod. proc. civ. (nel testo introdotto dal n. 1) della lettera d) del comma 1 dell'art. 25 della legge 12 novembre 2011, n. 183). Ad ulteriore corollario del ragionamento seguito nella pronuncia in esame, può annotarsi come la linea evolutiva della normativa sia giunta - addirittura - a prescindere dall'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica da parte del difensore, atteso che il relativo riferimento contenuto nell'art. 125, primo comma ultima parte, cod. proc. civ., è stato espunto dall'art. 45 bis, comma 1 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, in quanto ritenuto superfluo - se non fuorviante - per effetto della diretta utilizzazione dell'indirizzo di posta elettronica comunicato dal professionista al proprio ordine ed inserito nel Registro Generale degli Indirizzi Elettronici ("RegInde"), ai sensi dell'art. 16 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44.

Sempre in ordine all'ambito applicativo del "domicilio digitale", giova menzionare la sentenza - Sez. 6-3, n. 5457, Rv. 630344, est. Frasca - con cui è stato affermato che, in sede di giudizio di legittimità, l'art. 366, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo innovato dall'art. 25, comma 1, lett i, n. 1 della legge 12 novembre 2011, n. 183, consente le notificazioni in via alternativa - con l'uso della disgiuntiva "ovvero" - presso il domicilio eletto in Roma ovvero presso l'indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, con la conseguenza che - in base al regime applicabile ratione temporis - il controricorso può essere indifferentemente notificato sia presso il predetto domicilio sia tramite la posta elettronica. Pertanto, la norma attribuisce al'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica valore determinante ai fini dell'individuazione del luogo delle notificazioni da farsi al ricorrente in cassazione.

L'indicazione dell'indirizzo di posta elettronica, a norma del citato art. 366 cod. proc. civ., assume rilievo decisivo ove sia mancata l'elezione di domicilio in Roma. Infatti, in tali ipotesi, secondo Sez. L, n. 13857, Rv. 631660, est. Ghinoy, la notifica del controricorso deve essere effettuata all'indirizzo di posta elettronica certificata comunicato all'ordine professionale ed indicato in ricorso, con la conseguenza che sono nulle le notifiche effettuate presso la cancelleria della Corte di cassazione ovvero presso domicilio eletto in luogo diverso da Roma, in quanto si discostano dal modello legale introdotto dalla legge n. 183 del 2011. Tuttavia, va evidenziato che la Corte ha ritenuto che, nella specie, la nullità fosse stata sanata dalla notifica - tempestivamente avvenuta - effettuata e regolarmente ricevuta presso il domicilio indicato in ricorso, ancorché fuori Roma, a tal fine richiamando il consolidato principio, sancito in via generale dall'art. 156, comma terzo, cod. proc. civ., secondo cui "la nullità non può essere mai pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato" (trattandosi di notificazioni, la nullità non può essere dichiarata tutte le volte che l'atto, malgrado l'irritualità della notificazione, sia venuto a conoscenza del destinatario).

Un'applicazione peculiare del criterio del raggiungimento dello scopo è sviluppata in Sez. 6-1, n. 14337, Rv. 631493, est. Bernabai. Infatti, nel caso di specie la Corte era chiamata a valutare la tempestività del ricorso per regolamento di competenza rispetto ad un'ordinanza comunicata dalla cancelleria in via telematica, sulla richiesta preliminare del Procuratore Generale di dichiarare l'improcedibilità perché la parte non aveva provveduto a depositare il biglietto di cancelleria comprovante la data di comunicazione dell'ordinanza impugnata; i giudici della S.C. hanno ritenuto di superare tale rilievo in base alla data di pubblicazione del provvedimento, quale risultante dalla copia autentica prodotta, atteso che il ricorrente assumeva che la comunicazione fosse stata ricevuta nel medesimo giorno della pubblicazione, in base all'evidente assunto che non fosse ipotizzabile che la comunicazione a mezzo PEC del deposito dell'ordinanza precedesse il deposito della stessa. In questo modo la sentenza è approdata ad una soluzione "conservativa", tale da rispettare la finalità di consentire alla Corte la verifica della tempestività dell'impugnazione senza affrontare la delicata questione della prova della comunicazione per via telematica, che, ai sensi dell'art. 16, comma 3, del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, "si intende perfezionata nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del destinatario" e la cui ricevuta viene conservata nel fascicolo informatico, ai sensi dell'art. 16, comma 5, del d.m. n. 44 del 2011.

Il criterio del raggiungimento dello scopo viene utilizzato solo come motivazione ad abundantiam da Sez. 6-3, n. 25215, Rv. 633275, est. Carluccio, nell'ambito di peculiare fattispecie, caratterizzata dal fatto che il ricorrente in cassazione, non domiciliato in Roma, aveva indicato l'indirizzo di posta elettronica "ai soli fini delle comunicazioni di cancelleria": ebbene, la Corte ha ritenuto che tale indicazione non fosse in linea con la previsione di cui all'art. 366 cod. proc. civ., siccome introdotto dalla legge n. 183 del 2011, ai fini delle notificazioni, sul rilievo che mentre "la indicazione della PEC senza ulteriori specificazioni è idonea a far scattare l'obbligo per il notificante di utilizzare la notificazione in forma telematica, non altrettanto può dirsi nel caso di inequivocabile riferimento alle sole comunicazioni inviate dalla cancelleria."; con conseguente ammissibilità del controricorso notificato presso la cancelleria della Corte sul presupposto della sussistenza di entrambi i requisiti della mancata elezione di domicilio in Roma e della mancata indicazione della posta elettronica certificata. Come anticipato, i giudici della S.C. hanno comunque aggiunto che, anche ipotizzando l'irritualità della notifica, la declaratoria di inammissibilità era comunque preclusa nel caso di specie per il raggiungimento dello scopo, ai sensi dell'art. 156, terzo comma, cod. proc. civ., per avere il ricorrente avuto conoscenza del controricorso, trasmesso via fax dalla cancelleria della Corte di cassazione.

Di assoluto rilievo, sul piano delle conseguenze connesse alla non corretta gestione della posta elettronica certificata da parte del difensore, la pronuncia - Sez. L, n. 15070, Rv. 631596, est. Tria - che ha confermato la declaratoria di improcedibilità del ricorso in appello perché il difensore dell'appellante non aveva proceduto ad effettuare entro il termine di rito la notifica alla controparte del decreto di fissazione dell'udienza di discussione nel giudizio di appello e ciononostante avesse regolarmente ricevuto la comunicazione del medesimo decreto a mezzo PEC. In motivazione, premessi i riferimenti all'art. 125, primo comma, cod. proc. civ., nel testo introdotto dalla legge 12 novembre 2011, n. 183 (in tema di obbligo del difensore di indicare nel primo atto l'indirizzo di posta elettronica certificata), ed all'art. 136, secondo comma, cod. proc. civ., come sostituito dalla medesima legge n. 183 del 2011 (che impone la posta elettronica certificata come mezzo ordinario delle comunicazioni di cancelleria), oltre che alle rilevanti disposizioni del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, si configura in capo al difensore una forma di responsabilità della gestione della propria PEC, "nel senso che se non la apre ne risente le conseguenze.". Pertanto, avendo riscontrato che l'ufficio giudiziario in questione era stato abilitato all'utilizzazione del sistema di posta elettronica certificata e che non era in contestazione la regolare trasmissione della comunicazione, la Corte ha confermato la decisione preclusiva del merito, aggiungendo che l'interessato non poteva dolersi della mancata utilizzazione della trasmissione a mezzo telefax ovvero della notifica a mezzo dell'ufficiale giudiziario, dal momento che, ai sensi dell'art. 136, terzo comma, cod. proc. civ., a tali forme di trasmissione può fare ricorso soltanto quando non è possibile procedere a mezzo PEC.

Infine, merita di essere segnalata la sentenza - Sez. 6-3, n. 23526, est. De Stefano, in corso di massimazione - che ha delimitato l'ambito di applicazione della novella del secondo comma dell'art. 133 cod. proc. civ., di cui all'art. 45, co. 1, lett. b, del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11 agosto 2014, n. 114, affermando che la predetta modifica normativa, conseguente alla previsione generalizzata della comunicazione del testo integrale del provvedimento a mezzo di posta elettronica certificata come modalità ordinaria, attiene al regime generale delle comunicazioni dei provvedimenti da parte della cancelleria, sicché non incide sulle norme processuali, derogatorie e speciali, che collegano la decorrenza del termine breve di impugnazione alla mera comunicazione del provvedimento da parte della cancelleria. Infatti, nel ribadire il principio, già riconosciuto in giurisprudenza e sancito in sede di conversione del citato decreto legge, secondo cui la comunicazione da parte della cancelleria del testo integrale del provvedimento depositato non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all'art. 325 cod. proc. civ. - essendo di norma necessario l'atto di impulso della controparte - è stato chiarito che tale regola generale non implica alcuna abrogazione delle numerose norme speciali derogatorie del regime ordinario, le quali, per evidenti finalità di accelerazione del processo, ancorano la decorrenza del termine breve non all'atto di impulso della controparte, ma alla comunicazione, proprio ad opera della cancelleria e quindi ufficiosa, del provvedimento da impugnare. Pertanto, benché il principio sia stato espressamente affermato in riferimento all'art. 348 ter, comma terzo, cod. proc. civ. (nella parte in cui fa decorrere il termine ordinario per proporre il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di primo grado dalla comunicazione dell'ordinanza che dichiara l'inammissibilità dell'appello ai sensi dell'art. 348 bis cod. proc. civ.), la sua portata è potenzialmente molto più ampia: infatti, già nell'ambito della stessa pronuncia si è provveduto ad effettuare una prima ricognizione dei casi in cui il termine per l'impugnazione è collegato alla mera comunicazione del provvedimento effettuata dalla cancelleria (quali, il regolamento di competenza: art. 47 cpv. cod. proc. civ.; le impugnazioni del pubblico ministero: penultimo comma dell'art. 72 cod. proc. civ.; il reclamo avverso le ordinanze di estinzione dei processi di cognizione e di esecuzione: rispettivamente, art. 178, terzo comma, nonché art. 630, terzo comma, cod. proc. civ.; l'istanza di pronunzia di sentenza in caso di emissione di ordinanza ex art. 186 quater cod. proc. civ.; l'impugnazione del decreto di estinzione per rinuncia del giudizio di legittimità: art. 391, terzo comma, cod. proc. civ.; lo stesso ricorso per cassazione, avverso la sentenza su pregiudiziale questione di efficacia, validità o interpretazione di contratti o accordi collettivi: art. 420 bis, secondo comma, cod. proc. civ.; il reclamo cautelare: art. 669 terdecies, primo comma, cod. proc. civ.; il reclamo camerale: art. 739, primo comma, cod. proc. civ., quanto ai procedimenti camerali ed all'impugnazione della parte privata; art. 740 cod. proc. civ., quanto alle impugnazioni del pubblico ministero; il reclamo avverso il diniego di esecutorietà al lodo: art. 825, ultimo comma, cod. proc. civ.). In linea con tale interpretazione sembra porsi Sez. 1, n. 25662, in corso di massimazione, est. Genovese, che ha escluso l'idoneità della comunicazione della sentenza effettuata dalla cancelleria a mezzo PEC a determinare la decorrenza del termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 17, secondo comma, legge 4 maggio 1983, n. 184, quand'anche essa sia eseguita con l'invio dell'intero testo del procedimento ed in epoca anteriore alla modifica dell'art. 133 cod. proc. civ., atteso che la citata disposizione della legge n. 184 del 1983 richiede espressamente la notificazione dell'atto.

Sempre in riferimento alle modifiche introdotte dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11 agosto 2014, n. 114, si rammenta che, nell'ambito del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, in legge 17 dicembre 2012, n. 221, è stato introdotto l'art. 16 septies, in tema di "tempo delle notificazioni con modalità telematiche", in base al quale "La disposizione dell'articolo 147 del codice di procedura civile si applica anche alle notificazioni eseguite con modalità telematiche. Quando è eseguita dopo le ore 21, la notificazione si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo". Ancora, è stato differito al 30 novembre 2014 il termine previsto dall'art. 16, comma 12, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, in legge 17 dicembre 2012, n. 221, per la comunicazione da parte delle amministrazioni pubbliche dell'indirizzo PEC da utilizzare per le comunicazioni e notificazioni in via telematica: pertanto, nell'ipotesi di mancata comunicazione del predetto indirizzo, si applicano le disposizioni in tema di deposito dell'atto in cancelleria. Infine, con riferimento alla data di deposito degli atti telematici, è stato espressamente stabilito che "Il deposito è tempestivamente eseguito quando la ricevuta di avvenuta consegna è generata entro la fine del giorno di scadenza e si applicano le disposizioni di cui all'articolo 155, quarto e quinto comma, del codice di procedura civile.", precisandosi altresì le modalità da seguire per il deposito di atti telematici eccedenti la dimensione massima stabilita nelle specifiche tecniche del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del ministero della giustizia (art. 51, comma 2, del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11 agosto 2014, n. 114, che ha modificato l'art. 16 bis, comma 7, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221).

In conclusione, nell'esaminare il primo impatto delle nuove disposizioni in materia di "processo telematico" sull'impianto codicistico, appare cruciale la distinzione fra i diversi regimi intertemporali che hanno variamente disciplinato le comunicazioni e notificazioni a mezzo posta elettronica certificata nonché regolamentato il "domicilio digitale", secondo una linea evolutiva di generalizzato favor del legislatore verso l'adozione del telematico. A fronte della complessità della normativa si va comunque affermando un'opzione ermeneutica che privilegia il criterio fondamentale del raggiungimento dello scopo, di cui è espressione l'art. 156, terzo comma, cod. proc. civ.

9. I termini.

9.1. Termini perentori ed ordinatori.

Salvo che siano dichiarati espressamente perentori, i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori. Ricorrendo anche a questa regola, la Suprema Corte (Sez. U, n. 5700, Rv. 629676, est. Sangiorgio, in materia di equa riparazione per l'irragionevole durata del processo), ha ritenuto che il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza camerale alla controparte non sia da qualificarsi come perentorio, in mancanza di una previsione normativa che gli attribuisca tale natura. Nell'ipotesi di omessa o inesistente notifica, pertanto, qualora non si costituisca spontaneamente il resistente, il giudice può concedere al ricorrente un nuovo termine, avente carattere perentorio ai sensi degli art. 164 e 291 cod. proc. civ., entro il quale è possibile rinnovare la notifica.

Questo indirizzo interpretativo è stato espresso anche da Sez. 1, n. 21111, Rv. 632555, est. Mercolino in relazione all'appello avverso la sentenza di divorzio, disciplinato dal rito camerale, e da Sez. 1, n. 11418, Rv. 631308, est. Campanile, in tema di procedimento di impugnazione con rito camerale. Queste decisioni hanno ritenuto che l'inosservanza del termine per la notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza, senza preventiva presentazione dell'istanza di proroga, non determina un effetto preclusivo. Detto termine, infatti, ha la mera funzione di instaurare il contraddittorio ed il suo mancato rispetto implica solo la necessità di fissarne uno nuovo (ove la controparte non si sia costituita). L'avvenuta costituzione di quest'ultima, invece, ha efficacia sanante ex tunc. Nel medesimo senso, si è pronunciata Sez. 1, n. 19018, Rv. 632067, est. Cristiano, secondo cui, nei giudizi di impugnazione dello stato passivo ex art. 99 legge fall., l'omessa notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza al curatore ed agli eventuali creditori controinteressati entro il termine ordinatorio assegnato dal giudice non comporta l'inammissibilità dell'impugnazione. Il giudice potrà assegnare al ricorrente un nuovo temine per la notifica, questa volta perentorio in applicazione analogica dell'art. 291 cod. proc. civ.

Questo indirizzo giurisprudenziale, che limita dunque le conseguenze negative dell'inosservanza del termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza camerale alla controparte, escludendo una decisione di inammissibilità o improcedibilità, si pone in contrasto con altro orientamento, affermato di recente da Sez. 1, n. 17202 del 2013, Rv. 627066, est. Giancola. Secondo questa decisione, in mancanza di istanza di proroga del termine prima della scadenza, l'omessa notificazione del ricorso introduttivo di un procedimento di impugnazione con rito camerale entro il termine assegnato nel decreto di fissazione d'udienza, sebbene ordinatorio, determina la decadenza dalla facoltà processuale e la conseguente improcedibilità dell'appello.

L'art. 153 cod. proc. civ. esprime la regola generale dell'improrogabilità dei termini perentori, espressione di un principio generale dell'ordinamento, non derogabile neppure convenzionalmente. La possibilità della sanatoria per il raggiungimento dello scopo dell'inosservanza del termine perentorio, invece, oltre che dalle sentenze dapprima richiamate che assegnano tale effetto alla spontanea costituzione della controparte, è stata affermata anche da Sez. 6-1, n. 16677, Rv. 631884, est. Cristiano. Secondo questa pronuncia, il reclamo proposto alla corte d'appello avverso il provvedimento camerale adottato dal tribunale (nella specie in sede di revisione delle condizioni di separazione dei coniugi) non è improcedibile se il convenuto si sia regolarmente costituito in giudizio, così sanando ex art. 156 cod. proc. civ. il vizio derivante dal mancato rispetto del termine ordinatorio assegnato al reclamante per la notificazione del ricorso e non prorogato con istanza proposta prima della sua scadenza.

La qualificazione di un termine come ordinatorio ne comporta la prorogabilità, purché, secondo quanto stabilisce l'art. 154 cod. proc. civ., solo prima della sua scadenza. Secondo Sez. 3, n. 11671, Rv. 631166, est. Carleo, però, l'inosservanza del termine ordinatorio per ottemperare all'ordine di esibizione ex art. 210 cod. proc. civ. non comporta l'inutilizzabilità a fini probatori della relativa produzione documentale. In questo caso, infatti, non si può ravvisare alcuna lesione del diritto di difesa della controparte, la quale, al contrario, è favorita dalla possibilità, mediante l'intervento del giudice, di acquisire al processo un documento o un'altra cosa in possesso di un terzo o dell'altra parte. Una diversa soluzione è stata reputata irragionevole perché consentirebbe alla parte di rendere inutilizzabile per l'accertamento dei fatti proprio quella documentazione, la cui acquisizione al processo sia stata richiesta dalla sua controparte e ritenuta necessaria dal giudice.

La Suprema Corte (Sez. 5, n. 240, Rv. 629270, est. Valitutti), inoltre, ha precisato che l'art. 154 cod. proc. civ. disciplina la proroga dei soli termini processuali e non trova applicazione per quelli, di carattere sostanziale, riguardanti gli accertamenti ed i controlli delle dichiarazioni tributarie.

Tra le decisioni che si sono occupate della disciplina dei termini, infine, va segnalata Sez. U, n. 19980, Rv. 632162, est. Frasca, che attiene all'estinzione del giudizio di cassazione. Il termine di cui all'art. 391, terzo comma, cod. proc. civ. - di dieci giorni dalla comunicazione del decreto che dispone l'estinzione del giudizio - entro il quale può essere depositata l'istanza di sollecitazione alla fissazione dell'udienza (collegiale) per la trattazione del ricorso, indipendentemente dal fatto che il provvedimento estintivo rechi o meno una pronuncia sulle spese. Il deposito dell'istanza suddetta, secondo questa decisione, è il rimedio che l'ordinamento processuale appresta avverso il decreto presidenziale l'art. 391, terzo comma, cod. proc. civ. che, peraltro, ha la medesima funzione (di pronuncia sulla fattispecie estintiva) e lo stesso effetto (di attestazione che il processo di cassazione deve chiudersi perché si è verificato un fenomeno estintivo) che è riconosciuto alla sentenza o all'ordinanza.

9.2. Il computo dei termini.

Per il calcolo dei termini a mese o ad anno si osserva il calendario comune, facendo riferimento al nome e al numero attribuiti, rispettivamente, a ciascun mese e giorno. Secondo Sez. L, n. 16485, Rv. 631891, est. Ghinoy, pertanto, la scadenza del termine annuale per l'impugnazione delle sentenze - nelle controversie di lavoro, a cui non è applicabile la sospensione feriale dei termini - coincide con lo spirare del giorno (dell'anno successivo) avente la stessa denominazione, quanto a mese e numero, di quello in cui la sentenza è stata depositata.

Ai sensi dell'art. 155, quarto comma, cod. proc. civ. il termine che scade in un giorno festivo è prorogato al primo giorno non festivo; il successivo quinto comma del medesimo articolo proroga al primo giorno non festivo il termine che scade nella giornata di sabato. Queste disposizioni, secondo Sez. 1, n. 21105, Rv. 632538, est. Campanile, si applicano anche al termine di venti giorni previsto dall'art. 369, primo comma, cod. proc. civ., per il deposito del ricorso per cassazione, sebbene questa scadenza, a sua volta, costituisca il dies a quo per il termine concesso all'intimato che intenda contraddire e ricorrere in via incidentale. L'ulteriore termine di venti giorni previsto dall'art. 370, primo comma, per la notifica del controricorso e del ricorso incidentale, pertanto, decorre dal giorno seguente non festivo, al quale, di diritto, è prorogata la scadenza del termine ex art. 369 cod. proc. civ.

La proroga del termine che scade in un giorno festivo, ha precisato Sez. 3, n. 14767, Rv. 631570, est. Scarano, opera anche con riguardo ai termini che si computano "a ritroso", come, nella specie, quello previsto dall'art. 378 cod. proc. civ., ovvero contraddistinti dall'assegnazione di un intervallo di tempo minimo prima del quale deve essere compiuta una determinata attività. Tale operatività, peraltro, deve correlarsi alle caratteristiche proprie di siffatto tipo di termine, producendo il risultato di individuare il dies ad quem dello stesso nel giorno non festivo cronologicamente precedente rispetto a quello di scadenza, in quanto, altrimenti, si produrrebbe l'effetto contrario di una abbreviazione dell'intervallo, in pregiudizio per le esigenze garantite dalla previsione del termine medesimo.

Quanto ai problemi di diritto intertemporale provocati dalle norme in esame, Sez. L n. 6542, Rv. 630086, est. Balestrieri, ha precisato che la proroga del termine che scade nella giornata del sabato è applicabile, in forza dell'art. 58, comma 3, della legge 18 giugno 2009, n. 69, anche ai procedimenti pendenti alla data del 1° marzo 2006, e non più solo a quelli instaurati successivamente a tale data, come originariamente previsto dall'art. 2, comma 4, della legge n. 263 del 2005, fatti, salvi gli effetti del giudicato nel frattempo formatosi. A tale ultimo proposito, Sez. 5, n. 27048, in via di massimazione, est. Crucitti, ha ribadito l'indirizzo già espresso dalla S.C. nel senso che la disposizione richiamata debba essere interpretata in conformità al precetto di cui all'art. 11 disp. prel. cod. civ., cioè nel senso che dispone solo per l'avvenire, stante l'assenza di qualsiasi espressione che possa sottintendere una volontà di interpretazione autentica della precedente disposizione transitoria e, quindi, un automatico effetto retroattivo. La norma, pertanto, potrà trovare applicazione soltanto per il futuro, essendo diretta a regolare comportamenti processuali, con riferimento all'osservanza di termini, relativi a procedimenti pendenti al 1 marzo 2006, in scadenza dopo la data della sua entrata in vigore, e non già a termini che a tale data risultino già scaduti.

9.3. La rimessione in termini.

La Suprema Corte ha rimarcato la portata generale dell'istituto della rimessione in termini di cui all'art. 153, comma secondo, cod. proc. civ.

In particolare, secondo Sez. 6-5, n. 8715, Rv. 630296, est. Caracciolo, la disposizione, che attua i principi costituzionali della tutela del diritto di difesa e del giusto processo, è applicabile anche al rito tributario ed opera sia con riferimento alle decadenze relative ai poteri processuali "interni" al giudizio, sia a quelle correlate alle facoltà esterne e strumentali al processo, come l'impugnazione dei provvedimenti.

L'istituto in esame, secondo Sez. 3, n. 14080, Rv. 631705, est. Armano, esprime un principio generale di favor nei confronti della parte che incolpevolmente incorra in una decadenza processuale, suscettivo anche di applicazione analogica a situazioni analoghe. Una di queste è stata ravvisata nell'ipotesi in cui sia rigettata la richiesta di sostituzione del testimone, già ammesso ma impedito alla prova perché fisicamente incapace: la reiterazione della richiesta istruttoria, sorretta dalle medesime motivazioni, va considerata come istanza di revoca della precedente ordinanza reiettiva e va decisa favorevolmente, ricorrendo per analogia alla rimessione in termini, non potendo imputarsi alla parte la decadenza in cui è incorsa.

La Suprema Corte, tuttavia, esclude che le oscillazioni della giurisprudenza o il mutamento dell'indirizzo interpretativo consolidato possano integrare una causa di rimessione in termini. In particolare Sez. 6-3, n. 6862, Rv. 630700, est. De Stefano, in tema di azione risarcitoria proposta da medici specializzati per il risarcimento del danno da inadempimento delle direttive CEE 75/362 e 82/76, ha statuito che, qualora gli aventi diritto abbiano rinunciato alla domanda nei confronti di un potenziale effettivo titolare dell'obbligazione (quale la Presidenza del Consiglio dei Ministri), non possono invocare per conseguire la rimessione in termini i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di prospective overruling, che non si applicano ad una scelta interpretativa di merito, necessariamente retroattiva, in ordine al contenuto di norme sostanziali, qual è quella collegata all'individuazione della titolarità del rapporto giuridico passivo dedotto in giudizio.

Circa l'individuazione delle cause che, in concreto, possono determinare la rimessione in termini, secondo Sez. 2, n. 7, Rv. 628850, est. Migliucci, uno stato di malattia della parte non può giustificare un simile provvedimento. Tale condizione personale, infatti, non può considerarsi una causa di impedimento non imputabile alla parte, essendo, in ogni caso, possibile il rilascio di una procura ad hoc per la costituzione.

Va segnalata, infine, Sez. 6-1, n. 14337, Rv. 631494, est. Bernabai, in tema di notifiche, secondo cui l'erronea indicazione del solo numero civico dell'indirizzo del difensore destinatario dell'atto, che abbia determinato l'esito negativo della notificazione del ricorso per regolamento di competenza e, conseguentemente, il superamento del termine di decadenza per la sua proposizione, costituisce mero errore materiale e non provoca l'inammissibilità dell'impugnazione qualora una successiva notifica sia andata a buon fine entro un termine ragionevole, non altrimenti abbreviabile (nella specie lo stesso giorno del ritiro dell'atto non notificato). In questo caso, dunque, la parte, piuttosto che richiedere la rimessione in termini, si è attivata diligentemente, attuando il principio della ragionevole durata del processo.

10. Nullità.

10.1. Il raggiungimento dello scopo.

La nullità di un atto del processo non può essere pronunciata, se non è comminata dalla legge e se non deriva dalla mancanza di uno dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo. La Suprema Corte applica costantemente questi principi agli atti introduttivi del giudizio. L'atto nullo ha raggiunto il suo scopo se dal difetto non è derivato un concreto pregiudizio per alcuna delle parti, relativamente al rispetto del contraddittorio, all'acquisizione delle prove e, più in generale, se il vizio non ha impedito o anche soltanto ridotto la libertà di difesa. Sez. 3, n. 6352, Rv. 630554, est. Stalla, pertanto, ha affermato che l'omessa, incompleta o inesatta indicazione, nell'atto di citazione e nella relata di notificazione, del nominativo di una delle parti in causa determina una nullità soltanto ove abbia determinato un'irregolare costituzione del contraddittorio o abbia ingenerato incertezza circa i soggetti ai quali l'atto era stato consegnato. Al contrario, l'irregolarità formale o l'incompletezza nella notificazione del nome di una delle parti non è motivo di nullità se dal contesto dell'atto notificato risulti con sufficiente chiarezza l'identificazione di tutte le parti e la consegna dell'atto alle giuste parti perché l'atto è idoneo a raggiungere i fini ai quali tende. In tale ultima ipotesi, l'apparente vizio va considerato come un mero errore materiale, che può essere agevolmente percepito dall'effettivo destinatario, la cui mancata costituzione in giudizio non è l'effetto di tale errore, ma di una scelta cosciente e volontaria.

Queste regole trovano applicazione anche in relazione all'atto di impugnazione. Secondo Sez. U, n. 2907, Rv. 629584, est. Petitti, qualora l'appello avverso sentenze in materia di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, pronunciate ai sensi dell'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (in giudizi iniziati prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150), sia stato erroneamente introdotto con ricorso anziché con citazione, è suscettibile di sanatoria, sempre che il vizio non abbia determinato la lesione del diritto di difesa della contro - parte. Nel termine previsto dalla legge, pertanto, l'atto deve essere stato depositato nella cancelleria del giudice ed anche notificato alla controparte. Analogamente, Sez. 1, n. 6855, Rv. 629897, est. Giancola, ha ribadito che l'appello avverso la sentenza reiettiva del reclamo contro la declaratoria di estinzione del processo di cui all'art. 308, secondo comma, cod. proc. civ., promosso con citazione anziché con ricorso, è suscettibile di sanatoria a condizione che, nel termine previsto dalla legge, l'atto sia stato non solo notificato alla controparte, ma anche depositato nella cancelleria del giudice. Pure nel caso di mancato rispetto del principio di ultrattività, che identifica il rito da seguire nell'impugnazione in base all'apparenza della natura del provvedimento impugnato, secondo Sez. 6-2, n. 4217, Rv. 629610, est. Bianchini, il giudice deve verificare in concreto se, per effetto di tale error in procedendo, l'impugnazione è tardiva o priva dei requisiti funzionali per l'attivazione di una qualunque forma di contraddittorio. Ogni altra nullità dell'atto introduttivo del gravame non ne comporta l'inammissibilità, potendo essere sanata dal raggiungimento dello scopo.

La non rilevabilità della nullità di un atto per avvenuto raggiungimento dello scopo non si riferisce all'inosservanza di termini perentori, per i quali vigono apposite e separate norme. Nel caso di termini ordinatori, tuttavia, ritorna applicabile la regola in esame. Sez. 6-1, n. 16677, Rv. 6318884, est. Cristiano, infatti, ha statuito che il reclamo proposto alla Corte d'appello avverso il provvedimento camerale adottato dal Tribunale (nella specie in sede di revisione delle condizioni di separazione dei coniugi) non è improcedibile se il convenuto si sia regolarmente costituito in giudizio, così sanando ex art. 156 cod. proc. civ. il vizio derivante dal mancato rispetto del termine ordinatorio assegnato al reclamante per la notificazione del ricorso e non prorogato con istanza proposta prima della sua scadenza.

Il raggiungimento dello scopo è stato ritenuto idoneo da Sez. 1, n. 10453, Rv. 631257, est. Di Amato, ad evitare la nullità della sentenza pronunciata ex art. 281 sexies cod. proc. civ. senza l'osservanza delle forme previste dal codice. Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto valida la sentenza il cui dispositivo è stato letto in udienza e le cui motivazioni sono state comunicate alle parti subito dopo la discussione attraverso la consegna di uno stampato non firmato, poi sottoscritto e depositato in cancelleria.

Anche nel processo esecutivo opera il principio in esame, idoneo, secondo Sez. 3, n. 10327, Rv. 630904, est. De Stefano, a sanare il vizio derivante dalla notificazione del titolo esecutivo al procuratore costituito nel processo, anziché alla parte personalmente ai sensi dell'art. 479 cod. proc. civ. In questo caso, deve ritenersi conseguito il risultato cui tendeva l'atto allorché l'intimato abbia comunque sviluppato difese ulteriori rispetto al profilo della mancata notifica di persona, così rivelando la conoscenza dell'atto. L'errore contenuto nell'atto di pignoramento sugli elementi identificativi del bene pignorato, sempre in forza della regola in esame, secondo Sez. 6-3, n. 2110, Rv. 629847, est. Ambrosio, non è causa di nullità del pignoramento, tranne nel caso in cui comporti incertezza assoluta sul bene stesso. In tema di opposizione agli atti esecutivi, a norma del testo dell'art. 617 cod. proc. civ. vigente antecedentemente alle modifiche recate dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. nella legge 14 maggio 2005, n. 80, l'azione va proposta con ricorso da depositarsi entro cinque giorni dal compimento dell'atto che si intende impugnare. Ove tale opposizione sia stata erroneamente introdotta con citazione, tuttavia, secondo Sez. 3, n. 10643, Rv. 630775, est. Rubino, l'atto produce gli effetti del ricorso se depositato nel rispetto del termine indicato, mentre non è sufficiente la mera notificazione entro la medesima data.

L'istituto in esame è stato ritenuto applicabile anche all'arbitrato. Secondo Sez. 1, n. 8868, Rv. 631157, est. Campanile, è valido il lodo in cui il dispositivo e la relativa motivazione siano redatti e depositati in tempi diversi, non solo perché il procedimento arbitrale è ispirato alla libertà delle forme, ma anche perché tale lodo, ancorché non contenuto in unico documento (come, del resto, si verifica in alcuni procedimenti speciali previsti dal codice di procedura civile), consente il raggiungimento dello scopo a cui è destinato, ex art. 156, terzo comma, cod. proc. civ., componendosi di una parte dispositiva e di una motivazione.

10.2. Nullità relative.

Diverse decisioni della Suprema Corte in tema di prove hanno riguardato ipotesi di nullità relativa, la quale, ai sensi dell'art. 157 cod. proc. civ., non può essere rilevata di ufficio ed è sanata, ove non sia eccepita, nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso, dalla parte nel cui interesse è stabilito il requisito mancante o è disposta la regola violata.

Sez. L, n. 18036, Rv. 632027, est. Amendola, ha ribadito che l'eccezione di nullità della testimonianza per incapacità a deporre è sanata se non è sollevata immediatamente dopo l'escussione del teste ovvero, in caso di assenza del procuratore della parte all'incombente istruttorio, entro la successiva udienza. Si tratta, infatti, di una nullità relativa, perché posta a tutela dell'interesse delle parti. La decisione si segnala perché ha reputato non rilevante il fatto che la parte avesse preventivamente formulato, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ., un'eccezione d'incapacità a testimoniare, che non includeva l'eccezione di nullità della testimonianza, la quale era stata, comunque, ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione.

Secondo Sez. 3, n. 4448, Rv. 630339, est. Frasca, le contestazioni ad una relazione di consulenza tecnica d'ufficio costituiscono eccezioni rispetto al suo contenuto. Esse, pertanto, sono soggette al termine di preclusione di cui all'art. 157, secondo comma, cod. proc. civ. e vanno dedotte, a pena di decadenza, nella prima istanza o difesa successiva al suo deposito. Sez. 1, n. 17269, Rv. 631995, est. Acierno, peraltro, ha precisato che la nomina di un tecnico di fiducia costituisce esercizio del diritto costituzionale di difesa, che non può tradursi in un obbligo, né in una preclusione temporale a prospettare critiche o a richiedere chiarimenti rispetto all'indagine svolta dal consulente tecnico di ufficio. Ne deriva che la parte può presentare osservazioni critiche alla relazione di quest'ultimo pur quando non abbia tempestivamente designato un proprio consulente.

Va segnalata, infine, Sez. 1, n. 14792, Rv. 631821, est. Di Amato, secondo cui che la mera presenza di un interprete di fiducia di un cittadino straniero, parte di un procedimento innanzi all'autorità giudiziaria, è causa di nullità solo ove risulti che questi sia concretamente intervenuto nell'attività processuale di udienza, traducendo, per l'organo giudicante e per lo straniero medesimo, gli atti ivi svoltisi. L'eventuale nullità, per violazione dell'art. 122 cod. proc. civ., degli atti compiuti con il suo intervento, comunque, non investe la regolarità del contraddittorio, ma solo le modalità di audizione dello straniero, per cui deve essere eccepita dalla parte interessata non oltre la prima istanza o difesa successiva alla stessa audizione.

10.3. Limiti al rilievo della nullità.

In forza dell'art. 157, terzo comma, cod. proc. civ., la nullità di un atto processuale non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa. Questa regola, che mira a limitare la declaratoria del vizio, secondo Sez. 6-2, ord. n. 3855, Rv. 629632, est. D'Ascola, si riferisce ai casi di nullità relativa, nei quali il difetto può essere rilevato solo su istanza di parte, e non riguarda le ipotesi in cui possa essere rilevata anche d'ufficio. Ne consegue che non trova applicazione quando, come nel caso di mancata integrazione del contraddittorio in causa inscindibile, la nullità si ricolleghi ad un difetto di attività del giudice, al quale incombeva l'obbligo di adottare un provvedimento per assicurare il regolare contraddittorio nel processo.

La nullità, inoltre, non può essere eccepita dalla parte che vi ha rinunciato, anche tacitamente. Nel regime delle preclusioni introdotte con la legge 26 novembre 1990, n. 353, però, secondo Sez. 6-3, n. 3437, Rv. 629914, est. Frasca, non è suscettibile di apprezzamento come rinuncia l'acquiescenza del convenuto che non ha eccepito l'inammissibilità del mutamento della domanda di condanna piena in condanna generica. Il mancato rilievo dell'inammissibilità determina una nullità della sentenza, destinata a convertirsi in motivo di impugnazione.

10.4. Estensione della nullità.

L'art. 159, primo comma, cod. proc. civ., espressione del principio della conservazione dell'atto giuridico, dispone che la nullità di un atto processuale importa quella dei soli atti successivi, che siano dipendenti dall'atto viziato. Per la declaratoria della nullità "derivata", dunque, occorre che il primo atto non solo sia cronologicamente anteriore, ma anche indispensabile per la realizzazione di quello che segue. In applicazione di questa regola, la Suprema Corte, con la sentenza Sez. 1, n. 18587, Rv. 632353, est. De Chiara, ha affermato che la nullità di un atto istruttorio - sia che ammetta le prove richieste, sia che le escluda - non determina la nullità "derivata" della sentenza, né incide sulla decisione che da esso prescinda. L'atto istruttorio, infatti, essendo puramente eventuale, non fa parte dell'indefettibile serie procedimentale che conduce alla sentenza ed il cui vizio determina la nullità, ma influisce soltanto sul merito delle valutazioni (in fatto) compiute dal giudice. Il rapporto tra il provvedimento istruttorio e la sentenza non è in termini di dipendenza, ma di giustificatezza o meno delle statuizioni in fatto della decisione, la quale, solo se fondata sulla prova nulla (che quindi non può essere utilizzata) o sull'esclusione di una prova con provvedimento nullo, è priva di valida motivazione.

10.5. Conversione della nullità in motivi di impugnazione.

Ai sensi dell'art. 161 cod. proc. civ., la nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere solo nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione. Il principio della conversione della nullità in motivi di impugnazione, che, al pari di quello del raggiungimento dello scopo, tende a superare i vizi processuali, è stato applicato da Sez. 3, n. 13244, Rv. 631756, est. Vincenti nella ipotesi di cancellazione del difensore dall'albo professionale nel corso di un giudizio. Questo evento, contemplato nel novero di quelli previsti dall'art. 301 cod. proc. civ., comporta l'automatica interruzione del processo, con conseguente preclusione di ogni ulteriore attività processuale che, se compiuta, è causa di nullità degli atti successivi e della sentenza. Tuttavia tale nullità, in applicazione della regola dell'art. 161 cod. proc. civ., può essere fatta valere solo come motivo di impugnazione.

Il medesimo principio è stato applicato da Sez. L, n. 2631, Rv. 629651, est. Tria, in tema di inammissibilità dell'appello, per la mancata esposizione degli elementi di fatto e per la genericità delle censure. Alla stregua di questa decisione, ove un simile difetto sia stato escluso dal giudice d'appello, non può essere rilevato d'ufficio in sede di legittimità, né può essere dedotto, per la prima volta, con la memoria illustrativa di cui all'art. 378 cod. proc. civ., ma deve essere fatto valere con i motivi di ricorso. La conversione delle ragioni di nullità della sentenza in motivi di gravame, infatti, onera la parte interessata di impugnare la decisione anche con riguardo alla pronuncia, implicita, sulla validità dell'atto.

Il limite all'operatività del principio della conversione dei vizi della sentenza in motivi di gravame, ai sensi dell'art. 161, secondo comma, cod. proc. civ., è rappresentato dal difetto di sottoscrizione del giudice. Questo caso determina un vizio di inesistenza o di nullità radicale della sentenza che, come ha ribadito Sez. 3, n. 9865, Rv. 630659, est. Barreca, è deducibile con le ordinarie impugnazioni, ovvero con un'autonoma azione di accertamento negativo (actio nullitatis).

È stato precisato da Sez. U, n. 11021, Rv. 630706, est. Vivaldi, tuttavia, che è affetta da nullità sanabile ai sensi dell'art. 161, primo comma, cod. proc. civ. la sentenza emessa dal giudice in composizione collegiale priva solo di una delle due sottoscrizioni (del presidente del collegio ovvero del relatore). In questo caso, infatti, la sottoscrizione è da reputarsi solo insufficiente e non mancante. Una diversa interpretazione, che accomuni l'ipotesi in esame a quella del difetto di sottoscrizione, con applicazione dell'art. 161, secondo comma, cod. proc. civ., è stata ritenuta lesiva dei principi del giusto processo e della ragionevole durata del giudizio.

È stato anche precisato da Sez. U, n. 11024, Rv. 630845, est. Cappabianca, sia pure in materia di decisioni disciplinari del Consiglio Nazionale Forense, che, qualora la conformità all'originale della copia notificata della sentenza risulti attestata dal consigliere segretario recando, con la dicitura "firmato", l'indicazione a stampa del nome e del cognome del presidente e del segretario, tale formulazione della copia non è idonea a dimostrare la mancanza della sottoscrizione dell'originale, asseverando, anzi, il contrario.

Va segnalata anche Sez. 6-L, n. 6162, Rv. 630464, est. Mancino, secondo cui è inesistente o radicalmente nullo un provvedimento giurisdizionale avente contenuto decisorio emesso nei confronti delle parti del giudizio, ma con motivazione e dispositivo relativi a diversa causa concernente altri soggetti. L'incompiuto esercizio della giurisdizione, tuttavia, comporta che il giudice cui è apparentemente da attribuire la sentenza inesistente possa procedere alla sua rinnovazione, emanando un atto valido conclusivo del giudizio.

10.6. Il difetto della composizione del giudice o dell'intervento del pubblico ministero.

Alcune decisioni hanno contribuito a delineare i margini entro cui è configurabile il difetto di composizione del giudice. Un simile vizio, secondo Sez. L, n. 20463, Rv. 632625, est. Tria, è ravvisabile qualora gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all'Ufficio, non investita della funzione esercitata, e non quando il giudice relatore, assolutamente impedito, sia sostituito da colleghi di pari funzioni e competenza. Tale sostituzione, anche ove disposta senza l'osservanza delle condizioni stabilite dagli artt. 174 cod. proc. civ. e 79, disp. att., cod. proc. civ., non implica violazione del giudice naturale, né dà luogo a nullità del procedimento, bensì ad una mera irregolarità di carattere interno che non incide sulla validità dell'atto.

Secondo Sez. 3, n. 19741, Rv. 632594, est. Cirillo, poi, il vizio della costituzione del giudice sarebbe configurabile nel caso in cui si asserisce il difetto di potestas iudicandi dell'organo giurisdizionale, perché ritenuto istituito con norma tacciata di illegittimità costituzionale. In una simile ipotesi, non è ravvisabile una questione di giurisdizione bensì, nel caso in cui trovi accoglimento la relativa eccezione di illegittimità costituzionale, un vizio di costituzione del giudice, rilevabile ai sensi degli artt. 158 cod. proc. civ. e 161 cod. proc. civ.

Secondo Sez. 1, n. 13907, Rv. 631509, est. Nazzicone, alla stregua del rinvio operato dall'art. 50 quater cod. proc. civ. al successivo art. 161, primo comma, cod. proc. civ., l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale costituisce un'autonoma causa di nullità della decisione e non una forma di nullità relativa derivante da atti processuali antecedenti alla sentenza, relativo alla costituzione del giudice. Il vizio, pertanto, non è soggetto al regime di sanatoria implicita delle nullità ex art. 157 cod. proc. civ.; è convertibile in motivo di impugnazione, senza determinare la nullità degli atti che hanno preceduto la sentenza nulla; non produce l'effetto della rimessione degli atti al primo giudice ove quello dell'impugnazione sia anche giudice del merito.

Nel caso concreto, la Suprema Corte ha confermato la decisione con la quale la corte di appello, accertata la nullità dell'ordinanza-ingiunzione pronunciata a norma dell'art. 186 quater cod. proc. civ. dal giudice monocratico invece che dal collegio, ha deciso sulla domanda senza rimettere la causa innanzi al giudice di primo grado.

La nullità derivante dall'omessa partecipazione al giudizio del P.M., nei procedimenti in cui sia previsto l'intervento obbligatorio, secondo Sez. 1, n. 16361, Rv. 632203, est. Campanile, si converte in motivo di gravame ai sensi degli artt. 158 e 161 cod. proc. civ. Il vizio, però, può essere fatto valere solo dalla parte pubblica (a cui compete anche il corrispondente e specifico motivo di revocazione ex art. 397, n. 1, cod. proc. civ.), dovendosi escludere che sussista una concorrente legittimazione delle altre parti.

10.7. La rinnovazione degli atti nulli.

L'art. 162 cod. proc. civ. stabilisce il giudice non può limitarsi a constatare la nullità di un atto processuale, ma, quando è possibile, ha l'obbligo di ordinarne la rinnovazione allo scopo di eliminare il vizio. La regola è stata applicata da Sez. 6-1, n. 12338, Rv. 631406, est. Ragonesi, nel procedimento per la dichiarazione di fallimento. Secondo questa decisione, con il deposito del ricorso si instaura il rapporto cittadino-giudice, mentre la successiva fase, che si perfeziona con la notifica al convenuto del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza, è finalizzata esclusivamente all'instaurazione del contraddittorio. In caso di omissione della notifica (o mancato rispetto del termine assegnato per il suo compimento, in difetto di espressa sanzione), non ricorre la nullità del ricorso stesso, ma è necessario solo assicurare l'effettiva instaurazione del contraddittorio, che si può conseguire per mezzo della costituzione spontanea del resistente o con la rinnovazione della notifica eseguita spontaneamente dalla parte oppure, per quello che qui interessa, mediante l'ordine di rinnovazione della notifica stessa, emesso dal giudice in applicazione dell'art. 162, primo comma, cod. proc. civ.

  • procedura civile
  • ferie
  • azione dinanzi a giurisdizione civile

CAPITOLO XXVI

IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO

(di Giuseppe Fichera )

Sommario

1 Vizi della citazione. - 2 Costituzione delle parti e contumacia. - 3 Sospensione, interruzione, estinzione. - 4 Sospensione feriale dei termini. - 5 Vizi della decisione.

1. Vizi della citazione.

Sulle note questioni concernenti la nullità dell'atto di citazione per violazione dei cd. termini liberi per comparire di cui all'art. 163 bis, primo comma, cod. proc. civ., Sez. 1, n. 15128, Rv. 631368, est. Lamorgese, ha ribadito il principio, fermo nella giurisprudenza della S.C., secondo cui ai fini del calcolo dei termini minimi a comparire, decorrenti dalla data della notifica della citazione, occorre fare riferimento alla data dell'udienza fissata in citazione; non può dubitarsi, quindi, che, in caso di inosservanza dei predetti termini, la nullità della citazione non è sanata quando essi risultino rispettati soltanto per effetto del differimento dell'udienza disposta dal giudice istruttore a norma dell'art. 168 bis, quarto e quinto comma, cod. proc. civ..

Per Sez. 2, n. 142, Rv. 628957, est. Nuzzo, poi, va esclusa la nullità della citazione se la notifica è stata eseguita a mani proprie del cittadino straniero presso il domicilio che egli abbia in Italia, non essendo detta notifica soggetta al maggior termine a comparire (centocinquanta giorni) stabilito dall'art. 163 bis, primo comma, cod. proc. civ. per le notifiche all'estero, avuto riguardo alla ratio della norma, che presume la necessità di un maggior tempo per apprestare dall'estero una congrua difesa in Italia.

Precisa, poi, Sez. 6-3, n. 21910, Rv. 632986, est. Frasca, che in ipotesi di nullità della citazione per inosservanza dei termini liberi di comparizione o per mancanza dell'avvertimento previsto ai sensi dell'art. 163, n. 7, cod. proc. civ., siffatto vizio non può essere sanato dalla costituzione del convenuto, ove egli abbia espressamente eccepito tale nullità - dovendo il giudice in tal caso fissare nuova udienza nel rispetto dei termini -, ma sempre a condizione che il medesimo convenuto, nel costituirsi, si sia limitato alla sola deduzione della ridetta nullità, senza svolgere difese di sorta nel merito della causa, contegno, quest'ultimo, che invece determina la sanatoria del vizio della citazione.

Ancora, secondo Sez. 3, n. 6352, Rv. 630554, est. Stalla, l'omessa, incompleta o inesatta indicazione, nell'atto di citazione e nella relata di notificazione, del nominativo di una delle parti in causa, è motivo di nullità dell'atto soltanto ove abbia determinato un'irregolare costituzione del contraddittorio o abbia ingenerato incertezza circa i soggetti ai quali il medesimo atto sia stato in precedenza notificato. L'irregolarità formale o l'incompletezza nella notificazione del nome di una delle parti non è, invece, motivo di nullità se dal contesto dell'atto notificato risulti con sufficiente chiarezza l'identificazione di tutte le parti e l'avvenuta consegna dell'atto alle giuste parti.

In tal caso, infatti, la notificazione è idonea a raggiungere, nei confronti di tutte le parti, i fini ai quali tende e l'apparente vizio va considerato come un mero errore materiale che può essere agevolmente percepito dall'effettivo destinatario; la mancata costituzione in giudizio del convenuto, allora, non è l'effetto di un errore commesso dall'attore nella vocatio in ius, ma una scelta cosciente e volontaria del convenuto.

Lungo lo stesso solco, Sez. 3, n. 4445, Rv. 630340, est. Lanzillo, assume che, sebbene sia onere dell'attore individuare correttamente la persona destinataria della domanda giudiziale, le conseguenze dell'erronea identificazione del convenuto debbono essere sopportate da quest'ultimo, allorché le circostanze del caso concreto dimostrino - inequivocabilmente - che l'errore dell'attore è stato inconsapevole, ancorché colposo, mentre il comportamento della controparte è stato doloso o comunque consapevolmente orientato ad approfittare dell'errore altrui per trarne ingiusto profitto.

Nella peculiare vicenda all'esame della S.C. è stato censurato il contegno tenuto dalla parte debitrice, consistito nel ricevere presso il proprio appartamento dapprima una diffida ad adempiere e poi la notificazione dell'atto di citazione, atti entrambi indirizzati alla propria genitrice, senza contribuire a dissipare l'equivoco, ma anzi alimentandolo, essendosi dichiarata "figlia" della destinataria dei due atti (senza però rivelare il decesso della madre avvenuto in precedenza).

Dando continuità ad un orientamento già precedentemente espresso dalla S.C. (n. 14066 del 2008), secondo Sez. 3, n. 6202, Rv. 629889, est. Rubino, quando la citazione sia stata notificata ad una società già estinta - per precedente incorporazione in un'altra società -, l'atto introduttivo deve certamente considerarsi nullo per inesistenza della parte convenuta, ma tale nullità resta tuttavia sanata per effetto della costituzione in giudizio della società incorporante, indipendentemente dalla volontà e dall'atteggiamento processuale di questa; ciò in quanto la vocatio in ius di un soggetto non più esistente, ma nei cui rapporti sia succeduto un altro soggetto, consente comunque di individuare il rapporto sostanziale dedotto in giudizio, realizzando un vizio meno grave rispetto a quello da cui è affetta la vocatio addirittura mancante dell'indicazione della parte processuale convenuta, che ai sensi dell'art. 164, comma terzo, cod. proc. civ., è sanabile mediante la costituzione in giudizio di chi, malgrado il vizio, si sia riconosciuto come convenuto.

Quanto ai vizi della editio actionis, ribadendo il consolidato orientamento della S.C., Sez. 1, n. 20294, Rv. 632291, est. Mercolino, ha affermato che la nullità della citazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 163, secondo comma, n. 3, e 164 cod. proc. civ., presuppone la totale omissione o l'assoluta incertezza dell'oggetto della domanda, sicché tale nullità non ricorre quando il petitum sia comunque individuabile attraverso un esame complessivo dell'atto introduttivo del giudizio, non limitato alla parte di esso destinata a contenere le conclusioni, ma esteso anche alla parte espositiva.

Sempre in tema di nullità dell'atto introduttivo per violazione dell'art. 163, comma secondo, nn. 3) e 4, cod. proc. civ., Sez L, n. 896, Rv. 630376, est. Amoroso, dando continuità all'orientamento espresso dalla S.C. con riferimento al rito di cognizione ordinario (n. 17408 del 2012), ha ritenuto che anche nel rito del lavoro sia applicabile l'art. 164, quinto comma, cod. proc. civ..

Se dunque il giudice di primo grado, stante la costituzione del convenuto, omette di fissare un termine per l'integrazione dell'atto introduttivo del giudizio, nullo per mancata o insufficiente determinazione dell'oggetto della domanda o per analogo vizio concernente l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la pretesa si fonda - e ciò nonostante l'eccezione in tal senso sollevata dal convenuto -, diventa onere del ricorrente richiedere, già alla prima udienza di comparizione, la fissazione di un termine per sanare la nullità.

Ove il giudice non abbia fissato all'attore il termine perentorio per integrare la domanda, ai sensi dell'art. 164, quinto comma, cod. proc. civ., né l'attore abbia invocato la concessione del detto termine per sanare il vizio, se la nullità venga dedotta come motivo d'appello dal convenuto, il giudice del gravame non dovrà fissare alcun termine per la rinnovazione dell'atto nullo, ma dovrà definire il processo con una pronuncia in rito che accerti il vizio del ricorso introduttivo.

2. Costituzione delle parti e contumacia.

La Corte, con Sez. 2, n. 7807, Rv. 630398, est. Scalisi, ha ribadito l'orientamento, prevalente in dottrina come in giurisprudenza, a tenore del quale l'art. 180 cod. proc. civ., nel testo anteriore alla legge 14 maggio 2005, n. 80 - con la quale è stato soppresso il secondo comma della cennata norma, che imponeva al giudice istruttore all'udienza di prima comparizione, "in ogni caso", di fissare una nuova udienza per la trattazione della causa, assegnando al convenuto un termine perentorio per proporre eccezioni non rilevabili d'ufficio -, laddove autorizzava il convenuto a proporre nuove eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, non poneva limitazioni di sorta in ordine alla novità o alla coerenza di tali eccezioni rispetto al contenuto della comparsa di costituzione e risposta.

Sulla chiamata in causa del terzo da parte del convenuto, Sez. 3, n. 23174, in corso di massimazione, est. Scrima, ribadisce il consolidato indirizzo della S.C. a tenore del quale nell'ambito del procedimento per ingiunzione, poiché per effetto dell'opposizione non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso - mantenendo il creditore la veste di attore e l'opponente quella di convenuto -, ne consegue che per il disposto dell'art. 269 cod. proc. civ., che disciplina le modalità della chiamata del terzo in causa, l'opponente (in quanto convenuto) deve necessariamente chiedere al giudice, con l'atto di opposizione, l'autorizzazione a chiamare in giudizio il terzo al quale ritenga comune la causa e, in mancanza di tale autorizzazione, la chiamata del terzo risulta viziata e tale vizio risulta rilevabile d'ufficio, non restando sanato neppure dall'eventuale costituzione in giudizio del terzo chiamato.

Siffatto principio deve trovare applicazione anche nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo celebrato innanzi al giudice di pace. Infatti, secondo Sez. 2, n. 10610, Rv. 631014, est. Matera, nel detto giudizio, sia pure con i necessari adattamenti, trovano applicazioni le preclusioni previste nel rito di cognizione ordinario.

Con il risultato che, anche nell'opposizione al decreto monitorio spiccato dal giudice di pace, l'opponente che intenda chiamare un terzo in causa, avendo posizione sostanziale di convenuto, deve farne espressa richiesta nell'atto di opposizione, a pena di decadenza, non potendo quindi formulare l'istanza direttamente alla prima udienza innanzi al giudice di pace.

Sul tema della tardiva costituzione delle parti, in continuità con i precedenti della S.C., secondo Sez. 6-2, n. 3626, Rv. 629432, est. Manna, nel caso di inerzia di tutte le parti in giudizio, le disposizioni degli artt. 171 e 307, primo e secondo comma, cod. proc. civ., sulla cancellazione della causa dal ruolo per la mancata tempestiva costituzione delle parti, non si applicano se le medesime, pure costituendosi effettivamente in ritardo, dimostrino la comune volontà di dare impulso al processo, regolarizzando in tal modo l'instaurazione del rapporto processuale.

In applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha escluso che valesse ad impedire l'ulteriore trattazione della controversia l'eccezione di tardiva costituzione degli attori formulata dai convenuti, i quali peraltro si erano difesi anche nel merito.

Sempre sul medesimo argomento, Sez. 2, n. 7, Rv. 628850, est. Migliucci, precisa che la parte la quale non si sia costituita tempestivamente in giudizio non può essere rimessa in termini, ai sensi dell'art. 294 cod. proc. civ., quando deduca che la costituzione le sia stata impedita da uno stato di malattia, perché tale stato non può considerarsi una causa di impedimento ad essa non imputabile, essendo, in ogni caso, possibile il rilascio di una procura ad hoc per la costituzione.

Neppure può essere rimesso in termini ex art. 294 cod. proc. civ., secondo Sez. 2, n. 10183, Rv. 630869, est. Matera, il contumace che lamenti di non aver avuto notizia dell'atto di citazione, notificatogli presso la residenza originaria, in quanto ai sensi dell'art. 44 cod. civ. la residenza originaria si considera immutata sino alla regolare denunzia del trasferimento, sicché non può dolersi chi se ne è allontanato senza dare disposizioni per essere prontamente informato di quanto a lui indirizzato.

La Corte, con Sez. L, n. 24885, in corso di massimazione, est. Lorito, ribadisce il granitico orientamento della S.C., a tenore del quale la contumacia del convenuto integra un comportamento neutrale cui non può essere attribuita valenza confessoria o comunque di non contestazione dei fatti allegati dalla controparte, la quale resta invece onerata della relativa prova.

Ne discende che rientra nelle facoltà difensive del convenuto, già dichiarato contumace nel corso del giudizio di primo grado, contestare - costituendosi tardivamente -, le circostanze poste a fondamento del ricorso; ciò in quanto la previsione dell'obbligo del convenuto di formulare nella memoria difensiva, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito, nonché di prendere posizione precisa in ordine alla domanda e di indicare le prove di cui intende avvalersi, non esclude il potere-dovere del giudice di accertare se la parte attrice abbia dato dimostrazione probatoria dei fatti costitutivi e giustificativi della pretesa, indipendentemente dalla circostanza che, in ordine ai medesimi, siano o meno state proposte, dalla parte legittimata a contraddire, contestazioni specifiche, difese ed eccezioni in senso lato.

Infine, con riferimento allo speciale procedimento di opposizione allo stato passivo in materia fallimentare, regolato dal vigente art. 99 legge fall., come novellato prima dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e successivamente dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, Sez. 6-1, n. 11813, Rv. 631282, est. Cristiano, afferma che nell'ipotesi in cui la parte opponente non sia comparsa ad una delle udienze fissate per la trattazione del giudizio, ivi compresa la prima (nella quale va solo verificato che il ricorso sia stato notificato nei termini assegnati), non è consentito al tribunale di dichiarare senz'altro improcedibile il ricorso.

3. Sospensione, interruzione, estinzione.

In tema di sospensione necessaria del processo, Sez. 6-1, n. 18627, Rv. 632060, est. Cristiano, ha ribadito l'orientamento, più volte espresso dalla S.C., in base al quale i rapporti fra giurisdizione ecclesiastica e giurisdizione civile sono regolati dal principio di prevenzione in favore di quest'ultima, poiché l'art. 797, n. 6, cod. proc. civ. - secondo cui la delibazione della sentenza straniera è preclusa quando sia pendente davanti al giudice italiano un giudizio sul medesimo oggetto tra le stesse parti - è tuttora operante nell'ambito regolato dall'Accordo di revisione del Concordato lateranense (reso esecutivo in Italia con legge 28 marzo 1985, n. 121), per l'espresso richiamo, di natura materiale e non formale, alla detta norma ivi contenuto.

Ne consegue che il giudice italiano, in difetto di delibazione della corrispondente sentenza ecclesiastica, può statuire sulla domanda di nullità del matrimonio concordatario formulata in via riconvenzionale dal coniuge convenuto in giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Una serie di pronunzie, poi, hanno dato continuità a quell'orientamento del Giudice di legittimità, sempre più restrittivo sull'ambito di estensione delle ipotesi di sospensione necessaria del processo.

In particolare, Sez. 6-1, n. 6207, Rv. 630017, est. Bisogni, ribadisce il consolidato arresto delle sezioni unite (Sez. U, n. 10027 del 2012) a tenore del quale, salvo nel caso in cui la sospensione sia imposta da una disposizione specifica fino al passaggio in giudicato, quando fra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell'art. 337 cod. proc. civ.

E siffatta conclusione si può agevolmente trarre da una interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo decisivo riveste l'art. 282 cod. proc. civ. in forza del quale il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite, giustificando sia l'esecuzione provvisoria, sia la cosiddetta "autorità" della sentenza di primo grado.

Nella fattispecie esaminata, la S.C. ha cassato l'ordinanza di sospensione ex art. 295 cod. proc. civ. emessa da un tribunale, affermando che la pendenza in appello di un giudizio in cui era stata accolta, in primo grado, la domanda di una società volta all'accertamento della validità dell'acquisto di un complesso immobiliare non era necessariamente pregiudiziale al procedimento introdotto in primo grado dalla medesima società e volto a far valere l'acquisto immobiliare per usucapione abbreviata per effetto dell'immissione in possesso conseguente all'aggiudicazione, potendo tale secondo procedimento essere sospeso solo ai sensi dell'art. 337 cod. proc. civ., ove il giudice avesse inteso riconoscere l'autorità della prima decisione resa da altro giudice.

Soggiunge, poi, Sez. 6-3, n. 24046, in corso di massimazione, est. De Stefano, dando così continuità al cennato precedente delle sezioni unite della S.C. (Sez. U., n. 10027 del 2012 cit.), che per esercitare il potere di sospensione discrezionale del processo, previsto dall'art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., è indispensabile un'espressa valutazione da parte del giudice di plausibile controvertibilità della decisione intervenuta.

Ne consegue che la sospensione discrezionale in parola è ammessa solo a condizione che il giudice del secondo giudizio indichi, esplicitamente, le ragioni per cui non intenda poggiarsi sulla cosiddetta "autorità" della prima sentenza - già intervenuta sulla questione ritenuta pregiudicante -, precisando in sostanza perché non ne condivida il merito o le ragioni giustificatrici.

In tema di opposizione a decreto ingiuntivo Sez. 6-3, n. 6211, Rv. 630497, est. Amendola, precisa che il relativo giudizio avente ad oggetto la restituzione di somme versate a seguito di una sentenza di condanna in primo grado, poi riformata in appello quanto all'ammontare del risarcimento dei danni, non può essere sospeso in attesa della decisione sul ricorso per cassazione proposto avverso la stessa sentenza di riforma in grado di appello; ciò in quanto non ricorre un rapporto di pregiudizialità logico-giuridica tra il procedimento d'impugnazione e quello di opposizione a decreto ingiuntivo, tale da giustificare la sospensione di quest'ultimo giudizio, ai sensi dell'art. 295 cod. proc. civ.

Ancora, Sez. 6-3, n. 673, Rv. 630346, est. Segreto, ribadisce che la sospensione necessaria del giudizio civile in pendenza di processo penale, secondo quanto dispongono gli artt. 295 cod. proc. civ., 654 cod. proc. pen. e 211 disp, att. cod. proc. pen., richiede l'identità dei fatti materiali oggetto di accertamento in entrambi i giudizi, con l'eccezione delle limitate ipotesi previste dall'art. 75, terzo comma, cod. proc. pen.

Non è quindi consentita la sospensione del giudizio di opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, in pendenza di un procedimento penale per falsità della relata di notifica dell'atto di opposizione, quando nel giudizio civile tale falsità sia stata oggetto non di querela di falso, ma solo di contestazioni in ordine al profilo della validità o esistenza della notificazione.

Nell'ambito, poi, dello speciale procedimento per la dichiarazione di adottabilità del minore non riconosciuto alla nascita, secondo Sez. 1, n. 2802, Rv. 630218, est. Giancola, la peculiare facoltà accordata alle parti di chiedere la sospensione del detto procedimento abbreviato e un termine per provvedere al riconoscimento, prevista in capo a chi si affermi genitore biologico dall'art. 11, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, non è preventivamente rinunciabile, né è soggetta a decadenza, in quanto la richiesta può intervenire fino alla definizione del procedimento di primo grado, dovendo poi il tribunale per i minorenni valutare, nell'interesse preminente del minore alla sua famiglia di origine, il requisito del perdurante rapporto del genitore biologico con il figlio alla luce delle peculiarità del caso, valorizzando la disponibilità, la capacità e le competenze del genitore biologico, quali connesse alla responsabilità del ruolo.

La Corte, poi, afferma (Sez. 3, n. 6512, Rv. 630703, est. Carluccio) che nel caso in cui sia stata pronunciata sentenza declinatoria della competenza, l'atto di riassunzione innanzi al giudice indicato come competente ex art. 50 cod. proc. civ. - posto in essere malgrado la pendenza di impugnazione avverso la suddetta decisione - è nullo in quanto effettuato durante la sospensione del processo, senza che assuma rilievo la corretta individuazione del giudice davanti al quale è compiuto, poiché la successiva conferma di tale designazione da parte della Corte di cassazione non ha efficacia sanante.

In ordine alle tematiche concernenti l'interruzione del processo, Sez. 1, n. 9480, Rv. 631133, est. De Chiara, riafferma un orientamento, già espresso in epoca datata (n. 318 del 1991), ma successivamente giammai rimesso in discussione, secondo il quale la morte o la perdita della capacità di stare in giudizio della parte, cui l'art. 300 cod. proc. civ. ricollega l'effetto interruttivo del processo, è fattispecie che presenta due elementi essenziali costituiti, rispettivamente, dall'evento previsto come causa di interruzione e dalla relativa comunicazione formale ad opera del procuratore; in difetto di una siffatta comunicazione, dunque, il rapporto processuale continua a svolgersi come se l'evento non si fosse giammai verificato.

Ne consegue che il procuratore della parte colpita dall'evento interruttivo ma che non sia stato dichiarato in seno al processo, è legittimato a provvedere in base alla procura originariamente rilasciatagli, alla riassunzione del processo che sia stato interrotto per analogo evento interruttivo riguardante un'altra parte e che sia stato formalmente dichiarato dal suo procuratore.

Nel caso in esame, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva dichiarato l'estinzione del mandato in favore del difensore del dante causa del ricorrente, per effetto dell'interdizione di quest'ultimo sopraggiunta nel corso del giudizio di primo grado e tuttavia non dichiarata dal difensore medesimo; vige invece la regola dell'ultrattività del mandato difensivo all'interno della fase processuale in cui si è verificato l'evento interruttivo non dichiarato, per cui il difensore resta pienamente titolato a riassumere il processo interrotto per il decesso di un'altra parte processuale.

Secondo Sez. 3, n. 13244, Rv. 631756, est. Vincenti, nell'ipotesi di cancellazione volontaria del difensore dall'albo professionale nel corso del primo grado di un giudizio, l'evento - ricondotto dal giudice d'appello, con decisione non gravata da ricorso per cassazione e quindi non più sindacabile dal giudice di legittimità, nel novero di quelli previsti dall'art. 301 cod. proc. civ. - comporta l'automatica interruzione del processo, con conseguente preclusione di ogni ulteriore attività processuale, che se compiuta è causa di nullità degli atti successivi e della sentenza.

Tuttavia tale nullità, in applicazione della regola dell'art. 161 cod. proc. civ., può essere fatta valere solo quale motivo di impugnazione, e nei limiti di questa, con l'effetto che non è più proponibile se sia decorso - come nella vicenda all'esame della Corte -, un anno dalla pubblicazione della sentenza nulla, ex art. 327, primo comma, cod. proc. civ. (nel testo ratione temporis applicabile, prima della novella introdotta dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha ridotto a sei mesi il termine cosiddetto lungo per impugnare).

Sugli effetti della mancata riassunzione nei termini del processo interrotto, Sez. 2, n. 15539, Rv. 631695, est. Proto, ha ribadito che, in caso di litisconsorzio facoltativo e, quindi, di cause scindibili, la nullità, la tardività o l'assoluta mancanza dell'atto di riassunzione del processo nei confronti di alcuni coobbligati non si estende ai rapporti processuali relativi agli altri, nei cui riguardi la riassunzione sia stata validamente e tempestivamente eseguita, estinguendosi il giudizio, in applicazione del principio previsto dall'art. 1306 cod. civ., esclusivamente con riferimento ai primi, nei cui confronti la conseguente declaratoria di estinzione ha natura di sentenza definitiva.

Peraltro, chiarisce Sez. 3, n. 11686, Rv. 630898, est. Lanzillo, che sempre in caso di interruzione del processo in cui siano state riunite più cause scindibili, l'atto di riassunzione posto in essere da una sola delle parti ha l'effetto di impedire l'estinzione del giudizio anche con riguardo alle altre, qualora le stesse - destinatarie della notifica dell'atto di riassunzione - si siano costituite in giudizio ed abbiano riproposto tutte le domande, principali e riconvenzionali, già appartenenti alle cause riunite, senza che sia necessario che ciascuna di esse proceda formalmente ad un autonoma riassunzione.

Sul termine entro cui il processo esecutivo sospeso deve essere riassunto, Sez. 3, n. 18320, Rv. 632091, est. D'Alessandro, afferma che, verificatasi una fattispecie estintiva del giudizio di opposizione all'esecuzione per inattività delle parti, non decorre ancora alcun termine per la riassunzione del processo di esecuzione in stato di sospensione, essendo necessario, ai fini della sua decorrenza, che l'estinzione sia dichiarata o con l'ordinanza di cui all'art. 308, primo comma, cod. proc. civ. (divenuta inoppugnabile per mancanza di reclamo), o con la sentenza passata in giudicato che provveda sul reclamo, ovvero con la sentenza d'appello che confermi la dichiarazione di estinzione o la dichiari in riforma della sentenza di primo grado.

4. Sospensione feriale dei termini.

In tema di sospensione feriale dei termini, recentemente ridotta a 31 giorni (dal 1 al 31 agosto), a decorrere dall'anno 2015, per effetto dell'art. 16, comma 1, d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, attraverso la novella dell'art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 749 (che in origine prevedeva una sospensione di 46 giorni, dal 1 agosto al 15 settembre di ogni anno), la Corte ha avuto modo di pronunciarsi su diversi casi, tutti nell'ambito delle opposizioni all'esecuzione.

La Corte, con Sez. 3, n. 15892, Rv. 632056, est. Spirito, ribadisce il principio che qualora nel medesimo procedimento siano proposte più domande connesse, di cui alcune soltanto diano luogo a controversie sottratte alla regola della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, l'intero procedimento resta assoggettato alla disciplina della sospensione, tranne nel caso in cui la domanda in relazione alla quale è prevista la sospensione sia meramente accessoria e consequenziale rispetto a quella per la quale la legge la esclude. Conclusione questa dettata dalla impossibilità di configurare una duplicità di termini di impugnazione del medesimo tipo per una stessa sentenza e ad opera di una stessa parte.

Nella vicenda all'esame della Corte, è stata cassata la sentenza d'appello che avere ritenuto sottratto alla sospensione feriale il giudizio di opposizione all'esecuzione, ancorché la parte opposta avesse avanzato autonoma domanda di condanna dell'opponente al risarcimento del danno discendente dalla cancellazione di una iscrizione ipotecaria.

A sua volta Sez. 3, n. 1123, Rv. 629826, est. Frasca, riafferma il granitico orientamento della S.C., in forza del quale il processo di opposizione all'esecuzione è sempre escluso dalla sospensione feriale dei termini, a nulla rilevando che l'esecuzione sia iniziata in base ad un titolo esecutivo stragiudiziale, del quale eventualmente l'opponente abbia chiesto accertarsi l'invalidità.

Anche nel caso in cui l'opposto abbia formulato una domanda riconvenzionale subordinata, volta ad ottenere nel caso di accoglimento dell'opposizione, un nuovo accertamento sulla situazione sostanziale consacrata nel titolo esecutivo, la controversia è soggetta alla sospensione feriale dei termini soltanto se la sentenza ha accolto l'opposizione e, quindi, abbia deciso sulla domanda riconvenzionale (cfr. n. 3688 del 2011). Viceversa la lite non resta soggetta alla sospensione feriale nel caso di rigetto dell'opposizione, in quanto solo l'esito positivo dell'impugnazione della relativa decisione può comportare il successivo ingresso dell'esame della domanda riconvenzionale davanti al giudice d'appello o davanti al giudice di rinvio.

In tema di opposizione a precetto Sez. 6-3, n. 22484, in corso di massimazione, est. Barreca, ribadisce il consolidato orientamento della S.C. secondo cui l'opposizione a precetto, con la quale si contesta alla parte istante il diritto di procedere ad esecuzione forzata quando questa non è ancora iniziata (le cosiddette opposizioni pre-esecutive), rientra, come tutte le cause di opposizione al processo esecutivo, tra i procedimenti ai quali non si applica, neppure con riguardo ai termini relativi ai giudizi di impugnazione, la sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale.

Sempre Sez. 6-3, n. 24047, in corso di massimazione est. Ambrosi, ribadisce l'orientamento granitico del giudice di legittimità che ritiene non applicabile, anche al giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo, la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, sussistendo l'interesse alla sollecita definizione di tale giudizio, considerato che il processo esecutivo resta, nell'attesa, sospeso.

Infine, pare opportuno segnalare come secondo Sez. 3, n. 13236, Rv. 631721, est. Travaglino, il giudizio di affrancazione di fondo rustico, oggetto di colonia miglioratizia, non è soggetto alla sospensione feriale dei termini processuali perché, pur assimilabile all'enfiteusi sul piano funzionale, ha natura agraria e come tale è infatti anche soggetto al tentativo obbligatorio di conciliazione.

5. Vizi della decisione.

Anche nel corso del 2014, la S.C. ha avuto modo di esercitare la sua funzione nomofilattica sul delicato tema dei molteplici vizi di cui può essere affetta la sentenza emessa dal giudice di primo grado.

Va rammentata in primo luogo Sez. 1, n. 18583, Rv. 632194, est. Bernabai, che ha ribadito il consolidato orientamento di legittimità per cui la mancata assegnazione al convenuto del termine, ex art. 180, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla modifica operata dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, che ha soppresso la disposizione, per proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, non comporta la nullità ipso jure della sentenza, qualora tra l'udienza di prima comparizione e quella di trattazione siano comunque intercorsi almeno i venti giorni richiesti dalla legge.

Va invece dichiara nulla, secondo Sez. 6-3, n. 13946, Rv. 631827, est. Carluccio, la sentenza che decide nel merito della domanda senza aver dato alla parte la possibilità di formulare le sue richieste istruttorie, avendo omesso di concedere il termine per la produzione di documenti e l'indicazione di nuovi mezzi di prova, pure espressamente previsto dall'art. 184, cod. proc. civ. (nella formulazione introdotta con la legge 20 dicembre 1995, n. 534, e vigente sino alla entrata in vigore della legge 14 maggio 2005, n. 80).

Nel caso sottoposto all'esame della Corte, la parte aveva formulato tempestiva istanza di concessione del termine istruttorio sia in primo grado che in appello, senza tuttavia ottenere dai giudici il detto termine, avendo sia quelli di primo che quelli di secondo grado ritenuto assorbente l'eccezione, sollevato dal convenuto, di prescrizione del credito oggetto della domanda.

Di orientamento difforme, tuttavia, appare Sez. 3, n. 23162, in corso di massimazione, est. De Stefano, secondo la quale, qualora venga dedotto il vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso la causa nel merito prima ancora che le parti avessero definito il thema decidendum e il thema probandum, l'appellante che faccia valere tale nullità - una volta escluso che la medesima comporti la rimessione della causa al primo giudice -, non può limitarsi a dedurre tale violazione, ma deve specificare quale sarebbe stato il thema decidendum sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare ove fosse stata consentita la richiesta appendice di cui all'art. 183, quinto comma, cod. proc. civ., e quali prove sarebbero state dedotte nell'invocato termine ex art. 184 cod. proc. civ., poiché solo in questo caso il giudice d'appello è tenuto soltanto a rimettere le parti in termini per l'esercizio delle attività istruttorie che non sono state svolte in primo grado.

Quanto ai vizi dell'attività istruttoria, secondo Sez. 1, n. 18587, Rv. 632353, est. De Chiara, la nullità di un atto di natura istruttoria (nella specie ordinanza che rigettava la richiesta di acquisizione documentale), non incide sulla sentenza che da esso prescinda e non comporta, in ogni caso, la nullità (derivata) della stessa, atteso che i rapporti tra atto istruttorio nullo e sentenza non possono definirsi in termini di eventuale nullità derivata di quest'ultima, quanto, piuttosto, di fondatezza o meno delle statuizioni in fatto contenute nella sentenza, la quale, in quanto fondata sulla prova nulla (che quindi non può essere utilizzata) o sulla esclusione di una prova con provvedimento nullo, è priva di (valida) motivazione, non già nulla a sua volta.

In sostanza l'atto istruttorio - che nel processo civile resta sempre puramente eventuale - non fa parte dell'indefettibile serie procedimentale che conduce alla sentenza ed il cui vizio determina la nullità, ma incide soltanto sul merito delle valutazioni (in fatto) compiute dal giudice.

In continuità con il tradizionale orientamento della S.C., per Sez. 1, n. 12369, Rv. 631289, est. Bisogni, il giudice non può pronunciare una sentenza di rigetto di una domanda per mancanza di una prova documentale inserita nel fascicolo di parte, ove non risulti alcuna annotazione dell'avvenuto ritiro del fascicolo di una parte ai sensi dell'art. 77 disp. att. cod. proc. civ., ma deve disporre le opportune ricerche tramite la cancelleria.

In caso di esito negativo delle dette ricerche, il giudice deve concedere un termine all'appellante per la ricostruzione del proprio fascicolo, presumendosi che le attività delle parti e dell'ufficio si siano svolte nel rispetto delle norme processuali e, quindi, che il fascicolo, dopo l'avvenuto deposito, non sia mai stato ritirato.

Soltanto in caso di insuccesso delle ricerche da parte della cancelleria, perdurando l'inottemperanza della parte all'ordine di ricostruire il proprio fascicolo, il giudice potrà pronunciare sul merito della causa in base ai soli atti a sua disposizione.

In ordine, infine, all'erronea applicazione di un rito processuale, Sez. 2, n. 22075, Rv. 633130, est. Scalisi, ricorda che il vizio della pronuncia discendente dalla trattazione secondo un rito errato consente alla parte l'impugnazione solo ove sia dedotto che tale errore abbia comportato la lesione del diritto di difesa della medesima parte impugnante, rimanendo validi gli atti posti in base alle regole relative al procedimento impropriamente utilizzato, in quanto il rito non costituisce condizione necessaria perché il giudice possa decidere nel merito la causa.

In tema d'intervento obbligatorio del pubblico ministero, Sez. 1, n. 11223, Rv. 631252, est. Bisogni, ribadisce che la tardiva formulazione delle conclusioni della parte pubblica, fuori udienza e senza che le parti abbiano potute conoscerle, non determina la violazione del contraddittorio e, conseguentemente, la nullità della sentenza emessa, atteso che, ai fini della validità del procedimento, non è necessaria né la presenza alle udienze né la formulazione delle conclusioni da parte di un rappresentante di tale ufficio, che deve semplicemente essere informato, mediante l'invio degli atti, e posto in condizione di sviluppare l'attività ritenuta opportuna.

Del resto, l'omessa partecipazione del pubblico ministero, che sia titolare solo del potere di intervento e non anche di quello di azione, quando sia stata rilevata dal giudice del gravame, non comporta la rimessione della causa a quello di primo grado, ma solo la decisione nel merito da parte del giudice di appello, dopo aver disposto il coinvolgimento nella processo della parte pubblica.

In continuità con il cennato orientamento, Sez. 1, n. 16361, Rv. 632203) est. Campanile, ribadisce come nei procedimenti in cui sia previsto l'intervento obbligatorio del pubblico ministero, la nullità della sentenza derivante dalla sua omessa partecipazione al giudizio, si converte in motivo di gravame ai sensi degli artt. 158 e 161 cod. proc. civ., che, tuttavia, può essere fatto valere solo dalla parte pubblica (a cui compete anche il corrispondente e specifico motivo di revocazione ex art. 397, n. 1, cod. proc. civ.), dovendosi escludere che sussista una concorrente legittimazione delle altre parti processuali.

Diverse sono le decisioni assunte dalla Corte concernenti il rispetto del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e i limiti delle nuove domande in primo grado.

Anzitutto, afferma Sez. 6-L, n. 6162, Rv. 630464, est. Mancino, che un provvedimento giurisdizionale avente contenuto decisorio emesso nei confronti delle parti del giudizio, ma con motivazione e dispositivo relativi a diversa causa concernente altri soggetti, determina l'inesistenza giuridica, o nullità radicale, del medesimo provvedimento. Con il risultato che, trattandosi di un incompiuto esercizio della giurisdizione, il giudice cui è apparentemente da attribuire la sentenza inesistente deve procedere alla sua rinnovazione, emanando un atto valido conclusivo del giudizio.

E infatti nella vicenda all'esame, la S.C. ha cassato la sentenza gravata di ricorso, rimettendo gli atti al giudice che aveva pronunciato la decisione inesistente.

Secondo Sez. 3, n. 15753, Rv. 632112, est. Carleo, non è inammissibile la domanda nuova in aggiunta a quella originaria contenuta nell'atto di riassunzione del giudizio a seguito di una pronuncia di incompetenza, ex art. 50 cod. proc. civ., poiché la particolare funzione dell'istituto della riassunzione (conservazione degli effetti sostanziali della litispendenza), non è di ostacolo a che esso cumuli in sé quella introduttiva di un nuovo giudizio, purché sia rispettato il contraddittorio.

Del resto, se la nuova domanda fosse ritenuta inammissibile, la necessità di introdurre, per quest'ultima, un nuovo giudizio, da riunire al precedente, si tradurrebbe in un inutile dispendio di attività processuale, in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.

Per Sez. 6-3, n. 3437, Rv. 629914, est. Frasca, nel regime delle preclusioni introdotte con la legge 26 novembre 1990, n. 353, è inammissibile il mutamento di una domanda di condanna piena in condanna generica, a nulla rilevando che il convenuto vi abbia prestato acquiescenza.

Il mancato rilievo dell'inammissibilità determina una nullità della sentenza, destinata a convertirsi in motivo di impugnazione, non assumendo rilievo il comportamento del convenuto eventualmente acquiescente, non suscettibile di apprezzamento ai sensi dell'art. 157, terzo comma, cod. proc. civ.

Affinché, poi, una domanda possa ritenersi abbandonata dalla parte, per Sez. 1, n. 15860, Rv. 632116, est. Di Amato, non è sufficiente che essa non venga riproposta nella precisazione delle conclusioni, costituendo tale omissione una mera presunzione di abbandono, dovendosi, invece, necessariamente accertare se, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte, o dalla stretta connessione della domanda non riproposta con quelle esplicitamente reiterate, emerga una volontà inequivoca di non insistere sulla domanda pretermessa.

Parimenti, per Sez. L, n. 15214, Rv. 631675, est. Arienzo, nel caso di mancata riproduzione, nelle conclusioni della comparsa di riassunzione, di una richiesta formulata nell'atto introduttivo, il giudice di merito deve valutare alla stregua dell'intero contesto degli atti processuali se detta omissione concreti o meno una vera e propria rinuncia, ossia un inequivocabile abbandono della richiesta non riprodotta.

Invece, Sez. 2, n. 8737, Rv. 630400, est. Nuzzo, precisa che la comparsa conclusionale, pur avendo di norma natura semplicemente illustrativa, può contenere la rinuncia espressa ad una domanda formulata nell'atto introduttivo del giudizio.

Secondo Sez. 3, n. 11681, Rv. 630954, est. Stalla, la preclusione per il terzo interveniente di compiere atti che al momento dell'intervento non sono più consentiti ad alcuna parte, ai sensi dell'art. 268, secondo comma, cod. proc. civ., opera esclusivamente sul piano istruttorio, e non anche su quello assertivo, attesa la facoltà di intervento, attribuita dal primo comma della stessa disposizione, sino a che non vengano precisate le conclusioni. Ne consegue che è ammissibile la formulazione da parte del terzo di domande nuove ed autonome rispetto a quelle già proposte dalle parti originarie, in quanto attività coessenziale all'intervento stesso.

Inoltre, afferma Sez. 3, n. 10639, Rv. 630866, est. Carleo, che nell'ipotesi in cui il convenuto chiami in causa un terzo, indicandolo come l'unico responsabile dell'evento dannoso dedotto in giudizio, si realizza un ampliamento della controversia in senso soggettivo ed oggettivo, ferma restando l'unicità del complessivo rapporto controverso e l'inscindibilità della causa.

Nel caso sottoposto all'esame della S.C., trovandosi il terzo chiamato come responsabile del danno sottoposto ad amministrazione straordinaria, la domanda attrice è stata dichiarata improcedibile con riguardo all'intero giudizio in virtù dell'art. 13 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, che fissa la competenza del tribunale che ha dichiarato lo stato di insolvenza, trattandosi di accertare una pretesa nei confronti della massa.

Infine, in tema di vizi concernenti la costituzione del giudice, Sez. 3, n. 23423, in corso di massimazione, est. Rossetti, riafferma il principio che, essendo la composizione dei collegi giudicanti disposta dal Presidente dell'ufficio giudiziario - secondo le esigenze dell'ufficio stesso -, la circostanza che il collegio cui venga rimessa la causa per la decisione sia composto in modo diverso da quello che, in precedente occasione, aveva preso in decisione la causa rimettendola sul ruolo per adempimenti istruttori, non importa alcuna nullità della sentenza emessa, perché non vi è alcun vizio di costituzione del giudice.

La medesima pronuncia chiarisce che in tema di deliberazione delle sentenze - salvo le ipotesi espressamente disciplinate dalla legge, in cui anche nel processo civile vige il principio della decisione immediata (come nel rito del lavoro) -, nessun termine è previsto in via generale per l'apertura della camera di consiglio. Pertanto, la circostanza che la sentenza sia deliberata in data diversa da quella in cui si è celebrata l'udienza di discussione nel giudizio ordinario di cognizione non determina di per sé la nullità della detta pronuncia.

Ancora sulla composizione dell'organo giudicante, Sez. 3, n. 3420, Rv. 630026, est. Armano, afferma che deve considerarsi esistente ed efficace la sentenza pronunciata dal giudice onorario (giudice di pace) dopo la presentazione delle dimissioni ma prima dell'adozione della relativa deliberazione da parte del Consiglio Superiore della magistratura, in quanto la rinuncia all'incarico diviene efficace soltanto a seguito del provvedimento con il quale l'Amministrazione prende atto della volontà espressa in tal senso dal giudice onorario.

Seguendo l'orientamento consolidato del giudice di legittimità, poi, Sez. 1, n. 13907, Rv. 631509, est. Nazzicone, conferma che l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale costituisce, alla stregua del rinvio operato dall'art. 50 quater cod. proc. civ. al successivo art. 161, primo comma, un'autonoma causa di nullità della decisione e non una forma di nullità relativa derivante da atti processuali antecedenti alla sentenza (come tale, in thesi, soggetta al regime di sanatoria implicita).

Ne discende che il vizio di nullità si converte esclusivamente in motivo di impugnazione, senza determinare la nullità degli atti che hanno preceduto la sentenza nulla, né consente di invocare l'effetto della rimessione degli atti al primo giudice ove il giudice dell'impugnazione - come nel caso della corte d'appello -, sia anche giudice del merito.

Nell'ambito delle peculiari problematiche processuali nascenti dalle sentenze pronunciate dal giudice monocratico mediante lettura del dispositivo e della motivazione in udienza, ai sensi dell'art. 281 sexies cod. proc. civ., Sez. 1, n. 10453, Rv. 631258, est. Di Amato, precisa che non è causa di nullità della sentenza la predisposizione, da parte del giudice, prima dell'udienza, di un testo provvisorio del provvedimento, salvo che ciò si traduca nel mancato esame delle questioni di fatto e di diritto prospettate nel corso della discussione, compatibili con le posizioni assunte dalle parti e rilevanti ai fini della decisione, ovvero in un pregiudizio per la difesa.

Nella vicenda all'esame della S.C. il giudice aveva predisposto una bozza di motivazione, consegnata alle parti successivamente alla lettura del dispositivo. Nessuna norma, tuttavia, sottolinea la Corte, preclude al giudice la preparazione di un testo provvisorio della decisione, dopo lo studio del fascicolo, che resta naturalmente suscettibile di tutte le modifiche e gli aggiustamenti resi necessari dallo sviluppo del processo.

Nel caso, invece, in cui l'intestazione del processo verbale d'udienza rechi l'indicazione di un giudice, mentre la motivazione ed il dispositivo rechino la sottoscrizione di un giudice diverso, per Sez. 3, n. 24842, in corso di massimazione, est. Scrima, la sentenza pronunciata ex art. 281 sexies cod. proc. civ. è radicalmente nulla, perché, costituendo essa parte integrante del processo verbale in cui è contenuta ed in cui il giudice ha inserito la redazione della motivazione e del dispositivo, la formulazione dell'atto complessivamente considerato non consente di individuare con certezza quale giudice, raccolta la precisazione delle conclusioni, l'abbia contestualmente pronunciata.

Infine, corre l'obbligo di segnalare Sez. U, n. 11021, Rv. 630706, est. Vivaldi, che componendo il contrasto interpretativo sorto tra le sezioni semplici della S.C. in presenza di sentenza collegiale priva della sottoscrizione del presidente del collegio ovvero del suo estensore - assumendo l'orientamento maggioritario addirittura l'inesistenza della pronuncia ex art. 161, secondo comma, cod. proc. civ. (da ultimo n. 12167 del 2009) e mostrandosi, invece, altre pronunce propense a ricorrere al procedimento di correzione dell'errore materiale, ovvero alla mera rinnovazione dell'atto, mediante l'adozione di una nuova sentenza da parte del medesimo giudice (n. 21193 del 2005) -, ha stabilito che la sentenza emessa dal giudice in composizione collegiale priva di una delle due sottoscrizioni (del presidente del collegio ovvero del suo estensore), è affetta da una nullità sanabile ai sensi dell'art. 161, primo comma, cod. proc. civ., trattandosi di sottoscrizione "insufficiente" e non "mancante", la cui sola ricorrenza comporta la non riconducibilità dell'atto al giudice.

Con il risultato che, trovando applicazione il richiamato art. 161, primo comma, cod. proc. civ., l'eventuale vizio dovrà essere fatto valere nelle forme ordinarie, determinandosi, in difetto di gravame, il passaggio in giudicato della sentenza collegiale pure priva della sottoscrizione del presidente ovvero dell'estensore.

  • consulenza e perizia
  • prova
  • simulazione

CAPITOLO XXVII

LE PROVE

(di Andrea Antonio Salemme )

Sommario

1 Diritto alla prova ed onere della prova. - 2 Il principio di vicinanza della prova e quello di non eccessiva difficoltà nell'esercizio del relativo diritto. - 3 L'onere della prova quale regola di giudizio. - 3.1 Casistica. - 4 Principio dispositivo e principio di non contestazione in generale. - 4.1 Il contenuto di collaborazione della non contestazione. - 4.2 Collaborazione e silenzio nel giudizio di impugnazione. - 4.3 Ambito di applicabilità della non contestazione. - 5 La valutazione delle prove ex art. 116 cod. proc. civ. - 5.1 Violazione dell'art. 116 cod. proc. civ. e ricorso per cassazione. - 5.2 Libero convincimento e prove formate in altro procedimento. - 5.3 Libero convincimento ed argomenti di prova. - 6 Le presunzioni quale ambito tipico di valutazione delle prove. - 6.1 Le presunzioni extra ordinem. - 6.2 Le presunzioni in materia di contratti. - 6.3 Le presunzioni in materia di comunione e condominio. - 6.4 Le presunzioni in materia di responsabilità extracontrattuale. - 6.5 Le presunzioni in materia di fallimento. - 6.6 Le presunzioni in materia di diritto tributario. - 7 La consulenza tecnica d'ufficio in generale. - 7.1 Diritti delle parti. - 7.2 La ricusazione del consulente tecnico d'ufficio. - 7.3 Deposito della relazione e contestazione della stessa. - 7.4 Acquisizione della relazione di consulenza esperita in diverso processo. - 8 L'esibizione delle prove. - 8.1 Peculiarità in tema di acquisizione di atti e documenti di precedenti fasi o gradi di giudizio. - 9 Disconoscimento, riconoscimento e verificazione di scrittura privata in generale. - 9.1 Profili procedurali. - 9.2 Copie fotografiche o fotostatiche. - 10 La querela di falso in generale. - 10.1 Sindacato interno ed esterno sulle questioni di falsità dei documenti. - 10.2 Querela di falso ed abusivo riempimento di foglio firmato in bianco. - 10.3 Querela di falso e fattispecie processuali. - 11 Prove documentali nuove in appello. - 12 Prove documentali e diritto sostanziale. - 12.1 Casistica in tema di atti pubblici. - 12.2 Casistica in tema di scritture private autenticate. - 13 La confessione giudiziale in generale. - 13.1 Confessione giudiziale ed interrogatorio formale. - 14 La confessione nel diritto sostanziale. - 15 Il giuramento decisorio. - 16 La prova testimoniale in generale. - 16.1 L'ammissione della prova testimoniale. - 16.2 Nuova audizione di un teste. - 17 I divieti della prova testimoniale secondo il diritto sostanziale. - 17.1 Negozio fiduciario e simulazione. - 17.2 Pagamento e remissione del debito.

1. Diritto alla prova ed onere della prova.

La posizione delle parti rispetto alla prova è ancipite, perché si configura, ad un tempo, come diritto e come onere.

Il diritto alla prova si esplica con la deduzione delle richieste istruttorie, tanto che è nulla la sentenza che decide nel merito della domanda senza aver dato la possibilità di formulare siffatte richieste per mancata concessione dei termini di cui al previgente art. 184 cod. proc. civ. [Sez. 6-3, n. 13946, Rv. 631827, est. Carluccio], né la perentorietà degli stessi osta alla loro adozione nel procedimento arbitrale, in quanto frutto della libera scelta degli arbitri di recepire un modello ispirato a speditezza e concentrazione [Sez. 1, n. 3558, Rv. 629951, est. Macioce].

L'onere della prova, quale sviluppo dell'onere di allegazione dei fatti rilevanti, individua, attraverso un complesso sistema di regole che confermano, articolano e sovvertono quella fondamentale dell'art. 2697 cod. civ., a chi spetta di somministrare le prove a dimostrazione dei fatti stessi, sotto pena della soccombenza. Come ricordato da Sez. L, n. 6332, Rv. 630727, est. Patti, il sindacato in materia è penetrante, perché le norme sull'onere della prova e sui limiti ai mezzi di prova attengono al diritto sostanziale, sicché, integrando la loro violazione un error in iudicando e non in procedendo, anche nel giudizio di legittimità è consentito l'esame diretto degli atti allo scopo di verificare lo svolgimento del giudizio conformemente al rito.

2. Il principio di vicinanza della prova e quello di non eccessiva difficoltà nell'esercizio del relativo diritto.

Il trait d'union tra diritto alla prova ed onere della prova è rappresentato dal principio di vicinanza della prova, orientato ad addossare l'onere della prova a chi la governa e, in parallelo, a consentire a chi non ne dispone, ma si trova nella necessità di difendere il proprio diritto, di beneficiare di corrispondenti presunzioni. Ne ha fatto applicazione Sez. 2, n. 13774, Rv. 631243, est. Bianchini, secondo cui, se lo statuto di un'associazione riconosciuta prevede un vicepresidente autorizzato ad esercitare le funzioni di presidente, vige la presunzione che egli si sia avvalso, nei rapporti con i terzi, del potere di sostituzione nel rispetto delle previsioni statutarie, spettando all'associazione di contestarla, in quanto a conoscenza delle specifiche circostanze che costituiscono il presupposto fattuale per invocare (o negare) la sussistenza della legittimazione del vicario. Sulla stessa lunghezza d'onda, Sez. 1, n. 11904, Rv. 631486, est. Di Amato, intrattenutasi sull'"elevata attitudine" del provvedimento sanzionatorio dell'Autorità garante per la concorrenza ed il mercato a provare la condotta anticoncorrenziale e l'astratta idoneità della stessa a procurare un danno ai consumatori, sì da trarne la legittimità della presunzione che "dalla condotta anticoncorrenziale sia scaturito un danno per la generalità degli assicurati, nel quale è ricompreso, come essenziale componente, il danno subito dal singolo assicurato", ha affermato la regola secondo cui, l'assicurato, nel giudizio risarcitorio instaurato uti singulo, "assolve l'onere della prova a suo carico allegando la polizza assicurativa contratta e il provvedimento sanzionatorio, mentre è onere dell'impresa assicurativa, anche alla stregua del principio di vicinanza della prova, dimostrare l'interruzione del nesso causale tra l'illecito anticoncorrenziale e il danno patito, tanto dalla generalità dei consumatori quanto dal singolo, mediante la prova di fatti sopravvenuti, estranei all'intesa, idonei di per sé soli a determinare l'aumento del premio".

Pragmaticamente assimilabile al - ma concettualmente tutt'affatto diverso dal - principio di vicinanza della prova è quello, di derivazione comunitaria, della non eccessiva difficoltà nell'esercizio del relativo diritto, ricordato da Sez. L, n. 27363, in corso di massimazione, est. Mammone, per affermare nondimeno che, anche nel caso paradigmatico di illegittima assunzione a termine da parte della P.A., esso non consente il risarcimento di un danno in re ipsa, cosicché il lavoratore, nel rispetto dell'art. 2697 cod. civ., deve fornire la prova del danno in tesi subito, potendosi tuttavia avvalere delle presunzioni, che lo agevolano nell'assolvimento dell'onere di cui si tratta.

3. L'onere della prova quale regola di giudizio.

L'art. 2697 cod. civ., costituendo una regola di giudizio, si applica al processo, ma non al procedimento sommario di cognizione, nel quale il giudice esercita discrezionalmente i poteri istruttori concessigli dall'art. 702-ter, quinto comma, cod. proc. civ., con il limite di non poter dare per esistenti fonti di prova decisive ed astenersi dal disporne l'acquisizione d'ufficio [Sez. 2, n. 4485, Rv. 629600, est. Manna].

3.1. Casistica.

In tema di obbligazioni, l'impegno del creditore a cooperare col debitore per metterlo nelle condizioni di adempiere nei tempi e modi pattuiti genera una complicazione della consueta dinamica istruttoria tra creditore e debitore, perché, come confermato da Sez. 2, n. 10702, Rv. 631017, est. Proto, in presenza di esso, "il debitore ha solo l'onere di provare l'esistenza del patto di cooperazione e il nesso causale tra la mancata cooperazione e il proprio inadempimento, mentre spetta al creditore, per liberarsi da responsabilità, dimostrare di aver fornito la cooperazione promessa".

La Corte, Sez. 2, n. 4876, Rv. 630192, est. Scalisi, inoltre - rilevato che la differenza tra obbligazioni di risultato e di mezzi è sfumata, in quanto entrambe sono finalizzate a riversare nella sfera giuridica del creditore un'utilitas oggettiva, anche se nelle prime il risultato è in rapporto di causalità necessaria con l'attività del debitore mentre nelle seconde dipende, oltreché da questa, da fattori ulteriori e concomitanti che lo stesso non può controllare - ha riaffermato il principio secondo cui il debitore di mezzi prova l'esatto adempimento dimostrando di aver osservato le regole dell'arte e di essersi conformato ai protocolli dell'attività, senza dover provare altresì che il risultato è mancato per cause a lui non imputabili.

Infine, secondo Sez. 1, n. 13506, Rv. 631306, est. Cristiano, la ricognizione di debito, nonostante la forma di dichiarazione unilaterale recettizia, non è fonte autonoma di obbligazione, ma ha valenza confermativa di un preesistente rapporto fondamentale, comportando soltanto l'inversione dell'onere della prova dell'esistenza di quest'ultimo (per modo che perde efficacia qualora la parte da cui provenga dimostri che il rapporto medesimo non sia stato instaurato o sia sorto invalidamente).

In tema di impugnazione del testamento, Sez. 2, n. 27351, in corso di massimazione, est. Mazzacane, richiamato il rigore probatorio richiesto per ottenere l'annullamento del testamento per incapacità naturale del testatore ex art. 591 cod. civ., atteso che non è sufficiente la dimostrazione di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche o intellettive del de cuius, ma occorre la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, egli fosse privo in modo assoluto, al momento della redazione dell'atto, della coscienza ovvero della capacità di autodeterminarsi, ne ha dedotto che, costituendo lo stato di capacità la regola e quello di incapacità l'eccezione, costituisce onere di chi assume l'incapacità naturale del de cuius provare che il testamento è stato redatto in un momento di sua incapacità di intendere e di volere, mentre soltanto quando risulti il suo stato di incapacità permanente incombe su colui che fa valere il testamento dimostrare che la redazione è avvenuta in un intervallo di lucidità.

In tema di diritti reali, Sez. 2, n. 18890, Rv. 632015, est. Nuzzo, ha ribadito che l'attore in confessoria servitutis, ai sensi dell'art. 1079 cod. civ., ha l'onere di provare l'esistenza del relativo diritto, presumendosi la libertà del fondo, pretesamente servente, da pesi e limitazioni. Di converso, quanto all'actio negatoria, Sez. 2, n. 21851 del, Rv. 632599, est. Matera, ha rammentato che, fungendo la titolarità del bene da semplice requisito di legittimazione attiva, senza assurgere ad oggetto della lite, l'attore non deve fornire la prova rigorosa della proprietà, come accade nella rivendica, giacché è sufficiente la dimostrazione, con ogni mezzo e quindi anche con presunzioni, del possesso del fondo in forza di un titolo valido, mentre spetta al convenuto provare l'esistenza del diritto di compiere l'attività lamentata come lesiva dall'attore.

Va segnalata, in quanto di particolare interesse, Sez. U, n. 7305, Rv. 630013, est. Bucciante, che ha risolto la questione delle difese di carattere petitorio opposte, in via di eccezione o con domande riconvenzionali, ad un'azione di consegna o rilascio, stabilendo che - in ossequio ai principi di disponibilità della domanda e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato - esse non determinano una mutatio od emendatio libelli, con conseguente trasformazione in reale della domanda proposta e mantenuta ferma dell'attore come personale per la restituzione del bene in precedenza rimesso al convenuto, né, in ogni caso, implicano che l'attore sia tenuto a soddisfare la cosiddetta probatio diabolica inerente le azioni reali, la cui somministrazione, idonea a paralizzare la pretesa attorea, incombe solo sul convenuto in dipendenza delle proprie difese.

In tema di possesso, chi deduce lo spoglio di una servitù di passaggio non deve provare l'inesistenza della tolleranza, trattandosi di un fatto impeditivo che, come tale, spetta alla controparte dimostrare [Sez. 2, n. 19830 del, Rv. 632673, est. Proto]. Sotto altro profilo, il detentore autonomo, che agisce per la reintegrazione del possesso, deve provare di aver esercitato in nome altrui il potere di fatto sulla cosa attraverso la documentazione dell'esistenza del titolo, di cui il giudice, nondimeno, non deve accertare validità ed efficacia, poiché la valutazione degli effetti negoziali di un atto esula dalla materia possessoria [Sez. 6-2, n. 3627, Rv. 629390, est. Manna]. Da ultimo, se il convenuto eccepisce l'ultrannualità, l'attore è tenuto a provare la tempestività dell'azione di spoglio [Sez. 2, Sentenza n. 6428, Rv. 630164, est. Petitti].

In tema di risarcimento del danno, Sez. 3, n. 2413, Rv. 630341, est. Cirillo, si è occupata di responsabilità dell'istituto scolastico per i danni dall'allievo causati a se stesso: qualificatala come contrattuale, ha affermato che, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., incombe sull'istituto la prova della non imputabilità all'insegnante della causa del danno, attraverso la dimostrazione dell'avere questi adottato misure idonee ad evitarne il verificarsi. Negli stessi termini si è espressa Sez. 3, Sentenza n. 3612, Rv. 629845, est. Vivaldi, soggiungendo che, solo se la causa delle lesioni subite dall'allievo resta ignota, le conseguenze patrimoniali negative restano a carico di chi ha oggettivamente assunto la posizione di inadempiente.

Similmente, nel pur diverso ambito della responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ., Sez. L, n. 10425, Rv. 630792, est. Buffa, ha statuito che, accertati il danno e la sua derivazione dalla fonte di pericolo (rappresentata, nella specie, dall'esposizione ad amianto), grava sul datore di lavoro l'onere di provare d'aver adottato, ancorché in difetto di una specifica disposizione preventiva, le generiche misure di prudenza necessarie alla tutela del lavoratore secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia (con conseguente esclusione dell'esposizione ad amianto, quale sostanza pericolosa, quand'anche ciò avesse comportato la modifica dell'attività lavorativa, sotto pena dell'assunzione del rischio relativo all'insorgenza di tecnopatie).

Sul versante della responsabilità extracontrattuale, Sez. 3, n. 17091, Rv. 632576, est. D'Amico, premesso che la responsabilità del proprietario dell'animale o di chi ne usa è oggettiva, fondandosi sul mero rapporto intercorrente con il medesimo e sul nesso causale tra il suo comportamento e l'evento lesivo, che solo il caso fortuito può interrompere, ne ha dedotto la conseguenza che grava sull'attore l'onere di provare l'esistenza del rapporto eziologico tra l'animale e l'evento lesivo, mentre grava sul convenuto la prova del caso fortuito.

Quanto alla responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti alla vaccinazione obbligatoria contro la poliomelite, Sez. 6-L, n. 6266, Rv. 630067, est. Fernandes, ha sottolineato che tra i presupposti per il riconoscimento del diritto all'indennizzo ex lege 25 febbraio 1992 n. 210 figura la dimostrazione dell'efficienza causale della somministrazione del vaccino, per l'effetto confermando la sentenza di merito di rigetto della domanda del ricorrente, il quale aveva dedotto l'inefficacia del vaccino somministrato, ma non il nesso causale tra quest'ultimo e la malattia successivamente contratta.

A metà strada tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale si colloca quella conseguente ad attività medico-chirurgica, nel giudizio in ordine alla quale "l'attore danneggiato ha l'onere di provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e di allegare l'inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, restando, invece, a carico del medico e/o della struttura sanitaria la dimostrazione che tale inadempimento non si sia verificato, ovvero che esso non sia stato causa del danno", sicché, permanendo l'incertezza sull'esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno, essa ricade sul debitore [Sez. 3, n. 20547, Rv. 632891, est. Scrima]. Specificamente sul nesso causale Sez. 3, n. 22225, Rv. 632945, est. Carluccio, ha fatto proprio il criterio della regolarità causale, argomentando che "in tema di responsabilità medico-chirurgica, allorché la consulenza tecnica d'ufficio - che pure di norma presenta in tale ambito natura "percipiente" - formuli una valutazione, sull'efficienza eziologica della condotta della struttura sanitaria rispetto all'evento di danno, come "meno probabile che non", tale esito è correttamente ignorato dal giudice", giacché ai fini di una certezza anche solo probabilistica "l'affermazione della riferibilità causale del danno all'ipotetico responsabile presuppone, all'opposto, una valutazione nei termini di "più probabile che non"". Il favor per il danneggiato, cui pare improntato l'orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità, si spinge sino al punto di relegare in secondo piano "la distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà", che "non vale come criterio di ripartizione dell'onere della prova, ma rileva soltanto ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa", conseguentemente spettando al sanitario, al fine di dimostrare la sua diligenza e comunque il minimo grado della sua colpa, "la prova della particolare difficoltà della prestazione" [Sez. 3, n. 22222, Rv. 633277, est. Scarano].

Per concludere sull'argomento, al di là dell'an, la prova deve vertere anche sul quantum del danno. Si è soffermata sul rigore di tale consequenzialità Sez. 3, n. 759, Rv. 629754, est. Armano, secondo cui, "ai fini della liquidazione del danno patrimoniale futuro, patito dai genitori per la morte del figlio in conseguenza del fatto illecito altrui, è necessaria la prova, sulla base di circostanze attuali e secondo criteri non ipotetici ma ragionevolmente probabilistici, che essi avrebbero avuto bisogno della prestazione alimentare del figlio, nonché del verosimile contributo che il figlio avrebbe versato per le necessità della famiglia".

In tema di contenzioso tributario, l'allegazione, da parte dell'Amministrazione finanziaria, della simulazione assoluta o relativa di un contratto ai fini della regolare applicazione delle imposte non la esime dall'onere di fornirne la prova, sia quanto ad elementi di rilevanza oggettiva che quanto a profili di carattere soggettivo destinati a proiettarsi sugli scopi in concreto perseguiti dai contraenti; nondimeno essa, in quanto terzo, può assolvere a detto onere con ogni mezzo, comprese le presunzioni [in tal senso Sez. 5, n. 1568, Rv. 629503, est. Valitutti, in materia di IVA, ma anche Sez. 5, n. 245, Rv. 629081, est. Iofrida, la quale, in un caso di plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione a titolo oneroso di un immobile e sottratta all'imposta sui redditi, rimarcato che le presunzioni semplici - purché gravi, precise e concordanti - sono ammissibili ex art. 39, primo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, scaricandosi sul contribuente l'onere di superare la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato ed il prezzo incassato, ha escluso la rilevanza del divieto della doppia presunzione, che, attenendo alla sola correlazione tra due presunzioni semplici, non è violato nel caso in cui da un fatto noto si risalga ad un fatto ignoto, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale].

4. Principio dispositivo e principio di non contestazione in generale.

Le previsioni degli artt. 163, primo comma, nn. 3, 4) e 5, e 167, primo comma, cod. proc. civ., saldandosi con l'attitudine dei fatti non specificatamente contestati ad assurgere a fondamento della decisione, ai sensi del novellato art. 115, primo comma, cod. proc. civ., esaltano la tensione del principio dispositivo, in punto sia di allegazioni che di prove, verso l'effettiva garanzia del contraddittorio delle parti sul compendio utilizzabile dal giudice nella deliberazione, anche perché la non contestazione, istituendo un'osmosi tra i due piani allegatorio e probatorio, finisce per rimodulare il riparto in sé dell'onere della prova, come quando, provato dal debitore il pagamento integrale di una fattura sulla base della dicitura "pagamento effettuato" manoscritta sul documento e mai contestata dal creditore, si trasferisce su quest'ultimo l'onere di controdedurre e, quindi, di dimostrare che quel pagamento deve imputarsi ad un credito diverso [Sez. 6 - 3, n. 24837, Rv. 633269, est. Carluccio]. Di conseguenza, per un verso, ne esce rafforzato il divieto di scienza privata, riaffermato dalla S.C. ogniqualvolta il giudice esercita il proprio patrimonio nozionistico in ambiti che richiedono accertamenti circostanziati, anche attraverso pubblicazioni di dati attuariali, come nel caso della variazione del valore di un immobile [Sez. 1, n. 1904, Rv. 629865, est. Benini] ovvero nel caso, inerente all'accertamento della scientia decoctionis nell'azione revocatoria fallimentare, dell'uso o meno, nella prassi bancaria, di taluni indici economico-finanziari idonei a palesare utili di bilancio solo apparenti [Sez. 1, n. 4190, Rv. 630027, est. Genovese]; per altro verso, si riduce lo spazio del fatto notorio, da interpretarsi in modo rigoroso "come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile", con conseguente esclusione - oltreché di prassi indefinite [quale la "prassi familiare" di erogazione di liberalità dai genitori ai figli, che Sez. 5, n. 14063, Rv. 631525, est. Crucitti, ha ritenuto inidonea a sorreggere la gratuità della cessione di una quota sociale dal padre alla figlia)] - di acquisizioni specifiche di natura tecnica, di elementi valutativi che implicano cognizioni particolari o richiedono il preventivo accertamento di dati particolari e di nozioni rientranti nella scienza privata del giudice pur in conseguenza della pregressa trattazione di analoghe controversie [Sez. 1, n. 6299, Rv. 629937, est. Lamorgese].

4.1. Il contenuto di collaborazione della non contestazione.

La non contestazione - che, promanando dal principio dispositivo, di per sé rilevante solo ove non contrasti con norme imperative, non si applica in relazione a quanto stabilito direttamente dalla legge e, quindi, in tema di lavori socialmente utili, alla quantificazione del trattamento economico [Sez. L, n. 8070, Rv. 630098, est. Balestrieri] - si adegua al sistema di preclusioni del processo. Pertanto l'onere delle parti di allegare e provare i fatti si arricchisce di un contenuto di collaborazione, proiettato, sin dall'inizio, alla delimitazione della controversia attraverso l'individuazione degli elementi in contestazione e la specificazione delle relative circostanze in modo dettagliato ed analitico, così che la controparte possa adempiere al dovere di prendere posizione verso le allegazioni avversarie, contestandole o ammettendole [Sez. 1, n. 21847, Rv. 632499, est. Genovese]. Nel diritto del lavoro, poi, la collaborazione, assoggettata alle regole processuali sulla distribuzione dell'onere della prova e sul contraddittorio (che non vengono meno neppure nell'ipotesi di acquisizione giudiziale ex art. 425, quarto comma, cod. proc. civ.), si estende al contratto collettivo nazionale di lavoro privatistico, rispetto al quale il giudice non può procedere con mezzi propri, secondo il principio "iura novit curia", come invece con riguardo al corrispondente contratto del pubblico impiego [Sez. 6-L, n. 19507, Rv. 632669, est. Marotta].

4.2. Collaborazione e silenzio nel giudizio di impugnazione.

Un'attenzione particolare va riservata al giudizio di impugnazione, in seno al quale - alla stregua di quanto ribadito da Sez. 3, n. 4447, Rv. 630337, est. Frasca, in un caso di pretesa inadeguatezza della liquidazione del danno non patrimoniale lamentata da uno dei prossimi congiunti della vittima di un illecito mortale rispetto agli altri - la parte deve illustrare le circostanze di fatto idonee a consentire l'apprezzamento delle doglianze fatte valere. Tuttavia - secondo Sez. 6-1, n. 16049, Rv. 632066, est. Ragonesi, che, in una fattispecie relativa ad un'azione revocatoria fallimentare, ha ritenuto il silenzio serbato dal convenuto nel giudizio di primo grado sulla conoscenza dello stato d'insolvenza non preclusivo della contestazione in appello, peraltro effettuata solo in conclusionale - l'onere di prendere sin da subito posizione sui profili controversi non sussiste, nella dinamica del contraddittorio, quando si versa, non nell'ipotesi di un'eccezione in senso proprio, ma di una mera contestazione dei fatti costitutivi della domanda, dacché non si rinviene "nel nostro ordinamento alcun principio che ne vieti la tardiva contestazione o che vincoli la parte alla contestazione specifica di ogni situazione di fatto affermata dalla controparte", né, lasciato il piano allegatorio per quello probatorio, l'inerzia del convenuto comporta alcuna inversione dell'onere della prova (nella specie sulla scientia decoctionis, la quale invece "richiede un'esplicita ammissione della parte, ovvero che quest'ultima abbia impostato il proprio sistema difensivo su circostanze o argomentazioni logicamente incompatibili con il suo disconoscimento").

4.3. Ambito di applicabilità della non contestazione.

Il principio di non contestazione gode di un'applicabilità generalizzata, conformandosi all'oggetto vertito e non soffrendo limiti - ma solo adeguamenti - in funzione della materia.

Sotto il primo profilo, per esempio, fermo che la legitimatio ad causam non si trasmette dal de cuius al chiamato per effetto della sola apertura della successione [Sez. 5, n. 17295, Rv. 632513, est. Cirillo], quantunque sia vero che l'atto di notorietà di cui agli artt. 46 e 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, esaurendo i suoi effetti nell'ambito dei rapporti con la P.A. e nei relativi procedimenti amministrativi, non costituisce di per sé prova della qualità di erede di chi, qualificatosi tale in rapporto ad una delle parti originarie del giudizio, interviene in un giudizio civile o lo riassume a seguito di interruzione o propone impugnazione, è anche vero che il giudice, dinanzi alla produzione di esso, deve adeguatamente valutare il comportamento in concreto assunto dall'avversario, "con riferimento alla verifica della contestazione o meno della predetta qualità di erede e, nell'ipotesi affermativa, al grado di specificità di tale contestazione, strettamente correlato e proporzionato al livello di specificità del contenuto della dichiarazione sostitutiva suddetta" [Sez. U, n. 12065, Rv. 630997, est. Mazzacane].

Sotto il secondo profilo, non rileva che il thema decidendum attenga - come nel caso di azione di disconoscimento di paternità - a diritti indisponibili, poiché l'effetto immediato dell'applicazione del principio che ne occupa è l'esclusione dei fatti non contestati dal novero di quelli bisognosi di prova, mentre la disposizione giuridica della situazione in contesa, realizzandosi attraverso la preclusione della mancata opponibilità della dimostrazione dei fatti allegati dalla controparte, resta solo indiretta ed eventuale. Nondimeno, poiché l'interesse pubblico posto a base della situazione giuridica esclude che il giudice debba ritenersi vincolato a considerare sussistenti o meno determinati fatti in virtù delle sole dichiarazioni od ammissioni delle parti, la loro valutazione resta rimessa al suo prudente apprezzamento alla luce di tutte le risultanze istruttorie [Sez. 1, n. 13217, Rv. 631806, est. Mercolino].

5. La valutazione delle prove ex art. 116 cod. proc. civ.

Se il terreno delle allegazioni e delle offerte di prova è governato dal principio dispositivo, quello della valutazione delle prove è rimesso dall'art. 116, primo comma, cod. proc. civ. al prudente apprezzamento del giudice. Lo ricorda Sez. L, n. 13485, Rv. 631330, est. Buffa, che - sulla scia di Sez. 1, n. 11511, Rv. 631448, est. Benini - estende i poteri del giudice sino al punto di riconoscergli un dominio assoluto sulla prova e di conferirgli in via esclusiva anzitutto il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, poi il compito di assumere le prove, infine il compito di valutarle, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, con in aggiunta la facoltà di escludere la rilevanza di una prova anche attraverso un giudizio meramente implicito, poiché egli, nel suo incedere, non è tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante, ovvero ad enunciare che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni. I poteri del giudice sono così penetranti che, persino nel caso della confessione, prototipo di prova legale, il valore in sé della prova, quale vincolo alla verità dei fatti che ne formano oggetto, non implica anche il dovere per il medesimo di considerarli sicuramente rilevanti e decisivi al fine di determinarne il convincimento, che può formarsi in base a tutti gli elementi probatori raccolti nel corso del giudizio [Sez. 3, n. 8403, Rv. 630226, est. Vincenti].

Precipuo dovere del giudice è quello di rendere conto della sua valutazione nella motivazione, la quale, se adeguata ed esente da vizi logici e giuridici, gli consente, tra l'altro, nel caso di pur disposta consulenza tecnica d'ufficio, di disattenderne le argomentazioni, non solo quando esse siano intimamente contraddittorie, ma anche quando egli stesso ritenga di sostituirle con altre tratte da personali cognizioni tecniche [Sez. L, n. 17757, Rv. 631903, est. D'Antonio].

5.1. Violazione dell'art. 116 cod. proc. civ. e ricorso per cassazione.

Attesi latitudine e profondità dei poteri del giudice nella valutazione delle prove, con il solo vincolo di una congrua motivazione, spiccato rilievo acquisisce il tema dei motivi di ricorso in cassazione nel caso di ritenuta violazione dell'art. 116 cod. proc. civ.

Una disamina completa si legge in Sez. L, n. 13960, Rv. 631646, est. Doronzo, a termini della quale siffatta deduzione è ammissibile ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., in due ipotesi simmetriche: qualora si alleghi che il giudice, nel valutare una prova, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un valore altro e diverso oppure un valore che il legislatore codifica per una prova differente, come ad esempio il valore di prova legale, e qualora, pur essendo la prova soggetta ad una specifica regola di valutazione, si affermi che il giudice abbia dichiarato di valutarla secondo il suo prudente apprezzamento; diversamente la censura volta a lamentare che il giudice ha male esercitato il proprio prudente apprezzamento è consentita solo ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., conseguendone l'inammissibilità della doglianza prospettata sotto il profilo della violazione di legge, ai sensi del numero 3 del medesimo comma.

Approfondendo il tema della censura ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. [nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 54, comma 1, lett. b, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134] con specifico riguardo alla valutazione delle deposizioni testimoniali, Sez. L, n. 15205, Rv. 631686, est. Balestrieri, ha puntualizzato che il vizio di motivazione è configurabile se dette deposizioni affermano o negano obiettivamente fatti costitutivi dei diritti controversi e non sono state esaminate dal giudice di merito, mentre si configura l'inammissibilità se esse comportano valutazioni ed apprezzamenti di fatto, compresa la maggiore o minore attendibilità dei testi, suffragata da non illogici argomenti, ovvero presunzioni ex art. 2727 cod. civ., soprattutto se la doglianza si profonde in una valutazione atomistica delle singole deposizioni, non ricondotte ad una pur necessaria loro disamina complessiva.

Sotto altro profilo, il principio di autosufficienza del ricorso esige che la parte la quale, lamentando un vizio di motivazione, si dolga dell'acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, ben lungi dal limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente e dal giudice, indichi con precisione le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo nel ricorso i passaggi salienti e non condivisi della relazione, con il corredo delle ragioni delle critiche, al fine di consentire l'apprezzamento dell'incidenza causale del difetto di motivazione [Sez. 1, n. 16368, Rv. 632050, est. Mercolino].

Di un certo interesse è l'argomento correlato dei poteri del giudice del rinvio, al quale sia stata demandata una valutazione da compiere sulla base delle risultanze istruttorie acquisite nelle fasi di merito. Sez. 3, n. 13358, Rv. 631758, est. Carluccio, in un caso in cui il giudice del rinvio, sceso il giudicato, a seguito di un primo giudizio di legittimità, sull'esistenza del nesso causale tra l'omessa esecuzione di un parto cesareo ed i danni subìti dal nascituro, aveva ritenuto di trarre indicazioni dalla sentenza rescindente anche per stabilire se la struttura sanitaria avesse adempiuto all'onere di provare l'assenza di colpa, ha deciso che detto giudice non avrebbe potuto farvi riferimento, a cagione dei limiti istituzionali propri del sindacato di legittimità, che escludono per la S.C. ogni potere di valutazione delle prove.

5.2. Libero convincimento e prove formate in altro procedimento.

Nel contesto di un'interpretazione dell'art. 116, primo comma, cod. proc. civ. coordinata, sotto l'egida del contraddittorio, con l'esigenza che, a termini dell'art. 115, primo comma, cod. proc. civ., la decisione sia fondata sulle prove proposte dalle parti, il principio del prudente (e libero) convincimento del giudice gli consente di tenere conto, non solo delle prove acquisite in altro processo, purché la relativa documentazione venga ritualmente versata agli atti al fine di offrirla all'analisi critica delle parti e, in definitiva, di stimolare la valutazione giudiziale su di esse [Sez. 1, n. 9843, Rv. 631137, est. Benini, che ha cassato la sentenza di merito per aver fatto riferimento ai risultati di una consulenza tecnica d'ufficio svoltasi in altra causa senza indicarne neppure gli estremi], ma persino delle dichiarazioni "auto-indizianti" rese da alcuna delle parti nel procedimento penale, alla condizione di un vaglio particolarmente rigoroso, atteso che la sanzione dell'inutilizzabilità posta dall'art. 63 cod. proc. pen. a tutela dei diritti di difesa in quella sede non ha effetti fuori di essa [Sez. 2, n. 12577, Rv. 630956, est. Matera]. Tuttavia, rispetto all'"importazione" di atti dal procedimento penale, vige il presupposto che il contraddittorio sia stato garantito già in seno ad esso: invero, "il giudice civile, salvo che le parti non gliene facciano concorde richiesta, non può avvalersi del materiale probatorio acquisito senza contraddittorio in sede penale, a meno che il dibattimento non sia mancato per scelta di un rito alternativo da parte dell'imputato" [Sez. L, n. 21299, Rv. 632928, est. Manna].

5.3. Libero convincimento ed argomenti di prova.

Affine al tema delle dichiarazioni "auto-indizianti" della parte nel procedimento penale è quello degli argomenti di prova desumibili, ai sensi dell'art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., anche dall'interrogatorio non formale o libero, a proposito del quale Sez. L, n. 20736 del, Rv. 632584, est. Maisano, non ha mancato di ricordare che la sua caratterizzazione non confessoria non ne preclude la libera valutazione ad opera del giudice, abilitato per l'effetto a trarre dalle dichiarazioni rese dalla parte in tale sede un convincimento contrario all'interesse della medesima e finanche ad utilizzarle quale unica fonte di prova. Ciò detto, la distanza teorica tra interrogatorio libero ed interrogatorio formale nella pratica si riduce di molto ove si consideri, con Sez. 1, n. 17719, Rv. 632150, est. Ragonesi, che, in tema di interrogatorio formale, l'art. 232 cod. proc. civ. non ricollega automaticamente alla mancata risposta, per quanto ingiustificata, l'effetto della confessione, bensì riconosce al giudice soltanto la facoltà di ritenere come ammessi i fatti dedotti con il mezzo istruttorio, purché concorrano altri elementi di prova.

Il tema del libero convincimento sub specie degli argomenti di prova che il giudice può trarre anche dal contegno delle parti nel processo [come nel caso - giunto all'attenzione di Sez. L, n. 27231, Rv. 634223, est. Nobile - di distruzione dei documenti in relazione ai quali la controparte aveva instato per l'esibizione] non trova limiti nelle materie concernenti diritti sottratti alla libera disponibilità delle parti. La S.C. ha avuto modo di precisarlo in un giudizio in cui - rifacendosi all'insegnamento che circoscrive l'attitudine certificativa della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e dell'autocertificazione in genere ai soli rapporti con la P.A., ad esclusione, in sede giurisdizionale, delle liti tra privati, in seno alle quali detti atti costituiscono solo indizi valutabili insieme agli altri elementi acquisiti [Sez. 3, n. 4556, Rv. 630129, est. D'Amico] - ha confermato la sentenza di dichiarazione giudiziale di paternità naturale fondata sugli indizi desunti sia da una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà prestata dalla madre, nell'interesse del figlio, sull'identità del padre sia dal rifiuto di quest'ultimo di sottoporsi ad esami ematologici, sottolineando che la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà può essere prestata anche nell'interesse di un soggetto diverso dal dichiarante e che l'ingiustificata opposizione del padre a sottoporsi agli esami ematologici può essere liberamente valutata dal giudice, ai sensi dell'art. 116, seconco comma, cod. proc. civ., pur in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti, senza che da ciò derivi una restrizione della libertà personale del padre, il quale conserva piena facoltà di determinazione in merito all'assoggettamento o meno ai prelievi, né una violazione del diritto alla riservatezza di alcuno, poiché l'uso dei dati è rivolto solo a fini di giustizia ed il sanitario, chiamato a compiere l'accertamento, è tenuto al segreto professionale ed al rispetto dalla disciplina in materia di loro protezione [Sez. 1, n. 11223, Rv. 631253 e 631254, est. Bisogni].

6. Le presunzioni quale ambito tipico di valutazione delle prove.

Tradizionalmente si distinguono le presunzioni legali e le presunzioni semplici. Le prime sono quelle il cui valore probatorio è fissato dalla legge stessa e si suddividono in assolute, o iuris et de iure, e relative, o iuris tantum. Le assolute, a differenza delle relative, non ammettono la prova contraria e possono acquisire sfumature di significato anche a valenza sanzionatoria [come rilevato da Sez. L, n. 12099, Rv. 631032, est. Berrino, circa la somma aggiuntiva dovuta automaticamente in conseguenza del mancato od intempestivo pagamento dei contributi previdenziali ex art. 111 del r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827, definita "sanzione civile che, pur avendo la funzione di risarcire in misura predeterminata dalla legge, con presunzione iuris et de iure, il danno cagionato all'istituto assicuratore, dà luogo ad un debito che si compenetra con quello concernente l'obbligazione contributiva", assumendo esso pure le caratteristiche di somma capitale, sull'interezza della quale, in caso di inadempimento, spettano all'istituto assicuratore gli interessi moratori nella misura legale)]. È stato invece deciso che ricorre un'ipotesi di presunzione legale sì, ma relativa, in relazione alla produzione di rifiuti che l'art. 62, comma 1, del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, ricollega ai possessori di immobili ai fini della soggezione alla TARSU, con la conseguenza che è onere del contribuente indicare in denuncia l'inidoneità delle aree alla produzione di rifiuti per la natura o il particolare uso e provarla in giudizio in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o a confacente documentazione [Sez. 6-5, n. 19469, Rv. 632445, est. Iacobellis].

Le presunzioni semplici sono invece quelle non stabilite dalla legge, che l'art. 2729 cod. civ. - come già l'art. 1354 cod. civ. previgente - rimette alla "prudenza del giudice", che fa il paio con il "prudente apprezzamento del giudice" ex art. 116, comma 1, cod. proc. civ. A proposito di esse, Sez. L, n. 2632, Rv. 629841, est. Venuti, ha asserito che l'esistenza del fatto ignoto non deve rappresentare l'unica conseguenza possibile di quello noto, "secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola della inferenza necessaria)", poiché è sufficiente l'univoca possibilità di desumere il fatto ignoto da quello noto, "alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit (in virtù della regola dell'inferenza probabilistica)"; tuttavia resta escluso che il giudice (libero di apprezzare discrezionalmente gli elementi indiziari prescelti) possa attribuire valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici. Il canone di valutazione delle presunzioni semplici consiste nell'esame complessivo di tutti gli indizi, alla luce l'uno dell'altro, senza negare valore ad uno o più di essi sol perché di per sé equivoci [Sez. 3, n. 5787, Rv. 630512, est. Rossetti].

6.1. Le presunzioni extra ordinem.

La sistematica testé esposta è arricchita dalla giurisprudenza, che, anzitutto, ha introdotto il concetto di prova privilegiata riferito all'efficacia probatoria, nel giudizio promosso dall'assicurato per il risarcimento del danno patito per l'elevato premio corrisposto in conseguenza di un'intesa illecitamente restrittiva della concorrenza, degli atti del procedimento dinanzi all'Autorità garante per la concorrenza ed il mercato esitato con l'irrogazione della sanzione. Così Sez. 6-3, n. 9116, Rv. 630684, est. De Stefano, ultima riaffermazione di un orientamento consolidato, ha ripetuto che detti atti "costituiscono una prova privilegiata, quando non una presunzione, del danno patito dal singolo assicurato", nel senso che l'impresa assicuratrice è abilitata alla prova contraria, peraltro solo sul nesso causale tra l'illecito concorrenziale ed il danno, non con "argomentazioni generali, tese a rimettere in discussione i fatti costitutivi della sussistenza della violazione della disciplina sulla concorrenza, già valutati dall'Autorità garante, bensì offrendo precise indicazioni su situazioni e comportamenti relativi ad essa e all'assicurato, idonei a dimostrare che il livello del premio è stato determinato da fattori diversi rispetto alla partecipazione all'intesa illecita".

Ulteriori arricchimenti - anche linguistici - concernono la configurazione di praesumptiones facti o praesumptiones de facto. Rileva Sez. 6-2, n. 13196, Rv. 631144, est. Manna, che, in tema di sanzioni amministrative, ai fini della solidarietà ex art. 6 della legge 24 novembre 1981, n. 689, l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato integra una praesumptio facti di riferibilità al datore di lavoro dell'attività lavorativa del dipendente, per vincere la quale occorre la prova che tale attività è stata svolta per conto di terzi o nell'interesse esclusivo del dipendente medesimo. Rileva poi Sez. 3, n. 6193, Rv. 630499, est. Stalla, che, in tema di circolazione stradale, poiché l'art. 149, primo comma, del codice della strada impone al conducente di un veicolo di essere sempre in grado di garantirne l'arresto tempestivo, evitando collisioni con quello che precede, l'avvenuto tamponamento pone a carico di costui una presunzione de facto di inosservanza della distanza di sicurezza, che, escludendo l'applicabilità della presunzione di pari colpa ex art. 2054, secondo comma, cod. civ., lo grava dell'onere di dare la prova liberatoria, dimostrando che il mancato tempestivo arresto è stato determinato da cause in tutto o in parte a lui non imputabili.

6.2. Le presunzioni in materia di contratti.

A proposito dell'appalto, Sez. U, n. 2284, Rv. 629518, est. Massera, ha suggellato la tesi che l'art. 1669 cod. civ. - "norma non di favore, diretta a limitare la responsabilità del costruttore, bensì finalizzata ad assicurare una più efficace tutela del committente, dei suoi aventi causa e dei terzi in generale" - concreta un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale speciale rispetto all'art. 2043 cod. civ., il quale conserva un'applicabilità sussidiaria, nel senso che, se non ricorrono le condizioni per l'applicazione del primo (come nel caso di danno manifestatosi e prodottosi oltre il decennio dal compimento dell'opera), "può farsi luogo all'applicazione dell'art. 2043 cod. civ., senza che, tuttavia, operi il regime speciale di presunzione della responsabilità del costruttore contemplato dall'art. 1669 cod. civ., atteso che spetta a chi agisce in giudizio l'onere di provare tutti gli elementi richiesti dall'art. 2043 cod. civ., compresa la colpa del costruttore". Con riguardo poi al regolamento negoziale dell'appalto, Sez. 2, n. 468, Rv. 628926, est. Nuzzo, ha concluso che, vigendo la presunzione ex art. 1658 cod. civ. secondo cui la materia necessaria a compiere l'opera è fornita dall'appaltatore, incombe sul committente l'onere di provare di avergli invece venduto i materiali, anche ai fini dell'incidenza di tale circostanza sulla determinazione del corrispettivo dell'appalto.

A proposito della vendita di cosa da trasportare, Sez. 2, n. 16961, Rv. 631835, est. Mazzacane, ha puntualizzato che si presume la vendita con spedizione ex art. 1510, secondo comma, cod. civ.; talché, per ritenere una "vendita con consegna all'arrivo", necessitando un inequivoco patto di deroga, non è sufficiente la clausola "porto franco", che esonera l'acquirente dalle spese di trasporto ma non dai rischi del medesimo.

6.3. Le presunzioni in materia di comunione e condominio.

Dette presunzioni, reggendosi sull'utilità comune delle cose cui si riferiscono, soccombono dinanzi alla prova contraria di un titolo solitario o comunque di un'utilità esclusivamente individuale. Così la presunzione di comunione del muro ex art. 880 cod. civ., postulando la funzione divisoria di fondi omogenei, può essere vinta dall'accertamento dell'erezione integralmente su una sola delle aree confinanti, con conseguente acquisto per accessione, ai sensi dell'art. 934 cod. civ. [Sez. 2, n. 50, Rv. 629279, est. Migliucci]. Invece la presunzione di condominialità ex art. 1117 cod. civ. - che non può essere superata dalla semplice scheda catastale, dotata soltanto di valore indiziario [Sez. 2, n. 9523, Rv. 630425, est. Oricchio] - avvince il cavedio, cortile di piccole dimensioni circoscritto dai muri perimetrali e dalle fondamenta dell'edificio condominiale e destinato prevalentemente a dare aria e luce a locali secondari, anche quando vi si acceda solo dall'appartamento di un condomino che vi abbia posto manufatti collegati alla sua unità, in quanto l'utilità particolare che deriva al singolo non incide sulla destinazione tipica e normale del bene in favore dell'edificio condominiale [Sez. 2, n. 17556, Rv. 631830, est. Giusti].

6.4. Le presunzioni in materia di responsabilità extracontrattuale.

Si è ribadito che la presunzione dell'art. 2052 cod. civ. è inapplicabile ai danni cagionati dagli animali selvatici a motivo della loro stessa natura, sicché, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., il risarcimento è subordinato all'individuazione di un comportamento colposo ascrivibile all'ente pubblico [Sez. 1, n. 9276, Rv. 631131, est. Macioce]. Si è poi confermato che l'art. 2054 cod. civ., in ciascuno dei suoi commi, ha carattere generale, applicandosi a chiunque dalla circolazione abbia riportato danno, compreso il trasportato, a prescindere da titolo e natura del trasporto: pertanto egli può invocare i primi due commi dell'art. 2054 cod. civ. per far valere la responsabilità extracontrattuale del conducente ed il terzo per far valere quella solidale del proprietario, il quale in tanto può liberarsene in quanto dimostri o che la circolazione è avvenuta contro la sua volontà o che il conducente aveva fatto tutto il possibile per evitare il danno o, in caso di guasto tecnico, che non esiste vizio di manutenzione ovvero di costruzione o "in limine" che ricorre il fortuito [Sez. 3, n. 11270, Rv. 631027, est. D'Alessandro].

In tutt'altro ambito, relativo ai danni conseguenti ad infezioni con i virus HBV (epatite B), HIV (AIDS) e HCV (epatite C) contratti a causa di assunzione di emotrasfusioni o di emoderivati con sangue infetto, si è chiarito che sussiste "la presunzione di responsabilità del Ministero della salute per il contagio verificatosi negli anni tra il 1979 e il 1989, stante l'avvenuta scoperta scientifica della prevedibilità delle relative infezioni, individuabile nel 1978, con il conseguente obbligo di controllo e di vigilanza in materia di raccolta e distribuzione di sangue umano per uso terapeutico"; detta presunzione può essere vinta dal Ministero solo provando l'"adozione di condotte e misure necessarie per evitare la contagiosità, a prescindere dalla conoscenza di strumenti di prevenzione specifica" [Sez. 3, n. 5954, Rv. 630602, est. De Stefano].

6.5. Le presunzioni in materia di fallimento.

Conviene porre a confronto l'azione revocatoria fallimentare con quella ordinaria per verificare la diversa operatività delle presunzioni che le caratterizzano. In quest'ultima, la presunzione di onerosità prevista dall'art. 2901, secondo comma, cod. civ. implica che la contestualità tra prestazioni di garanzia e credito garantito debba ritenersi sussistente sulla base di una valutazione funzionale e, quindi, anche in assenza di coincidenza temporale, se il rischio dell'elargizione creditizia è assunto sul presupposto della concessione della garanzia, restando esclusa solo ove la garanzia sopravvenga quando il rischio dell'operazione è già in atto [cosicché, quanto al factoring, secondo Sez. 1, n. 13973, Rv. 631387, est. Bernabai, è alla cessione del credito futuro, e non alla venuta ad esistenza del credito ceduto, che occorre riferirsi per accertare la contestualità dell'ipoteca concessa a garanzia della restituzione dell'anticipazione erogata dal factor]. Nell'azione revocatoria fallimentare, l'art. 67, primo comma, n. 1, legge fall., si spinge oltre, presumendo la conoscenza dello stato di insolvenza, la certezza della cui esclusione, da dedurre e provare a contrario, esige, anche mediante il ricorso a presunzioni, concreti collegamenti tra il convenuto ed i sintomi conoscibili, per una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza, del predetto stato [di modo che, secondo Sez. 1, n. 17286, Rv. 631936, est. Didone, rilevano la contiguità territoriale del luogo in cui opera l'impresa, l'occasionalità o la continuità dei rapporti commerciali con essa, la loro importanza, l'epoca dell'atto rispetto al fallimento].

Con riferimento, invece, al dies a quo della prescrizione dell'azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società ex art. 2394 cod. civ. promossa dal curatore fallimentare ex art. 146 legge fall. (nel testo vigente prima della riforma di cui al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), è stato ripetuto che esso coincide con il momento dell'oggettiva percepibilità, e non dell'effettiva conoscenza, da parte dei creditori medesimi, dell'insufficienza dell'attivo a soddisfare i debiti, che, a sua volta, dipendendo dall'insufficienza della garanzia patrimoniale generica, non corrisponde allo stato d'insolvenza ex art. 5 della legge fall.: nondimeno, attesa l'onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, competendo all'amministratore di allegare e provare la diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale [Sez. 1, n. 13378, Rv. 631369, est. Bernabai].

6.6. Le presunzioni in materia di diritto tributario.

Il diritto tributario è costellato di presunzioni legali, che rilevano, non univocamente in favore dell'Amministrazione finanziaria, ma trasversalmente in favore di chi ha interesse ad avvalersene. Per esempio, Sez. 5, n. 21437, Rv. 632507, est. Greco, ha rimarcato come il comma 2-bis dell'art. 2 del d.P.R. 27 dicembre 1986 n. 917, che prevede per i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi dei residenti ed emigrati in Stati a regime fiscale privilegiato la presunzione di residenza in Italia, si applichi anche a vantaggio del contribuente che invochi il regime nazionale a lui più favorevole.

Quanto alla presunzioni non legali, la casistica si arricchisce rispetto all'ordinamento civile, poiché contempla sia quelle semplici sia quelle cosiddette supersemplici. Il tema rileva in specie nell'accertamento delle imposte sui redditi. Sez. 5, n. 20902, Rv. 632521, est. Tricomi - affermando che "la "contabilità in nero", costituita da documenti informatici (cosiddetti files, estrapolati dai computers nella disponibilità dell'imprenditore), costituisce elemento probatorio, sia pure meramente presuntivo, legittimamente valutabile in relazione all'esistenza di operazioni non contabilizzate" - ha definito le presunzioni semplici una "prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza ai fini della formazione del proprio convincimento". Un caso di avviso di accertamento fondato su documentazione extracontabile di altro contribuente ha offerto l'occasione per ricordare che i verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di costui - potendosene trarre, come dalla contabilità in nero consistente in "appunti personali ed informazioni dell'imprenditore", presunzioni semplici - consentono di procedere a rettifica ex art. 39, primo comma, lettera c, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, atteso che il concetto di scritture contabili disciplinate dagli artt. 2709 e ss. cod. civ. comprende "tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d'impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell'imprenditore ed il risultato economico dell'attività svolta" [Sez. 5, n. 20094, Rv. 632341, est. Greco].

Quando la contabilità è formalmente regolare, non v'è dubbio che sia consentito il ricorso a presunzioni semplici in funzione dell'accertamento del reddito con metodo analitico-induttivo, giacché l'art. 39, primo comma, lettera d, del d.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600, "presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata" [così Sez. 5, n. 20060, Rv. 632350, est. Valitutti, che ha confermato un accertamento nei confronti di un'impresa attiva nella ristorazione fondato sul consumo di tovaglioli risultante dalle fatture di acquisto e dalle spese di lavanderia, sul presupposto che normalmente ciascun cliente consuma un tovagliolo al pasto]. Identica conclusione vale anche per le imposte indirette ed in particolare per l'IVA, posto che l'art. 54 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, autorizza l'accertamento anche in base ad "altri documenti" o "scritture contabili" (diverse da quelle previste dalla legge) o ad "altri dati e notizie" raccolti nei modi prescritti dagli articoli precedenti, "potendo le conseguenti omissioni o false o inesatte indicazioni essere indirettamente desunte da tali risultanze ovvero anche in esito a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti" [Sez. 5, n. 14068, Rv. 631528, est. Tricomi].

Ma v'è di più. Tornando alle imposte sul reddito, l'inaffidabilità ed incongruità sostanziali della contabilità pur regolare legittimano il fisco a fare ricorso al metodo induttivo, utilizzando, non solo qualsiasi elemento probatorio, ma anche "presunzioni cosiddette 'supersemplici', cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all'art. 38, terzo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600", le quali producono l'effetto di invertire l'onere della prova, sicché addossano al contribuente la deduzione di elementi intesi a dimostrare una misura del reddito inferiore a quella indicata in sede di accertamento [così Sez. 5, n. 15027, Rv. 631522, est. Meloni, su maggiori corrispettivi e guadagni rispetto a quelli dichiarati desunti dal solo raffronto dei prezzi di vendita e di acquisto risultanti dalle fatture attive e passive].

7. La consulenza tecnica d'ufficio in generale.

L'ampia produzione in materia di consulenza tecnica d'ufficio è orientata a richiamare il giudice del merito alla necessità di un esercizio accorto dei suoi poteri nel vagliarne le risultanze. Il controllo è consentito attraverso la motivazione della sentenza.

Sez. 3, n. 4448, Rv. 630338, est. Frasca, con riferimento ad una pronuncia di merito che, in ordine alla liquidazione del danno biologico permanente, recepiva le indicazioni del consulente tecnico d'ufficio sull'importo da liquidare, ma, non indicando le tabelle utilizzate e la percentuale d'invalidità riscontrata, rendeva impossibile ripercorrere il calcolo sotteso alla liquidazione stessa, è intervenuta per ribadire che il semplice richiamo in sentenza delle conclusioni del consulente, senza la ragionata esposizione dell'iter logico seguito per pervenire, da esse, alla statuizione resa dal giudice, configura un'ipotesi di motivazione solo apparente che integra una sostanziale inosservanza dell'obbligo imposto dall'art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ.

In tema di controversie per sinistri marittimi, nelle quali sono comprese quelle per indennità da salvataggio e recupero di imbarcazioni ai sensi degli artt. 491 e 589, primo comma, lettera e, cod. nav., Sez. 6-3, n. 6608, Rv. 630496, est. De Stefano, ha opinato nel senso che - pur potendo il giudice di secondo grado motivatamente discostarsi dalle conclusioni del consulente tecnico nominato dal giudice di primo grado e da questi condivise - la disamina di speciali questioni tecniche renda obbligatoria la nomina e la partecipazione di un consulente anche in sede di impugnazione ex artt. 599 e 600 cod. nav., sicché è nulla la sentenza di appello profusasi nell'analisi di questioni di tal fatta senza l'esperimento di una nuova consulenza e pervenuta a conclusioni difformi da quelle del consulente e del giudice di primo grado.

7.1. Diritti delle parti.

Disposta una consulenza tecnica d'ufficio, la nomina di un consulente tecnico di parte, costituendo esercizio del diritto costituzionale di difesa, non solo non può tradursi in un obbligo, ma neppure può fungere da preclusione temporale a prospettare critiche o a richiedere chiarimenti rispetto all'indagine svolta dal consulente tecnico di ufficio: ne consegue che la parte può presentare osservazioni critiche alla relazione di quest'ultimo pur quando non abbia tempestivamente designato un proprio consulente [Sez. 1, n. 17269, Rv. 631995, est. Acierno]. Nondimeno, in funzione della possibilità di una concreta partecipazione all'attività del consulente tecnico d'ufficio, giusta gli artt. 194, secondo comma, cod. proc. civ. e 90, primo comma, disp. att. cod. proc. civ., alle parti va data comunicazione del giorno, ora e luogo di inizio delle operazioni, ma non anche degli incombenti relativi alle indagini successive, giacché, una volta iniziata la consulenza, le parti stesse hanno l'onere di informarsi sul suo prosieguo [Sez. 3, n. 6195, Rv. 630565, est. Cirillo].

7.2. La ricusazione del consulente tecnico d'ufficio.

In punto di critiche alle qualità del consulente tecnico d'ufficio, sia la sua mancanza di imparzialità sia però anche i fatti relativi alla sua inattendibilità od inaffidabilità, pur essi sostanzianti profili di imparzialità, possono essere fatti valere esclusivamente mediante lo strumento della ricusazione, soggetto al termine di cui all'art. 192, comma 2, cod. proc. civ. [Sez. L, n. 12822, Rv. 631185, est. Manna], con conseguente divieto di prova testimoniale sulle corrispondenti allegazioni [Sez. 3, n. 8406, Rv. 630221, est. Vincenti].

7.3. Deposito della relazione e contestazione della stessa.

Quanto al rispetto delle scansioni temporali in rapporto alla consulenza tecnica d'ufficio, premesso che il consulente deve depositare la relazione nel termine assegnatogli, l'inosservanza del quale però non determina alcuna nullità, se non in particolari casi propri del rito del lavoro [Sez. 3, n. 6195, Rv. 630566, est. Cirillo], la parte che invece intenda contestarne le conclusioni deve farlo, a pena di decadenza, nella prima istanza o difesa successiva al deposito, poiché esse, costituendo eccezioni al contenuto della consulenza, sono sottoposte al termine di preclusione di cui all'art. 157, secondo comma, cod. proc. civ. [Sez. 3, n. 4448, Rv. 630339, est. Frasca]. Sempre a proposito del termine per le contestazioni - ancorché, in relazione all'accertamento tecnico preventivo obbligatorio, fissato dal giudice ai sensi dell'art. 445-bis, quarto comma, cod. proc. civ. dopo la conclusione delle operazioni - rileva una speciale declinazione della regola della ex art. 115, primo comma, cod. proc. civ., atteso che, secondo Sez. 6-L, n. 6085, Rv. 630605, est. La Terza, in difetto di tempestive contestazioni delle parti, il giudice, salvo che non intenda rinnovare le operazioni o sostituire il consulente, è tenuto ad omologare l'accertamento sulla sussistenza o meno delle condizioni sanitarie per l'accesso alla prestazione con decreto inoppugnabile, immodificabile e non ricorribile per cassazione, neppure mediante il mezzo straordinario dell'art.111 Cost.

7.4. Acquisizione della relazione di consulenza esperita in diverso processo.

La relazione costituente esito di una consulenza tecnica d'ufficio esperita in diverso processo può essere versata agli di quello in cui una delle parti intende avvalersene alla stregua di un documento, andando pertanto soggetta alla pertinente disciplina [Sez. 2, n. 10599, Rv. 631013, est. Petitti].

8. L'esibizione delle prove.

Sez. L, n. 1484, Rv. 630270, est. Balestrieri, ha chiarito che altro è l'ordine di esibizione ex art. 210 cod. proc. civ. ed altro sono le informazioni richieste alla P.A. ex art. 213 cod. proc. civ.: diversi sono i presupposti, perché solo per il primo è prevista l'indispensabilità dell'acquisizione del documento e l'iniziativa di parte; diversa è la natura del destinatario, che, quanto al primo, può esser indifferentemente un soggetto pubblico o privato, mentre, quanto alle seconde, deve identificarsi necessariamente con una P.A.; diverso è l'oggetto, in quanto, mentre il primo è teso ad acquisire uno o più specifici documenti, posseduti dall'altra parte o da un terzo, il cui possesso l'istante dimostri di non essere riuscito diversamente ad acquisire, le seconde mirano ad ottenere notizie relative ad atti e documenti propri della P.A. e, dunque, istituzionalmente in possesso di quest'ultima. Fatte tali premesse, la S.C. ne ha tratto la conseguenza a termini della quale, ove la richiesta ex art. 210 cod. proc. civ. sia stata formulata solo in appello, l'istante è tenuto a provare di non aver potuto produrre nel giudizio di primo grado, per causa ad essa non imputabile, i documenti che ne costituiscono oggetto, non essendo ammissibile che, per effetto dell'ordine conseguente all'accoglimento della richiesta, essa sia messa nelle condizioni di eludere le preclusioni previste dagli articoli 345 e 437 cod. proc. civ. né più in generale di aggirare l'onere di fornire le prove di cui avrebbe potuto diligentemente procurarsi la disponibilità.

Peraltro, una volta accolta la richiesta ex art. 210 cod. proc. civ., l'inosservanza del termine, meramente ordinatorio, fissato per ottemperare all'ordine non comporta alcuna inutilizzabilità della relativa produzione, poiché non ricorre una lesione del diritto di difesa della parte, la quale al contrario è favorita dalla possibilità, mediante l'intervento del giudice, di acquisire al processo un documento o un'altra cosa in possesso di un terzo o dell'altra parte, dovendosi ritenere irragionevole una soluzione che diversamente consentisse l'espunzione proprio di quella documentazione la cui acquisizione, a seguito di apposita sollecitazione, è stata ritenuta necessaria [Sez. 3, n. 11671, Rv. 631166, est. Carleo].

8.1. Peculiarità in tema di acquisizione di atti e documenti di precedenti fasi o gradi di giudizio.

La giurisprudenza si è soffermata su singolari riferimenti all'esibizione delle prove, siccome effettuati in contesti concernenti la richiesta di acquisizione di atti e documenti, già versati nel fascicolo della precedente fase o del precedente grado di giudizio, in sede di opposizione o di gravame.

La Corte, con Sez. 6-1, n. 16101, Rv. 631971, est. Bernabai, intervenuta in un giudizio di opposizione allo stato passivo, ha sostenuto che esso è regolato dal principio dispositivo, sicché sul creditore, la cui domanda ex art. 93 legge fall. sia stata respinta dal giudice delegato, grava l'onere di produrre nuovamente nel procedimento ex art. 99 legge fall. la documentazione già depositata in precedenza, che non può essere acquisita ex officio. Tuttavia il rigore di tale principio subisce un temperamento, nel senso che, qualora l'opponente abbia tempestivamente indicato in ricorso la documentazione di cui intende avvalersi, facendo riferimento per relationem a quanto già prodotto davanti al giudice delegato con una formula, non di stile, ma puntuale e precisa sugli atti posti a fondamento dell'opposizione, e ne abbia contestualmente formulato istanza di acquisizione, non è ravvisabile alcuna negligente inerzia determinante il rigetto del ricorso per inosservanza della regola sull'onere della prova, potendo quell'istanza essere interpretata come autorizzazione al ritiro della documentazione ex art. 90 legge fall., applicabile, in virtù della sua portata generale, anche al procedimento di opposizione allo stato passivo.

Al contrario, in tema di contenzioso tributario, Sez. 5, n. 13152, Rv. 631140, est. Iofrida, ha affermato che, a seguito dell'abrogazione dell'art. 7, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, al giudice di appello non è più consentito ordinare il deposito di documenti, dovendo, invece, essergli riconosciuto il potere di ordinarne, nondimeno ex officio, l'esibizione ai sensi dell'art. 210 cod. proc. civ.

In argomento par d'uopo ricordare che Sez. 3, n. 24408, non massimata, est. Frasca - in un caso di opposizione a decreto ingiuntivo in cui il giudice d'appello ha ritenuto, sebbene parte creditrice opposta non avesse prodotto il fascicolo monitorio dinanzi al primo giudice e l'avesse prodotto tardivamente dinanzi a sé, l'indispensabilità ai fini decisori dei documenti in esso contenuti e già posti a fondamento del ricorso - ha preso le mosse dalla considerazione che è onere di detta parte produrre il fascicolo monitorio in fase di opposizione entro i limiti consentiti a chi, come essa, formalmente riveste la qualifica di convenuto, senza che possa disporsene l'acquisizione ex officio, per sollecitare l'assegnazione alle Sezioni Unite della questione concernente l'applicazione, rispetto alle prove documentali, del divieto di prove nuove in appello ex art. 345 cod. proc. civ. (nel testo - ratione temporis applicabile - successivo alle modifiche dell'art. 52 della legge 26 novembre 1990, n. 353), rilevando un contrasto di giurisprudenza in relazione alle nozioni di novità ed indispensabilità della prova (cfr. amplius il par. 11).

Per concludere, nel giudizio di cassazione, il divieto di produrre nuovi documenti stabilito dall'art. 372 cod. proc. civ. - fatta eccezione per quelli riguardanti la nullità della sentenza impugnata e l'ammissibilità del ricorso e del controricorso - non comprende gli atti e documenti già facenti parte del fascicolo d'ufficio o di parte di un precedente grado, cosicché la parte che abbia prodotto nel giudizio di merito la fotocopia di un documento è legittimata a produrre in cassazione l'originale (nella specie, la sentenza impugnata con la relazione di notificazione), senza che la sostituzione implichi produzione di un documento nuovo [Sez. 1, n. 2125, Rv. 629674, est. Ragonesi].

9. Disconoscimento, riconoscimento e verificazione di scrittura privata in generale.

La S.C. si è ripetutamente confrontata con gli istituti di cui si tratta, specificandone gli ambiti di applicazione nelle tre dimensioni esterna, interna e mediana.

La dimensione esterna è stata conformata, in negativo, da Sez. 1, n. 11494, Rv. 631280, est. De Chiara, che ha reputato inapplicabili le disposizioni di cui agli artt. 214 ss. cod. proc. civ. nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, a motivo sia del carattere sommario e camerale che esso ha conservato pur dopo la recente riforma sia però anche degli ampi poteri istruttori officiosi riconosciuti al giudice, il quale, pertanto, può accertare la genuinità della scrittura privata con ogni mezzo anche d'ufficio. In positivo, con precipuo riferimento al disconoscimento, Sez. 2, n. 27353, Rv. 633615, est. Mazzacane, è intervenuta per delinearne le differenze rispetto alla querela di falso sotto due punti di vista: quanto alle finalità, perché, mentre il disconoscimento, costituente un'impugnazione vincolata da forme particolari, mira ad impedire che la scrittura privata acquisti l'efficacia probatoria attribuitale dall'art. 2702 cod. civ. circa la provenienza delle dichiarazioni da parte di chi ha sottoscritto la scrittura stessa, la querela di falso, presupponendo l'esistenza di un documento dotato dell'efficacia di prova piena e perciò avendo ad oggetto la prova che le dichiarazioni in apparenza provenienti dal sottoscrittore, considerate separatamente dalla firma riconosciuta, non sono state in realtà mai effettuate, postula l'esistenza di una scrittura privata riconosciuta di cui il querelante ha interesse ad eliminare l'efficacia; ma, ulteriormente, anche quanto agli esiti, perché, a differenza del disconoscimento, che produce effetti solo nei confronti della controparte, la querela di falso tende al conseguimento del più ampio e definitivo risultato della contestazione in sé del documento e, quindi, della completa rimozione del suo valore probatorio erga omnes.

La dimensione interna è stata definita, in positivo, da Sez. 2, n. 2095, Rv. 629426, est. Falaschi, che ha legittimato al disconoscimento ex art. 214 cod. proc. civ. il legale rappresentante di una società, contro la quale sia prodotta in giudizio una scrittura privata, quantunque la sottoscrizione fosse attribuita ad altra persona fisica già investita della legale rappresentanza, in guisa tale da sollevarlo dall'onere della proposizione della querela di falso ex art. 221 cod. proc. civ. Inversamente, a proposito dell'istanza di verificazione, Sez. 3, n. 16777, Rv. 632274, est. Stalla, ha ricordato come essa si applichi nella sola ipotesi di disconoscimento incidentale in corso di causa, concludendo che, quanto ad effetti cambiari con sottoscrizione non riconosciuta né da considerarsi tale, la parte può agire in via principale per far accertare la non autenticità della firma secondo le ordinarie regole probatorie ex art. 2697 cod. civ.

A metà strada tra la dimensione esterna e quella interna si inserisce l'insegnamento di Sez. 6-3, n. 3845, Rv. 630152, est. Carluccio, che, con riguardo alla decisione sull'eccezione di incompetenza per territorio fondata su una clausola contrattuale di deroga della competenza, ha escluso sia la rilevanza del disconoscimento, ad opera di una delle parti, del contratto, sia la mancata proposizione, ad opera della controparte, di istanza di verificazione, dovendo la questione relativa alla competenza essere risolta, ai sensi dell'art. 38, quarto comma, cod. proc. civ., sulla base solo delle risultanze emergenti dagli atti introduttivi e dalle produzioni documentali effettuate con essi.

9.1. Profili procedurali.

Si è reso necessario puntualizzare che il disconoscimento di una scrittura privata, pur non richiedendo, ai sensi dell'art. 214 cod. proc. civ., una forma vincolata, non può risolversi in mere clausole di stile (quali "impugno e contesto" ovvero "contesto tutta la documentazione perché inammissibile ed irrilevante"), necessitando - a pena di inefficacia - di sufficienti specificità e determinatezza (in punto di esatta indicazione sia del documento che si intende contestare sia degli aspetti per i quali si assume che esso differisce dall'originale) [Sez. 3, n. 7775, Rv. 629905, est. Rossetti]. La relativa valutazione integra un giudizio di fatto riservato al giudice di merito e perciò - se congruamente e logicamente motivato - incensurabile in sede di legittimità [Sez. L, n. 18042, Rv. 631908, est. Berrino].

Dinanzi ad un disconoscimento dotato delle richieste caratteristiche, l'onere di produzione delle scritture di comparazione incombente sulla parte che insta per la verificazione non è assoluto, ma subordinato alla circostanza che le stesse esistano e siano in suo possesso; diversamente la comparazione può essere affidata a scritture provenienti da altre parti del processo, a condizione della certezza circa l'autenticità e la riferibilità al disconoscente [Sez. 3, n. 19279, Rv. 632020, est. Lanzillo]. Nondimeno, come ricordato da Sez. 2, n. 22078, Rv. 633000, est. Mazzacane, la produzione delle scritture di comparazione non può essere surrogata dalla loro allegazione ad una relazione tecnica di parte, attinente "all'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio, ossia ad una fase eventuale ed in ogni caso successiva alla proposizione dell'istanza di verificazione".

9.2. Copie fotografiche o fotostatiche.

Ricorrente è il tema del disconoscimento della conformità all'originale di copie fotografiche o fotostatiche. Può dirsi ricevuto - in quanto ribadito in due pronunce ravvicinate: Sez. 6-1, n. 13425, Rv. 631388, est. Ragonesi, e Sez. 6-3, n. 2374, Rv. 629752, est. Ambrosio - l'avviso secondo cui, dinanzi alla produzione di una copia di tal fatta, l'art. 2719 cod. civ., non solo esige un disconoscimento espresso, ma si applica tanto al disconoscimento della conformità della copia in sé all'originale quanto al disconoscimento dell'autenticità della scrittura o della sottoscrizione, dovendosi ritenere, in assenza di espresse indicazioni, che in entrambi i casi la procedura sia soggetta alla disciplina di cui agli artt. 214 e 215 cod. proc. civ. Per l'effetto la parte che voglia evitare che la copia fotostatica non autenticata si abbia per riconosciuta sotto il duplice profilo della sua conformità all'originale e dell'autenticità della scrittura o della sottoscrizione deve formalizzare il disconoscimento in modo specifico alla prima udienza ovvero nella prima risposta successiva alla produzione della copia stessa. Il disconoscimento, ritualmente effettuato, onera la controparte della produzione dell'originale, fatta salva la facoltà del giudice di accertare la conformità del documento anche aliunde. In difetto di produzione dell'originale, detta controparte è comunque abilitata a fornire la prova del suo contenuto con i mezzi ordinari, nei limiti però della loro ammissibilità [Sez. 6-2, n. 7267, Rv. 629895, est. Proto].

10. La querela di falso in generale.

La disciplina della querela di falso è sensibile alla dialettica che deve essere assicurata tra le parti a proposito della volontà, per quella che l'abbia prodotto, di utilizzare il documento oggetto di contestazione, adeguando le garanzie procedimentali, nella fase introduttiva, alle concrete necessità di rispetto del principio del contraddittorio. Si è soffermata sul punto Sez. 3, n. 196 Rv. 629744, est. Rossetti, secondo cui la conferma della querela di falso nella prima udienza ex art. 99 disp. att. cod. proc. civ. ha ragion d'essere solo nel caso di proposizione in via principale, non in quello di proposizione in via incidentale (dinanzi, ad esempio, al giudice di pace), con successiva riassunzione del giudizio di falso dinanzi al tribunale, ai sensi dell'art. 313 cod. proc. civ., atteso che, in tale evenienza, al querelante è già noto che l'altra parte intende avvalersi del documento contestato.

Passando dal segmento introduttivo a quello conclusivo del procedimento, Sez. 3, n. 891, Rv. 629442, est. Amendola, ha statuito che il passaggio in giudicato della sentenza condiziona solo l'attuazione delle pronunce accessorie ex art. 226, secondo comma, cod. proc. civ., non l'esecutività di ogni altro capo della decisione sul merito ovvero sulle spese.

10.1. Sindacato interno ed esterno sulle questioni di falsità dei documenti.

Ampio spazio occupa il tema dei rapporti tra la sede propria della trattazione della querela di falso e gli altri segmenti procedimentali, interni od esterni al giudizio in cui il documento denunciato di falso viene in linea di conto.

Sotto il primo profilo, Sez. 6-3, n. 14153, Rv. 631730, est. Frasca, ha ritenuto che la sentenza del tribunale, cui la corte d'appello, sul presupposto della rilevanza del documento contestato, ha rimesso la querela di falso proposta ex art. 355 cod. proc. civ., è impugnabile solo con l'appello ex art. 339 cod. proc. civ., in quanto resa all'esito di un giudizio a tutti gli effetti di primo grado, donde il ricorso per cassazione purtuttavia spiegato è inammissibile.

Sotto il secondo profilo, due sentenze ravvicinate della S.C. nella massima composizione si sono intrattenute sulla sindacabilità della decisione del giudice amministrativo in ordine a questioni di falsità dei documenti. In termini generali, Sez. U, n. 8056, Rv. 629836, est. Giusti, ha riconosciuto ampia autonomia di valutazione a detto giudice, affermando che la decisione del Consiglio di Stato di non concedere un termine per consentire la presentazione della querela di falso, avendo ritenuto, ai sensi dell'art. 77, comma 2, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, che la controversia potesse essere decisa a prescindere dal documento pretesamente falso, non integra un'ipotesi di rifiuto di giurisdizione, ma semmai un error in procedendo insindacabile sotto il profilo dell'eccesso di potere giurisdizionale. Parimenti, con riguardo al contenzioso elettorale, Sez. U, n. 8993, Rv. 630488, est. Rodorf, ha stabilito che la decisione del Consiglio di Stato di identificare la pronuncia definitiva sulla falsità documentale dell'autenticazione delle firme di accettazione della candidatura alla carica di consigliere regionale in quella del giudice penale a norma dell'art. 537, primo comma, cod. proc. pen., anziché in quella del giudice civile conclusiva del procedimento di querela di falso, sfugge al vizio di eccesso di potere giurisdizionale, atteso che in limine ricorrerebbe un errore sul modo di esercizio in concreto della giurisdizione, tuttavia esulante dagli artt. 362, primo comma, cod. proc. civ. e 111, ottavo comma, Cost.

10.2. Querela di falso ed abusivo riempimento di foglio firmato in bianco.

Rispetto ai casi in cui, avuto riguardo agli effetti da riconnettersi agli atti in attuazione della volontà delle parti, sorge la necessità di proporre querela di falso per contestarne la validità, Sez. 3, n. 5417, Rv. 630010, est. Vincenti, ha ribadito l'orientamento, consolidato ma non più recente, secondo cui, in relazione all'abusivo riempimento di foglio firmato in bianco, la proposizione della querela di falso è necessaria ogniqualvolta il riempimento sia avvenuto absque pactis, mentre non lo è ove esso sia avvenuto contra pacta.

10.3. Querela di falso e fattispecie processuali.

Ripetutamente la S.C. si è occupata di fattispecie rilevanti ai fini della regolarità del processo.

Con riguardo al procedimento notificatorio, Sez. 3, n. 2421, Rv. 630308, est. Vincenti, ha equiparato l'agente postale all'ufficiale giudiziario, facendone derivare che l'attività delegata al primo in forza dell'art. 1 della legge 20 novembre 1982, n. 890, gode della medesima fede privilegiata dell'attività direttamente svolta dal secondo, di cui condivide il contenuto, poiché soggetta, ai fini della validità della notifica, al rispetto delle prescrizioni sulle persone cui l'atto può essere notificato ed all'attestazione della dichiarazione resa dal ricevente circa le propria qualità. Ne consegue che, anche nel caso di notificazione eseguita dall'agente postale, la relata fa fede fino a querela di falso per le attestazioni che riguardano l'attività compiuta, compresa l'attestazione dell'identità del destinatario che ha rifiutato di ricevere il piego, trattandosi di circostanza percepita dal pubblico ufficiale durante l'identificazione del soggetto destinatario della notificazione. Tuttavia Sez. 6-1, n. 2035, Rv. 629799, est. Ragonesi, muovendo dalla differenza tra l'incaricato di un servizio di posta privata, che non riveste la qualifica di pubblico ufficiale, e l'agente del fornitore del servizio postale universale, che invece la riveste, ha negato che gli atti del primo godano, al pari di quelli del secondo, della presunzione di veridicità sino a querela di falso. Immediate le ricadute processuali, dacché, pur nei casi in cui la legge consente la notificazione direttamente a mezzo del servizio postale con spedizione dell'atto in piego raccomandato con avviso di ricevimento, l'attestazione della data di consegna del piego è inidonea a far decorrere il termine iniziale per proporre impugnazione (tanto che, nel caso oggetto della decisione, avendo la cancelleria eseguito la consegna dell'avviso di deposito dello stato passivo del fallimento avvalendosi di un servizio di poste private, l'opposizione è stata considerata tempestiva).

Sez. L, n. 20463, Rv. 632625, est. Tria, ha affrontato la peculiarità di una vicenda in cui, indicato nel processo verbale d'udienza un relatore, diverso è poi risultato l'estensore della motivazione, sostenendo che, qualora sia certa la reale composizione del collegio, per la coincidenza tra l'intestazione del processo verbale d'udienza ed il dispositivo letto nella medesima, si deve ritenere, fino a querela di falso, che la sentenza sia stata deliberata dagli stessi giudici presenti alla discussione. Invero - ricorrendo un vizio di costituzione del giudice solo quando gli atti sono compiuti da persona estranea all'ufficio, non investita della funzione esercitata, ma non quando il relatore, assolutamente impedito, è sostituito da colleghi di pari funzioni e competenza, poiché tale sostituzione, anche se disposta senza l'osservanza delle condizioni ex artt. 174 cod. proc. civ. e 79 disp. att. cod. proc. civ., non implica violazione del giudice naturale e non dà luogo a nullità, ma a mera irregolarità - la discrasia nell'indicazione dell'estensore rispetto al relatore resta confinata ad un vizio del procedimento organizzativo interno di sostituzione di quest'ultimo intervenuta dopo la lettura del dispositivo, laddove proprio il dispositivo assume autonoma rilevanza documentale limitatamente al contenuto volitivo della decisione non più modificabile dai suoi autori.

Sul presupposto dell'equiparabilità del lodo arbitrale alla sentenza, Sez. 1, n. 2807, Rv. 629636, est. Lamorgese, in conformità ad un remoto precedente [Sez. 1, n. 2222 del 1975, Rv. 376014], ha affermato che, se l'impugnazione per nullità deduce che il lodo arbitrale, il cui deposito si assume tardivo, è stato sottoscritto in data diversa da quella da esso risultante, si configura una questione di falso, in tanto ammissibile in quanto proposta con rituale querela secondo le forme dell'art 221 cod. proc. civ.

11. Prove documentali nuove in appello.

Assai dibattuta è l'interpretazione del concetto di "indispensabilità ai fini della decisione della causa" che, ai sensi dell'art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., nel testo introdotto dall'art. 52 della legge 26 novembre 1990, n. 353, consentiva, sino alla novella di cui all'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, la deduzione di prove ed in particolare la produzione di documenti per la prima volta in grado di appello. Invero, ad un primo orientamento, inteso ad affermare l'insuperabilità del "quadro delle risultanze istruttorie già acquisite", entro il quale le produzioni nuove in tanto possono essere ritenute indispensabili in quanto manifestino "un'influenza causale più incisiva rispetto a quella delle prove già rilevanti sulla decisione finale della controversia" [Sez. 1, n. 16745, Rv. 631949, est. Didone], se ne giustappone un altro, secondo cui l'indispensabilità non soffre il limite della "formazione delle preclusioni istruttorie di primo grado", dovendo "essere valutata in relazione allo sviluppo assunto dall'intero processo, comprensivo della sentenza di primo grado e di ciò che essa afferma a commento delle risultanze istruttorie" [Sez. 2, n. 3709, Rv. 629626, est. Matera]. Nella prospettiva della risoluzione di tale contrasto, Sez. 3, n. 24408, non massimata, est. Frasca, ha auspicato l'intervento delle Sezioni Unite (come già ricordato al par. 8.1.).

12. Prove documentali e diritto sostanziale.

La forma scritta - sostrato del documento classicamente inteso - è prevista per la validità oppure per la prova. Talvolta, come per la donazione, essa neppure basta, esigendo l'art. 48 della legge notarile, anche prima della modifica ex lege 28 novembre 2005, n. 246, l'assistenza di due testimoni, alla mancanza dei quali non può supplire neanche la prestazione del giuramento decisorio [Sez. 2, n. 14799, Rv. 631218, est. Parziale].

Di per sé la forma scritta ad substantiam preclude la prova per testimoni [come rammentato da Sez. 3, n. 2187, Rv. 630244, est. Cirillo, in tema di prelazione e di riscatto agrario, a proposito della denuntiatio ex artt. 8 della legge 26 maggio 1965 n. 590 e art. 7 della legge 14 agosto 1971 n. 817].

Tento presente che la conclusione dei contratti che la legge sottopone a forma scritta può intervenire anche in sede giudiziale, ancorché sia necessario, non solo che la produzione in giudizio del contratto avvenga su iniziativa del contraente che non l'ha sottoscritto, ma soprattutto che l'atto sia prodotto per invocare l'adempimento delle obbligazioni da esso scaturenti [Sez. 6-3, n. 12711, Rv. 631163, est. Amendola], il tema dei risvolti processuali della forma è stato affrontato all'opposto con riguardo al licenziamento, quale atto risolutivo del rapporto, per affermare che l'illeggibilità della sottoscrizione apposta in calce alla corrispondente comunicazione non ne integra una nullità (rilevabile d'ufficio), ma un vizio di carattere relativo (suscettibile di sanatoria in difetto di tempestiva deduzione), oltretutto solo ove siano dimostrate - con onere a carico della parte che le allega - la non autenticità della sottoscrizione o l'insussistenza in capo al sottoscrittore della qualità spesa [Sez. L, n. 6219, Rv. 630614, est. Ghinoy].

Sul terreno della forma scritta ad probationem, curiosa è la fattispecie oggetto di Sez. 2, n. 7505, Rv. 630107, est. Nuzzo, la quale ha deciso che la prova scritta della transazione, prevista dall'art. 1967 cod. civ., non può consistere nella trascrizione di colloqui telefonici, che non costituisce documento né riproduzione meccanica di un documento.

12.1. Casistica in tema di atti pubblici.

È stata riconosciuta efficacia fidefacente, quali veri e propri atti pubblici e non mere certificazioni amministrative, agli stati di avanzamento dei lavori, ai libretti della misurazione e più in generale alla contabilità relativa ai lavori dati in appalto dalla P.A., in quanto documenti formati da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni per costituire la prova di fatti giuridicamente rilevanti dai quali derivano obblighi a carico della P.A. [Sez. 3, n. 18316, Rv. 632099, est. D'Amico]. Nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa pecuniaria, premesso sul piano teorico che "il verbale di accertamento dell'infrazione fa piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale rogante come avvenuti in sua presenza e conosciuti senza alcun margine di apprezzamento o da lui compiuti, nonché alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti, mentre la fede privilegiata non si estende agli apprezzamenti ed alle valutazioni del verbalizzante né ai fatti di cui i pubblici ufficiali hanno avuto notizia da altre persone, ovvero ai fatti della cui verità si siano convinti in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche", si è riconosciuto sul piano pratico valore di "piena prova" al verbale ispettivo dell'INPS attestante il mancato rispetto dei minimi contributivi a seguito del riscontro, effettuato dagli accertatori, di libri paga e matricola, denunce contributive e pagamenti effettuati dall'impresa [Sez. L, n. 23800, Rv. 633239, est. Venuti]. Parimenti, in tema di accertamenti tributari, si è ritenuto che il processo verbale di constatazione, redatto dalla Guardia di finanza o dagli altri organi di controllo fiscale, sia assistito da fede privilegiata ex art. 2700 cod. civ. quanto ai fatti in esso descritti, per contestare i quali è dunque necessaria la proposizione della querela di falso [Sez. 6-5, n. 15191, Rv. 631468, est. Iacobellis]. Tuttavia, con precipuo riferimento ad INVIM ed imposta di registro, dall'affermazione del principio di uguaglianza dell'Amministrazione finanziaria e del contribuente dinanzi al giudice si è fatta discendere la conclusione secondo cui la relazione - definita "perizia" - di stima di un immobile, redatta dall'Ufficio tecnico erariale e dall'Amministrazione stessa prodotta in giudizio, ha valore di atto pubblico solo per quel che concerne la provenienza, ma non anche per quel che concerne il contenuto, rispetto al quale si atteggia a semplice consulenza di parte, sebbene il giudice possa comunque elevarla a fondamento della decisione, a condizione che in motivazione spieghi perché la ritiene corretta e convincente, concedendo il processo tributario maggiore spazio alle cosiddette prove atipiche rispetto al processo civile [Sez. 5, n. 14418, Rv. 631541, est. Chindemi].

12.2. Casistica in tema di scritture private autenticate.

La procura alle liti, quale atto che può intervenire prima o comunque al di fuori del processo, ammette che l'autenticità dell'autografia della sottoscrizione della parte sia certificata dal difensore attraverso l'esercizio di un potere pubblicistico in funzione di un'inequivocabile instaurazione della rappresentanza processuale. Donde la conseguenza - tratta da Sez. 6-3, n. 15170, Rv. 631574, est. Frasca - della fede privilegiata della sottoscrizione autenticata, la cui certificazione può essere impugnata solo con querela di falso (non potendosi ritenere sufficiente la mera produzione di un fax del difensore dell'appellato recante il disconoscimento della propria sottoscrizione apposta in calce all'atto ex art. 83 cod. proc. civ.). In diverso eppur contiguo ambito, si è deciso che, potendo la procura alle liti essere rilasciata anche con scrittura privata autenticata, è valida la procura alle liti del difensore di un Comune rilasciata dal sindaco e autenticata dal relativo segretario comunale, giacché l'art. 97, quarto comma, lettera c, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, in tema di funzioni dei segretari comunali e provinciali, prevede che il segretario può rogare tutti i contratti nei quali l'ente è parte ed autenticare scritture private e atti unilaterali nell'interesse dell'ente [Sez. 3, n. 986, Rv. 629821, est. Scrima].

In tema di notificazione, non sussiste alcuna nullità della notificazione della sentenza affetta da irregolarità dovute al cancelliere nel rilascio della copia, non solo perché le relative ipotesi sono tassative, ma anche perché la notificazione della sentenza fatta in copia non autenticata è comunque idonea a far decorrere il termine breve dell'impugnazione [Sez. L, n. 10224, Rv. 630800, est. Amendola]. A proposito di tale termine, una spiegazione della regola per la quale, qualora una delle parti abbia notificato all'altra la sentenza, esso decorre per la stessa parte notificante dalla data di consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, e non da quella eventualmente successiva di perfezionamento della notifica, è stata rinvenuta in ciò che la consegna dell'atto rende certa l'anteriorità della conoscenza della sentenza per l'impugnante, in applicazione analogica del principio dettato dall'art. 2704, primo comma, ultimo periodo, cod. civ. [Sez. 3, n. 883, Rv. 629776, est. Rossetti].

13. La confessione giudiziale in generale.

Sez. 3, n. 6192, Rv. 630500, est. Stalla, nel ribadire l'attitudine delle dichiarazioni contenute negli atti processuali ad assumere il carattere della confessione giudiziale spontanea, alla stregua di quanto previsto dall'art. 229 cod. proc. civ., purché sottoscritte dalla parte personalmente con modalità tali da rivelare in modo inequivoco la consapevolezza delle specifiche ammissioni dei fatti sfavorevoli, ha negato siffatta attitudine alla sottoscrizione della procura apposta a margine o in calce all'atto recante la dichiarazione, giacché la procura è distinta dal contenuto espositivo dell'atto cui accede, anche se la dichiarazione contra se può sempre fornire elementi indiziari di giudizio. Peraltro, la confessione giudiziale resa da chi non è litisconsorte necessario, come, nel giudizio promosso dalla vittima di un sinistro stradale contro l'assicuratore del responsabile, quella resa dal conducente non proprietario del veicolo, vincola il solo confitente, di modo che correttamente il giudice può accogliere la domanda nei suoi confronti e rigettarla nei confronti dell'assicuratore [Sez. 6-3, n. 3875, Rv. 630217, est. Barreca].

13.1. Confessione giudiziale ed interrogatorio formale.

La collocazione nel Codice Civile sotto un unico paragrafo della confessione giudiziale e dell'interrogatorio formale non ha impedito a Sez. 6-3, n. 19833, Rv. 632431, est. Amendola - la quale si pone nell'alveo di un insegnamento costante, riaffermato anche da Sez. 1, n. 17719, Rv. 632150, est. Ragonesi - di ricordare che l'art. 232 cod. proc. civ. non riconnette alla mancata risposta all'interrogatorio formale l'effetto automatico di ficta confessio di cui all'art. 218 del precedente codice di rito, di guisa che, discendendo da tale comportamento della parte solo una presunzione semplice abilitante il giudice, "valutato ogni altro elemento di prova", a desumere elementi indiziari a favore della tesi avversa, la sentenza in cui egli ometta di prendere in considerazione la mancata risposta all'interrogatorio formale non è carente di motivazione, atteso che l'esercizio della facoltà di compiere tale valutazione, rientrando nel suo potere discrezionale, è sottratto a censure in sede di legittimità.

14. La confessione nel diritto sostanziale.

Sez. 1, n. 7998, Rv. 631074, est. Lamorgese, pur ribadito che la confessione non si applica in materia di diritti indisponibili, tuttavia, con riferimento all'addebitabilità nel giudizio di separazione personale dei coniugi, ha accordato valenza presuntiva - con conseguente utilizzabilità in uno ad altri elementi probatori - alle ammissioni di una delle parti esprimenti fatti obiettivi e perciò suscettibili di essere intesi come indicativi della violazione di specifici doveri coniugali.

Ciò detto, l'ambito tipico di operatività della confessione [che, laddove promani dal legale rappresentante di un ente, per esempio in sede di verifica nel procedimento tributario, ridonda a sfavore dell'ente stesso: cfr. Sez. 6-5, n. 22616, Rv. 632911, est. Perrino] è rappresentato dai diritti di obbligazione. Pur in seno ad esso, nondimeno, Sez. 3, n. 20178, Rv. 632017, est. Cirillo, ha stabilito che la dichiarazione con cui il cliente, su modulo predisposto dalla banca e da lui sottoscritto, si riconosce consapevole della natura di "operazione non adeguata", rispetto al suo profilo di investitore, dell'investimento effettuato dalla banca è inidonea ad integrare una confessione ed è altresì insufficiente a far ritenere dimostrato, da parte dell'intermediario, l'adempimento degli obblighi informativi su di lui incombenti. Al contrario, la quietanza, in quanto ammissione del ricevuto pagamento, costituisce confessione stragiudiziale dotata di piena efficacia probatoria ex artt. 2733 e 2735 cod. civ., sicché può essere impugnata solo provando, a norma dell'art. 2732 cod. civ., l'errore di fatto o la violenza, restando escluso che sia sufficiente la prova della non veridicità della dichiarazione [Sez. 2, n. 4196, Rv. 629738, est. Falaschi].

15. Il giuramento decisorio.

Sez. 1, n. 9831, Rv. 631124, est. Mercolino, si è occupata della formula in sé del giuramento decisorio, affermando che - a motivo delle finalità dello speciale mezzo di prova di cui si tratta - essa deve essere tale da definire la lite, di modo che, prestato il giuramento stesso, al giudice non resti altro che verificare l'an iuratum sit, onde accogliere o respingere la domanda sul punto che ne ha formato oggetto. Peraltro la valutazione circa siffatta decisiorietà della formula spetta al giudice del merito, il cui giudizio è sindacabile in sede di legittimità solo in relazione a vizi logici o giuridici attinenti all'apprezzamento espresso.

16. La prova testimoniale in generale.

La trattazione delle questioni rilevanti in tema di prova testimoniale si apre con un'affermazione di principio - dovuta a Sez. 3, Sentenza n. 21395, Rv. 632727, est. Scarano - secondo cui le nullità ex art. 244 cod. proc. civ., tutelando l'interesse delle parti al corretto svolgimento del processo e non l'ordine pubblico processuale, non possono essere rilevate d'ufficio né possono essere dedotte nei successivi gradi di giudizio dalla parte che, anche implicitamente, abbia fatto acquiescenza all'assunzione del mezzo istruttorio. Sulla medesima china, Sez. L, n. 18036, Rv. 632027, est. Amendola, non solo ha riaffermato il principio secondo cui l'eccezione di nullità della testimonianza per incapacità a deporre deve essere sollevata subito dopo l'escussione del teste o, in caso di assenza del procuratore della parte all'incombente, entro la successiva udienza, restando altrimenti sanata, ma ha anche puntualizzato che la preventiva formulazione di un'eccezione di incapacità a testimoniare ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ. è irrilevante, non includendo l'eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione.

L'argomento dell'incapacità a deporre offre l'occasione per ricordare che - secondo Sez. 1, n. 8462, Rv. 630885, est. Didone, la quale ha ripetuto una regola enunciata da un lontano precedente [Sez. 1, n. 2641 del 1993, Rv. 481235] - essa non si configura in capo ai dipendenti di una banca sol perché questa, evocata in giudizio da un cliente, potrebbe convenirli in garanzia nello stesso giudizio quali responsabili dell'operazione contestata: invero le due cause, quand'anche proposte simultaneamente, si fondano su rapporti diversi e l'interesse dei dipendenti ad una determinata soluzione di quella principale, il cui esito è di per sé inidoneo a pregiudicarli, appare meramente indiretto, tanto che non li legittima a parteciparvi.

16.1. L'ammissione della prova testimoniale.

Quanto al profilo dell'ammissione - fermo l'insegnamento secondo cui la relativa statuizione, sebbene contenuta in una sentenza non definitiva, è priva di efficacia decisoria e pertanto non può essere oggetto di impugnazione [Sez. 2, n. 6426, Rv. 629719, est. D'Ascola] - merita di essere segnalata Sez. 3, n. 5950, Rv. 630553, est. Rossetti, in quanto, nel rito del lavoro, ponendosi in contrasto rispetto a Sez. L, n. 17649 del 2010, Rv. 614326, ed a Sez. L, n. 1130 del 2005, Rv. 579279, ha statuito che la parte, quantunque abbia, con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale mediante indicazione specifica dei fatti in articoli separati, se ha omesso l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, incorre nella decadenza dell'istanza istruttoria, restando preclusa al giudice la concessione di un termine ex art. 421 cod. proc. civ. per la sanatoria. È auspicabile pertanto che il contrasto venga risolto se del caso attraverso l'intervento monofilattico delle Sezioni Unite.

Sempre in ambito lavoristico, simmetricamente, rispetto alla revoca dell'ordinanza di decadenza dell'escussione dei testi per la mancata sua comparizione all'udienza fissata ovvero per la mancata loro citazione in vista di essa, è stato sostenuto che il potere discrezionale di valutare la sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 208, secondo comma, cod. proc. civ. e 104, secondo comma, disp. att. cod. proc. civ. spetta esclusivamente al giudice del merito, non competendo alla Corte di legittimità alcun sindacato circa il suo esercizio in modo opportuno e conveniente [così Sez. L, n. 18478, Rv. 632368, est. Manna, in un caso in cui era stato escluso che il decesso di quello, tra i due difensori costituiti, operante nella sede ove si era svolto il giudizio giustificasse la mancata citazione dei testi e l'omessa comparizione all'udienza chiamata per l'istruttoria].

16.2. Nuova audizione di un teste.

A metà strada tra i temi dell'ammissione e dell'esperimento del mezzo di prova, Sez. 3, n. 8277, Rv. 630668, est. Amatucci, a proposito della nuova audizione di un teste già escusso, ancorché a seguito di spontanea presentazione, ha detto che essa comporta implicitamente una contestuale rinnovazione dell'esame, per procedere alla quale non è necessario che il giudice dia atto, con formale provvedimento, dell'esigenza di chiarificazione che rende necessario procedere per la seconda volta all'incombente.

17. I divieti della prova testimoniale secondo il diritto sostanziale.

La S.C. si è particolarmente affaticata sul divieto, stabilito dall'art. 2722 cod. civ., della prova per testi di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, la perdita del quale - legittimante un'eccezione al divieto stesso ai sensi degli artt. 2724, numero 3, e 2725 cod. civ. - non può ritenersi incolpevole sol perché affidato a terzi, dovendo risultare, in ragione dello sfavore legislativo per la testimonianza su particolari contratti, che il comportamento dell'affidante sia stato adeguato e che l'affidatario sia esente da colpa [Sez. 2, n. 1944, Rv. 629537, est. Parziale].

Al fine di delineare l'ambito di applicabilità dell'art. 2722 cod. civ., occorre risalire all'esatta interpretazione della volontà iniziale delle parti. Così, rispetto al mandato gratuito, fermo che la presunzione di onerosità posta dall'art. 1709 cod. civ., in quanto iuris tantum, può essere vinta dalla prova contraria, desumibile anche dalle circostanze del rapporto, come la qualità del mandatario, le sue relazioni con il mandante ed il contegno di entrambi prima e dopo lo svolgimento delle prestazioni [Sez. 2, n. 14682, Rv. 631208, est. Matera], Sez. 3, n. 15485, Rv. 631713, est. Stalla, ha ammonito che l'art. 2722 cod. civ. e quindi anche l'art. 2729 cod. civ. non si applicano allorché la volontà negoziale circa la gratuità consti espressa sin dall'inizio del rapporto contrattuale, giacché, in tal caso, viene piuttosto in rilievo una questione di interpretazione delle pattuizioni reciproche.

Anche i limiti alla prova testimoniale sono sindacabili in appello, in seno al quale l'art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. non osta all'ammissione di prove testimoniali ritenute inammissibili in primo grado laddove il giudice del gravame, investito del riesame sul punto per violazione della legge sostanziale o processuale, lo ritenga positivamente superato [Sez. 3, n. 17970, Rv. 632007, est. Vincenti].

17.1. Negozio fiduciario e simulazione.

L'ambito in cui maggiormente vengono in linea di conto i limiti alla prova per testi è quello del negozio fiduciario, categoria nella quale deve essere sussunto anche l'accordo tra due soggetti per creare una società di capitali con intestazione ad uno di essi della partecipazione dell'altro [Sez. 6-1, n. 12138, Rv. 631354, est. Cristiano]. Facendosi il punto della situazione, si è detto che il pactum fiduciae, con cui il fiduciario si obbliga a modificare la sua situazione giuridica a favore del fiduciante o di altri da questi designato, se riguarda immobili, richiede la forma scritta ad substantiam e la prova per testimoni è sottratta alle preclusioni codicistiche - sempre che non comporti il trasferimento, sia pure indiretto, degli immobili stessi - solo ove esso sia volto a creare obblighi connessi e collaterali al regolamento contrattuale, realizzando uno scopo ulteriore rispetto alla causa di quest'ultimo, senza direttamente contraddirne il contenuto. Diversamente la mera qualificazione di un accordo come fiduciario non è sufficiente ad impedire l'applicabilità dell'art. 2722 cod. civ. [Sez. 1, n. 11757, Rv. 631477, est. Bisogni].

Sul terreno confinante della simulazione, si è aggiunto che, essendo i limiti previsti dall'art. 1417 cod. civ. (e, più in generale, dagli artt. 2721 e 2722 cod. civ.) diretti alla tutela esclusiva degli interessi privati, l'inammissibilità della prova per presunzioni esige un'eccezione della parte, che, se non anteriormente proponibile, deve comunque essere sollevata con l'atto di impugnazione [Sez. 6-2, n. 16377, Rv. 632404, est. Proto].

17.2. Pagamento e remissione del debito.

Di gran lunga più articolata è la giurisprudenza in materia di pagamento e remissione del debito, cui, stante l'art. 2726 cod. civ., si applicano le norme stabilite per la prova testimoniale dei contratti.

Pare infatti di potersi rinvenire un primo orientamento inteso ad interpretare restrittivamente il divieto di prova per testi di patti aggiunti o contrari al contenuto di un'attestazione di pagamento. Così si è affermato che esso è limitato ai fatti volti a negare, in tutto o in parte, l'estinzione del debito, senza estendersi a quelli volti a dimostrare che il pagamento è stato compiuto da un terzo, anziché dal debitore indicato nel documento, trattandosi di circostanza esterna al rapporto contrattuale [Sez. 2, n. 20257, Rv. 632396, est. D'Ascola]. Nondimeno, anche rispetto ai rapporti interni, si è sostenuto apertis verbis che il divieto in parola si riferisce al documento contrattuale, in quanto promanante da entrambe le parti e racchiudente una convenzione, mentre non opera con riguardo ad una quietanza, che è atto contenente una dichiarazione unilaterale [Sez. 3, n. 5417, Rv. 630011, est. Vincenti], oppure si è ritenuto, a proposito di un contratto bancario regolato in conto corrente, di valorizzarne le poste, anziché quali autonomi negozi giuridici o pagamenti, quali "atti di utilizzazione" di un "unico contratto ad esecuzione ripetuta", sì da farne discendere che "i relativi documenti non costituiscono prova di debito o di credito, ma solo della correttezza della posta contabile", di cui può essere dimostrata l'erroneità senza i limiti previsti dagli artt. 2725, 2726, 2729, secondo comma, e 2732 cod. civ. [Sez. 1, n. 17732, Rv. 632650, est. Nazzicone]. Similmente, rispetto ai libretti di deposito a risparmio, si è detto che la particolare efficacia di piena prova di cui all'art. 1835, secondo comma, cod. civ. si riferisce alle annotazioni che effettivamente vi figurano apposte, senza che da ciò derivi una presunzione legale assoluta di compimento delle sole operazioni annotate, talché è sempre ammessa la dimostrazione che un'operazione, benché non annotata, sia comunque stata eseguita [Sez. 3, n. 13643, Rv. 631180, est. Scarano].

All'accennato orientamento si contrappone, però, quello fatto proprio da Sez. U, n. 19888, Rv. 631923, est. Giusti, la quale, nel distinguere tra una quietanza "tipica", siccome indirizzata al solvens, ed una quietanza "atipica", quale quella contenuta nella dichiarazione di vendita di autoveicolo ex art. 13 del r.d. 29 luglio 1927, n. 1814, siccome indirizzata al conservatore del pubblico registro automobilistico affinché non iscriva il privilegio legale per il prezzo, categoricamente statuisce che la prima "fa piena prova dell'avvenuto pagamento, sicché il quietanzante non è ammesso alla prova contraria per testi, salvo dimostri, in applicazione analogica dell'art. 2732 cod. civ., che il rilascio della quietanza è avvenuto per errore di fatto o per violenza", mentre la seconda, al pari della confessione stragiudiziale fatta ad un terzo, è liberamente apprezzata dal giudice, sfuggendo ai limiti di "revoca" della confessione sanciti dal citato articolo.

  • azione dinanzi a giurisdizione civile

CAPITOLO XXVIII

LE IMPUGNAZIONI

(di Salvatore Saija )

Sommario

1 Appello. Le novità normative. Prime applicazioni. - 2 (segue) Procedimento. - 3 Cassazione. Le novità normative. Prime applicazioni. - 4 (segue) In generale. - 5 Revocazione.

1. Appello. Le novità normative. Prime applicazioni.

Com'è noto, l'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, ha apportato significative modificazioni, tra l'altro, al procedimento in grado d'appello, ancor più enfatizzandone il carattere di impugnazione vincolata avente natura di revisio prioris istantiae, e al dichiarato scopo di offrire una soluzione per lo smaltimento dell'arretrato che affligge le corti d'appello. In particolare, l'intervento normativo ha riguardato la riformulazione degli artt. 342, primo comma, e 345, terzo comma, cod. proc. civ. e l'introduzione degli artt. 348 bis e 348 ter cod. proc. civ., disposizioni tutte applicabili ai giudizi di secondo grado introdotti dal giorno 11 settembre 2012.

La prima norma citata, che sanciva espressamente l'onere di specificazione dei motivi su cui il gravame si fonda, è stata riformulata nei termini che seguono: "L'appello si propone con citazione contenente le indicazioni prescritte dall'articolo 163. L'appello deve essere motivato. La motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità:

1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;

2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata".

La norma, quindi, sembra introdurre una particolare connotazione dell'onere di specificazione dei motivi d'appello (onere motivazionale tutt'ora affermato, seppur genericamente, attraverso l'indicazione delle parti della sentenza che si intendono censurare), delle modifiche attinenti alla ricostruzione in fatto operata dal primo giudice, e infine delle circostanze da cui deriva la violazione di legge, anche in ordine ai riflessi sulla decisione impugnata.

A segnare la distanza, poi, dall'appello come "novum iudicium", è stato soppresso dall'art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. l'inciso che attribuiva alle parti la possibilità di produrre nuovi documenti, ove ritenuti indispensabili dal giudice del gravame: a contrario, deve quindi ritenersi che non possano ora essere acquisiti nel secondo grado del giudizio documenti che la parte avrebbe ben potuto produrre nel precedente grado, salva la dimostrazione di non aver potuto farlo per causa ad essa non imputabile.

Ma il dato più caratterizzante della riforma del 2012, indubbiamente, consiste nella previsione operata dagli artt. 348 bis e 348 ter cod. proc. civ., che istituiscono il cd. filtro in appello. È infatti previsto che - ad eccezione dei casi in cui l'inammissibilità o l'improcedibilità debba essere pronunciata con sentenza, ovvero in cui sia prevista la partecipazione obbligatoria del pubblico ministero ai sensi dell'art. 70 cod. proc. civ., o ancora si tratti di gravame proposto a norma dell'art. 702 quater cod. proc. civ. - "l'impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta". Detta pronuncia - ai sensi dell'art. 348 ter, primo comma - dev'essere adottata all'udienza di trattazione e prima di procedervi, dopo aver sentito le parti, "con ordinanza succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi. Il giudice provvede sulle spese a norma dell'articolo 91". L'ordinanza d'inammissibilità può essere pronunciata - prosegue il secondo comma - solo quando sia per l'appello principale che per quello incidentale sussistano i presupposti di cui all'art. 348 bis, primo comma, ossia quando per entrambi possa prognosticarsi una ragionevole improbabilità di accoglimento. In caso contrario, deve procedersi alla trattazione di tutte le proposte impugnazioni nelle forme ordinarie.

Infine, per quel che qui interessa, il terzo comma della citata disposizione stabilisce che, quando è pronunciata l'inammissibilità ai sensi del primo comma, il provvedimento di primo grado può essere impugnato per cassazione, decorrendo in tal caso il termine per la proposizione del ricorso dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, dell'ordinanza che detta inammissibilità ha pronunciato.

Detta ultima statuizione, quindi, esclude l'impugnabilità diretta dell'ordinanza con la quale il giudice d'appello abbia ritenuto che il gravame abbia probabile esito infausto, dichiarandone l'inammissibilità.

Nel corso del 2014 la Corte s'è pronunciata con diversi provvedimenti riguardo alla riforma testè delineata per sommi capi; all'esito delle prime pronunce, s'è peraltro delineato un contrasto, allo stato non risolto, in punto di ricorribilità per cassazione avverso l'ordinanza ex art. 348 ter cod. proc. civ..

Infatti, Sez. 6-2, n. 7273, Rv. 630754, est. Giusti, ne ha negato la ricorribilità per cassazione in quanto priva del carattere di definitività, purchè l'ordinanza stessa sia stata emanata per manifesta infondatezza nel merito del gravame, e ciò in quanto il terzo comma del medesimo art. 348 ter sancisce l'impugnabilità diretta del provvedimento di primo grado. Tuttavia, si è precisato, tale ordinanza è ricorribile per cassazione ove l'appello sia stato dichiarato inammissibile per ragioni processuali (nella specie, per genericità dei motivi), in quanto essa ha, in tal caso, carattere definitivo e valore di sentenza. Infatti, la declaratoria di inammissibilità dell'appello per questioni di rito deve essere pronunciata con sentenza ai sensi dell'art. 348 bis cod. proc. civ., e non può essere ovviamente impugnata col provvedimento di primo grado.

Al contrario, Sez. 6-3, n. 8940, Rv. 630776, est. Frasca, ha affermato che il ricorso per cassazione, sia ordinario che straordinario, non può mai essere esperito avverso l'ordinanza che dichiari l'inammissibilità dell'appello ex art. 348 bis cod. proc. civ., a prescindere dalla circostanza che essa sia stata emessa nei casi in cui ne è consentita o meno l'adozione. Secondo detta pronuncia, osta alla proponibilità, infatti, quanto al ricorso ordinario, la lettera dell'art. 348 ter, terzo comma, cod. proc. civ. (che prevede l'impugnabilità della sola sentenza di primo grado), mentre, quanto al ricorso straordinario, il carattere non definitivo dell'ordinanza, "da valutarsi con esclusivo riferimento alla situazione sostanziale dedotta in giudizio, della quale si chiede tutela, e non anche a situazioni aventi mero rilievo processuale, quali il diritto a che l'appello sia deciso con ordinanza soltanto nei casi consentiti, nonché al rispetto delle regole processuali fissate dall'art. 348 ter c.p.c.".

Più recentemente, Sez. 6-2, n. 19944, Rv. 632182, est. Giusti, in fattispecie in cui l'ordinanza ex art. 348 bis cod. proc. civ. era stata emessa nell'ambito suo proprio (ossia, per ragionevole improbabilità che il proposto appello venisse accolto), con conseguente irrilevanza nella specie della ragione del contrasto sopra delineato, ha ribadito l'inammissibilità del ricorso per cassazione avverso detta ordinanza, stante il difetto di sua definitività.

Ancor più di recente, Sez. 6-3, n. 26097, (in corso di massimazione), est. De Stefano, dopo articolata disamina delle ragioni di fondo che hanno guidato la riforma del 2012, ha ribadito la non ricorribilità per cassazione - tout court - dell'ordinanza di inammissibilità adottata dal giudice d'appello nel solco della già citata Sez. 6-3, n. 8940, ritenendo manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale dell'art. 348 ter, primo e quarto comma, cod. proc. civ., in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, sesto e settimo comma, Cost., "nella parte in cui consentono, rispettivamente, che sia succintamente motivata l'ordinanza che dichiara l'inammissibilità dell'appello ai sensi dell'art. 348-bis cod. proc. civ., ovvero che sia esclusa la ricorribilità in cassazione ai sensi del nuovo n. 5 dell'art. 360 cod. proc. civ., quando l'inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata:

- in primo luogo e quanto ad entrambe le questioni, perché un secondo grado di giudizio di merito non è oggetto di garanzia costituzionale davanti al giudice ordinario;

- in secondo luogo ed almeno quanto alla prima delle due questioni, perché, dinanzi alle crescenti criticità da cui è affetto il secondo grado di giudizio, è coerente con un tentativo di recupero di funzionalità del sistema la semplificazione del relativo processo e il mantenimento di un livello di garanzia - mediante il ricorso per cassazione diretto contro la sola pronuncia di primo grado - ancorato alla limitazione delle caratteristiche estrinseche della motivazione del provvedimento conclusivo di quel grado, non in grado di impedire, sia pure a prezzo di un modesto maggior impegno dell'interessato, l'esercizio del diritto di difesa".

2. (segue) Procedimento.

Sul piano generale, in tema di decorrenza del termine di cui all'art. 325 cod. proc. civ. per la proposizione dell'appello, Sez. 6-1, n. 18493, Rv. 632078, est. Scaldaferri, ha confermato l'orientamento secondo cui la notificazione della sentenza, anche se provvisoriamente esecutiva, effettuata alla parte presso il procuratore costituito, è equivalente alla notificazione al procuratore stesso.

Sez. 1, n. 3541, Rv. 630037, est. San Giorgio, ha del pari confermato datato orientamento secondo cui la proposizione dell'impugnazione tardiva ai sensi dell'art. 327, secondo comma, cod. proc. civ. è idonea a far venir meno il giudicato già formatosi qualora il giudice del gravame si pronunci sull'ammissibilità, positivamente affermandola. Ne consegue che, qualora il giudizio di impugnazione si estingua prima che tale pronuncia sia stata espressamente adottata, il momento in cui si forma il giudicato deve individuarsi in quello in cui sono scaduti i termini per l'impugnazione.

È stato poi ribadito da Sez. 5, n. 1553, Rv. 629450, est. Terrusi, il consolidato orientamento secondo cui l'acquiescenza preclusiva all'impugnazione - anche nel processo tributario - non può che essere successiva alla sentenza, sicché la dichiarazione della parte di "rimettersi" alla valutazione dell'adito giudice circa un'avversa domanda può solo significare che la parte si attende dal giudice stesso una pronuncia secondo giustizia, senza alcuna preventiva accettazione, né impedimento all'impugnazione.

Sempre sul tema, Sez. L, n. 14368, Rv. 631641, est. Nobile, ha ribadito che il pagamento, anche senza riserve, delle spese processuali liquidate nella sentenza d'appello, o comunque esecutiva, non implica acquiescenza, quand'anche esso sia antecedente all'intimazione del precetto.

Inoltre, Sez. 5, n. 19754, Rv. 632336, est. Marulli, ha confermato l'orientamento secondo cui l'appello incidentale, ai sensi dell'art. 343, primo comma, cod. proc. civ. si propone con il deposito della comparsa in cancelleria nei termini di cui all'art. 166 cod. proc. civ., senza che occorra notificarlo né all'appellante principale o ad altra parte già costituita, dovendosi invece provvedere alla notifica nei confronti della sola parte contumace non presente nel giudizio di secondo grado.

Del pari Sez. L, n. 14609, Rv. 631635, est. Napoletano, ha ribadito che l'impugnazione incidentale tardiva, ai sensi del combinato disposto degli artt. 334, 343 e 371 cod. proc. civ., può proporsi (con l'atto di costituzione dell'appellato o con il controricorso nel giudizio di cassazione) anche quando sia scaduto il termine per l'impugnazione principale e persino se la parte abbia già prestato acquiescenza alla sentenza, anche a prescindere dalla circostanza che si tratti di un capo autonomo della decisione e che quindi l'interesse all'impugnazione fosse preesistente, e ciò in quanto dette disposizioni prevedono, quale unica conseguenza sfavorevole derivante dalla tardività, il fatto che l'impugnazione così proposta perde efficacia se quella principale sia dichiarata inammissibile.

Sempre relativamente all'appello incidentale, Sez. 3, n. 7519, Rv. 630748, est. Rossetti, ha affermato che la parte alla quale sia stato notificato l'appello principale, se intende a sua volta appellare tempestivamente la sentenza, deve comunque osservare i termini di cui agli artt. 325 e 327 cod. proc. civ.; ne consegue che ove essa - ricevuta la notifica dell'appello principale in prossimità della scadenza dei detti termini - voglia evitare il rischio di incorrere nell'eventuale sanzione di inefficacia di cui all'art. 334, secondo comma, cod. proc. civ. (per il caso in cui l'appellante principale dia luogo ad una causa di inammissibilità o improcedibilità della propria impugnazione), può alternativamente procedere all'iscrizione a ruolo della causa, mediante deposito della propria comparsa di risposta con appello incidentale entro la scadenza di cui all'art. 325 cod. proc. civ., oppure proporre la sua impugnazione con citazione notificata entro lo stesso termine.

Riguardo alla notifica dell'appello, Sez. 1, n. 12539, Rv. 631631, est. Giancola, ha affermato che qualora essa non sia andata a buon fine a causa del trasferimento dello studio del procuratore domiciliatario, e detto trasferimento risulti dai timbri apposti sugli atti difensivi, sebbene non formalmente comunicato, la notifica stessa è nulla e non inesistente, sicchè la rinnovazione nel termine concesso ex art. 291 cod. proc. civ. comporta la sanatoria "ex tunc" della prima e tempestiva notificazione.

Sempre sul tema, con specifico riferimento al processo tributario, Sez. 6-T, n. 27021, in corso di massimazione, est. Conti, ha confermato l'orientamento secondo cui la notifica dell'appello effettuata con le forme della spedizione in plico raccomandato affidato a soggetto diverso dal fornitore universale Ente Poste è inesistente, con la conseguenza che la costituzione dell'appellato non è idonea a sanarne il vizio per raggiungimento dello scopo.

La Corte, poi, con Sez. 3, n. 11525, Rv. 631026, est. Rubino, nel solco di consolidato orientamento, ha ribadito che la legittimazione all'appello spetta esclusivamente a chi abbia assunto la qualità di parte nel giudizio di primo grado, in quanto destinatario della domanda attorea. Da ciò consegue che il soggetto rimasto estraneo alla lite (nella specie, l'Azienda unità sanitaria locale), e non già la Gestione stralcio della soppressa USL, evocata in giudizio, per far rilevare il proprio difetto di legittimazione passiva, non ha l'onere di proporre tempestivo appello, ciò rendendosi necessario al solo fine di evitare il passaggio in giudicato della sentenza nei confronti delle sole parti del giudizio.

Nello stesso senso, Sez. 6-5, n. 25275, in corso di massimazione, est. Perrino, dopo aver ribadito che la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l'estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio, ha affermato che è inammissibile (e non nullo) l'atto d'appello proposto dalla società stessa avverso sentenza resa nei suoi confronti, qualora l'estinzione si sia verificata in epoca antecedente alla proposizione del gravame. Infatti, poichè in tal caso l'impugnazione dev'essere proposta dai soci che alla detta società sono succeduti, ai sensi dell'art. 111 cod. proc. civ., l'appello come sopra proposto determina invece non già incertezza sull'identità della parte, ma la stessa impossibilità che l'appellante assuma la veste di parte nel giudizio, come tale strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo.

Sotto altro ma speculare profilo, Sez. 5, n. 26495, in corso di massimazione, est. Vella, nel solco di Sez. U, n. 15295, Rv. 631466 e 631467, est. Spirito, in applicazione del principio di ultrattività del mandato, ha ritenuto validamente proposta l'impugnazione notificata al procuratore della società estinta (ove l'evento non sia stato da questi dichiarato, ai sensi dell'art. 299 cod. proc. civ.), dichiarandone quindi l'ammissibilità.

Con riferimento all'interesse a impugnare, Sez. 3, n. 9980, Rv. 630637, est. Barreca, ne ha negato la sussistenza in capo al convenuto - in quanto non soccombente - che non si sia opposto alla pretesa dell'attore e che anzi abbia aderito alle sue ragioni rispetto alla domanda riconvenzionale proposta nei suoi confronti da altro convenuto, sicchè, in caso di impugnazione da parte dello stesso attore, egli non può a sua volta presentare autonoma impugnazione (che, se proposta, va dichiarata inammissibile), salvo che egli stesso abbia proposto in primo grado nuova domanda, ovvero abbia teso ad ampliare il tema del contendere.

Sullo stesso argomento, Sez. 6-3, n. 25712, in corso di massimazione, est. Barreca, ha recentemente precisato che l'interesse all'impugnazione, quale manifestazione del più generale principio dell'interesse ad agire, dev'essere valutato in relazione all'utilità concreta direttamente conseguibile dalla parte nel caso di accoglimento del gravame, e non può consistere in un interesse di fatto alla ipotizzata riforma del capo sulle spese che deriverebbe dallo stesso accoglimento, a meno che tale interesse non si sia tradotto in uno specifico motivo di impugnazione del capo contenente la condanna alle spese, ovvero non sia stato posto a fondamento dell'impugnazione avanzata per altri motivi.

Relativamente all'impugnabilità della sentenza di primo grado, Sez. 1, n. 17908, Rv. 632217, est. Didone, ha dato continuità all'indirizzo espresso da Sez. U, n. 24153 del 2013, Rv. 627786, dichiarando l'inammissibilità dell'appello avverso la sentenza declinatoria della competenza in favore degli arbitri rituali, avendo l'attività di questi natura giurisdizionale e sostitutiva della competenza del giudice ordinario, con la conseguenza che la relativa questione può essere fatta valere solo con regolamento di competenza.

Sempre riguardo all'impugnabilità, Sez. 6-3. n. 14153, Rv. 631730, est. Frasca, ha stabilito che la sentenza del tribunale che - a seguito di ordinanza di rimessione ex art. 355 cod. proc. civ. da parte della corte d'appello - pronunci sulla querela di falso dinanzi a quest'ultima proposta, è impugnabile a sua volta con autonomo atto d'appello (trattandosi a tutti gli effetti di provvedimento che definisce un giudizio di primo grado) e non già con ricorso per cassazione che, se proposto, va dichiarato inammissibile.

In tema di risarcimento danni da circolazione stradale Sez. 3, n. 12900, Rv. 631583, est. D'Amico, ha affermato che la relativa domanda proposta dinanzi al giudice di pace senza determinazione del "quantum" deve presumersi - in difetto di tempestiva contestazione - di competenza dell'adito giudice ai sensi dell'art. 14 cod. proc. civ., e quindi pari all'importo massimo previsto dall'art. 7, secondo comma, del codice di rito. Conseguentemente, poiché il momento determinante ai fini della individuazione della competenza è quello di proposizione della domanda, non rileva che in corso di causa l'attore abbia ridotto il "petitum" nei limiti del valore della pronuncia secondo equità, sicchè la sentenza emessa dal giudice di pace è impugnabile con l'appello, ai sensi dell'art. 339 cod. proc. civ. (nel testo applicabile "ratione temporis").

Sempre in tema di impugnabilità, Sez. 6-1, n. 7258, Rv. 630320, est. De Chiara, ha affermato che la pronuncia con cui il tribunale dichiara ex art. 702 bis cod. proc. civ. inammissibile, in quanto tardivamente proposta, la domanda di protezione internazionale, non è ricorribile per cassazione, bensì appellabile ai sensi dell'art. 702 quater cod. proc. civ., in quanto detta norma ammette l'appello avverso le ordinanze emesse ai sensi dell'art. 702 ter, sesto comma, cod. proc. civ., che a sua volta si riferisce all'ordinanza di cui al quinto comma dello stesso articolo, che detta la regola generale in proposito, nella cui previsione rientra anche la declaratoria di inammissibilità per tardività della domanda.

Inoltre Sez. L, n. 13351, Rv. 631463, est. Patti, ha ribadito che il giudizio d'appello - in applicazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nonché quello del tantum devolutum quantum appellatur - ha ad oggetto la controversia decisa dal giudice di primo grado e nei limiti della devoluzione, fissata dai motivi specifici di doglianza. Conseguentemente, il giudice d'appello non può rilevare d'ufficio il vizio di ultrapetizione in cui sia incorso il primo giudice, ove tale profilo non sia stato specificamente censurato con l'impugnazione e la relativa statuizione risulti quindi coperta dal giudicato interno. In tal caso, la S.C., trattandosi di "error in procedendo", è giudice anche del fatto e può direttamente procedere all'interpretazione degli atti processuali.

Ancora, non viola il principio tantum devolutum quantum appellatur, secondo Sez. 3, n. 26374, in corso di massimazione, est. Cirillo, il giudice d'appello che fondi la propria decisione su questioni diverse da quelle sostenute dall'appellante nei suoi motivi, ovvero che esamini questioni diverse da quelle da lui specificamente sviluppate, in quanto l'effetto devolutivo deve ritenersi esteso alle questioni che appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, e come tali comprese nel thema decidendum.

Non è poi ipotizzabile, secondo Sez. 3, n. 26908, in corso di massimazione, est. Carluccio, il vizio di ultrapetizione qualora il giudice d'appello riformi solo in parte l'impugnata sentenza indipendentemente dalla richiesta dell'appellante in tal senso, atteso che il petitum immediato dell'appello è la riforma della sentenza, "mentre l'ampiezza della riforma dipende dall'esito dello scrutinio degli specifici motivi di appello proposti".

In fattispecie relativa ad immissioni acustiche intollerabili da sorvolo di aerei, Sez. 3, n. 15523, Rv. 631734, est. Carluccio, ha poi ribadito che ove la qualificazione della domanda operata dal primo giudice (nella specie ricondotta all'art. 844 cod. civ., anziché all'art. 46 della legge 25 giugno 1865, n. 2359) non sia stata oggetto di gravame, il potere-dovere del giudice di qualificare la domanda stessa nei gradi successivi dev'essere coordinato con i principi propri del sistema delle impugnazioni, restando quindi precluso al giudice d'appello, stante l'intervenuto giudicato interno sul punto, mutare la qualificazione della domanda come ritenuta dal giudice di primo grado.

Sempre sull'interpretazione della domanda da parte del giudice di merito, Sez. L, n. 11828, Rv. 631057, est. Berrino, ha ritenuto che la valutazione circa l'osservanza dell'onere di specificità dei motivi di impugnazione ex art. 342 cod. proc. civ., nel testo antecedente alle modifiche descritte al § che precede, non possa essere effettuata direttamente dalla Corte di cassazione, che può solo indirettamente verificare la valutazione effettuata dal giudice d'appello sotto il profilo della correttezza giuridica dell'interpretazione datane e alla logicità del suo esito, restando preclusa la autonoma riconducibilità della censura agli "errores in procedendo", mediante interpretazione autonoma dell'atto d'appello.

Ancora in tema di interpretazione della domanda, Sez. U, n. 11027, Rv. 630753, est. Giusti, ha affermato che ove il giudice d'appello - diversamente qualificando la domanda stessa rispetto al primo giudice, che all'esito aveva negato la propria giurisdizione in favore del giudice amministrativo - affermi invece la giurisdizione prima negata, in applicazione dell'art. 353 cod. proc. civ. deve rimettere la causa al primo giudice, sicchè, ove invece a ciò non abbia provveduto, decidendo nel merito, con la cassazione della relativa sentenza dev'essere disposto direttamente il rinvio al primo giudice.

Restando in tema di rimessione della causa al giudice di primo grado, Sez. L, n. 13733, Rv. 631334, est. Bandini, ha affermato che il vizio di nullità della sentenza di prime cure per difetto di motivazione non rientra tra quelli che, tassativamente indicati dall'art. 354 cod. proc. civ., ne comportano la necessità, occorrendo invece in tale evenienza che il giudice d'appello pronunci nel merito, senza che a ciò osti il principio del doppio grado di giurisdizione, che è privo di rilevanza costituzionale.

Riguardo all'art. 342 cod. proc. civ. (nel testo ante riforma), Sez. 1, n. 9485, Rv. 631087, est. Nazzicone, ha ribadito un datato orientamento secondo cui deve ritenersi assolto l'onere di specificità dei motivi, ove il giudice di primo grado abbia omesso di pronunciarsi su un punto della domanda e l'appellante si sia limitato a reiterare la richiesta non esaminata in prime cure.

Nello stesso senso, Sez. L, n. 5562, Rv. 630450, est. Fernandes, ha precisato come non occorra adottare, in tema d'appello, formule sacramentali per esprimere la volontà di impugnare integralmente la sentenza di primo grado, essendo sufficiente, ai sensi dell'art. 342 cod. proc. civ., esporre sommariamente le ragioni dell'impugnazione, in modo da consentire al giudice di identificare i punti della sentenza da esaminare e le ragioni per le quali il gravame è proposto.

Ancora in tema di specificità dei motivi, Sez. 6-2, n. 3005, Rv. 629615, est. Proto, ha affermato che l'appello avverso sentenza del giudice di pace pronunciata secondo equità è inammissibile, ex art. 342 cod. proc. civ., qualora non indichi il principio che si assume violato e in che modo la regola equitativa individuata dal giudice si ponga con esso in contrasto.

Infine, Sez. 1, n. 1651, Rv. 629672, est. Ceccherini, ha precisato che la specificità dei motivi d'appello dev'essere commisurata alla specificità della motivazione, con la conseguenza che deve dichiararsi l'inammissibilità dell'appello qualora l'appellante ometta di indicare, per ciascuna delle ragioni esposte nella sentenza impugnata, le contrarie ragioni in fatto e in diritto che ritenga idonee a giustificare la doglianza.

Quanto alla forma dell'appello, pronunciando su questione di massima di particolare importanza, Sez. U, n. 2907, Rv. 629583, est. Petitti, in fattispecie concernente opposizione a ordinanza-ingiunzione (prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150), ha affermato che l'appello deve essere proposto nella forma della citazione e non già con ricorso, "trovando applicazione, in assenza di una specifica previsione normativa per il giudizio di secondo grado, la disciplina ordinaria di cui agli artt. 339 e seguenti cod. proc. civ.".

In applicazione del principio di ultrattività del rito (che identifica il rito da seguire nell'impugnazione in base all'apparenza della natura del provvedimento impugnato), Sez. 6-2, n. 4217, Rv. 629610, est. Bianchini, ha peraltro ribadito - in linea con il tradizionale indirizzo - che la proposizione dell'impugnazione con forme diverse da quelle relative al rito effettivamente applicato in primo grado non determina, di per sé, l'inammissibilità del gravame, trattandosi questa di sanzione tipica, che non può essere applicata fuori dei casi espressamente previsti. Da ciò deriva, secondo detta pronuncia, che il giudice d'appello deve verificare in concreto se, per effetto di tale error in procedendo, l'impugnazione è tardiva o priva dei requisiti funzionali di attivazione di una qualunque forma di contraddittorio, giacché ogni altra nullità può essere sanata dal raggiungimento dello scopo.

Nella stessa prospettiva, Sez. 6-3, n. 15272, Rv. 631743, est. Scarano, ha ribadito che il principio di ultrattività del rito postula che in caso di erronea scelta dello stesso, non corretta da parte del primo giudice mediante ordinanza di mutamento del rito, il giudizio deve proseguire in appello con le stesse forme, per quanto erronee. Conseguentemente, ove il giudizio di primo grado si sia svolto secondo il rito ordinario, anziché il rito del lavoro, l'appello dev'essere proposto con citazione e non con ricorso, nel qual ultimo caso la tempestività ex art. 327 cod. proc. civ. dev'essere valutata avuto riguardo alla data di notificazione del ricorso stesso alla controparte, e non già a quella di deposito dell'atto in cancelleria.

In questo solco, in materia di immigrazione (e segnatamente riguardo al diniego di permesso di soggiorno per motivi familiari e di protezione internazionale, e avuto riguardo alla proposizione dell'appello ai sensi dell'art. 702 quater cod. proc. civ.), con due pronunce di identico tenore, Sez. 6-1, n. 14502, Rv. 631621, est. De Chiara, e n. 26326, in corso di massimazione, est. Acierno, è stato affermato che il gravame "va proposto con atto di citazione, e non con ricorso, sicchè la verifica della tempestività dell'impugnazione va effettuata calcolandone il termine di trenta giorni dalla data di notifica dell'atto introduttivo alla parte appellata".

Su un diverso aspetto, si è poi affermato - Sez. 3, n. 8150, Rv. 630406, est. Cirillo - che la costituzione in giudizio nella fase concernente i provvedimenti sull'esecuzione provvisoria della sentenza, disciplinata dall'art. 351 cod. proc. civ., non implica l'automatica estensione della costituzione alla fase del merito, stante l'autonomia strutturale del procedimento di inibitoria; inoltre, diversamente opinando, l'appellato sarebbe tenuto a proporre appello incidentale in un termine più breve rispetto a quello fissato dagli artt. 166 e 343 cod. proc. civ..

Più specificamente, in relazione alla costituzione dell'appellante, Sez. 6-3, n. 6861, Rv. 630203, est. De Stefano, ne ha affermato la validità ove questi abbia depositato in cancelleria la nota di iscrizione a ruolo e il proprio fascicolo, contenente la copia e non l'originale dell'atto notificato, purché provveda poi alla produzione dell'originale, trattandosi di mera irregolarità non lesiva del diritto di difesa della controparte e non ricorrendo nella specie alcuna delle ipotesi di mancata tempestiva costituzione dell'appellante, tassativamente previste quali cause di improcedibilità dall'art. 348 cod. proc. civ..

Relativamente all'integrità del contraddittorio, Sez. 3, n. 11250, Rv. 630996, est. Scarano, ha affermato che in caso di morte del chiamato in causa iussu iudicis ex art. 107 cod. proc. civ. nel giudizio di primo grado, la legittimazione processuale attiva e passiva si trasmette agli eredi, i quali vengono a trovarsi nella posizione di litisconsorti necessari per ragioni processuali. Conseguentemente, il giudice d'appello deve ordinare d'ufficio l'integrazione del contraddittorio nei confronti di ciascuno di essi, per quanto contumaci in primo grado. Ne deriva che, nel caso in cui l'appello sia notificato al chiamato in causa deceduto e non agli eredi, il procedimento e la sentenza che lo definisce sono affetti da nullità assoluta per violazione dell'art. 331 cod. proc. civ., rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado e, quindi, anche in sede di legittimità, sempre che la non integrità del contraddittorio emerga ex se dagli atti, senza che sia necessario compiere nuovi accertamenti.

Sullo stesso tema, Sez. 3, n. 26902, in corso di massimazione, est. D'Amico, ha confermato consolidato orientamento secondo cui la notificazione ad uno solo dei litisconsorti necessari è idonea ad introdurre validamente il giudizio nei confronti di tutte le parti, dovendo il giudice ordinare l'integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte pretermesso ai sensi dell'art. 331 cod. proc. civ.

In tema di inscindibilità delle cause, Sez. 3, con ordinanza interlocutoria n. 10243, Rv. 631429, est. Frasca, ha affermato che la domanda alternativamente proposta contro due diversi convenuti per l'affermazione della responsabilità dell'uno o dell'altro determina una situazione di litisconsorzio unitario (o necessario processuale), destinato a persistere - ove la domanda sia stata totalmente respinta - soltanto nel caso in cui l'attore soccombente abbia proposto appello nei confronti di entrambi i convenuti stessi. Ne deriva che solo in tal caso può trovare applicazione l'art. 331 cod. proc. civ., occorrendo quindi che il giudice d'appello ordini l'integrazione del contraddittorio nel caso in cui l'impugnazione non risulti notificata a ciascuno dei convenuti, o lo sia stata in modo nullo, risultando viceversa applicabile l'art. 332 cod. proc. civ. nel caso in cui l'attore abbia impugnato nei confronti di uno solo dei convenuti stessi.

Sez. 1, n. 10282, Rv. 631260, est. Acierno, ha affermato che nel giudizio di rinvio conseguente alla cassazione della sentenza di appello per violazione del litisconsorzio necessario di natura processuale, determinato dalla chiamata del terzo iussu iudicis in primo grado, ove l'appellante ometta di integrare il contraddittorio si determina l'inammissibilità dell'impugnazione ex art. 331, secondo comma, cod. proc. civ., non potendo applicarsi l'art. 393 cod. proc. civ., che riguarda esclusivamente la mancata riassunzione del giudizio di rinvio nel termine perentorio di cui all'art. 392 cod. proc. civ., questione concernente il verificarsi di una nuova causa di estinzione del medesimo giudizio di rinvio.

Nel caso di cd. litisconsorzio "alternativo" (che sussiste quando il convenuto nel giudizio di danno abbia chiamato un terzo in causa, assumendo che questi sia tenuto in via esclusiva a risarcire l'attore), Sez. 3, n. 3613, Rv. 630357, est. Vivaldi, ha affermato che l'attore deve ritenersi vittorioso tanto nel caso in cui venga condannato il convenuto, tanto nel caso in cui lo sia il terzo chiamato, al quale l'originaria domanda è automaticamente estesa. Da ciò consegue che, proposto l'appello dal terzo chiamato soccombente, il danneggiato non ha l'onere di proporre appello incidentale condizionato per far dichiarare la responsabilità di uno dei possibili responsabili, per l'ipotesi in cui venga accolto l'appello proposto dall'altro.

Analogamente, secondo Sez. L, n. 2051, Rv. 629569, est. Venuti, non è tenuto a proporre appello incidentale condizionato l'appellato che miri all'accoglimento della domanda da lui proposta nei confronti del terzo chiamato, per il caso in cui dovesse essere accolta la domanda principale proposta nei suoi confronti dall'attore soccombente, essendo sufficiente, ai sensi dell'art. 346 cod. proc. civ., la riproposizione della domanda non esaminata dal primo giudice a cagione del rigetto della domanda attorea.

Sotto connesso profilo, Sez. 3, n. 26154, in corso di massimazione, est. Sestini, ha recentemente affermato che il principio sancito da Sez. 1, n. 27517 del 2008, Rv. 605657, secondo cui "qualora la sentenza di primo grado abbia accolto la domanda risarcitoria dell'attore contro il convenuto ed altresì la domanda di garanzia impropria del convenuto nei confronti di un terzo, l'appello principale di quest'ultimo, che rimetta in discussione la responsabilità del convenuto, quale presupposto della garanzia stessa, consente al convenuto medesimo di appellare in via incidentale tardiva, ai sensi dell'art. 334 cod. proc. civ., avverso l'accoglimento della pretesa del danneggiato, in considerazione dell'inscindibilità fra le due cause, fino a quando resti aperto il dibattito sulla suddetta responsabilità" deve ritenersi valevole anche nel caso in cui l'impugnazione principale non concerna l'intera responsabilità, in quanto risulta comunque messo in discussione l'assetto di interessi come regolato dalla sentenza impugnata (nella specie, la sentenza appellata aveva ritenuto la responsabilità risarcitoria al 50% in capo all'originario convenuto, e al 50% in capo al terzo chiamato; quest'ultimo aveva quindi proposto gravame, sicchè il convenuto medesimo aveva a sua volta avanzato appello incidentale tardivo).

Sempre in tema di cause inscindibili (con riferimento sia al litisconsorzio necessario sostanziale che a quello processuale), Sez. 6-5, n. 25719, in corso di massimazione, est. Iacobellis, ha ribadito il principio secondo cui nell'ipotesi di omessa impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti, il giudice d'appello, ai sensi dell'art. 331 cod. proc. civ., deve disporre l'integrazione del contraddittorio. In mancanza, si determina non già l'inammissibilità del gravame, ma la stessa nullità dell'intero procedimento di secondo grado e della sentenza che lo definisce, rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità, e ciò quale che sia la posizione assunta dal soggetto pretermesso nel giudizio di primo grado.

Relativamente al divieto di nova in appello, Sez. 3, n. 15228, Rv. 631709 e 631710, est. Stalla, ha affermato che l'eccezione di inoperatività della polizza assicurativa non costituisce un'eccezione in senso proprio, bensì una mera difesa volta a contestare il fondamento della domanda, sicchè essa è deducibile per la prima volta in appello, e la relativa documentazione (attinente alle condizioni generali di polizza) può parimenti prodursi nel giudizio di secondo grado, trattandosi di documentazione indispensabile ai fini della decisione.

Sempre in quest'ottica, Sez. 2, n. 3709, Rv. 629626, est. Matera, ha precisato che l'indispensabilità della nuova produzione documentale in appello non va apprezzata limitatamente al momento delle preclusioni istruttorie di primo grado, ma dev'essere valutata in relazione all'intero processo, comprensivo della sentenza di primo grado e della relative statuizioni riguardo alle risultanze istruttorie.

Nella peculiare ipotesi in cui la parte abbia ritirato, nel giudizio di primo grado, il proprio fascicolo, senza però restituirlo, Sez. 6-3, n. 26030, in corso di massimazione, est. De Stefano, ha ritenuto la correttezza della decisione di rigetto della domanda conseguentemente adottata dal primo giudice, ma ha ribadito che la parte stessa ha tuttavia facoltà di produrre nuovamente in grado di appello i documenti malamente non sottoposti al giudice di primo grado, non trattandosi di documenti "nuovi", se ed in quanto siano stati all'epoca ritualmente prodotti, e ciò in virtù del disposto 345, terzo comma, cod. proc. civ. (nel testo vigente tra la riforma del 1990 e quella del 2012).

Sez. 3, n. 17970, Rv. 632007, est. Vincenti, ha poi affermato che il giudice d'appello può procedere all'ammissione di prove testimoniali ritenute inammissibili in primo grado avuto riguardo ai limiti sanciti dagli artt. 2721 e ss. cod. civ., senza incorrere nel divieto di cui all'art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. (nel testo come sopra vigente), qualora ritenga quei limiti insussistenti.

Sempre in relazione al divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova sancito dall'art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. previgente, e segnatamente al divieto di produzione di nuovi documenti, Sez. 1, n. 16745, Rv. 631949, est. Didone, ha affermato che il giudice d'appello, nel ritenerne l'indispensabilità perché dotati di un'influenza causale più incisiva rispetto a quella delle prove già rilevanti ai fini della decisione appellata, deve adeguatamente motivare espressamente circa l'attitudine di detti documenti a dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi, in modo da consentire al giudice di legittimità il necessario controllo sulla congruità e sulla logicità del percorso motivazionale seguito e sull'esattezza del ragionamento adottato.

Riguardo all'onere di allegazione e documentazione gravante sulla parte che intenda interloquire, in appello, quale successore di una delle parti costituite nel giudizio di primo grado, Sez. 1, n. 25655, in corso di massimazione, est. Giancola, ha affermato che tale onere sussiste anche a prescindere dall'eccezione di controparte, trattandosi di questione riservata al potere officioso di verifica. Pertanto, la relativa attività processuale dev'essere svolta entro il termine di cui all'art. 184 cod. proc. civ. (applicabile ratione temporis) e comunque non oltre la precisazione delle conclusioni e la rimessione della causa al collegio, così da consentire sulla prodotta documentazione il doveroso dibattito e contraddittorio processuale, pena la lesione del diritto di difesa.

Quanto agli effetti della totale riforma in appello della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, in forza della quale sia stata minacciata o avviata l'azione esecutiva, Sez. 3, n. 13249, Rv. 631757, est. Barreca, ha affermato che la sentenza d'appello si sostituisce sin dalla sua pubblicazione (e senza che sia necessario attenderne il passaggio in giudicato) a quella riformata, privata immediatamente di ogni effetto, tanto potendo ricavarsi dalla modifica apportata all'art. 336, secondo comma, cod. proc. civ., che ha eliminato il collegamento necessario tra l'effetto rescindente della sentenza di riforma e il suo passaggio in giudicato.

Sempre riguardo alla valenza sostitutiva della sentenza d'appello rispetto a quella di primo grado, Sez. 6-5, n. 3594, Rv. 629986, est. Di Blasi, ha ribadito che ciò vale anche nel caso in cui quest'ultima sia stata integralmente confermata, con la conseguenza che non sussiste contraddittorietà tra dispositivo e motivazione della prima nel caso in cui, in dispositivo, essa si limiti a confermare la decisione impugnata, ed enunci in motivazione argomentazioni diverse da quelle seguite dal giudice di primo grado.

Infine, non viola il divieto di reformatio in peius, né costituisce vizio di ultrapetizione, secondo Sez. 3, n. 4078, Rv. 630125, est. Amatucci, la pronuncia del giudice d'appello che - in tema di danno non patrimoniale alla persona e alla luce del principio di omnicomprensività della relativa liquidazione, sollecitato a rivalutare l'inadeguatezza della somma globalmente riconosciuta - proceda a riconsiderare non solo le singole voci che si assumono erroneamente valutate, ma anche quelle ulteriori di cui il danno in parola si compone, così rideterminandone la valutazione complessiva.

3. Cassazione. Le novità normative. Prime applicazioni.

Nell'ottica deflattiva che ha guidato l'istituzione del cd. filtro in appello, e allo scopo di rimarcare la funzione nomofilattica della Corte, l'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in legge n. 134 del 2012, ha anche apportato una significativa modifica all'art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., in tema di motivi di ricorso per cassazione. Tale norma, che dapprima (nella formulazione datane dall'art. 2 d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) consentiva il ricorso per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, prevede ora la proponibilità del ricorso per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".

La norma, così modificata, è applicabile in relazione alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012 e, come già cennato, ha il dichiarato scopo (si veda la relazione parlamentare di accompagnamento all'art. 54 cit.) di "evitare l'abuso di ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, supportando la generale funzione nomofilattica propria della Suprema Corte di Cassazione quale giudice dello ius costitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris".

Tra i problemi più significativi posti dalla norma così modificata v'è la questione della esatta estensione del potere della Corte circa l'esame dell'iter motivazionale seguito dal giudice di merito, posto che la novella ha sembrato voler restringere il giudizio alla sola mancata valutazione del fatto decisivo, obliterando ogni espresso riferimento alla motivazione. Al riguardo, premesso che l'obbligo di motivazione dei provvedimenti emessi dall'Autorità Giudiziaria costituisce garanzia di libertà per i consociati, tanto da essere espressamente sancito dall'art. 111, sesto comma, Cost., è in particolare discusso se la permanenza del potere in parola possa comunque ricondursi nell'alveo dell'art. 360, primo comma, nn. 3 o 4 cod. proc. civ., che ammettono il ricorso per cassazione, rispettivamente, "per violazione o falsa applicazione di norme di diritto..." ovvero "per nullità della sentenza o del procedimento".

In proposito, constano talune significative pronunce emanate nel corso del 2014. In particolare, avuto riguardo alla nuova formulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. e ai fini della valutazione dello stato di insolvenza di una società in liquidazione ex art. 5 della legge fall., Sez. 1, n. 5402, Rv. 630479, est. Didone, ha affermato non costituire fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, l'avere erroneamente inserito il valore del patrimonio netto tra le passività, con conseguente inconfigurabilità del denunciato vizio di motivazione della sentenza di merito.

Pronunciando su questione di massima di particolare importanza, Sez. U, n. 8053, Rv. 629830, est. Botta, dopo aver evidenziato che la descritta riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. ripropone pressoché testualmente l'originario testo del codice di rito del 1940, e richiamando l'insegnamento di Sez. Un. n. 5888 del 1992, Rv. 477253, ha affermato che la norma in discorso "deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione". Trattasi di vizi, tali ultimi, che si sostanziano nella violazione dell'art. 132, n. 4, cod. proc. civ., che sancisce la nullità della sentenza per "mancanza della motivazione", in tale limitato senso dovendo intendersi, a seguito della riforma del 2012, la rilevanza del vizio di difetto di motivazione quale oggetto del sindacato di legittimità (così la citata pronuncia, in motivazione).

In tale solco si pone la successiva Sez. 6-3, n. 12928, Rv. 631150, est. De Stefano, secondo cui la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito può essere sindacata in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell'essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili.

Nello stesso senso anche la successiva Sez. 6-3, n. 21257, Rv. 632914, est. De Stefano, che - pronunciandosi sulla distinzione tra vizio di omessa pronuncia ex art. 112 cod. proc. civ. e vizio di motivazione ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ. - ha affermato che dopo la riformulazione di tale ultima norma il primo vizio continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell'eccezione sottoposta all'esame del giudicante, che ometta perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, pur solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto; il vizio motivazionale, al contrario, presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico.

Recentemente, la già citata Sez. 6-3, n. 26097 ha ribadito che, a seguito della richiamata riforma dell'art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., "la ricostruzione del fatto operata dai giudici del merito (...) è ormai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili; mentre non si configura un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ove quest'ultimo sia stato comunque valutato dal giudice, sebbene la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e quindi anche di quel particolare fatto storico, se la motivazione resta scevra dai gravissimi vizi appena detti".

Così opportunamente intesa, può ritenersi in linea con le pronunce testé citate Sez. 6-5, n. 16300, Rv. 632185, est. Cosentino, che ha affermato che, a seguito della descritta riforma, deve escludersi tout court la sindacabilità in sede di legittimità della correttezza logica della motivazione circa l'idoneità probatoria di una determinata risultanza processuale, poiché deve oramai ritenersi privo di autonoma rilevanza il vizio di contraddittorietà della motivazione.

Sotto altro profilo, la già citata Sez. U, n. 8053, Rv. 629831, ha precisato che il riformulato art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. - introducendo nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo - implica che, nel rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., "il ricorrente è tenuto ad indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie".

Altro filone di pronunce attiene ai vizi denunciabili mediante ricorso per cassazione a seguito della pronuncia di inammissibilità dell'appello per ragionevole improbabilità di accoglimento, impugnazione che, come s'è detto (v. par. 1), dev'essere proposta direttamente avverso la pronuncia di primo grado, ai sensi dell'art. 348 ter, terzo comma, cod. proc. civ.. In particolare, in base al disposto del comma quarto di tale articolo, "Quando l'inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al comma precedente può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3) e 4) del primo comma dell'articolo 360". Pertanto, nel caso di cd. "doppia conforme in facto" (ossia, di una pronuncia di merito da parte del giudice di primo grado, seguita dalla declaratoria di inammissibilità ex art. 348 bis cod. proc. civ., fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto poste a base della decisione impugnata), non è consentita la proposizione del ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.

Relativamente alla previsione dell'art. 348 ter, quinto comma, cod. proc. civ. (che limita la proponibilità del ricorso ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. anche nel caso in cui la sentenza di primo grado sia stata confermata dalla sentenza d'appello, e si tratti quindi di "doppia conforme in facto a cognizione piena"), Sez. 2, n. 5528, Rv. 630359, est. Falaschi, ha precisato che il ricorrente in cassazione, per evitare l'inammissibilità del motivo ciononostante proposto ai sensi della norma da ultimo citata, deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base di quella d'appello, dimostrando altresì che esse sono diverse tra loro.

Da diversa angolazione, Sez. 6-3, n. 8942, Rv. 630332, est. Frasca, ha precisato che il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado ai sensi dell'art. 348 ter, quarto comma, cod. proc. civ. ha natura di ricorso ordinario e deve contenere i requisiti di contenuto forma, e quindi, in conformità al disposto dell'art. 366, n. 3, cod. proc. civ., l'esposizione sommaria dei fatti di causa di entrambi i precedenti gradi di giudizio; di conseguenza, il ricorrente ha l'onere di indicare - oltre agli elementi da cui risulti la tempestività dell'appello e i motivi su cui era fondato - anche le domande e le eccezioni proposte dinanzi al primo giudice e non accolte o rimaste assorbite. Ciò in quanto trovano applicazione, rispetto al giudizio di legittimità così instaurato, le previsioni di cui agli artt. 329 e 346 cod. proc. civ., nella misura in cui esse avevano inciso sull'oggetto della devoluzione al giudice d'appello.

Ancora, Sez. 6-3, n. 8940, Rv. 630777, est. Frasca, ha affermato che, in caso di declaratoria di inammissibilità dell'appello ex art. 348 ter cod. proc. civ., la Corte di cassazione, nell'esame della sentenza di primo grado, non può valutare se la decisione del giudice d'appello sia stata ritualmente emessa per ragioni inerenti la tecnica e lo svolgimento del giudizio di secondo grado, ma ben può rilevare che, in ragione della tardività dell'appello o dell'erronea proposizione dello stesso in luogo di altro mezzo di impugnazione, s'era già formato il giudicato sulla sentenza di primo grado, e ciò a prescindere dal fatto che la declaratoria di inammissibilità dell'appello sia avvenuta per una di tali ragioni.

Infine, Sez. 6-3, n. 10722, Rv. 630702, est. De Stefano, ha affermato che nel ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, proposto ai sensi dell'art. 348 ter, comma terzo, cod. proc. civ., l'atto d'appello e l'ordinanza che ne abbia dichiarato l'inammissibilità costituiscono requisiti processuali speciali di ammissibilità. Ne deriva che, ai sensi dell'art. 366, n. 3, cod. proc. civ., nel ricorso stesso dev'essere fatta espressa menzione dei motivi d'appello e della motivazione dell'ordinanza, al fine di evidenziare l'insussistenza del giudicato interno sulle questioni sottoposte al giudice di legittimità e prim'ancora al giudice del gravame.

4. (segue) In generale.

Si segnalano di seguito le più significative pronunce sul giudizio di legittimità, rinviandosi per altri profili, comuni al ricorso per cassazione, al cap. XXIX, par. 5 sul processo del lavoro ed al cap. XXXIV, parr. 19 e ss sul processo tributario.

Sul carattere vincolato del giudizio di legittimità, Sez. 6-3, n. 3872, Rv. 630134, est. De Stefano, ha affermato che, ove il giudice d'appello abbia rilevato d'ufficio una eccezione ormai preclusa, il ricorrente per cassazione è tenuto a prospettare tale vizio processuale, sicchè, ove si dolga (soltanto) della correttezza nel merito della decisione, il ricorso dev'essere dichiarato inammissibile, a nulla rilevando l'effettiva sussistenza dell'error in procedendo.

La Corte con Sez. 1, n. 22995, Rv. 632739, est. Genovese, ha ritenuto nulla, e non inesistente, la notificazione del ricorso per cassazione effettuata da ufficiale giudiziario territorialmente incompetente ai sensi dell'art. 107 del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, con la conseguenza che il vizio deve ritenersi sanato, per raggiungimento dello scopo e con efficacia ex tunc, dalla costituzione del soggetto intimato.

Quanto alla decorrenza del termine per la proposizione del ricorso per cassazione, Sez. 1, n. 25662, in corso di massimazione, est. Genovese, in fattispecie inerente l'adozione di minorenne (e vigente l'art. 133 cod. proc. civ. nel testo antecedente alla modifica apportata dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv. in legge 11 agosto 2014, n. 114), ha affermato non essere idonea a far decorrere il termine dimidiato di trenta giorni previsto dall'art. 17, ultimo comma, legge 4 maggio 1983, n. 184, la comunicazione di cancelleria della sentenza, resa dal competente giudice d'appello, effettuata a mezzo PEC (sebbene integrale), non essendo questa equiparabile alla notificazione del provvedimento, espressamente prevista dalla citata norma ai fini della decorrenza stessa.

Sullo stesso tema, e riguardo al cd. termine lungo ex art. 327 cod. proc. civ., Sez. 1, n. 9482, Rv. 631132, est. Bernabai, ha affermato che il dies a quo decorre dalla pubblicazione della sentenza d'appello, che si considera eseguita con la certificazione del suo deposito, ad opera del cancelliere. Ove peraltro questi abbia apposto, in calce al documento, due date diverse, una concernente il deposito e l'altra la pubblicazione della sentenza, ai fini del computo del termine occorre procedere ad un accertamento di fatto per verificare il momento in cui, avuto riguardo agli elementi essenziali (tra cui la sottoscrizione del relatore e del presidente del collegio), la sentenza stessa possa dirsi effettivamente completa. Nella specie, il ricorso è stato ritenuto tempestivo in quanto, all'atto del deposito, non risultava ancora apposta la firma da parte del presidente.

Ancora, Sez. 6-3, n. 10723, Rv. 630697, est. De Stefano, ha affermato che qualora l'appello sia stato dichiarato inammissibile ai sensi dell'art. 348 bis cod. proc. civ., il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado proposto, ex art. 348 ter, terzo comma, cod. proc. civ., oltre il termine di sessanta giorni dalla comunicazione dell'ordinanza medesima è a propria volta inammissibile, dovendosi escludere la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.; ciò in quanto la proposizione dell'impugnazione nel termine ordinario non costituisce un onere tale da impedire o rendere eccessivamente gravoso l'esercizio del diritto di difesa, tenuto anche conto del fatto che, comunque, tale termine potrebbe iniziare a decorrerere ove dalla comunicazione non fosse possibile dedurre che il provvedimento adottato è quello previsto dall'art. 348 bis cod. proc. civ..

Sempre riguardo all'ipotesi in cui sia stata adottata dal giudice d'appello l'ordinanza di inammissibilità ai sensi dell'art. 348 bis cod. proc. civ., Sez. 6-3, con due distinte pronunce (n. 23526 e n. 26097, est. De Stefano, entrambe non massimate sul punto) ha precisato che l'individuazione del "dies a quo" per la proposizione del ricorso per cassazione va individuato nella data di comunicazione dell'ordinanza stessa, sia essa integrale, perché a mezzo PEC, o meno, ovvero (ma solo se ad essa anteriore) dalla sua notificazione.

Nella particolare ipotesi del concorso tra l'istanza di revocazione della sentenza d'appello e il ricorso per cassazione, Sez. 1, n. 12701, Rv. 631345, est. Campanile, ribadita (in contrasto con Sez. 3, n. 9239 del 2013, Rv. 626000) l'assenza di un effetto sospensivo automatico del termine per proporre tale ultimo, quale conseguenza della istanza di revocazione, ha affermato che, in caso di accoglimento dell'istanza di sospensione, il termine di decorrenza del periodo di sospensione non coincide con quello di presentazione dell'istanza, bensì con quello di deposito del provvedimento di cui all'art. 398, quarto comma, cod. proc. civ., senza che ciò pregiudichi il diritto dell'istante di agire in giudizio. Questi, infatti, gode pur sempre per intero del termine di sessanta giorni dalla prima notifica per ricorrere per cassazione, quale che sia l'esito dell'istanza di sospensione; del resto, gli effetti derivanti dalla scelta di attendere la decisione sulla sospensione non possono che imputarsi alla stessa parte che ha optato per tale condotta processuale.

Sotto altro profilo, Sez. 3, n. 25725, in corso di massimazione, est. Vivaldi, ha ritenuto validamente rilasciata la procura a margine del ricorso per cassazione nella quale il mandato sia stato conferito mediante espressioni generiche e sia privo di data, in quanto l'incorporazione dei due atti in un medesimo documento implica l'indefettibile riferimento dell'uno all'altro, così restando osservato il disposto dell'art. 365 cod. proc. civ., ai fini del prescritto requisito di specialità.

Sempre riguardo allo ius postulandi, Sez. 2, n. 27126, in corso di massimazione, est. Abete, ha ribadito consolidato orientamento secondo cui non soddisfa il requisito della specialità della procura, ai sensi dell'art. 365 cod. proc. civ., il ricorso per cassazione proposto in forza di procura generale alle liti conferita prima della pubblicazione della sentenza impugnata.

Sull'interesse ad impugnare, Sez. L, n. 12642, Rv. 631189, est. De Renzis, ne ha affermato la carenza, e ha quindi dichiarato l'inammissibilità del ricorso, ove il ricorrente riproponga censure già svolte in appello onde ottenere la declaratoria di nullità della sentenza di primo grado, in quanto una decisione di accoglimento avrebbe comportato soltanto la trattazione nel merito della causa da parte del giudice d'appello.

Sotto altro ma connesso profilo, Sez. 5, n. 27049, in corso di massimazione, est. Olivieri, ha confermato l'orientamento secondo cui la pronuncia di inammissibilità dell'atto introduttivo del giudizio da parte del giudice di merito lo spoglia di ogni potestas iudicandi riguardo al merito della controversia, con la conseguenza che eventuali statuizioni adottate ad abundantiam devono essere considerate tamquam non essent; ne deriva, quale ulteriore corollario, che le parti non hanno interesse ad impugnare dette statuizioni, ammissibile essendo la sola impugnazione avverso la statuizione pregiudiziale.

Riguardo alla legittimazione ad impugnare, Sez. 3, n. 26359, in corso di massimazione, est. Ambrosio, ha affermato che ove il ricorso sia stato proposto da curatore fallimentare privo di specifica autorizzazione del giudice delegato ex art. 25, n. 6, secondo inciso, legge fall., sussiste il difetto di legittimazione processuale, irrilevante essendo che essa sia stata rilasciata per i precedenti gradi di giudizio, senza che possa trovare applicazione, a differenza di tali ultimi, la regola di cui all'art. 182, secondo comma, cod. proc. civ., né potendo la Corte - stante il disposto degli artt. 369, secondo comma, n. 4, e 372, secondo comma, cod. proc. civ. - rivolgere alla parte l'invito al deposito dell'autorizzazione mancante.

Relativamente al controricorso, Sez. 3, n. 25735, in corso di massimazione, est. Sestini, ha ribadito che tale non può essere qualificato l'atto dell'intimato che sia stato solo depositato in cancelleria, e non anche notificato al ricorrente, attività necessaria ai fini dell'instaurazione del contraddittorio nei confronti di quest'ultimo, con la conseguenza che anche la memoria depositata dallo stesso resistente ex art. 378 cod. proc. civ. dev'essere considerata "tamquam non esset".

Detta memoria, secondo Sez. 6-L, n. 26670, in corso di massimazione, est. Marotta, non può costituire un'integrazione del ricorso per cassazione, né fungere da rimedio alle lacune o carenze di cui esso sia inficiato, avendo essa l'esclusiva funzione di chiarire ed illustrare i motivi di impugnazione che siano stati già ritualmente proposti, in quanto col ricorso per cassazione viene ad esaurirsi il relativo diritto all'impugnazione.

Inoltre, Sez. 1, n. 12948, Rv. 631392, est. Ragonesi, in applicazione dell'art. 360 cod. proc. civ. (come modificato dall'art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), ha negato l'immediata ricorribilità per cassazione della sentenza con la quale la corte d'appello abbia negato l'intervenuta estinzione del giudizio, trattandosi di pronuncia che, per la mancanza di statuizioni sul merito, è inidonea a definire il giudizio.

Relativamente ai vizi denunciabili, Sez. 5, n. 15032, Rv. 631844, est. Olivieri, ha affermato che nel giudizio di legittimità è ammissibile il motivo con cui si denunci la violazione del diritto comunitario, conseguente ad una sentenza della Corte di Giustizia successiva alla decisione di primo grado ma anteriore a quella d'appello, per quanto non dedotta nel relativo grado, non esistendo preclusioni alla rilevabilità d'ufficio nel giudizio di cassazione, sia pur per la prima volta, della questione della compatibilità della norma interna con quella comunitaria sopravvenuta.

Sullo stesso tema, Sez. 5, n. 21152, Rv. 632289, est. Di Iasi, ha affermato che l'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 2 d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), nel prevedere l'"omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione" come riferita ad "un fatto controverso e decisivo per il giudizio", intende riferirsi ad un preciso accadimento o circostanza in senso storico-naturalistico, e non già a "questioni" o "argomentazioni", che ove proposte col ricorso sono da ritenersi irrilevanti, con conseguente inammissibilità dello stesso.

Ancora, sulla medesima formulazione testuale dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., Sez. 6-3, n. 25714, in corso di massimazione, est. Barreca, ha ribadito che la differenza tra il vizio di omessa pronuncia e quello di omessa motivazione si coglie nel senso che il primo concerne direttamente una domanda o eccezione ritualmente introdotta in causa ed autonomamente apprezzabile, mentre il secondo attiene ad una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione.

In questo senso, Sez. 3, n. 26155, in corso di massimazione, est. Sestini, in continuità con l'indirizzo dettato da Sez. U, n. 17931 del 2013, Rv. 627268, ha rilevato che il ricorso con cui si denuncia omessa motivazione, ai sensi dell'art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (nel testo antecedente alla riforma del 2012), riguardo a domanda risarcitoria da riduzione della capacità lavorativa, integralmente obliterata dal giudice d'appello, dev'essere prospettato sotto il profilo dell'omessa pronuncia su un motivo d'appello (previa sua trascrizione) e in relazione all'ipotesi di cui all'art. 360, n. 4, cod. proc. civ., con conseguente inammissibilità del ricorso medesimo.

Riguardo al vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., Sez. L, n. 26307, in corso di massimazione, est. Doronzo, ha ribadito che esso ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione adottata dal giudice a fondamento della decisione, rilevando solo che della norma sia stata fatta applicazione quando invece, in relazione al fatto accertato, non doveva esserlo, ovvero nel caso contrario, ovvero ancora ne sia stata fatta cattiva applicazione, essendo onere del ricorrente, in ogni caso, prospettare l'erronea interpretazione di una norma da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata e indicare, a pena d'inammissibilità ex art. 366, n. 4, cod. proc. civ., i motivi per i quali chiede la cassazione.

Quanto all'estensione dei poteri cognitivi della Corte, Sez. 3, n. 21397, Rv. 633024, est. Rossetti, ha ribadito che ove venga denunciata la nullità della sentenza impugnata per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., assumendosi l'erronea qualificazione della domanda, il giudice di legittimità è investito del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, e non deve limitarsi a valutare la sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha affrontato la questione.

Nello stesso senso, Sez. 3, n. 25308, in corso di massimazione, est. Carluccio, ha precisato che quando col ricorso per cassazione venga denunciata la violazione dell'art. 342 cod. proc. civ. (nel testo antecedente alla riforma) in ordine alla specificità dei motivi di appello, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dagli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ.). All'esito di tale accertamento, l'onere di specificazione dei motivi d'appello deve ritenersi assolto qualora il rinvio al contenuto della comparsa conclusionale di primo grado (operato dall'appellante) non costituisca un mero richiamo per relationem, ma sia collegato all'espressa censura delle argomentazioni sulle quali l'impugnata sentenza si fonda.

Sotto altro profilo, si configura questione nuova - secondo Sez. 3, n. 26906, in corso di massimazione, est. Rubino -, e quindi inammissibile, nel caso in cui si prospetti per la prima volta nel giudizio di cassazione l'applicabilità ratione temporis alla fattispecie di diversa normativa, ove ciò comporti necessariamente lo svolgimento di nuovi accertamenti in fatto, non compiuti dal giudice di merito.

Quanto al cd. overruling (che consiste nel mutamento di precedente consolidata interpretazione della norma processuale), Sez. L, n. 13972, Rv. 631594, est. Napoletano, ha precisato che, ove la notifica del ricorso per cassazione avverso la P.A. sia nulla perché eseguita presso l'Avvocatura distrettuale, anziché presso l'Avvocatura generale dello Stato, "non è ammissibile, eventualmente anche a distanza di anni dal deposito del ricorso, disporre il rinnovo della notificazione presso quest'ultima, ponendosi tale soluzione in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo". Dopo aver affermato tale principio, peraltro, tenuto conto che esso costituiva appunto un overruling, la Corte ha comunque disposto la rinnovazione della notifica, in relazione all'affidamento che il ricorrente aveva potuto riporre sulla precedente e consolidata giurisprudenza di legittimità.

Sullo stesso tema e riguardo al rito del lavoro, Sez. 6-L, n. 12521, Rv. 631039, est. Marotta, ha affermato che costituisce radicale cambiamento (inaugurato da Sez. U, n. 20604 del 2008, Rv. 604554) di un consolidato orientamento giurisprudenziale ad opera del giudice di legittimità l'aver ritenuto l'appello improcedibile ove non sia avvenuta la notificazione del ricorso, tempestivamente presentato nel termine di legge, e del decreto di fissazione dell'udienza, non essendo consentito al giudice assegnare all'appellante, ai sensi dell'art. 421 cod. proc. civ., un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica ai sensi dell'art. 291 cod. proc. civ.. È stata data quindi applicazione, per le vicende anteriori al suddetto mutamento, ai principi a tutela dell'effettività dei mezzi di azione e difesa in materia di prospective overruling.

Relativamente al giudizio di rinvio, Sez. 3, n. 6188, Rv. 629888, est. Frasca, ha ribadito che, nel caso di mancata sua riassunzione, si determina l'estinzione dell'intero processo ai sensi dell'art. 393 cod. proc. civ., con conseguente caducazione di tutte le attività espletate, fatta salva l'efficacia del principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione; in tale evenienza, è irrilevante che la sentenza d'appello, poi cassata, si sia limitata a definire in rito o a rimettere la causa dinanzi al primo giudice (e quindi difetti l'effetto sostitutivo rispetto a tale ultima pronuncia), conseguendo l'effetto estintivo ad una valutazione negativa del legislatore in ordine al disinteresse delle parti alla prosecuzione del procedimento.

Infine, sempre sul tema, Sez. 1, n. 8600, Rv. 630823, est. Didone, ha affermato che nel caso in cui il giudice d'appello non abbia rimesso le parti dinanzi al giudice di primo grado, omettendo di rilevare l'erronea mancata declaratoria di estinzione del giudizio, con la cassazione della sentenza di secondo grado dev'essere disposto il rinvio al giudice di primo grado, ai sensi dell'art. 383 cod. proc. civ.

Infine, recentemente, Sez. 6-3, n. 26654, in corso di massimazione, est. Armano, ha affermato che il ricorso per cassazione avverso sentenza d'appello resa in sede di rinvio e depositata in epoca successiva all'entrata in vigore della novella dell'art. 360, comma primo, cod. proc. civ. (v. supra), dev'essere proposto ai sensi della nuova formulazione di tale ultima norma, ossia solo per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Infatti, il già citato art. 54 d.l. n. 83 del 2012, conv. in legge n. 134 del 2012, non reca alcuna disciplina speciale riguardo ai giudizi in corso, sicchè non può che trovare applicazione il consolidato principio secondo cui, nel caso di successione di leggi processuali nel tempo, ove il legislatore non abbia diversamente disposto, la nuova norma disciplina non solo i nuovi giudizi introdotti dopo la sua entrata in vigore, ma anche i singoli atti, ad essa successivamente compiuti, di processi iniziati prima, a ciò non ostando la circostanza che la nuova disciplina sia più rigorosa per le parti rispetto a quella previgente. A nulla rileva poi in tal senso, secondo la pronuncia in parola, la natura "chiusa" del giudizio di rinvio, comportando questa la non proponibilità, nel suo ambito, di questioni prima non trattate, ma non anche l'ultrattività dei motivi di impugnazione deducibili, e ciò coerentemente col consolidato principio secondo cui lo stesso giudizio di rinvio non costituisce la prosecuzione della pregressa fase di merito, ma integra una nuova ed autonoma fase processuale, di natura rescissoria, funzionale all'emanazione di una sentenza che, senza sostituirsi alla precedente, statuisce direttamente sulle domande proposte dalle parti.

Risolvendo il contrasto in ordine alla natura del termine per la proposizione della istanza di fissazione della udienza di cui all'art. 391, terzo comma, cod. proc. civ., Sez. U, n. 19980, Rv. 632162, est. Frasca, ha affermato che "Il decreto di cui all'art. 391, primo comma, cod. proc. civ. ha la medesima funzione (di pronuncia sulla fattispecie estintiva) e il medesimo effetto (di attestazione che il processo di cassazione deve chiudersi perché si è verificato un fenomeno estintivo) che l'ordinamento processuale riconosce alla sentenza o all'ordinanza, con la differenza che, mentre nei confronti dei suddetti provvedimenti è ammessa solo la revocazione ex art. 391 bis cod. proc. civ., avverso il decreto presidenziale l'art. 391, terzo comma, cod. proc. civ., individua, quale rimedio, il deposito di un'istanza di sollecitazione alla fissazione dell'udienza (collegiale) per la trattazione del ricorso. Tale istanza - che, non avendo carattere impugnatorio, non deve essere motivata - va depositata nel termine, da ritenersi perentorio (salva la generale possibilità di rimessione in termini prevista dall'art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., aggiunto dall'art. 45, comma 19, della legge 18 giugno 2009, n. 69), di dieci giorni dalla comunicazione del decreto, indipendentemente dal fatto che quest'ultimo rechi o meno una pronuncia sulle spese".

Con la stessa pronuncia (Rv. 632161), affrontando questione di massima di particolare importanza concernente la disciplina che deriva dalla applicabilità dell'istituto della pronuncia di estinzione con decreto presidenziale alla fattispecie della rinuncia, nonché alle altre fattispecie di estinzione conosciute dall'ordinamento, come quelle ricollegate alle ipotesi del cosiddetto condono fiscale, è stato altresì affermato che "In presenza di una fattispecie estintiva del processo di cassazione ricollegata al verificarsi, al di fuori del processo, di determinati presupposti che si devono dalla parte far constare alla S.C. (quale, nella specie, quella del condono fiscale regolato dall'art. 16, comma 8, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, richiamato dall'art. 39 del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con modif. nella legge 15 luglio 2011, n. 111), il deposito in sede di legittimità di un'istanza di estinzione accompagnata dai documenti idonei a dimostrarne l'esistenza deve essere preceduto, a cura della parte medesima, dalla notificazione ex art. 372, secondo comma, cod. proc. civ., alle altre parti costituite dell'elenco dei suddetti documenti, nella cui mancanza il presidente di sezione (o un suo delegato), che ravvisi le condizioni per provvedere con decreto ai sensi dell'art. 391 primo comma, cod. proc. civ., deve disporre, in via preliminare, che la stessa venga previamente effettuata".

5. Revocazione.

In tema di revocazione della sentenza della Corte di cassazione, Sez. L, n. 3820, Rv. 629917, est. Marotta, ha precisato che l'errore di fatto che può legittimarne la proposizione non può che concernere gli atti "interni" al giudizio dinanzi alla stessa Corte svolto, e deve quindi avere carattere autonomo, nel senso di incidere direttamente ed esclusivamente sulla sentenza medesima. Ove pertanto il dedotto errore di fatto sia stato causa determinante della sentenza pronunciata dal giudice di merito, la parte danneggiata è tenuta a proporre impugnazione contro detta decisione, ai sensi degli artt. 394, primo comma, n. 4, e 398 cod. proc. civ., non essendole consentito addurre l'errore in un momento successivo.

In peculiare fattispecie, in cui si pretendeva sussistere errore revocatorio ai sensi dell'art. 395, n. 4, cod. proc. civ. relativamente a ordinanza di inammissibilità della Corte emessa ai sensi dell'art. 380 bis cod. proc. civ., Sez. 6-3, n. 26451, in corso di massimazione, est. De Stefano, ha affermato che, pur non sussistendo un onere di contestare le argomentazioni svolte nella relazione, i fatti ivi esposti diventano, per ciò solo, prospettati alle parti e, quindi, controversi o controvertibili. Conseguentemente, a prescindere dal difetto di reazione - in relazione ai medesimi fatti - in sede di adunanza camerale, non può mai configurarsi errore revocatorio rilevante ai fini degli artt. 391 bis e 395, n. 4, cod. proc. civ., in quanto i fatti stessi costituiscono oggetto di una pronuncia, implicita o esplicita.

Sempre riguardo alla revocazione, nel caso di contemporanea pendenza di due ricorsi per cassazione avverso la sentenza di merito in grado d'appello e contro quella pronunciata dallo stesso giudice d'appello nel successivo giudizio di revocazione, Sez. L, n. 7568, Rv. 630261, est. Nobile, ha statuito che essi possono essere riuniti, poiché le due sentenze, integrandosi reciprocamente, definiscono inscindibilmente un unico giudizio e ben possono, in sede di legittimità, essere oggetto di esame contestuale e di un'unica decisione. In tale evenienza, peraltro, occorre previamente delibare il ricorso avverso la sentenza del giudizio di revocazione, le cui questioni assumono carattere pregiudiziale.

Ancora riguardo ai rapporti tra giudizio di revocazione e giudizio di legittimità, Sez. 6-5, n. 20490, Rv. 632284, est. Cosentino, ha statuito che ove il primo investa la decisione su una questione preliminare di rito (nella specie, la declaratoria di inammissibilità dell'appello), il giudizio di cassazione avverso la statuizione sul merito dev'essere sospeso ex art. 295 cod. proc. civ., stante il rapporto di pregiudizialità tra le due controversie. Ove invece entrambe le impugnazioni abbiano ad oggetto la medesima statuizione della sentenza impugnata, il giudizio non può essere sospeso, in quanto la fase rescindente di quello revocatorio verte sul denunciato vizio della sentenza e non sul rapporto giuridico su cui si è deciso.

Riguardo ai motivi di revocazione, Sez. L, n. 12875, Rv. 631268, est. Venuti, ha ribadito costante orientamento secondo cui, ai sensi dell'art. 395, n. 1, cod. proc. civ., il dolo processuale di una delle parti in danno dell'altra può costituire motivo di revocazione della sentenza solo in quanto consista in un'attività fraudolenta, diretta a far apparire una situazione diversa da quella reale, mediante artifici o raggiri tali da paralizzare, o sviare, la difesa avversaria ed impedire al giudice l'accertamento della verità. Pertanto, non sono idonei a realizzare il vizio in parola l'allegazione di fatti non veritieri favorevoli alla propria tesi, o il silenzio su fatti decisivi della controversia o ancora la mancata produzione di documenti, che possono costituire comportamenti censurabili sotto il profilo della lealtà e correttezza processuale, ma non pregiudicano il diritto di difesa della controparte, la quale resta pienamente libera di avvalersi dei mezzi offerti dall'ordinamento al fine di pervenire all'accertamento della verità.

Sullo stesso argomento, Sez. 2, n. 12000, Rv. 630851, est. Giusti, ha affermato che ai sensi dell'art. 395, n. 3, cod. proc. civ., non costituisce forza maggiore la mancata produzione in giudizio del documento per scelta difensiva del difensore, al quale la parte lo abbia consegnato, neanche quando sia intervenuto il decesso del difensore medesimo pendente il termine per l'appello, e ciò in quanto, ai sensi della citata norma, la forza maggiore si concreta nell'ignoranza assoluta ed incolpevole del documento stesso.

Infine, Sez. 1, n. 1657, Rv. 629465, est. De Chiara, relativamente al vizio di cui all'art. 395, n. 4, cod. proc. civ., ha stabilito che il "punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare" è, in caso di errore vertente su fatto probatorio qual è la dichiarazione di un teste, il fatto probatorio stesso e non quello oggetto della prova.

  • competenza giurisdizionale
  • giurisdizione del lavoro
  • diritto del lavoro

CAPITOLO XXIX

IL PROCESSO DEL LAVORO

(di Luigi Di Paola )

Sommario

1 Questioni di giurisdizione. - 2 Questioni di competenza e di rito. - 3 Il processo in primo grado. - 4 Il giudizio di appello. - 5 L'impugnazione per cassazione. - 6 Limiti del giudicato. - 7 Overruling. - 8 Il cd. "rito Fornero".

1. Questioni di giurisdizione.

Tra le pronunce di interesse in tema di giurisdizione possono annoverarsi: a) quelle, rese in materia di pubblico impiego privatizzato, concernenti il riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, a seconda della situazione giuridica (e della tipologia di lesione) fatta valere in giudizio nonché in ragione del discrimine temporale, fissato al 30 giugno 1998, per il passaggio della giurisdizione amministrativa a quella ordinaria; b) quelle aventi ad oggetto la delimitazione - avuto riguardo a caratteri e natura della pretesa azionata - della sfera di cognizione del giudice italiano in relazione a controversie riguardanti vicende in cui viene in rilievo il rapporto di lavoro intercorso con organismi esteri. Nella parte finale del paragrafo verrà poi menzionata una recente decisione relativa al caso peculiare del rapporto di impiego con i gruppi parlamentari.

Al primo gruppo sono riconducibili, in particolare, le decisioni intervenute in materia di concorsi, ove è assai sottile, a volte, per la peculiarità delle fattispecie (riferite, ad esempio, a problematiche inerenti alle graduatorie, ovvero all'espletamento delle procedure), la linea di demarcazione tra fase in cui domina il profilo procedurale preordinato all'assunzione del dipendente - la cui cognizione è riservata al giudice amministrativo - e quella in cui prevale il momento della gestione del rapporto, rimesso dal legislatore alla giurisdizione del giudice ordinario.

Si inserisce in tal variegato quadro Sez. U, n. 16756, Rv. 631791, est. Di Cerbo, che, con riferimento alle controversie promosse per l'accertamento del diritto al collocamento in graduatoria ai sensi del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, e successive modificazioni, ha ritenuto spettare la giurisdizione al giudice ordinario, venendo in questione determinazioni assunte con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato (art. 5 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), di fronte alle quali sono configurabili diritti soggettivi; in tal caso, infatti, la pretesa ha ad oggetto la conformità a legge degli atti di gestione della graduatoria utile per l'eventuale assunzione, senza che possa configurarsi l'inerenza a procedure concorsuali - per le quali l'art. 63 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, mantiene la giurisdizione del giudice amministrativo -, trattandosi, in buona sostanza, dell'inserimento di coloro che sono in possesso di determinati requisiti in una graduatoria preordinata al conferimento di posti che si rendano disponibili.

Rientra ancora nel citato gruppo Sez. U, n. 15428, Rv. 631588, est. Bandini, secondo cui la domanda risarcitoria per il ritardo illegittimo e colpevole nell'espletamento della procedura concorsuale (nella specie per il passaggio di qualifica funzionale riservata ai dipendenti dell'amministrazione finanziaria) e nell'emanazione dell'atto conclusivo di approvazione della graduatoria appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, collegandosi il danno lamentato, in forza dell'art. 7, terzo comma, della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, all'esercizio di attività autoritative da parte della P.A., e, dunque, alla posizione di interesse legittimo del dipendente al corretto espletamento di detta procedura fino al suo atto terminale.

Va poi segnalata Sez. U, n. 7171, Rv. 630227, est. Napoletano, ove risulta essere definitivamente cristallizzato il principio secondo cui rientrano nella giurisdizione amministrativa, ex art. 63 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, i procedimenti concorsuali preordinati alla costituzione di rapporti di lavoro aperti a candidati esterni, nonché quelli che, realizzando una novazione oggettiva del rapporto, consentono l'inquadramento in aree funzionali o categorie più elevate; mentre appartengono alla giurisdizione ordinaria le controversie attinenti le procedure riservate ai dipendenti, diretti a passaggi di qualifica nell'ambito della medesima area funzionale classificata dal contratto collettivo applicabile, e pertanto comportanti l'esercizio di poteri di diritto privato. L'area delle pacifiche acquisizioni si arricchisce, in tale pronuncia, di un ulteriore tassello, in cui è dato risalto all'elemento della definitività dell'incarico, necessario a radicare la giurisdizione del giudice amministrativo; con la conseguenza che la controversia relativa all'esclusione di docenti a tempo indeterminato nelle scuole elementari dalla procedura concorsuale per l'assegnazione degli incarichi di Presidenza negli Istituti Comprensivi e nei Circoli Didattici per l'anno scolastico 2003/2004, avendo ad oggetto l'attribuzione di un incarico temporaneo e, quindi, non l'accesso (definitivo) in aree funzionali o categorie più elevate, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario.

Rientra linearmente nel momento della gestione del rapporto il profilo attinente ai risvolti patrimoniali connessi all'effettuazione della prestazione lavorativa; pertanto la domanda diretta al riconoscimento del diritto alle differenze retributive, spettanti per il dedotto espletamento di mansioni proprie di una posizione dirigenziale superiore a quella attribuita, ha ad oggetto una posizione di diritto soggettivo perfetto, con conseguente sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario, cui è attribuito il potere di disapplicare gli eventuali atti amministrativi presupposti illegittimi (nella specie, la norma regolamentare dell'INPS che classificava di livello dirigenziale non generale la funzioni di direttore regionale), incidenti sulle posizioni di diritto soggettivo derivanti dal rapporto lavorativo (Sez. U, n. 15427, Rv. 631587, est. Bandini).

Spetta per converso al giudice amministrativo conoscere della controversia promossa dal direttore generale di una azienda ospedaliera per il conseguimento dell'annullamento della delibera della giunta regionale avente ad oggetto la mancata conferma e revoca dell'incarico a seguito di una verifica dei risultati aziendali conseguiti; infatti, secondo Sez. U, n. 26938, in corso di massimazione, est. Napoletano, poiché la nomina del direttore generale avviene previo esperimento di un procedimento amministrativo selettivo non concorsuale, con un atto discrezionale di alta amministrazione, espressione di poteri pubblicistici cui sono correlati in capo al privato interessi legittimi, analoga natura ha il provvedimento previsto dall'art. 3 bis, comma 6, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, in base al quale le Regioni, trascorsi diciotto mesi dalla nomina e previa verifica dei risultati amministrativi e di gestione, dispongono la conferma dell'incarico o la risoluzione del relativo contratto.

Sulla questione del discrimine temporale per il passaggio della giurisdizione amministrativa a quella ordinaria - facente sempre parte, idealmente, del gruppo di decisioni emesse sul tema del riparto - l'attenzione della S.C. si è appuntata sulla individuazione, in concreto, del momento rilevante di intervento del fattore (suscettibile di essere integrato da un fatto materiale, da un provvedimento, da un atto negoziale, ecc ...) condizionante il radicamento della giurisdizione.

In particolare, Sez. U, n. 10915, Rv. 630937, est. Amoroso, ha affermato che, ai sensi dell'art. 69, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, occorre aver riguardo al momento storico dell'avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze in relazione alla cui giuridica rilevanza sia insorta controversia; pertanto, ove la lesione del diritto sia conseguente all'adozione di uno specifico atto, bisogna guardare al momento di emanazione di quest'ultimo, senza che l'eventuale portata retroattiva dello stesso sia idonea ad influire sulla determinazione della giurisdizione. Ne consegue che, "ove il diritto al pagamento degli interessi e della rivalutazione monetaria, per il personale del comparto ministeri, sia divenuto concretamente azionabile soltanto dopo la sentenza n. 136 del 2001 della Corte costituzionale, dichiarativa dell'illegittimità dell'art. 26, commi 4 e 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, dovendosi identificare il suddetto "momento storico dell'avverarsi dei fatti materiali" nel giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della decisione d'illegittimità costituzionale, ai sensi dell'art. 136 Cost., atteso che, prima della pronuncia, la corresponsione degli accessori era espressamente vietata".

Rimanendo fedele a tale impostazione di ordine generale, Sez. U, n. 22034, Rv. 632689, est. Di Cerbo, ha evidenziato che la domanda di risarcimento danni, proposta nei confronti della P.A. datrice di lavoro, per lesione dell'integrità psicofisica da esposizione ad amianto, appartiene, qualora la patologia sia stata diagnosticata in data successiva al 30 giugno 1998, alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto il fatto costitutivo del diritto, in base al quale deve essere determinata la giurisdizione quoad tempus ex art. 69, comma 7, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, va individuato nell'insorgenza della patologia.

Ancora, seguendo analoga prospettiva di fondo, Sez. U, n. 579, Rv. 628880, est. Di Cerbo, ha ribadito che in tema di lavoro alle dipendenze della P.A., ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, nel caso in cui la lesione del diritto azionato sia stata prodotta da un provvedimento o da un atto negoziale del datore di lavoro, occorre far riferimento alla data di questi ultimi. (Nella specie, la S.C. ha cassato l'impugnata sentenza, che aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, per essere la pretesa del ricorrente fondata sull'illegittimità di una graduatoria concorsuale interna pubblicata nel 1996 ed annullata dal tribunale amministrativo regionale con decorrenza giuridica anteriore al 30 giugno 1998, omettendo di considerare che, in sede di ottemperanza, la nuova graduatoria, favorevole al ricorrente, era stata approvata nel 2004, consentendo, solo da tale data, la presentazione della domanda per ottenere, a titolo risarcitorio, le dovute differenze retributive).

In un caso particolare concernente la previsione di cui all'art. 8, comma 4, della legge 21 dicembre 1996 n. 665, che attribuisce alla giurisdizione del giudice ordinario, a partire dal 1° gennaio 1996, le controversie relative al rapporto di lavoro dei dipendenti dell'Azienda autonoma di assistenza al volo per il traffico aereo generale a seguito della sua trasformazione nell'ente pubblico economico ENAV (Ente nazionale di assistenza al volo), Sez. U, n. 10918, Rv. 630751, est. Amoroso, ha affermato che la previsione in questione va interpretata, secundum constitutionem, nel senso della devoluzione alla giurisdizione del giudice ordinario di ogni controversia promossa successivamente all'intervenuta trasformazione del rapporto di impiego in rapporto di lavoro di diritto privato, ancorché la pretesa dedotta in giudizio concerna, in parte, il periodo antecedente al 1° gennaio 1996, dovendosi escludere, in relazione alla medesima controversia, un frazionamento della giurisdizione.

Nell'ambito, invece, del sopra indicato secondo gruppo va segnalata, in tema di rapporto di lavoro alle dipendenze delle ambasciate di Stati esteri, Sez. U, n. 9034, Rv. 630834, est. Nobile, la quale ha rimarcato che la domanda intesa ad ottenere la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro postula apprezzamenti, indagini o statuizioni idonee ad incidere od interferire sugli atti o comportamenti dello Stato estero espressione dei suoi poteri sovrani di autorganizzazione; sicché, in applicazione del principio dell'immunità ristretta, non sussiste la giurisdizione del giudice italiano, dovendosi escludere che le parti possano, in via convenzionale, derogare al suddetto principio. Né è ammissibile, secondo la S.C., una diversa soluzione in relazione ai principi sanciti dall'art. 11 della Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali, degli Stati e dei loro beni, fatta a New York il 2 dicembre 2004 e ratificata con la legge 14 gennaio 2013, n. 5 - i quali, pur non essendo la Convenzione applicabile ratione temporis, costituiscono, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU, sentenza 18 gennaio 2011, Guadagnino c. Italia e Francia), parte integrante del diritto consuetudinario internazionale - "atteso che, ai sensi dell'art. 11, par. 2, lett. c, della citata Convenzione, sussiste l'immunità giurisdizionale ove l'azione abbia ad oggetto, tra l'altro, "il reinserimento" di un lavoratore, senza che possa essere invocato il disposto del successivo art. 11, par. 2, lett. f, che, nel consentire la devoluzione, convenzionale, alla giurisdizione esclusiva dei tribunali dello Stato estero (e, dunque, con ampliamento dell'immunità giurisdizionale), non può essere interpretato nel senso - inverso - di introdurre una generale derogabilità, convenzionale, all'immunità medesima".

In sintonia con la testé riportata statuizione, Sez. U, n. 19674, Rv. 632601, est. Amoroso, ha affermato che il giudice italiano difetta di giurisdizione in ordine alla domanda proposta contro l'Accademia di Francia in Roma, volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento (intimato, nella specie, ad un dipendente con mansioni di supporto dell'attività del segretario generale dell'ente) e la correlata reintegra, attesa l'operatività del principio dell'immunità ristretta, recepito dal predetto art. 11 della Convenzione, mentre sussiste per le pretese dirette all'attribuzione di differenze retributive, trattandosi di domanda avente ad oggetto aspetti esclusivamente patrimoniali del rapporto, che non incidono sulle potestà pubblicistiche dell'ente estero ove non ricorrano, ex art. 2, lett. d) della Convenzione citata, ragioni di sicurezza dello Stato.

Non sussiste, parimenti - secondo Sez. U, n. 22744, Rv. 632902, est. Nobile - la giurisdizione del giudice italiano, ancorché la domanda involga questioni esclusivamente patrimoniali e, in relazione a mansioni di semplice "impiegato consolare", non ricorra alcuna delle ipotesi eccettuate di cui alle lettere dalla a) alla e) dell'art. 11, par. 2, della sopra citata Convenzione, ove le parti abbiano convenzionalmente devoluto la controversia su pretese disponibili alla giurisdizione esclusiva dei tribunali dello Stato estero, ai sensi dell'art. 11, par. 2, lett. f, della Convenzione stessa.

Va infine segnalata, per come anticipato all'inizio del paragrafo, Sez. U, n. 27396, in corso di massimazione, est. Giusti, ove è affermato che la controversia promossa dai dipendenti dei gruppi parlamentari del Senato della Repubblica per contestare una deliberazione del Consiglio di Presidenza (con la quale, nel caso, erano state dettate nuove disposizioni sul personale dei gruppi, prevedendo, tra l'altro, l'abrogazione di una precedente deliberazione contenente norme sulla stabilità del posto di lavoro del personale in servizio assunto alla data del 1° gennaio 1993) rientra non nella giurisdizione del Senato in sede di autodichia o del giudice amministrativo, bensì in quella del giudice ordinario, quale giudice comune dei diritti che nascono dal rapporto di lavoro, giacché nei confronti dei loro dipendenti i gruppi parlamentari si configurano non come organi dell'istituzione parlamentare, ma come associazioni non riconosciute, e quindi, come soggetti privati.

2. Questioni di competenza e di rito.

Non poche decisioni significative (sia pur non particolarmente innovative, ma riguardanti aspetti su cui si registra un contenzioso non trascurabile) risultano emesse in materia di competenza per territorio, con incursioni estese al rapporto tra azione cautelare e causa di merito nonché alle dinamiche dell'attrazione tra procedimenti.

Attenzione particolare va poi riservata a due pronunciati (segnalati, per comodità di trattazione, alla fine del presente paragrafo) che investono, l'uno, il profilo, su cui è in corso uno spigoloso dibattito, dell'operatività della connessione tra cause aventi ad oggetto l'esclusione del socio lavoratore di cooperativa ed il contestuale licenziamento di quest'ultimo, e, l'altro, quello della competenza per territorio prevista dalla procedura speciale, su cui non constano statuizioni precedenti, avverso le discriminazioni.

In linea generale, Sez. 6-L, n. 17513, Rv. 631889, est. Blasutto, nel dare continuità ad un indirizzo già affermato in passato, ha ribadito che nelle controversie individuali di lavoro l'attore è libero di scegliere uno dei fori alternativi di cui all'art. 413, secondo comma, cod. proc. civ., ma ha l'onere di dimostrare che ricorrono gli elementi di fatto relativi al criterio di competenza per territorio prescelto.

In tema di identificazione del foro speciale costituito dal luogo in cui si trova l'azienda - ex art. 413, secondo comma, cod. proc. civ. - Sez. 6-L, n. 11317, Rv. 630914, est. Fernandes, ha puntualizzato, in sintonia con un orientamento che può dirsi consolidato, che il foro in questione va determinato, per le imprese gestite in forma societaria, in riferimento al luogo in cui si accentrano di fatto i poteri di direzione ed amministrazione dell'azienda medesima (di norma coincidente con la sede sociale), indipendentemente da quello in cui si trovano i beni aziendali e nel quale si svolge l'attività imprenditoriale.

In una fattispecie particolare, la dipendenza dell'azienda - quale struttura organizzativa di ordine economico funzionale dislocata in luogo diverso dalla sede dell'azienda e caratterizzata dall'esplicazione di un potere decisionale e di controllo conforme alle esigenze specifiche dell'attività ad essa facente capo - è stata ravvisata (da Sez. 6-L, n. 11320, Rv. 630911, est. Garri) in un cantiere stradale della società datrice di lavoro, ove erano addetti lavoratori e nel quale esistevano beni destinati a rendere possibile l'espletamento dell'attività appaltata e quindi il conseguimento dei fini imprenditoriali.

In materia di competenza per territorio a conoscere delle controversie previdenziali, Sez. 6 - L, n. 11331, Rv. 630909, est. Marotta, ha affermato che la competenza in questione spetta al giudice del luogo in cui ha sede l'ufficio dell'ente "dove, su domanda del datore di lavoro che abbia più dipendenze, è attuato l'accentramento delle posizioni previdenziali e dei relativi adempimenti contributivi, il quale, conseguentemente, diventa deputato a ricevere i contributi, a pretenderne giudizialmente il pagamento e a restituirne l'eventuale eccedenza".

In tema di consolidamento, o meno, della competenza per effetto di domanda cautelare ante causam ex art. 700 cod. proc. civ., Sez. 6-L, n. 11778, Rv. 631062, est. Blasutto, ha precisato che l'instaurazione di un procedimento ai sensi del predetto articolo, volto alla reintegrazione nel posto di lavoro - in applicazione dell'art. 18 legge 20 maggio 1970, n. 300, nel regime ratione temporis applicabile prima dell'entrata in vigore della legge 28 giugno 2012, n. 92 -, non determina il definitivo radicamento della competenza dell'ufficio giudiziario adito anche ai fini del successivo giudizio di merito, "in quanto la regola dell'art. 39, terzo comma, cod. proc. civ., riferisce la prevenzione all'introduzione del giudizio di merito (nella specie avvenuta anche dinanzi ad altro giudice territorialmente competente, ai sensi dell'art. 413 cod. proc. civ., oltre che presso l'ufficio giudiziario che aveva concesso la misura cautelare, confermata in sede di reclamo) e non alla proposizione della domanda cautelare".

Con riguardo al profilo dell'attrazione della competenza per ragioni di connessione, Sez. L, n. 8898, Rv. 630436, est. Tricomi, ha affermato, conformandosi ad un precedente del 2009, che, in tema di infortuni sul lavoro, va qualificata come domanda di garanzia propria quella proposta dal datore di lavoro, convenuto in sede di regresso dall'INAIL, per essere garantito dal proprio assicuratore o dall'impresa committente i lavori; il fatto generatore della responsabilità è infatti unico, sia verso l'assicuratore, in ragione del suo obbligo di garanzia per l'infortunio, sia verso il committente, in relazione alla causazione dell'infortunio per effetto della prospettata concorrente violazione da parte di questo dell'obbligo di prevenzione e sicurezza. Pertanto il giudice della causa principale, in funzione di giudice del lavoro, è competente a conoscere anche le anzidette cause connesse per garanzia.

Sulla rilevante questione - sopra preannunciata - della determinazione del giudice competente in presenza di cause connesse, aventi ad oggetto sia l'impugnativa della delibera di esclusione del socio lavoratore di cooperativa sia del licenziamento parimenti intimato, Sez. L, n. 24917, in corso di massimazione, est. Blasutto, ha evidenziato - in sostanziale difformità dal precedente Sez. 6-L, n. 24692 del 2010, Rv. 615736 - che "qualora il rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa sia stato risolto, da un lato, per effetto della delibera di esclusione per motivi riguardanti la violazione degli obblighi statutari, e, dall'altro, in virtù di un distinto atto di recesso giustificato dalla necessità di esternalizzazione di parte dell'attività di impresa, l'impugnativa della delibera e del concorrente atto di licenziamento configura un'ipotesi di connessione di cause aventi ad oggetto il rapporto mutualistico e quello lavorativo. In tale situazione sussiste, in difetto di espressa deroga normativa, la competenza del giudice del lavoro a norma dell'art. 40, comma terzo, cod. proc. civ., che, facendo salva l'applicazione del rito speciale quando una delle cause connesse rientri tra quelle di cui agli artt. 409 e 442 cod. proc. civ., è espressione di un principio generale avente la funzione di dare preminenza ad interessi di rilevanza costituzionale".

A tale conclusione la S.C. è giunta, all'esito di un analitico excursus della normativa di riferimento succedutasi nel tempo, mediante l'interpretazione costituzionalmente orientata - che porta, in definitiva, ad escludere che la vis attractiva della competenza del cd. tribunale delle imprese operi quando una delle cause rientri tra quelle indicate negli artt. 409 e 442 cod. proc. civ - della locuzione (i.e.: "Le sezioni specializzate sono altresì competenti per le cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione con quelli di cui ai commi 1 e 2") presente nell'art. 3 del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, per come successivamente novellato.

In materia di procedimento speciale avverso le discriminazioni previsto dal "Codice delle pari opportunità tra uomo e donna", Sez. 6-L, n. 17421, Rv. 631888, est. Tria, ha chiarito che la competenza inderogabile a conoscere della controversia di cui all'art. 38, comma 1, del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, spetta al giudice del lavoro ove è avvenuto il comportamento denunciato; pertanto, ove sia fatta valere la natura discriminatoria di una clausola dei bandi nazionali di concorso, redatti ed emanati in una determinata località (nel caso, Roma), con richiesta di dichiarazione di nullità di detta clausola, la competenza appartiene al tribunale della predetta località.

Sul versante del rito va segnalata Sez. L, n. 21298, Rv. 632929, est. Tricomi, ove è affermato che "il giudice dell'esecuzione investito della opposizione alla esecuzione per crediti di lavoro, già iniziata e da lui diretta, ove sia territorialmente competente per la causa di opposizione, deve provvedere alla istruzione della medesima e alla decisione indipendentemente dal suo valore, previo passaggio al rito del lavoro, secondo le disposizioni di cui agli artt. 426 e 616 cod. proc. civ.".

3. Il processo in primo grado.

Le decisioni ritenute meritevoli di evidenziazione - in ragione della rilevanza pratica della problematica esaminata o della particolare significatività del principio affermato - scandiscono, pressoché integralmente, le tappe in cui si articola l'intero processo di primo grado, nell'ambito di un percorso che prende avvio con l'esame delle questioni attinenti al profilo della legittimazione, si snoda con la disamina del contenuto della domanda (nonché degli oneri di determinazione degli elementi essenziali del ricorso) e dei profili di allegazione e probatori, per concludersi con un cenno riguardante, per un verso, i poteri del giudice nelle cause concernenti l'accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi (nonché l'ambito applicativo della procedura di accertamento di cui all'art. 64 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) e, per un altro, il tema dell'interpretazione della sentenza e della validità di essa.

Sez. L, n. 10426, Rv. 630803, est. Buffa, ha ritenuto - in relazione a domanda giudiziale proposta prima del passaggio di funzioni dall'INPDAP all'INPS - fare capo al solo INPDAP, e non all'INPS, la legittimazione a domandare il pagamento dei contributi previdenziali per il periodo in cui il rapporto di lavoro subordinato di fatto con una P.A. - pertanto nullo - ha avuto esecuzione, dovendo aversi riguardo alla situazione di fatto e di diritto vigente al momento di introduzione della lite (e restando irrilevante l'avvenuto trasferimento, nel corso dei successivi gradi di giudizio, delle funzioni amministrative relative alla contribuzione previdenziale ad altro ente).

Sez. L, n. 23984, Rv. 633315, est. Ghinoy, ha affermato - ribadendo un orientamento già seguito in passato, ma che aveva fatto registrare una battuta d'arresto con una pronunzia dell'anno scorso - che nel giudizio di opposizione a cartella esattoriale, notificata dall'istituto di credito concessionario per la riscossione di contributi previdenziali pretesi dall'INPS, la legittimazione passiva spetta unicamente a quest'ultimo ente, quale titolare della relativa potestà sanzionatoria, mentre l'eventuale domanda in opposizione, attinente a tale oggetto, formulata contestualmente anche nei confronti del concessionario della gestione del servizio di riscossione tributi, deve intendersi come mera denuntiatio litis che non vale ad attribuirgli la qualità di parte.

La verifica della sussistenza degli elementi essenziali del ricorso introduttivo costituisce indagine pregiudiziale rispetto alla decisione sul merito e alla mancanza degli elementi stessi può porsi riparo, ma solo nell'ambito del giudizio di primo grado. Al riguardo Sez. L, n. 896, Rv. 630376, est. Amoroso, ha affermato, conformandosi ad un indirizzo inaugurato di recente, che in applicazione dell'art. 164, quinto comma, cod. proc. civ., estensibile anche al rito del lavoro, se il giudice di primo grado, stante la costituzione del convenuto, omette di fissare un termine per l'integrazione dell'atto introduttivo del giudizio, nullo per mancata o insufficiente determinazione dell'oggetto della domanda o per analogo vizio concernente l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la pretesa si fonda, nonostante l'eccezione in tal senso sollevata dal convenuto, diventa onere del ricorrente invocare dal giudice la fissazione del termine per sanare la nullità. Ove ciò il ricorrente medesimo non faccia, e la nullità venga dedotta come motivo d'appello, il giudice del gravame non dovrà fissare alcun termine per la rinnovazione dell'atto nullo, ma dovrà definire il processo con una pronuncia in rito che accerti il vizio del ricorso introduttivo.

L'onere di determinazione dell'oggetto della domanda deve ritenersi peraltro osservato, con riguardo alla richiesta di pagamento di spettanze retributive, qualora l'attore indichi i relativi titoli, ponendo così il convenuto in condizione di formulare immediatamente ed esaurientemente le proprie difese; sul punto Sez. 6-L, n. 17501, Rv. 632030, est. Blasutto, ha ricordato che resta irrilevante la mancanza di un'originaria quantificazione monetaria delle suddette pretese, anche in considerazione della facoltà, dell'attore medesimo, di modificarne l'ammontare in corso di causa, nonché dei poteri spettanti al giudice, pure in ordine alla individuazione dei criteri in base ai quali effettuare la liquidazione dei crediti fatti valere. (Nella specie, relativa alla richiesta di inclusione dell'indennità di turno negli istituti contrattuali indiretti, erano stati sufficientemente indicati i periodi di attività lavorativa, l'orario di lavoro osservato e gli istituti nella cui base di computo non era stata inclusa la detta indennità).

Con riguardo agli oneri di allegazione in tema di contratti collettivi Sez. 6-L, n. 19507, Rv. 632669, est. Marotta, ha puntualizzato che "la conoscibilità della fonte normativa si atteggia diversamente a seconda che si versi in un'ipotesi di violazione del contratto collettivo nazionale di lavoro privatistico rispetto a quella in cui le questioni attengano ad un contratto collettivo nazionale del pubblico impiego; infatti, mentre in quest'ultimo caso il giudice procede con mezzi propri (secondo il principio "iura novit curia"), nel primo il contratto è conoscibile solo con la collaborazione delle parti, la cui iniziativa, sostanziandosi nell'adempimento di un onere di allegazione e produzione, è assoggettata alle regole processuali sulla distribuzione dell'onere della prova e sul contraddittorio, che non vengono meno neppure nell'ipotesi di acquisizione giudiziale ex art. 425, quarto comma, cod. proc. civ.".

In materia di poteri istruttori di ufficio, Sez. L, n. 22534, Rv. 633204, est. Lorito, ha ribadito che, nel rito del lavoro, il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 cod. proc. civ., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull'onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori.

Qualora le parti abbiano tempestivamente articolato mezzi di prova nei rispettivi atti introduttivi, il giudice non può desumere l'abbandono delle istanze istruttorie dalla mancanza di un'ulteriore richiesta di ammissione nelle udienze successive alla prima; sul punto Sez. L, n. 4717, Rv. 630091, est. Berrino, ha affermato, dando continuità ad un indirizzo risalente, che "nelle controversie soggette al rito del lavoro, la parte, la cui prova non sia stata ammessa nel giudizio di primo grado, deve dolersi di tale mancata ammissione attraverso un apposito motivo di gravame, senza che possa attribuirsi significato di rinuncia o di acquiescenza al fatto di non avere ripetuto l'istanza di ammissione nelle conclusioni di primo grado, in quanto non essendo previste, in detto rito, udienze di mero rinvio o di precisazione delle conclusioni, ogni udienza è destinata alla decisione".

Sulla delicata problematica concernente gli effetti della mancata enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, Sez. L, n. 12210, Rv. 631193, est. Patti, ha statuito - pur dopo l'orientamento difforme espresso da Sez. 3 n. 5950, Rv. 630553, est. Rossetti, che ha fatto derivare dall'omissione (anche in virtù del principio sulla "ragionevole durata" del processo) la decadenza dall'istanza istruttoria - che "per il contemperamento, vigente nel rito del lavoro, del principio dispositivo con quello di ricerca della verità materiale, comportante l'interpretazione della norma stabilita dall'art. 244 cod. proc. civ. alla luce del disposto dell'art. 421 cod. proc. civ. sui poteri officiosi del giudice del lavoro, la predetta omissione non determina decadenza, ma una mera irregolarità, che abilita il giudice all'esercizio del potere-dovere previsto dall'art. 421, primo comma, cod. proc. civ., avente ad oggetto l'indicazione alla parte istante della riscontrata irregolarità e l'assegnazione di un termine perentorio per porvi rimedio, soltanto la sua inosservanza producendo decadenza dalla prova".

In tema di efficacia probatoria dell'interrogatorio libero Sez. L, n. 20736, Rv. 632584, est. Maisano, ha ribadito che la natura giuridica non confessoria del predetto interrogatorio non incide sulla sua libera valutazione da parte del giudice, che può legittimamente trarre dalle dichiarazioni rese dalla parte in tale sede un convincimento contrario all'interesse della medesima ed utilizzare tali dichiarazioni quale unica fonte di prova.

Con riguardo all'accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi, Sez. L, n. 14356, Rv. 631639, est. Amoroso, ha ritenuto che nel pronunciare sentenza ai sensi dell'art. 420 bis cod. proc. civ., il giudice di primo grado può risolvere questioni preliminari, di rito o di merito, al solo scopo di verificare e motivare la rilevanza della questione interpretativa, che è la sola che deve essere esaminata e decisa a cognizione piena e con idoneità alla formazione del giudicato. (Nella specie, la S.C. ha confermato, sul punto, la sentenza di merito che aveva pronunciato anche sulla questione preliminare - risolvendola affermativamente - se al lavoratore ricorrente fosse applicabile la contrattazione collettiva anche nel caso in cui egli aderisse ad un sindacato che non aveva sottoscritto tutti i contratti collettivi oggetto di controversia).

Sez. L, n. 9343, Rv. 630732, est. Fernandes, ha inoltre chiarito che nelle controversie in materia di pubblico impiego privatizzato, la procedura di accertamento di cui all'art. 64 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, norma speciale rispetto all'art. 420 bis cod. proc. civ., mira a "risolvere in via pregiudiziale" le questioni concernenti l'efficacia, la validità o l'interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale sottoscritto dall'ARAN ogni qualvolta, per la definizione della controversia, risulti "necessario" risolvere una di dette questioni, così da contenere le liti seriali ed assicurare uniformità e certezza delle interpretazioni relative a contratti collettivi nazionali del settore pubblico. Ne consegue l'inammissibilità del ricorso a tale procedura quando la questione abbia ad oggetto una posizione individuale, rispetto alla quale l'interpretazione delle norme contrattuali presupponga la decisione di questioni di merito da cui discenda l'applicazione o meno delle norme interpretate.

In materia di interpretazione del dispositivo alla luce della motivazione Sez. 6-L, n. 14499, Rv. 631648, est. Mancino, ha rilevato che nel rito del lavoro, qualora la motivazione della sentenza si limiti alla mera esplicitazione di statuizioni già sostanzialmente argomentabili dalla struttura logico-semantica del dispositivo, non si applica il principio della non integrabilità del dispositivo con la motivazione, che presuppone l'effettiva carenza nell'uno di statuizioni invece contenute nell'altra, dovendosi individuare la portata precettiva della pronuncia giurisdizionale tenendo conto non solo delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione, le cui enunciazioni, se univocamente dirette all'esame di una questione dedotta in causa, possono essere utilizzate quale strumento di interpretazione del dispositivo medesimo. (Nella specie la S.C., nell'enunciare il principio, ha cassato la sentenza di appello, nel cui dispositivo risultava la sola regolazione delle spese di lite, mentre era del tutto omessa la statuizione di accoglimento dell'appello e di riforma della sentenza di primo grado, e, quindi, la decisione di rigetto della domanda introduttiva proposta).

Con riguardo all'ipotesi della predisposizione della bozza di dispositivo di una decisione prima che essa sia stata assunta (nella specie, dal giudice collegiale), Sez. 3, n. 39, Rv. 629505, est. Vincenti, ha osservato che detta predisposizione non determina alcuna nullità, né costituisce comportamento lesivo del diritto di difesa delle parti, ma integra, per contro, una condotta apprezzabile, in quanto espressione tangibile della professionalità del giudice relatore, tenuto, in quanto tale, a formarsi un serio ed attrezzato convincimento sulla controversia oggetto di cognizione ed a fornire una meditata ipotesi di decisione da sottoporre alla discussione in camera di consiglio, ben potendo in questa sede - e sino alla sottoscrizione del dispositivo della sentenza - pervenirsi a qualsivoglia soluzione sulla controversia.

4. Il giudizio di appello.

Il motivo dominante che traspare dalle pronunce di maggiore interesse è imperniato sulla individuazione della esatta misura degli sbarramenti e preclusioni, di matrice sostanziale e processuale, che connotano, in modo particolare, il giudizio in questione.

Con particolare riferimento al regime del mutamento della domanda, Sez. L, n. 17176, Rv. 632003, est. Berrino, ha affermato, in linea con l'orientamento più accreditato, che nel rito del lavoro la disciplina della fase introduttiva del giudizio - e a maggior ragione quella del giudizio di appello - risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, con la conseguenza che, ai sensi dell'art. 437 cod. proc. civ., non sono ammesse domande nuove, né modificazioni della domanda già proposta, sia con riguardo al petitum che alla causa petendi, neppure nell'ipotesi di accettazione del contraddittorio ad opera della controparte, e non è, pertanto, consentito addurre in grado di appello, a sostegno della propria pretesa, fatti diversi da quelli allegati in primo grado, anche quando il bene richiesto rimanga immutato; in buona sostanza nella fase di appello sono precluse le modifiche (salvo quelle meramente quantitative) che comportino anche solo una emendatio libelli (permessa solo all'udienza di discussione di primo grado, previa autorizzazione del giudice e nella ricorrenza dei gravi motivi previsti dalla legge).

Analogo effetto preclusivo si verifica per le nuove contestazioni. A tale riguardo Sez. L, n. 4854, Rv. 629699, est. Manna, ha puntualizzato che nel rito del lavoro, il divieto di nova in appello non riguarda soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto, ma è esteso alle contestazioni nuove, cioè non esplicitate in primo grado, sia perché l'art. 416 cod. proc. civ. impone un onere di tempestiva contestazione a pena di decadenza, sia perché nuove contestazioni in secondo grado, oltre a modificare i temi di indagine (trasformando il giudizio di appello da revisio prioris instantiae in iudicium novum, estraneo al vigente ordinamento processuale), altererebbero la parità delle parti, esponendo l'altra parte all'impossibilità di chiedere l'assunzione di quelle prove alle quali, in ipotesi, aveva rinunciato, confidando proprio nella mancata contestazione ad opera dell'avversario.

Per converso il divieto di jus novorum non si estende alle eccezioni improprie ed alle mere difese, ossia alle deduzioni volte alla contestazione dei fatti costitutivi e giustificativi allegati dalla controparte a sostegno della pretesa, ovvero alle deduzioni che corroborano sul piano difensivo eccezioni già ritualmente formulate (Sez. L, n. 24886, in corso di massimazione, est. Nobile).

Del pari non rientra nel divieto di nova la prospettazione dell'erronea interpretazione di norme giuridiche. A tale riguardo Sez. L, n. 4127, Rv. 630281, est. Bandini, ha precisato, in relazione a domanda avente ad oggetto la pensione di anzianità, che la richiesta, da parte dell'INPS in sede di gravame, di diversa decorrenza della predetta pensione già riconosciuta in primo grado, è ammissibile, competendo al giudice, accertati i requisiti per la prestazione, determinarne la data di decorrenza, in applicazione dell'art. 59, comma 8, legge 27 dicembre 1997, n. 449.

Sul versante istruttorio, Sez. L, n. 18418, Rv. 632315, est. Tria, ha affermato, con una interessante decisione, che "i dati conservati negli archivi telematici dell'INPS sono accessibili anche dagli assicurati, sicché essi, ove non comportino l'apertura di un nuovo fronte d'indagine, limitandosi a rafforzare le prove raccolte, appartengono già, in base al principio di acquisizione probatoria, al processo e non possono essere considerati documenti nuovi in senso tecnico, tanto più che, in rispondenza al principio del giusto processo, di cui all'art. 111 Cost., va riconosciuto al giudice il potere di ricavare d'ufficio elementi utili di giudizio, attraverso fonti di conoscenza di carattere ufficiale, quali i siti internet istituzionali degli enti pubblici". (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto ancora dovuta una somma a titolo di contributi, a seguito della produzione, solo in fase di impugnazione, di documentazione riveniente dagli archivi telematici dell'istituto previdenziale).

Sempre sullo stesso versante, Sez. L, n. 1484, Rv. 630272, est. Balestrieri, ha evidenziato che nel giudizio di appello soggetto al rito del lavoro, l'istanza di esibizione di documenti, ai sensi dell'art. 210 cod. proc. civ., è sottoposta agli stessi limiti di ammissibilità previsti dall'art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., con riferimento alla produzione documentale, con la conseguenza che essa non è ammissibile in relazione a documenti la cui esibizione non sia stata richiesta nel giudizio di primo grado.

Con riferimento all'ambito della cognizione del giudice del gravame nonché alle implicazioni del riscontrato vizio di error in procedendo in sede di legittimità, Sez. L, n. 13351, Rv. 631463, est. Patti, ha statuito che, avendo il giudizio di appello per oggetto la controversia decisa dalla sentenza di primo grado entro i limiti della devoluzione, quali risultano fissati dai motivi specifici che l'appellante ha l'onere di proporre con l'atto di appello, la sentenza di secondo grado non può rilevare il vizio di ultrapetizione della sentenza di primo grado qualora tale profilo, in difetto di specifico motivo d'appello, risulti ormai coperto da giudicato sostanziale interno; in tal caso, configurandosi un error in procedendo, la S.C. è giudice anche del fatto e può procedere direttamente all'interpretazione degli atti processuali.

5. L'impugnazione per cassazione.

Le prime tre decisioni segnalate, nel giungere agli approdi di seguito illustrati, muovono da una valorizzazione del principio costituzionale di "ragionevole durata del processo".

La necessità di dare applicazione al principio in questione - in presenza di assegnazione alla sezione lavoro della Corte di cassazione di un ricorso da devolvere, invece, ad una sezione civile ordinaria della stessa Corte -, ha escluso, secondo Sez. L, n. 17761, Rv. 631902, est. D'Antonio, la necessità di rimettere il ricorso al Primo Presidente della S.C. per una eventuale riassegnazione, avuto anche riguardo alla assoluta ininfluenza della circostanza sul piano delle regole processuali da osservare nel giudizio di legittimità.

Il richiamo allo stesso principio ha consentito a Sez. L, n. 7826, Rv. 630266, est. Ghinoy, di precisare l'ambito entro il quale è configurabile il vizio di error in procedendo, stabilendo che nel caso in cui sia la motivazione che il dispositivo della sentenza contengano il riconoscimento di un diritto, in una misura tuttavia non quantificata in dispositivo, si profila il predetto vizio il quale, qualora non siano necessari ulteriori accertamenti in fatto, consente, in sede di legittimità, la decisione nel merito, ai sensi dell'art. 384, secondo comma, cod. proc. civ. (Nella specie, la sentenza impugnata aveva riconosciuto il diritto ad una maggiorazione pensionistica sulla base di una anzianità contributiva di 35 anni e nei limiti della decadenza triennale ex art. 74 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, omettendo tuttavia, in dispositivo, di quantificare le differenze spettanti sui ratei arretrati; in applicazione del suddetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza di appello ed ha deciso la causa).

In Sez. L, n. 23989, in corso di massimazione, est. Bandini, la valenza del menzionato principio - rafforzata dal contestuale richiamo ad esigenze di economia processuale - è valsa a sorreggere l'enunciato secondo cui il potere di correzione della motivazione, ex art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., è esercitabile anche in presenza di un error in procedendo, quale la motivazione apparente, in ragione della funzione nomofilattica affidata dall'ordinamento alla Corte di cassazione.

Le altre pronunce riportate infra attengono tutte, più nello specifico, al profilo della autosufficienza del ricorso.

Sez. L, n. 24230, Rv. 633192, est. Lorito, ha, ad esempio, affermato che in tema di domande concernenti un superiore inquadramento, con le consequenziali ricadute in termini economici, per soddisfare il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il lavoratore ricorrente deve riportare integralmente il contenuto della norma di natura negoziale collettiva volta a fondare la pretesa, il cui accoglimento impone la puntuale comparazione tra le mansioni effettivamente svolte con quelle richieste dalla fonte negoziale, ai fini della attribuzione della qualifica richiesta.

Sez. L, n. 21083, Rv. 632888, est. Doronzo, ha precisato che la parte che deduca, con il ricorso per cassazione, il mancato esame dell'eccezione di prescrizione, è tenuta, oltre a far riferimento al momento in cui la stessa è stata proposta ai fini della sua ritualità (ex art. 416, secondo comma, cod. proc. civ.), a specificare - per consentire al giudice di legittimità di valutare la decisività della sollevata questione - le condizioni ed i presupposti necessari per accertare se la prescrizione sia decorsa o meno, sicché non può limitarsi a censurare genericamente, violando il principio di autosufficienza del ricorso, la mancata pronuncia sulla sollevata eccezione da parte del giudice del gravame.

Sez. L, n. 25482, in corso di massimazione, est. Doronzo, ha chiarito che il principio di autosufficienza del motivo di ricorso per cassazione, trovando applicazione anche con riferimento alla violazione di norme processuali, opera ove sia dedotto il vizio di ultra petizione. Pertanto il ricorrente è tenuto a trascrivere - ovvero ad indicare in quale fascicolo siano rinvenibili - gli atti difensivi dai quali dovrebbe dedursi l'estraneità al thema decidendum della questione esaminata dal giudice di merito, onde consentire alla Corte di verificare ex actis la veridicità dell'assunto posto a base della deduzione stessa. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso imperniato sulla generica affermazione che una determinata disposizione del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro non fosse stata mai citata da alcuna delle parti e nemmeno posta a fondamento delle domande e delle eccezioni).

D'altra parte Sez. L, n. 15437, Rv. 631850, est. Tria, ha stabilito che l'onere gravante sul ricorrente, ai sensi dell'art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., di depositare, a pena di improcedibilità, copia dei contratti o degli accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, può essere adempiuto, in base al principio di strumentalità delle forme processuali - nel rispetto del principio di cui all'art. 111 Cost., letto in coerenza con l'art. 6 della CEDU, in funzione dello scopo di conseguire una decisione di merito in tempi ragionevoli - anche mediante la riproduzione, nel corpo dell'atto d'impugnazione, della sola norma contrattuale collettiva sulla quale si basano principalmente le doglianze, purché il testo integrale del contratto collettivo sia stato prodotto nei precedenti gradi di giudizio e, nell'elenco degli atti depositati, posto in calce al ricorso, vi sia la richiesta, presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, di trasmissione del fascicolo d'ufficio che lo contiene, risultando forniti in tal modo alla S.C. tutti gli elementi per verificare l'esattezza dell'interpretazione offerta dal giudice di merito.

In ogni caso non è possibile integrare le scarne indicazioni contenute in ricorso con precisazioni contenute nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ., posto che quest'ultima ha l'esclusiva funzione di chiarire ed illustrare motivi di impugnazione che siano già stati ritualmente - cioè in maniera completa, compiuta e definitiva - enunciati nell'atto introduttivo del giudizio di legittimità, ed atteso altresì che con il ricorso per cassazione viene ad esaurirsi il relativo diritto di impugnazione (Sez. L, n. 26670, in corso di massimazione, est. Marotta).

6. Limiti del giudicato.

Meritano segnalazione due sentenze che, pur vertenti sul tema generale dei limiti del giudicato, si rivelano di interesse in quanto rese, in relazione a fattispecie particolari, nell'ambito della materia del lavoro e previdenziale.

In una - Sez. L, n. 2137, Rv. 629926, est. Venuti - è affermato che la sentenza passata in giudicato, "oltre ad avere un'efficacia diretta tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, ne ha anche una riflessa, poiché, quale affermazione oggettiva di verità, produce conseguenze giuridiche anche nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo nei quali sia stata resa qualora essi siano titolari di diritti dipendenti dalla situazione definita in quel processo, o comunque subordinati a questa".

Sulla base di tale principio è stato ritenuto che l'INPS abbia titolo ad avvalersi di sentenze, passate in giudicato, con cui sia stata accertata l'illegittimità della collocazione in cassa integrazione di alcuni lavoratori, avendo dette pronunce effetti restitutori sull'erogazione dell'integrazione salariale, a prescindere dalla causa di illegittimità di concessione della stessa e potendo, l'istituto previdenziale, richiedere al datore di lavoro i contributi commisurati all'intero importo della retribuzione dovuta ai lavoratori.

Nell'altra - Sez. L, n. 22838, Rv. 633052, est. Maisano - è stato chiarito che "in tema di riconoscimento di mansioni superiori, il giudicato formatosi in relazione ad un determinato momento contrattuale non preclude la proposizione di una ulteriore domanda, relativa al medesimo rapporto, ma riferita ad un diverso e successivo momento contrattuale, di modo che la pronuncia relativa all'illegittima esclusione da un concorso ed al conseguente risarcimento del danno non impedisce la proposizione di una successiva domanda avente ad oggetto il riconoscimento della qualifica a cui si riferiva la procedura concorsuale dichiarata illegittima, ma basata sull'effettivo svolgimento delle relative mansioni".

7. Overruling.

I principi a tutela dell'effettività dei mezzi di azione e difesa in materia di prospective overruling sono stati ritenuti applicabili - da Sez. L, n. 12521, Rv. 631039, est. Marotta - per le vicende anteriori al mutamento, radicale, di precedente e consolidato orientamento ad opera del giudice della nomofilachia, che ha portato a ritenere improcedibile l'appello ove non sia avvenuta la notificazione del ricorso, tempestivamente presentato nel termine di legge, e del decreto di fissazione dell'udienza (non essendo consentito al giudice assegnare all'appellante, ex art. 421 cod. proc. civ., un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell'art. 291 cod. proc. civ.).

Inoltre Sez. L, n. 13972, Rv. 631594, est. Napoletano - dopo aver affermato che in tema di ricorso per cassazione proposto contro la P.A., in caso di notifica nulla perché eseguita presso l'Avvocatura distrettuale, anziché presso l'Avvocatura generale dello Stato, non è ammissibile, eventualmente anche a distanza di anni dal deposito del ricorso, disporre il rinnovo della notificazione presso quest'ultima - ha ritenuto che il principio in questione abbia determinato un mutamento della precedente interpretazione (comunque poco tempo dopo ribadita da Sez. 2, n. 22079, Rv. 632870, est. Petitti) della norma processuale ed ha ugualmente disposto la rinnovazione della notifica, in relazione all'affidamento che il ricorrente aveva potuto riporre sulla precedente e consolidata giurisprudenza di legittimità.

8. Il cd. "rito Fornero".

Le sentenze intervenute in materia sono cinque, tutte segnalate (in un unico ed apposito paragrafo, al fine di renderne agevole e coerente la lettura) per la evidente rilevanza e novità delle questioni affrontate, soprattutto in relazione ad un settore, assai delicato, quale quello del processo - ideato, con profili di specialità, per addivenire alla rapida composizione di conflitti di interessi particolarmente qualificati, quali quelli implicati in licenziamenti assoggettati alla tutela reale -, in cui, tuttavia, il proliferare delle soluzioni, spesso antitetiche, non ha favorito, in passato, il soddisfacimento della primaria esigenza della certezza del diritto.

In primo luogo Sez. L, n. 10133, Rv. 630793, est. Bandini, ha affermato che avverso l'ordinanza resa ai sensi dell'art. 1, comma 49, della legge 28 giugno 2012, n. 92, non è ammesso appello, ma solo l'opposizione innanzi allo stesso giudice, per cui l'ordinanza non può essere impugnata con ricorso per saltum in cassazione, previsto dall'art. 360, secondo comma, cod. proc. civ. solo in relazione ad una "sentenza appellabile".

Successivamente, con una importante sentenza, resa in materia di regolamento di giurisdizione, ma contenente vari enunciati concernenti natura e caratteristiche della fase sommaria nonché di quella di opposizione, Sez. U, n. 19674, Rv. 632600, est. Amoroso, ha affermato che è ammissibile il regolamento di giurisdizione proposto nella prima fase del procedimento di impugnativa di licenziamento - di cui all'art. 1, commi 47 e segg., della legge citata - la quale, pur caratterizzata da sommarietà dell'istruttoria, ha natura semplificata e non cautelare in senso stretto (non occorrendo la prova di alcun concreto periculum), non riferendosi la sommarietà anche alla cognizione del giudice, né sussistendo un'instabilità dell'ordinanza conclusiva di tale fase, che è idonea al passaggio in giudicato in caso di omessa opposizione.

In aggiunta, nella sentenza in questione è stato precisato, per quanto di particolare interesse, che: a) nella fase sommaria, caratterizzata dalla mancanza di formalità, non opera, rispetto al rito ordinario (quello delle controversie di lavoro), il rigido meccanismo delle decadenze e delle preclusioni di cui agli artt. 414 e 416 cod. proc. civ.; b) la seconda fase è introdotta con un atto di opposizione che non è una revisio prioris istantiae, ma una prosecuzione del giudizio di primo grado, con cognizione piena a mezzo di tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti.

Con altra significativa decisione Sez. U, n. 17443, Rv. 632605, est. Di Cerbo, ha affermato che è ammissibile il regolamento di competenza con riguardo ad una pronuncia sulla litispendenza emessa nella fase sommaria, atteso il carattere solo eventuale della fase a cognizione piena e l'idoneità al passaggio in giudicato dell'ordinanza conclusiva della fase sommaria in caso di omessa opposizione, sicché è necessario che il giudice ammetta ed esamini la questione di rito.

In quest'ultima decisione è stato puntualizzato che ai fini della dichiarazione di litispendenza, occorre avere riguardo esclusivamente al criterio della prevenzione, mentre è irrilevante ogni indagine sull'effettiva competenza del giudice preventivamente adito a conoscere della controversia pur se il giudice successivamente adito sia titolare della competenza a conoscere della causa.

Principio analogo a quello da ultimo riportato è stato espresso, pur in tema di continenza, da Sez. L, n. 24790, in corso di massimazione, est. Garri; in particolare è stato specificato che tra la causa avente ad oggetto l'accertamento della legittimità del licenziamento proposta con il rito Fornero, pendente in fase di opposizione, e quella concernente l'impugnativa del medesimo licenziamento, introdotta con lo stesso rito dinanzi a giudice appartenente ad altra circoscrizione territoriale, pendente in fase sommaria, sussiste un rapporto di continenza. Pertanto, ai fini della determinazione del giudice competente occorre aver riguardo esclusivamente al criterio della prevenzione - rilevando a tal fine la data di deposito del ricorso, trovando applicazione, nel caso, il rito del lavoro, seppur nella forma speciale dettata per i licenziamenti dall'art. 1, commi 48 e ss., della legge 28 giugno 2012, n. 92 -, dovendo prescindersi dall'individuazione della causa contenente e di quella contenuta nonché dall'esame di profili processuali concernenti la domanda proposta davanti al giudice preventivamente adito.

In buona sostanza, con la testé riportata pronunzia sono state enunciate le seguenti conclusioni: a) non osta alla declaratoria di continenza la pendenza dei due giudizi in fasi diverse dello stesso grado; b) l'ipotetico difetto di interesse ad agire del datore per la legittimità del licenziamento irrogato non può farsi valere nel giudizio di regolamento di competenza, neppure incidenter tantum, occorrendo solo verificare se il giudice preventivamente adito sia competente anche per la causa successivamente proposta; c) in termini generali le questioni prospettate nel regolamento non possono investire profili processuali concernenti la domanda proposta dinanzi al giudice preventivamente adito, che devono considerarsi pertanto inammissibili (onde non è suscettibile di esame il profilo di pretesa utilizzazione abusiva del processo mediante l'opposizione datoriale avverso l'ordinanza che rigetta la domanda dello stesso datore per motivi processuali); d) la perdita, per il lavoratore, di una fase del giudizio - per essere stata la controversia attratta nella competenza del giudice della causa incardinata dal datore di lavoro e pendente in fase di opposizione - non costituisce una lesione del diritto di difesa, poiché nella fase di opposizione il lavoratore medesimo potrà agire con tutti gli strumenti previsti dall'ordinamento. Infatti "il ricorrente della causa contenuta sarebbe privato di una fase sommaria la cui finalità è però solo quella di consentire una possibile rapida e deformalizzata definizione della controversia. Per converso ove l'istruttoria della fase sommaria, per le ragioni più diverse, non venga svolta resta comunque garantita la pienezza della difesa della fase di opposizione (...). Se si è ritenuto che la perdita del doppio grado di giurisdizione non violi i principi costituzionali in tema di uguaglianza e difesa (...), a maggior ragione, allora, non offre il fianco a rilievi la scelta interpretativa cui consegua, per contingenti ragioni processuali, che la parte risulti privata della sola fase sommaria in cui si articola il giudizio di primo grado del processo di impugnazione del licenziamento regolato dalla legge c.d. Fornero".

Infine è stato affermato il principio secondo cui la disciplina speciale prevista dall'art. 1, comma 58, della legge 28 giugno 2012, n. 92, concernente il reclamo avverso la sentenza che decide sulla domanda di impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, va integrata con quella dell'appello nel rito del lavoro; sul punto Sez. L, n. 23021, in corso di massimazione, est. Arienzo, ha riconosciuto l'applicabilità, nel giudizio di cassazione, oltre che dei commi terzo e quarto dell'art. 348 ter cod. proc. civ., anche del comma quinto, il quale prevede che la disposizione di cui al precedente comma quarto - ossia l'esclusione del vizio di motivazione dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 cod. proc. civ. - si applica, fuori dei casi di cui all'art. 348 bis, comma secondo, lett. a, anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (cd. "doppia conforme").

  • ipoteca
  • esecuzione della sentenza
  • espropriazione

CAPITOLO XXX

IL PROCESSO DI ESECUZIONE

(di Raffaele Rossi )

Sommario

1 Premessa introduttiva: le ultime riforme in materia di esecuzione forzata. - 2 Titolo esecutivo. - 3 Caducazione del titolo esecutivo del creditore procedente ed effetti sugli interventi. - 4 Espropriazione presso terzi. - 4.1 Accertamento dell'obbligo del terzo. - 5 Espropriazione immobiliare: l'oggetto del pignoramento. - 5.1 La documentazione ipocatastale (art. 567 cod. proc. civ.). - 5.2 La vendita forzata e la tutela dell'aggiudicatario. - 5.3 L'intervento dei creditori. - 6 Esecuzioni in forma specifica. - 7 Opposizioni esecutive: profili comuni. - 8 Opposizione all'esecuzione e opposizione di terzo all'esecuzione. - 9 Opposizione agli atti esecutivi.

1. Premessa introduttiva: le ultime riforme in materia di esecuzione forzata.

La lunga stagione di riforma del processo esecutivo non sembra ancora essere terminata.

Dopo i plurimi interventi di modifica succedutisi nell'ultimo decennio (alcuni di tenore generale e sistematico, altri invece di natura più settoriale) che hanno completamente ridisegnato il volto dell'esecuzione forzata, nell'anno in rassegna il legislatore ha apportato (con il d.l. 12 settembre 2014, n. 132 convertito nella legge 10 novembre 2014, n. 162) ulteriori variazioni all'assetto dei procedimenti regolati dal libro terzo del codice di rito, recependo (e di ciò va meritoriamente dato atto) istanze o esigenze provenienti dalle concrete esperienze degli uffici giudiziari.

Esula dalle finalità del presente lavoro una compiuta ed analitica disamina della novella: ci si limiterà a dare conto, con cenni sintetici e rinvio al testo positivo, delle disposizioni modificate o di nuovo conio, tutte applicabili ai procedimenti iniziati a far data dal giorno 11 dicembre 2014 (cioè a decorrere dal trentesimo giorno successivo all'entrata in vigore della legge di conversione).

Nel descritto contesto, una delle principali innovazioni è rappresentata dalla previsione - contenuta nell'art. 492 bis cod. proc. civ. introdotto ex novo - della ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare, informata, in tutta evidenza, al rafforzamento delle potenzialità satisfattive dei crediti mediante uno strumento, efficiente ed efficace, di individuazione di beni oggetto di possibile aggressione esecutiva. Ai sensi della menzionata norma, "su istanza del creditore procedente il presidente del tribunale del luogo in cui il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede, verificato il diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata, autorizza la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare" e "dispone che l'ufficiale giudiziario acceda mediante collegamento telematico diretto ai dati contenuti nelle banche dati delle pubbliche amministrazioni o alle quali le stesse possano accedere e, in particolare, nell'anagrafe tributaria, compreso l'archivio dei rapporti finanziari, nel pubblico registro automobilistico e in quello degli enti previdenziali". L'esito della ricerca, finalizzata alla "acquisizione di tutte le informazioni rilevanti per l'individuazione di cose e crediti da sottoporre ad esecuzione, comprese quelle relative ai rapporti intrattenuti dal debitore con istituti di credito e datori di lavoro o committenti" viene trasfuso in un processo verbale, unico per le risultanze di tutte le banche dati interrogate. Qualora l'accesso dia esito positivo, l'ufficiale giudiziario procede - è dubbio se a tal fine vi sia necessità di ulteriore istanza del creditore - alla sottoposizione al vincolo del pignoramento dei beni così individuati, con modalità differenziate in ragione della natura degli stessi: se cose, nei modi tipici della espropriazione mobiliare; se invece crediti del debitore, con notifica di ufficio al debitore e al terzo del verbale, contenente l'indicazione del credito per cui si procede, del titolo esecutivo e del precetto, dei dati identificativi del creditore, dell'invito e dell'avvertimento di cui all'art. 492, primo, secondo e terzo comma, cod. proc. civ., nonché dell'intimazione al terzo di non disporre delle cose o delle somme dovute nei limiti di cui all'art. 546 cod. proc. civ.. Completano la disciplina del nuovo meccanismo di effettuazione del pignoramento disposizioni di raccordo con le varie tipologie di espropriazioni (l'art. 518, sesto comma, cod. proc. civ., per le procedure mobiliari; l'art. 543, quinto comma, cod. proc. civ., per i procedimenti presso terzi) e norme di dettaglio (concernenti la definizione degli archivi e delle banche dati consultabili, delle modalità di esercizio della facoltà di accesso, della partecipazione del creditore alle operazioni, dell'ambito di applicazione dell'istituto) dettate negli articoli da 155 bis a 155 sexies delle disposizioni di attuazioni del codice di rito.

Sicura originalità connota altresì la regolamentazione del pignoramento di autoveicoli, motoveicoli e rimorchi operata dall'art. 521 bis cod. proc. civ. (norma di nuova introduzione). In ragione del regime di pubblicità cui sono assoggettati siffatti beni mobili, il pignoramento è configurato come una fattispecie complessa a formazione progressiva, integrata da una sequenza di attività: in primis, un atto notificato al debitore e successivamente trascritto recante l'esatta indicazione, con gli estremi richiesti dalle leggi speciali per la iscrizione nei pubblici registri, dei beni e dei diritti che si intendono sottoporre ad esecuzione nonché l'intimazione a consegnare entro dieci giorni il veicolo (e i titoli e documenti relativi alla proprietà e all'uso dello stesso) all'istituto vendite giudiziarie operante nel circondario del tribunale del luogo di residenza del debitore; di poi, la effettiva consegna del veicolo dal debitore all'istituto vendite giudiziarie, il quale ne assume la custodia, di ciò dando immediata comunicazione al creditore pignorante. Così apposto il vincolo del pignoramento, il creditore procedente è onerato di dare ulteriore impulso alla procedura, che si sviluppa secondo le forme della espropriazione immobiliare (l'art. 521 bis è infatti inserito nel capo secondo del libro terzo del cod. proc. civ.).

Un mutamento radicale investe inoltre il modus ingrediendi delle procedure di espropriazione forzata, e segnatamente la formazione del fascicolo dell'esecuzione. Con modifiche che attingono le tre tipologie espropriative (l'art. 518, sesto comma, cod. proc. civ., per la mobiliare; l'art. 543, quinto comma, cod. proc. civ. per la presso terzi; l'art. 557, primo comma, cod. proc. civ., per la immobiliare), si è infatti stabilito che l'ufficiale giudiziario, completate le attività (differenti nelle varie forme di espropriazione) di sua pertinenza ai fini dell'asservimento esecutivo del bene, consegna l'atto (oppure il verbale) di pignoramento al creditore procedente; quest'ultimo, ai fini della formazione del fascicolo dell'esecuzione, è tenuto a depositare l'atto di pignoramento, in uno ad altra documentazione (nota di iscrizione a ruolo, copie conformi di titolo esecutivo e precetto) nella cancelleria del tribunale competente, in un termine perentorio decorrente dalla consegna (quindici giorni per espropriazioni mobiliari e immobiliari; trenta giorni per la presso terzi) sancito espressamente a pena di inefficacia del pignoramento (che consegue anche al mancato deposito della sola nota di iscrizione a ruolo: art. 164 ter disp. att. cod. proc. civ.).

Rilevanti le altre novità in tema di espropriazione presso terzi:

- l'introduzione del foro relativo all'espropriazione di crediti (art. 26 bis cod. proc. civ.), con competenza devoluta al giudice del luogo di residenza, domicilio, dimora o sede del debitore esecutato, ad eccezione delle procedure in danno delle pubbliche amministrazioni indicate nell'art. 413, quinto comma, cod. proc. civ., caso in cui rimane fermo il tradizionale criterio del luogo di residenza del terzo pignorato, salvo quanto disposto da leggi speciali;

- la integrazione del requisito di contenuto - forma previsto dall'art. 543, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., per l'atto di pignoramento, arricchito - per dissipare non irragionevoli dubbi di costituzionalità sollevati dalla più attenta dottrina con riguardo alla previgente formulazione - dell'avvertimento al terzo "che in caso di mancata comunicazione della dichiarazione, la stessa dovrà essere resa dal terzo comparendo in un'apposita udienza e che quando il terzo non compare o, sebbene comparso, non rende la dichiarazione, il credito pignorato o il possesso di cose di appartenenza del debitore, nell'ammontare o nei termini indicati dal creditore, si considereranno non contestati ai fini del procedimento in corso e dell'esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione";

- la generalizzazione delle modalità semplificate con cui il terzo può rendere - in prima battuta - la dichiarazione di quantità, da inviarsi al creditore a mezzo raccomandata o posta elettronica certificata (art. 547, primo comma, cod. proc. civ.), con l'abrogazione della differente forma di dichiarazione (comparizione del terzo in udienza innanzi al g.e.) in precedenza prescritta per i pignoramenti aventi ad oggetto crediti retributivi;

- la correlata modifica della fattispecie perfezionativa del pignoramento per "non con-testazione" (rectius, per comportamento concludente) del terzo pignorato, ricondotta all'unico schema della fissazione ad opera del g.e. di una udienza successiva alla prima, con possibilità per il terzo di rendere la dichiarazione mediante comparizione alla seconda udienza (art. 548 cod. proc. civ.).

In merito alle espropriazioni immobiliari, va segnalata la - assai stringente - limitazione della facoltà di disporre la vendita forzata con incanto, subordinata ora (art. 503 cod. proc. civ.; art. 569, terzo comma, cod. proc. civ.) alla probabilità, ritenuta dal g.e., che la vendita "con tale modalità abbia luogo ad un prezzo superiore della metà rispetto al valore del bene, determinato a norma dell'articolo 568".

Di portata generale (cioè a dire applicabile a tutte le forme di espropriazione forzata diretta) appare poi la innovativa previsione (in realtà, trasposizione positiva di prassi diffusamente invalse tra i giudici di merito) di un provvedimento di chiusura anticipata per infruttuosità del processo esecutivo, adottabile "quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo" (art. 164 bis disp. att. cod. proc. civ.).

Concerne infine l'esecuzione per rilascio di beni immobili l'articolato meccanismo delineato nel novellato art. 609 cod. proc. civ. per la liberazione dell'immobile oggetto di rilascio dai beni mobili estranei all'esecuzione nello stesso rinvenuti, problema ricorrente nella pratica e foriero di notevoli difficoltà operative.

2. Titolo esecutivo.

La centralità del principio nulla executio sine titulo - vero e proprio cardine del sistema delle azioni esecutive - ha trovato riscontro ed approfondimento nelle pronunce dell'anno.

Con riferimento a procedure esecutive caratterizzate da complessità soggettiva dal lato attivo (ovvero della partecipazione, oltre al pignorante, di creditori interventori), la basilare Sez. U, n. 61, Rv. 628705, est. Spirito, ha precisato che la regola della cd. immanenza del titolo esecutivo (per cui quest'ultimo, condizione necessaria e sufficiente dell'azione, deve esistere, valido ed efficace, dal momento iniziale del procedimento sino alla conclusione dello stesso) va intesa nel senso di non postulare necessariamente la continuativa sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì di richiedere la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo - sia pure posto a base dell'azione spiegata dall'interventore - che giustifichi la perdurante efficacia del pignoramento (il principio così enucleato è servito per risolvere il contrasto esegetico circa le ricadute della caducazione del titolo esecutivo del procedente sulla posizione dei creditori intervenuti: sul tema, cfr. diffusamente, infra, sub 3.).

Compete al giudice dell'esecuzione accertare se la intrapresa esecuzione forzata sia fondata su un provvedimento giudiziale o un atto stragiudiziale sussumibile nel catalogo, tassativo e tipico, dei titoli esecutivi individuato dall'art. 474 cod. proc. civ. e da altre specifiche disposizioni di legge (cd. extravagantes).

Così, in tema di titoli stragiudiziali, per Sez. 3, n. 19738, Rv. 632703, est. Vivaldi, il riconoscimento della qualità di titolo esecutivo all'atto ricevuto da notaio, relativamente alla obbligazione di somma di denaro generata dal negozio nello stesso documentato, presuppone che esso contenga l'indicazione degli elementi strutturali essenziali dell'obbligazione indispensabili per la funzione esecutiva, e dipende dalla pubblica fede attribuita dal notaio rogante e non dalla particolare efficacia probatoria dell'atto (in forza di detto principio, è stata reputata irrilevante la mancanza del timbro di congiunzione tra le pagine dell'atto o di quello attestante la conformità del documento all'originale).

Quanto ai titoli di formazione giudiziale, poi, l'indagine del giudice deve vertere sulla ricorrenza nel provvedimento azionato dei caratteri propri del titolo esecutivo: nella vicenda esaminata da Sez. 3, n. 1984, Rv. 629879, est. Frasca, si è ritenuto che la simultanea presenza nel provvedimento monitorio - invocato come titolo esecutivo giudiziale, sebbene non ancora definitivo poiché oggetto di opposizione ex art. 645 cod. proc. civ. - dell'ingiunzione di "pagare senza dilazione" e dell'avvertimento del diritto del debitore "di proporre opposizione" in mancanza della quale il decreto "diverrà esecutivo", deve condurre a disconoscere al provvedimento monitorio efficacia esecutiva, in base al rilievo che il decreto ingiuntivo viene, di regola, emesso non esecutivo, essendo le ipotesi contrarie, tutte tipizzate, operanti in via di eccezione.

La verifica giudiziale si atteggia in modo peculiare in relazione al requisito, indefettibilmente prescritto dall'art. 474 cod. proc. civ., della liquidità del credito incorporato nel titolo esecutivo, ovvero della determinatezza o della determinabilità della prestazione da attuare coattivamente: sulla scia dell'insegnamento di Sez. U, n. 11066 del 2012, Rv. 622929, Sez. 3, n. 23159, Rv. 633259, est. De Stefano, nell'individuare un temperamento alla cd. autosufficienza del titolo, ha affermato che, ai fini di superare l'incertezza circa l'esatta estensione dell'obbligo da attuare, il titolo esecutivo giudiziale non si esaurisce nel documento in cui è consacrato l'obbligo da eseguire, ma è consentita l'interpretazione extratestuale del provvedimento, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato, tutte le volte che delle relative questioni si sia trattato nel corso del processo e che esse possano intendersi come ivi univocamente definite, essendo mancata soltanto la concreta estrinsecazione della soluzione nel dispositivo o perfino nel tenore stesso del titolo.

Idoneità in executivis è stata riconosciuta - da Sez. 3, n. 891, Rv. 629442, est. Amendola - al capo di condanna alle spese contenuto nella sentenza che decide sulla querela di falso, argomentando dal rilievo che in detto giudizio solo l'attuazione delle pronunce accessorie, indicate nell'art. 226, secondo comma, cod. proc. civ., è subordinata al passaggio in giudicato della sentenza.

Dal punto di vista soggettivo, fermo che la legittimazione (attiva e passiva) all'azione esecutiva va individuata sulla base del contenuto del titolo esecutivo, Sez. 3, n. 4699, Rv. 630076, est. Frasca, in ipotesi di cancellazione dal registro delle imprese di società a responsabilità limitata, ha escluso che l'accertamento giudiziale del credito verso la società, pur contenuto in provvedimento avente forza di giudicato, possa essere azionato dal creditore come titolo esecutivo direttamente nei confronti dei soci o dei liquidatori, attesa la necessità di agire in giudizio contro gli uni e gli altri per l'accertamento dei presupposti ex art. 2495 cod. civ. per il sorgere della responsabilità degli stessi per i debiti sociali.

In ipotesi di esecuzione promossa in danno di un soggetto diverso da quello indicato nel titolo, Sez. 3, n. 12286, Rv. 631028, est. Barreca, ha stabilito che in caso di contestazione sulla efficacia soggettiva del titolo, grava sul creditore procedente dimostrare che l'esecuzione è stata intrapresa nei confronti di colui che è succeduto nella situazione sostanziale ex latere debitoris, per essersi verificato, prima della formazione del titolo giudiziale, uno dei fatti previsti dall'art. 111 cod. proc. civ., ovvero, dopo la formazione del titolo stesso, dall'art. 477 cod. proc. civ.

3. Caducazione del titolo esecutivo del creditore procedente ed effetti sugli interventi.

Nel panorama della giurisprudenza di legittimità dell'anno in rassegna, si staglia, come assolutamente centrale, Sez. U, n. 61, Rv. 628705, est. Spirito, avente ad oggetto la questione - di massima importanza e sulla quale era sorto contrasto tra pronunce della S.C. - degli effetti della caducazione del titolo esecutivo del creditore procedente sul processo esecutivo in presenza di pignoramenti riuniti e di interventi nella procedura di altri creditori muniti di titolo esecutivo.

Per dirimere la questione - involgente, funditus, la corretta definizione della natura e dell'efficacia dell'intervento del creditore nell'azione esecutiva esperita da altro creditore con atto di pignoramento - le Sezioni Unite muovono da due premesse.

In primo luogo, valorizzano nel sistema della tutela esecutiva il principio della par condicio creditorum e rifiutano il riconoscimento di un diritto "di priorità" al creditore procedente, da ciò facendo derivare (in una lettura così orientata dell'art. 500 cod. proc. civ.) che il creditore intervenuto munito di titolo si trova in situazione paritetica rispetto al creditore procedente, ambedue legittimati all'azione esecutiva nascente dai rispettivi titoli ed esercitata da ciascuno di essi con differenti modalità (con il pignoramento oppure con l'atto di intervento) e quindi ambedue muniti del potere (non soltanto di concorrere alla distribuzione del ricavato ma) di provocare i singoli atti di impulso della procedura espropriativa.

D'altro canto, attribuiscono rilevanza meramente oggettiva alle attività spiegate per l'impulso e lo sviluppo del processo esecutivo (con totale indifferenza rispetto al creditore titolato che le ponga in essere), tutte dirette a comporre un'unica sequenza che si dipana dal pignoramento per concludersi con la vendita del bene staggito e la successiva distribuzione del ricavato, per cui l'atto di impulso compiuto da un legittimato "si partecipa" agli altri potenziali legittimati: nel momento in cui spiega intervento, il creditore munito di titolo (ex se abilitato a compiere singoli atti della espropriazione) partecipa al pignoramento da altri eseguito prima dell'intervento, pignoramento che si pone come indispensabile primo atto di concretizzazione dell'azione esecutiva (in ipotesi spettante anche all'interventore titolato) e necessario presupposto degli atti esecutivi successivi.

Sulla scorta di questa ricostruzione sistematica, intesa la regola dell'immanenza del titolo esecutivo come costante presenza nel corso del procedimento di almeno un valido titolo esecutivo (sia pure dell'interventore) che giustifichi l'efficacia del pignoramento, la pronuncia - suffragando la impostazione del remoto precedente di Sez. 3, n. 427 del 1978, Rv. 389729 - afferma il principio secondo cui nel processo di esecuzione forzata al quale partecipino più creditori concorrenti, le vicende relative al titolo esecutivo (sospensione, sopravvenuta inefficacia, caducazione, estinzione) in forza del quale il procedente ha eseguito un pignoramento in origine valido, non travolgono la posizione dei creditori interventori titolati, cioè a dire non ostacolano la prosecuzione del procedimento ad iniziativa dell'interventore munito di idoneo ed efficace titolo, a prescindere dall'effettuazione di un pignoramento successivo.

A questa affermazione di tenore generale si accompagnano però una serie di pregnanti puntualizzazioni.

Innanzitutto, si chiarisce che il principio non può operare quando l'intervento del creditore sia stato spiegato dopo che sia stata pronunciata la caducazione del titolo del procedente e l'azione esecutiva si sia arrestata, dacché, in tal caso, non esistendo un valido pignoramento al quale collegarsi, il procedimento esecutivo diviene improseguibile e non consente interventi successivi.

Si distingue poi la invalidità sopravvenuta del titolo esecutivo del procedente derivante dalla cd. caducazione, conseguenza cioè degli sviluppi del giudizio di cognizione nel quale il titolo stesso si è formato o dell'impugnazione di esso (fattispecie che consente l'estensione in favore degli interventori titolati di tutti gli atti compiuti dal procedente nella perdurante validità del titolo) dalle diverse (e variegate) ipotesi di invalidità originaria del pignoramento.

In tale ultima categoria, la S.C. ricomprende il pignoramento inficiato da vizi intrinseci o da vizi degli atti prodromici (non sanati per omessa tempestiva opposizione e non sanabili) o ancora da mancanza dei presupposti processuali dell'azione esecutiva, situazioni cui assimila l'invalidità per impignorabilità dei beni staggiti o per lesione dei diritti dei terzi fatti valere ex art. 619 cod. proc. civ.: tutte vicende in cui il vizio dell'atto iniziale del procedimento si propaga a tutti gli atti esecutivi successivi, talché venuto meno il pignoramento risultano travolti anche gli interventi spiegati nella procedura.

Analoga conclusione si impone per i casi di difetto originario di titolo, ovvero quando il pignoramento sia stato effettuato in forza di un atto o di un provvedimento geneticamente inidoneo a sorreggere l'azione esecutiva: titoli viziati da giuridica inesistenza, privi di efficacia esecutiva oppure documenti non riconducibili al tipizzato novero dei titoli esecutivi, anche per difetto dei caratteri di certezza, liquidità ed esigibilità connotanti il credito suscettibile di attuazione coattiva (ad esempio, condanna generica).

Soltanto nelle descritte situazioni di invalidità originaria del pignoramento o di difetto originario del titolo diviene rilevante l'opzione alternativa che si pone al creditore munito di titolo tra l'intervento nella procedura da altri intrapresa o l'effettuazione di un pignoramento successivo sugli stessi beni già in precedenza staggiti, la cui autonomia ed indipendenza, sancita dall'art. 493 cod. proc. civ., elide ogni incidenza negativa delle possibili sorti del primo pignoramento, ancorché riunito a quello successivo.

4. Espropriazione presso terzi.

In tema di espropriazione presso terzi, l'esame della pronunce della Suprema Corte emesse nell'anno in rassegna assume un duplice significato: per un verso, nella visuale della tradizionale e tipica funzione della nomofilachia (cioè a dire della corretta interpretazione della disciplina normativa ratione temporis applicabile alle vicende esaminate); d'altro canto, e soprattutto, nella prospettiva della lettura ermeneutica dell'assetto della procedura espropriativa (e delle relative problematiche applicative) risultante, nella travagliata evoluzione legislativa connotante l'istituto, dalle modificazioni introdotte - dapprima - dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228 e - da ultimo - dal d.l. n. 132 del 2014, convertito nella legge n. 162 del 2014, sopra (sub 1.) sommariamente descritte.

Nell'individuato punto di vista, si segnala anzitutto Sez. 3, n. 6518, Rv. 630204, est. Lanzillo: in tema di espropriazione presso terzi, la domanda di accertamento del credito, nel contenere, ai sensi dell'art. 543, secondo comma, n. 2, cod. proc. civ., "l'indicazione, almeno generica, delle cose e delle somme dovute", si estende, potenzialmente, all'intero importo che si accerti dovuto dal debitore esecutato sulla base dei fatti e del titolo dedotti in giudizio, non potendosi esigere dal creditore procedente, estraneo ai rapporti tra debitore e terzo, la conoscenza dei dati esatti concernenti tali somme o cose, prevedendo il sistema che tale genericità venga eliminata mediante la dichiarazione che il terzo è chiamato a rendere ai sensi dell'art. 547 cod. proc. civ.. La decisione segna una traccia da seguire anche nel mutato assetto della espropriazione presso terzi introdotto dalla legge n. 228 del 2012, per risolvere i dubbi ermeneutici in caso di indicazione assolutamente generica del credito staggito nell'atto ex art. 543 cod. proc. civ., dubbi concernenti la validità dell'atto introduttivo della procedura e la operatività del nuovo meccanismo perfezionativo della fattispecie del pignoramento costituito dalla "non contestazione" (rectius, dal comportamento concludente) del terzo pignorato.

Con riferimento alla posizione rivestita dal terzo pignorato ed agli strumenti a sua tutela, Sez. 3, n. 11642, Rv. 631025, est. Cirillo, ha chiarito che nel regime dell'art. 543 cod. proc. civ., come modificato dall'art. 11 della legge 24 febbraio 2006 n. 52, ove si tratti di espropriazione di un credito per cui non sia prevista la citazione del terzo a comparire per rendere la dichiarazione di cui all'art. 547 cod. proc. civ. bensì la comunicazione a mezzo raccomandata da parte del medesimo al creditore circa l'esistenza del credito, il termine per proporre opposizione agli atti esecutivi avverso l'ordinanza di assegnazione ex art. 553 cod. proc. civ. decorre, per il terzo, dal momento in cui questi ne abbia legale conoscenza tramite comunicazione da parte del creditore o con altro strumento idoneo, e non già dalla data di emissione del provvedimento stesso, non trovando applicazione la previsione dell'art. 176, secondo comma, cod. proc. civ.: sentenza di assoluto rilievo, considerata la generalizzazione delle modalità semplificate di rendimento della dichiarazione del terzo (lettera raccomandata o posta elettronica certificata) operata dalla legge n. 162 del 2014.

Degli effetti sostanziali del pignoramento presso terzi avente ad oggetto crediti si è occupata Sez. 1, n. 10683, Rv. 631261, est. Didone, statuendo che l'art 2917 cod. civ., secondo cui l'estinzione del credito pignorato per cause verificatesi in epoca successiva al pignoramento non ha effetto in pregiudizio dei creditori, si riferisce non solo ai fatti volontari (quali il pagamento, la novazione, la rimessione), ma a qualunque causa estintiva, in quanto il pignoramento comporta l'indisponibilità e la separazione dal residuo patrimonio del credito pignorato, che resta, pertanto, insensibile a tutte le posteriori cause di estinzione, ivi compresa la compensazione legale per effetto della coesistenza dei reciproci crediti e debiti verificatasi dopo il pignoramento.

4.1. Accertamento dell'obbligo del terzo.

Una valenza precipuamente "storica" assumono alcune pronunce concernenti il giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo, poiché inerenti specificamente alla natura di processo a cognizione piena ed esauriente da svolgersi nelle articolate forme disciplinate dal libro secondo del codice di rito, natura profondamente stravolta dalla legge n. 228 del 2012, con la "degradazione" dell'accertamento dell'obbligo del terzo a mero incidente endoesecutivo, strutturato all'attualità come subprocedimento a cognitio sommaria nell'ambito della procedura di espropriazione.

In questo filone si colloca Sez. U, n. 3773, Rv. 629605, est. Virgilio, la quale, per affermare l'ammissibilità della insorgenza di questioni di giurisdizione nel giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo ex art. 548 cod. proc. civ. (nel caso esaminato, per dichiarare la giurisdizione del giudice tributario su controversia avente ad oggetto l'esistenza di un credito di imposta del contribuente debitore esecutato), ha precisato - ponendosi nel solco dell'indirizzo euristico aperto da Sez. U, n. 25037 del 2008, Rv. 605488 - che il giudizio di accertamento non ha rilevanza limitata alla sola azione esecutiva ma - anche per motivi di economia e celerità processuale postulati dal giusto processo ex art. 111 Cost. - si conclude con una sentenza dal duplice contenuto di accertamento: l'uno, idoneo ad acquistare autorità di cosa giudicata sostanziale tra le parti del rapporto, avente ad oggetto il credito del debitore esecutato (che, pertanto, è litisconsorte necessario) nei confronti del terzo pignorato; l'altro, di rilevanza meramente processuale, attinente all'assoggettabilità del credito pignorato all'espropriazione forzata, efficace nei rapporti tra creditore procedente e terzo debitor debitoris e come tale rilevante ai soli fini dell'esecuzione in corso.

Nella medesima prospettiva va letta Sez. 6-3, n. 24047, Rv. 633361, est. Ambrosio: al giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo (nel regime dell'art. 549 cod. proc. civ. anteriore alla legge n. 228 del 2012) non si applica la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, sussistendo l'interesse alla sollecita definizione di tale giudizio, considerato che il processo esecutivo è, nelle more di svolgimento di esso, sospeso.

In tema di accertamento dell'obbligo del terzo, ma con principio suscettibile di applicazione anche nel novellato ordito procedimentale, Sez. 6-3, n. 6760, Rv. 630199, est. Ambrosio, ha chiarito che il creditore procedente, agendo non in nome e per conto del proprio debitore ma iure proprio e nei limiti del proprio interesse, è tenuto a dimostrare l'esistenza del credito del suo debitore o l'appartenenza a questi della cosa pignorata, mentre il terzo pignorato, che eccepisca di avere soddisfatto le ragioni creditorie del debitore esecutato, è onerato della prova del fatto estintivo dedotto ed anche dell'anteriorità di esso al pignoramento, con i limiti di opponibilità, rispetto al creditore, della data delle scritture sottoscritte dal debitore.

5. Espropriazione immobiliare: l'oggetto del pignoramento.

Svariati i profili di disciplina della espropriazione immobiliare passati al vaglio del giudice della nomofilachia.

Muovendosi secondo l'ordinaria serie procedimentale, vanno considerate in primis le pronunce afferenti la corretta individuazione dell'oggetto dell'azione esecutiva, tematica resa problematica dalla struttura di atto complesso del pignoramento ex art. 555 cod. proc. civ. e dalle incidenze delle regole della pubblicità immobiliare.

Sul punto, ad avviso di Sez. 6-3, n. 2110, Rv. 629847, est. Ambrosio, la mancata o erronea indicazione nell'atto di pignoramento (e nella relativa nota di trascrizione) degli elementi identificativi del bene pignorato richiesti dall'art. 555 cod. proc. civ. (e dal richiamato art. 2826 cod. civ.) non è causa di nullità dell'atto di pignoramento, salvo che non comporti assoluta incertezza sulla fisica identificazione del bene aggredito in via esecutiva.

Sulla contigua questione della estensione del vincolo del pignoramento alle res avvinte all'immobile staggito da rapporto pertinenziale, la S.C., nella ricerca della più corretta esegesi del disposto dell'art. 2912 cod. civ., ha valorizzato l'intrinseca idoneità del dato catastale ai fini della univoca identificazione del bene nel sistema di pubblicità immobiliare improntato ad esigenze di certezza dei traffici giuridici. In virtù di queste premesse, Sez. 3, n. 11272, Rv. 630881, est. De Stefano, ha chiarito che la mancata indicazione espressa, nel pignoramento e nella nota di trascrizione, dei dati identificativi catastali propri, esclusivi ed univoci, di un bene pur astrattamente configurabile come pertinenza del bene staggito integra, in difetto di ulteriori ed altrettanto univoci elementi di tenore contrario (ricavabili, ad esempio, da idonee menzioni nel quadro relativo alla descrizione dell'oggetto o nel quadro "D" della nota meccanizzata), un indice decisivo in senso contrario alla operatività della presunzione ex art. 2912 cod. civ. ed alla estensione del pignoramento a quella specifica pertinenza.

Sempre sull'argomento, assai inconsueta (e sol per questo degna di menzione) la fattispecie esaminata da Sez. 3, n. 10653, Rv. 630894, est. De Stefano: quando oggetto di espropriazione immobiliare sono quote di un'unità poderale - già costituita in comprensorio di bonifica da enti di colonizzazione o da consorzi di bonifica ed in origine assegnata in proprietà a contadini diretti coltivatori, ai sensi della legge 3 giugno 1940, n. 1078 - pervenute ai debitori in forza di successione a causa di morte anteriore all'entrata in vigore della legge 19 febbraio 1992, n. 191, la persistente infrazionabilità del bene preclude la vendita giudiziaria delle quote indivise, con la conseguenza che trova applicazione la speciale procedura camerale prevista dagli artt. 5 e segg. della legge n. 1078 del 1940 invece dell'ordinario giudizio di divisione previsto dall'art. 601 cod. proc. civ..

Da ultimo, va segnalato come Sez. 3, n. 11534, Rv. 631066, est. Sestini, abbia escluso la espropriabilità di beni immobili facenti parte del patrimonio indisponibile di enti pubblici territoriali in forza della destinazione a pubblico servizio, e ciò anche nella ipotesi in cui l'ente abbia acquistato i beni (e costituito il vincolo pubblicistico) in epoca successiva alla iscrizione di ipoteca ad opera del creditore procedente in via esecutiva.

5.1. La documentazione ipocatastale (art. 567 cod. proc. civ.).

Elemento che contraddistingue l'espropriazione immobiliare, strettamente correlato alla natura giuridica del bene staggito, è il deposito della documentazione ipocatastale prevista dall'art. 567 cod. proc. civ. (precisamente, dell'estratto del catasto e dei certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all'immobile pignorato effettuate nei venti anni anteriori alla trascrizione del pignoramento, documentazione che può essere sostituita da certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari), deposito configurato dal legislatore come atto di impulso della procedura da compiersi a cura ed onere della parte creditrice entro un termine perentorio, a pena di inefficacia del pignoramento e di estinzione del procedimento.

Sul tema, motivo di frequenti e assai disputate questioni, fondamentale importanza riveste, anche per l'acuto approccio ermeneutico, Sez. 3, n. 11638, Rv. 631302, est. Barreca. In primo luogo, la decisione grava il giudice dell'esecuzione del potere - dovere di verificare, mediante l'esame della documentazione ipocatastale ex art. 567 cod. proc. civ. (come prodotta ab origine dalla parte creditrice oppure come integrata in ottemperanza di ordine del g.e.), la titolarità in capo al debitore esecutato del diritto (di proprietà o diritto reale minore) pignorato sul bene immobile, verifica di natura formale e non sostanziale, cioè basata su indici di appartenenza del bene desumibili dalle risultanze dei registri immobiliari, e consistente nell'accertamento della esistenza della trascrizione di un titolo d'acquisto a favore del debitore esecutato e della inesistenza di trascrizioni a carico dello stesso debitore relative ad atti di disposizione del bene precedenti la trascrizione dell'atto di pignoramento.

Ancora la medesima Sez. 3, n. 11638, Rv. 631303, est. Barreca - concernente una espropriazione immobiliare esattoriale ma con affermazione di principio espressamente compiuta con generale riferimento all'espropriazione forzata codicistica - affronta la dibattuta ipotesi del pignoramento avente ad oggetto un diritto reale su bene immobile acquistato mortis causa dal debitore esecutato. Precisato che, in tal caso, la continuità delle trascrizioni - imprescindibile presidio a garanzia della stabilità della vendita forzata ed a salvaguardia dell'acquisto a titolo derivativo dell'aggiudicatario da possibili evizioni - è assicurata dalla trascrizione di una dichiarazione (espressa o tacita) di accettazione dell'eredità ex art. 2650 cod. civ., la S.C. conferisce al creditore, ove non risulti trascritta la dichiarazione di accettazione dell'eredità ad opera del chiamato - debitore esecutato, la facoltà di richiedere, anche dopo il pignoramento ma purché prima della ordinanza di vendita, la trascrizione di un atto del chiamato (atto pubblico oppure scrittura privata autenticata o giudizialmente accertata) comportante accettazione tacita dell'eredità; conseguentemente, la pronuncia precisa che, qualora non sussista continuità delle trascrizioni e non si individuino atti trascrivibili comportanti accettazione tacita oppure si assuma che l'acquisto della qualità di erede sia seguito ex lege ai comportamenti concludenti di cui agli artt. 485 o 527 cod. civ., la vendita coattiva del bene pignorato può essere ordinata soltanto dopo che la qualità di erede del debitore esecutato sia stata giudizialmente accertata con sentenza.

5.2. La vendita forzata e la tutela dell'aggiudicatario.

Di pregnante rilievo gli interventi della S.C. relativi al subprocedimento di vendita forzata ed ai possibili vizi inficianti lo stesso.

Con riferimento ad una fattispecie di esecuzione esattoriale ma con espressione di principio di carattere generale, Sez. 3, n. 26930, Rv. 633727, est. Stalla, ha ritenuto che la nullità della notifica dell'avviso di vendita al debitore esecutato, in quanto posta a presidio dell'integrità del contraddittorio e delle facoltà difensive dell'esecutato stesso, si propaga, in forza dell'art. 159 cod. proc. civ., a tutti gli atti consequenziali, non trovando applicazione la regola di protezione dell'acquisto dell'aggiudicatario dettata dall'art. 2929 cod. civ., la quale presuppone la validità della vendita intesa come intera fase sub procedimentale.

Differenti invece le conseguenze della omessa notificazione (prescritta dall'art. 569, ultimo comma, cod. proc. civ.) dell'ordinanza di fissazione delle modalità della vendita ai creditori iscritti ex art. 498 cod. proc. civ. non comparsi all'udienza: qualora l'assegnazione o la vendita avvengano egualmente in difetto di siffatto adempimento, secondo Sez. 3, n. 18336, Rv. 632611, est. De Stefano, non si verifica alcuna nullità degli atti esecutivi ma si determina soltanto la responsabilità, ex art. 2043 cod. civ., del creditore procedente per le conseguenze dannose subite dai creditori iscritti a seguito del provvedimento di vendita o di assegnazione emesso illegittimamente, giacché la mancata notifica dell'avviso costituisce violazione di un obbligo imposto da una norma giuridica ed integra un'ipotesi di illecito extracontrattuale.

Ancora sul medesimo argomento vanno ricordate:

- Sez. 3, n. 26884, Rv. 633924, est. Chiarini, secondo cui avverso il provvedimento di concessione di proroga del termine per il versamento del prezzo, ancorché illegittimo, non è esperibile opposizione agli atti esecutivi, potendo invece la parte interessata proporre istanza al giudica dell'esecuzione per sollecitare la revoca del provvedimento e la declaratoria di decadenza dell'aggiudicatario, pronunciabile sino a quanto non sia emesso il decreto di trasferimento;

- Sez. 3, n. 5796, Rv. 629962, est. Cirillo, secondo cui il decreto di trasferimento ex art. 586 cod. proc. civ., ancorché avente ad oggetto un bene in tutto o in parte diverso da quello pignorato, non è inesistente, ma solo affetto da invalidità, da far valere con il rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi nei termini ex art. 617 cod. proc. civ., ferma restando la possibilità per i terzi che siano stati lesi da tale errore di avvalersi, nel rispetto delle regole previste dall'art. 2929 cod. civ. a tutela dell'acquirente o assegnatario, dei rimedi, diversi dall'opposizione agli atti esecutivi, endoesecutivi o esterni al processo esecutivo loro riservati.

Plurime decisioni dell'anno in rassegna hanno contribuito a delineare la figura dell'aggiudicatario dell'immobile pignorato all'esito della vendita forzata, definendone (ed anche delimitandone) poteri, oneri e strumenti di tutela.

Centrale, nel descritto contesto, si profila Sez. 3, n. 7708, Rv. 630352, est. De Stefano, chiarificatrice, con approfondita analisi, circa i rimedi esperibili dall'aggiudicatario in ipotesi di acquisto di aliud pro alio, ravvisabile nella sensibile diversità tra il bene in concreto oggetto del trasferimento e il bene descritto nella ordinanza di vendita e negli atti del procedimento (cioè a dire quando la res vendita appartenga ad un genere del tutto diverso da quello indicata oppure manchi delle qualità necessarie per assolvere la sua naturale funzione economico - sociale). Esclusa la praticabilità delle azioni previste dal diritto sostanziale per la vendita volontaria (nonché, più in generale, delle impugnative negoziali), la pronuncia, sistematicamente inquadrata la vendita forzata come trasferimento coattivo che si compie nell'ambito di un procedimento esecutivo, accorda all'aggiudicatario unicamente i rimedi endoesecutivi, tipici e tassativi, strumentali a realizzare la stabilità degli effetti della espropriazione: in particolare, riconosce la esperibilità della sola opposizione agli atti esecutivi, da proporre nel limite temporale massimo dell'esaurimento della fase satisfattiva dell'espropriazione costituito dalla definitiva approvazione del progetto di distribuzione, e comunque entro il termine perentorio di venti giorni dalla legale conoscenza dell'atto viziato, ovvero dal momento in cui la conoscenza del vizio si è conseguita o sarebbe stata conseguibile secondo una diligenza ordinaria.

Di sicuro interesse, sulla posizione dell'aggiudicatario nell'esecuzione immobiliare, sono le seguenti decisioni:

- Sez. 3, n. 18312, Rv. 632103, est. Rubino, puntuale nel ribadire che l'acquisto compiuto dall'aggiudicatario rimane fermo anche in presenza di nullità del procedimento esecutivo precedenti la vendita ma fatte valere successivamente dal debitore esecutato o dal terzo che assuma di essere stato pregiudicato dall'esecuzione, salvo il caso di collusione fra aggiudicatario e creditore, che presuppone non la semplice mancanza di diligenza dell'acquirente nell'eseguire i controlli precedenti l'acquisto ma la consapevolezza della nullità e l'esistenza di un accordo intervenuto fra acquirente e creditore in danno dell'esecutato;

- Sez. 3, n. 14765, Rv. 631577, est. Scarano: premessa l'applicabilità alla vendita forzata delle norme del contratto di vendita non incompatibili con la natura del procedimento di espropriazione (tra le quali l'art. 1477 cod. civ. concernente l'obbligo di consegna della cosa da parte del venditore, compresi gli accessori, le pertinenze e i frutti dal giorno della vendita), la S.C. ha riconosciuto all'aggiudicatario, che lamenti il danneggiamento dell'immobile aggiudicato avvenuto prima del deposito del decreto di trasferimento, il diritto al risarcimento del danno, ex art. 2043 cod. civ., nei confronti dei soggetti tenuti alla custodia ed alla conservazione del bene aggiudicato e nei confronti dei terzi, tenuti ad un generale obbligo di correttezza espressione del principio di solidarietà sociale (nella specie, è stata confermata la condanna al risarcimento del danno di un terzo che, d'accordo con i proprietari esecutati, aveva effettuato, dopo l'aggiudicazione di un fondo ma prima del decreto di trasferimento, il taglio di alberi da pioppo ivi insistenti).

5.3. L'intervento dei creditori.

Sui poteri di impulso della procedura esecutiva immobiliare attribuiti ai creditori titolati intervenuti tardivamente, vanno rimarcate pronunce orientate in modo difforme.

Sez. 6-3, n. 22483, Rv. 633023, est. Barreca, riserva infatti la facoltà di compiere atti di impulso della procedura unicamente ai creditori intervenuti tardivi che siano muniti di titolo esecutivo ed altresì iscritti e privilegiati, escludendo analoga facoltà ai creditori chirografari intervenuti oltre l'udienza di autorizzazione alla vendita ma prima di quella prevista dall'art. 596 cod. proc. civ., abilitati soltanto a concorrere alla distribuzione del ricavato.

Sez. 3, n. 18227, Rv. 631944, est. Rubino, dal disposto dell'art. 629 cod. proc. civ. (segnatamente dalla previsione della estinzione del processo esecutivo nel caso di rinunzia agli atti esecutivi da parte del creditore pignorante o dei creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo), conferisce ai creditori titolati intervenuti tardivamente il potere di provocare i singoli atti di esecuzione finalizzati al completamento della procedura esecutiva, precisando tuttavia che "ciò che rileva sotto il profilo dei poteri di impulso alla procedura, è che il credito sia o meno assistito da un titolo esecutivo, e non che esso sia dotato o meno di una causa di prelazione che rileverà ai fini della graduazione dei crediti e poi della distribuzione del ricavato né la tempestività o meno dell'intervento".

Quanto agli effetti sostanziali conseguenti all'intervento spiegato nell'espropriazione forzata, Sez. 3, n. 26929, Rv. 633746, est. Stalla, ha precisato che il ricorso per intervento contiene la domanda di partecipazione alla distribuzione della somma ricavata, equiparabile alla "domanda proposta nel corso di un giudizio", idonea, a mente dell'art. 2943, secondo comma, cod. civ., ad interrompere la prescrizione dall'epoca del deposito del ricorso per intervento ed a sospendere il corso della stessa sino al momento in cui tale domanda sia decisa, cioè a dire sino all'approvazione del progetto di distribuzione del ricavato della vendita.

6. Esecuzioni in forma specifica.

Numericamente scarne ma degne di attenzione le decisioni della S.C. relative alle esecuzioni forzate in forma specifica (esecuzione per consegna di beni mobili o rilascio di beni immobili; esecuzione di obblighi di fare o non fare).

L'attenzione si è incentrata sui limiti dei poteri devoluti al giudice nell'ambito di siffatte procedure e sul contenuto dei relativi provvedimenti.

In tema di esecuzione per consegna o rilascio, Sez. 3, n. 18257, Rv. 632298, est. D'Amico, ha chiarito che i provvedimenti di cui all'art. 610 cod. proc. civ., esplicazione dei poteri del giudice di direzione del processo esecutivo, sono finalizzati a risolvere non solo difficoltà materiali, ma anche dubbi o divergenze di opinioni in relazione allo svolgimento del processo, e ciò anche per il tramite dell'interpretazione del titolo esecutivo, fermo restando che il provvedimento, ove risolva questioni inerenti al diritto di procedere all'esecuzione forzata, ha, sebbene adottato con le forme ex art. 610 cod. proc. civ., natura di sentenza ed è appellabile (nella specie, il giudice non si era limitato a dirimere le difficoltà operative ma aveva autorizzato un ausiliario tecnico officioso a svolgere, previo rilascio delle necessarie autorizzazioni edilizie, lavori di ripristino di un terrazzino, ancorché nulla risultasse dal titolo esecutivo).

Nello stesso ordine di idee, si è affermato - Sez. 3, n. 14640, Rv. 631579, est. Barreca - che il provvedimento emesso dal giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 610 cod. proc. civ., in quanto diretto solo a superare le difficoltà materiali insorte durante l'esecuzione al fine di adeguare la realtà fattuale al comando da eseguire e non anche a risolvere questioni inerenti al diritto di procedere all'esecuzione forzata, non ha contenuto decisorio, è modificabile e revocabile dallo stesso giudice e non è idoneo al giudicato, con la conseguenza che avverso tale provvedimento non è - di regola - proponibile l'appello.

Di analogo tenore, nel differente contesto della esecuzione di fare o non fare, Sez. 3, n. 14208, Rv. 631575, est. Rubino: l'ordinanza con la quale il giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 612 cod. proc. civ., determini le modalità dell'esecuzione non può essere impugnata con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. poiché essa non ha contenuto definitivo e decisorio, restando soggetta solo al rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi per eventuali vizi formali, mentre ove il giudice, nel determinare le modalità dell'esecuzione, dirima anche una controversia insorta fra le parti in ordine alla portata del titolo esecutivo ed all'ammissibilità dell'azione esecutiva intrapresa, l'ordinanza ex art. 612 cod. proc. civ. assume valore sostanziale di sentenza, ed è come tale soggetta all'impugnazione a mezzo appello.

Una accurata ricostruzione del procedimento di esecuzione per obblighi di fare o di non fare è stata operata da Sez. 3, n. 23182, Rv. 633236, est. De Stefano: precisato che l'unico intervento del g.e. è costituito dalla ordinanza ex art. 612 cod. proc. civ. di determinazione delle concrete e specifiche operazioni materiali in cui estrinsecare la condotta imposta al debitore dal titolo esecutivo, si è affermato che la procedura in questione si caratterizza per la integralità della domanda esecutiva (nel senso che, in ossequio al principio della non frazionabilità del credito, il procedente non può richiedere un adempimento limitato ad alcuni segmenti del facere imposto dal titolo) e per la istituzionale tensione ad esaurire ogni attività necessaria a realizzare il dictum del titolo esecutivo, e si conclude con la redazione del verbale dell'ufficiale giudiziario attestante l'attuazione coattiva del comando secondo le modalità dettate dal giudice dell'esecuzione. Il principio - immanente in ogni tipo di esecuzione - di irretrattabilità dei risultati del processo esecutivo impone l'apprestamento di un sistema di rimedi interni alla procedura teso a garantirne la stabilità degli effetti e onera pertanto le parti di dedurre eventuali vizi proponendo, a seconda dei casi, istanza di revoca o modifica oppure opposizione agli atti avverso l'ordinanza del g.e. o avverso il verbale delle operazioni dell'ufficiale giudiziario; ne deriva che, definitivamente chiusa la procedura senza l'esperimento di tali rimedi, al creditore procedente, che pure ritenga non perfettamente eseguito il comando giudiziale, resta preclusa la facoltà di azionare ulteriormente, in nuovo procedimento, il medesimo titolo esecutivo.

7. Opposizioni esecutive: profili comuni.

Nel solco di una sostanziale continuità con gli arresti degli anni precedenti, la giurisprudenza della S.C. in rassegna ha ricostruito aspetti regolanti - in maniera comune - lo svolgimento delle varie tipologie di opposizioni esecutive in senso stretto (ovvero delle opposizioni proposte dopo l'inizio della procedura esecutiva) in linea di logica coerenza con la individuata struttura a bifasicità eventuale costituente il quid proprium di siffatti giudizi.

Così, innanzitutto, Sez. 3, n. 19160, Rv. 632872, est. Barreca, ha chiarito che qualora l'opponente non provveda alla notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza per la fase sommaria, così desistendo dall'opposizione (con comportamento concludente), senza necessità di apposita e formale rinuncia agli atti del giudizio da comunicarsi o da accettarsi da parte opposta, il processo non può proseguire, mancando l'instaurazione del rapporto processuale già dinanzi al giudice dell'esecuzione e difettando un interesse giuridicamente rilevante della controparte opposta a resistere o contraddire ad una opposizione esecutiva della quale non sia stata nemmeno investita (precisando altresì in parte motiva che presupposto per la fissazione ad opera del giudice dell'esecuzione del termine per l'introduzione o la riassunzione della causa di merito è la regolare instaurazione della fase sommaria del procedimento ad opera dell'opponente, unico soggetto a tanto legittimato).

La Corte ha ribadito, con Sez. 6-3, n. 5060, Rv. 630644, est. Barreca, che se il giudice dell'esecuzione, con il provvedimento (positivo o negativo) di chiusura della fase sommaria, emesso nelle opposizioni di cui agli artt. 615, secondo comma, 617, secondo comma, e 619 cod. proc. civ., omette di fissare il termine per l'introduzione del giudizio di merito, o - nelle opposizioni ai sensi degli artt. 615 e 619 cod. proc. civ. - per la riassunzione davanti al giudice competente, la parte interessata può, ai sensi dell'art. 289 cod. proc. civ., entro il termine perentorio ivi previsto, chiederne al giudice la relativa fissazione, ovvero può introdurre o riassumere, di sua iniziativa, il giudizio di merito, sempre nel detto termine, restando comunque esclusa l'esperibilità del rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi.

Ancora per quanto concerne il raccordo tra le due fasi dei giudizi di opposizione, Sez. 3, n. 10255, Rv. 630899, est. Barreca, ha di nuovo affermato che l'introduzione del giudizio di merito nel termine perentorio fissato dal giudice dell'esecuzione all'esito dell'esaurimento della fase sommaria deve avvenire con il modus ingrediendi richiesto con riferimento al rito con cui l'opposizione deve essere trattata nella fase a cognizione piena, con la conseguenza che ove la causa appartenga alla competenza per materia del giudice del lavoro (disciplinata quindi, ai sensi dell'art. 618 bis, primo comma, cod. proc. civ., dalle norme previste per le controversie individuali di lavoro, in quanto relativa ad esecuzione forzata promossa in base a provvedimenti emessi dal giudice del lavoro), il giudizio di merito va introdotto con ricorso da depositare nella cancelleria del giudice competente entro il termine perentorio fissato dal giudice dell'esecuzione.

Costituisce jus receptum la non applicabilità alle opposizioni esecutive dell'istituto della sospensione feriale dei termini, come confermato da Sez. 6-3, n. 22484, Rv. 633022, est. Barreca (massimata con l'indicazione di certalex), relativa ad un'opposizione all'esecuzione ex art. 615, primo comma, cod. proc. civ. (cd. opposizione a precetto), con la quale si contesti alla parte istante il diritto di procedere ad esecuzione forzata quando questa non è ancora iniziata.

In punto di operatività della sospensione feriale, più complessa la vicenda esaminata da Sez. 3, n. 1123, Rv. 629827, est. Frasca, relativa alla formulazione nel giudizio di opposizione all'esecuzione di una domanda riconvenzionale subordinata da parte opposta, volta ad ottenere - in ipotesi di accoglimento della opposizione - l'accertamento sulla situazione sostanziale e la conseguente condanna con formazione di nuovo titolo esecutivo in danno dell'opponente. Nel risolvere la questione, la pronuncia ha distinto due ipotesi, affermando la soggezione della controversia alla sospensione dei termini (nella situazione, rilevanti ai fini della tempestività della impugnazione) nel solo caso di accoglimento dell'opposizione e di statuizione sulla domanda riconvenzionale ed escludendo la applicabilità della sospensione in caso di rigetto della opposizione, con assorbimento della riconvenzionale.

In ordine al regime della sentenza conclusiva dei giudizi di opposizione, è stata riconfermata la esperibilità di distinti ed autonomi gravami avverso un'unica sentenza in ragione dei plurimi oggetti della stessa: per Sez. 3, n. 18312, Rv. 632102, est. Rubino, qualora una opposizione esecutiva possa scindersi in un duplice contenuto, in parte riferibile ad una opposizione agli atti esecutivi e in parte riferibile ad una opposizione all'esecuzione, l'impugnazione della conseguente sentenza deve seguire il diverso regime previsto per i distinti tipi di opposizione.

8. Opposizione all'esecuzione e opposizione di terzo all'esecuzione.

Seppure numericamente non cospicua, significativa appare la produzione della giurisprudenza di legittimità dell'anno sulle opposizioni all'esecuzione e di terzo all'esecuzione.

È stato in primo luogo riaffermato il carattere circoscritto del thema decidendum delle opposizioni avverso l'esecuzione minacciata o intentata in virtù di titolo esecutivo giudiziale: in una fattispecie di opposizione a precetto intimato per assegno di mantenimento in forza di provvedimento reso in sede di giudizio di separazione tra coniugi, Sez. 6-3, n. 20303, Rv. 632384, est. Barreca, ha escluso la deducibilità di fatti sopravvenuti al titolo, circostanze da far valere unicamente con lo strumento dell'istanza di modifica delle condizioni della separazione previsto dall'art. 710 cod. proc. civ..

Sempre la medesima Sez. 6-3, n. 20303, Rv. 632383, est. Barreca, ha stabilito che la competenza sull'opposizione all'esecuzione avverso l'atto di precetto intimato per l'adempimento coattivo delle obbligazioni di natura economica imposte al coniuge in sede di separazione va determinata in ragione del valore della causa secondo i criteri ordinari (quindi con riparto verticale tra Giudice di Pace e Tribunale), trattandosi di controversia diversa da quella concernente il regolamento dei rapporti tra coniugi ovvero la modifica delle condizioni della separazione, rientrante invece nella competenza funzionale del Tribunale.

Sui profili processuali della lite, si veda Sez. L, n. 13635, Rv. 631338, est. Patti, che ha ritenuto ai fini della prosecuzione del giudizio valida, se tempestiva, la riassunzione dell'opposizione all'esecuzione pur se effettuata davanti a giudice incompetente.

La estinzione del procedimento esecutivo non cagiona la cessazione della materia del contendere sulla opposizione all'esecuzione avente ad oggetto l'esistenza del titolo esecutivo o del credito, permanendo l'interesse alla decisione: in questi termini Sez. 3, n. 15761, Rv. 631879, est. Sestini.

Sul discrimine tra l'opposizione all'esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ. e l'opposizione di terzo revocatoria ex art. 404, comma secondo, cod. proc. civ., merita menzione Sez. 3, n. 14640, Rv. 631580, est. Barreca, riferita alla specifica situazione del terzo che abbia costruito opere e manufatti su un immobile del quale sia detentore e per il quale il proprietario abbia ottenuto, nei confronti di altro precedente detentore, una sentenza di condanna al rilascio: la S.C. attribuisce a detto terzo il rimedio della opposizione all'esecuzione qualora sostenga di detenere l'immobile in virtù di un titolo autonomo non pregiudicato dalla sentenza azionata in executivis, e l'opposizione di terzo revocatoria ove, invece, sostenga la derivazione del suo titolo da quello del precedente detentore e che la sentenza sia frutto di collusione tra questi e il proprietario in suo danno.

In tema di opposizione di terzo all'esecuzione ex art. 619 cod. proc. civ., si distinguono:

- Sez. 3, n. 14639, Rv. 631576, est. Barreca: nell'ambito della espropriazione presso terzi, il terzo cessionario, diverso dal terzo pignorato, che contesti la non appartenenza del credito all'esecutato in ragione dell'anteriorità, rispetto alla notifica del pignoramento, della notificazione della cessione al debitore ceduto (ovvero dell'accettazione di questa), è tenuto a far valere l'illegittimità dell'espropriazione con l'opposizione di terzo ex art. 619 cod. proc. civ., senza poter proporre, in quanto soggetto estraneo al processo esecutivo, opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 cod. proc. civ., neppure ove rivolta contro l'ordinanza di assegnazione del credito;

- Sez. 3, n. 17054, Rv. 632200, est. Barreca: nell'opposizione di terzo all'esecuzione, la notifica dell'atto di riassunzione del giudizio dinanzi all'ufficio giudiziario competente per valore alla decisione del merito della causa, regolarmente eseguita nei confronti di tutti i litisconsorti necessari nel termine assegnato ai sensi dell'art. 619, terzo comma, cod. proc. civ. (nel testo vigente anteriormente alla legge 24 febbraio 2006, n. 52), sana le eventuali omissioni o invalidità della notificazione, ad una o più parti processuali, del ricorso presentato al giudice della esecuzione ex art. 619, primo comma, cod. proc. civ.; in tal modo, anche se omessa la prima notifica al debitore esecutato, la fase contenziosa risulta regolarmente introdotta, sì da pervenire alla definizione del giudizio di opposizione nella valida instaurazione del rapporto processuale.

9. Opposizione agli atti esecutivi.

Un nutrito gruppo di pronunce della S.C. riguarda l'opposizione agli atti esecutivi, costituente, senza dubbio, la tipologia di parentesi cognitiva in ambito esecutivo più frequentemente esperita.

Sulla natura della lite, Sez. L, n. 12642, Rv. 631190, est. De Renzis, muovendo dalla qualificazione dell'opposizione ex art. 617 cod. proc. civ. come un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto la valutazione di conformità di un segmento del processo esecutivo alle norme che lo regolano, ha riconosciuto al giudice investito della lite il potere - dovere di acquisire il fascicolo del processo esecutivo, per prendere diretta conoscenza dello svolgimento di esso e degli atti compiuti dal giudice dell'esecuzione.

Costituisce dato acquisito nell'esperienza generale il carattere di rimedio generale e sussidiario dell'opposizione agli atti esecutivi, rimedio endoprocedimentale strumentalmente funzionale alla stabilità dei risultati della esecuzione forzata, esperibile da tutti i soggetti a vario titolo partecipanti al processo esecutivo avverso qualsiasi atto o provvedimento reso nell'ambito della procedura e per il quale non sia previstro altro strumento di reazione.

In questa impostazione, si inquadra Sez. 6-3, n. 24550, Rv. 633218, est. Barreca, che ha ritenuto l'offerente non aggiudicatario in sede di vendita forzata legittimato a proporre l'opposizione ex art. 617 cod. proc. civ. avverso i provvedimenti del g.e. relativi all'aggiudicazione del bene, ravvisando l'interesse di tale soggetto al regolare svolgimento del processo esecutivo, allo scopo di non essere pregiudicato da atti non conformi alla legge.

Sotto il profilo oggettivo, Sez. 6-3, n. 24775, Rv. 633270, est. Barreca, ha reputato impugnabile con opposizione agli atti esecutivi (e non già con ricorso per cassazione) il provvedimento con il quale il giudice dell'esecuzione dichiari l'estinzione del procedimento esecutivo per cause diverse da qualle tipiche, comportanti la improseguibilità dello stesso (nella specie, per sopravvenuta inefficacia del pignoramento).

Limite fondamentale alla proponibilità della opposizione in parola discende dalla strutturazione del processo esecutivo non già come una sequenza continua di atti ordinati ad un unico provvedimento finale (schema proprio del processo di cognizione) bensì come una successione di subprocedimenti, cioè di una serie autonoma di atti ordinati a distinti provvedimenti successivi, per cui le situazioni invalidanti verificatesi in una determinata fase sono suscettibili di rilievo nel corso ulteriore del processo solo in quanto impediscano che il processo consegua il risultato che ne costituisce lo scopo, e cioè l'espropriazione del bene pignorato come mezzo per la soddisfazione dei creditori.

Costituiscono espressione di tale - ben fermo e consolidato - principio:

- Sez. 3, n. 7707, Rv. 630351, est. De Stefano, secondo cui nell'espropriazione immobiliare, conclusa la fase della vendita con il decreto di trasferimento, le doglianze per vizi ad esso anteriori, non fatte valere utilmente con i rimedi allo scopo apprestati (quale, in particolare, l'opposizione agli atti esecutivi) sono irreversibilmente precluse nella successiva fase della distribuzione, che è volta solo a ricostruire l'entità della somma ricavata ed a procedere alla sua attribuzione o distribuzione, e giammai al riesame della ritualità degli atti precedenti;

- Sez. 3, n. 8145, Rv. 630933, est. Ambrosio, che ha ritenuto inammissibile l'opposizione avverso il provvedimento di aggiudicazione provvisoria fondata su contestazioni relative ad un'ordinanza che, riaprendo la fase autorizzativa della vendita, abbia nuovamente determinato il prezzo del bene pignorato, posto che i vizi del provvedimento ex art. 569 cod. proc. civ. devono formare oggetto di opposizione agli atti esecutivi nel termine perentorio prescritto dall'art. 617 cod. proc. civ., appartenendo ad una sequenza procedimentale precedente a quella della vendita stessa.

Alla stregua di Sez. 3, n. 18350, Rv. 632105, est. Barreca, non osta alla esperibilità ed all'esame nel merito della opposizione ex art. 617 cod. proc. civ. (diversamente da quanto accade, ex art. 487 cod. proc. civ., per la istanza di revoca o modifica) l'avvenuta attuazione del provvedimento del giudice dell'esecuzione asseritamente inficiato da vizi, atteso che l'accertamento della fondatezza dei motivi di opposizione comporta l'annullamento del provvedimento gravato, ponendo nel nulla gli effetti prodotti in sede esecutiva.

La deduzione dei vizi procedimentali - tipico thema decidendum della opposizione agli atti esecutivi - va scrutinata, in una ottica di coordinamento sistematico, sulla scorta dei principi generali in materia di nullità degli atti processuali dettati dal libro primo del codice di rito, alla cui cogenza soggiace, pur con i debiti adattamenti, anche il procedimento esecutivo.

Negletta una visione formalistica dell'istituto, la giurisprudenza di legittimità ha fatto così pratica attuazione della regola della sanatoria delle nullità per raggiungimento dello scopo e della necessità, ai fini della declaratoria delle nullità, di un pregiudizio sostanziale all'interesse della parte derivante dalla mera inosservanza del paradigma formale dell'atto, echeggiando il precetto del "pas de nullité sans grief" proprio dell'esperienza processualcivilistica francese.

In questo indirizzo esegetico si inquadrano:

- Sez. 3, n. 10327, Rv. 630904, est. De Stefano: la nullità della notificazione del titolo esecutivo (quand'anche costituito da provvedimento giudiziale) perché fatta al procuratore costituito nel processo anziché alla parte personalmente, ai sensi dell'art. 479, secondo comma, cod. proc. civ., è sanabile in dipendenza del raggiungimento dello scopo, allorché l'intimato, nello spiegare opposizione, abbia comunque sviluppato difese ulteriori rispetto al profilo della mancata notifica di persona, così rivelando un'idonea conoscenza dell'atto, mentre ove non siano addotte contestazioni diverse da quella della nullità della notificazione, la stessa nullità può rilevare soltanto in caso di allegazione (e di eventuale prova) delle specifiche limitazioni o compressioni del diritto di difesa che, anche in rapporto alle peculiarità del caso di specie, ne siano derivate;

- Sez. 3, n. 25433, Rv. 633696, est. Ambrosio: l'omessa indicazione nel precetto del titolo esecutivo azionato non cagiona la nullità dell'atto, qualora l'esigenza di individuazione del titolo risulti comunque soddisfatta attraverso altri elementi contenuti nel precetto stesso;

- Sez. 3, n. 14774, Rv. 631572, est. Rubino: in tema di espropriazione immobiliare, il giudice, pur avendo constatato un'illegittimità della procedura, non deve accogliere l'opposizione se non venga dimostrato che dalla stessa sia derivata la lesione dell'interesse del debitore a conseguire dalla vendita il maggior prezzo possibile per aver impedito ulteriori e più convenienti offerte di acquisto (nel caso esaminato, è stata disattesa l'opposizione con la quale si era dedotta la - effettivamente sussistente - illegittimità del praticato ribasso del prezzo a base d'asta, in quanto l'esperimento di vendita si era poi svolta con rilanci tali da pervenire ad un prezzo di aggiudicazione addirittura superiore a quello originario).

In una direzione tuttavia differente, Sez. 3, n. 22510, Rv. 633160, est. Rubino, ha escluso la sanatoria per raggiungimento dello scopo conseguente all'opposizione agli atti in caso di precetto intimato in forza di decreto ingiuntivo divenuto esecutivo per mancata opposizione privo, in violazione dell'art. 654 cod. proc. civ., della indicazione della data di notifica dell'ingiunzione, precetto reputato affetto da nullità "equivalente a quella che colpisce il precetto non preceduto dalla notifica del titolo esecutivo".

Funzionalmente teso a verificare la regolarità formale di atti o segmenti della procedura esecutiva, il giudizio di opposizione ex art. 617 cod. proc. civ. risente delle sorti della stessa: come confermato da Sez. 3, n. 15761, Rv. 631879, est. Sestini, l'estinzione del procedimento esecutivo comporta la cessazione della materia del contendere sulla opposizione agli atti per sopravvenuto difetto di interesse, permanendo invece l'interesse alla decisione in caso di opposizione all'esecuzione relativa all'esistenza del titolo esecutivo o del credito.

Meritevole di attenzione, dacché inerente ad un profilo di disciplina invero problematico dei giudizi ex art. 617 cod. proc. civ., è Sez. 3, n. 1360, Rv. 629943, est. Barreca, la quale, ai fini dei criteri di liquidazione delle spese di lite, ha ancorato il valore della causa al "peso" economico delle controversie e acutamente distinto tra le opposizioni agli atti pre-esecutive, in cui la determinazione va operata in base al valore del credito per cui si procede, e le opposizioni agli atti successive all'inizio della esecuzione, nelle quali la determinazione del valore va riferita agli effetti economici dell'accoglimento o del rigetto dell'opposizione; ha altresì puntualizzato i criteri di determinazione del valore della causa con riferimento a peculiari vicende delle opposizioni successive, individuati segnatamente: - nel caso di opposizione all'intervento di un creditore, in base al solo credito vantato dall'interveniente; - nel caso in cui non sia possibile determinare gli effetti economici dell'accoglimento o del rigetto dell'opposizione, in base al valore del bene esecutato; - nel caso, infine, in cui l'opposizione concerna un atto esecutivo che non riguardi direttamente il bene pignorato, ovvero il valore di quest'ultimo non sia quantificabile, il valore della lite va ritenuto indeterminabile.

  • separazione legale
  • sequestro di beni
  • competenza giurisdizionale
  • divorzio
  • ingiunzione
  • sfratto
  • esecuzione della sentenza
  • fallimento

CAPITOLO XXXI

I PROCEDIMENTI SPECIALI

(di Andrea Penta )

Sommario

1 Il procedimento d'ingiunzione. La fase monitoria: la prova scritta. - 1.1 La competenza. - 1.2 Il rito. - 2 La fase dell'opposizione. - 3 Le vicende concernenti la provvisoria esecuzione. - 4 La notificazione del decreto ingiuntivo. - 5 La fase successiva all'opposizione. - 5.1 I rapporti con il giudizio di opposizione all'esecuzione. - 5.2 I rapporti con il fallimento. - 5.3 Gli effetti espansivi esterni. - 6 Il procedimento per convalida di licenza o sfratto. - 6.1 L'ordinanza di rilascio. - 6.2 La sanatoria della morosità. - 6.3 Il regime giuridico dell'ordinanza di convalida. - 7 I procedimenti cautelari. Il regime giuridico. - 7.1 Le questioni di competenza. - 7.2 Il procedimento cautelare uniforme. - 8 I sequestri. - 9 I procedimenti di istruzione preventiva. - 10 I procedimenti possessori. - 11 Il procedimento sommario. - 12 I procedimenti in materia di famiglia e di status. I provvedimenti del giudice tutelare. - 12.1 I giudizi di separazione e di divorzio. - 12.2 L'amministrazione di sostegno. - 13 I procedimenti camerali. - 13.1 L'applicabilità degli artt. 181 e 309 cod. proc. civ. - 13.2 Gli altri procedimenti speciali.

1. Il procedimento d'ingiunzione. La fase monitoria: la prova scritta.

Come è noto, costituisce prova scritta atta a legittimare la concessione del decreto ingiuntivo, a norma degli artt. 633 e 634 cod. proc. civ., qualsiasi documento, proveniente non solo dal debitore ma anche da un terzo, che, anche se privo di efficacia probatoria assoluta, sia ritenuto dal giudice idoneo a dimostrare il diritto fatto valere, fermo restando che la completezza della documentazione va accertata nel successivo giudizio di opposizione nel quale il creditore può fornire nuove prove per integrare, con efficacia retroattiva, quelle prodotte nella fase monitoria.

In questo contesto l'art. 634, secondo comma, rappresenta una norma speciale in deroga all'art. 2710 cod. civ. Gli estratti autentici delle scritture contabili previsti dalle leggi tributarie possono costituire non solo idonee prove scritte per la emissione del decreto ingiuntivo, ma anche, ai sensi dell'art. 2710 cod. civ., prove utilizzabili nell'ordinario giudizio di cognizione; tuttavia, in tale ultimo caso solo quando le parti in contrasto siano imprenditori e si riferiscano a rapporti inerenti all'esercizio dell'impresa. Le scritture contabili hanno idoneità probatoria, qualora regolarmente tenute, anche se non obbligatorie ex art. 2214 cod. civ. Non manca chi ritiene che la disposizione si applichi anche ai crediti relativi al pagamento di prestazioni d'opera.

In particolare, Sez. 3, n. 12288, Rv. 631036, est. Cirillo, sul piano del diritto intertemporale ha chiarito che la modifica dell'art. 634, introdotta dall'art. 8, comma 3, del d.l. 18 ottobre 1995, n. 432, convertito nella legge 20 dicembre 1995, n. 534, in base alla quale le scritture contabili dell'imprenditore costituiscono prova scritta idonea all'emissione del decreto ingiuntivo anche per i crediti relativi alle prestazioni di servizi, ha carattere innovativo e, dunque, ha efficacia solo per il futuro e non si applica alle ingiunzioni emanate prima della sua entrata in vigore.

Sempre sul piano della prova scritta, Sez. L, n. 15208, Rv. 631674, est. Tria, ha riconosciuto, per i crediti derivanti da omesso versamento dei contributi previdenziali e\o assistenziali, che costituiscono prove idonee ai fini della emissione del decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 635, secondo comma, cod. proc. civ., sia l'attestazione del direttore della sede provinciale dell'ente creditore (in particolare, INPS o INAIL), sia i verbali di accertamento redatti dall'Ispettorato del lavoro o dagli ispettori dello stesso Ente creditore, che, pur non essendo forniti di completa efficacia probatoria in ordine alle circostanze di fatto che essi segnalino di aver accertato nel corso dell'inchiesta per averle apprese da terzi, possono fornire utili elementi di valutazione anche nell'eventuale successivo giudizio di opposizione.

1.1. La competenza.

Particolarmente nutrita è stata la produzione giurisprudenziale di quest'anno sul tema della competenza, inteso in senso lato.

Ribadendo quanto già sostenuto in passato (n. 12865 del 2011 Rv. 618124), Sez. 6-3, n. 5703, Rv. 630504, est. Amendola, ha confermato, in tema di competenza per territorio, che, ove un avvocato abbia presentato ricorso per ingiunzione per ottenere il pagamento delle competenze professionali da un proprio cliente, avvalendosi del foro speciale di cui agli art. 637, terzo comma, cod. proc. civ., e 14, comma 2, del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, il rapporto tra quest'ultimo ed il foro speciale della residenza o del domicilio del consumatore, previsto dall'art. 33, comma 2, lettera u, del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, va risolto a favore del secondo, in quanto di competenza esclusiva, che prevale su ogni altra, in virtù delle esigenze di tutela, anche sul terreno processuale, che sono alla base dello statuto del consumatore.

Peraltro, Sez. 6-2, ord. n. 11128, Rv. 630742, est. Giusti, ha sul punto precisato che, ai sensi dell'art. 38 cod. proc. civ., novellato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, qualora l'opponente a decreto ingiuntivo sollevi l'eccezione d'incompetenza in ragione del foro del consumatore all'udienza di prima comparizione, anziché nell'atto di citazione in opposizione, e, quindi, tardivamente, il potere ufficioso di rilevazione della medesima eccezione deve essere esercitato dal giudice nella stessa udienza, altrimenti radicandosi la competenza presso il giudice adito.

La Corte, con Sez. 6-3, ord. n. 1464, Rv. 629961, est. Segreto, nel ribadire che nei rapporti tra avvocato e cliente quest'ultimo riveste la qualità di "consumatore", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera a, del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, a nulla rilevando che il rapporto sia caratterizzato dall'intuitu personae e sia non di contrapposizione, ma di collaborazione (quanto ai rapporti esterni con i terzi), ha ritenuto applicabile il criterio del foro del consumatore anche quando il cliente rivesta, a sua volta, la qualità di professionista o imprenditore, ma abbia conferito il mandato al legale per esigenze non riconducibili a tali attività.

Con una motivazione estremamente articolata, Sez. 6, n. 18707, est. Giusti, Rv. 633034, ha applicato l'orientamento risalente a SU 20596/2007, alla stregua del quale, nel caso di continenza tra una causa di risoluzione per inadempimento del contratto introdotta con il rito ordinario ed una medesima domanda di risoluzione proposta in via riconvenzionale nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ai fini dell'individuazione del giudice preventivamente adìto, deve tenersi conto del fatto che il giudizio introdotto con ricorso per decreto ingiuntivo pende dalla data di deposito di quest'ultimo. Da ciò consegue che, se il primo giudizio sia stato proposto anteriormente all'atto di citazione in opposizione, ma successivamente al deposito del ricorso monitorio, sarà nella prima sede che il giudice dovrà disporre la cancellazione della causa dal ruolo, ai sensi dell'art. 39, primo comma, cod. proc. civ.

In pratica, l'art. 643, comma 3, cod. proc. civ. è stato nuovamente interpretato nel senso che la lite introdotta con la domanda di ingiunzione deve ritenersi pendente a seguito della notifica del ricorso e del decreto, ma gli effetti [sostanziali e processuali (litispendenza, continenza, connessione, interruzione prescrizione)] della pendenza retroagiscono al momento del deposito del ricorso, che rappresenta il momento determinante per la giurisdizione e la competenza, ai sensi dell'art. 5 cod. proc. civ.

1.2. Il rito.

Con riferimento al rito da seguire, Sez. 3, n. 7530, Rv. 629907, est. Carleo, ha statuito che la scelta, da parte del creditore, del rito ordinario e delle forme del procedimento monitorio per la proposizione della domanda comporta che l'eventuale opposizione al decreto ingiuntivo vada, a sua volta, proposta nella medesima forma ordinaria. Ciò, è opportuno precisarlo, deve avvenire indipendentemente dalle eccezioni sollevate dall'opponente, le quali andranno delibate ai soli e diversi fini dell'ammissibilità e fondatezza dell'avversa domanda.

2. La fase dell'opposizione.

Va segnalata, in primo luogo, Sez. 1, n. 20378, Rv. 632539, est. Giancola, che ha avuto il merito di chiarire la portata del primo comma dell'art. 647 cod. proc. civ., statuendo che l'opponente a decreto ingiuntivo che si sia costituito tardivamente, può legittimamente riproporre l'opposizione, entro il termine fissato nel decreto stesso ex art. 641, primo e secondo comma, cod. proc. civ., accompagnata da tempestiva e rituale costituzione in giudizio, poiché il creditore non può ottenere la declaratoria di esecutorietà del provvedimento, ex art. 647 cod. proc. civ., non solo nella prima di tali ipotesi, ma anche, a maggior ragione, quando l'opponente abbia tempestivamente proposto una seconda opposizione ovvero si sia limitato, sempre tempestivamente, a rinnovare la notifica del primo atto di opposizione, poi procedendo, nell'uno come nell'altro caso, alla tempestiva costituzione nel termine decorrente dalle nuove date.

Si è poi ribadito - Sez. 3, n. 16767, Rv. 632011, est. Sestini - che l'opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione, teso ad accertare il fondamento della pretesa fatta valere e non se l'ingiunzione sia stata legittimamente emessa in relazione alle condizioni previste dalla legge. Pertanto l'eventuale carenza dei requisiti probatori per la concessione del provvedimento monitorio può rilevare solo ai fini del regolamento delle spese processuali e la sentenza non può essere impugnata solo per accertare la sussistenza o meno delle originarie condizioni di emissione del decreto, se non sia accompagnata da una censura in tema di spese processuali.

La Corte, poi, con Sez. 3, n. 23174, est. Scrima, in corso di massimazione, ha, da un lato, ribadito che, per effetto dell'opposizione, non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso (nel senso che il creditore-opposto mantiene la veste di attore e l'opponente quella di convenuto) e, dall'altro lato, aggiunto che tale aspetto ripercuote i suoi effetti non solo in tema di onere della prova, ma anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni processuali rispettivamente previsti per ciascuna delle parti. Da ciò deriva che il disposto dell'art. 269 cod. proc. civ., che disciplina le modalità della chiamata del terzo in causa, non si concilia con l'opposizione al decreto, sicchè l'opponente deve necessariamente chiedere al giudice, con l'atto di opposizione, l'autorizzazione a chiamarlo. In mancanza di siffatta autorizzazione, la chiamata risulta viziata e tale vizio è rilevabile d'ufficio e non è sanato dall'eventuale costituzione in giudizio del terzo chiamato.

Applicando in via estensiva l'enunciato principio, ormai decisamente prevalente per le cause di competenza del tribunale, Sez. 2, n. 10610, Rv. 631014, est. Matera, ha previsto, anche nell'opposizione a decreto ingiuntivo innanzi al giudice di pace, l'onere per l'opponente che intenda chiamare un terzo in causa, avendo la posizione processuale di convenuto, di farne richiesta nell'atto di opposizione, a pena di decadenza, non potendo formulare l'istanza direttamente in prima udienza.

In quest'ottica, l'opponente non può né convenire il terzo in giudizio direttamente con la citazione ne' chiedere il differimento della prima udienza, non ancora fissata, dovendo in ogni caso citare unicamente il soggetto che ha ottenuto detto provvedimento, non potendo le parti originariamente essere altri che il soggetto istante per l'ingiunzione di pagamento ed il soggetto nei cui confronti la domanda è diretta.

La Corte, con Sez. 6-3, ord. n. 3870, Rv. 629837, est. De Stefano, ha confermato che, in tema di procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo dinanzi al giudice di pace, poiché la competenza, attribuita dall'articolo 645 cod. proc. civ. all'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il decreto, ha carattere funzionale e inderogabile - stante l'assimilabilità del giudizio di opposizione a quello di impugnazione -, nel caso in cui sia proposta dall'opponente domanda riconvenzionale eccedente i limiti di valore della competenza del giudice di pace, questi è tenuto a separare le due cause, trattenendo quella relativa all'opposizione e rimettendo l'altra al tribunale.

In ordine alle vicende che possono verificarsi nel corso del giudizio di opposizione, Sez. 2, n. 8428, Rv. 630109, est. Falaschi, ha evidenziato che il pagamento della somma ingiunta comporta che il giudice dell'opposizione, revocato il decreto ingiuntivo, debba regolare le spese processuali, anche per la fase monitoria, secondo il principio della soccombenza virtuale, valutando la fondatezza dei motivi di opposizione con riferimento alla data di emissione del decreto.

In particolare, nel giudizio di opposizione il decreto ingiuntivo deve essere revocato solo quando risulti la fondatezza, anche parziale, dell'opposizione medesima, con riferimento alla data di emissione di quel provvedimento; cosicchè, quando il debito si estingua per un adempimento successivo alla suddetta data e debba quindi escludersi l'indicata fondatezza, anche se il provvedimento viene ugualmente revocato, devono comunque porsi a carico dell'ingiunto le spese del procedimento, salva restando l'opponibilità dell'avvenuto pagamento se il creditore, ancorché soddisfatto, si avvalga del decreto non revocato come titolo esecutivo.

3. Le vicende concernenti la provvisoria esecuzione.

In relazione al regime giuridico dell'ordinanza adottata ai sensi dell'art. 648 cod. proc. civ., Sez. 6-3, n. 13942, Rv. 631727, est. Frasca, ha escluso che l'ordinanza con la quale, in pendenza di opposizione a decreto ingiuntivo, è concessa o negata l'esecuzione provvisoria del provvedimento monitorio sia impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. - anche quando il giudice abbia conosciuto delle questioni di merito per valutare la sussistenza del fumus - avendo natura anticipatoria della decisione ma senza carattere di definitività, perché i suoi effetti sono destinati ad esaurirsi con la sentenza che pronuncia sulla opposizione.

Alla stessa stregua, Sez. 6-2, n. 13596, Rv. 631237, est. Giusti, ha avuto l'occasione per affermare che l'ordinanza con la quale, in pendenza di opposizione a decreto ingiuntivo, venga negata l'esecuzione provvisoria del decreto stesso, ha natura interinale ed è anch'essa produttiva di effetti destinati ad esaurirsi con la sentenza che pronunzia sull'opposizione, senza interferire sulla definizione della causa, per cui non è impugnabile con l'appello neppure nell'evenienza su indicata.

Chiudendo involontariamente il cerchio, Sez. 6-1, n. 7191, Rv. 629936, est. Scaldaferri, ha, infine, reputato inammissibile il regolamento di competenza promosso contro l'ordinanza con cui il giudice istruttore, concedendo la provvisoria esecuzione al decreto ingiuntivo opposto, si sia limitato a delibare la questione di competenza sollevata dall'opponente, disponendo la prosecuzione del giudizio, atteso che è necessario che il giudice abbia adottato - sia pure con la forma dell'ordinanza, da emettersi a seguito della rimessione della causa in decisione - un provvedimento di carattere decisorio. Tale statuizione è perfettamente in linea con l'orientamento in base al quale, anche dopo il mutamento della forma della decisione sulla competenza per effetto dell'art. 45 della legge 18 giugno 2009, n. 69, la decisione affermativa della competenza presuppone sempre la rimessione in decisione della causa ai sensi degli artt. 189 e 275 cod. proc. civ. (ed ai sensi dello stesso art. 189 cod. proc. civ. in relazione all'art. 281-quinquies cod. proc. civ. per il procedimento di decisione del giudice monocratico) preceduta dall'invito a precisare le conclusioni, con la conseguenza che, ove nel procedimento davanti al giudice monocratico quest'ultimo esterni espressamente od implicitamente in un'ordinanza, senza aver provveduto agli adempimenti sopra indicati, un convincimento sulla competenza e dia provvedimenti sulla prosecuzione del giudizio, tale ordinanza non ha natura di decisione affermativa sulla competenza impugnabile ai sensi dell'art. 42 cod. proc. civ. e, quindi, il ricorso per regolamento di competenza avverso detto atto deve ritenersi inammissibile.

4. La notificazione del decreto ingiuntivo.

Fermo restando che, come è noto, l'eccezione di inefficacia ex art. 644 cod. proc. civ. del decreto ingiuntivo - perchè notificato fuori termine - non è rilevabile d'ufficio, per Sez. 1, n. 3552, Rv. 629915, est. Benini, in caso di notificazione mancata, non rileva che il destinatario sia venuto aliunde a conoscenza dell'atto, difettando gli estremi di certezza circa il modo, la data ed il luogo della consegna in vista dei quali la notifica è prescritta. Ne consegue che, ove la notifica del decreto ingiuntivo sia stata omessa per essere il destinatario deceduto, va escluso che i relativi effetti si trasmettano ugualmente all'erede che, per ipotesi, fosse destinatario dello stesso decreto ingiuntivo in quanto coobbligato e di esso avesse ricevuto regolare notificazione, attesa l'idoneità di quest'ultima a produrre effetti autonomi limitatamente alla sfera giuridica di ciascun soggetto che ne sia destinatario.

Premesso che il ricorso per la dichiarazione d'inefficacia del decreto ingiuntivo, previsto dall'art. 188 disp. att. cod. proc. civ., è ammissibile soltanto con riguardo a decreti non notificati o la cui notifica sia giuridicamente inesistente, mentre se il decreto è stato notificato, ancorchè fuori termine, o la notifica sia affetta da nullità, l'unico rimedio esperibile è l'opposizione ai sensi dell'art. 645 cod. proc. civ. (o, meglio, l'opposizione tardiva ex art. 650 cod. proc. civ.), per la loro stretta connessione con la mancata notificazione, si segnalano due pronunce relative alla declaratoria di inefficacia del decreto ai sensi dell'art. 188 citato.

Da un lato, Sez. 6-1, n. 12614, Rv. 631371, est. Acierno, ha ribadito che il provvedimento del presidente del tribunale di rigetto dell'istanza tendente alla declaratoria di inefficacia del decreto ingiuntivo proposta ai sensi dell'art. 188 disp. att. cod. proc. civ., se pure incide sull'esercizio di diritti soggettivi, inerenti alla posizione del creditore il cui diritto è stato riconosciuto in sede monitoria ed a quella del soggetto destinatario dell'ingiunzione, è privo del requisito della definitività, concedendo la norma al debitore la possibilità di proporre, nei modi ordinari, una domanda di dichiarazione di inefficacia dell'ingiunzione stessa e, quindi, non è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.

Dall'altro lato, Sez. 6-1, n. 4421, Rv. 630056, est. Acierno, ha statuito che la procura al difensore rilasciata a margine o in calce al ricorso per decreto ingiuntivo ed estesa ad "ogni fase, stato e grado del giudizio" abilita lo stesso al patrocinio non solo nella fase monitoria, ma anche nell'eventuale procedimento speciale volto ad inficiare l'efficacia del decreto medesimo ex art. 644 cod. proc. civ. e 188 disp. att. cod. proc. civ., che si articola in una forma di tutela anticipatoria (ex art. 188, primo comma, disp. att. cod. proc. civ.) e in una, alla prima non alternativa, da instaurare (art. 188, ultimo comma, disp. att. cod. proc. civ.) con le forme ordinarie, e, dunque, rientra senz'altro nell'ampia locuzione della procura, attenendo allo "stato" del procedimento che può seguire alla fase monitoria.

5. La fase successiva all'opposizione.

Sez. 3, n. 6337, Rv. 629906, est. Frasca, ha conferito rilevanza anche agli eventi successivi alla sentenza che pone termine al giudizio di opposizione. In particolare, ha escluso che il passaggio in giudicato della sentenza che dichiari l'inammissibilità, per ragioni di rito, di un'opposizione a decreto ingiuntivo, al pari dell'estinzione del giudizio incardinato dall'opposizione (la quale riguarda solo l'opposizione al decreto in quanto accertativo del credito al momento della sua pronuncia), precludano al debitore ingiunto di far valere - con un'azione di accertamento negativo o, se sia minacciata o iniziata l'esecuzione sulla base del decreto, attraverso gli strumenti, secondo i casi, dell'opposizione al precetto o all'esecuzione - eventuali fatti modificativi, impeditivi o estintivi del diritto azionato in via monitoria verificatisi tra l'emissione del decreto ingiuntivo ed il termine per proporre opposizione, ovvero sopravvenuti nel corso del giudizio ex art. 645 cod. proc. civ., ancorché gli stessi fossero stati introdotti in tale sede senza formare oggetto di una specifica domanda di accertamento.

Pur non attenendo rigorosamente al tema scandagliato, per completezza si menziona Sez. 6-3, ord. n. 6211, Rv. 630497, est. Amendola, secondo cui il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto la restituzione di somme versate a seguito di una sentenza di condanna in primo grado, poi riformata in appello quanto all'ammontare del risarcimento dei danni, non può essere sospeso in attesa della decisione sul ricorso per cassazione proposto avverso la stessa sentenza di riforma, non ricorrendo un rapporto di pregiudizialità logico-giuridica tra il procedimento d'impugnazione e quello di opposizione a decreto ingiuntivo, tale da giustificare la sospensione di quest'ultimo giudizio, ai sensi dell'art. 295 cod. proc. civ.

5.1. I rapporti con il giudizio di opposizione all'esecuzione.

Numerose sono le pronunce che, dati gli intimi rapporti che esistono tra i due giudizi, si sono trovate a regolamentare i riflessi di un giudizio di opposizione all'esecuzione su quello di opposizione a decreto ingiuntivo pendente.

In particolare, Sez. 3, n. 1984, Rv. 629878, est. Frasca, ha avuto il merito di chiarire che, quando nel giudizio di opposizione all'esecuzione, intrapresa in forza di un decreto ingiuntivo, la contestazione del diritto di agire in executivis si basi sul tenore del provvedimento monitorio e sulla sua idoneità a fungere da titolo esecutivo, la disposizione di cui all'art. 642 cod. proc. civ. e quella complementare di cui all'art. 153 del medesimo codice di rito costituiscono le norme in forza delle quali il giudice dell'opposizione deve risolvere la quaestio iuris relativa alla sussistenza, nel decreto ingiuntivo, dei caratteri propri del titolo esecutivo, venendo pertanto in rilievo come norme non già del procedimento di esecuzione, bensì "sostanziali", che disciplinano la vicenda devoluta alla decisione del giudice.

Inoltre, Sez. 3, n. 1219, Rv. 629443, est. Rossetti, ha previsto che il debitore sottoposto ad esecuzione forzata in base ad un titolo esecutivo costituito da decreto ingiuntivo non tempestivamente opposto deve proporre opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615, primo comma, cod. proc. civ., se intenda negare che il decreto gli sia mai stato validamente notificato, mentre, ove intenda dolersi della sola irregolarità della notificazione, deve proporre opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, ai sensi dell'art. 650 cod. proc. civ.

A sua volta, Sez. 3, n. 11090, Rv. 630936, est. Frasca, ha sostenuto che, qualora, nel corso del giudizio di opposizione all'esecuzione, il diritto per cui si procede esecutivamente, fondato su titolo esecutivo giudiziale ancora sub iudice, risulti negato parzialmente da una successiva sentenza di merito, pur non definitiva, emessa nel relativo procedimento, per riconoscimento della sua parziale inesistenza originaria o in conseguenza di fatto estintivo sopravvenuto (come, ad esempio, in ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo accolta solo in parte, ex art. 653, secondo comma, cod. proc. civ.), il giudice dell'esecuzione deve rigettare l'opposizione per la parte di credito ritenuta esistente e accoglierla per la parte residua, dichiarando, a seconda dei casi, il momento al quale risale l'accertata inesistenza.

Premesso che, come è noto, ai sensi dell'art. 654 cod. proc. civ. (a norma del quale, se il titolo esecutivo è costituito da un decreto ingiuntivo, non è necessaria una nuova notificazione del medesimo), è sufficiente che nel precetto si indichino le parti e la data della notifica dell'ingiunzione e si menzioni il provvedimento che ha disposto l'esecutorietà e l'apposizione della formula esecutiva, Sez. 3, Sentenza n. 22510, Rv. 633160, est. Rubino, ha chiarito che, proprio perché tale notifica non viene effettuata, l'indicazione della sua data all'interno del precetto (prevista, in ogni caso, a pena di nullità dall'art. 480 cod. proc. civ.) acquista particolare valenza al fine della completa identificazione del titolo. Invero, l'indicazione della data di notifica dell'ingiunzione sostituisce la notifica, con la conseguenza che, in sua assenza, si produce una nullità, non sanabile per il raggiungimento dello scopo in virtù della semplice proposizione dell'opposizione agli atti esecutivi.

5.2. I rapporti con il fallimento.

Significative appaiono altresì le decisioni che si sono occupate dei rapporti con la procedura fallimentare cui è stata sottoposta una delle parti e, in particolare, l'opponente.

In questo ambito, Sez. 6-1, ord. n. 11811, Rv. 631611, est. Cristiano, ha avallato l'orientamento secondo cui, nel caso in cui la dichiarazione di fallimento del debitore sopravvenga nelle more dell'opposizione da lui proposta contro il decreto ingiuntivo, il curatore non sia tenuto a riassumere il giudizio, poiché il provvedimento monitorio, quand'anche provvisoriamente esecutivo, non è equiparabile ad una sentenza non ancora passata in giudicato, che viene emessa nel contraddittorio delle parti, ed è, come tale, totalmente privo di efficacia nei confronti del fallimento, al pari dell'ipoteca giudiziale iscritta in ragione della sua provvisoria esecutività. Né può trovare applicazione l'art. 653 cod. proc. civ., norma che si giustifica unicamente nell'ambito di un procedimento monitorio ormai divenuto inefficace.

Inserendosi nello stesso solco, Sez. 1, n. 1650, Rv. 629156, est. Nazzicone, ha ribadito (n. 28553 del 2011 Rv. 620931, n. 23202 del 2013 Rv. 62845), che, in assenza di opposizione, il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell'art. 647 cod. proc. civ. Tale funzione si differenzia dalla verifica affidata al cancelliere dall'art. 124 o dall'art. 153 disp. att. cod. proc. civ. e consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all'interno del processo d'ingiunzione ed a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo. Ne consegue che il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento, neppure nell'ipotesi in cui il decreto ex art. 647 cod. proc. civ. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito, deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell'art. 52 legge fall.

5.3. Gli effetti espansivi esterni.

Merita di essere segnalata Sez. L, n. 13492, Rv. 631655, est. Ghinoy, secondo cui l'effetto espansivo esterno del giudicato previsto dall'art. 336, secondo comma, cod. proc. civ., opera anche nel caso in cui il diritto posto alla base di un decreto ingiuntivo - ottenuto in base ad una sentenza immediatamente esecutiva sull'an debeatur - sia stato negato a seguito della riforma o cassazione della sentenza che l'aveva accertato e travolge gli effetti anche esecutivi del decreto stesso.

Da ultimo, pur non riguardando direttamente l'effetto espansivo, Sez. 3, n. 13547, Rv. 631400, est. Ambrosio, ha ricordato che l'iscrizione di ipoteca giudiziale, che sia stata operata sulla base di un decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutivo costituisce mero atto di esecuzione, per cui ne deve essere ordinata la cancellazione, anche di ufficio, qualora il titolo, per qualsiasi causa, divenga inefficace, con disposizione che va resa nello stesso provvedimento con cui viene accertata la sopravvenuta inefficacia.

6. Il procedimento per convalida di licenza o sfratto.

In tema di locazioni, dal punto di vista processuale, la S.C. ha sostanzialmente confermato gli indirizzi che già si erano andati formando negli anni precedenti.

In tema di competenza, Sez. 6, n. 21908, est. Vivaldi, Rv. 632974, ha statuito che la competenza territoriale del giudice del locus rei sitae, come si ricava dagli artt. 21 e 447-bis cod. proc. civ., è inderogabile, con la conseguente invalidità di una eventuale clausola difforme. Tale rilievo è officioso e la rilevazione della nullità è consentita anche in sede di regolamento di competenza.

Merita di essere segnalata Sez. 3, n. 8405, Rv. 630220, est. Vincenti, per la quale costituisce domanda nuova, come tale inammissibile, la richiesta di ripetizione dei canoni di locazione superiori alla misura legale versati anche nel corso di causa, ovvero successivamente alla data di proposizione della domanda, in quanto si fonda su presupposti di fatto diversi da quelli prospettati con la pretesa originaria, e comporta un mutamento del fatto costitutivo del diritto fatto valere, senza che possa estendersi analogicamente a tale fattispecie l'ipotesi eccezionale di condanna in futuro di cui all'art. 664, primo comma, cod. proc. civ., la quale consente, a chi abbia intimato sfratto per morosità, di ottenere l'ingiunzione per il pagamento, oltre che dei canoni già scaduti, anche dei canoni da scadere.

Particolarmente interessante si rivela, per i suoi risvolti pratici, Sez. 3, n. 19865, Rv. 632432, est. Frasca, per la quale, ai fini della convalida dello sfratto, l'attestazione del locatore che la morosità persiste, ai sensi dell'art. 663, terzo comma, cod. proc. civ., è necessaria solo quando l'intimato non compaia all'udienza, perché, se egli compare e si oppone, la deduzione di cessazione della morosità resta affidata alla sua difesa, mentre, se compare e non si oppone, la necessità dell'attestazione è assorbita dalla non opposizione.

Per Sez. 3, n. 26356, in corso di massimazione, est. Sestini, atteso che, nelle controversie locatizie che siano introdotte da intimazione di licenza o sfratto e che proseguano (previo mutamento del rito) a seguito dell'opposizione della parte intimata, la memoria ex art. 426 cod. proc. civ. costituisce l'atto in cui si cristallizzano le posizioni delle parti, deve escludersi che possa ritenersi integrata, prima del deposito dell'anzidetta memoria, una non contestazione del fatto che possa valere ad esonerare la controparte della relativa prova.

Pur concernendo un aspetto di taglio prevalentemente sostanziale, è opportuno richiamare Sez. 1, n. 21836, Rv. 632816, est. Mercolino, per aver esteso l'applicabilità della speciale sanatoria della morosità del conduttore, disciplinata dall'art. 55 della legge 27 luglio 1978, n. 392, per le sole locazioni abitative di immobili urbani, oltre che nel procedimento di convalida di sfratto, anche quando la domanda di risoluzione contrattuale sia stata introdotta in via ordinaria.

6.1. L'ordinanza di rilascio.

Una particolare attenzione è stata, inoltre, manifestata per l'ordinanza di rilascio ai sensi dell'art. 665 cod. proc. civ.

E così Sez. 6-3, ord. n. 12846, Rv. 631861, est. Barreca, ha ribadito che la detta ordinanza non è impugnabile né è idonea al giudicato, poiché non ha carattere irrevocabile e non statuisce in via definitiva sui diritti e sulle eccezioni delle parti, la cui risoluzione è riservata invece alla successiva fase di merito, in cui intimante ed intimato cristallizzano il thema decidendum. Ne consegue che l'omessa pronuncia su domande o eccezioni sollevate nella fase sommaria o in quella di merito può essere fatta valere solo con l'impugnazione della sentenza che definisce il giudizio incardinato ai sensi dell'art. 667 cod. proc. civ.

Per Sez. 3, n. 10539, Rv. 631004, est. Rubino, la stessa ordinanza, sempre in quanto provvedimento provvisorio inidoneo al giudicato, è destinata a perdere efficacia qualora, all'esito del giudizio che prosegua ai sensi dell'art. 667 cod. proc. civ., oppure di un distinto processo promosso tra le medesime parti ed avente ad oggetto il medesimo rapporto di locazione, il giudice pronunci sentenza e fissi un diverso termine di rilascio.

6.2. La sanatoria della morosità.

La Sez. 3, n. 19865, già menzionata, ha opportunamente ricordato che, nel procedimento per convalida di sfratto, il giudice che ritenga inammissibile l'istanza del conduttore per la sanatoria della morosità, ai sensi dell'art. 55 della legge 27 luglio 1978, n. 392, può emettere solo l'ordinanza di rilascio, a norma dell'art. 665 cod. proc. civ., disponendo la prosecuzione del giudizio a cognizione piena, in quanto l'ordinanza di convalida, a norma dell'art. 663 cod. proc. civ., risulterebbe emessa nell'opposizione dell'intimato e, quindi, fuori dei casi di legge, sì da integrare una sentenza appellabile.

Peraltro, Sez. 3, n. 20483, Rv. 632818, est. Vincenti, ha ribadito che nelle locazioni di immobili ad uso diverso dall'abitazione, alle quali non si applica la disciplina di cui all'art. 55 della legge 27 luglio 1978, n. 392, l'offerta o il pagamento del canone (che, se effettuati dopo l'intimazione di sfratto, non consentono l'emissione, ai sensi dell'art. 665 cod. proc. civ., del provvedimento interinale di rilascio con riserva delle eccezioni, per l'insussistenza della persistente morosità di cui all'art. 663, terzo comma, cod. proc. civ., nel giudizio susseguente a cognizione piena), non comportano l'inoperatività della clausola risolutiva espressa, in quanto, ai sensi dell'art. 1453, terzo comma, cod. civ., dalla data della domanda - che é quella già avanzata ex art. 657 cod. proc. civ. con l'intimazione di sfratto, introduttiva della causa di risoluzione del contratto - il conduttore non può più adempiere.

6.3. Il regime giuridico dell'ordinanza di convalida.

Sez. 3, n. 15230, Rv. 632535, est. Sestini, ha ribadito che l'ordinanza di convalida della licenza o dello sfratto ex art. 663 cod. proc. civ., pur impugnabile, in linea di principio, soltanto con l'opposizione tardiva ex art. 668 cod. proc. civ., è soggetta al normale rimedio dell'appello solo se emanata nel difetto dei presupposti prescritti dalla legge, costituiti dalla presenza del locatore all'udienza fissata in citazione e dalla mancanza di eccezioni o difese del conduttore ovvero dalla sua assenza, e, quindi, al di fuori dello schema processuale ad essa relativo, essendo, in tal caso, equiparabile, nella sostanza, ad una sentenza anche ai fini dell'impugnazione. Pertanto, la circostanza che il giudice non abbia esaminato questioni di merito rilevabili d'ufficio (quale quella relativa all'eventuale nullità del contratto) non ne comporta l'appellabilità.

Per Sez. 6, n. 22531, Rv. 633180, est. Frasca, ove il giudice d'appello ritenga che l'azione promossa in primo grado sia stata esercitata erroneamente con le forme del procedimento per convalida di sfratto per morosità, in quanto la domanda prospettava un'azione di rilascio per occupazione sine titulo (anziché un'azione di risoluzione per inadempimento di un contratto di locazione), non può rigettare la domanda per la sola erronea attivazione del procedimento speciale, ma deve deciderla esaminando nel merito se l'occupazione senza titolo sussista oppure no.

La Corte ha poi chiarito, con Sez. 3, n. 15904, Rv. 632705, est. Lanzillo, che, in tema di intimazione di sfratto per morosità, la sentenza che pronunci la risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore ex art. 1453 cod. civ. non incorre in vizio di ultrapetizione se non siano state proposte domande ed eccezioni nuove rispetto a quelle introdotte dalle parti con l'intimazione di sfratto o, comunque, oggetto del giudizio di opposizione.

Da ultimo, Sez. 3, n. 25305, est. Carluccio, in corso di massimazione, ha ribadito il principio per cui nelle controversie soggette al rito del lavoro l'omessa lettura del dispositivo all'udienza di discussione determina, ai sensi dell'art. 156, secondo comma, cod. proc. civ., la nullità insanabile della sentenza per mancanza del requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell'atto, correlato alle esigenze di concentrazione del giudizio e di immutabilità della decisione, dovendosi ritenere, ove l'omissione abbia riguardato la decisione assunta dal giudice d'appello, che la Corte di cassazione, qualora la nullità sia stata dedotta come motivo di impugnazione, debba limitare la pronunzia alla declaratoria di nullità con rimessione della causa al primo giudice senza decidere nel merito, trovando applicazione tale ultima regola, desumibile dagli artt. 353 e 354 cod. proc. civ., esclusivamente nei rapporti tra il giudizio di appello e quello di primo grado.

7. I procedimenti cautelari. Il regime giuridico.

La S.C. nel corso del 2014, in tema di procedimenti cautelari, è stata di frequente sollecitata a prendere posizione sul regime giuridico dei relativi provvedimenti.

Così Sez. 6-1, n. 14505, Rv. 631390, est. Acierno, ha escluso che l'ordinanza con la quale il giudice, senza nulla statuire sulle spese, dispone l'archiviazione di un'istanza di istruzione preventiva in corso di causa, rilevando la già avvenuta decisione del relativo giudizio di merito, sia impugnabile con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., trattandosi di provvedimento, reso a seguito di procedimento di natura interinale, privo di definitività.

Questa impostazione è coerente con l'assunto di partenza secondo cui trattasi di provvedimento che non contiene alcun giudizio in merito ai fatti controversi, non pregiudica il diritto alla prova ed è, inoltre, ridiscutibile - anche quanto alle spese - nell'eventuale giudizio di merito. Essendosi al cospetto di un provvedimento connotato dal carattere della provvisorietà e strumentalità, avverso il medesimo non sono ammissibili neppure il regolamento di competenza (ma sul punto vedasi infra) ed il regolamento di giurisdizione.

Per Sez. 6-3, n. 9371, Rv. 630429, est. Ambrosio, anche il provvedimento con cui il collegio decida - ai sensi dell'art. 624, secondo comma, cod. proc. civ. - in ordine al reclamo proposto avverso l'ordinanza che abbia disposto la sospensione dell'esecuzione, essendo privo del carattere delle definitività, non risulta impugnabile con il ricorso per cassazione ex art. 111, settimo comma, Cost. neppure per far valere eventuali vizi di costituzione del giudice. Invero, il detto provvedimento è suscettibile di ridiscussione nell'ambito del giudizio di opposizione.

La Corte, inoltre, con Sez. 6-2, n. 3629, Rv. 629431, est. Manna, ha dichiarato inammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso l'ordinanza sul reclamo nel procedimento possessorio a struttura eventualmente bifasica, delineata dall'art. 703 cod. proc. civ. (come modificato dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in legge 14 maggio 2005, n. 80), atteso che, in caso di prosecuzione del giudizio di merito, l'ordinanza rimane assorbita nella sentenza, unico provvedimento decisorio, mentre, in caso contrario, l'ordinanza stessa acquista una stabilità puramente endoprocessuale, inidonea al giudicato, o determina una preclusione pro iudicato da estinzione del giudizio.

In particolare, premesso che i provvedimenti possessori rientrano tra quelli a strumentalità attenuata, mentre nel caso di instaurazione (recte, prosecuzione) del giudizio di merito la pronuncia è destinata a perdere efficacia a seguito della decisione di merito ed è, quindi, inidonea a produrre effetti di diritto sostanziale e processuale con autorità di giudicato, nell'inversa ipotesi vale la regola enunciata dall'ultimo comma dell'art. 669 octies cod. proc. civ., secondo cui l'autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in un diverso processo.

Partendo dal medesimo presupposto in punto di diritto, Sez. U, n. 14041, Rv. 631195, est. Rordorf, ha statuito che la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione non è preclusa dall'emanazione di un provvedimento cautelare in corso di causa, poiché questo non costituisce sentenza, neppure qualora risolva contestualmente la questione di giurisdizione, tranne che la questione medesima sia stata riferita al solo procedimento cautelare e il regolamento sia stato proposto per ragioni che attengono ad esso in via esclusiva. In realtà, la pronuncia si è allineata nella sostanza a Sez. U, n. 1144 del 2007, Rv. 594330, ed a Sez. U, n. 3167 del 2011, Rv. 616066.

Da ultimo, Sez. 6-3, n. 21255, Rv. 632837, est. Barreca, ha chiarito che, in tema di esecuzione di sequestro conservativo di crediti, regolata dalle norme sul pignoramento presso terzi, l'ordinanza del giudice che dichiara la propria competenza e raccoglie la dichiarazione positiva del terzo non assume valore di sentenza sulla competenza, sicchè non è impugnabile con il regolamento di competenza, ma solo con l'opposizione agli atti esecutivi.

7.1. Le questioni di competenza.

Sez. U, n. 17443, Rv. 632605, est. Di Cerbo, dopo aver enunciato il principio generale per cui la pronuncia sulla litispendenza emanata nella fase sommaria, essendo dotata di stabilità, è impugnabile con regolamento di competenza, ha, nel settore elettivo del lavoro, stabilito che ciò vale anche con riguardo a pronuncia di analogo tenore emessa nella fase sommaria del rito cosiddetto Fornero ex art. 1, commi 47 e ss, della legge 28 giugno 2012, n. 92, atteso il carattere solo eventuale della fase a cognizione piena e l'idoneità al passaggio in giudicato dell'ordinanza conclusiva della fase sommaria in caso di omessa opposizione. La sentenza si segnala soprattutto per aver escluso la sussistenza delle ragioni individuate dalla giurisprudenza di merito per negare, con riferimento ai procedimenti cautelari, l'ammissibilità del detto mezzo di impugnazione.

Tra l'altro, la menzionata pronuncia non sembra essere stata condivisa dalla successiva Sez. 6, n. 21255, Rv. 632837, est. Barreca, la quale, in tema di esecuzione di sequestro conservativo (peraltro, soggetto al regime di strumentalità rigorosa) di crediti (regolata dalle norme sul pignoramento presso terzi), ha escluso la possibilità di impugnare con il regolamento di competenza l'ordinanza del giudice che dichiara la propria competenza, individuando come mezzo di gravame l'opposizione agli atti esecutivi.

Sul piano della competenza, Sez. 6-L, n. 11778, Rv. 631062, est. Blasutto, ha sostenuto che l'instaurazione di un procedimento ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ. (nel caso sottoposto all'esame della Corte si trattava di un ricorso finalizzato alla reintegrazione nel posto di lavoro in applicazione dell'art. 18 legge 20 maggio 1970, n. 300, nel regime ratione temporis applicabile prima dell'entrata in vigore della legge 28 giugno 2012, n. 92) non determina il definitivo radicamento della competenza dell'ufficio giudiziario adìto anche ai fini del successivo giudizio di merito, in quanto la regola di cui all'art. 39, terzo comma, cod. proc. civ., riferisce la prevenzione all'introduzione del giudizio di merito (che nella specie era avvenuta anche dinanzi ad altro giudice territorialmente competente, ai sensi dell'art. 413 cod. proc. civ., oltre che presso l'ufficio giudiziario che aveva concesso la misura cautelare, confermata in sede di reclamo) e non alla proposizione della domanda cautelare.

In proposito, è opportuno precisare che l'omessa rilevazione dell'incompetenza (derogabile od inderogabile) da parte del giudice o l'omessa proposizione della relativa eccezione ad opera delle parti nel procedimento cautelare ante causam non determina il predetto consolidamento della competenza in capo all'ufficio adìto ai fini dell'eventuale giudizio di merito anche perchè non opera nel giudizio cautelare il regime delle preclusioni relativo alle eccezioni e al rilievo d'ufficio dell'incompetenza, stabilito dall'art. 38 cod. proc. civ., in quanto applicabile esclusivamente al giudizio a cognizione piena. Ne consegue che il giudizio proposto ai sensi degli artt. 669-octies e novies cod. proc. civ., all'esito della fase cautelare ante causam, può essere validamente instaurato davanti al giudice competente, ancorché diverso da quello della cautela. Inoltre, la competenza per il giudizio di merito successivo alla procedura di urgenza di cui all'art. 700 cod. proc. civ. deve essere stabilita in base alle norme generali, senza che una preclusione possa derivare dal provvedimento cautelare che pure implicitamente contenga anche l'indicazione di questo giudice, atteso che tale provvedimento non può essere vincolante nel giudizio di merito. D'altra parte, quest'ultimo costituisce un nuovo ed autonomo processo e non già la continuazione di quello sommario (come nel caso dei procedimenti di nunciazione o dei procedimenti possessori).

7.2. Il procedimento cautelare uniforme.

In ordine alla instaurazione del giudizio di merito (eventuale per i provvedimenti a strumentalità attenuata e necessaria, a pena di inefficacia, per quelli a strumentalità rigorosa), Sez. 3, n. 17221, est. Rossetti, in corso di massimazione, ha reputato valida la notificazione dell'atto introduttivo del giudizio, che segua un procedimento cautelare, eseguita, anziché alla parte personalmente, nel domicilio da questa eletto presso il proprio difensore in occasione della fase sommaria, purchè dal tenore della procura alle liti possa desumersi che essa sia stata conferita anche per la fase di merito.

Come è noto, sul punto esiste in seno alla Suprema Corte un contrasto di vedute, che probabilmente in futuro verrà composto dalle Sezioni Unite, atteso che, a fronte di chi ritiene che la citazione introduttiva del giudizio di merito vada notificata al convenuto personalmente, secondo le regole dettate dagli artt. 137 e ss. cod. proc. civ. (e non al procuratore nominato nel procedimento precedente, presso il quale lo stesso convenuto abbia eletto domicilio), vi è chi sostiene che la notifica dell'atto introduttivo vada effettuata, a pena di inefficacia, al procuratore costituito.

È stato poi confermato - Sez. 3, n. 23154, est. Vivaldi, in corso di massimazione - il principio per cui il giudizio proposto ai sensi degli artt. 669-octies e novies cod. proc. civ., all'esito della fase cautelare ante causam, può essere validamente instaurato davanti al giudice competente (ad esempio, in virtù di una clausola che individua una competenza territoriale esclusiva, ancorché diverso da quello della cautela), con la conseguenza che le spese, non liquidate dal giudice della cautela, ben possono essere richieste, quale danno emergente, al giudice del merito.

Inoltre Sez. L, n. 18676, est. Manna, Rv. 632879, ha stabilito che i provvedimenti restitutori ex art. 669 novies cod. proc. civ. devono essere pronunciati d'ufficio dalla corte d'appello, ove a ciò non abbia provveduto il tribunale all'esito dell'accertamento nel merito dell'insussistenza del diritto oggetto di cautela, non trattandosi di domanda riconvenzionale. Non è, peraltro, teoricamente configurabile un giudicato di irripetibilità per il solo fatto dell'omissione del primo giudice.

Avuto riguardo alla revocabilità e/o modificabilità dei provvedimenti cautelari, Sez. 1, n. 13903, Rv. 631395, est. Scaldaferri, ha chiarito che le questioni giuridiche relative alla concedibilità del provvedimento cautelare (nella specie, sequestro conservativo) non sono riconducibili al mutamento delle circostanze che ne consente la revoca o la modifica ex art. 669 decies cod. proc. civ. e non possono, quindi, essere proposte nel giudizio di merito, nel quale, invece, sono deducibili, a norma dell'art. 669 duodecies cod. proc. civ., le contestazioni inerenti all'esecuzione della cautela.

Va rilevato che le contestazioni mosse in ordine all'attuazione di un provvedimento cautelare non assumono natura di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi; tali contestazioni conservano la natura di eccezioni del soggetto che ha subìto la misura cautelare, idonee soltanto a sollecitare l'esercizio, da parte del giudice della causa di merito, dei poteri di modifica, integrazione, precisazione o revoca del provvedimento, con la conseguenza che la competenza a decidere ogni questione in ordine all'attuazione di tale misura cautelare appartiene al giudice della causa di merito.

Si è pure ribadito - Sez. 3, n. 15761, Rv. 631880, est. Sestini - che l'attuazione di misure cautelari, aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare, non avvia un separato procedimento di esecuzione, ma costituisce una fase del procedimento cautelare in cui il giudice (da intendersi come ufficio), che ha emanato il provvedimento cautelare, ne determina anche le modalità di attuazione, risolvendo con ordinanza le difficoltà e le contestazioni sorte, mentre sono riservate alla cognizione del giudice del merito le altre questioni.

Ne consegue, altresì, che è inammissibile l'opposizione agli atti esecutivi per contestare la regolarità formale degli atti posti in essere in attuazione di un provvedimento cautelare, essendo il provvedimento d'urgenza inseparabile dal procedimento nel cui ambito é stato emesso.

Ha posto termine ad un contrasto in seno alla giurisprudenza di merito Sez. 6-3, n. 17845, Rv. 632563, est. Barreca, prevedendo che, in tema di reintegrazione e manutenzione del possesso, all'esecuzione forzata degli obblighi di fare contenuta nella sentenza conclusiva del giudizio di merito instaurato ai sensi dell'art. 703 cod. proc. civ. si applichi la disciplina di cui agli artt. 612 e ss. cod. proc. civ.

Ponendo probabilmente fine ad un'annosa questione, Sez. 6-1, n. 15416, Rv. 632557, est. Acierno, ha chiarito che, nell'ambito del procedimento di separazione personale dei coniugi, i provvedimenti adottati dal giudice istruttore, ex art. 709, ultimo comma, cod. proc. civ., di modifica o di revoca di quelli presidenziali, non sono reclamabili, poiché è garantita l'effettività della tutela delle posizioni soggettive mediante la modificabilità e la revisione, a richiesta di parte, dell'assetto delle condizioni separative e divorzili, anche all'esito di una decisione definitiva, piuttosto che dalla moltiplicazione di momenti di riesame e controllo da parte di altro organo giurisdizionale nello svolgimento del giudizio a cognizione piena.

8. I sequestri.

In tema di sequestri, Sez. 1, n. 13903, Rv. 631396, est. Scaldaferri, ha enunciato l'importante principio per cui il sequestro conservativo, a norma dell'art. 678 cod. proc. civ., a sua volta richiamato dall'art. 669 duodecies, cod. proc. civ., si attua secondo le norme stabilite per il pignoramento dei beni che ne sono oggetto. Ne consegue che, nel caso di quote di società a responsabilità limitata, ai sensi dell'art. 2471, primo comma, cod. civ., nel testo modificato dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il sequestro si esegue non già nelle forme del pignoramento presso terzi, ma a mezzo dell'iscrizione del provvedimento nel registro delle imprese, senza che sia assolutamente necessaria la notifica al debitore o alla società, quando quest'ultima sia stata parte del procedimento cautelare.

Come è noto, la quota di partecipazione in una società a responsabilità limitata esprime una posizione contrattuale obiettivata che va considerata come bene immateriale equiparabile al bene mobile non iscritto in pubblico registro ai sensi dell'art. 812 cod. civ., onde ad essa possono applicarsi, a norma dell'art. 813 cod. civ., le disposizioni concernenti i beni mobili e, in particolare, la disciplina delle situazioni soggettive reali e dei conflitti tra di esse sul medesimo bene, giacché la quota, pur non configurandosi come bene materiale al pari dell'azione, ha tuttavia un valore patrimoniale oggettivo, costituito dalla frazione del patrimonio che rappresenta, e va perciò configurata come oggetto unitario di diritti e non come un mero diritto di credito; ne consegue che le quote di partecipazione ad una società a responsabilità limitata possono essere oggetto anche di sequestro giudiziario, quando ne sia controversa la titolarità.

A differenti conclusioni dovrebbe pervenirsi in caso di trasferimento delle quote, il quale è validamente ed efficacemente attuato attraverso un contratto del quale sono parti l'alienante, titolare della quota, e l'acquirente, mentre la società è terza ed il trasferimento è produttivo di effetti indipendentemente dall'iscrizione nel libro dei soci, la cui unica funzione è quella di renderlo efficace nei confronti della società.

Pronunciandosi in una fattispecie di non frequente verificazione, Sez. 3, n. 19157, est. Spirito, Rv. 633077, ha chiarito che il sequestro liberatorio previsto dall'art. 687 cod. proc. civ. può essere disposto dal giudice solo su richiesta del debitore, anche nel caso in cui egli abbia dubbi sulla individuazione della persona del creditore, ma voglia evitare di subìre gli effetti della mora. A tal fine è, infatti, richiesto che il debitore, in vista della decisione del giudice, offra il pagamento a tutti coloro che ne pretendano l'adempimento, ottenga poi il sequestro delle somme offerte ed infine esegua il versamento nelle mani del custode, perché sia costui a consegnare la somma a chi, all'esito dell'accertamento processuale, risulti il titolare del credito.

9. I procedimenti di istruzione preventiva.

In tema di procedimenti di istruzione preventiva, Sez. 6-2, n. 3911, Rv. 629765, est. Piccialli, partendo dal presupposto per cui le sentenze di accertamento possono avere ad oggetto diritti soggettivi o status, non meri stati di fatto, anche se controversi, privi di autonoma rilevanza economico-giuridica, è pervenuta alla conclusione che è inammissibile la domanda di accertamento dello stato dei luoghi e della consistenza di un immobile e che questo accertamento, non costituendo, di per sé, un "bene della vita", ma un diritto di natura processuale, può essere, semmai, fatto valere nelle forme dell'accertamento tecnico e dell'ispezione giudiziale.

Invero, l'interesse ad agire richiede non solo l'accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l'esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice, poiché il processo non può essere utilizzato solo in previsione di possibili effetti futuri pregiudizievoli per la parte, senza che sia precisato il risultato utile e concreto che essa intenda in tal modo conseguire.

In subiecta materia merita di essere segnalata Corte cost. 28 ottobre 2014, n. 243, secondo cui la previsione dell'espletamento dell'accertamento tecnico preventivo obbligatorio (art. 445-bis cod. proc. civ.) quale condizione di procedibilità per il riconoscimento dei diritti (recte, delle provvidenze economiche) in relazione alle controversie in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, le modalità con cui sono stati disciplinati detto procedimento e la proposizione del giudizio in caso di mancato accordo e contestazione delle conclusioni del c.t.u. non sono irragionevoli e non vulnerano il diritto di azione. La relativa questione di legittimità costituzionale è stata, pertanto, dichiarata in parte inammissibile ed in parte infondata.

Invero, la previsione del previo esperimento di un procedimento giurisdizionale sommario, sul modello di quelli d'istruzione preventiva, a carattere contenzioso, mira a realizzare il ragionevole interesse generale alla riduzione del contenzioso assistenziale e previdenziale ed al contenimento della durata delle relative controversie, dando certezza giuridica in ordine all'accertamento del requisito medico-sanitario, senza affatto limitare, fino ad impedirlo, l'esercizio del diritto d'azione.

10. I procedimenti possessori.

Per quanto concerne i procedimenti possessori, è stato disciplinato l'aspetto del cumulo di domande, prevedendosi (Sez. 2, n. 20635, Rv. 632423, est. Matera) che il soggetto leso che invochi la tutela possessoria, ove intenda ottenere la condanna dell'autore dello spoglio o della turbativa anche al risarcimento dei danni, deve necessariamente richiedere al giudice, nel termine previsto dall'art. 703, quarto comma, cod. proc. civ., la fissazione dell'udienza per la prosecuzione del giudizio di merito, ovvero proporre un autonomo giudizio, in quanto le questioni inerenti le pretese risarcitorie possono essere esaminate solo nel giudizio di cognizione piena. Ne consegue che, qualora il giudice adito con azione possessoria, esaurita la fase a cognizione sommaria, non si limiti a pronunciare sulla domanda di reintegrazione o di manutenzione, ma, travalicando i limiti del contenuto del provvedimento interdittale, decida altresì sulla domanda accessoria di risarcimento danni, il provvedimento adottato, anche se emesso nella forma dell'ordinanza, va qualificato come sentenza e, come tale, è impugnabile con appello.

Sul piano della legittimazione attiva, Sez. 2, n. 18486, Rv. 632720, est. Picaroni, ha riconosciuto che il conduttore il quale mantenga la disponibilità dell'immobile dopo la cessazione di efficacia del contratto di locazione è legittimato a ricorrere alla tutela possessoria ex art. 1168, secondo comma, cod. civ., in quanto detentore qualificato, ancorché inadempiente all'obbligo di restituzione agli effetti dell'art. 1591 cod. civ.

Inoltre, Sez. 2, n. 810, Rv. 629362, est. Falaschi, ha confermato l'orientamento ormai consolidato, ma risalente (n. 1398 del 1989, Rv. 462228, n. 8203 del 1990, Rv. 468812), secondo cui l'art. 704 cod. proc. civ., devolvendo la competenza per la domanda possessoria al giudice del giudizio petitorio, deroga alla regola generale della competenza in materia possessoria e non è applicabile, quindi, oltre i casi in esso considerati, che presuppongono la connessione oggettiva delle due cause, l'anteriorità del giudizio petitorio rispetto all'accadimento dei fatti dedotti come lesivi del possesso e l'identità soggettiva (almeno parziale) delle parti, la quale ricorre quando tutte le parti del giudizio possessorio siano presenti nel giudizio petitorio, essendo irrilevante soltanto che a quest'ultimo partecipino anche altri soggetti.

Va ricordato, in tema di azioni a difesa del possesso, che tra causa possessoria e causa petitoria sussiste una forma di connessione impropria, non essendo ravvisabile un vincolo di subordinazione o di garanzia o di pregiudizialità; ne consegue che non va disposta la sospensione del giudizio possessorio in attesa dell'esito definitivo del giudizio petitorio, posto, altresì che la sentenza definitiva che decide la controversia petitoria, escludendo definitivamente la sussistenza del diritto, impone di negare al possesso la protezione giuridica. Una volta intervenuta una sentenza petitoria che escluda il diritto, sia essa irrevocabile o meno, si deve necessariamente negare tutela al possesso con conseguente revoca dei provvedimenti possessori interinali eventualmente emessi.

11. Il procedimento sommario.

In tema di procedimenti sommari, Sez. 6-1, n. 7258, Rv. 630320, est. De Chiara, ha avuto il merito di chiarire l'ambito di applicazione del combinato disposto degli artt. 702 quater e 702 ter, comma 5, cod. proc. civ. nella parte in cui prevedono che avverso l'ordinanza emessa ai sensi della seconda disposizione è possibile proporre appello e che il giudice adìto in primo grado deve decidere sulla domanda con ordinanza, a meno che non provveda ai sensi dei precedenti commi dell'art. 702 ter (vale a dire, fatta eccezione per il primo comma, in cui, se ritiene di essere incompetente, il giudice comunque lo deve dichiarare con ordinanza suscettibile di impugnativa con regolamento necessario di competenza, qualora rilevi che la domanda principale o quella riconvenzionale non rientrino tra quelle indicate nell'art. 702 bis ovvero ritenga che le difese svolte dalle parti o la causa relativa alla domanda riconvenzionale richiedano un'istruzione non sommaria). Invero, al di fuori di tali ultime ipotesi (in cui l'ordinanza giudiziale non è, per espressa previsione normativa, impugnabile), la pronuncia del tribunale che dichiara inammissibile, in quanto tardivamente proposto, il ricorso ex art. 702 bis cod. proc. civ. (nella fattispecie il ricorso era stato proposto avverso il rigetto della domanda di protezione internazionale) non è impugnabile per cassazione, ma è appellabile ai sensi dell'art. 702 quater cod. proc. civ. Ciò in quanto tale norma, nell'ammettere l'appello avverso le ordinanze emesse ai sensi dell'art. 702 ter, sesto comma, cod. proc. civ., contiene la regola generale nella quale rientra anche la statuizione d'inammissibilità per tardività della domanda.

In materia di immigrazione, Sez. 6-1, n. 14502, Rv. 631621, est. De Chiara, ha precisato che l'appello, ex art. 702 quater cod. proc. civ., contro l'ordinanza del tribunale reiettiva del ricorso avverso il diniego di permesso di soggiorno per motivi familiari, di cui all'art. 30, comma 1, lett. a, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, va proposto con atto di citazione, e non con ricorso, sicchè la verifica della tempestività dell'impugnazione deve essere effettuata calcolandone il termine di trenta giorni dalla data di notifica dell'atto introduttivo alla parte appellata.

A tal ultimo riguardo, va ricordato che l'appello, ove venga erroneamente introdotto con ricorso anziché con citazione, è suscettibile di sanatoria, a condizione che nel termine previsto dalla legge l'atto sia stato non solo depositato nella cancelleria del giudice, ma anche notificato alla controparte, non trovando applicazione il diverso principio, non suscettibile di applicazione al di fuori dello specifico ambito, affermato con riguardo alla sanatoria delle impugnazioni delle deliberazioni di assemblea di condominio spiegate mediante ricorso, e senza che sia possibile rimettere in termini l'appellante, non ricorrendo i presupposti della pregressa esistenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale poi disatteso da un successivo pronunciamento (cfr. Sezioni Unite n. 2907 del 2014 Rv. 629583).

Sul piano probatorio, Sez. 2, n. 4485, Rv. 629600, est. Manna, ha sostenuto che l'esercizio dei poteri istruttori concessi al giudice dall'art. 702 ter, quinto comma, cod. proc. civ. (condensato nell'espressione "atti di istruzione rilevanti in relazione all'oggetto del provvedimento richiesto", che richiama nella sostanza quella dettata in tema di procedimenti cautelari dall'art. 669 sexies cod. proc. civ.) esprime una valutazione discrezionale (insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione esente da vizi di logica giuridica), restando esclusa la sola possibilità di decidere la controversia in applicazione dell'art. 2697 cod. civ., quale regola di giudizio, non potendo il giudice dare per esistenti fonti di prova decisive e, nel contempo, astenersi dal disporne l'acquisizione d'ufficio.

A voler importare in subiecta materia gli orientamenti formatisi in seno ai procedimenti cautelari, l'esclusione del principio dispositivo espresso dall'art. 115 cod. proc. civ. e della regola dell'onere della prova ex art. 2697 cod. civ. dovrebbe comportare, da un lato, la "deformalizzazione" del procedimento di acquisizione (e, quindi, la discrezionalità demandata al giudice nella fissazione delle modalità con cui procedere agli atti di istruzione) e, dall'altro lato, il potenziamento dell'iniziativa inquisitoria e la soppressione delle regole sull'onere della prova (sempre ovviamente nel rispetto del contraddittorio), fermo restando il principio dell'onere delle allegazioni, che spetterebbe pur sempre alla parte anche in questa materia e che non consentirebbe al giudice di introdurre d'ufficio nuovi fatti nel processo.

In questa direzione sembra proiettarsi altresì Sez. 1, n. 1904, Rv. 629866, est. Benini, secondo cui il rito sommario (applicabile nel caso all'esame della Corte alle controversie sull'indennità di esproprio ai sensi dell'art. 29 d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150), pur incanalando l'attività dei soggetti del giudizio in una sequenza tendenzialmente atta a snellire i tempi, non impone una decisione allo stato degli atti, dovendo il giudice, pur nella particolarità del rito, procedere all'attività istruttoria appropriata al tipo di controversia trattata ed anche a nominare un consulente tecnico d'ufficio, il quale, ove la documentazione al riguardo fornita dalle parti sia incompleta od insufficiente, può provvedere alla ricerca ed all'acquisizione degli elementi di comparazione, data la necessaria valutazione tecnica delle caratteristiche dei beni presi in considerazione. In siffatta evenienza la "deformalizzazione" si potrebbe tradurre nell'espletamento di una consulenza tecnica senza una specifica formulazione dei quesiti, da effettuare oralmente ed in via immediata.

Ovviamente, dovrebbe trattarsi di fatti accessori e rientranti nell'ambito strettamente tecnico della consulenza e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse (cfr., in tal senso, n. 28669 del 2013, Rv. 629696).

Riflettendo il proprio decisum sugli aspetti sommari, Sez. 6, n. 22605, Rv. 633120, est. Ambrosio, ha, infine, ribadito il principio per cui, qualora, nel corso di un procedimento introdotto con il rito sommario di cognizione, insorga una questione di pregiudizialità rispetto ad altra controversia, che imponga un provvedimento di sospensione necessaria, ai sensi dell'art. 295 cod. proc. civ., o venga invocata l'autorità di una sentenza resa in altro giudizio e tuttora impugnata, ai sensi dell'art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., si determina la necessità di un'istruzione non sommaria e, quindi, il giudice deve, a norma dell'art. 702-ter, terzo comma, cod. proc. civ., disporre il passaggio al rito della cognizione piena. Ne consegue che, nell'ambito del rito sommario, è illegittima l'adozione di un provvedimento di sospensione ai sensi dell'art. 295 cod. proc. civ. o dell'art. 337, secondo comma, cod. proc. civ.

12. I procedimenti in materia di famiglia e di status. I provvedimenti del giudice tutelare.

In questo ambito si procederà ad una analisi dei profili di ordine più generale, mentre per un esame su questioni di maggiore dettaglio si rinvia al successivo capitolo XXXII.

Nell'ambito dei procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone, per la sua incidenza sul relativo regime giuridico, merita di essere segnalata Sez. 6-1, ord. n. 17876, Rv. 631931, est. Acierno, a tenore della quale i provvedimenti resi dal giudice tutelare ex art. 337 cod. civ. (e, dunque, in tema di vigilanza sull'osservanza delle condizioni che il tribunale abbia stabilito per l'esercizio della potestà; in particolare, il tribunale per i minorenni per l'esercizio della potestà e l'amministrazione dei beni ed il tribunale ordinario per l'affidamento della prole in sede di separazione tra i coniugi) hanno natura meramente attuativa di quelli adottati dagli organi giudiziari regolatori della potestà genitoriale (si pensi alla scelta della scuola - privata o pubblica - cui iscrivere il figlio), sicché, anche se meramente declinatori della competenza, sono privi del carattere della decisorietà e definitività e non sono impugnabili con il regolamento necessario ex art. 42 cod. proc. civ.

12.1. I giudizi di separazione e di divorzio.

Avuto riguardo al regime giuridico, Sez. 6-1, n. 15186, Rv. 631808, est. De Chiara, ha statuito che l'ordinanza con cui il presidente del tribunale, nel corso di un procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, dispone la riduzione dell'assegno di separazione, nomina sè stesso giudice istruttore e fissa l'udienza di comparizione delle parti, è un provvedimento temporaneo ed urgente, adottato ai sensi dell'art. 4, ottavo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, sicchè non è impugnabile con regolamento di competenza, stante la sua natura non decisoria, ma esclusivamente provvisoria ed interinale, tanto più che, in tali giudizi, spetta al tribunale in composizione collegiale, e non al giudice istruttore o al presidente del tribunale, il potere di decidere la causa, ancorchè sulla sola competenza.

Quest'ultima pronuncia, sempre in tema di divorzio, ha altresì ribadito il principio secondo cui la domanda di scioglimento del matrimonio civile o di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario va proposta, ai sensi dell'art. 4, primo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo introdotto dall'art. 2, comma 3 bis, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80), quale risultante a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale (sentenza n. 169 del 2008 della Corte costituzionale), al tribunale del luogo di residenza o domicilio del coniuge convenuto, salva l'applicazione degli ulteriori criteri previsti in via subordinata dalla medesima norma.

Una opportuna precisazione è stata offerta da Sez. 1, n. 1278, Rv. 629421, est. San Giorgio, la quale ha chiarito che, nel giudizio di separazione personale dei coniugi - secondo la formulazione dell'art. 706 cod. proc. civ. antecedente alle modifiche apportate dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in legge 14 maggio 2005, n. 80 - ai fini dell'ammissibilità della domanda di addebito, autonoma rispetto a quella di separazione, non occorre che essa sia espressamente ripetuta nella parte relativa alle conclusioni del ricorso introduttivo, essendo sufficiente che l'intenzione di uno dei coniugi di addebitare la separazione all'altro risulti univocamente dalla lettura dell'atto nel suo complesso.

Ciò non esclude che la richiesta di declaratoria di addebitabilità, avanzata ai sensi dell'art. 151 cod. civ., comma secondo, dalla parte attrice con l'atto introduttivo o dalla parte convenuta in via riconvenzionale, abbia natura di domanda autonoma, ampliando il tema dell'indagine su fatti ulteriori ed indipendenti da quelli giustificativi del regime di separazione e determinando una statuizione aggiuntiva, dotata di propri effetti di natura patrimoniale; a tal punto che la pronuncia sulla domanda di separazione è scindibile e può, ove non impugnata, passare in giudicato, autorizzando per l'effetto la proposizione della successiva domanda di divorzio, nonostante la prosecuzione del giudizio in ordine alla domanda di addebito dalla separazione. Senza tralasciare che la domanda di addebito è autonoma e l'iniziativa di un coniuge di richiedere la dichiarazione di addebitabilità della separazione all'altro coniuge, anche sotto l'aspetto procedimentale, non è mera deduzione difensiva o semplice sviluppo logico della contesa instaurata con la domanda di separazione, tanto che, se proposta dalla parte attrice, deve essere inserita nell'atto introduttivo del giudizio, esorbitando dalla semplice emendatio libelli consentita in corso di causa, laddove, se avanzata dalla parte convenuta, è soggetta ai tempi ed ai modi della riconvenzionale, con la conseguenza che non è configurabile la reconventio reconventionis.

Sul tema, Sez. 1, n. 18870, Rv. 632155, est. San Giorgio, ha chiarito che le domande di risarcimento dei danni e di separazione personale con addebito sono soggette a riti diversi e non sono cumulabili nel medesimo giudizio, atteso che, trattandosi di cause tra le stesse parti e connesse solo parzialmente per causa petendi, sono riconducibili alla previsione di cui all'art. 33 cod. proc. civ., laddove il successivo art. 40 consente il cumulo nell'unico processo di domande soggette a riti diversi esclusivamente in presenza di ipotesi qualificate di connessione "per subordinazione" o "forte" (artt. 31, 32, 34, 35 e 36, cod. proc. civ.).

Sez. 1, n. 19002, Rv. 631968, est. San Giorgio, ha eliminato ogni dubbio di sorta sul fatto che, ai sensi dell'art. 23 della legge 6 marzo 1987, n. 74, l'appello avverso le sentenze di separazione deve essere trattato con il rito camerale, il quale si applica all'intero procedimento, dall'atto introduttivo - ricorso, anzichè citazione - alla decisione in camera di consiglio.

Per completezza, va evidenziato che detto atto introduttivo, con la forma del ricorso, deve essere depositato in cancelleria nel termine perentorio di cui agli artt. 325 e 327 cod. proc. civ., con la conseguenza che l'appello, che sia proposto con citazione, anziché con ricorso, può considerarsi tempestivo, in applicazione del principio di conservazione degli atti processuali, solo se il relativo atto risulti depositato nel rispetto di tali termini.

È importante, per la frequenza con la quale nelle aule giudiziarie si verifica la questione affrontata, Sez. 6-1, n. 15416, Rv. 632557, est. Acierno, per la quale, nell'ambito del procedimento di separazione personale dei coniugi, i provvedimenti adottati dal giudice istruttore, ex art. 709, ultimo comma, cod. proc. civ., di modifica o di revoca di quelli presidenziali, non sono reclamabili, poiché è garantita l'effettività della tutela delle posizioni soggettive mediante la modificabilità e la revisione, a richiesta di parte, dell'assetto delle condizioni separative e divorzili, anche all'esito di una decisione definitiva, piuttosto che dalla moltiplicazione di momenti di riesame e controllo da parte di altro organo giurisdizionale nello svolgimento del giudizio a cognizione piena.

Dirimente, avendo avuto la finalità di dipanare i residui dubbi, è stata la distinzione posta in rilievo da Sez. 1, n. 6297, Rv. 630045, est. Di Virgilio. Secondo la Corte, la competenza in ordine alla controversia avente ad oggetto l'adempimento delle obbligazioni di natura economica, imposte al coniuge in sede di separazione consensuale (nella specie, relative al pagamento delle spese straordinarie relative ai figli sostenute dal coniuge affidatario), va determinata in ragione del valore della causa secondo i criteri ordinari, trattandosi di controversia diversa da quella concernente il regolamento dei rapporti tra coniugi ovvero la modifica delle condizioni della separazione, rientrante, invece, nella competenza funzionale del tribunale.

Sempre in tema di competenza, Sez. 6-3, n. 20303, Rv. 632383, est. Barreca, ha, in una fattispecie del tutto analoga, ribadito il medesimo principio in un caso di opposizione a precetto intimato per l'adempimento degli obblighi di natura patrimoniale imposti al coniuge in sede di separazione. Quest'ultima pronuncia si segnala altresì perché ha avuto il merito di chiarire che con l'opposizione al precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell'assegno di mantenimento, determinato a favore del figlio in sede di separazione, possono essere dedotte soltanto questioni relative alla validità ed efficacia del titolo e non anche fatti sopravvenuti, da farsi valere col procedimento di modifica delle condizioni della separazione di cui all'art. 710 cod. proc. civ..

Peraltro, per Sez. 6, n. 21874, est. Bisogni, in corso di massimazione, anche la domanda di modifica delle statuizioni contenute nella sentenza di divorzio, così come l'analoga domanda che può essere introdotta ai sensi dell'art. 710 cod. proc. civ. in relazione alle statuizioni contenute nella sentenza che ha pronunciato la separazione personale dei coniugi, può essere proposta soltanto dopo il passaggio in giudicato della decisione che ha pronunciato il divorzio. Invero, così non deriverebbe alcun pregiudizio per la parte che intendesse far valere fatti nuovi, sopravvenuti durante la pendenza del giudizio di divorzio o di separazione.

A tal ultimo proposito, va evidenziato che, mentre la pendenza del giudizio di divorzio rende inammissibile il procedimento ex art. 710 cod. proc. civ. successivamente proposto per conseguire la modifica delle condizioni accessorie della separazione, la proposizione del ricorso di divorzio, in pendenza del procedimento ex art. 710 c.p.c., per conseguire la modifica delle condizioni accessorie della separazione, non determina - quanto a tale ultimo procedimento - la cessazione della materia del contendere o l'improcedibilità della domanda, ciò in quanto il giudice del divorzio non può provvedere con riferimento alle situazioni preesistenti al giudizio.

Avuto riguardo alle sopravvenienze, Sez. 1, n. 19535, Rv. 632567, est. Acierno, ha operato, in tema di riconciliazione, un distinguo, evidenziando che, mentre nel giudizio di separazione dei coniugi, l'intervenuta riconciliazione integra una eccezione in senso lato (poiché riguarda, in relazione al regime previsto dagli artt. 154 e 157 cod. civ., non un fatto impeditivo, ma la sopravvenienza di una nuova condizione), il cui accertamento può avvenire anche d'ufficio da parte del giudice, ancorchè sulla base di deduzioni ed allegazioni delle parti, nel procedimento di divorzio l'interruzione della separazione deve essere eccepita - ai sensi dell'art. 3, quarto comma, lett. b, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall'art. 5 della legge 6 marzo 1987, n. 74 - dal convenuto, assumendo rilievo quale fatto impeditivo della realizzazione della condizione temporale stabilita nella medesima disposizione.

12.2. L'amministrazione di sostegno.

Sez. 6-1, n. 17032, Rv. 632065, est. Acierno, ha statuito che nella procedura per l'istituzione dell'amministrazione di sostegno l'unica parte che può dirsi necessaria è il beneficiario dell'amministrazione. Da ciò consegue che il difetto di comunicazione della richiesta al P.M. e la conseguente assenza dello stesso al procedimento di chiusura dell'amministrazione non comporta la mancata integrazione di un litisconsorzio necessario, né alcun altra nullità del giudizio di primo grado idonea a determinare la rimessione delle parti al primo giudice.

Non è, pertanto, configurabile una ipotesi di litisconsorzio necessario tra i soggetti partecipanti al giudizio innanzi al tribunale, anche perché l'art. 713 cod. proc. civ., cui rinvia l'art. 720 bis dello stesso codice, espressamente limita la partecipazione necessaria al procedimento al ricorrente, al beneficiario e alle altre persone, tra quelle indicate in ricorso le cui informazioni il giudice ritenga utili ai fini dei provvedimenti da adottare.

13. I procedimenti camerali.

Si segnala, in primo luogo, Sez. 2, n. 21952, Rv. 632674, est. San Giorgio, per aver definitivamente chiarito che ormai il rito camerale rappresenta un contenitore neutro all'interno del quale trovano terreno elettivo di disciplina anche procedimenti di natura chiaramente contenziosa. Lo spunto per tale riflessione è stato offerto alla Corte dallo speciale procedimento di opposizione, regolato dall'art. 145 del d.lgs 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), che, pur essendo sottoposto al rito camerale, ha all'evidenza carattere contenzioso, essendo rivolto ad una decisione atta ad assumere autorità di giudicato sulla legittimità formale e sostanziale del provvedimento applicativo della sanzione e sulle posizioni di credito e debito con esso costituite.

Nell'ambito dei procedimenti camerali, è evidente, peraltro, l'attenzione concentrata nel 2014 dalla S.C. in tema di regime giuridico applicabile dopo il deposito del ricorso.

La Corte, con Sez. 6-2, n. 8421, Rv. 630366, est. Giusti, ha statuito, uniformandosi alla di poco precedente decisione a Sezioni Unite (vedasi postea), che nel procedimento di equa riparazione per durata irragionevole del processo, l'opposizione al decreto di rigetto, a norma dell'art. 5 ter della legge 24 marzo 2001, n. 89, apre una fase contenziosa, soggetta al rito camerale, sicché l'opponente deve notificare all'amministrazione controinteressata il ricorso e il decreto di fissazione dell'udienza entro un termine idoneo ad assicurare l'utile esercizio del diritto di difesa; tuttavia, non essendo questo termine perentorio, se la notifica è omessa o inesistente, può concedersi all'opponente un nuovo termine, perentorio, affinché vi provveda.

Si è poi precisato - Sez. 6-1, n. 16677, Rv. 631884, est. Cristiano - che il reclamo proposto alla corte d'appello avverso il provvedimento camerale adottato dal tribunale (nella specie in sede di revisione delle condizioni di separazione dei coniugi) non è improcedibile se il convenuto si sia regolarmente costituito in giudizio, così sanando ex art. 156 cod. proc. civ. il vizio derivante dal mancato rispetto del termine ordinatorio assegnato al reclamante per la notificazione del ricorso e non prorogato con istanza proposta prima della sua scadenza (conf. n. 25211 del 2013, Rv. 628223, in una fattispecie in cui il difensore del reclamante non si era attivato per venire a conoscenza del decreto di fissazione dell'udienza e notificarlo, benché emesso diversi mesi prima dell'udienza ivi fissata; contra n. 17202 del 2013 Rv. 627066). Ad analoghe conclusioni è pervenuta, con riferimento al procedimento di appello avverso la sentenza di divorzio, anch'esso disciplinato, come si è visto, dal rito camerale, Sez. 1, n. 21111, Rv. 632555, est. Mercolino, precisando che l'eventuale costituzione dell'appellato ha efficacia sanante del vizio di omessa o inesistente notifica, in applicazione analogica del regime previsto dagli artt. 164 e 291 cod. proc. civ. (conf. Sez. 6, n. 21669, est. Acierno, in corso di massimazione).

Infine, Sez. 1, n. 11418, Rv. 631308, est. Campanile, ha ulteriormente chiarito che, in tema di procedimento di impugnazione con rito camerale, poiché il termine per la notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza ha la mera funzione di instaurare il contraddittorio, la sua inosservanza, senza preventiva presentazione dell'istanza di proroga, non ha effetto preclusivo, implicando soltanto la necessità di fissarne uno nuovo ove la controparte non si sia costituita, mentre l'avvenuta costituzione di quest'ultima ha efficacia sanante ex tunc di tale vizio. Così statuendo, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva dichiarato l'improcedibilità dell'appello avverso la sentenza dichiarativa di paternità naturale sull'erroneo presupposto che la violazione del termine per la notifica del ricorso e del decreto, pur se ordinatorio, determinasse la decadenza dell'attività processuale cui era correlato, ove non fosse intervenuta proroga prima della scadenza, in assenza di valide ragioni per la rimessione in termini.

Va ricordata, sul tema, per la sua portata per certi versi dirompente, Sez. U, n. 5700, Rv. 629676, est. San Giorgio, a tenore della quale, in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo (il cui giudizio, ricordasi, deve essere instaurato, a pena di improponibilità, mediante deposito del ricorso entro il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che ha concluso il procedimento presupposto), il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza alla controparte non è perentorio (ma ordinatorio), non essendo previsto espressamente dalla legge. Ne consegue che il giudice, nell'ipotesi di omessa o inesistente notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza, può, in difetto di spontanea costituzione del resistente, concedere al ricorrente un nuovo termine, questo si avente carattere perentorio, entro il quale rinnovare la notifica. Le Sezioni Unite, nel riscontrare una ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione civile n. 1490 del 2013, si sono poste in consapevole contrasto con altra precedente pronuncia delle stesse Sezioni Unite (n. 20604 del 2008, secondo cui la mancata notifica del ricorso in opposizione (nel caso di specie, a decreto ingiuntivo per crediti di lavoro) e del decreto di fissazione dell'udienza determina l'improcedibilità dell'opposizione e, con essa, l'esecutività del decreto ingiuntivo opposto. In quella occasione i giudici di legittimità avevano precisato che, ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell'udienza non sia avvenuta, non sarebbe consentito - alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della cosiddetta ragionevole durata del processo ex art. 111, secondo comma, Cost. - al giudice di assegnare un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell'art. 291 cod. proc. civ.

La ratio sottesa al nuovo indirizzo si radica nella considerazione per cui il rapporto cittadino-giudice si instaura con il tempestivo deposito del ricorso, con cui si realizza l'editio actionis, laddove la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza costituisce momento esterno e successivo alla fattispecie processuale introduttiva del giudizio di opposizione, diretta ad instaurare il contraddittorio.

In definitiva, anche in ossequio al principio ormai di rango costituzionale della ragionevole durata del processo, la tendenza è verso una estensione dei casi in cui, in assenza di espressa previsione di perentorietà del termine, anche l'omissione della notifica del ricorso e del pedissequo decreto giudiziale di fissazione dell'udienza non determina di per sé effetti irreversibili sul procedimento in tal guisa instaurato, a prescindere dall'avvenuta presentazione di un'istanza di proroga prima della scadenza del termine ordinatorio. La prima, in ordine temporale, deroga all'art. 154 cod. proc. civ. venne ammessa dalla S.C. in tema di riassunzione di un processo interrotto. Invero, rappresenta orientamento ormai prevalente quello per cui la riassunzione di un processo che sia stato dichiarato interrotto sia tempestiva ed integralmente perfezionata quando il corrispondente ricorso, recante gli elementi sufficienti ad individuare il giudizio che si intende far proseguire, sia stato depositato in cancelleria nel termine ora trimestrale previsto dall'art. 305 cod. proc. civ., sicché, ove la relativa notifica, unitamente al pedissequo decreto di fissazione dell'udienza, sia viziata o inesistente ovvero persino mancata, o comunque non sia stata correttamente compiuta per erronea od incerta individuazione del suo destinatario, il giudice deve ordinarne la rinnovazione, fissandone il nuovo termine, e non può dichiarare l'estinzione del processo.

Ciò viene sostenuto pur ribadendosi che è onere della parte istante attivarsi presso la cancelleria per prendere conoscenza del decreto di fissazione dell'udienza (rappresenta un'eccezione, a seguito dell'intervento della Corte costituzionale con sentenza n. 15 del 1977, l'art. 435, comma 2, cod. proc. civ. in tema di appello con il rito del lavoro) ed ottemperarvi tempestivamente e che l'inosservanza del nuovo termine concesso determinerebbe l'estinzione del giudizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 291, ultimo comma, e 307, terzo comma, cod. proc. civ.

Tuttavia, l'iter logico sviluppato nella sentenza delle Sezioni Unite del 2014 sembra lasciare di proposito uno spiraglio ad una differente interpretazione per i casi in cui (si pensi ai procedimenti di impugnazione o di opposizione a decreto ingiuntivo) sussista la legittima aspettativa della controparte al consolidamento, entro un confine temporale rigorosamente predefinito e ragionevolmente breve, di un provvedimento giudiziario già emesso.

Peraltro, ponendosi in linea con le Sezioni Unite, Sez. 1, n. 19203, Rv. 632559, est. Cristiano, ha deciso che, nei giudizi camerali che anche in grado di appello si introducono con ricorso (nella specie, un procedimento per la declaratoria dello stato di adottabilità), l'omessa notifica di quest'ultimo e del decreto di fissazione dell'udienza, entro il termine ordinatorio assegnato dal giudice, non comporta l'improcedibilità della domanda o dell'impugnazione, poiché, in assenza di una espressa previsione in tal senso, vanno evitate interpretazioni formalistiche delle norme processuali che limitino l'accesso delle parti alla tutela giurisdizionale, ma solo la necessità dell'assegnazione di un nuovo termine, perentorio, in applicazione analogica dell'art. 291 cod. proc. civ., sempre che la parte resistente o appellata non si sia costituita, così sanando - con effetto ex tunc - il vizio della notificazione.

13.1. L'applicabilità degli artt. 181 e 309 cod. proc. civ.

Sez. U, n. 5700 del 2014 ha altresì affrontato, sia pure incidenter tantum, l'altra delicata questione della applicabilità degli artt. 181 e 309 cod. proc. civ. ai procedimenti camerali, ritenendo doveroso, nel caso di mancata comparizione di entrambe le parti all'udienza, adottare, per la eadem ratio, lo strumento di cui all'art. 181 cod. proc. civ., pur se dettato con riferimento all'ordinario processo di cognizione. La Corte ha altresì sostenuto che non potrebbe, per converso, in assenza di un'indicazione in tal senso da parte dell'art. 737 cod. proc. civ. in tema di procedimenti camerali, considerarsi la mancata comparizione delle parti una tacita rinunzia al ricorso.

Lo stesso principio già in passato era stato anticipato da Sez. 2, n. 28923 del 2011, Rv. 620461, che, in tema di opposizione al provvedimento di liquidazione del compenso al difensore, ai sensi dell'art. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel caso di mancata comparizione dell'opponente, aveva escluso che il giudice potesse dichiarare l'improcedibilità del ricorso, dovendo disporre ai sensi degli artt. 181 e 309 cod. proc. civ., giacché, trattandosi di procedimento camerale, il mero deposito del ricorso è idoneo ad attivare il giudizio e ad investire il giudice adito del potere-dovere di decidere, senza necessità di ulteriori atti di impulso processuale. Si era inserita nello stesso solco Sez. 1, n. 284 del 2009, Rv. 606075, che, in tema di procedimento camerale di cui agli articoli 262 cod. civ. e 38, commi primo e terzo, disp. att. cod. civ., in materia di attribuzione del cognome del figlio naturale riconosciuto, aveva ritenuto che, nell'ipotesi di mancata comparizione della parte reclamante, il giudice del reclamo, verificato che siano stati regolarmente notificati l'istanza ed il decreto di fissazione dell'udienza, dovesse comunque decidere sul merito della controversia, restando esclusa la declaratoria di improcedibilità per tacita rinunzia all'impugnativa.

La decisione delle Sezioni Unite, sia pure enunciando, ripetesi, un mero obiter dictum, sembra generalizzare il ricorso agli artt. 181 e 309 cod. proc. civ. per tutti i procedimenti camerali, reputando il semplice deposito del ricorso idoneo ad attivare il giudizio e ad investire il giudice adìto del potere-dovere di decidere, senza necessità di ulteriori atti di impulso processuale.

Quanto al profilo dell'istruttoria espletabile, anche alla luce dell'ampia previsione contenuta nel terzo comma dell'art. 739 cod. proc. civ., Sez. 1, n. 11494, Rv. 631280, est. De Chiara, ha confermato che le disposizioni di cui agli artt. 214 e segg. cod. proc. civ., sul riconoscimento e la verificazione della scrittura privata, non sono applicabili nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, tenuto conto del carattere sommario e camerale che tale procedimento ha conservato anche dopo la riforma della legge fallimentare e degli ampi poteri istruttori officiosi che spettano al giudice. Ne consegue che il tribunale può accertare la genuinità della scrittura privata anche d'ufficio e con ogni mezzo.

13.2. Gli altri procedimenti speciali.

Da ultimo, in tema di scioglimento di comunioni, meritano di essere menzionate due pronunce.

Con la prima, Sez. 2, n. 6785, Rv. 630156, est. Falaschi, ha chiarito che l'atto introduttivo del giudizio di divisione ereditaria non interrompe il decorso del tempo utile all'usucapione da parte del convenuto, tale atto non essendo rivolto alla contestazione diretta ed immediata del possesso ad usucapionem.

Con la seconda, Sez. 6-2, n. 15288, Rv. 631216, est. Petitti, ha confermato l'indirizzo secondo il quale, in tema di divisione ereditaria, la determinazione del conguaglio in denaro, ai sensi dell'art. 728 cod. civ., prescinde dalla domanda di parte, concernendo l'attuazione del progetto divisionale, che appartiene alla competenza del giudice. Ne consegue che il giudice deve procedere d'ufficio alla rivalutazione del conguaglio, qualora vi sia stata un'apprezzabile lievitazione del prezzo di mercato del bene, tale da alterare la funzione di riequilibrio propria del conguaglio, spettando alla parte un mero onere di allegazione (avente ad oggetto l'avvenuta verificazione di tale evento, posto che la rivalutazione non può avvenire tramite criteri automatici), finalizzato a sollecitare l'esercizio del potere officioso del giudice.

A tal proposito, è opportuno ricordare che, ai sensi degli artt. artt. 728 e 1277 cod. civ., in tema di divisione giudiziale immobiliare, il debito da conguaglio che grava sul condividente assegnatario di un immobile non facilmente divisibile ha natura di debito di valore.

Merita, da ultimo, di essere segnalata, per riferirsi ad una vicenda processuale cui si assiste di frequente, Sez. 2, n. 18487, Rv. 632037, est. Manna, la quale ha sancito che il procedimento diretto alla revoca dell'amministratore di condominio soggiace al regolamento delle spese ex art. 91 cod. proc. civ., dovendosi escludere, nella disciplina antecedente all'entrata in vigore dell'art. 1129, undicesimo comma, cod. civ., come introdotto dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220, che queste possano essere ripetibili nel rapporto interno tra il condomino vittorioso che le ha anticipate e il condominio, nei cui confronti pure si producono gli effetti della decisione, in quanto è nel rapporto processuale tra le parti del giudizio che le spese trovano la loro esclusiva regola di riparto.

  • matrimonio
  • divorziato
  • diritto di affidamento
  • figlio naturale

CAPITOLO XXXII

LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI: PROFILI PROCESSUALI

(di Paolo Di Marzio )

Sommario

1 La crisi del matrimonio e l'addebito. - 2 L'assegno di mantenimento per il coniuge e la prole. - 3 I figli nati fuori dal matrimonio. - 4 L'affidamento della prole. - 5 Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio: effetti. - 6 Amministrazione di sostegno e procedure di interdizione e di inabilitazione. - 7 Omessa notificazione nel termine del ricorso nei procedimenti d'impugnazione da trattare con rito camerale: conseguenze. - 8 Disconoscimento di paternità, principio di non contestazione e diritti indisponibili.

1. La crisi del matrimonio e l'addebito.

Una peculiarità del processo di separazione giudiziale dei coniugi consiste nella possibilità per il giudice, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, di dichiarare a quale dei due coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio (art. 151, secondo comma, cod. civ.). La domanda di addebito è indubbiamente una domanda diversa ed ulteriore rispetto a quella di pronuncia della separazione, ma la Corte ha ritenuto che ai fini della sua ammissibilità non occorre che essa sia espressamente ripetuta nella parte riservata alle conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio, essendo sufficiente che l'intenzione di uno dei coniugi di domandare l'addebito della separazione all'altro risulti in modo inequivoco dalla lettura dell'atto nel suo complesso, Sez. 1, n. 1278, Rv. 629421, est. San Giorgio.

La Corte ha pure precisato che, al fine della pronuncia di addebito della separazione personale dei coniugi, vertendosi in materia di diritti indisponibili, le ammissioni di proprie responsabilità nella crisi del rapporto matrimoniale, operate stragiudizialmente in una missiva indirizzata alla controparte, non possono assumere valore di confessione in senso stretto, ai sensi dell'art. 2730 e ss. cod. civ., ma possono essere utilizzate quali presunzioni o indizi liberamente valutabili dal giudice, Sez. 1, n. 7998, Rv. 631074, est. Lamorgese.

La Corte ha quindi ritenuto in linea di massima impropria, ai fini della pronuncia di addebito della separazione personale dei coniugi, la trasposizione nell'ambito familiare del concetto lavoristico del mobbing. Ha osservato il giudice di legittimità che in ambito lavorativo la vittima, sottoposta a molestie morali, si trova in una condizione di soggezione rispetto al suo aggressore (o ai suoi aggressori). In ambito familiare, invece, vige il principio della uguaglianza morale e materiale dei coniugi. Ai fini della pronuncia di addebito della separazione personale occorre allora fornire la prova rigorosa del compimento, da parte di uno dei consorti, di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri nascenti dal matrimonio, nonché del nesso causale tra tali atti ed il determinarsi dell'intollerabilità della convivenza o del grave pregiudizio dei figli, Sez. 1, n. 13983, Rv. 631626, est. Lamorgese.

2. L'assegno di mantenimento per il coniuge e la prole.

La Corte ha precisato, in materia di procedura per la revisione delle condizioni del divorzio, che in tale ambito il giudice non può procedere alla rivalutazione di quanto ritenuto nella sentenza che ha definito il giudizio, ad esempio provvedendo ad un'autonoma valutazione dei presupposti e della entità dell'assegno di divorzio sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti. Nell'ambito della procedura di cui all'art. 9 della legge 1°.12.1970, infatti, al giudice compete verificare se, ed in che misura, circostanze sopravvenute alla pronuncia di divorzio abbiano alterato l'equilibrio patrimoniale raggiunto tra le parti in quella sede, eventualmente adeguando l'importo dell'assegno, o lo stesso obbligo della contribuzione, alla nuova situazione. In questa decisione il giudice di legittimità ha avuto occasione di chiarire che non può considerarsi efficace, al fine di eludere o limitare l'obbligo di mantenimento dell'ex coniuge, lamentare una pur rilevante esposizione debitoria, formatasi però a seguito di un acquisto immobiliare e del versamento di quanto dovuto in conseguenza di una accertata evasione fiscale da parte dell'onerato, evasione che rendeva pure difficile l'accertamento del suo reddito reale, comunque evidentemente superiore al dichiarato, Sez. 6-1, n. 14143, Rv. 631514, est. Dogliotti.

La Corte ha poi specificato che l'ordinanza adottata ai sensi dell'art. 4, ottavo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, con la quale il Presidente del Tribunale, nel corso di un procedimento per la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, dispone la riduzione dell'assegno di separazione, nomina sé stesso giudice istruttore e fissa l'udienza di comparizione delle parti, è un provvedimento di natura temporanea ed urgente, e stante la sua natura non decisoria, bensì provvisoria ed interinale, non può essere impugnato con regolamento di competenza. Il giudice di legittimità ha pure osservato che la conclusione riceve ulteriore conforto dalla considerazione che in un simile giudizio compete al collegio, e non al giudice istruttore o al presidente del tribunale, il potere di decidere la causa, ancorché sulla sola competenza, Sez. 6-1, n. 15186, Rv. 631807, est. De Chiara.

La Corte ha quindi esaminato la problematica della legittimazione ad agire per pretendere dal coniuge onerato il rispetto dell'obbligo di mantenimento del figlio che abbia raggiunto la maggiore età. Il giudice di legittimità ha affermato che il coniuge separato o divorziato, già affidatario del figlio ora divenuto maggiorenne, è legittimato "iure proprio", ove il figlio sia ancora con lui convivente e non sia economicamente autosufficiente, ad ottenere dall'altro coniuge il versamento del contributo per il mantenimento del figlio. Osservato che pure il figlio, maggiorenne ma non autosufficiente, è legittimato ad agire per pretendere la corresponsione del mantenimento da parte del genitore, sussiste una duplice legittimazione, e ciascuna legittimazione è concorrente con l'altra, senza, tuttavia, che possa ravvisarsi un'ipotesi di solidarietà attiva, ai cui principi è possibile ricorrere solo in via analogica, trattandosi di diritti autonomi e non del medesimo diritto attribuito a più persone, Sez. 1, n. 18869, Rv. 632191, est. San Giorgio.

3. I figli nati fuori dal matrimonio.

In materia di accertamento giudiziale della paternità e maternità naturale, l'inequivoco disposto di cui all'art. 269 cod. civ. consente che il rapporto di filiazione sia provato "con ogni mezzo". La Corte ha quindi ribadito, in relazione ad un giudizio di accertamento della paternità naturale, che essa può essere provata anche mediante il ricorso ad indici presuntivi che, considerati nel loro complesso e valutati sul fondamento dell'id quod plerumque accidit, risultino idonei, per attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della paternità. Operata questa premessa, la Corte ha specificato che nell'ambito di tali indici presuntivi di natura indiziaria possono ricomprendersi sia l'accertato comportamento del preteso genitore che abbia trattato come figlio - assicurandogli mantenimento, istruzione ed educazione - la persona a cui favore si chiede la dichiarazione di paternità, cd. tractatus, sia la manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali, cd. fama, sia le risultanze di una consulenza immuno-ematologica eseguita su campioni biologici di stretti parenti (nella specie: madre e fratello) del preteso genitore, essendo quest'ultimo scomparso, Sez. 1, n. 1279, Rv. 629363, est. Campanile.

La Corte, pronunciando in materia di tutela processuale del minore (naturale) nei procedimenti che lo coinvolgono, ha precisato che la disposizione di cui all'art. 336, ult. comma, cod. civ., ove si prevede la nomina di un difensore del minore, trova applicazione solo in riferimento alle procedure che possano comportare "la limitazione o la eliminazione della potestà genitoriale" nei suoi confronti, nelle quali si appalesa un concreto profilo di contrasto di interessi tra il minore ed uno o entrambi i suoi genitori. Ne consegue che non è prevista la nomina del difensore del minore quando la controversia, istaurata ai sensi dell'art. 317 bis cod. civ. (nel testo previgente), abbia ad oggetto il regime di affidamento del minore naturale e la disciplina del diritto di visita in favore del genitore non destinato a convivere con lui, figlio di genitori naturali che hanno deciso di porre fine alla loro convivenza. In casi come questo la partecipazione del minorenne al procedimento che lo riguarda si esprime attraverso l'ascolto del minore come ora disciplinato ai sensi dell'art. 315 bis, terzo comma, cod. civ., in attuazione dell'art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, Sez. 1, n. 7478, Rv. 630321, est. Acierno.

Il giudice di legittimità si è quindi soffermato a specificare che, pendente innanzi al tribunale ordinario un giudizio avente ad oggetto la determinazione dell'assegno di mantenimento in favore del figlio naturale di età minore, sulla domanda riconvenzionale introdotta dal genitore chiamato in giudizio, che abbia domandato l'affidamento a lui del figlio, rimane competente il tribunale ordinario e non quello per i minorenni, stante il disposto di cui all'art. 38, disp. att. cod. civ., come novellato, Sez. 6-1, n. 8574, Rv. 631129, est. Scaldaferri.

La Corte ha poi confermato (cfr. SS.UU., 3 novembre 2005, n. 21287, Rv. 585424) che, nel rispetto della formulazione letterale della norma di cui all'art. 276 cod. civ., in caso di morte del preteso genitore naturale, legittimati passivi in relazione all'azione volta alla dichiarazione giudiziale di paternità sono esclusivamente i suoi eredi, e non anche gli eredi degli eredi ai quali, essendo portatori di un interesse contrario all'accoglimento della domanda, è comunque riconosciuta la facoltà di intervenire in giudizio (cfr. art. 276, secondo comma, cod. civ.), Sez. 1, n. 10783, Rv. 631251, est. Lamorgese.

In materia di spettanza dell'assegno per il mantenimento del figlio naturale la Corte ha precisato, nell'ambito di un giudizio di accertamento della paternità naturale, che mentre la condanna al rimborso della quota di mantenimento, che competeva al padre naturale e lui non ha corrisposto fino all'introduzione del giudizio di accertamento, può essere irrogata solo a seguito di domanda dell'altro genitore che abbia provveduto al mantenimento in via esclusiva, in relazione al periodo successivo alla proposizione dell'azione di accertamento della paternità non occorre alcuna specifica richiesta in ordine alla fissazione di un assegno di mantenimento del minore, essendo il giudice dotato, in tale ambito, di poteri officiosi, Sez. 1, n. 11211, Rv. 631264, est. Campanile.

Un problema particolare, ma suscettibile di riproporsi non di rado, è stato poi esaminato dalla Corte a proposito del riconoscimento di figlio naturale operato in uno Stato in cui sia vigente un "ordinamento plurilegislativo", nel caso di specie il Canada. Il giudice di legittimità ha premesso che lo stato di figlio naturale di uno straniero deve essere (di regola) valutato dal giudice italiano, ai sensi dell'art. 33, commi 1 e 2, della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), come modificati dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, in base alle previsioni della legge nazionale del figlio al momento della nascita. La Corte ha quindi deciso che se la legge nazionale del figlio era rappresentata, nel momento in cui veniva al mondo, da un ordinamento plurilegislativo, compete al giudice italiano ricercare d'ufficio le norme dell'ordinamento straniero applicabili, anche mediante l'analisi delle clausole di quell'ordinamento idonee ad individuare il sottosistema territoriale o personale da cui deve ritenersi disciplinata la specifica fattispecie, Sez. 1, n. 11751, Rv. 631310, est. Macioce.

Ancora, in tema di azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o maternità, l'art. 276 cod. civ., come modificato dall'art. 1, comma 5, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, ha previsto la nomina di un curatore speciale del soggetto della cui filiazione si tratta, qualora la domanda non possa essere proposta nei confronti del presunto genitore o dei suoi eredi. Il giudice di legittimità ha allora precisato che la disposizione deve ritenersi immediatamente applicabile anche ai giudizi pendenti alla data in cui la nuova normativa è entrata in vigore, pertanto il 1° gennaio 2013, e che, ove ricorra l'esigenza della sua nomina, il curatore speciale è parte necessaria del relativo giudizio. Ne discende che, ove sia stata omessa la nomina del curatore pur risultando integrati i presupposti di legge perché alla stessa dovesse procedersi, la causa deve essere rimessa al giudice di primo grado, cui compete in via esclusiva la designazione, Sez. 1, n. 19790, Rv. 632179, est. Acierno.

4. L'affidamento della prole.

La Corte ha statuito che il decreto con il quale la Corte d'appello dichiara inammissibile il provvedimento adottato in via provvisoria ed urgente dal tribunale per i minorenni, con cui era stato disposto l'affidamento di un minore al Comune, senza definire il procedimento ed anzi disponendo ulteriori adempimenti per la sua prosecuzione, non ha carattere decisorio e definitivo, e non è pertanto impugnabile con ricorso per cassazione, né ordinario, né straordinario ai sensi dell'art. 111 Cost., Sez. 1, n. 10291, Rv. 631255, est. Giancola.

In materia di affidamento della prole la Corte è stata chiamata a decidere anche sulla correttezza dell'operato del giudice dell'impugnazione che aveva disposto, in pendenza di giudizio di separazione personale dei coniugi, l'affidamento del figlio minore al servizio sociale in mancanza di domanda di parte. Il Giudice di legittimità ha allora precisato che, ai sensi dell'art. 155 cod. civ. (cfr., ora, l'art. 337 ter, cod. civ.), il giudice della separazione può adottare, nei confronti della prole e nel suo esclusivo interesse, ogni provvedimento ritenuto opportuno, anche uno di quelli di regola riservati al tribunale per i minorenni, pur nell'assenza di domanda di parte e pertanto pronunciando ultra petitum, Sez. 1, n. 11412, Rv. 631307, est. Didone.

In materia di dichiarazione di adottabilità la Corte ha sottolineato la prioritaria esigenza per il minore di vivere, nei limiti del possibile, con i suoi genitori biologici, e comunque di essere allevato nell'ambito della propria famiglia ed ha perciò cassato con rinvio la decisione della corte di merito che aveva dichiarato lo stato di adottabilità dei figli, in considerazione di patologie di carattere mentale e dello stato di tossicodipendenza dei genitori biologici, ma omettendo di valutare l'idoneità dei nonni paterni a provvedere all'assistenza ed alla cura dei nipoti, Sez. 1, n. 11758, Rv. 631309, est. Didone.

5. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio: effetti.

La Corte si è occupata ripetutamente, nel corso dell'anno, della possibilità di riconoscere l'esecutività nel diritto dello Stato alla sentenza di nullità del matrimonio religioso con effetti civili, il cd. matrimonio concordatario, pronunciata dai tribunali ecclesiastici. Il Giudice di legittimità ha innanzitutto confermato che in materia di delibazione della pronuncia ecclesiastica dichiarativa della nullità matrimoniale deve escludersi la previsione nel diritto italiano di un principio di ordine pubblico, ostativo al riconoscimento degli effetti civili alla decisione ecclesiastica, secondo il quale il vizio che invalida il matrimonio potrebbe essere fatto valere solo dal coniuge il cui consenso fosse stato viziato all'epoca in cui le nozze erano state contratte. Nel caso di specie è stato ritenuto legittimato a domandare la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale il marito, affetto da impotentia coeundi, in una ipotesi in cui poteva escludersi che, adoperando l'ordinaria diligenza, il vizio risultasse non conoscibile dall'altro nubendo, Sez. 1, n. 9044, Rv 631077, est. San Giorgio.

La Corte ha poi ricordato che la dichiarazione di efficacia delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario è subordinata all'accertamento della sussistenza dei requisiti di cui all'art. 797 cod. proc. civ. (a tal fine ancora vigente), e tra questi si prevede al n. 4) come necessario, perché possa procedersi alla delibazione e conseguentemente al riconoscimento degli effetti civili alla sentenza straniera, il suo passaggio in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunciata. Il giudice di legittimità ha quindi evidenziato che in questo ambito non deve trascurarsi che costituisce una peculiarità del diritto canonico (secondo il quale le sentenze sullo stato delle persone non passano mai in cosa giudicata, can. 1643, c.j.c.), che la decisione divenga esecutiva, e sia perciò suscettibile di delibazione, quando il matrimonio sia stato dichiarato nullo con sentenza di prima istanza e questa decisione sia stata poi confermata con decreto di ratifica dal tribunale ecclesiastico di appello. Peraltro, nell'ipotesi che il giudice ecclesiastico di secondo grado non abbia ritenuto di confermare la pronuncia del giudice di prime cure con decreto, disponendo l'ammissione della causa all'esame ordinario, ma alfine abbia comunque ritenuto di confermare la decisione di nullità del matrimonio adottata in primo grado, in tal caso pronunciando con sentenza, la diversa natura della pronuncia decisoria canonica non incide in nessuna misura in materia di delibazione della pronuncia ecclesiastica di nullità matrimoniale, cui potrà procedersi se, sia essa un decreto o una sentenza, la decisione ecclesiastica di secondo grado sia stata comunque dichiarata esecutiva con decreto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Sez. 1, n. 11416, Rv. 631234, est. Didone. Nella stessa decisione la Corte ha affermato che la censura relativa alla violazione del diritto di difesa nella procedura adottata dal tribunale ecclesiastico e "riferita alle modalità di espletamento degli atti istruttori" - avendo la ricorrente contestato che, non essendosi costituita innanzi al giudice ecclesiastico, le era stato impedito anche di avere accesso agli atti processuali - non può essere esaminata dal giudice della delibazione, perché l'art. 797 cod. proc. civ. non prevede alcun esame del giudice nazionale sulle modalità di svolgimento del processo ecclesiastico, Sez. 1, n. 11416, Rv. 631235, est. Didone.

La Corte è quindi intervenuta a Sezioni Unite per dirimere un contrasto insorto nella giurisprudenza, anche di legittimità, da antica data, circa la possibilità di riconoscere gli effetti civili alla sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale quando a seguito della celebrazione delle nozze vi sia stata anche prolungata convivenza dei contraenti il matrimonio (tra le sentenze recenti espressive dei diversi orientamenti, cfr, Sez. 1, 4 giugno 2012, n. 8926, Rv. 622851, e Sez. 1, 20 gennaio 2011, n. 1343, Rv. 616119). Il giudice di legittimità ha ora statuito che, a seguito della celebrazione del matrimonio concordatario, la convivenza come coniugi che vi faccia seguito deve intendersi come un elemento essenziale del matrimonio-rapporto e, ove tale convivenza si sia protratta per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, questa realtà di fatto integra una "situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità del matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici" per un vizio genetico del matrimonio-atto, Sez. U., n. 16379, Rv. 631798, est. Di Palma. Nella stessa decisione le Sezioni Unite hanno anche precisato che la convivenza come coniugi, fatta valere da quello dei due che intende opporsi alla delibazione della sentenza ecclesiastica, "deve qualificarsi siccome eccezione in senso stretto (exceptio juris)" e può perciò essere efficacemente introdotta "esclusivamente, a pena di decadenza nella comparsa di risposta, dal coniuge convenuto" nel giudizio di delibazione "interessato a farla valere", Sez. U., n. 16379, Rv. 6317991, est. Di Palma.

Il giudice di legittimità ha poi ricordato che a seguito dell'Accordo di revisione del Concordato lateranense, reso esecutivo con legge 28 marzo 1985, n. 121, è venuta meno, in considerazione del disposto di cui all'art. 8.2 dell'Accordo, la riserva di giurisdizione dei tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari (in relazione alle ragioni di nullità del vincolo previste dal diritto canonico). I rapporti tra la giurisdizione ecclesiastica e quella civile sono in conseguenza regolati dall'art. 797, n. 6, cod. proc. civ., oggetto di rinvio materiale e pertanto tuttora vigente in materia, con la conseguenza che deve trovare applicazione il principio della prevenzione. Ne discende che il giudice italiano, in difetto di delibazione della corrispondente sentenza ecclesiastica, può statuire sulla domanda di nullità del matrimonio concordatario fondata su vizi propri del (solo) diritto canonico, formulata in via riconvenzionale dal coniuge convenuto in giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, Sez. 6-1, n. 18627, Rv. 632060, est. Cristiano.

La Corte ha quindi confermato, in presenza di orientamenti giurisprudenziali nel passato contrastanti, che in materia di obbligo di corresponsione dell'assegno divorzile, ove su tali statuizioni abbia avuto a formarsi il giudicato, non produce alcun effetto il successivo riconoscimento degli effetti civili alla sentenza ecclesiastica che abbia pronunciato la nullità del matrimonio, Sez. 1, 18 settembre 2013, n. 21331, Rv. 627931.

6. Amministrazione di sostegno e procedure di interdizione e di inabilitazione.

In materia di conseguenze processuali dell'interdizione, la Corte ha innanzitutto ricordato che l'art. 300 cod. proc. civ. ricollega l'effetto interruttivo del processo a due elementi essenziali: il verificarsi dell'evento previsto come causa di interruzione e la comunicazione della causa da parte del suo procuratore. Qualora la parte perda la capacità nel corso del giudizio, essendo stata dichiarata interdetta, ma il suo procuratore non ritenga di comunicarlo, il processo prosegue regolarmente e, se viene interrotto per altra causa, il procuratore dell'interdetto può lecitamente riassumerlo, perché vige la regola dell'ultrattività del mandato difensivo all'interno della fase processuale in cui si verifica l'evento interruttivo non dichiarato, Sez. 1, n. 9480, Rv. 631133, est. De Chiara.

Il giudice di legittimità ha quindi chiarito che, nell'ambito della procedura per la nomina di un amministratore di sostegno, una volta accertato che il soggetto per il quale la misura di supporto è domandata risulta affetto da patologia psichiatrica ed ha indispensabile bisogno di assistenza per il compimento degli atti della propria esistenza da parte di altre persone, il giudice non può sottrarsi alla nomina dell'amministratore motivando sul fatto che l'interessato potrebbe comunque godere di "un'ampia rete di protezione" operante a suo favore, ed invocando la discrezionalità riconosciutagli dall'art. 404 cod. civ. La Corte ha specificato che, una volta accertata la incapacità della persona, l'unica discrezionalità attribuita dalla norma indicata al giudice consiste nel consentirgli di scegliere quale sia la misura di supporto, amministrazione di sostegno, inabilitazione o interdizione, più idonea nel caso concreto, Sez. 6-1, n. 13929, Rv. 631513, est. Dogliotti.

Il giudice di legittimità ha quindi affermato che, in tema di procedura per la revoca dell'amministrazione di sostegno, l'omessa comunicazione dell'istanza di cessazione dell'amministrazione alla persona nominata amministratore di sostegno, adempimento pur previsto all'art. 413, secondo comma, cod. civ., non rappresentando un adempimento processualmente necessario, non determina alcuna compressione del diritto di difesa dell'amministratore, e non è soggetta ad alcuna sanzione processuale, Sez. 6-1, n. 17032, Rv. 632064, est. Acierno. Nella stessa decisione la Corte ha precisato pure che nella procedura per l'istituzione dell'amministrazione di sostegno l'unica parte processualmente necessaria è il potenziale beneficiario dell'amministrazione. In conseguenza la mancata comunicazione al P.M. dell'inizio della procedura, e la conseguente assenza dello stesso in sede di chiusura della procedura, non comportano l'omessa integrazione di un litisconsorzio necessario, né alcun'altra nullità del giudizio idonea a determinare la rimessione delle parti innanzi al primo giudice, Sez. 6-1, n. 17032, Rv. 632065, est. Acierno.

7. Omessa notificazione nel termine del ricorso nei procedimenti d'impugnazione da trattare con rito camerale: conseguenze.

La Corte si è pronunciata più volte, nel corso dell'anno, in ordine alle conseguenze della omessa notifica del ricorso nel termine fissato nei procedimenti d'impugnazione in materia di famiglia e stato delle persone da trattare con rito camerale, e sembra aver raggiunto un orientamento unitario, a fronte dei contrasti di giurisprudenza registrati in materia anche nell'anno 2013. In un giudizio avente ad oggetto l'accertamento della paternità naturale, il giudice di legittimità ha censurato la decisione della Corte di merito la quale aveva sostenuto che la violazione del termine per la notifica del ricorso e del decreto, pur se ordinatorio, determinava la decadenza dell'attività processuale cui era correlato, ove non fosse intervenuta proroga prima della scadenza, ed aveva perciò dichiarato l'improcedibilità del gravame. La Suprema Corte ha invece affermato che nei procedimenti di impugnazione per i quali è prevista la trattazione con il rito camerale, poiché il termine per la notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza ha la mera funzione di instaurare il contraddittorio la sua inosservanza, senza preventiva presentazione dell'istanza di proroga, non comporta alcun effetto preclusivo, implicando soltanto la necessità di fissare un nuovo termine per la notifica ove la controparte non si sia costituita, mentre l'avvenuta costituzione di quest'ultima sortisce efficacia sanante ex tunc, Sez. 1, n. 11418, Rv. 631308, est. Campanile. Analogo orientamento è stato espresso, sempre nell'anno 2014, precisandosi però che il nuovo termine che occorre fissare, per consentire la tempestiva notifica e pertanto la regolare istaurazione del contraddittorio, avrà natura perentoria, in materia: di declaratoria dello stato di adottabilità, Sez. 1, n. 19203, Rv. 632559, est. Cristiano; e di divorzio, Sez. 1, n. 21111, Rv. 632555, est. Mercolino. In ordine alle pronunce espressione dell'opposto orientamento possono confrontarsi, ad es., Sez. 1, 11 luglio 2013, n. 17202, Rv. 627066; e Sez. 1, 15 dicembre 2011, n. 27086, Rv. 620751.

8. Disconoscimento di paternità, principio di non contestazione e diritti indisponibili.

Nell'ambito di una procedura per il disconoscimento della paternità, la Corte ha avuto occasione di proporre un orientamento in materia di limiti all'utilizzazione del principio di non contestazione nei giudizi che abbiano ad oggetto diritti indisponibili che appare suscettibile di trovare applicazione in un numero di casi molto elevato. Il giudice di legittimità ha affermato che il principio di non contestazione trova in questi casi applicazione ai fini della individuazione del thema probandum, dovendosi ritenere la condotta di non contestazione idonea ad escludere, in via immediata, i fatti non contestati dal novero di quelli bisognosi di prova. L'interesse pubblico posto a base della situazione giuridica esclude, però, che il giudice possa ritenersi vincolato a considerare sussistenti (o meno) determinati fatti in virtù delle sole dichiarazioni od ammissioni provenienti dalle parti, restandone rimessa la loro valutazione al suo prudente apprezzamento. Nel caso di specie la Corte ha confermato la sentenza impugnata la quale, muovendo dall'assunto che a fondamento dell'esperita azione era stata fatta valere la impotentia generandi del padre anagrafico, aveva valorizzato, ai fini del relativo accertamento, la mancata contestazione di tale circostanza, Sez. 1, n. 13217, Rv. 631806, est. Mercolino.

  • codice della strada
  • ingiunzione

CAPITOLO XXXIII

I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE A ORDINANZA INGIUNZIONE

(di Bruno Giordano )

Sommario

1 Procedimento e poteri del giudice, specificamente i poteri istruttori e la disapplicazione. - 2 Il rapporto con il processo civile dopo la riforma del d.lgs 1° settembre 2011, n. 150. - 3 Codice della strada. - 4 Sanzioni in materia di lavoro. - 5 Sanzioni in materia finanziaria, doganale e di consorzi. - 6 Sanzioni dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato e la giurisdizione amministrativa.

1. Procedimento e poteri del giudice, specificamente i poteri istruttori e la disapplicazione.

In materia di avvio e sviluppo del procedimento amministrativo ingiuntivo si segnalano alcune pronunce del 2014 che hanno portato l'attenzione della Suprema Corte sul rapporto tra il primo atto dell'ingiunzione e il giudizio di opposizione alle ordinanze ingiunzione della P.A. Al riguardo Sez. 6-2, n. 20975, Rv. 632666, est. Parziale occupandosi della notificazione del processo verbale di accertamento insegna che la proposizione di tempestiva e rituale opposizione ex art. 22 legge n. 689 del 1981 sana la nullità della notificazione del processo verbale di accertamento, giacché l'art. 18, quarto comma, della stessa legge dispone che la notificazione è eseguita nelle forme dell'art. 14, che, richiamando le modalità previste dal codice di rito, rende applicabile l'art. 156 cod. proc. civ. sull'irrilevanza della nullità nel caso di raggiungimento dello scopo.

Per Sez. 3, n. 1985, Rv. 629973, est. Cirillo per il caso di omessa o mancata notificazione del verbale di accertamento o dell'ordinanza ingiunzione, ha stabilito che l'opposizione alla cartella esattoriale, emessa ai fini della riscossione di una sanzione amministrativa pecuniaria comminata per violazione al codice della strada, va proposta ai sensi degli artt. 22 e 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 e non nelle forme dell'opposizione alla esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ., qualora la parte deduca che essa costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogatagli in ragione della nullità o dell'omissione della notifica del processo verbale di contestazione o dell'ordinanza ingiunzione (un precedente si rintraccia in n. 5871 del 2007 Rv. 596753).

Sempre in ordine al momento incipiente del procedimento di applicazione della sanzione amministrativa Sez. 6-3, n. 18812, Rv. 632939, est. Frasca si occupa dell'elezione di domicilio effettuata ai sensi dell'art. 18 della 1egge 24 novembre 1981, n. 689 nel procedimento amministrativo che prelude all'emanazione dell'ordinanza-ingiunzione, per stabilire che non produce effetti nel successivo procedimento contenzioso e, nel silenzio della legge, deve essere ricondotta all'ambito di disciplina di cui all'art. 141 cod. proc. civ. e non a quella di cui all'articolo 170 cod. proc. civ.; ne consegue che il domicilio eletto rappresenta un luogo di possibile notificazione dell'ordinanza-ingiunzione come scelta facoltativa e non obbligatoria.

Sulla decorrenza del termine ex art. 14 legge n. 689 del 1981, Sez. L, n. 7681, Rv. 630503, est. Ghinoy qualora non sia avvenuta la contestazione immediata dell'infrazione, ribadisce in linea con la pronuncia n. 8456 del 2006, Rv. 588336, che il termine di novanta giorni, per la notifica degli estremi della violazione, decorre dal compimento dell'attività di verifica di tutti gli elementi dell'illecito, dovendosi considerare anche il tempo necessario all'amministrazione per valutare e ponderare adeguatamente gli elementi acquisiti e gli atti preliminari, quali le convocazioni di informatori, che non hanno sortito effetto.

Si occupa del termine di decadenza per la notificazione Sez. 6-2, n. 18574, Rv. 632068, est. D'Ascola evidenziando che i limiti temporali entro i quali, a pena di estinzione dell'obbligazione di pagamento, l'amministrazione procedente è tenuta a provvedere alla notifica della contestazione, devono ritenersi collegati all'esito del procedimento di accertamento, mentre la legittimità della durata di quest'ultimo va valutata in relazione al caso concreto e alla complessità delle indagini, e non anche alla data di commissione della violazione, dalla quale decorre il solo termine iniziale di prescrizione di cui all'art. 28 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

In tema di rapporto tra notifica (omessa) dell'ordinanza ingiunzione e competenza per territorio Sez. 2, n. 19801, Rv. 632362, est. D'Ascola, impernia la decisione sul foro generale disciplinato dall'art. 18 cod. proc. civ. stabilendo che, ove l'opposizione, in assenza di pregressa notifica dell'ordinanza ingiunzione, sia stata proposta avverso la cartella esattoriale, dalla quale non sia identificabile il luogo dell'illecito, trova applicazione, ai fini dell'individuazione del giudice competente, il foro generale delle persone fisiche ex art. 18 cod. proc. civ.

Sul cumulo di domande di competenza di giudici diversi si sofferma Sez. 6-3, n. 17843, Rv. 631993, est. Barreca, analizzando l'ipotesi in cui nei confronti della stessa parte siano proposte più domande, anche solo soggettivamente connesse, alcune rientranti nella competenza per valore del giudice di pace, altre in quella per materia del tribunale. In tal caso l'organo giudiziario superiore è competente a conoscere dell'intera controversia, in applicazione degli artt. 10, secondo comma, e 104, cod. proc. civ., sempre che l'ufficio del giudice di pace competente per valore ricada nel circondario del tribunale del giudice dell'esecuzione.

La Corte, con Sez. 2, n. 15825, Rv. 631847, est. Giusti si è occupata delle maggiorazioni per il ritardo in sede di riscossione delle sanzioni amministrative per infrazioni al codice della strada ai fini di decidere sulla legittimazione per la richiesta di inibitoria delle associazioni dei consumatori e degli utenti ex art. 140 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (cosiddetto codice del consumo) stabilendo che tali associazioni non sono legittimate a richiedere, che sia ordinato ad un'amministrazione comunale di astenersi dall'applicare le maggiorazioni per il ritardo in sede di riscossione delle sanzioni amministrative conseguenti a verbali di accertamento di infrazioni del codice della strada. La ratio decidendi, si fonda su una duplice osservazione: per un verso, la potestà sanzionatoria in materia di circolazione stradale rappresenta la reazione autoritativa alla violazione di un precetto con finalità di prevenzione, speciale e generale, e non l'esercizio, da parte dell'autorità amministrativa, di un servizio pubblico. Per altro verso, il destinatario della sanzione amministrativa non è l'utente preso in considerazione dagli artt. 3, comma 1, lettera a) e 101 del d.lgs. n. 206 cit., ma il civis che, nell'utilizzazione della rete stradale, è l'autore della condotta vietata.

Particolarmente rilevanti per le questioni affrontate sui poteri del giudice chiamato a decidere sull'opposizione all'ordinanza ingiunzione appaiono due decisioni. La prima decisione della Sez. L, n. 8572, Rv. 630255, est. Balestrieri, si sofferma sull'esercizio officioso dei poteri istruttori in quanto l'art. 23, sesto comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, ratione temporis applicabile, nel prevedere che il giudice può disporre d'ufficio i mezzi istruttori ritenuti necessari, compresa la citazione dei testimoni, configura una facoltà, e non un obbligo, del giudice, il cui esercizio è rimesso al prudente apprezzamento da parte del medesimo della circostanza che i mezzi istruttori siano "necessari"; circostanza la cui prova incombe sull'opponente.

La seconda delle decisioni più rilevanti è dettata da Sez. 6-2, n. 22793, Rv. 632963, est. D'Ascola, in materia di disapplicazione da parte del giudice laddove - in linea con n. 116 del 2007, Rv. 599715 - si stabilisce che nel giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione avente ad oggetto l'irrogazione di sanzioni amministrative per violazione del codice della strada, il giudice ordinario ha il potere di sindacare incidentalmente, ai fini della disapplicazione, soltanto gli atti amministrativi posti direttamente a fondamento della pretesa sanzionatoria.

Con tale decisum la Suprema Corte mette in luce il potere di disapplicazione da parte del giudice ordinario nell'esercizio del potere giurisdizionale (di legittimità e di merito) sull'atto sanzionatorio ma al contempo confina lo strumento disapplicativo soltanto nell'ambito di quegli atti che nell'attività amministrativa hanno fatto sorgere la potestà sanzionatoria. La conseguenza tratta dalla Corte è nel senso che - ove sia stata irrogata una sanzione pecuniaria per la sosta di un autoveicolo in zona a pagamento senza esposizione del tagliando attestante l'avvenuto versamento della somma dovuta - il controllo del giudice non può estendersi anche agli eventuali vizi di legittimità della deliberazione della giunta comunale di concessione della gestione del servizio ad un'impresa privata, che non si inserisce nella sequenza procedimentale che sfocia nell'adozione dell'ordinanza opposta. Di talché la decisione orienta il giudice di merito verso il limite del potere di disapplicazione degli atti presupposti evidentemente segnato dal procedimento applicativo della sanzione senza poter ripercorrere l'iter amministrativo presupposto all'esercizio del potere.

2. Il rapporto con il processo civile dopo la riforma del d.lgs 1° settembre 2011, n. 150.

Sez. U, n. 2907, Rv. 629584) est. Petitti, si occupa dell'appello avverso le sentenze in materia di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, pronunciate ai sensi dell'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in giudizi iniziati prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150; in tal caso ove la vocatio sia stata erroneamente introdotta con ricorso anziché con citazione, è suscettibile di sanatoria, a condizione che nel termine previsto dalla legge l'atto sia stato non solo depositato nella cancelleria del giudice, ma anche notificato alla controparte. Nel caso de quo, secondo l'insegnamento della Suprema Corte, non trova applicazione il diverso principio, non suscettibile di applicazione al di fuori dello specifico ambito, affermato con riguardo alla sanatoria delle impugnazioni delle deliberazioni di assemblea di condominio spiegate mediante ricorso. Aggiunge la decisione come non sia possibile rimettere in termini l'appellante, non ricorrendo i presupposti della pregressa esistenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale poi disatteso da un successivo pronunciamento.

Per Sez. 6-2, n. 10369, Rv. 630627, est. Petitti circa l'impugnazione esperibile contro la sentenza del giudice di pace nei giudizi di opposizione a ordinanza-ingiunzione per sanzione amministrativa, precisa che per via dell'applicazione del rito del lavoro disposta dagli artt. 2 e 6 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, la sentenza del giudice di pace è impugnabile con appello e non con ricorso per cassazione. Sulla medesima linea Sez. 6-2, n. 13260, Rv. 631100, est. Petitti che sempre nel regime del d.lgs. n. 150 del 2011, in tema di sanzioni amministrative, ribadisce che la tardività dell'opposizione ad ordinanza-ingiunzione è dichiarata con sentenza, applicandosi il rito del lavoro, sicché l'impugnazione esperibile è l'appello, non il ricorso per cassazione.

3. Codice della strada.

L'applicazione delle norme sulla circolazione stradale si confermano quelle più ricche di questioni giuridiche nel campo del giudizio de quo. In primo luogo spicca la decisione di Sez. U, n. 10406, Rv. 630860, est. San Giorgio in base alla quale il provvedimento del Prefetto di revoca della patente di guida a seguito di sottoposizione del titolare alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza non può essere assimilato alle sanzioni amministrative per le quali è previsto, in via generale, il regime di impugnazione di cui all'art. 22 bis, legge 24 novembre 1981, n. 689, poiché esso non costituisce conseguenza accessoria della violazione di una disposizione in tema di circolazione stradale, bensì la constatazione dell'insussistenza, originaria o sopravvenuta, dei requisiti morali prescritti per il conseguimento del titolo di abilitazione alla guida. Ne consegue che il giudizio di opposizione avverso tale provvedimento, non rientrando nella competenza per materia del giudice di pace, è devoluto alla competenza ordinaria del tribunale, ai sensi dell'art. 9 cod. proc. civ.

Particolarmente interessante si rivela la lettura di Sez. 6-2, n. 18471, Rv. 632041, est. Manna che volge l'attenzione sull'errore di diritto e il rapporto tra l'obbligo di conoscenza delle norme e la rilevanza della segnaletica stradale. La decisione ritiene che in tema di illecito amministrativo, l'errore di diritto, quale causa di esclusione della responsabilità in riferimento alla violazione di norme amministrative (in analogia a quanto previsto dall'art. 5 cod. pen.), viene in rilievo soltanto a fronte dell'inevitabilità dell'ignoranza del precetto violato, da apprezzarsi alla luce della conoscenza e dell'obbligo di conoscenza delle leggi che grava sull'agente in relazione anche alle sue qualità professionali e al suo dovere di informazione sulle norme e sulla relativa interpretazione, nonché, nel caso di infrazioni al codice della strada, tenendo conto della segnaletica, la cui presenza è volta a rendere edotti di divieti e prescrizioni gli utenti della strada. Non v'è dubbio pertanto che la decisione de qua pone il limite della scusabilità dell'errore di diritto sulla conoscenza o conoscibilità dei divieti tipici del codice della strada, proprio sull'evidenza della segnaletica stradale che funzionalmente è volta a rendere conoscibili i divieti.

Circa la liquidazione delle spese giudiziali, Sez. 2, n. 9556, Rv. 630424, est. Petitti afferma che il limite del valore della domanda, sancito dal quarto comma dell'art. 91 cod. proc. civ., opera soltanto nelle controversie devolute alla giurisdizione equitativa del giudice di pace e non si applica, quindi, nelle controversie di opposizione a ordinanza-ingiunzione o a verbale di accertamento di violazioni del codice della strada, le quali, pur se di competenza del giudice di pace e di valore non superiore ai millecento euro, esigono il giudizio secondo diritto, ciò che giustifica la difesa tecnica e fa apparire ragionevole sul piano costituzionale l'esclusione del limite di liquidazione.

Si sofferma sull'atto di accertamento Sez. 6-2, n. 13037, Rv. 631142, est. Bianchini, evidenziando che la specificità di tale atto esige l'indicazione del giorno, dell'ora e della natura dell'infrazione, del tipo e della targa del veicolo, nonché della località del fatto, senza necessità di ulteriori estremi non indispensabili alla difesa dell'incolpato, quali il numero civico o l'intersezione stradale di posizione della luce semaforica inosservata dal trasgressore.

La Corte, con Sez. 6-2, n. 4405, Rv. 629604) est. D'Ascola si occupa della specifica ipotesi in cui v'è il rifiuto di sottoporsi al prelievo ematico da parte del conducente di un veicolo coinvolto in un sinistro stradale, sottraendosi agli accertamenti imposti dagli artt. 186 e 187 del codice della strada. Con siffatto comportamento egli viola, con unica azione, diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative e, pertanto, soggiace, ai sensi dell'art. 8 della legge 24 novembre 1981, n. 689, alla sanzione prevista per la violazione più grave aumentata fino al triplo.

Dirime un interessante conflitto di giurisdizione tra giudice di pace e giudice tributario Sez. U, n. 8928, Rv. 630305) est. Di Blasi, evidenziando che la cognizione delle opposizioni alle ordinanze ingiunzioni applicative di sanzioni per la violazione delle norme che disciplinano la circolazione stradale è attribuita dall'art. 205 del d.lgs. 30 aprile 1992 n. 285 all'autorità giudiziaria ordinaria, dovendosi escludere la configurabilità di una competenza del giudice tributario. La ratio decidendi si fonda sulla considerazione che trattandosi di sanzioni, se pure irrogate da uffici finanziari, conseguenti a violazioni di disposizioni non aventi natura fiscale, la controversia non ha ad oggetto l'esercizio del potere impositivo, sussumibile nello schema potestà-soggezione, bensì un rapporto, che implica un accertamento meramente incidentale.

Va anche posta in evidenza Sez. 6-2, n. 20974, Rv. 632690) est. Parziale, che, nel caso di decurtazione dei punti della patente quale sanzione amministrativa accessoria in caso di violazione al codice della strada, ammonisce che il ricorso avverso la violazione principale non elide, in capo al proprietario del veicolo, l'obbligo di comunicare i dati del conducente richiesti dalla P.A., che attiene ad un dovere di collaborazione di natura autonoma ed è separatamente sanzionato. Pertanto la comunicazione con la quale l'opponente si sia limitato a riferire dell'avvenuta presentazione del ricorso non ha carattere esaustivo poiché l'obbligo, nelle more del giudizio, resta solo sospeso e condizionato e si riattiva in caso di esito sfavorevole, con nuova decorrenza dei termini dal deposito della sentenza di primo grado, provvisoriamente esecutiva ai sensi dell'art. 282 cod. proc. civ.

4. Sanzioni in materia di lavoro.

Rare ma rilevantissime le decisioni che riguardano le sanzioni applicate nell'ambito del rapporto di lavoro, come la statuizione della Suprema Corte in materia di ordinanza emessa dall'Ispettorato del Lavoro. Infatti Sez. L, n. 18517, Rv. 632806, est. Berrino, occupandosi di applicazione di norme compatibili con il rito di cui agli artt. 22 e 23 - stabilisce che qualora il giudizio di primo grado, pur svoltosi dinanzi al giudice del lavoro, sia stato proposto con ricorso ex art. 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689 avverso un'ordinanza emessa, non da enti di previdenza o assistenza, ma dall'Ispettorato del Lavoro senza che siano state applicate le regole proprie del rito del lavoro incompatibili con il procedimento di cui agli artt. 22 e 23 della legge indicata, il ricorso avverso la sentenza di primo grado va proposto direttamente in cassazione.

In tema di omissioni contributive relative ad un rapporto di lavoro subordinato del quale l'opponente contesti l'esistenza, la Corte - Sez. L, n. 8364, Rv. 630242, est. Mancino, ritiene inammissibile la chiamata in causa del lavoratore al fine di accertare l'insussistenza del rapporto, giacché nel predetto giudizio non sono configurabili situazioni di comunanza di causa o chiamata in garanzia, per essere il thema decidendum limitato all'accertamento della legittimità della pretesa sanzionatoria dell'INPS nei confronti dell'autore dell'omissione contributiva o dell'obbligato in solido (un precedente analogo si rintraccia in n. 14179 del 1999, Rv. 532290).

Si sofferma sull'obbligazione solidale del datore di lavoro per l'illecito del dipendente che in tema di sanzioni amministrative, ai fini della solidarietà ex art. 6 della legge 24 novembre 1981, n. 689, evidenzia che l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato costituisce una praesumptio facti di riferibilità al datore di lavoro dell'attività lavorativa del dipendente. Siffatta presunzione - ecco l'importante deduzione della Suprema Corte - è vincibile solo dalla prova che tale attività è stata svolta per conto di terzi o nell'interesse esclusivo dello stesso prestatore. La decisone quindi ripone nell'ambito del'onere della prova da parte del datore di lavoro la possibilità di recidere il vincolo di solidarietà che lo lega al dipendente rendendolo obbligato per l'illecito amministrativo commesso da quest'ultimo.

5. Sanzioni in materia finanziaria, doganale e di consorzi.

A proposito delle sanzioni di cui al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Sez. 2, n. 1065, Rv. 629025, est. San Giorgio rileva che l'inosservanza del termine di conclusione del procedimento di applicazione delle sanzioni amministrative non comporta l'illegittimità del provvedimento finale, trattandosi di vizio che - in relazione al contenuto vincolato del provvedimento medesimo - non influisce sul diritto di difesa. La decisione, quindi, pone in rapporto le conseguenze sull'inosservanza del termine con gli effetti (ritenuti irrilevanti) sul diritto di difesa.

Un'altra decisione della Suprema Corte interviene in tema di servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari e di intermediazione finanziaria, laddove gli artt. 43 del d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415, e 190 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, prevedono, nei confronti di coloro che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione presso imprese d'investimento, banche o altri soggetti abilitati nonché dei relativi dipendenti, la comminatoria di una sanzione amministrativa pecuniaria per l'inosservanza, tra l'altro, delle "disposizioni generali o particolari impartite dalla CONSOB o dalla Banca d'Italia". Tali disposizioni, osserva la Corte, non costituiscono norme punitive "in bianco", né comportano alcuna indeterminatezza del precetto, poiché, atteso il particolare tecnicismo dell'ambito di operatività di tali disposizioni, realizzano solo una etero integrazione del precetto, consentita dalla riserva di legge sancita dall'art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Sez. 2, n. 18683, Rv. 632300, est. Petitti).

Quest'ultima sentenza, inoltre, ribadisce che in tema di intermediazione finanziaria, il procedimento di irrogazione di sanzioni amministrative, previsto dall'art. 187 septies del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, postula solo che, prima dell'adozione della sanzione, sia effettuata la contestazione dell'addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell'interessato; pertanto, non è violato il principio del contraddittorio nel caso di omessa trasmissione all'interessato delle conclusioni dell'Ufficio sanzioni amministrative della Consob o di sua mancata audizione innanzi alla Commissione, non trovando d'altronde applicazione, in tale fase, i principi del diritto di difesa e del giusto processo, riferibili solo al procedimento giurisdizionale.

Si sofferma sul procedimento di opposizione alle sanzioni amministrative applicate dalla CONSOB Sez. 6-2, n. 12089, Rv. 630808) est. Giusti che circa la competenza funzionale della corte d'appello, prevista dagli artt. 187 septies e 195 del TUIF, esprime un principio generale di concentrazione, finalizzato ad implementare le conoscenze di settore. Ne consegue che, pur mancando una specifica previsione al riguardo, tale competenza vale anche per le sanzioni irrogate ai revisori contabili, ai sensi dell'art. 163 del TUIF (cfr. Corte cost. n. 162 del 2012).

In materia doganale la Suprema Corte traccia un'interessante analogia con il contraddittorio previsto dallo Statuto del contribuente, con Sez. 5, n. 15032, Rv. 631845) est. Olivieri laddove si osserva che in tema di avvisi di rettifica è inapplicabile l'art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212, operando in tale ambito lo jus speciale di cui all'art. 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374, nel testo utilizzabile ratione temporis, preordinato a garantire al contribuente un contraddittorio pieno in un momento comunque anticipato rispetto all'impugnazione in giudizio del suddetto avviso, come confermato dalla normativa sopravvenuta (d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge 24 marzo 2012, n. 27), la quale, nel disporre che gli accertamenti in materia doganale sono disciplinati in via esclusiva dall'art. 11 del d.lgs. n. 374 cit., ha introdotto un meccanismo di contraddittorio assimilabile a quello previsto dallo Statuto del contribuente.

In materia di consorzi Sez. 6-2, n. 9263, Rv. 630870) est. Giusti nell'ambito di un regolamento di competenza in materia di opposizione a ordinanza ingiunzione per violazione degli obblighi pubblicitari sanciti dall'art. 2630 cod. civ., stabilisce che rientra nella competenza del tribunale, ai sensi dell'art. 22 bis, secondo comma, lett. f, della legge 24 novembre 1981, n. 689, applicabile ratione temporis, quando trattasi di consorzio in forma societaria.

6. Sanzioni dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato e la giurisdizione amministrativa.

Merita una lettura specifica Sez. U, n. 10411, Rv. 630829, est. Vivaldi in merito al campo delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato. Si osserva che appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi degli artt. 133 e 134 del codice del processo amministrativo, la controversia relativa all'intimazione delle maggiorazioni da ritardato pagamento. Infatti trattasi di un atto con carattere sanzionatorio, strumentale non alla mera esecuzione, ma alla determinazione dell'an e del quantum delle sanzioni aggiuntive. La Suprema Corte non trascura di evidenziare che la soluzione risponde, peraltro, ad una interpretazione costituzionalmente orientata che impone, al fine di assicurare la funzionalità del sistema processuale, di escludere il frazionamento della medesima materia tra autorità giudiziarie diverse.

  • liquidazione dei beni
  • fallimento

CAPITOLO XXXIV

PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI

(di Salvatore Leuzzi )

Sommario

1 Controllo di regolarità e informazione dei creditori nel concordato preventivo. - 2 Subprocedimento di revoca: connotazione officiosa e presupposto. - 3 Rapporti tra concordato preventivo e fallimento. - 4 Instaurazione del processo fallimentare. - 5 Istruttoria prefallimentare. - 6 Formazione dello stato passivo e correlate opposizioni. - 7 Impugnazioni. - 8 Sospensione della liquidazione. - 9 Rendiconto e chiusura del fallimento. - 10 Liquidazione coatta amministrativa.

1. Controllo di regolarità e informazione dei creditori nel concordato preventivo.

Avuto riguardo all'incentivazione legislativa degli strumenti di soluzione delle crisi d'impresa alternativi al fallimento, opportune sono giunte, nel solco del fondamentale arrêt rappresentato da Sez. U, n. 1521 del 2013, Rv. 624794, est. Piccininni, alcune puntualizzazioni della Corte in ordine alla natura e all'estensione del controllo riservato al tribunale sulla proposta di concordato, nelle fasi che ne scandiscono la procedura. Nutrito il gruppo di pronunce sul tema. Secondo Sez. 1, n. 11497, Rv 631403, est. De Chiara, il controllo, da parte del giudice, pur declinandosi come verifica di legittimità, nondimeno non è limitato alla sola completezza, congruità logica e coerenza complessiva della relazione dell'attestatore, né è evidentemente esclusa dall'attestazione, estendendosi, piuttosto, alla fattibilità giuridica della proposta e, in tal guisa, implicando l'accertamento, in tutte le fasi del concordato (ammissione, revoca, omologa), della compatibilità di quest'ultima con le norme inderogabili e con la causa in concreto dell'accordo, finalizzato, per un verso superamento della crisi dell'imprenditore, per altro verso all'assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori. Area "custodita" in via esclusiva da questi ultimi è quella del giudizio di fattibilità economica, che ha ad oggetto convenienza della proposta e la probabilità di successo economico del piano, con i rischi inerenti, restando salva, pure in questo caso, la possibilità del tribunale di addentrarvisi nei limiti della sussistenza o meno di una assoluta, manifesta inettitudine del piano presentato dal debitore a raggiungere gli obbiettivi prefissati, ossia alla conclamata irrealizzabilità della causa concreta. Analogo approccio è ravvisabile in Sez. 1, n. 11423, Rv. 631286, est. De Chiara.

Proprio in punto di valutazione della convenienza, idoneamente chiarificatrice è giunta Sez. 1, n. 15345, Rv. 631812, est. Di Amato, nell'evidenziare che, neppure la proposizione di opposizioni alla omologazione estende il sindacato al profilo di convenienza del concordato, posto che tale estensione, nelle formulazioni dell'art. 180, comma 5, che si sono succedute (ad opera del d.l. n. 35 del 2005, del d.lgs. n. 169 del 2007 e del d.l. n. 83 del 2012) esige presupposti individuati prima nel mero dissenso di una o più classi di creditori, indipendentemente dalla presentazione di opposizioni (d.l. n. 35 del 2005), poi nella necessaria opposizione di un creditore appartenente ad una classe dissenziente (d.lgs. n. 169 del 2007) e, infine, nella opposizione di un creditore appartenente ad una classe dissenziente ovvero, nel caso di concordato senza classi, di creditori dissenzienti che rappresentano almeno il 20% dei crediti ammessi al voto (d.1. n. 83 del 2012). Correlativamente, peraltro, l'oggetto stesso della valutazione di convenienza - come significativamente messo in luce dalla pronuncia in discorso - si è significativamente evoluto, dal momento che, riferito nella prima formulazione ai crediti degli appartenenti alle classi dissenzienti, si connette, invece, nella seconda e terza formulazione, al credito vantato dagli opponenti.

Il fil rouge dell'unitarietà del parametro di valutazione, nelle distinte fasi che articolano la procedura concordataria, è efficacemente rimarcato da Sez. 1, n. 2130, Rv. 629779, est. Di Amato, ove, parallelamente, viene posto l'accento sull'essenzialità del controllo sulla "veridicità dei dati contabili", quale strumento di salvaguardia del "consenso-dissenso) informato" dei creditori. In tal senso, se "nella valutazione delle condizioni prescritte per l'ammissibilità del concordato, quale che sia la sede nella quale tale valutazione avvenga (ammissione ex art. 162, secondo comma; revoca ex art. 173, terzo comma; omologazione ex art. 180, terzo comma, al tribunale non è consentito di valutare la regolarità e l'attendibilità delle scritture contabili"; se al tribunale è precluso, altresì, sindacare la stima del valore attribuito agli elementi patrimoniali, salvo che in caso di "incongruenza o illogicità della motivazione"; nondimeno, nell'ottica di assicurare la fluidità del canale informativo tra il quadro concordatario e i creditori, è in potere del tribunale "sindacare la veridicità dei dati aziendali esposti nei documenti allegati al ricorso sotto il profilo della loro effettiva consistenza materiale e giuridica".

La connotazione basilare assegnata all'informazione dei creditori è ben presente pure in Sez. 1, n. 12549, Rv. 631416, est. Piccininni, che richiama il tribunale all'adempimento del "dovere di verificare la completezza e l'affidabilità della documentazione depositata", essendo indispensabile che i creditori serbino una "puntuale conoscenza della effettiva consistenza dell'attivo" destinato a soddisfarli e siano posti in grado, pertanto, di esprimersi sulla convenienza della proposta.

Il controllo della completezza e correttezza dei dati fatti oggetto di ostensione da parte del debitore-proponente assurge a caposaldo anche della già mentovata pronuncia della Sez. 1, n. 11423, Rv. 631286, est. De Chiara, in seno alla quale, la separatezza concettuale tra fattibilità giuridica e fattibilità economica è compendiosamente affinata: entro la prima nozione si racchiude la verifica della "non incompatibilità del piano con norme inderogabili"; nella seconda si riconduce la verifica della sua "realizzabilità nei fatti", ascrivendo al tribunale l'effettiva possibilità di controllare detto ultimo profilo sull'originale e incisivo presupposto rappresentato dalla sussistenza di una "assoluta, manifesta inettitudine del piano presentato dal debitore" a raggiungere gli obbiettivi programmati, avuto riguardo alle specifiche modalità indicate e all'indispensabilità di una pur minimale soddisfazione dei creditori chirografari in un tempo ragionevole.

Che il "calcolo delle probabilità" di successo e/o insuccesso del piano s'appartenga al raggio di valutazione dei creditori sulla fattibilità economica è un dato irrobustito da Sez. 1, n. 15345, Rv. 631812, est. Di Amato, già appena sopra richiamata e fortemente orientativa nella misura in cui lascia fuori perspicuamente dall'alveo del controllo di pertinenza del tribunale il profilo della effettiva probabilità di successo" del concordato approvato dai creditori, escludendo che l'omologa possa essere negata ancorché, a giudizio del tribunale (o della corte di appello), ne sia prevedibile l'inadempimento.

Laddove il voto dei creditori si sia espresso, al tribunale compete l'accertamento dell'effettivo raggiungimento delle maggioranze. In proposito, una fondamentale indicazione è stata resa da Sez. 1, n. 2326, Rv. 630034, est. Piccininni, la quale, segnalando che l'unica condizione richiesta dalla legge fallimentare ai fini dell'approvazione del concordato preventivo da parte dei creditori è costituita proprio dal raggiungimento delle maggioranze entro il termine perentorio di venti giorni dalla chiusura del verbale dell'adunanza, di cui all'art. 178, quarto comma, legge fall., evidenzia che nell'esercizio del suo "prudente apprezzamento", il giudice debba tener conto anche delle dichiarazioni trasmesse dai creditori al commissario giudiziale, senza che il mancato invio in cancelleria costituisca vizio idoneo a vanificarne la rilevanza giuridica. In tal senso, depone sia l'assenza nel mentovato quarto comma - diversamente dall'art. 125, secondo comma, legge fall. in materia di concordato fallimentare - di una specificazione sull'organo deputato alla ricezione del voto e sul luogo in cui la relativa dichiarazione debba pervenire (atteso che la semplice previsione di un obbligo di annotazione del voto in capo al cancelliere non consente l'automatica identificazione di quest'ultimo come destinatario dell'indicazione di voto), sia alla stregua dei criteri ispiratori della disciplina del concordato preventivo, informati all'esigenza di mantenere in attività la struttura produttiva in precarie condizioni economiche, evitandone il fallimento.

2. Subprocedimento di revoca: connotazione officiosa e presupposto.

Un mini-filone di notevoli pronunce ha investito, nell'anno in rassegna, i tratti distintivi strutturali della revoca e, in parallelo, l'enucleazione contenutistica del suo presupposto, rappresentato dagli atti di frode.

Una valida precisazione ha, innanzitutto, riguardato l'apertura d'ufficio della fase subprocedimentale: Sez. 1, n. 9271, Rv. 631128, est. Di Amato evidenzia come sia il tribunale, stando alla lettera del primo comma dell'art. 173 legge fall., a dare autonomamente corso al subprocedimento, senza dover attendere una specifica richiesta da parte del commissario, ma, semplicemente, recependone gli esiti delle verifiche condotte e provvedendo, in via unilaterale, ad attribuirvi eventuale rilevanza in funzione della revoca del concordato. Le parole della Corte sono nettamente rivelatrici della ripartizione dei compiti: "la frode ha carattere oggettivo e la relativa qualificazione spetta al tribunale indipendentemente dalle espressioni usate dal commissario giudiziale, il quale ha il compito di accertare i fatti e riferirli". E nell'economia della autonoma qualificazione dei fatti riferiti un peculiare risalto finisce per assumere la possibile alterazione dei valori di stima dell'attivo, essendo evidente che "quando le risorse per l'adempimento del concordato sono rappresentate dal provento della liquidazione dell'attivo, una falsa rappresentazione della sua consistenza incide certamente sul consenso informato dei creditori". Opportuna giunge, nel corpo della medesima pronuncia ora in discorso, una precisazione sul ruolo del P.M. nel contesto del subprocedimento di revoca, evidenziandosi che l'organo requirente è informato dell'avvio della procedura d'ufficio e del relativo esito, essendo legittimato, a seguito della comunicazione del decreto con il quale il tribunale abbia revocato l'ammissione, a formulare la richiesta di fallimento anche se la notizia dell'insolvenza non sia stata acquisita nelle forme e secondo le modalità specificamente previste dall'art. 7 legge fall.

La fisionomia officiosa del subprocedimento di revoca è avvalorata anche da Sez. 1, n. 4183, Rv. 630031, est. Di Virgilio, che si muove nella medesima direzione, sottolineando, nella specie, che il commissario giudiziale non è parte, né in senso formale, nè sostanziale nel subprocedimento in questione, dovendosi considerare che l'art. 173 legge fall. non prevede alcuna comunicazione nei suoi confronti, pur non precludendone la partecipazione. Il commissario è in una "posizione di ausiliare del giudice, non quindi portatore di specifici interessi da far valere in sede giurisdizionale, in nome proprio o come sostituto processuale", dal che deriva che egli non è neppure legittimato ad impugnare il provvedimento con il quale la corte d'appello abbia riformato il decreto di revoca dell'ammissione al concordato emesso dal tribunale.

Sulla stessa lunghezza d'onda, l'essenziale profilo dell'officiosità della revoca è ripreso anche da Sez. 1, n. 9050, Rv. 631119, est. Di Virgilio, che l'arricchiste della sottolineatura di una chiara distinzione, evincibile dal secondo comma dell'art. 173 legge fall., tra detta fase subprocedimentale e quella, successiva ed eventuale, di dichiarazione di fallimento. Quest'ultima richiede - essa sì - l'impulso di un creditore o del P.M. (in sintonia con l'art. 6 legge fall.), tanto che, ove la richiesta del creditore sia stata dichiarata improcedibile in data antecedente al decreto di revoca e tale dichiarazione non sia stata fatta oggetto di reclamo - o, comunque, contestata in via incidentale nel procedimento ex art. 173 legge fall. - non si può dare corso, a seguito della revoca del concordato, alla dichiarazione di fallimento, restando preclusa ogni valutazione sulla correttezza o meno della menzionata pronuncia. La pronuncia da ultimo richiamata offre uno spunto di assoluto interesse, oltre che di indubbia novità, pure nella parte in cui riempie di contenuto il presupposto d'avvio del subprocedimento di revoca, ossia gli atti di frode, dando sèguito all'avviso che ne esclude l'assimilazione a quelli descritti agli artt. 64 e ss. legge fall. - avviso ancora in corso d'anno "scolpito" da Sez. 1, n. 12533, Rv. 631405, est. De Chiara - evidenziando la necessità che gli stessi, per un verso siano accertati nella loro materialità dal commissario giudiziale, per altro e concomitante verso posseggano una valenza potenzialmente decettiva, per l'idoneità di pregiudicare il consenso informato dei creditori sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione. Su detta piattaforma concettuale, la pronuncia innesta quello che significativamente "battezza" come un "approfondimento dell'orientamento" cui dà continuità, mettendo in evidenza che, nell'interpretazione letterale e sistematica del riferimento agli atti accertati dal commissario, l'art. 173, comma primo legge fall. "non esaurisce il suo contenuto precettivo nel richiamo al fatto "scoperto" perché ignoto nella sua materialità, ma ben può ricomprendere il fatto non adeguatamente e compiutamente esposto in sede di proposta di concordato ed allegati, e che quindi può dirsi "accertato" dal commissario, in quanto individuato nella sua completezza e rilevanza ai fini della corretta informazione dei creditori". L'accertamento ben può consistere, dunque, nella effettiva comprensione di un atto già noto, ma non individuato ab initio nella sua esatta portata. Un' accezione del verbo "accertare" di matrice rigorosamente soggettivistica, dunque opportunamente fedele alla semantica. La richiamata importanza dell'informazione è, poi, messa in luce in rapporto al ruolo di "garanzia della regolarità della procedura" assegnato al tribunale, in tal guisa tenuto a verificare che siano messi a disposizione di quanti dovranno esprimersi sul merito della proposta "tutti gli elementi necessari per una corretta valutazione".

L'autonomia del tribunale nel dar corso e definizione al subprocedimento di revoca rinviene una vigorosa conferma in Sez. 1, n. 14552, Rv. 631503, est. Bernabai, che focalizza come, al riscontro, da parte del tribunale che recepisca gli esiti dell'accertamento commissariali, di atti di occultamento o dissimulazione dell'attivo, del compimento di atti di frode si accompagni fisiologicamente la pronuncia della revoca dell'ammissione "indipendentemente dal voto espresso dai creditori in adunanza e, quindi, anche nell'ipotesi in cui questi ultimi siano stati resi edotti di quell'accertamento", atteso che, non casualmente, l'art. 173 legge fall. ricollega in via immediata alla scoperta degli atti in frode il potere-dovere del giudice di revocare l'ammissione al concordato, ciò senza la necessità di alcuna presa di posizione sul punto dei creditori.

L'omogeneità, in ciascuna fase della vicenda procedimentale concordataria, del metro di valutazione del tribunale, è a fondamento di Sez. 1, n. 10778, Rv. 631417, est. Di Virgilio, che spiega come, nel giudizio di omologazione del concordato, il controllo della regolarità della procedura esiga che il giudice verifichi "la persistenza sino a quel momento delle stesse condizioni di ammissibilità della procedura già scrutinate nella fase iniziale, dell'assenza di atti o fatti di frode ed, infine, in caso di riscontro positivo di tali condizioni, del rispetto delle regole che impongono che la formazione del consenso dei creditori sulla proposta concordataria sia stata improntata alla più consapevole ed adeguata informazione", con la conseguenza che, a fronte di atti o di fatti rilevanti ai fini previsti dall'art. 173 legge fall., il tribunale è tenuto a respingere la domanda di omologazione nonostante la mancata apertura del procedimento ad hoc.

Merita, infine, segnalare la rilevanza di Sez. 1, n. 9998, Rv. 631081, est. Di Amato, che ha enunciato il principio di esclusione della reclamabilità del decreto di revoca dell'ammissione al concordato, facendo perno sull'analogia con quanto previsto, rispettivamente, dagli artt. 162, secondo comma, in caso di mancata ammissione alla procedura, e 179, primo comma, legge fall., per la mancata approvazione del concordato da parte dei creditori. In tal senso, secondo la pronuncia de qua residua l'opzione impugnatoria del ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. quando, essendo il decreto fondato sull'insussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi per l'accesso alla procedura o sul difetto di giurisdizione, esso assuma carattere decisorio; di contro, il decreto inscindibilmente connesso ad una successiva e conseguenziale sentenza dichiarativa di fallimento, anche non contestuale, rende pure detta opzione impercorribile, esigendo che i vizi del decreto siano fatti valere mediante l'impugnazione della sentenza.

3. Rapporti tra concordato preventivo e fallimento.

Il quadro problematico dei rapporti tra procedure concorsuali temporalmente sovrapponibili e sovente sovrapposte ha raccolto, pure nell'anno corrente, le attenzioni probabilmente maggiori.

Di notevole valenza esplicativa è Sez. 1, n. 13505, Rv. 631399, est. Bernabai, intervenuta a spiegare che l'art. 161, decimo comma, legge fall. consente la concessione di un termine per il deposito del piano e della documentazione richiesti per l'ammissione al concordato preventivo "quando pende il procedimento per la dichiarazione di fallimento" e che siffatto requisito certo non ricorre allorchè, a fallimento già dichiarato, sia in corso il giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento.

Poco tempo prima, un'ordinanza interlocutoria, Sez. 1, n. 9476, est. De Chiara, sul presupposto dell'insussistenza di una pregiudizialità in senso tecnico fra la domanda di fallimento e la domanda di concordato preventivo contemporaneamente pendenti e reputando che occorra, per converso, procedere al coordinamento tra le procedure in corso, ha ritenuto necessario sottoporre, di nuovo e a distanza di alcuni mesi, alle Sezioni Unite civili la questione di massima di particolare importanza della persistenza del principio della prevalenza della procedura di concordato preventivo rispetto al procedimento per la dichiarazione di fallimento e, segnatamente, la problematica dell'individuazione specifica delle regole che il rammentato coordinamento devono assicurare.

È d'uopo rammentare che secondo il diverso orientamento di legittimità, riaffermato da Sez. U, n. 1521 del 2013, Rv. 624794, est. Piccininni, la facoltà per il debitore di proporre una procedura concorsuale alternativa al suo fallimento non rappresenterebbe un fatto impeditivo alla relativa dichiarazione, ma una semplice esplicazione del diritto di difesa del debitore. Pertanto, il principio della c.d. prevalenza del concordato rispetto al fallimento - desunto dalla vecchia formulazione dell'art. 160 legge fall. per cui è in facoltà del debitore di chiedere il concordato finché il suo fallimento non sia stato dichiarato - avrebbe ceduto il passo ad una mera regola di coordinamento fra le due diverse procedure concorsuali, con la conseguenza che il fallimento potrebbe essere dichiarato anche in pendenza della procedura di concordato preventivo.

L'avviso della Prima Sezione si muove in senso divergente, sul presupposto dell'affermazione per la quale, nella legge fallimentare, sono recuperabili diverse disposizioni dalle quali sarebbe dato evincere che l'esame della domanda di fallimento debba essere sempre posposta all'esame della domanda di concordato (artt. 162, 173 e 180 legge fall.). Segnatamente si elencano: la previsione della dimidiazione del termine per il caso di domanda prenotativa di concordato in costanza di ricorso per fallimento non avrebbe ragion d'essere se il fallimento potesse essere, in ogni caso, dichiarato; la previsione della retrodatazione degli effetti del fallimento alla data di pubblicazione della domanda di concordato sembrerebbe esprimere un principio di protezione che giustifica la preminenza del concordato.

La prospettiva tracciata dalla Prima Sezione è netta: vigerebbe la regola di temporanea non dichiarabilità del fallimento antecedentemente al necessario, prioritario epilogo della vicenda concordataria preventiva. La funzione del concordato di prevenire il fallimento per il tramite di una soluzione alternativa, fondata sull'accordo del debitore con la maggioranza dei suoi creditori, imporrebbe che, prima di giungere alla declaratoria di fallimento, debba necessariamente essere vagliata l'eventuale domanda di concordato, per farsi luogo poi alla dichiarazione di fallimento solo in caso di mancata apertura della procedura minore ovvero fino alla conclusione di essa in senso negativo (ossia con la mancata approvazione ai sensi dell'art. 179 legge fall., o il rigetto ai sensi dell'art. 180, ultimo comma, legge fall.) ovvero a seguito della revoca dell'ammissione ai sensi dell'art. 173 legge fall.

Dal che la decisione di rimettere la problematica nuovamente al vaglio delle Sezioni Unite.

Merita, nondimeno considerare che, secondo l'impostazione dell'ordinanza di rimessione, la preferenza riservata al concordato va ristretta alla decisione assunta dal tribunale e la pendenza dei procedimenti impugnatori sulla domanda di concordato non può precludere l'esame della domanda di fallimento.

Che la tematica del rapporto tra fallimento e procedure concorsuali alternative rappresenti una tematica d'attualità pregnante, lo si evince anche dalla recentissima Sez. 6-1, n. 23111, Rv. 632785, est. Ragonesi. La pronuncia ha escluso la sussistenza, in capo al debitore convocato dinanzi al giudice nell'ambito del procedimento per la dichiarazione di fallimento, di un diritto ad ottenere il differimento della trattazione per consentire il ricorso a procedure concorsuali alternative, segnatamente al concordato preventivo. Né, ad avviso della Corte, il diniego interposto dal giudice all'istanza di rinvio configura una violazione del diritto di difesa. Le iniziative del debitore, volte a comporre la crisi mediante un accordo con i propri creditori, sono riconducibili all'autonomia privata, il cui esercizio deve essere oggetto di bilanciamento, ad opera del giudice, con le esigenze di tutela degli interessi pubblicistici al cui soddisfacimento la procedura fallimentare è finalizzata. Ancora una volta viene sottolineato, dunque, il ruolo del magistrato nella mediazione tra interessi contrapposti e nel necessario coordinamento processuale.

L'unitarietà processuale tra concordato e fallimento, pur nell'eliminazione del vecchio automatismo pre-riforma della consecutio, è aspetto tenuto massimamente in conto da Sez. 1, n. 11423, Rv. 631285, est. De Chiara, che precisa, per un verso che la dichiarazione d'inammissibilità del concordato può senz'altro essere inclusa nella sentenza di fallimento, per altro verso, che l'audizione del proponente di cui all'art. 162 legge fall. ben può coincidere con quella relativa ad eventuali istanze di fallimento, ove si consideri che detta norma "si limita a prevedere che la declaratoria d'inammissibilità della proposta di concordato preventivo sia emessa "sentito il debitore in camera di consiglio", e nulla vieta che tale audizione coincida con quella relativa ad eventuali istanze di fallimento, com'è anzi consigliato dalla stretta connessione di quella proposta e di quelle istanze, suscettibili di sfociare in provvedimenti - decreto d'inammissibilità del concordato e la sentenza dichiarativa del fallimento - a loro volta strettamente connessi".

In un'analoga prospettiva "unificante", che esclude la duplicazione degli incombenti ed economizza i mezzi processuali, si colloca Sez. 1, n. 9730, Rv. 631082, est. Scaldaferri, secondo cui "il sub-procedimento diretto alla declaratoria del fallimento si apre nell'ambito di una procedura unitaria nella quale il debitore ha già formalizzato il rapporto processuale innanzi al tribunale, il cui eventuale sbocco nella dichiarazione di fallimento deve essergli noto sin dal momento della roposizione della domanda di concordato ed ancor più dopo aver preso conoscenza dell'emissione del decreto con cui il tribunale dichiara l'inammissibilità della proposta e trasmette gli atti al P.M.". Dal che deriva che non è necessaria l'ulteriore convocazione in camera di consiglio del debitore per addivenire alla declaratoria del fallimento di fallimento, potendo questi predisporre comunque i mezzi di difesa più adeguati per contrastare detta eventualità, tenuto conto delle esigenze proprie dei procedimenti concorsuali (presentazione di memorie, istanze di convocazione personale e simili).

Il nesso di struttura processuale che avvince concordato e fallimento si fa ancor più intenso e caratterizzante in concomitanza con l'avvio del subprocedimento di revoca dell'ammissione. Proprio a tal riguardo, Sez. 1, n. 2130, Rv. 629778, est. Di Amato, si è curata di precisare che, nel caso di proposta di concordato preventivo presentata nel corso di un procedimento prefallimentare, con conseguente riunione dei due procedimenti, non è necessario che il decreto di convocazione finalizzato all'instaurazione del subprocedimento di revoca, rechi l'indicazione che il procedimento è volto all'accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 15, quarto comma, legge fall., atteso che, da un lato, il rinvio contenuto nell'art. 173, secondo comma, legge fall. alla menzionata norma deve intendersi nei limiti della compatibilità e, dall'altro, in siffatta ipotesi, il contraddittorio tra creditore istante e debitore si è già instaurato ed il debitore è già a conoscenza che, in caso di convocazione ex art. 173 legge fall., l'accertamento del tribunale e, correlativamente, l'ambito della sua difesa attengono ad una fattispecie più complessa di quella della sola revocabilità dell'ammissione al concordato, rappresentando la revoca uno dei presupposti per la dichiarazione di fallimento.

4. Instaurazione del processo fallimentare.

Sono giunte chiarificazioni ulteriori sulla delimitazione margini dell'iniziativa del P.M. ad intraprendere la via del ricorso per dichiarazione di fallimento e sui presupposti che quell'iniziativa integrano.

Di indirizzo appare Sez. 1, n. 10679, Rv. 631382, est. De Marzo, la quale ha illustrato che la legittimazione attiva dell'organo requirente sussiste anche se la "notitia decoctionis" sia stata appresa nel corso di indagini svolte nei confronti di soggetti diversi dall'imprenditore attinto dall'istanza. La voluntas legis sottesa all'art. 7 legge fall., una volta venuta meno la possibilità di dichiarare il fallimento d'ufficio, è in senso marcatamente ampliativo degli spazi d'iniziativa del P.M., che adesso ricomprendono tutti i casi nei quali l'organo abbia istituzionalmente appreso della decozione, come rilevabile pure dalla Relazione allo schema di d.lgs. di riforma delle procedure concorsuali, che non interpone limitazioni di sorta.

In un contesto spesso governato dall'impellenza e improcrastinabilità decisoria, tornano utili alcune pronunce sugli strumenti di raccordo fra le ragioni dell'urgenza e quelle della difesa. Sez. 1, n. 2561, Rv. 629781, est. Di Amato "importa" significativamente nel procedimento prefallimentare, l'art. 164, terzo comma, cod. proc. civ., di cui, in assenza di previsione contraria o incompatibile, sancisce la piena applicabilità: il tribunale potrà, pertanto - facendo applicazione della norma generale nel contesto caratteristico del rito camerale per la dichiarazione di fallimento - ben procedere alla fissazione di una nuova udienza dopo la comparizione del debitore che lamenti il mancato rispetto del termine di comparizione di cui all'art. 15, terzo comma, legge fall.. Rimane, peraltro, ferma l'ulteriore possibilità, da parte del giudice, di ridurre i termini a comparire in presenza di particolari ragioni di urgenza, così come previsto dal successivo quinto comma del citato articolo: in tal caso la congruità del termine di comparizione va apprezzata in rapporto al caso di specie, mediante un bilanciamento tra le ragioni di urgenza e le concrete possibilità di difesa, che vanno preservate entrambe [Sez. 1, n. 2561, Rv. 629783, est. Di Amato].

Con riferimento alle prefallimentari definite in rito, Sez. 1, n. 13909, Rv. 631408, est. Nazzicone, contiene un'essenziale affermazione circa la riproponibilità della domanda di fallimento, già respinta con provvedimento formalmente divenuto inoppugnabile: essa va valutata in concreto, tenendo conto delle ragioni del rigetto del ricorso o della revoca del fallimento, conseguendone che, ove rigetto o revoca siano stati determinati da ragioni meramente processuali - in ipotesi la rinuncia pure per desistenza del creditore o del P.M. richiedente - non sorge alcuna preclusione alla presentazione di una nuova istanza. Finanche il passaggio in giudicato della sentenza che revoca il fallimento per l'accertamento negativo dei suoi presupposti sostanziali, benchè osti all'emissione di una nuova pronuncia dichiarativa del fallimento dello stesso soggetto sulla base di una rivalutazione dei medesimi elementi di fatto, per converso non segna preclusione alcuna qualora la nullità della dichiarazione di fallimento sia pronunciata per vizi di natura processuale, che ha portata limitata al rapporto processuale nel cui àmbito è emessa.

Su un piano più settoriale, Sez. 1, n. 10105, Rv. 631179, est. Nazzicone racchiude un "principio-guida" sull'"impatto" processualcivilistico del trust, che esclude essere un ente dotato di personalità giuridica, individuandolo, piuttosto, alla stregua di insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato. La titolarità formale di questi ultimi in capo al "trustee", rende costui "interlocutore" processuale esclusivo per i terzi che sui beni e rapporti assumano di vantare pretese. Il trust, di contro, non dando vita ad un nuovo soggetto giuridico, non è litisconsorte necessario nel procedimento per la dichiarazione di fallimento della società che vi ha conferito l'intera sua azienda.

La medesima sentenza include, pure, una delucidazione ermeneutica sul senso attribuibile al testo dell'art. 10 1egge fall., risultante dall'art. 9 del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5: il dies a quo per la dichiarazione di fallimento delle società cancellate è necessariamente coevo all'iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese. Nell'approfondire la questione, la Corte conferma che a tanto conducono, sia la perentorietà letterale dell'espressione adoperata, "cancellazione" giustappunto - che non autorizza, in difetto di altri elementi, ad interpretare la disposizione con riferimento alla diversa data di presentazione della domanda di iscrizione, ossia di mero avvio dell'iter che alla cancellazione è idoneo a condurre - sia la funzione pubblicitaria propria del registro delle imprese, che esige l'iscrizione perlomeno ai fini della conoscibilità dell'evento da parte dei terzi [Sez. 1, n. 10105, Rv. 631178, est. Nazzicone].

Proprio con riferimento all'intervenuta cancellazione del registro delle imprese, Sez. 1, n. 10104, Rv. 631231, est. Bernabai, di nuova enunciazione appare l'affermazione secondo cui il ricorso per dichiarazione di fallimento è validamente notificato al debitore presso la sede dell'impresa individuale pur dopo la sua cancellazione dal registro, quando soccorre la prova della perdurante domiciliazione del suo titolare presso l'azienda. Nessuna rilevanza, in contrario, riveste la pubblicità dell'evento-cancellazione, di natura solo dichiarativa; nessuna connotazione ostativa assume il regime di opponibilità degli atti iscritti presso il registro delle imprese, senz'altro superabile dalla prova di una diversa situazione di fatto, nella specie desumibile da un atto pubblico.

Una fondamentale presa di posizione, in assenza di precedenti specifici susseguenti alla riforma del 2006-2007, è quella di Sez. 1, n. 1079, Rv. 631404, est. Didone, in punto di esclusione, a seguito delle modifiche alla legge fallimentare introdotte con il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, del litisconsorzio necessario dei creditori proponenti il ricorso di fallimento nei confronti di una società di persone o di un imprenditore apparentemente individuale, nel procedimento di fallimento in estensione promosso ad istanza del curatore ai sensi degli artt. 15 e 147 legge fall. Vengono valorizzati, infatti, il venir meno del dato testuale che nel regime pre-riforma giustificava un'opzione di diverso segno, nonché la circostanza per cui l'interesse dei creditori sociali, dopo la dichiarazione di fallimento, è tutelato dall'iniziativa del curatore fallimentare, legittimato al pari di essi, a chiedere l'estensione del fallimento e, quindi, l'ampliamento della massa attiva fallimentare. In questa rinnovata impostazione, il litisconsorzio con i creditori istanti per il fallimento della società va assicurato soltanto nella fase del reclamo proposto nel fallimento per estensione, in ragione dei pregiudizi che la revoca del fallimento potrebbe arrecare alle loro pretese, che, a norma dell'art. 148 legge fall., si intendono dichiarate anche nel fallimento dei singoli soci.

Proprio con riferimento alla promozione del procedimento per l'estensione del fallimento Sez. 1, n. 12947, Rv. 631376, est. Cristiano, ha avuto modo di constatare l'irrilevanza dell'autorizzazione del giudice delegato ex art. 25, comma sesto, legge fall., posto che, a seguito del ridimensionamento del suo ruolo operato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, la decisione di agire o di resistere in giudizio non può più configurarsi come frutto di una scelta sostanzialmente a questi spettante, dovendo, al contrario, ritenersi scelta del curatore, rispetto alla quale l'autorizzazione del giudice testimonia l'esercizio di un mero controllo della legittimità dell'iniziativa, chiaramente non necessaria allorché detta iniziativa sia doverosa e la legittimazione del curatore sia già espressamente prevista dalla legge, come nell'ipotesi disciplinata dall'art. 147, quarto comma, legge fall..

5. Istruttoria prefallimentare.

Giova sottolineare che in tema di prova dei requisiti di non fallibilità, da parte dell'imprenditore, ha trovato ulteriore sedimentazione il principio già espresso per il quale i bilanci degli ultimi tre esercizi non assurgono a prova legale, sicchè, ove vengano motivatamente disattesi dal giudice per inattendibilità, sarà onere del debitore dare aliunde dimostrazione dei requisiti de quibus [Sez. 1, n. 14790, Rv. 631506, rel. Ragonesi].

Merita d'essere segnalata Sez. 1, n. 11494, Rv. 631280, est. De Chiara, con cui è stata oggetto di riaffermazione, nel contesto riformato della legge fallimentare, l'inapplicabilità nel procedimento per la dichiarazione di fallimento delle disposizioni di cui agli artt. 214 e segg. cod. proc. civ., sul riconoscimento e la verificazione della scrittura privata, in considerazione del carattere sommario e camerale che tale procedimento ha conservato e dell'ampiezza poteri istruttori officiosi che spettano al giudice, che consentono al tribunale di accertare la genuinità della scrittura privata anche d'ufficio e con ogni mezzo.

6. Formazione dello stato passivo e correlate opposizioni.

Sul versante delle dichiarazioni tardive di credito ha trovato ulteriore consolidamento, per mano di Sez. 6-1, n. 18550, Rv. 631946, est. De Chiara, il principio dell'esclusione del diritto del creditore tardivamente istante ad ottenere in sede di riparto parziale l'accantonamento di somme funzionali ad una futura, possibile ammissione del credito. Nel ragionamento della Corte, l'art. 101 legge fall., nel prevedere che i creditori possono chiedere l'ammissione al passivo fino a che non siano esaurite tutte le ripartizioni dell'attivo fallimentare, pone solo un limite cronologico all'esercizio di tale diritto potestativo, ma non riconosce al creditore l'ulteriore diritto a non vedersi pregiudicato il futuro soddisfacimento del credito, nelle more dell'ammissione, dall'attuazione della ripartizione; né preclude, in alcun modo, agli organi della procedura il compimento di ulteriori attività processuali.

Sul fronte dell'accertamento dei crediti tributari, è stato poi efficacemente reiterato il principio di legittimazione dell'agente della riscossione a promuovere la relativa istanza di ammissione sulla base del solo ruolo, senza dover attendere in via preventiva alla notifica della cartella di pagamento al curatore fallimentare; l'ammissione avverrà con riserva in caso di contestazioni ai sensi dell'art. 88, primo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 [Sez. 1, n. 6126, Rv. 630545, est. De Chiara].

Nel campo delle opposizioni al passivo, Sez. 1, n. 3164, Rv. 630015, est. Cristiano ha efficacemente stabilito il principio dell'acquisizione d'ufficio, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, della domanda di ammissione disattesa, evidenziando che, il ricorso ex art. 93, comma primo legge fall. non è un documento probatorio del credito e non può, pertanto, ritenersi compreso fra i documenti che, nel caso in cui il giudice delegato abbia respinto in tutto o in parte la domanda, devono essere prodotti a pena di decadenza, ai sensi dell'art. 99, comma secondo, al momento del deposito del ricorso in opposizione.

Proficua anche l'asserzione contenuta in Sez. 6-1, n. 11813, Rv. 631282, est. Cristiano, che esclude la declaratoria di improcedibilità del giudizio di opposizione allo stato passivo sul presupposto della mancata comparizione dell'opponente alla prima o ad altra udienza, rilevando che l'art. 99 legge fall. non lo prevede, esigendo solo la verifica dell'avvenuta notifica del ricorso nei termini assegnati.

Di rilievo anche il "travaso" nel contesto fallimentare del principio in base al quale la data di ricezione, quindi il profilo della tempestività, di un atto processuale - segnatamente della comunicazione inviata al curatore ai sensi dell'art. 97 legge fall. - non possono ricavarsi dal timbro apposto sul plico da parte del destinatario, trattandosi di elemento documentale di organizzazione interna [Sez. 6-1, n. 10136, Rv. 631232, est. Ragonesi].

Di spicco pure la statuizione contenuta in Sez. 6-1, n. 16101, Rv. 631971, est. Bernabai, sul quomodo di assolvimento dell'onere di produrre ex novo nel giudizio d'opposizione, la documentazione già depositata in sede di verifica, siccome imposto dal principio dispositivo che lo regola: l'opponente potrà anche formulare istanza di acquisizione, limitandosi ad indicare in ricorso la documentazione di cui intende avvalersi mediante un riferimento per relationem a quanto già prodotto davanti al giudice delegato, che non lasci dubbi sull'identità degli atti. Una siffatta istanza non costituirà sua negligente inerzia, potendo essere interpretata come autorizzazione al ritiro della documentazione ex art. 90 legge fall., applicabile in virtù della sua portata generale anche in questa fase.

7. Impugnazioni.

Di probabile, estrema influenza, nel contesto concorsuale, per le potenziali ricadute pratiche, si mostra Sez. 3, n. 1115, Rv. 629755, est. Cirillo, che nel confermare la competenza esclusiva del giudice delegato (ai sensi degli artt. 52 e 93 legge fall.), sull'accertamento del credito nei confronti del fallimento, sancisce, tuttavia, che l'improponibilità della domanda in sede extrafallimentare e la rilevabilità d'ufficio del vizio correlato in ogni stato e grado, esige pur sempre un coordinamento con il sistema delle impugnazioni e la disciplina del giudicato. Da ciò consegue che il predetto vizio procedimentale vada dedotto ineludibilmente quale motivo di gravame, perché non resti superato dall'intervento del giudicato. Infatti, il principio di conversione delle nullità in motivi di impugnazione, in uno con il principio della ragionevole durata del processo, escludono che il vizio anzidetto possa proficuamente dedursi, in via ulteriore, nelle successive fasi del giudizio. Su questi concettuali, la Terza Sezione ha rigettato il gravame proposto dalla curatela fallimentare, evidenziando che il fallimento era sopravvenuto nel corso del giudizio di primo grado, interrompendolo e che, a seguito di riassunzione nei confronti della curatela medesima, quest'ultima si era astenuta dal porre la questione legata al vizio procedurale, tanto nel giudizio riassunto, che nel grado di appello, deducendolo, piuttosto, solo in sede di legittimità.

Di valida portata esplicativa talune pronunce in tema di reclamo ex art. 18 legge fall., riformato dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, e sui corollari dell'effetto devolutivo pieno. Viene in risalto Sez. 1, n. 6306, Rv. 630453, est. Di Amato, che ha chiarito come da quell'effetto consegua l'inapplicabilità dei limiti di cui agli artt. 342 e 345 cod. proc. civ., sicché le parti sono abilitate a proporre anche questioni non affrontate nel giudizio innanzi al tribunale.

Occorre segnalare, poi, Sez. 1, n. 6835, Rv. 630546, est. Nazzicone, che, confermando l'inapplicabilità delle anzidette disposizioni del codice di rito civile, ha spiegato che resta priva di conseguenze processuali la circostanza che la società fallita abbia dedotto solo in sede di reclamo l'insussistenza della propria qualità di imprenditore commerciale.

D'interesse, nell'ambito ora in esame, è anche Sez. 6-1, n. 23089, Rv. 632773, che messo ordine nel contesto dei rapporti tra società a responsabilità limitata e soci, statuendo che, laddove la prima abbia domandato il fallimento, il secondo non è legittimato a proporre opposizione ex art. 18 legge fall. (nel testo anteriore alla riforma di cui al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, vigente ratione temporis) avverso la sentenza che lo ha dichiarato, atteso che la delibera assembleare che ha autorizzato l'organo amministrativo alla presentazione della richiesta ha efficacia vincolante, ex art. 2377 cod. civ., per tutti i soci, anche se creditori della società, in difetto di sua sospensione o annullamento.

Sempre in corso d'anno, il tema complesso del perimetro concettuale e strutturale del reclamo è stato approfondito efficacemente da Sez. 1, n. 13505, Rv. 631398, est. Bernabai, che, in particolare, ha evidenziato come la pienezza dell'effetto devolutivo non significhi che una mera richiesta di riesame, senza enunciazione di motivi sia sufficiente a sorreggere l'impugnazione. Il carattere indisponibile della materia controversa e la dimensione degli effetti della sentenza di fallimento (che incide su tutto il patrimonio e sullo status del fallito), che pure implicano l'"attenuazione" del requisito dell'art. 342 cod. proc. civ., tuttavia non valgono a sottrarre lo strumento del reclamo al limite desumibile dal secondo comma dell'art. 18 legge fall., introdotto dal d.lgs. 169/2007, in virtù del quale il reclamante deve esporre fin dall'atto introduttivo gli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione. Dal che discende che "si palesa inammissibile la deduzione di motivi di impugnazione nuovi e diversi rispetto a quelli tempestivamente addotti con l'atto introduttivo". E ciò, nel ragionamento della Corte, equivale a dire che ab initio il reclamante "deve formulare veri e propri motivi di impugnazione: requisito che non avrebbe giustificazione se davvero l'oggetto del reclamo fosse dilatabile, senza preclusione e persino d'ufficio, oltre le singole censure formulate".

Di risalto, nella sostanziale assenza di precedenti specifici, è senz'altro Sez. 1, n. 14232, Rv. 631447, est. Di Virgilio, a tenore della quale in tema di reclamo avverso la sentenza di fallimento, sebbene l'art. 18, quarto comma, legge fall. richiami espressamente il solo art. 327, primo comma, cod. proc. civ., nondimeno va ritenuta l'applicabilità anche del secondo comma della menzionata disposizione, alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata, nel rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, conseguendone che, qualora il reclamo sia stato tardivamente proposto a causa di un vizio della notificazione del ricorso ex art. 15 legge fall., occorre distinguere l'ipotesi di inesistenza di quest'ultima - assistita da una presunzione iuris tantum di mancata conoscenza del procedimento, con onere per la controparte di fornire la prova contraria - da quella della sua nullità, rispetto alla quale spetta al reclamante l'onere di dimostrare di non averne avuto conoscenza.

D'interesse, con riferimento al differente rimedio del reclamo ex art. 26 legge fall. è Sez. 1, n. 17728, Rv. 631937, est. Bernabai, che ha escluso l'efficacia sanante dell'omesso ricorso a detto strumento impugnatorio in ipotesi di radicale nullità del provvedimento di aggiudicazione di un'immobile in sede di liquidazione fallimentare (nella specie l'offerente aveva mancato di presentare, nel termine perentorio previsto, la cauzione prescritta dall'art. 580 cod. proc. civ.).

La cornice applicativa del reclamo ex art. 26 legge fall. comprende, secondo Sez. 1, n. 23086, Rv. 632759, est. Di Virgilio, anche il decreto del giudice delegato, di determinazione del compenso spettante al coadiutore del curatore (che non può né deve avvalersi, pertanto, dell'opposizione ex art. 170 del d.P.R. 20 maggio 2002, n. 115).

Un cenno particolare esige Sez. 6-1, n. 12121, Rv. 631616, est. Cristiano, che esclude l'impugnabilità della sentenza dichiarativa di fallimento col ricorso per revocazione ai sensi dell'art. 395, n. 4, cod. proc. civ., proponibile solo nei confronti delle sentenze pronunciate in unico grado o in grado d'appello.

Degna di speciale attenzione nel contiguo ambito del concordato preventivo è Sez. 1, n. 8966, Rv. 630883, est. Di Amato che sancisce il principio in base al quale, l'azione proposta dal debitore che, opponendosi alla prosecuzione della liquidazione, abbia chiesto la sospensione del concordato preventivo e la restituzione dei beni residui dopo il soddisfacimento dei creditori nella percentuale a suo avviso asseritamente liberatoria dagli obblighi concordatari, è assimilabile, per contenuto e funzione, all'opposizione prevista dall'art. 615 cod. proc. civ. nell'esecuzione individuale. Dal che consegue che il decreto, con il quale il tribunale abbia pronunciato sul reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato di reiezione di tali richieste, ha carattere decisorio rispetto ai diritti del debitore e dei creditori ed è definitivo per mancanza di rimedi diversi e per l'attitudine a pregiudicare, con l'efficacia propria del giudicato, tali diritti, per cui è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost.

8. Sospensione della liquidazione.

Nell'annualità in corso, di spicco è Sez. 6-1, n. 5203, Rv. 629671, est. Cristiano, che ha posto in risalto la declinazione eminentemente "discrezionale" del potere di sospensione facente capo al curatore ai sensi dell'art. 107, quarto comma, legge fall., così come riformato dall'art. 94 del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dall'art. 7 del d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169. Si è messo in luce che la norma di riferimento, nello stabilire che il curatore fallimentare "può" e non "deve" sospendere la vendita ove pervenga offerta irrevocabile d'acquisto migliorativa per un importo non inferiore al dieci per cento del prezzo offerto, gli attribuisce per ciò stesso un potere discrezionale con riguardo alla valutazione dell'effettiva convenienza della sospensione (e del conseguente, necessario, rinnovo della procedura adottata per la liquidazione dei beni), che non si basa su di un mero calcolo matematico, ma ben può sorreggersi sulla considerazione di elementi di natura non strettamente economica (quale, nella specie, l'opportunità di procedere ad una rapida chiusura della procedura fallimentare), con la conseguenza che, ove l'esercizio del potere medesimo non appaia fondato su presupposti palesemente errati o su motivazioni manifestamente illogiche o arbitrarie, si sottrae al sindacato giurisdizionale.

9. Rendiconto e chiusura del fallimento.

Due pronunce hanno affrontato questioni particolari, eppure salienti tenuto conto del possibile riflesso pratico.

Un contributo di chiarezza lo si rinviene senz'altro in Sez. 1, n. 6029, Rv. 629869, est. Di Virgilio, che delinea il quadro degli effetti della chiusura del fallimento sulle azioni di responsabilità esercitate dal curatore, stabilendo il principio in base al quale la chiusura non ne determina l'improseguibilità, spettando dette azioni alla società e ai creditori sociali e sussistendo anche al di fuori della procedura, senza affatto presupporla.

Va, altresì, rammentata Sez. 1, n. 6552, Rv. 630600, est. Di Virgilio, la quale evidenzia che la diversità temporale e funzionale esistente tra il procedimento di approvazione del conto, che ha per oggetto specifico il controllo della gestione del patrimonio effettuata dal curatore, e quello di liquidazione del compenso al curatore, che segue al primo e presuppone che l'operato del curatore sia stato esaminato ed approvato, esclude che nel procedimento di rendiconto possa introdursi la questione relativa all'individuazione del soggetto sul quale devono gravare le spese ed il compenso spettante al curatore, e ciò anche nel caso di revoca del fallimento, laddove tali oneri gravano su chi abbia colpevolmente dato causa alla sua apertura.

10. Liquidazione coatta amministrativa.

Tre gli arresti meritevoli di nota.

Sez. 1, n. 14555, Rv. 631385, est. De Chiara, si è curata di precisare che, nell'alveo della liquidazione coatta amministrativa bancaria, la legittimazione del P.M. a promuovere l'accertamento dello stato di insolvenza, disciplinata dall'art. 82 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, non è assoggettata, proprio in ragione del preminente interesse generale alla tutela del credito e del risparmio, e della conseguente necessità di un rafforzamento dei controlli pubblici, ai limiti dell'art. 7 legge fall..

Sez. 1, n. 1280, Rv. 629839, est. Mercolino, significativamente ha evidenziato che le esigenze di certezza giuridica espresse nel principio generale di conservazione degli effetti giuridici degli atti legalmente compiuti nelle procedure concorsuali, ricavabile dagli artt. 21 legge fall. e 10 e 33 del d.lgs. dell'8 luglio 1999, n. 270 nonché dell'art. 4 del decreto legge del 23 dicembre 2003, n. 347, convertito con la legge 18 febbraio 2004, n. 39, applicabili anche alla liquidazione coatta amministrativa, comportano che, in relazione alla costituzione dei rapporti processuali attinenti ai soggetti sottoposti a tale procedura, l'apertura della stessa - con la nomina dei suoi organi sulla base di un provvedimento formalmente idoneo e la loro immissione nel possesso e nella gestione del patrimonio - costituisce un "fatto giuridico" di per sé idoneo a radicare la legittimazione processuale, attiva e passiva, del commissario liquidatore avuto riguardo ai rapporti giuridici che ne formano oggetto, a prescindere dalla validità intrinseca del predetto provvedimento e finché esso non venga rimosso dalla stessa amministrazione ovvero annullato, dichiarato nullo o giuridicamente inesistente con pronuncia giurisdizionale passata in giudicato, che renda non più proseguibile la procedura, esplicando effetti ex nunc. Proprio l'irretroattività degli effetti implicherà che il venir meno della legittimazione del commissario non comporterà l'inesistenza degli atti legalmente compiuti dal commissario nell'ambito della procedura e nei rapporti con i terzi.

Sez. 1, n. 12551, Rv. 631497, est. Di Amato, puntualizza che nel caso in cui il creditore abbia chiesto l'ammissione al passivo di una liquidazione coatta amministrativa di un credito in via chirografaria, l'eventuale opposizione ha carattere impugnatorio dell'atto amministrativo del commissario liquidatore ed apre la fase giurisdizionale, segnando, in coerenza con il principio dispositivo, i limiti della cognizione del giudice, dal che consegue che il giudice viola il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ove ammetta tale credito al passivo in via privilegiata.

  • giurisdizione tributaria
  • competenza territoriale

CAPITOLO XXXV

IL PROCESSO TRIBUTARIO

(di Giuseppe Nicastro )

Sommario

1 La giurisdizione tributaria. - 2 La competenza per territorio. - 3 La legittimazione processuale. - 4 La capacità processuale. - 5 La rappresentanza in giudizio degli uffici delle agenzie fiscali. - 6 L'assistenza tecnica obbligatoria. - 7 Il litisconsorzio necessario. - 8 Gli atti impugnabili. - 9 Il ricorso. - 9.1 La sottoscrizione. - 9.2 La procura alla lite. - 9.3 L'oggetto. - 9.4 La proposizione. - 9.5 Il termine. - 9.6 La rimessione nel termine. - 9.7 La pendenza della lite tributaria. - 10 La costituzione del ricorrente. - 11 I motivi aggiunti. - 12 Il deposito di documenti. - 13 L'istruzione probatoria. - 13.1 L'onere della prova. - 13.2 Il principio di non contestazione. - 13.3 I poteri istruttori del giudice tributario. - 13.4 Le dichiarazioni rese in sede di verifica. - 13.5 L'efficacia probatoria del processo verbale di constatazione. - 13.6 Il valore probatorio della relazione di stima redatta dall'UTE e, in genere, delle perizie di parte. - 13.7 L'abrogazione dell'ordine di deposito di documenti e l'applicabilità dell'art. 210 cod. proc. civ. - 13.8 La mancanza di effetti preclusivi del provvedimento di archiviazione del giudice penale. - 13.9 Le prove escluse dalle singole leggi d'imposta. - 13.10 Il fatto notorio. - 13.11 Le presunzioni. - 14 La sospensione e l'estinzione del processo. - 15 La decisione. - 16 La conciliazione giudiziale. - 17 Le impugnazioni in generale. - 17.1 I termini. - 17.2 L'acquiscenza. - 17.3 Gli effetti della riforma o della cassazione. - 18 Il giudizio di appello. - 18.1 La legittimazione ad appellare. - 18.2 La proposizione. - 18.3 I motivi. - 18.4 L'appello incidentale. - 18.5 Le questioni e le eccezioni non riproposte. - 18.6 Il divieto di domande ed eccezioni nuove. - 18.7 Le prove nuove. - 18.8 Le conseguenze dell'estinzione del giudizio per inattività delle parti. - 19 Il ricorso per cassazione. - 19.1 La proposizione. - 19.2 I motivi. - 20 Il giudizio di rinvio. - 21 La revocazione. - 22 Il giudizio di ottemperanza. - 23 Il giudicato esterno nel processo tributario.

1. La giurisdizione tributaria.

Anche nel 2014 la Corte ha proseguito la propria opera di delimitazione dell'ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie.

A tale proposito, essa ha affermato che appartengono alla giurisdizione del giudice speciale tributario le controversie aventi ad oggetto la tariffa annua forfettaria prevista dal d.lgs. 19 novembre 2008, n. 194, attuativo del regolamento n. 882/04/CE, per il finanziamento dei controlli sanitari ufficiali eseguiti per la verifica della conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali. Ciò in quanto la detta tariffa, alla luce dei criteri elaborati dalla Corte costituzionale per qualificare alcuni prelievi come tributari (sentenze n. 141 del 2009, n. 335 e n. 64 del 2008, n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005), ha, appunto, natura tributaria, in considerazione: a) della doverosità della prestazione, imposta in forza non solo dell'interesse della collettività al bene salute ma anche del vincolo derivante dall'ordinamento comunitario; b) del collegamento della stessa alla pubblica spesa, in quanto grava sullo Stato l'obbligo di organizzare - per una platea di soggetti individuati in relazione al presupposto economicamente rilevante costituito dall'attività da essi svolta nel settore alimentare − i controlli sanitari ufficiali, predisponendo le strutture, i mezzi ed il personale per effettuarli; c) della mancanza di sinallagmaticità tra il pagamento della tariffa e l'esercizio dei controlli (Sez. U, n. 13431, Rv. 631300, est. D'Ascola).

Appartengono alla giurisdizione delle commissioni tributarie anche le controversie riguardanti il rigetto dell'istanza di annullamento in autotutela dell'avviso di accertamento concernente la rettifica del reddito d'impresa, in quanto tali liti rientrano tra quelle indicate dall'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, già nel testo (applicabile ratione temporis) anteriore alla sostituzione operata dall'art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, il quale, al comma 1, lett. a, faceva riferimento alle controversie relative alle "imposte sui redditi". Nella circostanza la Corte, nell'attribuire rilievo esclusivo, al fine della delimitazione dell'ambito della giurisdizione tributaria, all'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto "norma espressamente dedicata a definire l'oggetto" di tale giurisdizione, ha negato che, allo stesso fine, possa assumere rilevanza l'art. 19 dello stesso decreto, atteso che tale disposizione, elencando gli atti suscettibili di impugnazione davanti al giudice tributario, attiene alla diversa tematica della proponibilità della domanda davanti a tale giudice, in ragione dell'inclusione o no nell'elenco (Sez. U, n. 3774, Rv. 629555, est. Virgilio).

Da segnalare, ancora, la sentenza Sez. 5, n. 3773, Rv. 629606, est. Virgilio, secondo la quale, nel caso in cui il giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo, previsto dall'art. 548 cod. proc. civ., abbia ad oggetto l'esistenza di un credito d'imposta del contribuente esecutato, la controversia riguarda un rapporto di natura tributaria e spetta, perciò, ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, alla giurisdizione del giudice tributario. In tale ipotesi, la Corte ritiene altresì ravvisabili i presupposti per una valida instaurazione del giudizio davanti a detto giudice, atteso che − come più diffusamente si dirà al par. 8 − in virtù di un'interpretazione estensiva dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, la dichiarazione negativa resa dall'Agenzia delle entrate, terzo pignorato, riguardo all'esistenza di un credito d'imposta del contribuente esecutato, deve considerarsi atto espressione del potere impositivo spettante alla stessa Agenzia.

La giurisdizione spetta invece al giudice ordinario nel caso della domanda risarcitoria avente ad oggetto il comportamento asseritamente illecito del concessionario della riscossione che abbia omesso, successivamente all'emissione di un provvedimento di fermo amministrativo, di dare corso, per un lungo periodo di tempo, a qualunque azione esecutiva o alla revoca del fermo medesimo, atteso che tale domanda attiene ad una posizione di diritto soggettivo, del tutto indipendente dal rapporto tributario (Sez. U, n. 15593, Rv. 631591, est. Virgilio).

Va infine menzionata la sentenza Sez. 5, n. 6699, Rv. 629992, est. Meloni, la quale ha ribadito il principio, già affermato dalle Sezioni unite nel 2007 (n. 23031, Rv. 599750), in base al quale la circolare interpretativa dell'Agenzia delle entrate, poiché − anche quando contenga una direttiva agli uffici subordinati − esprime solo un parere dell'amministrazione non vincolante per il contribuente (oltre che per gli uffici, per la stessa autorità emanante e per il giudice), non è impugnabile né davanti al giudice amministrativo, non essendo un atto generale di imposizione, né innanzi al giudice tributario, non essendo un atto di esercizio di potetà impositiva, con la conseguenza che, in ordine ad essa, vi è difetto assoluto di giurisdizione.

2. La competenza per territorio.

Un importante chiarimento - anche in relazione alla frequenza con la quale il relativo dubbio si è posto nella prassi - è stato fornito dalla sentenza Sez. 5, n. 20671, Rv. 632866, est. Olivieri, con riguardo alla competenza per territorio nel caso di impugnazione di una cartella di pagamento con la quale il contribuente faccia valere, anche in via esclusiva, vizi propri del ruolo non precedentemente notificatogli (e, perciò, conosciuto solo tramite la cartella). In tale caso, ai sensi dell'art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, deve considerarsi territorialmente competente la commissione tributaria provinciale nella cui circoscrizione ricade la sede dell'agente della riscossione, pure se non coincidente con quella in cui ha la sede l'ufficio tributario che ha formato il ruolo, atteso che il combinato disposto degli artt. 19, comma 1, lett. d, e 21, comma 1, del d.lg.s n. 546 del 1992, considerando i due atti (ruolo e cartella di pagamento) in modo unitario ed impugnabili congiuntamente, escludono, da una parte, il frazionamento della causa tra giudici diversi e, dall'altra, che sia rimessa al ricorrente la scelta del giudice territorialmente competente da adire.

La natura "inderogabile" della competenza per territorio del giudice tributario, in relazione alla quale possono sempre essere sollecitati i poteri officiosi dello stesso - rispondendo la relativa disciplina processuale ad esigenze di tutela di interessi pubblici di efficienza e di tempestività dell'accertamento sulla pretesa impositiva - implica l'ammissibilità dell'eccezione di incompetenza territoriale formulata dal ricorrente, a nulla rilevando, per quanto detto, che essa provenga dalla stessa parte alla quale è rimessa l'individuazione dell'autorità giurisdizionale adita (Sez. 5, n. 20671, Rv. 632865, est. Olivieri).

A norma dell'art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, la sentenza della commissione tributaria che dichiara la propria incompetenza rende incontestabile l'incompetenza dichiarata e la competenza della commissione tributaria in essa indicata se il processo viene riassunto ai sensi del comma 5 dello stesso art. 3, di tal ché, in caso di impugnazione di silenzio-rifiuto su istanza di rimborso, resta irrilevante ai fini della determinazione della competenza per territorio la questione, attienente al merito, in ordine alla competenza sul rapporto tributario dell'ufficio al quale l'istanza era stata presentata e la sua legittimazione a disporre il rimborso (Sez. 5, n. 4605, Rv. 630065, est. Greco).

3. La legittimazione processuale.

Con riguardo all'impugnazione della cartella esattoriale, la Corte ha ribadito il principio, già espresso con la sentenza n. 22939 del 2007 (Sez. 5, Rv. 601121), secondo cui la tardività della notificazione della cartella non costituisce vizio proprio di questa, tale da legittimare in via esclusiva il concessionario a contraddire nel relativo giudizio, con la conseguenza che la legittimazione passiva spetta all'ente titolare del credito tributario e non già al concessionario, il quale, se fatto destinatario dell'impugnazione, ha l'onere, se non vuole rispondere dell'esito della lite, di chiamare in giudizio il detto ente, non essendo il giudice tenuto a disporre l'integrazione del contraddittorio in quanto nella specie non è configurabile un litisconsorzio necessario (Sez. 5, n. 10477, Rv. 630892, est. Cigna).

La Corte si è poi occupata delle conseguenze, sempre in punto di legittimazione processuale, della soppressione del sistema di affidamento in concessione del servizio nazionale della riscossione e dell'affidamento delle relative funzioni all'Equitalia s.p.a. (già Riscossione s.p.a.), disposti dall'art. 3 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, chiarendo che la detta società e le altre dell'omonimo gruppo, che ne sono le articolazioni territoriali, sono subentrate ex lege nei rapporti controversi già facenti capo alle concessionarie del servizio di riscossione, ciò che integra, sul piano processuale, un fenomeno successorio riconducibile non all'art. 110 cod. proc. civ. ma all'art. 111 dello stesso codice ed il cui titolo è costituito dalla soppressione per legge del sistema di affidamento in concessione del servizio, che il giudice, perciò, deve conoscere d'ufficio in virti del principio iura novit curia, prescindendo da questioni inerenti all'onere della prova. La Corte ha quindi cassato, in applicazione di tale principio, la sentenza impugnata che aveva dichiarato inammissibile un appello proposto da Equitalia Gerit s.p.a. per non avere la stessa provato la propria legittimazione processuale, avendo omesso "di dare atto e dichiarare la propria successione al Centro riscossione tributi s.p.a., costituito in primo grado" (Sez. 5, n. 7318, Rv. 630626, est. Terrusi).

Sempre a proposito del trasferimento delle funzioni del servizio nazionale della riscossione ad Equitalia s.p.a., la sentenza Sez. 5, n. 21773, Rv. 632730, est. Chindemi, ha precisato che esso non ha comportato l'estinzione delle anteriori concessionarie del servizio, le quali, perciò, se sono state parti del processo di primo grado, hanno interesse all'impugnazione e conservano la legittimazione processuale a norma dell'art. 111 cod. proc. civ., con eventuale legittimazione concorrente e non sostitutiva del successore a titolo particolare Equitalia s.p.a.

4. La capacità processuale.

La Corte ha affrontato il tema con riguardo al particolare caso del fallito, in ordine al quale ha ribadito il principio, già affermato con la sentenza n. 5671 del 2006 (Sez. 5, Rv. 587772), secondo cui: "L'accertamento tributario [...], se inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d'imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato non solo al curatore − in ragione della partecipazione di detti crediti al concorso fallimentare o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione dei beni e delle attività acquisiti al fallimento − ma anche al contribuente, il quale, restando esposto ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, conseguenti alla definitività dell'atto impositivo, è eccezionalmente abilitato ad impugnarlo, nell'inerzia degli organi fallimentari, non potendo attribuirsi carattere assoluto alla perdita della capacità processuale conseguente alla dichiarazione di fallimento, che può essere eccepita esclusivamente dal curatore, nell'interesse della massa dei creditori. Ne consegue che, in caso di fallimento di una società in accomandita semplice, il socio accomandatario dichiarato fallito ai sensi dell'art. 147 della legge fall., in qualità di legale rappresentante, è legittimato ad agire in giudizio nell'inerzia del curatore, la cui legittimazione esclusiva a far valere il difetto di capacità processuale dell'attore esclude che lo stesso possa essere rilevato d'ufficio o su eccezione della controparte" (Sez. 5, n. 9434, Rv. 630585, est. Crucitti).

5. La rappresentanza in giudizio degli uffici delle agenzie fiscali.

Gli artt. 10 e 11, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio all'ufficio locale dell'agenzia delle entrate nei cui confronti è proposto il ricorso, il quale è organicamente rappresentato dal direttore o da altra persona preposta al reparto competente, che deve intendersi, per ciò stesso, delegata in via generale. Ne consegue che la sottoscrizione dell'appello dell'ufficio da parte del detto preposto al reparto competente è validamente apposta anche ove non sia esibita in giudizio una specifica delega ad appellare, salvo che sia eccepita e provata la non appartenenenza del sottoscrittore all'ufficio appellante o, comunque, l'usurpazione del potere d'impugnare la sentenza (Sez. 5, n. 6691, Rv. 630527, est. Terrusi).

Anche la sentenza Sez. 5, n. 20911, Rv. 632446, est. Olivieri, sulla premessa che la legittimazione processale degli uffici locali dell'Agenzia delle entrate ha fondamento nel "regolamento di amministrazione" n. 4 del 2000, ha affermato che agli stessi va conseguentemente riconosciuta la posizione processuale di parte e l'accesso alla difesa davanti alle commissioni tributarie, permenendo la vigenza degli artt. 10 e 11 del d.lgs. n. 546 del 1992, precisando altresì che, in tale caso, i detti uffici possono essere rappresentati sia dal proprio direttore che da una persona da lui delegata.

La sentenza Sez. 5, n. 13156, Rv. 631168, est. Cirillo, dopo avere rammentato che, alla stregua di quanto previsto dall'art. 72 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, le agenzie fiscali possono avvalersi, per la loro rappresentanza in giudizio, del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, ai sensi dell'art. 43 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, ha chiarito che, a tale fine, non occorre un mandato alle liti o una procura speciale, restando i rapporti tra il direttore dell'agenzia e l'Avvocatura dello Stato in àmbito meramente interno.

6. L'assistenza tecnica obbligatoria.

Nel caso di controversie di valore superiore a euro 2.582,28 o assoggettate al regime transitorio di cui all'art. 79, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, l'omissione, da parte del giudice adíto, dell'ordine, alla parte privata che ne sia priva, di munirsi di difensore ai sensi dell'art. 12, comma 5, del citato decreto, dà luogo a una nullità, che si riflette sulla sentenza, di natura non assoluta, non attinendo alla costituzione del contraddittorio, ma relativa. Essa, perciò, non essendo rilevabile d'ufficio, può essere eccepita, in sede di gravame, ai sensi dell'art. 157 cod. proc. civ., solo dalla parte di cui sia stato leso il diritto all'adeguata assistenza tecnica, senza che incida sul decorso del termine di impugnazione della sentenza ai sensi degli artt. 327 cod. proc. civ. e 38, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, dovendosi considerare la detta parte, alla stregua dell'art. 22, comma 1, del medesimo decreto, ritualmente costituita in primo grado e, perciò, a conoscenza del processo (Sez. 5, n. 839, Rv. 629395, est. Terrusi).

7. Il litisconsorzio necessario.

Con la sentenza n. 3773, Rv. 629606, est. Virgilio, già menzionata al par. 1, la Corte ha affermato che alla controversia concernente la dichiarazione negativa resa dall'Agenzia delle entrate, terzo pignorato, riguardo all'esistenza di un credito d'imposta del contribuente esecutato devono partecipare, in veste di litisconsorti necessari, tutti i soggetti interessati, cioè il creditore procedente, il debitore esecutato e lo stesso terzo pignorato.

La Corte ha ritenuto che anche la controversia concernente la configurabilità o no di una società di fatto ai fini della pretesa tributaria (che da tale presupposto, appunto, scaturiva) comporta il litisconsorzio necessario di tutti i soggetti coinvolti. Ciò in quanto tale consorzio di lite sussiste, oltre che nelle ipotesi espressamente previste dalla legge, in tutti i casi in cui, per la particolare natura o configurazione del rapporto giuridico dedotto in giudizio e per la situazione strutturalmente comune ad una pluralità di soggetti, la decisione non possa conseguire il proprio scopo se non sia resa nei confronti di tutti i detti soggetti (Sez. 5, n. 14387, Rv. 631535, est. Perrino).

Come si è anticipato al par. 3, la Corte, con la sentenza n. 10477, ha invece escluso che, nel caso di impugnazione della cartella esattoriale per la tardività della notificazione della stessa, il concessionario sia litisconsorte necessario insieme all'ente titolare del credito tributario.

Nel giudizio avente ad oggetto l'avviso di accertamento dell'IRAP, un litisconsorzio necessario ricorre solamente tra i soci, non essendo necessaria la partecipazione della società di persone quando il ricorso riguardi la mera ripartizione del reddito; e ciò anche quando vi sia contestazione da parte del ricorrente della propria qualità di socio (Sez. 5, n. 16466, Rv. 632242, est. Iofrida).

L'atto di recupero di un credito d'imposta nei confronti di una società di persone non comporta il litisconsorzio necessario tra la società ed i soci atteso che, differentemente dall'avviso di accertamento − che incide immediatamente sull'imponibile e solo mediatamente sull'imposta - il detto atto di recupero incide direttamente sull'imposta già specificamente definita nei confronti della società e su di essa sola gravante, non determinando alcun riflesso su quella definita a carico dei soci (Sez. 5, n. 17648, Rv. 632287, est. Virgilio).

Neppure il fatto che la pretesa fiscale trovi il proprio fondamento in operazioni soggettivamente inesistenti determina un litisconsorzio necessario tra i soggetti delle operazioni, atteso che le fattispecie tributarie che originano le distinte pretese sono diverse e non sono riconducibili ad un medesimo fatto generatore d'imposta, mentre gli antefatti storici comuni ad entrambe le cause assumono rilievo esclusivamente sul piano della prova e degli effetti riflessi che il relativo accertamento - contenuto nella sentenza passata in giudicato - può eventualmente spiegare nella causa differente, nonché dell'interesse a giustificare un eventuale intervento adesivo ai sensi dell'art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 (Sez. 5, n. 20928, Rv. 632514, est. Olivieri).

Infine la Corte, premessa l'esistenza della solidarietà passiva di tutte le parti del giudizio con riguardo al pagamento dell'imposta di registro sulla sentenza sottoposta a tassazione, ha affermato, conformemente alla regola generale delle obbligazioni solidali, l'insussistenza del litisconsorzio necessario tra i vari condebitori d'imposta e la regolare costituzione del contraddittorio anche con la partecipazione al giudizio di uno solo dei coobbligati solidali (Sez. 5, n. 24098, Rv. 633091, est. Chindemi).

8. Gli atti impugnabili.

Particolare rilievo, anche per l'ampiezza del relativo contenzioso a tutti i livelli di cognizione, presenta l'ordinanza interlocutoria Sez. 6-5, n. 16055, est. Caracciolo, con la quale è stata sottoposta al Primo Presidente della Corte la valutazione in ordine alla devoluzione alle Sezioni Unite di un ricorso che poneva la questione "della autonoma impugnabilità dell'estratto di ruolo tributario, che sia pervenuto a conoscenza del contribuente tramite qualsivoglia mezzo informale, in difetto o in attesa di notifica della cartella esattoriale". Tale questione era stata risolta dalle sezioni ordinarie in modo difforme. Secondo un primo orientamento, espresso, tra le altre, dalle sentenze del 2013 della Sezione tributaria n. 6610, Rv. 625889, e n. 6906 (non massimata), l'estratto di ruolo, in quanto atto interno all'amministrazione, non può essere oggetto di autonoma impugnazione, ma può essere impugnato solo unitamente all'atto impositivo nel quale viene trasfuso ed a mezzo del quale viene notificato (di regola, la cartella di pagamento), in difetto non sussistendo un interesse concreto ed attuale, ai sensi dell'art. 100 cod. proc. civ., ad instaurare un processo tributario, che non ammette azioni di accertamento negativo del tributo. Secondo l'orientamento antagonista, invece, il ruolo, ancorché atto interno all'amministrazione, costituisce lo strumento fondamentale della riscossione, sicché il momento determinante per l'instaurazione del relativo rapporto giuridico è proprio la formazione dello stesso e non la notificazione della cartella, con la conseguenza che, nel caso in cui un dipendente addetto all'ufficio consegni copia dell'estratto di ruolo al contribuente, questi è legittimato ad impugnarlo, essendo appunto il ruolo "l'atto con cui l'Amministrazione concretizza nei confronti del contribuente una pretesa tributaria definita, compiuta e non condizionata" (Sez. 6-5, n. 2248, Rv. 629731, est. Di Blasi). Nel senso dell'autonoma impugnabilità dell'estratto di ruolo si era espressa anche la sentenza n. 724 del 2010 (Sez. 5, Rv. 611259), sulla premessa che esso costituisce una parziale riproduzione del ruolo, cioè di uno degli atti che l'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 considera impugnabili.

Come anticipato al par. 1, con la sentenza n. 3773, la Corte, sulla base di una "doverosa interpretazione estensiva" delle "categorie" di atti impugnabili previste dall'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, in ossequio alle norme costituzionali in tema di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.), ha affermato che la dichiarazione negativa resa dall'Agenzia delle entrate, terzo pignorato, riguardo all'esistenza di un credito d'imposta del contribuente esecutato deve considerarsi atto espressione del potere impositivo spettante alla stessa Agenzia, idoneo, quindi, a consentire la valida instaurazione del giudizio davanti al giudice tributario.

L'ordinanza Sez. 6-5, n. 701, Rv. 629329, est. Di Blasi, ha affermato l'autonoma impugnabilità del preavviso di fermo amministrativo, precisando che, tuttavia, ove gli atti impositivi presupposti siano divenuti definitivi per essere stati notificati e non impugnati, in tale sede possono essere fatti valere solo vizi dello stesso preavviso e non censure che avrebbero dovuto essere proposte avverso detti atti impositivi presupposti.

È infine interessante il principio, affermato dalla Corte con la sentenza sez. 5, n. 11922, Rv. 630991, est. Crucitti, secondo il quale il silenzio dell'amministrazione finanziaria sull'istanza diretta ad ottenere un ulteriore credito d'imposta cosiddetto per l'incremento dell'occupazione, ai sensi dell'art. 7 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, non rientra tra le ipotesi, tassative, in cui l'art. 19, comma 1, lett. g, del d.lgs. n. 546 del 1992, prevede l'impugnabilità del silenzio rifiuto. La Corte ha precisato che all'affermazione dell'impugnabilità del silenzio sulla detta istanza non può pervenirsi neppure in base ad un'interpretazione estensiva del citato art. 19, in ossequio ai princípi costituzionali della tutela del contribuente e del buon andamento dell'amministrazione, atteso che, per potersi parlare di silenzio rifiuto, è necessario che la legge attribuisca espressamente un tale significato al silenzio o all'inerzia dell'amministrazione, là dove, invece, al fine di godere dell'ulteriore credito d'imposta per l'incremento dell'occupazione, non è prevista la presentazione di alcuna istanza o richiesta da parte del contribuente, ma solo l'utilizzo del medesimo credito in compensazione.

9. Il ricorso.

9.1. La sottoscrizione.

L'omissione della sottoscrizione della copia del ricorso consegnata o spedita per posta all'Amministrazione finanziaria, quando l'originale, depositato nella segreteria della commissione tributaria, risulti sottoscritto, comporta la mera irregolarità del ricorso e non l'inammissibilità dello stesso prevista dagli artt. 18, comma 4, e 22, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, che non si applicano qualora un esemplare dell'atto rechi la firma autografa dell'autore, poiché il resistente è comunque in grado di accertare la sussistenza della sottoscrizione sull'originale prima della propria costituzione, il cui termine scade successivamente a quello per la costituzione del ricorrente (Sez. 6-5, n. 24461, Rv. 633264, est. Cosentino).

9.2. La procura alla lite.

In conformità con la sentenza n. 21459 del 2009 (Sez. 5, Rv. 610040) la Corte ha affermato che il giudice tributario, nel caso di mancanza o invalidità della procura alla lite, non può dichiarare subito l'inammissibilità del ricorso ma, ai sensi degli artt. 12, comma 5, e 18, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, nell'interpretazione datane dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 189 del 2000, deve dapprima invitare la parte a regolarizzare la situazione e, solo in caso di inottemperanza a tale invito, può dichiarare l'inammissibilità del ricorso (Sez. 6-5, n. 15029, Rv. 631544, est. Meloni).

9.3. L'oggetto.

Importante è il principio affermato dalla sentenza Sez. 5, n. 1263, Rv. 629155, est. Iofrida, secondo la quale la cartella di pagamento emessa ai sensi dell'art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è impugnabile non solo per vizi propri ma anche per motivi attinenti al merito della pretesa tributaria, in quanto essa non rappresenta la mera richiesta di pagamento di una somma definita con precedenti atti di accertamento autonomamente impugnabili e non impugnati, ma costituisce il primo ed unico atto con cui la pretesa fiscale è stata esercitata nei confronti del dichiarante ed ha, perciò, natura anche di atto impositivo.

9.4. La proposizione.

La Corte ha ribadito il consolidato principio secondo cui la spedizione del ricorso o dell'atto d'appello (al quale ultimo la fattispecie concreta era relativa) a mezzo del servizio postale in busta chiusa, ancorché priva di qualsiasi indicazione in ordine all'atto in essa racchiuso, anziché in plico senza busta, come previsto dall'art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, costituisce una mera irregolarità se il contenuto della busta e la riferibilità alla parte non sono contestati, essendo, altrimenti, onere del ricorrente o dell'appellante dare la prova dell'infondatezza della contestazione formulata (Sez. 5, n. 15309, Rv. 631565, est. Greco).

9.5. Il termine.

Nel caso in cui l'amministrazione finanziaria, dopo che si è formato il silenzio rifiuto sull'istanza di rimborso del contribuente, interrompa la propria inerzia e notifichi allo stesso un provvedimento di rigetto, anche parziale, dalla data di tale notificazione decorre il termine decadenziale per l'impugnazione dell'atto esplicito di rigetto, ai sensi degli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, dovendosi, perciò, escludere che il contribuente possa proseguire la controversia già introdotta con l'impugnazione del silenzio rifiuto (Sez. 6-5, n. 12791, Rv. 631116, est. Cicala).

Sempre in tema di impugnazione del rifiuto della restituzione di tributi, la sentenza Sez. 6-5, n. 26087, est. Cosentino, in corso di massimazione, ha chiarito che la natura impugnatoria del processo tributario e il termine di decadenza che ne scandisce la promozione comportano che la mancata tempestiva impugnazione di un primo diniego della restituzione determina l'intangibilità del relativo rapporto, con la conseguenza che, nel caso di riproposizione dell'istanza di restituzione, alla quale faccia seguito il rifiuto, espresso o tacito, della stessa, il ricorso avverso quest'ultimo è inammissibile.

Quando l'atto impugnabile (nella specie, un avviso di rettifica e liquidazione di imposte ipotecarie e catastali), originariamente redatto in una lingua diversa da quella che si presume nota al destinatario, a norma dell'art. 7, comma 3, delle norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige di cui al d.P.R. 15 luglio 1988, n. 574, sia stato poi tempestivamente rinnovato dall'amministrazione nella lingua effettivamente utilizzata dal contribuente, in séguito al ricorso dello stesso ai sensi dell'art. 8 del citato decreto, il termine per la proposizione del ricorso decorre dalla notifica dell'atto rinnovato, in quanto solo da tale momento il contribuente è in condizione di opporre le proprie difese (Sez. 5, n. 6704, Rv. 629867, est. Napolitano).

L'esclusione della sospensione feriale dei termini per l'opposizione all'esecuzione, stabilita dall'art. 3 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, non si applica al ricorso avverso la cartella esattoriale, attesa la natura eccezionale della detta norma, non suscettibile di interpretazione analogica, e l'esistenza di una disciplina specifica per l'esecuzione forzata tributaria, la cui tutela giudiziaria è affidata alle commissioni tributarie (Sez. 5, n. 15643, Rv. 632110, est. Federico).

9.6. La rimessione nel termine.

Con l'ordinanza Sez. 6-5, n. 8715, Rv. 630296, est. Caracciolo, è stato chiarito che l'istituto della rimessione nei termini, previsto dall'art. 184-bis cod. proc. civ., applicabile ratione temporis, ancorché successivamente abrogato dall'art. 46 della legge 18 giugno 2009, n. 69, è applicabile anche al rito tributario, alla luce dei princípi costituzionali che presiedono allo stesso non meno che al rito civile e nell'ottica della garanzia del diritto di difesa e dell'attuazione del giusto processo, e opera con riguardo alle decadenze sia attinenti ai poteri processuali "interni" al processo sia correlate alle facoltà esterne e strumentali allo stesso, quale l'impugnazione dei provvedimenti sostanziali che sono oggetto delle previste tutele processuali.

9.7. La pendenza della lite tributaria.

Notevole interesse presenta, infine, la sentenza Sez. 5, n. 26535, in corso di massimazione, est. Terrusi, che ha affrontato la questione delle modalità introduttive del giudizio tributario in funzione dell'apprezzamento della pendenza della lite fiscale (nella specie, in correlazione con la possibilità di fruire del condono), chiarendo che, in base agli artt. 18 e 20 del d.lgs. n. 546 del 1992, la detta pendenza consegue alla mera notificazione del ricorso, mentre la costituzione del ricorrente, ai sesi dell'art. 22 del citato decreto, rappresenta un adempimento ulteriore, logicamente supponente che la lite sia (già) pendente.

10. La costituzione del ricorrente.

Decidendo una questione di diritto già oggetto di difformi orientamenti, la sesta sezione, sottosezione tributaria, ha affermato che il termine (di trenta giorni) per la costituzione in giudizio del ricorrente che abbia notificato il ricorso direttamente a mezzo del servizio postale decorre non dalla data della spedizione dell'atto ma da quella della ricezione dello stesso da parte del destinatario. Ciò sia per la considerazione, di ordine sistematico, dell'assenza di ragioni logiche e giuridiche per differenziare la detta ipotesi da quella della notificazione tramite ufficiale giudiziario (relativamente alla quale è pacifica la decorrenza del termine dalla ricezione del ricorso da parte del destinatario), sia per la considerazione che l'opposta soluzione implica che il ricorrente possa dovere procedere all'iscrizione a ruolo della causa prima di potere verificare il buon esito della notificazione (Sez. 6-5, n. 12027, Rv. 630975, est. Cosentino). In conformità con il precedente costituito dalla sentenza n. 17180 del 2004 (Sez. 5, Rv. 576310), la Corte ha ribadito che l'art. 22, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, richiamato, per il giudizio di appello (al quale la fattispecie concreta era relativa), dall'art. 53, comma 2, dello stesso decreto, va interpretato nel senso che è causa di inammissibilità del ricorso notificato mediante consegna o spedizione a mezzo del servizio postale non la mancanza dell'attestazione, da parte del ricorrente, della conformità dell'atto consegnato o spedito a quello depositato in sede di costituzione in giudizio, ma solo l'effettiva difformità tra il documento notificato e quello depositato, accertata d'ufficio dal giudice nel caso della detta mancanza (Sez. 6-5, n. 11760, Rv. 630982, est. Cosentino).

Può, infine, menzionarsi in questa sede l'ordinanza Sez. 6-5, n. 26560, est. Cosentino, in corso di massimazione, la quale ha affermato che, nel caso di impugnazione del silenzio-rifiuto, non costituisce causa di inammissibilità del ricorso la mancata produzione, in originale o in copia, dell'istanza in relazione alla quale detto silenzio-rifiuto si è formato, atteso che l'art. 22 del d.lgs. n. 546 del 1992, al comma 1, sanziona con l'inammissibilità solo la mancata o intempestiva produzione dell'originale del ricorso notificato o della copia del ricorso spedito per posta o consegnato all'Ufficio, con la fotocopia della ricevuta di deposito o di spedizione per raccomandata, e, al comma 4, là dove prescrive che il ricorrente depositi l'originale o la fotocopia dell'atto impugnato, non commina alcuna inammissibilità e considerato che una tale sanzione non potrebbe ricavarsi per via interpretativa, dovendo le previsioni di inammissibilità, per il loro rigore sanzionatorio, essere interpretate in senso restrittivo.

11. I motivi aggiunti.

Seguendo la propria costante giurisprudenza, la Corte ha ribadito che nel processo tributario, connotato dall'introduzione della domanda nella forma dell'impugnazione dell'atto fiscale, l'indagine sul rapporto sostanziale non può che essere limitata ai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa, che il contribuente deve specificamente dedurre nel ricorso di primo grado, con la conseguenza che l'oggetto del giudizio è definito dai motivi di ricorso e può essere modificato solo con la presentazione di motivi aggiunti, consentita dall'art. 24, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, esclusivamente nel caso di "deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione". Interessante l'applicazione che di tale principio ha fatto la Corte nell'occasione, nella quale ha confermato l'inammissibilità di una memoria integrativa dei motivi di ricorso con la quale erano stati dedotti dei vizi della notificazione dell'atto impositivo impugnato, sul rilievo che gli stessi, proprio in ragione della detta impugnazione, erano già conosciuti dal contribuente al momento della presentazione del ricorso introduttivo, mentre non era stata articolata alcuna prova per dimostrare la mancanza o il diverso momento della conoscenza della notificazione dell'atto impositivo (Sez. 5, n. 15051, Rv. 631568, est. Olivieri).

12. Il deposito di documenti.

Con la sentenza Sez. 5, n. 655, Rv. 629299, est. Chindemi − della quale si dirà più diffusamente in sede di trattazione del giudizio di appello − è stata affermata la natura perentoria, anche in assenza di una espressa previsione legislativa in tale senso, del termine stabilito dall'art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 per il deposito di documenti (fino a venti giorni liberi prima della data di trattazione), in ragione dello scopo e della funzione dello stesso di assicurare il rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio.

13. L'istruzione probatoria.

13.1. L'onere della prova.

Con la sentenza Sez. 5, n. 1568, Rv. 629503, est. Valitutti, è stato chiarito che l'amministrazione finanziaria, qualora faccia valere la simulazione assoluta o relativa di un contratto stipulato dal contribuente, ai fini della regolare applicazione delle imposte, non è dispensata dall'onere della relativa prova, la quale, in ragione della qualità di terzo dell'amministrazione, può essere fornita con ogni mezzo e, quindi, anche mediante presunzioni, restando fermo che, incidendo l'accordo simulatorio sulla volontà stessa dei contraenti, la detta prova non può rimanere circoscritta ad elementi di rilevanza meramente oggettiva, ma deve proiettarsi anche su dati idonei a disvelare convincentemente i profili negoziali di carattere soggettivo, riflettentisi sugli scopi perseguiti in concreto dalle parti.

13.2. Il principio di non contestazione.

Degna di nota è la sentenza Sez. 5, n. 13834, Rv. 631297, est. Crucitti, con la quale la Corte ha fornito l'importante chiarimento che il principio di non contestazione, che si fonda sul carattere dispositivo del processo, nel processo tributario trova applicazione sul piano probatorio ma non su quello delle allegazioni, perché la specificità di tale rito comporta che la mancata presa di posizione dell'ufficio sui motivi di opposizione alla pretesa impositiva dedotti dal contribuente non equivale ad ammissione degli stessi, né determina il restringimento del thema decidendum ai soli motivi contestati.

13.3. I poteri istruttori del giudice tributario.

Alle commissioni tributarie è attribuito, ai sensi dell'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, un potere di indagine, che le stesse possono esercitare, nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, qualora non ritengano sufficienti gli elementi di giudizio risultanti dagli atti o già acquisiti (Sez. 5, n. 4161, Rv. 629990, Cigna).

13.4. Le dichiarazioni rese in sede di verifica.

Le dichiarazioni rese in sede di verifica dal legale rappresentante di una società non sono qualificabili come testimonianza, ma integrano una confessione stragiudiziale, atteso il rapporto di immedesimazione organica tra il rappresentante legale e la società rappresentata, che non è reciso neppure quando l'atto sia compiuto con dolo o con abuso di potere o non rientri nella sua competentenza (Sez. 6-5, n. 22616, Rv. 632911, est. Perrino).

13.5. L'efficacia probatoria del processo verbale di constatazione.

Il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza o dagli organi di controllo dell'amministrazione finanziaria è assistito dalla fede privilegiata di cui all'art. 2700 cod. civ. quanto ai fatti in esso descritti, con la conseguenza che, per contestare gli stessi, è necessaria la proposizione della querela di falso (Sez. 6-5, n. 15191, Rv. 631468, est. Iacobellis).

13.6. Il valore probatorio della relazione di stima redatta dall'UTE e, in genere, delle perizie di parte.

La relazione di stima di un immobile, redatta dall'Ufficio tecnico erariale e prodotta dall'amministrazione finanziaria ai fini dell'INVIM e dell'imposta di registro, essendo tale amministrazione sullo stesso piano del contribuente, costituisce una semplice perizia di parte, la quale, perciò, ha valore di atto pubblico solo quanto alla sua provenienza ma non anche per quel che riguarda il suo contenuto. Nondimeno, nel processo tributario, dove sussiste maggiore spazio per le prove cosiddette atipiche, anche la perizia di parte può costituire fonte del convincimento del giudice, che può elevarla a fondamento della propria decisione, a condizione che spieghi le ragioni per le quali la ritenga corretta e convincente (Sez. 5, n. 14418, Rv. 631541, est. Chindemi).

13.7. L'abrogazione dell'ordine di deposito di documenti e l'applicabilità dell'art. 210 cod. proc. civ.

Di notevole rilievo è il principio affermato con la sentenza Sez. 6, n. 13152, Rv. 631140, est. Bruschetta, con la quale è stato chiarito che, in séguito all'abrogazione del comma 3 dell'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, il giudice tributario (nella specie, quello d'appello) non può più ordinare il deposito di documenti, ma ha il potere di ordinarne ex officio l'esibizione a norma dell'art. 210 cod. proc. civ.

13.8. La mancanza di effetti preclusivi del provvedimento di archiviazione del giudice penale.

Affermando un principio valevole, in generale, per il giudice civile, e, nel caso concreto, per il giudice tributario, la Corte ha chiarito che il decreto di impromuovibilità dell'azione penale, adottato ai sensi degli artt. 408 e seguenti del codice di procedura penale, non impedisce che il medesimo fatto venga diversamente definito, valutato e qualificato dai detti giudici, dato che, diversamente dalla sentenza, che presuppone un processo, il provvedimento di archiviazione ha per presupposto la mancanza di un processo e non dà luogo a preclusioni di alcun genere (Sez. 5, n. 8999, Rv. 630300, est. Valitutti).

13.9. Le prove escluse dalle singole leggi d'imposta.

La Corte ha proseguito la propria pluriennale opera di chiarimento di due disposizioni che prevedono limiti alla facoltà di prova in conseguenza del fatto che, nel corso dell'attività di accertamento, il contribuente ha rifiutato di esibire libri, registri, scritture e documenti.

Una prima pronuncia (Sez. 5, n. 8539, Rv. 630694-630695, est. Iofrida) concerne, in particolare, l'art. 52, quinto e decimo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 - articolo richiamato, quanto alle imposte sui redditi, dall'art. 33, primo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 - sulla cui interpretazione si erano autorevolmente pronunciate le Sezioni Unite con la sentenza del n. 45 del 2000 (Rv. 534393).

Quanto al quinto comma - secondo cui "I libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l'esibizione [nel corso di un accesso] non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell'accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto d'esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione" − la Corte ha affermato che la dichiarazione del contribuente di non possedere libri, registri, scritture e documenti specificamente richiestigli dall'ufficio nel corso di un accesso preclude la valutazione degli stessi in suo favore solo ove sia non veritiera, cosciente, volontaria e dolosa, integrando, in tale modo, un sostanziale rifiuto di esibizione diretto ad impedire l'ispezione documentale. Ciò in quanto il citato art. 52, quinto comma, ha carattere eccezionale e deve essere interpretato alla luce degli artt. 24 e 53 Cost., in modo da evitare, quindi, la compressione del diritto di difesa e da non obbligare il contribuente a pagamenti non dovuti, con la conseguenza che non può ritenersi sufficiente, ai fini della preclusione da esso prevista, il mancato possesso dovuto a negligenza o imperizia nella custodia e conservazione dei documenti contabili (Rv. 630694).

Quanto al decimo comma dello stesso art. 53 del d.P.R. n. 633 del 1972 - secondo cui "Se il contribuente dichiara che le scritture contabili o alcune di esse si trovano presso altri soggetti deve esibire una attestazione dei soggetti stessi recante la specificazione delle scritture in loro possesso. Se l'attestazione non è esibita e se il soggetto che l'ha rilasciata si oppone all'accesso o non esibisce in tutto o in parte le scritture si applicano le disposizioni del quinto comma" − è stato invece chiarito che, nel caso di rifiuto del terzo, indicato dal contribuente come depositario delle scritture contabili, di esibire la documentazione richiesta dall'ufficio, e di omessa produzione della menzionata attestazione, opera la presunzione assoluta di non veridicità della dichiarazione del contribuente concernente la collocazione delle scritture contabili presso il terzo, la quale è equiparabile al sostanziale rifiuto dell'esibizione delle stesse, con il conseguente divieto di valutare a favore del contribuente i documenti non esibiti, sia in sede amministrativa che - ciò che, nella specie, qui rileva − contenziosa (Rv. 630695).

Una seconda pronuncia (Sez. 6-5, n. 11765, Rv. 630992, est. Cicala) ha riguardato l'art. 32, quarto e quinto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 − applicabili, ai fini dell'IVA, a norma dell'art. 51, ultimo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, per l'inosservanza degli inviti di cui al n. 3) e al n. 4) del secondo comma dello stesso articolo − con riguardo ai quali è stato asserito che la sanzione dell'inutilizzabilità in sede contenziosa, a favore del contribuente, dei libri, dei documenti e delle scritture dallo stesso non esibiti o trasmessi in risposta agli inviti dell'ufficio opera solo in presenza di un invito specifico e puntuale all'esibizione da parte dell'amministrazione, oltre che accompagnato dall'avvertimento delle conseguenze della mancata ottemperanza allo stesso, atteso che i citati commi, comportando una deroga ai princípi degli artt. 24 e 53 Cost., devono essere applicati quando il comportamento del contribuente è idoneo a fare fondatamente dubitare della genuinità di documenti che appaiano solo successivamente, nel corso del giudizio, nonché quando lo stesso comportamento appaia inoltre meritevole di sanzione per la violazione dell'obbligo di leale collaborazione con il fisco.

13.10. Il fatto notorio.

Secondo la Corte, non integra un fatto notorio la mera "prassi familiare" di liberalità da parte dei genitori in favore dei figli, costituendo essa un fatto solo probabile. Sulla base di tale principio, la Corte ha cassato la sentenza impugnata che, in tema di accertamento dell'IRPEF, aveva ritenuto la gratuità della cessione di una quota di società da parte del padre in favore della figlia, argomentando soltanto da tale rapporto di parentela tra i due (Sez. 5, n. 14063, Rv. 631525, est. Crucitti).

13.11. Le presunzioni.

Con riguardo alla prova civile conseguente ad un accertamento tributario, ancorché l'art. 2729, primo comma, cod. civ., l'art. 38, quarto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, e l'art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, si esprimano al prurale, gli elementi posti a fondamento di una presunzione non devono necessariamente essere plurimi, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su di un elemento unico, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell'ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da una motivazione adeguata e non logicamente contraddittoria (Sez. 5, n. 656, Rv. 629325, est. Conti).

14. La sospensione e l'estinzione del processo.

In tema di sospensione del processo, vanno segnalate quattro pronunce relative alla sospensione, rispettivamente, nei rapporti del processo tributario con le giurisdizioni non tributarie (la prima), e per la cosiddetta "pregiudizialità interna" (le altre tre).

Sotto il primo profilo, la Corte ha chiarito che l'art. 39 del d.lgs. n. 546 del 1992 attiene, appunto, ai rapporti tra la giurisdizione tributaria ed ogni altra giurisdizione, ordinaria o amministrativa, e prevede una deroga - nelle ipotesi determinate in cui sia stata presentata querela di falso o debba essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio - al criterio secondo cui le questioni pregiudiziali sono risolte, incidenter tamtum, dal giudice munito della giurisdizione sulla domanda. Da ciò consegue che il processo tributario non può essere sospeso per la ritenuta necessità di risoluzione di ulteriori e diverse questioni pregiudiziali devolute, di regola, al giudice ordinario o a quello amministrativo, dovendo, invece, il giudice tributario definire la contraversia sottoposta al suo esame previa risoluzione, incidenter tantum, delle suddette questioni (Sez. 6-5, n. 12008, Rv. 630977, est. Cosentino).

Dal presupposto che l'art. 39 del d.lgs. n. 546 del 1992 regola solo i rapporti tra processi tributari e non tributari consegue altresì che, quando tra due giudizi tributari esiste un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante (relativo, nella specie, all'accertamento di un credito d'imposta evidenziato nella dichiarazione per l'anno 1998) sia stato definito con sentenza, ancorché non ancora passata in giudicato, la sospensione del processo pregiudicato (nella specie concernente la cartella di pagamento per l'annualità successiva) è possibile solo ai sensi dell'art. 337 cod. proc. civ. e non dell'art. 295 dello stesso codice (Sez. 5, n. 16329, Rv. 632247, est. Olivieri).

Sempre a proposito della cosiddetta "pregiudizialità interna", l'ordinanza Sez. 6-5, n. 421, Rv. 629221, est. Cosentino, ha precisato che tra la controversia che oppone il contribuente all'Agenzia del territorio a séguito dell'impugnazione della rendita catastale attribuita ad un immobile e quella promossa dalla stesso contribuente nei confronti di un comune con riguardo all'impugnazione della liquidazione dell'ICI dovuta in base al possesso dell'immobile cui è stata attribuita la rendita contestata sussiste un rapporto di pregiudizialità - in quanto la decisione sulla determinazione della rendita si riflette necessariamente, condizionandola, su quella sulla liquidazione dell'imposta − che impone, a norma dell'art. 295 cod. proc. civ., la sospensione del secondo giudizio sino alla definizione del primo con provvedimento passato in giudicato.

Parimenti, nel caso della separata pendenza di procedimenti relativi all'accertamento del maggior reddito contestato ad una società di capitali e di quello di partecipazione conseguentemente contestato al socio, quest'ultimo giudizio deve essere sospeso ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 295 cod. proc. civ., in attesa del passaggio in giudicato della sentenza nei confronti della società, atteso che l'accertamento nei confronti di quest'ultima costituisce un indispensabile antecedente logico-giuridico di quello nei confronti dei soci in quanto ambedue le rettifiche promanano da un unico atto amministrativo, e non ricorrendo, com'è per le società di persone, un caso di litisconsorzio necessario (Sez. 6-5, n. 23323, Rv. 633099, est. Conti).

In tema di effetti dell'estinzione del processo, in particolare, per cessazione della materia del contendere sopravvenuta nel giudizio di appello o (come nella specie) di cassazione, è stato precisato che, poiché la cessazione della materia del contendere presuppone l'estinzione dell'obbligazione tributaria, essa comporta la rimozione della sentenza impugnata, non potendo trovare applicazione l'art. 310, secondo comma, cod. proc. civ., il quale comporterebbe il passaggio in giudicato di una regolamentazione del rapporto controverso non più attuale né voluta dalle parti (Sez. 5, n. 16324, Rv. 631924, est. Olivieri).

15. La decisione.

Devono, anzitutto, essere menzionate la sentenze Sez. U, n. 19667, Rv. 632586, est. Botta e n. 19668, Rv. 632616, est. Botta, (conforme alla prima), le quali, nell'affermare la nullità dell'iscrizione di ipoteca di cui all'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973 qualora non preceduta dall'attivazione del contraddittorio con il contribuente (al quale l'Amministrazione finanziaria deve quindi comunicare che procederà all'iscrizione, concedendo un termine, determinato in trenta giorni, per presentare osservazioni od effettuare il pagamento), hanno precisato che, data la natura reale dell'ipoteca, l'iscrizione mantiene efficacia sino all'ordine di cancellazione da parte del giudice che è, perciò, necessario al fine di escludere la stessa.

Nel caso in cui la decisione si fondi su di una questione di fatto, ovvero mista di fatto e di diritto, rilevata d'ufficio, l'omessa indicazione della stessa alle parti ad opera del giudice comporta la nullità della sentenza (cosiddetta "della terza via" o "a sorpresa") per violazione del diritto di difesa delle parti, private dell'esercizio del contraddittorio e delle connesse facoltà di modificare domande ed eccezioni, allegare fatti nuovi e formulare richieste istruttorie sulla questione decisiva ai fini della deliberazione, allorché la parte che di ciò si dolga prospetti in concreto le ragioni che avrebbe potuto fare valere qualora il contraddittorio sulla predetta questione fosse stato tempestivamente attivato. La Corte ha ritenuto sussistenti gli indicati presupposti in un caso in cui il giudice (nella specie, di appello) aveva posto a base della decisione la questione, rilevata di ufficio ma non sottoposta al contraddittorio delle parti, dell'applicabilità del regolamento 15 dicembre 2006, n. 1998/2006/CE, relativo agli aiuti cosiddetti de minimis, ancorché detta questione presentasse anche profili di fatto, che erano stati prospettati dalla ricorrente, in relazione all'entità degli aiuti concessi al contribuente (Sez. 5, n. 11453, Rv. 630981, est. Virgilio).

Significativa, in tema di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, Sez. 5, n. 22400, Rv. 632782, est. Vella, che ha chiarito che la decisione del giudice tributario che rettifichi il reddito come determinato nell'impugnato avviso di accertamento, a fronte della richiesta del contribuente di annullamento dell'atto impositivo per motivi non formali ma sostanziali, non è affetta da ultrapetizione se il giudice rimane all'interno del perimetro tracciato dall'atto di accertamento, mentre gli è preclusa la rideterminazione del reddito con metodo diverso da quello usato dall'ufficio.

L'esercizio da parte dell'organo collegiale del potere, attribuito dagli artt. 27 e 55 del d.lgs. n. 546 del 1992 al presidente, di dichiarare l'inammissibilità del ricorso "se manifesta" non è sanzionato con la nullità, sicché la pronuncia del provvedimento da parte del collegio non integra alcun vizio della decisione dato che la nullità per l'inosservanza delle forme degli atti processuali può essere pronunciata solo se comminata dalla legge (Sez. 6-5, n. 14740, Rv. 631560, est. Iacobellis).

16. La conciliazione giudiziale.

Con riguardo a tale istituto deflattivo del contenzioso tributario e, in particolare, a proposito della specifico caso in cui, in sede di conciliazione giudiziale di cui all'art. 48 del d.lgs. n. 546 del 1992, sia stata determinata la rendita catastale, la Corte ha affermato l'insussistenza di una preclusione a rideterminare la stessa qualora sopravvenga un mutamento delle condizioni o dei parametri posti alla base dell'accordo che giustifichi il riesame della situazione, ritenendo, in base a tale principio, l'illegittimità del rigetto, fondato sull'intervenuta conciliazione giudiziale, dell'istanza di rideterminazione della rendita presentata dal contribuente sul fondamento della sopravvenuta variazione del saggio di redditività dell'immobile (Sez. 5, n. 7057, Rv. 630588, est. Meloni).

17. Le impugnazioni in generale.

17.1. I termini.

La sentenza Sez. 5, n. 7059, Rv. 629940, est. Meloni, ha affermato la validità della notificazione della sentenza della commissione tributaria provinciale effettuata in mani proprie della parte, ancorché questa, nel giudizio a quo, fosse costituta a mezzo di un difensore, e, conseguentemente, l'idoneità di tale notifica a fare decorrere il termine breve di impugnazione previsto dall'art. 51, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992. Ciò in quanto il richiamo, operato dall'art. 49 dello stesso decreto, soltanto ad alcune disposizioni del codice di rito civile, consente di applicare la speciale disciplina delle notificazioni nel processo tributario e, in particolare, l'art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, che fa sempre "salva la consegna in mani proprie", alla quale, quindi, è sempre possibile ricorrere. A proposito di tale principio, si segnala, accanto a due precedenti conformi, quello difforme della sentenza n. 25376 del 2008, Rv. 605431.

Secondo l'ordinanza Sez. 6-5, n. 3740, Rv. 629985, est. Cosentino, la notificazione della sentenza del giudice tributario eseguita dalla parte direttamente a mezzo del servizio postale non era idonea, nella vigenza dell'art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel testo anteriore alle modificazioni ad esso apportate dall'art. 3, comma 1, lett. a, del d.l. 25 marzo 2010, n. 40, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2010, n. 73, a fare decorrere il termine breve per l'impugnazione.

17.2. L'acquiscenza.

La sentenza Sez. 5, n. 1553, Rv. 629450, est. Terrusi, ha affermato il principio che, anche nel processo tributario, l'acquiescenza preclusiva dell'impugnazione, di cui all'art. 329 cod. proc. civ., è solo quella successiva alla sentenza e non è, perciò, configurabile nel caso in cui la parte convenuta abbia, nel corso del giudizio di primo grado, dichiarato di "rimettersi al giudizio della commissione" in ordine alla domanda attorea, precisando altresì che la suddetta dichiarazione significava solo che, trattandosi, nella specie, di una questione di puro diritto, la predetta parte si attendeva dal giudice una pronuncia secondo giustizia, senza, tuttavia, alcuna preventiva accettazione della stessa.

17.3. Gli effetti della riforma o della cassazione.

La cassazione della statuizione di annullamento dell'accertamento tributario nei confronti di una società di capitali a base ristretta travolge, a norma dell'art. 336 cod. proc. civ., la consequenziale statuizione di annullamento dell'accertamento nei confronti del socio, atteso che l'accertamento nei confronti della società è un indispensabile presupposto logico-giuridico di quello nei confronti dei soci, in ragione dell'unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche hanno origine (Sez. 6-5, n. 16294, Rv. 632245, est. Cosentino).

18. Il giudizio di appello.

18.1. La legittimazione ad appellare.

La disposizione dell'art. 52, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 - secondo la quale gli uffici periferici del Dipartimento delle entrate e gli uffici del territorio devono essere previamente autorizzati alla proposizione dell'appello principale, rispettivamente, dal responsabile del servizio del contenzioso della competente direzione regionale delle entrate e dal responsabile del servizio del contenzioso della competente direzione compartimentale del territorio - non è più applicabile dopo che è divenuta operativa, in forza del decreto del Ministro delle finanze del 28 dicembre 2000, la disciplina dell'art. 57 del d.lgs. n. 300 del 1999, che ha istituito le agenzie fiscali, attribuendo loro la gestione di tutte le funzioni precedentemente esercitate dai dipartimenti e dagli uffici del Ministero delle finanze e trasferendo alle stesse i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze, spettando quindi ormai a ciascuna agenzia la legittimazione ad appellare le sentenze ad essa sfavorevoli delle commissioni tributarie provinciali (Sez. 5, n. 10736, Rv. 630985, est. Pivetti).

18.2. La proposizione.

La sentenza Sez. 5, n. 22932, Rv. 633121, est. Bruschetta, ha chiarito che, a norma del combinato disposto degli artt. 16, comma 5, 20, comma 2, e 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, la notifica "diretta" a mezzo della posta "si considera fatta nella data di spedizione" anche per l'appellante, fermo restando che l'avviso di ricevimento, ancorché non previsto dall'art. 22, comma 1, del citato decreto − che fa riferimento soltanto al deposito dell'avviso della ricevuta di spedizione − costituisce prova indispensabile per dimostrare il suo perfezionamento, il quale può avvenire anche per compiuta giacenza, ai sensi dell'art. 8, secondo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890.

Con l'ordinanza Sez. 6-5, n. 45, Rv. 629072, est. Caracciolo, è stato affermato il principio secondo cui l'art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, che stabilisce che l'appello deve essere proposto nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, non fa venire meno la distinzione tra cause inscindibili e scindibili, con la conseguenza che, laddove l'appello abbia ad oggetto solo l'esistenza dell'obbligazione tributaria, la mancata proposizione dello stesso nei confronti del cooncessionario del servizio di riscossione, che era stato convenuto in primo grado unitamente all'amministrazione finanziaria, non comporta l'obbligo di disporre la notificazione del ricorso in suo favore, quando sia ormai decorso il termine per l'impugnazione, essendo egli estraneo al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, con conseguente scindibilità della causa nei suoi confronti.

La sentenza Sez. 6, n. 22657, Rv. 632763, est. Iofrida, ha affermato l'ammissibilità, nel contenzioso tributario, dell'impugnazione collettiva e cumulativa (proposta, cioè, da più soggetti ed avverso diverse sentente), ove esistano elementi di consistente connessione che, ancorché solo oggettiva, riflettano lo stretto collegamento tra le pretese impositive, in quanto trova applicazione anche in appello la disciplina del litisconsorzio facoltativo, ai sensi del combinato disposto degli artt. 103 e 359 cod. proc. civ., richiamati dagli artt. 1, comma 2, e 49 del d.lgs. n. 546 del 1992.

L'erronea indicazione, nel ricorso, degli estremi della sentenza impugnata, come richiesto dall'art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, non comporta l'inammissibilità dell'appello quando sia possibile, attraverso l'esame del contenuto del ricorso, individuare con certezza l'oggetto dell'impugnazione (Sez. 6-5, n. 20324, Rv. 632268, est. Cosentino).

La Corte ha precisato, in continuità con il precedente della sentenza n. 28315 del 2005 (Sez. 5, Rv. 586007), che il deposito del ricorso in appello in data anteriore a quella della sua notificazione e/o comunicazione alla controparte, non rende inammissibile il gravame, sempre che tali notificazione e/o comunicazione siano effettuate nel rispetto del termine per la proposizione dell'impugnazione, atteso che l'art. 22 del d.lgs. n. 546 del 1992, ricollegando la sanzione dell'improcedibilità dell'impugnazione solo all'inutile scadenza del termine da esso previsto per il deposito del ricorso, decorrente dalla notificazione e/o comunicazione dello stesso, consente di ravvisare nell'inversione dell'ordine temporale tra le attività dirette all'instaurazione del contraddittorio tra le parti e tra queste ed il giudice, una mera irregolarità, che resta sanata ogni qual volta debba ritenersi raggiunto lo scopo del meccanismo processuale in questione, avendo le parti avuto la possibilità di attuare le proprie difese (Sez. 5, n. 13159, Rv. 631108, est. Cirillo).

È stato utilizzato come parametro dell'inammissibilità del ricorso ai sensi dell'art. 360bis, primo comma, n. 1, cod. proc. civ., il principio, affermato dall'ordinanza n. 12861 (Sez. 6-5, Rv. 631296, est. Caracciolo), secondo cui, qualora il ricorso in appello non sia stato notificato a mezzo dell'ufficiale giudiziario, il deposito in copia dello stesso nella segreteria della commissione che ha emesso la sentenza impugnata, in quanto prescritto dall'art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 a pena di inammissibilità dell'appello, deve essere effettuato entro un termine perentorio, da individuarsi in quello di trenta giorni indicato − attraverso il richiamo interno all'art. 22, comma 1 − dalla prima parte del citato comma 2, per il deposito del ricorso nella segreteria della commissione ad quem, trattandosi di attività finalizzata al perfezionamento della proposizione del gravame.

Sempre con riguardo al deposito della copia del ricorso in appello nella segreteria della commissione tributaria provinciale, l'ordinanza Sez. 6-5, n. 9319, Rv. 630419, est. Caracciolo ha asserito che, poiché la notifica a mezzo del messo, comunale o autorizzato dall'amministrazione finanziaria, di cui all'art. 16, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, equivale integralmente a quella effettuata a mezzo dell'ufficiale giudiziario, l'omesso deposito della copia dell'appello nella segreteria della commissione tributaria provinciale che ha pronunciato la sentenza impugnata non comporta, in tale caso, l'inammissibilità del gravame a norma dell'art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, trovando, del resto, applicazione, anche in tale ipotesi, l'art. 123 disp. att. cod. proc. civ. che impone all'ufficiale giudiziario e, quindi, anche al messo notificatore, di dare immediato avviso scritto dell'avvenuta notificazione dell'atto di impugnazione al cancelliere del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.

Ancora sul medesimo tema, l'ordinanza Sez. 6-5, n. 22639, Rv. 632961, est. Bognanni, sulla premessa che la notificazione dell'appello tramite il difensore equivale integralmente a quella a mezzo dell'ufficiale giudiziario, ha affermato che, nel caso di omesso deposito della copia dell'appello nella segreteria della commissione tributaria provinciale che ha pronunciato la sentenza impugnata, il gravame non è inammissibile ai sensi dell'art. 53, comma 2, seconda parte, del d.lgs.n. 546 del 1992, trovando applicazione, anche in tale caso, l'art. 123 disp. att. cod. proc. civ., che impone all'ufficiale giudiziario e, quindi, anche al difensore, di dare immediato avviso scritto dell'avvenuta notificazione dell'appello al cancelliere del giudice che ha emesso la sentenza impugnata.

Può, infine, menzionarsi in questa sede l'ordinanza Sez. 6-5, n. 26437, in corso di massimazione, est. Perrino, che, con riguardo alla costituzione dell'appellante, ha chiarito che l'improcedibilità dell'appello deriva dall'inosservanza del termine, non anche delle forme, di costituzione, di guisa che, essendo il regime dell'improcedibilità di stretta interpretazione in quanto derogatorio al sistema generale della nullità, il vizio della costituzione tempestiva, ma inosservante delle forme di legge, soggiace al regime della nullità e, in particolare, al principio del raggiungimento dello scopo, con la conseguenza che non può essere dichiarato improcedibile l'appello se l'appellante, nel costituirsi entro il termine di legge, ha depositato una cosiddetta "velina" dell'atto di appello in corso di notificazione (priva, quindi, della relata di notifica), qualora egli abbia depositato, successivamente alla scadenza del termine medesimo, l'originale dell'atto notificato conforme alla "velina".

18.3. I motivi.

La riproposizione in appello delle stesse argomentazioni che suffragavano la domanda disattesa dal giudice di primo grado, in quanto ritenute giuste ed idonee al conseguimento della pretesa fatta valere, assolve all'onere di specificità dei motivi dell'impugnazione, imposto dall'art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza (Sez. 6-5, n. 14908, Rv. 631559, est. Iacobellis).

18.4. L'appello incidentale.

Ad avviso della Corte, l'appello incidentale tardivo può riguardare, anche nel processo tributario, pure questioni diverse da quelle prospettate con l'appello principale, non potendosi attribuire al detto strumento di difesa un contenuto diverso da quello dell'appello incidentale nel rito civile, stante i disposti dell'art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992, che richiama, per le impugnazioni tributarie, le norme processuali civili, e dell'art. 54 del medesimo decreto che, nel disciplinare espressamente l'appello incidentale nel processo tributario, non pone alcuna limitazione in ordine ai contenuti dello stesso (Sez. 6 5, n. 6650, Rv. 629793, est. Iacobellis).

18.5. Le questioni e le eccezioni non riproposte.

Nel processo tributario, l'art. 346 cod. proc. civ., riprodotto, per il giudizio d'appello davanti alla commissione tributaria regionale, dall'art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992, in base al quale le questioni ed eccezioni dell'appellato non accolte dalla sentenza di primo grado e non espressamente riproposte in appello si intendono rinunciate, si applica anche quando il contribuente non si sia costituito in giudizio, restando contumace, e va riferita a qualsiasi questione proposta dal ricorrente, a condizione che sia suscettibile di essere dedotta come autonomo motivo di ricorso o di impugnazione (Sez. 5, n. 20062, Rv. 632654, est. Valitutti).

18.6. Il divieto di domande ed eccezioni nuove.

Il divieto di domande nuove previsto dall'art. 57, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, si applica anche all'ufficio, che non può, quindi, avanzare davanti al giudice di appello pretese diverse, sotto il profilo della giustificazione delle stesse e, quindi, della causa petendi, da quelle che figurano nell'atto impositivo, venendo lesa, in caso contrario, la possibilità per il contribuente di esercitare il proprio diritto di difesa attraverso l'articolazione dei motivi di ricorso, i quali, di necessità, devono essere rapportati a ciò che è esposto nell'atto. In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la sentenza impugnata che, con riguardo ad un atto di rettifica e liquidazione di una maggiore imposta di registro in relazione ad un contratto di cessione di azienda, aveva ritenuto correttamente effettuata la rettifica del valore dell'avviamento dell'azienda sulla base di coefficienti di redditività diversi da quelli esposti nell'atto impositivo e menzionati solo nell'atto di appello (Sez. 5, n. 9810, Rv. 630680, est. Terrusi).

Con la sentenza Sez. 5, n. 11470, Rv. 630980, est. Botta, la Corte ha precisato che non costituisce domanda nuova, ed è pertanto proponibile in sede di appello, la richiesta di mera variazione, da parte dell'ufficio, della quantità della pretesa tributaria, in dipendenza di una normativa sopravvenuta o di un evento parimenti sopravvenuto e necessariamente collegato a quello iniziale. Nella fattispecie, relativa ad un giudizio di impugnazione di un atto di irrogazione di sanzioni amministrative, la Corte ha escluso che dovesse qualificarsi come novum in appello la richiesta dell'ufficio di riduzione della misura della sanzione tributaria in conseguenza della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 144 del 2005.

È, invece, inammissibile, la formulazione in sede di gravame dell'eccezione di nullità dell'avviso di accertamento per omessa allegazione dei documenti in esso richiamati per relationem qualora con il ricorso introduttivo sia stata eccepita la nullità per carenza di motivazione per l'inadeguata rappresentazione dei fatti e delle ragioni fondanti la pretesa, non essendo consentito, nel giudizio tributario di secondo grado, il mutamento delle deduzioni o l'inserimento di temi d'indagine nuovi rispetto a quelli compresi nei motivi di impugnazione dedotti con il ricorso introduttivo (Sez. 5, n. 20928, Rv. 632515, est. Olivieri).

Parimenti inammissibile è stata ritenuta la deduzione, nella memoria ai sensi dell'art. 32 del d.lgs. n. 546 del 1992, di un nuovo motivo di illegittimità dell'avviso di accertamento concernente l'erroneo utilizzo del metodo analitico in luogo di quello induttivo, atteso che il contenzioso tributario ha un oggetto delimitato dai motivi di impugnazione dedotti con il ricorso introduttivo, i quali costituiscono la causa petendi nell'àmbito della quale è richiesto l'annullamento dell'atto e la cui formulazione soggiace alla preclusione dell'art. 24, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 546 del 1992 (Sez. 5, n. 22662, Rv. 632764, est. Federico).

Con la sentenza Sez. 5, n. 15026, Rv. 631523, est. Virgilio, si è precisato che, nel caso di impugnazione del rigetto dell'istanza di rimborso di un tributo, il contribuente riveste la qualità di attore anche in senso sostanziale, con la conseguenza che, mentre grava su di esso l'onere di allegare e provare i fatti ai quali la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato nella domanda, le argomentazioni con le quali l'ufficio nega la sussistenza di tali fatti o la qualificazione ad essi attribuita dal contribuente costituiscono mere difese, come tali non soggette ad alcuna preclusione processuale, salvo la formazione del giudicato interno. In applicazione di tale principio, la stessa Corte ha ritenuto che la deduzione della necessità della notificazione della cessione del credito d'imposta anche al concessionario della riscossione integra una mera difesa, in quanto consiste nella contestazione della sussistenza, in tutti i suoi elementi, del fatto costitutivo del diritto al rimborso del credito ceduto, e può, perciò, essere avanzata dall'ufficio anche per la prima volta in appello.

Sulla base delle medesime premesse sistematiche, la Corte ha altresì affermato che l'esclusione del diritto al rimborso, derivante dall'adesione del contribuente al condono, costituisce anch'essa una mera difesa, e può essere dedotta anche in appello dall'ufficio, trattandosi di questione che, pur non esclusivamente processuale, partecipa di tale natura ed è, quindi, rilevabile d'ufficio (Sez. 5, n. 21197, Rv. 632495, est. Iofrida).

Costituisce deduzione di un fatto estintivo dell'obbligazione tributaria e proposizione di un'eccezione nuova non rilevabile d'ufficio, perciò inammissibile in quanto ricadente nel divieto dell'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, quella del contribuente che, avendo impugnato l'avviso di accertamento per motivi di merito, ne lamenti in secondo grado l'illegittimità per l'intervenuta presentazione dell'istanza di definizione automatica di cui all'art. 7 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Sez. 5, n. 17646, Rv. 632474, est. Marulli).

18.7. Le prove nuove.

Con la sentenza n. 655, già citata al par. 12., è stato chiarito che l'art. 58 del d.lgs. n. 546 del 1992 fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti in cui ciò è consentito dall'art. 345 cod. proc. civ., ma che, atteso il richiamo operato dall'art. 61 dello stesso d.lgs. n. 546 del 1992 alle norme dettate per il procedimento di primo grado, tale attività processuale va esercitata entro il termine - da ritenere, per la ragioni indicate al par. 12, perentorio − e con l'osservanza delle formalità, previsti, rispettivamente, dall'art. 32, comma 1, e dall'art. 24, comma 1, del citato decreto.

La Corte ha invece ritenuto inapplicabile l'art. 58, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 - che, come si è detto, fa "salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti" nel corso del giudizio tributario di appello − con riguardo ai documenti per la cui produzione si è già determinata la decadenza del contribuente, per non essere gli stessi stati forniti all'ufficio nella fase precontenziosa, a norma dell'art. 32, quarto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 (Sez. 5, n. 10489, Rv. 630815, est. Cigna).

18.8. Le conseguenze dell'estinzione del giudizio per inattività delle parti.

Pronunciandosi sulla questione, nuova per la Corte, delle conseguenze dell'estinzione per inattività delle parti del giudizio di appello instaurato avverso una sentenza di primo grado che, con decisione favorevole al contribuente, abbia annullato l'impugnato avviso di accertamento, la Sezione tributaria ha chiarito che la detta estinzione determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale come definita dalla sentenza di merito di primo grado oggetto di appello, la quale passa in giudicato, essendo applicabile − in virtù del rinvio previsto dall'art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 − l'art. 338 cod. proc. civ., la cui operatività non trova ostacolo in nessuna disposizione speciale dettata per l'estinzione del processo tributario in fase d'impugnazione, senza che rimanga, perciò, in vita il provvedimento impositivo impugnato, ormai travolto e sostituito dal titolo giudiziale che ne ha annullato gli effetti (Sez. 5, n. 13808, Rv. 631295, est. Iofrida).

19. Il ricorso per cassazione.

19.1. La proposizione.

In tema di procedimento davanti alla Suprema Corte, è stata ribadita la costante giurisprudenza della stessa in base alla quale la notificazione del ricorso alla controparte, che ne segna l'inizio, deve essere effettuata, anche nel processo tributario, esclusivamente nella forme del codice di procedura civile, a pena di inammissibilità rilevabile d'ufficio, non estendendosi al ricorso per cassazione la possibilità, concessa al ricorrente ed all'appellante dagli artt. 20, 22 e 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, della proposizione anche mediante la consegna diretta o la spedizione a mezzo del servizio postale (Sez. 5, n. 3139, Rv. 629462, est. Crucitti).

Con l'ordinanza interlocutoria Sez. 5, n. 15946, est. Valitutti, sono stati rimessi gli atti al Primo Presidente della Corte per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite del ricorso che poneva la questione − già risolta in senso difforme dalla giurisprudenza di legittimità − se alla proposizione del ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali debbano ritenersi applicabili esclusivamente le disposizioni dettate dal codice di procedura civile, atteso il richiamo di queste da parte dell'art. 62, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, e l'inesistenza, in tale decreto, di qualsivoglia disposizione peculiare in ordine alle modalità di proposizione del detto ricorso (a differenza di quanto stabilito dagli artt. 20, 22 e 53 del medesimo decreto, i quali prevedono forme semplificate di proposizione del ricorso in primo grado ed in appello dinanzi alle commissioni tributarie), sicché la notificazione del ricorso per cassazione dovrà essere effettuata, ai sensi dell'art. 330, primo comma, cod. proc. civ., presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio di appello ovvero nel domicilio eletto o nella residenza dichiarata nell'atto di notificazione della sentenza di secondo grado, oppure debba invece ritenersi che nel contenzioso tributario l'elezione di domicilio, una volta effettuata dal contribuente nel giudizio di primo grado, conserva efficacia anche nei successivi gradi di giudizio (in ragione dell'espresso disposto dell'art. 17, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992), con la conseguente necessità che la notificazione del ricorso per cassazione sia effettuata presso il domicilio eletto in sede di ricorso originario proposto innanzi al giudice di primo grado anche nell'ipotesi di nomina di un nuovo difensore in appello che non sia accompagnata dalla espressa elezione di domicilio presso il medesimo. L'ordinanza evidenzia come le sentenze della Sezione tributaria della Corte n. 17955 del 2004 (Rv. 576811), n. 3419 del 2005 (Rv. 579901) e n. 19577 del 2006, (Rv. 593916) si siano espresse a favore della prima tesi, sottolineando che la stessa parrebbe ricevere un'indiretta conferma anche dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 8053 − della quale si dirà al seguente paragrafo 19.2. − mentre a favore della seconda opzione interpretativa si sono schierate le sentenze, anch'esse della Sezione tributaria, n. 10055 del 2000 (Rv. 539004), n. 2882 del 2009 (Rv. 606464), e n. 20200 del 2010 (Rv. 615004). La rimessione degli atti alle Sezioni Unite è peraltro prospettata dalla medesima ordinanza interlocutoria anche con riguardo all'ulteriore questione - destinata a porsi nel caso di adesione, da parte delle stesse Sezioni Unite, all'interpretazione favorevole all'applicazione nel processo tributario della generale disposizione dell'art. 330 cod. proc. civ. in luogo di quella speciale dell'art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992 - delle conseguenze da riconnettere alla violazione della citata disposizone del codice di rito civile.

Con la sentenza Sez. 5, n. 25980, in corso di massimazione, est. Cirillo, la Corte ha affermato l'idoneità della notifica della sentenza alle Agenzie fiscali non costituite attraverso l'Avvocatura erariale a fare decorrere il termine breve per il ricorso per cassazione, essendo le dette Agenzie dotate di personalità giuridica e capacità processuale, rilevante anche in sede di legittimità, di guisa che l'abrogazione (ancorché implicita) della disposizione speciale dell'art. 21, comma 1, della legge 13 maggio 1999, n. 133, comporta, con effetto immediato, l'applicazione della regola generale, di cui agli artt. 62, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, e 285 e 170, primo e terzo comma, cod. proc. civ., della notifica personale all'Agenzia non costituita per il tramite dell'Avvocatura erariale, non essendo più richiesta quella all'Avvocatura distrettuale.

19.2. I motivi.

Con riguardo ai motivi del ricorso, Sez. U, n. 8053, Rv. 629829, est. Botta, hanno deciso la questione di massima di particolare importanza concernente l'applicabilità ai ricorsi per la cassazione delle sentenze delle commissioni tributarie regionali delle disposizioni sul ricorso per cassazione dettate dall'art. 54 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, e relative, in particolare, alla nuova formulazione del n. 5) del primo comma dell'art. 360 cod. proc. civ. e ai limiti dell'impugnazione della cosiddetta "doppia conforme" previsti dall'ultimo comma dell'aggiunto art. 348ter cod. proc. civ. La Corte ha affermato tale applicabilità sulla base della considerazione che, alla luce dell'art. 62 del d.lgs. n. 546 del 1992, il giudizio di legittimità in materia tributaria non presenta connotazioni di specialità e ritenendo, conseguentemente, che il comma 3-bis dell'art. 54 del decreto-legge n. 83 del 2012, nello stabilire che "le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546", si riferisce esclusivamente alle disposizioni in materia di appello, e si limita, così, a preservare la specialità del giudizio tributario di merito.

20. Il giudizio di rinvio.

Quanto alla riassunzione del processo in sede di rinvio davanti al giudice tributario, si è affermato che non trova applicazione l'art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui dispone che, qualora il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, l'appellante deve, a pena di inammissibilità, depositare copia dell'appello nella segreteria della commissine tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata, atteso che tale adempimento sarebbe privo di un'apprezzabile funzione processuale in quanto la possibilità che la detta segreteria attesti erroneamente il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado è esclusa dall'intervenuta comunicazione della proposizione dell'appello (Sez. 6-5, n. 22135, Rv. 632783, est. Cosentino).

Con riguardo, invece, allo svolgimento del giudizio, la Corte ha precisato che il divieto per le parti, previsto dall'art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, di "formulare richieste diverse da quelle prese" nel procedimento nel quale è stata pronunciata la sentenza cassata, si riferisce alle domande proponibili e non anche alle "tesi difensive", a meno che la portata di queste ultime sia tale da alterare completamente, anche in fatto, il tema di decisione (Sez. 5, n. 15330, Rv. 631566, est. Vella).

Da segnalare, ancora, l'ordinanza n. 20535 (Sez. 6-5, Rv. 632660, est. Caracciolo) che ha precisato che nel giudizio tributario di appello, riassunto a seguito di rinvio della Cassazione, non è ammissibile la produzione di nuovi documenti, ad eccezione di quelli che non si siano potuti depositare precedentemente per causa di forza maggiore, stante la natura di "giudizio chiuso" del grado di rinvio.

In dichiarato contrasto con l'ordinanza Sez. 6-5, n. 4938 del 2012, Rv. 622232, la sentenza Sez. 5, n. 26200, in corso di massimazione, est. Ferro, ha affermato che non rientra tra le mere difese, deducibili per la prima volta anche in sede di giudizio di rinvio quando non siano tali da alterare completamente il tema di decisione, la questione dell'avvenuta fruizione del condono di cui all'art. 7 della legge n. 289 del 2002, preclusiva di ogni possibilità di rimborso per le annualità di imposta definite in via agevolata, atteso che il rilievo della stessa, di parte o anche ex officio, che sia rimasto assente dal giudizio fino alla fase di legittimità di esito cassatorio, non può essere degradato a mera difesa (ovvero a difesa interna al perimetro del processo già fissato), identificandosi con l'evidenziazione di un fatto ex lege ostativo all'accoglimento dell'avversa pretesa e non essendo sufficienti la portata pubblicistica della citata disposizione a superare la natura chiusa del giudizio di rinvio né la specialità del processo tributario a consentire alle parti maggiori facoltà di ampliamento dell'oggetto processuale.

21. La revocazione.

A proposito della revocazione delle sentenze delle commissioni tributarie, la Corte ha precisato che l'omessa produzione in giudizio del ricorso introduttivo recante la sottoscrizione del ricorrente non può rientrare nell'ipotesi di revocazione dell'art. 395, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., in quanto tale ipotesi postula che l'uno o più documenti decisivi ritrovati dopo la sentenza non siano stati prodotti in giudizio per causa di forza maggiore, cioè in dipendenza di un evento straordinario, in nessun modo riconducibile ad un comportamento negligente della parte; negligenza sussistente, invece, nella fattispecie, atteso l'onere incombente sul ricorrente di controllare l'effettivo deposito del ricorso sottoscritto (Sez. 5, n. 12162, Rv. 631101, est. Cigna).

22. Il giudizio di ottemperanza.

Con l'unica pronuncia da segnalare (Sez. 5, n. 8830, Rv. 630774, est. Cigna), la Corte si è espressa sia sul tema dei poteri del giudice nel particolare giudizio di ottemperanza alle decisioni delle commissioni tributarie, sia riguardo ai vizi deducibili con il ricorso per cassazione avverso la sentenza sull'ottemperanza.

Sotto il primo aspetto, essa ha ribadito il principio, già affermato con la sentenza n. 13681 del 2005 (Sez. 5, Rv. 58228), secondo cui, nel giudizio di ottemperanza alle decisioni delle commissioni tributarie, il potere del giudice sul comando definitivo inevaso va esercitato entro i confini invalicabili posti dall'oggetto della controversia definita con il giudicato, con la conseguenza che può essere enucleato e precisato il contenuto degli obblighi nascenti dalla decisione passata in giudicato, chiarendone il reale significato e rendendolo quindi effettivo, ma non può essere attribuito un diritto nuovo ed ulteriore rispetto a quello riconosciuto con la sentenza da eseguire nè può essere negato (come era avvenuto nella specie) il diritto riconosciuto dal dictum azionato.

Sotto il secondo aspetto, ribadendo, anche in tale caso, un principio già precedentemente espresso (da ultimo, con la sentenza della stessa Sez. 5, n. 3057 del 2008, Rv. 60190), la Corte ha affermato che l'art. 70, comma 10, del d.lgs. n. 546 del 1992 - secondo cui il ricorso per cassazione avverso la sentenza pronunciata dalla commissione tributaria in esito al giudizio di ottemperanza "è ammesso soltanto [...] per inosservanza delle norme sul procedimento" − va interpretato nel senso che, con tale ricorso, è possibile denunciare non solo la violazione delle norme che disciplinano il predetto giudizio, ma anche ogni altro error in procedendo in cui sia incorso il giudice dell'ottemperanza e, in particolare, il mancato o difettoso esercizio del potere-dovere di interpretare ed eventualmente integrare il dictum costituito dal giudicato cui l'amministrazione non si sia adeguata.

23. Il giudicato esterno nel processo tributario.

Nel corso dell'anno 2014, la Corte ha emesso numerose pronunce sul tema dell'efficacia espansiva del giudicato esterno nel processo tributario, valutata in relazione alle varie fattispecie sottoposte al suo esame.

Con la sentenza Sez. 5, n. 12456, Rv. 631098, est. Cigna, nel ribadire il consolidato principio secondo cui, nel processo tributario, l'efficacia espansiva del giudicato esterno non ricorre quando i separati giudizi riguardino tributi diversi, la Corte ha però ritenuto che lo stesso principio trovi una deroga nel caso in cui le imposte siano tra loro collegate, come avviene, in particolare, per le imposte di registro e sul reddito dovute in dipendenza della qualificazione come agricolo o fabbricabile di un terreno, attesa la comunanza della disciplina di tale qualificazione introdotta dall'art. 36, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, ai fini di entrambe le dette imposte (nonché ai fini dell'IVA e dell'ICI).

Con la sentenza Sez. 5, n. 12763, Rv. 631207, est. Terrusi, la Corte, premesso che, in generale, la preclusione del giudicato opera nel caso di giudizi identici − nei quali, cioè, l'identità delle due controversie riguardi i soggetti, la causa petendi e il petitum, come risultanti sulla base dell'effettiva portata della domanda giudiziale e della decisione - ma, comunque, nei soli limiti dell'accertamento della questione di fatto e non anche in relazione alle conseguenze giuridiche, con riguardo alla fattispecie oggetto di causa, ha escluso che avesse effetti preclusivi il giudicato concernente la debenza del canone di fognatura e depurazione relativo agli anni 1997, 1998 e 2000, in quanto relativo a tributi afferenti ad annualità distinte rispetto a quella oggetto di causa ed incentrato sulla difforme soluzione di una questione giuridica, non condizionata dall'accertamento degli elementi di fatto essenziali.

Sempre con riferimento ad ipotesi di giudicato relativo ad altre annualità del medesimo tributo, la sentenza Sez. 5, n. 1837, Rv. 629287, est. Conti ha statuito che la sentenza che accerti definitivamente il contenuto e l'entità degli obblighi del contribuente per un determinato periodo d'imposta fa stato, quanto ai tributi dello stesso tipo dal medesimo dovuti per gli anni successivi, solo quanto agli elementi che abbiano un valore "condizionante" inderogabile rispetto alla disciplina della fattispecie esaminata, con la conseguenza che, ove la detta sentenza risolva una situazione fattuale relativa ad uno specifico periodo d'imposta, essa non può automaticamente estendere i suoi effetti ad altra annualità, ancorché siano coinvolti tratti storici comuni. Sulla base di tale principio, la Corte ha escluso l'efficacia esterna di un giudicato di annullamento di un avviso di rettifica, in quanto privo di adeguata motivazione e fondato su elementi inidonei a dimostrare l'inattendibilità della dichiarazione dei redditi, in un'altra controversia relativa ad un avviso derivante dal medesimo processo verbale di constatazione ma avente ad oggetto una diversa annualità dello stesso tributo.

Ancora in tema di estensione del giudicato a controversie relative ad annualità diverse, la sentenza Sez. 5, n. 19590, Rv. 632457, est. Federico, ha precisato che il giudicato formatosi sull'accertamento per un'annualità d'imposta, in ragione dell'illegittimità dell'acquisisizione della documentazione contabile sulla quale lo stesso si fonda, si estende alle controversie tra le stesse parti riferite ad annualità diverse nel caso in cui gli accertamenti per tali annualità si basino sulla medesima attività investigativa illegittima, che ne costituisce il comune presupposto.

Sempre sul medesimo tema, da segnalare ancora Sez. 5, n. 23532, Rv. 633083, est. Olivieri, secondo cui il giudicato formatosi con riguardo all'illegitimità dell'attività investigativa della Guardia di finanza è efficace nei giudizi concernenti periodi d'imposta diversi, i cui avvisi di accertamento siano scaturiti dalle medesime indagini, atteso che la detta illegittimità ne rende del tutto inutilizzabili i risultati. Tale estensione deve invece escludersi relativamente alla valutazione di mera erroneità ed infondatezza del verbale di constatazione, salvo sia riferita ad una situazione fattuale che sia tendenzialmente permanente e correlata ad un interesse protetto con carattere di durevolezza e che, quindi, entri a fare parte della fattispecie impositiva per un pluralità di periodi d'imposta, come accade per i tributi periodici o le esenzioni o agevolazioni pluriennali.

In tema di accertamento del maggior reddito nei confronti di una società di persone e dei soci della stessa, è stata del pari negata l'estensione del giudicato favorevole formatosi sull'impugnazione proposta dalla società ai soci il cui rapporto tributario sia stato definito con altro giudicato, diretto, di contrario contenuto, sulla base del rilevo che la decisione favorevole è pronunciata in una causa tra parti diverse e non è dunque idonea a travolgere il giudicato formatosi nei confronti dei soci (Sez. 5, n. 11149, Rv. 630983, Iofrida).

Con riguardo al caso della solidarietà tributaria, si è chiarito che la facoltà del coobbligato destinatario di un atto impositivo (nella specie, il sostituito d'imposta) di opporre il giudicato favorevole formatosi nel giudizio promosso da un altro coobligato (nella specie, il sostituto d'imposta), in base alla regola generale dell'art. 1306 cod. civ., non è preclusa per il solo fatto di non essere rimasto inerte e di avere autonomamente impugnato l'avviso di accertamento, essendo di ostacolo all'esercizio della stessa solo la definitiva conclusione del giudizio da lui instaurato con sentenza sfavorevole passata in giudicato (Sez. 5, n. 19580, Rv. 632444, est. Cigna).

Va infine menzionata l'ordinanza Sez. 6-5, n. 12793, Rv. 631113, est. Cicala, con la quale si è affermato che, in caso di litisconsorzio, il giudicato formatosi a carico di uno dei litisconsorti impedisce la concreta attuazione del litisconsorzio processuale ma, ove sfavorevole, non pregiudica la posizione degli altri litisconsorti.

  • magistrato
  • notaio
  • procedura disciplinare
  • avvocato

CAPITOLO XXXVI

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

(di Paolo Bernazzani, Ileana Fedele )

Sommario

1 Premessa. - 2 Magistrati. - 2.1 Questioni di legittimità costituzionale. - 2.2 Le singole fattispecie di illecito disciplinare: a) il ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni - art. 2, comma 1, lett. q) del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109. - 2.3 (Segue) b) le fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. a) e g), del d.lgs. n. 109 del 2006. - 2.4 (Segue) c) la fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. l) del d.lgs. n. 109 del 2006. Rapporto con l'ipotesi di cui all'art. 2, comma 1, lett. d) del d.lgs. n. 109 del 2006. - 2.5 (Segue) d) la fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. e) del d.lgs. n. 109 del 2006. - 2.6 (Segue) d) la fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. aa) del d.lgs. n. 109 del 2006. La tipicità dell'illecito disciplinare ed il rapporto con la violazione dei doveri del magistrato. - 2.7 (Segue) f) la fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. ff) del d.lgs. n. 109 del 2006. - 2.8 L'esimente di cui all'art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006. - 2.9 Le sanzioni. In particolare, la rimozione. - 2.10 Questioni processuali. In particolare, il termine annuale per l'esercizio dell'azione disciplinare, ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. n. 109, del 2006. La sospensione del procedimento disciplinare per pregiudizialità penale. - 2.11 (Segue) In particolare, l'applicazione della misura della sospensione cautelare facoltativa. - 2.12 (Segue) altre questioni processuali. - 3 Avvocati: questioni di legittimità costituzionale. - 3.1 Profili di diritto sostanziale. - 3.2 Questioni processuali. - 4 Notai.

1. Premessa.

Come nelle rassegne degli anni precedenti, si procederà - per ognuna delle tipologie di soggetti sopra indicati - dapprima all'esame delle questioni di diritto sostanziale, concernenti i rispettivi regimi di responsabilità disciplinare, per poi illustrare le questioni di natura processuale che hanno riguardato i procedimenti relativi a ciascuna categoria.

2. Magistrati.

Anche nell'anno 2014 sono state emesse diverse decisioni in tema di responsabilità disciplinare a carico di magistrati, sia in merito a profili sostanziali, concernenti l'ambito di applicazione delle singole fattispecie di illecito normativamente delineate, sia in ordine ad aspetti procedurali di significativo impatto sulla delimitazione, in concreto, del potere-dovere di esercizio dell'azione disciplinare. Fra tutte, si ritiene di segnalare, in apertura, l'ordinanza con la quale le Sezioni unite della Suprema Corte hanno sollevato una delicata questione di costituzionalità sulla previsione della sanzione accessoria del trasferimento di ufficio come necessariamente conseguente alla condanna per taluni illeciti ovvero ad una determinata sanzione.

2.1. Questioni di legittimità costituzionale.

In relazione all'applicazione di sanzioni accessorie conseguenti alla condanna in sede disciplinare, la Suprema Corte - Sez. U, n. 11228, Rv. 630887, est. Bucciante - ha ritenuto non manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 Cost., per violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 nella parte in cui prescrive come obbligatoria ed automatica l'irrogazione dell'ulteriore sanzione del trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando ricorra una delle violazioni previste dall'art. 2, comma 1, lett. a, del d.lgs. n. 109 cit.

In motivazione, apprezzata la rilevanza della questione di costituzionalità - eccepita dalla difesa dell'incolpato in via subordinata - per l'infondatezza delle argomentazioni svolte in via principale sul rapporto di specialità reciproca fra le previsioni del d.lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. a) e g) (interpretazione disattesa in conformità all'orientamento giurisprudenziale, già consolidatosi nello scorso anno, circa la contestuale applicabilità di entrambe le fattispecie) ed esclusa altresì l'esimente della scarsa rilevanza, di cui all'art. 3 bis del d.lgs. n. 109, cit., la Corte è giunta a disattendere la tesi secondo cui la lett. a) atterrebbe soltanto a comportamenti del magistrato intenzionalmente diretti ad arrecare ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti, considerato che il tenore della disposizione è tale da configurare l'illecito disciplinare in questione come conseguente anche a violazioni colpose dei "doveri di cui all'art. 1" (quali, ad esempio, quelle riferite al dovere di "diligenza" nell'esercizio delle funzioni attribuite al magistrato).

In coerenza con tale premessa è stata ritenuta la non manifesta infondatezza della questione di legittimità dell'art. 13, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 109 del 2006, nella parte in cui impone indefettibilmente l'irrogazione della misura del trasferimento di sede o di ufficio a tutti i "comportamenti che, violando i doveri di cui all'art. 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti", in quanto comporta l'equiparazione, sotto il profilo sanzionatorio, di un ampio ventaglio di illeciti disciplinari (quali la condotta contraria al dovere del magistrato di esercitare le funzioni attribuitegli "con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio", oltre che nel rispetto della "dignità della persona"), che, pur essendo accomunati dall'elemento dell'ingiusto danno o dell'indebito vantaggio per una delle parti, possono risultare di ben diversa gravità, non solo quanto alla graduazione dell'elemento soggettivo (essendovi inclusi, per l'appunto, comportamenti sia intenzionali sia soltanto colposi) ma anche quanto al rilievo dell'inosservanza addebitata in concreto.

Proprio l'automatismo previsto dalla norma rappresenta - nel ragionamento sviluppato dalla Corte - il punto critico dell'equilibrio della complessiva disposizione di cui al citato art. 13, dal momento che, di regola (comma 1, primo periodo), per tutti gli illeciti puniti con una sanzione diversa da quella minima, l'irrogazione dell'ulteriore sanzione del trasferimento è facoltativa e condizionata all'accertamento dell'incompatibilità della permanenza del magistrato nella sede o nell'ufficio con il buon andamento dell'amministrazione della giustizia, mentre nel caso delle violazioni previste dall'art. 2, comma 1, lett. a, il trasferimento deve essere sempre e comunque disposto; ciò che, in violazione del principio della "indispensabile gradualità sanzionatoria", precluderebbe al giudice disciplinare di tenere conto di volta in volta delle differenze del caso concreto e di verificare se l'irrogazione della sanzione accessoria sia effettivamente necessaria per il conseguimento dello scopo che le è proprio: evitare il contrasto con il buon andamento dell'amministrazione della giustizia, derivante dalla permanenza del magistrato nella sede o nell'ufficio.

È stata invece ritenuta manifestamente infondata - Sez. U, n. 22610, Rv. 633019, est. Di Palma - la questione di legittimità costituzionale prospetta in relazione all'unicità del grado di merito delineata con il d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, sul rilievo che il principio del doppio grado di giurisdizione di merito non è costituzionalmente sancito (come pure riconosciuto dal giudice di legittimità delle leggi: v. Corte costituzionale, n. 351 del 2007), sicché, dalla circostanza che il processo disciplinare nei confronti dei magistrati si svolga in un unico grado di merito, con facoltà per l'incolpato di impugnare la sentenza che lo definisce davanti alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, non può ricavarsi alcun giudizio di incongruenza od aporia del sistema.

2.2. Le singole fattispecie di illecito disciplinare: a) il ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni - art. 2, comma 1, lett. q) del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109.

Si conferma l'interpretazione, che può dirsi ormai consolidata, già resa negli scorsi anni sull'individuazione degli elementi costitutivi della specifica fattispecie in esame. Infatti, è stato ribadito - Sez. U, n. 7307, Rv. 629893, est. Bucciante - il principio già enunciato da Sez. U, n. 7193 del 2011, Rv. 616947, e da Sez. U, n. 8409 del 2012, Rv. 622695, cui si era uniformata anche Sez. U, n. 1771 del 2013, Rv. 624899, secondo cui il requisito della non giustificabilità del ritardo non è richiesto per l'integrazione dell'illecito ma costituisce un elemento esterno che può essere ricondotto sul piano delle condizioni di inesigibilità della condotta doverosa. È rimasta dunque isolata l'opposta interpretazione - Sez. U, n. 26138 del 2011, Rv. 619546 - che reputava l'assenza di giustificazioni un elemento costitutivo dell'illecito, tanto da postulare per ciascun anno contestato un confronto tra i provvedimenti depositati in ritardo e quelli depositati regolarmente nei termini sì da potersi desumere, in relazione alla tipologia degli stessi, la percentuale dei provvedimenti depositati in ritardo grave rispetto al totale.

Corollario - di rilievo tutt'altro che secondario - del principio così affermatosi è quello che concerne gli oneri di allegazione e prova: l'incolpato è chiamato a dedurre e dimostrare la sussistenza di cause di esclusione dell'antigiuridicità del fatto, mentre il titolare dell'azione disciplinare dovrà solo delineare l'obiettiva sussistenza di ritardi gravi (individuati a contrario rispetto a quanto normativamente presunto come non grave) e reiterati, quali elementi costitutivi dell'illecito. E la prova della giustificabilità del ritardo si conferma come particolarmente onerosa nell'ipotesi di superamento del termine annuale (desunto dalle indicazioni della Corte europea dei diritti dell'uomo in tema di durata del giudizio), essendosi pure ribadito - in linea con Sez. U, n. 8360 del 2013, Rv. 625777 - che ritardi di tale entità non possono di regola essere considerati giustificabili, salvo che risultino dovuti a impedimenti oggettivi di carattere eccezionale e straordinario assolutamente insuperabili, tanto da dare luogo a una situazione di vera e propria inesigibilità.

Sul piano dell'applicazione della fattispecie in esame alle diverse funzioni svolte, merita di essere segnalata la pronuncia - Sez. U, n. 22611, Rv. 632417, est. Di Palma - con la quale è stata valutata la posizione del magistrato di sorveglianza. In proposito la Corte ha ritenuto che, per formulare il giudizio di gravità di cui all'art. 2, comma 1, lett. q, del d.lgs. n. 109 del 2006, in difetto di previsioni specifiche, non può che farsi ricorso al termine generale di "cinque giorni dalla deliberazione", fissato dall'art. 128 cod. proc. pen. È stato dunque chiarito che, quanto ai termini per il compimento degli atti del magistrato di sorveglianza, è preliminare l'individuazione del parametro di riferimento normativo (per l'appunto la "legge") cui occorre rapportare il ritardo, altrimenti la stessa fattispecie disciplinare risulterebbe inapplicabile. Tale parametro è stato individuato proprio nella regola generale fissata dall'art. 128, primo periodo, cod. proc. pen., da coordinarsi con l'obbligo di osservanza delle norme processuali, che è imposto ai magistrati "anche ai fini della responsabilità disciplinare" dall'art. 124, secondo comma, cod. proc. pen.; con la conseguenza che il ritardo disciplinarmente rilevante del magistrato di sorveglianza per il compimento dell'atto è quello che eccede il "triplo dei termini previsti dalla legge", vale a dire quindici giorni. La Corte tuttavia non ha mancato di evidenziare che, in relazione alle caratteristiche proprie dell'attività del magistrato di sorveglianza, è indispensabile distinguere fra i diversi procedimenti disciplinati dalla legge sull'ordinamento penitenziario o dal codice di procedura penale - in esito ai quali il predetto magistrato è chiamato a provvedere con ordinanze, decreti e pareri - anche al fine di individuare il momento in cui, esauritosi l'iter normativamente previsto, il procedimento stesso può essere concluso con la "deliberazione", tanto da iniziare a decorrere il termine di cui all'art. 128, primo comma, cod. proc. pen., essenziale per l'integrazione della fattispecie in tema di ritardo. E proprio in virtù di tale puntualizzazione, è stata annullata la sentenza impugnata, con conseguente rinvio per nuovo esame, finalizzato, fra l'altro, alla previa individuazione dello schema tipico di ogni specifico procedimento di competenza del magistrato incolpato, onde poter apprezzare e qualificare la condotta in contestazione in termini di "ritardo".

Infine, è opportuno dare conto della pronuncia - Sez. U, n. 20450, Rv. 632390 e Rv. 632389, est. Cappabianca - con cui, nell'affrontare un'eccezione di giudicato, si è proceduto ad un'approfondita analisi delle caratteristiche della fattispecie di cui all'art. 2, comma 1, lett. q, del d.lgs. n. 109 cit., approdando a soluzioni ermeneutiche in parte innovative rispetto a precedenti orientamenti.

Infatti, l'ambito di operatività del giudicato è stato tracciato sulla base di un'attenta interpretazione della natura dell'illecito in questione, esaminata sotto due dimensioni: la prima, definita "orizzontale", come illecito abituale o a "reiterazione necessaria", che, in quanto tale, postula la concomitanza di plurime condotte; la seconda, definita "verticale", come illecito "permanente a natura omissiva", che, in quanto tale, non si esaurisce istantaneamente ma prosegue nel tempo fino a che perdura la situazione antigiuridica.

Dalla concettualizzazione della duplice dimensione dell'illecito derivano le affermazioni centrali della pronuncia:

- dalla natura di illecito abituale (o quanto meno a reiterazione necessaria) discende che il giudicato copre ogni episodio ricadente nell'arco temporale considerato dall'incolpazione, restando preclusa un'ulteriore azione disciplinare per ritardi che, pur non menzionati nel precedente giudizio, ricadano nel medesimo arco temporale in esso considerato, eccettuate le porzioni ad esso successive - Sez. U, n. 20450, Rv. 632390, est. Cappabianca -;

- dalla natura di illecito permanente a natura omissiva discende che il giudicato copre ogni porzione ulteriore del medesimo ritardo già contestato sino alla pronuncia della sentenza, con conseguente preclusione sino a tale data di un'ulteriore iniziativa disciplinare - Sez. U, n. 20450, Rv. 632389, est. Cappabianca -.

Se il primo principio si pone in linea con l'interpretazione sinora seguita - Sez. U, n. 2927 del 2012, Rv. 626713 - sia pure con la puntualizzazione che la preclusione non opera per le porzioni dei ritardi successive all'arco temporale considerato nella pregressa incolpazione, il secondo principio, fondato sull'elaborazione penalistica della potenziale vis espansiva dell'imputazione per i reati permanenti a condotta omissiva, è fortemente innovativo (ed in sostanziale contrasto) rispetto all'indirizzo precedente - Sez. U, n. 5283 del 2009, Rv. 607045 e Sez. U, n. 14695 del 2010, Rv. 613942 - secondo cui dalla data considerata nell'atto di incolpazione decorre una nuova condotta omissiva, che costituisce fatto diverso da quello a tale data esaurito, come tale non precluso dal giudicato.

È evidente, a questo punto, il rilievo dell'arresto in esame per la portata che l'interpretazione ivi seguita potrà avere sulla delimitazione della fattispecie in tema di ritardi, quanto alla corretta individuazione dell'identità del fatto ai fini del rispetto del ne bis in idem pur in assenza di una materiale identità del fatto contestato. Occorrerà dunque seguire lo sviluppo della giurisprudenza sul punto per verificare se la soluzione interpretativa da ultimo adottata troverà conferma in successive pronunce ovvero se tornerà ad essere riaffermato l'indirizzo precedente.

2.3. (Segue) b) le fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. a) e g), del d.lgs. n. 109 del 2006.

In proposito si segnala un'unica pronuncia destinata ad avere un certo risalto perché affronta la delicata materia dell'individuazione dei criteri per la fissazione della cd. agenda del processo.

Infatti, Sez. U, n. 1516, Rv. 629519, est. Amatucci, ha escluso la configurabilità dell'illecito disciplinare di cui agli artt. 1, comma 1, e 2, comma 1, lettere a) e g), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 nell'ipotesi in cui il giudice abbia fissato l'agenda del processo non esclusivamente secondo l'ordine cronologico di iscrizione a ruolo delle cause, ma in base alle loro caratteristiche, alle loro difficoltà ed all'urgenza di trattazione, sempreché la dilazione non sia palesemente incongrua in relazione ai carichi di lavoro ed alla difficoltà dei processi.

Per meglio apprezzare la portata del principio, è bene sottolineare che, nel caso esaminato dalla Corte, la decisione di numerose cause era stata dilazionata mediante rinvii a distanza anche di quattro/sette anni; nondimeno, in motivazione è stato chiarito che, ove il rinvio non sia un mero espediente per alleggerire l'impegno più vicino nel tempo, ma sia funzionale all'organizzazione dell'agenda secondo il numero prefissato di cause pari al limite delle sentenze che si ritiene di poter redigere nell'anno - in modo da poter inserire le cause con connotazione di urgenza - deve escludersi la violazione del dovere di laboriosità o che il mancato rispetto dei termini di cui agli artt. 81, 82 e 115 disp. att. cod. proc. civ. sia dovuto a negligenza inescusabile e ciò pur in assenza di prova di quale sia il numero delle decisioni ragionevolmente programmabili.

Intuibile la portata del principio affermato - rispetto al quale non constano precedenti in termini - soprattutto se correlato alla giurisprudenza disciplinare che afferma la responsabilità per ritardi anche quale effetto dell'incapacità del giudice di organizzare in modo idoneo il proprio lavoro - Sez. U, n. 1768 del 2013, Rv. 624839 - in un quadro di non chiara connotazione dei criteri per qualificare il carico di lavoro del magistrato nei suoi profili quantitativi e qualitativi, quanto meno ai fini disciplinari.

2.4. (Segue) c) la fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. l) del d.lgs. n. 109 del 2006. Rapporto con l'ipotesi di cui all'art. 2, comma 1, lett. d) del d.lgs. n. 109 del 2006.

In proposito meritano di essere menzionate due pronunce che hanno affrontato il tema della motivazione riprodotta tramite pedissequo recepimento di un atto di parte.

La prima - Sez. U, n. 10627, Rv. 630858, est. Amatucci - ha chiarito, in modo piuttosto plastico, che il recepimento letterale in un provvedimento giudiziario delle considerazioni contenute negli atti di una o entrambe le parti del processo è legittimo se si inscrive in un quadro di semplificazione ed abbreviazione dei tempi di redazione della motivazione, purché la riproduzione sia resa palese e la decisione risulti comunque supportata da un autonomo vaglio critico del giudicante, "non potendosi risolvere nel mero assorbimento dell'atto di parte mediante ricopiatura, scannerizzazione e/o uso dello strumento informatico del "copia - incolla"". È opportuno, peraltro, dare conto del caso di specie nel cui ambito il principio è stato affermato, di particolare delicatezza per le intuibili implicazioni anche quanto all'immagine di imparzialità di giudicante, venendo in rilievo la condotta di un giudice per le indagini preliminari che aveva adottato un'ordinanza applicativa di misura cautelare attraverso l'integrale riproduzione della richiesta del P.M., senza alcuna virgolettatura ed in assenza di vaglio critico.

Sulla stessa linea la seconda pronuncia in rassegna - Sez. U, n. 10628, Rv. 630862, est. Amatucci - secondo cui la condotta del giudice civile che abbia redatto la motivazione di una sentenza riproducendo interamente il contenuto della comparsa conclusionale della parte vittoriosa integra l'illecito disciplinare di cui all'art. 2, comma 1, lett. l, d.lgs. n. 109 cit., allorché le modalità siano tali da indurre a ritenere che il giudice non abbia compiuto alcuna effettiva valutazione del caso sottoposto al suo esame. Il ragionamento seguito dalla Corte si incentra sulla distinzione fra il profilo processuale - per il quale è sufficiente che la decisione risulti giustificata in modo che ne risulti comprensibile la ratio - e quello disciplinare - per il quale è necessario che la motivazione non sia redatta con modalità tali da ledere l'immagine del magistrato -; con conseguente affermazione di responsabilità le volte in cui la motivazione, sufficiente sul piano endoprocessuale, finalizzata cioè al controllo interno della regolarità della decisione ed all'espletamento dei possibili rimedi previsti dal codice di rito, "non permetta di fare affidamento sul fatto che la decisione costituisce il risultato di una fase di autonoma elaborazione da parte del giudice nella sua imprescindibile posizione di terzietà", in tal modo mancando di assolvere alla sua diversa funzione extraprocessuale, in quanto "solo la conoscibilità delle ragioni della decisione invera la stessa legittimazione del potere giurisdizionale e manifesta il rispetto da parte del giudice del suo dovere, imposto dall'art. 101 Cost., di esclusiva soggezione alla legge". La Corte ha chiarito che l'illecito può sussistere anche se il giudice abbia palesato che la motivazione non è il frutto di una elaborazione propria, in quanto, nel caso di specie, tale accorgimento non è stato ritenuto sufficiente a dar conto dell'effettiva considerazione delle ragioni opposte dalla controparte.

Pertanto, è stato escluso il ricorso ad ogni automatismo circa l'integrazione dell'illecito sul piano astratto per effetto del mero pedissequo, letterale e non evidenziato recepimento di quanto scritto da una parte, così come il fatto non può dirsi disciplinarmente irrilevante sol perché la riproduzione è chiaramente evidenziata: non può dunque prescindersi dalla specifica considerazione delle caratteristiche di ogni singolo caso per valutare se il giudice non abbia compiuto alcuna effettiva valutazione del caso sottoposto al suo esame ed abbia così violato l'elementare dovere di garantire che la decisione sia stata assunta in piena autonomia di giudizio e previa espressa considerazione delle contrapposte tesi difensive.

La seconda pronuncia ha dunque individuato il fondamento dell'illecito in questione nella funzione extra-processuale della motivazione, sul piano dell'immagine di imparzialità che il magistrato deve sempre garantire, incentrando il disvalore della condotta nel dubbio circa l'effettività del vaglio critico sulle posizioni coinvolte nel giudizio, quale indotto dalle modalità stesse del letterale recepimento delle argomentazioni offerte da una sola delle parti. In piena coerenza con tale assunto la medesima decisione - Sez. U, n. 10628, Rv. 630862, est. Amatucci - ha escluso che l'emissione di provvedimenti con motivazione ricopiata valga a configurare l'illecito di cui all'art. 2, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006: infatti, proprio la riconosciuta valenza extra processuale della motivazione rivolta alla generalità dei consociati in funzione dell'immagine di terzietà del giudice, implica l'insita indeterminatezza dei destinatari del comportamento stesso, a fronte della fattispecie di cui alla lett. d, cit., che, per l'appunto, ha riguardo a comportamenti scorretti nei confronti di soggetti determinati (quali le parti e i loro difensori).

2.5. (Segue) d) la fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. e) del d.lgs. n. 109 del 2006.

Sez. U, n. 25136, Rv. 633207, est. Di Iasi, ha chiarito che costituisce ingiustificata interferenza nell'attività giudiziaria, rilevante sotto il profilo disciplinare, ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. e), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, solo la condotta che sia idonea, almeno astrattamente, a mettere in pericolo la libertà di determinazione e la serenità di giudizio del magistrato destinatario. È opportuno apprezzare la valenza del principio enunciato in relazione al caso esaminato in concreto, consistente nel comportamento - sanzionato dalla sezione disciplinare del CSM - di un Procuratore della Repubblica che, privato della titolarità di un'indagine per strage, aveva inviato al Giudice per le indagini preliminari presso la Procura distrettuale antiterrorismo materiale di dottrina e giurisprudenza volto a sostenere la tesi dell'insussistenza dell'aggravante di terrorismo; le Sezioni Unite, nel cassare senza rinvio la sentenza di condanna disciplinare, hanno ritenuto che l'invio ad un collega di materiale di studio, ancorché afferente ad una prossima decisione da assumere, non può ritenersi di per sé solo - in difetto di elementi ulteriori, quali, ad esempio, la sovraordinazione, anche solo funzionale, del collega interferente ovvero le modalità utilizzate - astrattamente idoneo a minare la serenità di giudizio del destinatario, atteso che lo studio di dottrina e giurisprudenza in vista dell'emissione di specifici provvedimenti costituisce la quotidiana attività di un magistrato, che deve necessariamente mantenere un approccio "critico" rispetto all'oggetto di studio.

2.6. (Segue) d) la fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. aa) del d.lgs. n. 109 del 2006. La tipicità dell'illecito disciplinare ed il rapporto con la violazione dei doveri del magistrato.

Sul punto va menzionata la pronuncia - Sez. U, n. 6827, Rv. 629805, est. Di Amato - che ha affrontato il delicato tema del rapporto del magistrato con i media, in riferimento ad un caso peculiare nel quale è stata ravvisata la configurabilità delle esimenti dello stato di necessità e dell'adempimento di un dovere allorché la condotta consista nella difesa dall'attribuzione di un provvedimento non solo di contenuto diverso da quello adottato, ma anche inconciliabile con i doveri e con l'immagine che ogni appartenente all'ordine giudiziario deve dare di sé, per la credibilità propria e della magistratura nel suo complesso. In particolare, è stata esclusa la violazione del valore costituzionale dell'imparzialità nel caso in cui, secondo un giudizio ex ante ed in concreto, con riferimento sia ai beni giuridici in conflitto e sia ai mezzi usati ed a quelli a disposizione, il ricorso ad interviste e comunicati stampa rappresenti l'unica possibilità di tutela effettiva, avuto anche riguardo al rilievo mediatico della notizia lesiva dell'onorabilità professionale del magistrato. La Corte infatti ha ritenuto che, una volta effettuato il bilanciamento fra gli interessi coinvolti - dovere di imparzialità del magistrato da un lato, diritto/dovere di difendere il proprio onore professionale attraverso il ristabilimento della verità dall'altro - occorre passare alla seconda fase della verifica, cioè quella dell'accertamento della congruità dei mezzi utilizzati rispetto alle possibili alternative non lesive del bene giuridico coinvolto. La concreta percorribilità delle alternative deve essere valutata tenendo presenti: a) l'eventuale rilievo mediatico di notizie che, secondo l'assunto del magistrato, sono contrarie al vero; b) la capacità lesiva delle notizie sia rispetto all'onore professionale del magistrato sia rispetto all'autonomia e indipendenza della magistratura; c) l'esigenza che la risposta sia tanto più sollecita quanto maggiore sia il clamore mediatico della notizia lesiva. Su queste basi, è stato chiarito che la tutela dell'onorabilità del magistrato, soprattutto nell'attuale società mediatica nella quale l'opinione pubblica tende ad assumere come veri i fatti rappresentati dai media, se non immediatamente contestati, non può essere affidata ad astratte alternative, ma deve essere valutata in base agli effettivi risultati in tal modo conseguibili.

Per completezza, è opportuno segnalare che, nell'ambito della pronuncia in rassegna - Sez. U, n. 6827, Rv. 629805, est. Di Amato - la Corte ha avuto modo di chiarire che per tutti gli illeciti disciplinari - ad eccezione di quelli previsti dalla lettera a) dell'art. 2, comma 1, e dall'art. 3, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 1996 - è la stessa legge che individua le condotte disciplinarmente rilevanti in contrasto con i doveri del magistrato, tanto che non vi è automatica corrispondenza fra violazione delle regole deontologiche e sanzione disciplinare così come, in presenza di una condotta tipizzata, si prescinde dalla valutazione sull'effettiva violazione dei doveri e dall'individuazione dello specifico dovere violato. Pertanto, l'elencazione dei doveri del magistrato contenuta nell'art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, oltre a svolgere una funzione essenzialmente simbolica e deontologica, può assumere rilievo solo nell'ambito delle valutazioni rimesse al giudice in presenza di clausole generali, quali quelle della scarsa rilevanza del fatto, della giustificabilità o della scusabilità della condotta, mentre, al di fuori di tali ipotesi, il giudizio richiesto per affermare o escludere la responsabilità disciplinare comporta soltanto il confronto tra la fattispecie astratta e la condotta del magistrato.

2.7. (Segue) f) la fattispecie ex art. 2, comma 1, lett. ff) del d.lgs. n. 109 del 2006.

Ai fini della configurabilità dell'illecito consistente nella "adozione di provvedimenti non previsti da norme vigenti ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza" va segnalato il caso esaminato da Sez. U, n. 23071, Rv. 632836, est. Frasca, che ha qualificato come "atto abnorme" il provvedimento adottato da un giudice e diretto ad incidere sull'efficacia di un provvedimento emesso da un altro giudice in un diverso giudizio, al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge, senza che possa attribuirsi efficacia esimente ad una pregressa eventuale violazione dei criteri tabellari di assegnazione degli affari ovvero al convincimento del magistrato di essere l'effettivo titolare per la trattazione del procedimento. In particolare, nell'ambito di una procedura esecutiva immobiliare, il giudice dell'esecuzione aveva reiterato l'ordine di liberazione dell'immobile nonostante la sospensione disposta dal giudice della causa di opposizione proposta dal terzo detentore del bene, sull'assunto di essere l'unico funzionalmente competente a statuire sulla sospensione, in tal modo vanificando, con atto ritenuto abnorme, il provvedimento adottato dall'altro giudice.

2.8. L'esimente di cui all'art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006.

Un riflesso interessante, circa l'ambito di rilevanza dell'esimente di cui all'art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006, è quello che offerto da Sez. U, n. 6826, Rv. 629858, est. Petitti, secondo cui l'istanza di revisione non può essere proposta per sollecitare una nuova valutazione intesa all'applicazione dell'esimente medesima. Infatti, secondo l'art. 3 bis d.lgs. n. 109 cit., "l'illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza", mentre, ai sensi dell'art. 25, comma 2, "gli elementi in base ai quali si chiede la revisione debbono, a pena di inammissibilità della domanda, essere tali da dimostrare che, se accertati, debba essere escluso l'addebito o debba essere applicata una sanzione diversa da quella inflitta se trattasi della rimozione, ovvero se dalla sanzione applicata è conseguito il trasferimento d'ufficio". Pertanto, è preclusa la possibilità di chiedere la revisione della sentenza disciplinare al fine di ottenere l'applicazione della esimente in esame, la quale presuppone la sussistenza della materialità dell'illecito disciplinare contestato e ne esclude la punibilità in considerazione dell'irrilevanza del fatto stesso.

2.9. Le sanzioni. In particolare, la rimozione.

Di assoluto rilievo la pronuncia - Sez. U, n. 23677, Rv. 632896, est. Bernabai - secondo cui la sanzione della rimozione è ammessa non solo nei casi previsti dall'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2005 - per i quali è obbligatoria - ma ogni qualvolta l'illecito abbia compromesso irrimediabilmente i valori connessi alla funzione giudiziaria ed al prestigio personale del magistrato, anche in relazione allo strepitus fori. Quanto alla valutazione in ordine alla proporzionalità ed adeguatezza della sanzione, in sentenza è stato ribadito l'orientamento - da ultimo, Sez. U, n. 8615 del 2009, Rv. 607489 - sull'insindacabilità in sede di legittimità dell'apprezzamento di merito del giudice disciplinare ove sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logico-giuridici.

2.10. Questioni processuali. In particolare, il termine annuale per l'esercizio dell'azione disciplinare, ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. n. 109, del 2006. La sospensione del procedimento disciplinare per pregiudizialità penale.

Fra le pronunce che hanno esaminato questioni di carattere processuale, è opportuno prendere le mosse da quelle che hanno approfondito il tema della decorrenza del termine annuale per l'esercizio dell'azione disciplinare.

Secondo Sez. U, n. 10626, Rv. 630948, est. Petitti, il termine annuale, di cui all'art. 15, comma 1, prima parte, del d.lgs. n. 109 del 2006, è stabilito a pena di estinzione dell'azione disciplinare e decorre dall'acquisizione della notizia certa del fatto di rilievo disciplinare da parte del Procuratore Generale presso la Corte di cassazione. Il passaggio più rilevante, tuttavia, è rappresentato dalla chiara affermazione della sindacabilità dell'apprezzamento della notizia ai fini della decorrenza del termine in questione, atteso che la valutazione effettuata dal titolare dell'azione disciplinare è sottoposta al vaglio della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ed a quello delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, ove l'interessato eccepisca l'estinzione del giudizio disciplinare in virtù di precedente segnalazione, già pervenuta alla Procura Generale ed idonea a configurare il fatto di rilievo disciplinare, con conseguente irrilevanza di indagini disposte per acquisire ulteriori notizie.

Quanto, poi, all'onere della prova circa l'individuazione del momento di decorrenza del termine annuale, Sez. U, n. 4323, Rv. 629550, est. Di Palma, ha riconosciuto valore di presunzione semplice alla data di ricezione dell'atto attestata - anche mediante semplice stampigliatura - da parte della Procura Generale, in applicazione del principio di legalità dell'azione amministrativa, restando onere di colui che ne contesta le risultanze fornire, anche in via presuntiva, la prova contraria.

Di rilievo, infine, per l'individuazione della nozione del "medesimo fatto", ai fini della sospensione del procedimento disciplinare per pregiudizialità penale, Sez. U, n. 7310, Rv. 629881, est. Piccininni, che, sia pure con riferimento all'art. 58, ultimo comma, del d.P.R. 16 settembre 1958, n. 916 (ormai abrogato ed applicabile ratione temporis), ha escluso che l'identità del fatto vada interpretata restrittivamente, in quanto si determinerebbe "una eccessiva limitazione nell'applicazione dell'istituto e, soprattutto, una non ragionevole frammentazione di processi, con effetti negativi sotto il duplice profilo dell'economia processuale e dell'interesse dell'incolpato"; con la conseguenza che è correttamente applicata la sospensione del procedimento disciplinare anche con riferimento ai fatti non specificamente ricompresi nel capo di imputazione, qualora gli addebiti siano riconducibili ad una identica vicenda.

2.11. (Segue) In particolare, l'applicazione della misura della sospensione cautelare facoltativa.

Quanto agli elementi utilizzabili ai fini dell'applicazione delle misure della sospensione dalle funzioni e del collocamento temporaneo del magistrato fuori dal ruolo organico della magistratura, ai sensi dell'art. 22 d.lgs. n. 109 del 2006, è stato chiarito - Sez. U, n. 1522, Rv. 629523, est. Forte - che possono formare oggetto di valutazione anche i fatti ricostruiti in una sentenza penale non ancora passata in giudicato, sempre che siano considerati come meri indizi di attribuibilità al magistrato incolpato dell'addebito elevato a suo carico.

Sotto il profilo procedurale, con particolare riferimento alla legittimazione ad impugnare l'ordinanza della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura di applicazione della misura cautelare e provvisoria della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, è stato escluso - Sez. U, n. 1522, 629521, est. Forte - che il difensore possa assumere l'iniziativa in proprio, trattandosi di misura impugnabile esclusivamente dall'interessato.

Infine, con riferimento all'individuazione del regime più favorevole, secondo la disciplina transitoria di cui all'art. 32 bis, comma 2, d.lgs. n. 109 del 2006, è stato affermato - Sez. U, n. 1522, 629522, est. Forte - che l'art. 22 del d.lgs. n. 109 cit. è norma più favorevole rispetto a quella di cui all'art. 30 del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 51, ancorché nel previgente regime il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura fosse configurato come misura cautelare e provvisoria mentre, nell'attuale disciplina, sia previsto come vera e propria sanzione disciplinare, anche se collegata a quella della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, ai sensi dell'art. 10, comma 1, del d.lgs. n. 109 cit.

2.12. (Segue) altre questioni processuali.

Passando ad esaminare altri aspetti di carattere processuale, è stata confermata la puntualizzazione operata da Sez. U, n. 1771 del 2013, 624898, in ordine al regime giuridico applicabile al procedimento disciplinare. Difatti, è stato ribadito - Sez. U, n. 7310, Rv. 629880, est. Piccininni - che al ricorso per cassazione in materia di sanzioni disciplinari si applicano le norme previste per il processo civile, con la conseguenza che è stata ritenuta irrituale la designazione di un secondo difensore compiuta in udienza dal magistrato incolpato secondo il modello previsto per il giudizio penale dall'art. 96, secondo comma, cod. proc. pen., in quanto difforme dalle modalità previste dall'art. 83 cod. proc. civ.

Sulla stessa linea, Sez. U, n. 20570, Rv. 632580, est. Giusti, ha escluso che l'interessato possa difendersi personalmente innanzi alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, chiarendo che la discussione è riservata al solo professionista abilitato.

Sul piano delle garanzie dell'incolpato nel procedimento innanzi alla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, è stato chiarito - Sez. U, n. 23071, Rv. 632835, est. Frasca - che l'impedimento dell'incolpato che giustifica il rinvio dell'udienza deve essere assoluto: infatti, da un lato l'art. 15, comma 8, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006 non definisce in positivo i caratteri dell'impedimento, dall'altro la previsione dell'audizione dell'interessato non attribuisce a quest'ultimo il diritto di presenziare al processo disciplinare nella sua interezza, ma soltanto quello ad essere sentito personalmente per poter esporre direttamente le sue ragioni prima della decisione (onde l'incolpato non deve necessariamente assistere a tutto il procedimento disciplinare), ciò che costituisce una garanzia di minore contenuto rispetto a quella riconosciuta all'imputato nel processo penale.

Infine, quanto alla regolarità del procedimento, secondo Sez. U, n. 7309, Rv. 629859, est. Piccininni, la tardiva contestazione di un addebito rispetto ai termini di cui all'art. 15, comma 4, del d.lgs. n. 109 del 2009, non comporta di per sé la nullità degli atti di indagine e la conseguente estinzione del giudizio, in quanto l'irregolarità è sanata ove non eccepita nel termine di dieci giorni previsto dall'art. 15, comma 5, del d.lgs. n. 109, cit.

3. Avvocati: questioni di legittimità costituzionale.

In relazione alla normativa concernente il procedimento disciplinare a carico degli avvocati sono stati sollevati specifici dubbi di costituzionalità, peraltro fugati dalla Suprema Corte.

È stata, in particolare, ipotizzata l'illegittimità costituzionale dell'intera normativa in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, con peculiare riferimento alla circostanza che il numero ristretto dei componenti dell'organo disciplinare può rendere difficoltoso garantire la terzietà del giudice attraverso la predisposizione di un adeguato meccanismo di incompatibilità.

Nella specie, la questione relativa alla violazione dei parametri di legittimità costituzionale costituiti dagli artt. 24 e 111 Cost. è stata ritenuta manifestamente infondata da Sez. U, n. 775, Rv. 629198, est. Mazzacane, la quale, espressamente riallacciandosi al precedente costituito da Sez. U, n. 2509 del 2006, Rv. 586881, ed a Corte Cost., 6 maggio 2003, n. 262, ha osservato che l'eliminazione dell'inconveniente denunziato "potrebbe verificarsi non mediante la correzione di un dettaglio che non alteri il sistema normativo, ma solo a mezzo del venir meno di tale giurisdizione speciale e domestica, ovvero con una radicale modifica dell'intero sistema, di spettanza del legislatore e non della Corte costituzionale".

La medesima decisione citata, Rv. 629197, ha, parimenti, escluso che possa costituire violazione dell'art.111 Cost. per contrasto con i principi di terzietà, indipendenza e imparzialità del giudice la circostanza che il Consiglio nazionale forense, nell'esercizio della sua funzione di indirizzo e di coordinamento dei vari Consigli dell'ordine territoriali, abbia sollecitato gli stessi all'adozione di provvedimenti di cancellazione dall'albo per incompatibilità, ai sensi della legge 25 novembre 2003, n. 339.

In tale prospettiva, la Corte ha rimarcato come le disposizioni che regolano sia la nomina dei componenti del C.N.F., in ragione del metodo elettivo adottato, sia il procedimento che si svolge avanti al medesimo in virtù dell'osservanza delle comuni regole processuali e dell'intervento del P.M., assicurano il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in materia disciplinare, con riguardo alla garanzia del diritto di difesa, all'indipendenza del giudice ed all'imparzialità dei giudizi. La legittimità di tale approdo valutativo, ad avviso della Corte, non è infirmata dalla circostanza che al Consiglio spettino anche funzioni amministrative in quanto, come posto in rilievo anche dalla Corte Costituzionale oltre che dalle stesse Sezioni Unite in precedenti decisioni - Corte Cost. sent. n. 284 del 1986; Sez. U, n. 9097 del 2005, Rv. 580708; Sez. U, n. 11833 del 2013, Rv. 626349 -, non è la mera coesistenza delle due funzioni a menomare l'indipendenza del giudice, bensì il fatto che le funzioni amministrative siano affidate all'organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente sottordinata, sussistendo in tale ipotesi il rischio che il potere dell'organo superiore indirettamente si estenda anche all'esercizio delle funzioni giurisdizionali.

In una simile dimensione argomentativa, la Corte ha, altresì, escluso che utili argomenti in senso contrario all'accoglimento dei principi enunciati possano ritrarsi dalle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea 19 settembre 2006, C. 506/04 e 19 febbraio 2009, C. 308/07, posto che la prima pronunzia si è limitata a stabilire, nel contesto dell'esercizio della professione forense da parte di tutti gli avvocati dell'Unione europea nell'ambito dei diversi Paesi dell'Unione stessa, "il diritto di un avvocato europeo, cui sia stata negata l'iscrizione all'albo degli avvocati di uno Stato membro diverso da quello di appartenenza del richiedente, ad impugnare tale diniego dinanzi ad organi non composti esclusivamente o prevalentemente da avvocati che esercitino con il titolo professionale dello Stato membro ospitante", mentre la seconda decisione, nell'affermare che il dovere di imparzialità del giudice implica che nessuno dei membri dell'organo giudicante manifesti opinioni preconcette o giudizi personali e che il giudice offra garanzie sufficienti ad escludere, al riguardo, qualsiasi legittimo dubbio, di per sé non offre argomenti ulteriori a sostegno della tesi della pretesa illegittimità della composizione del C.N.F.

3.1. Profili di diritto sostanziale.

Sul piano della disciplina di natura sostanziale deve segnalarsi, in primo luogo, quell'arresto giurisprudenziale - Sez. U, n. 12064, Rv. 630941, est. San Giorgio - che, muovendo dal postulato che il Consiglio Nazionale Forense, quale organo di giustizia disciplinare, riveste natura di giudice speciale, istituito dall'art. 21 del d.lgs. lt. 23 novembre 1944, n. 382 ed è tuttora legittimamente operante, giusta la previsione della VI disposizione transitoria della Costituzione, ha espressamente riconosciuto che la disciplina della funzione giurisdizionale del C.N.F. è soggetta a riserva assoluta di legge ex art. 108, primo comma, Cost., anche per ciò che concerne il momento della formazione dell'organo, e non può essere affidata alla regolamentazione governativa. Di qui l'inapplicabilità al C.N.F., nella predetta veste di organo disciplinare, dell'art. 3, comma 5, lett. f, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148, a norma del quale gli ordinamenti professionali devono prevedere l'istituzione di organi a livello territoriale diversi da quelli aventi funzioni amministrative, ai quali vanno specificamente affidate l'istruzione e la decisione delle questioni disciplinari, e di un organo nazionale di disciplina. Nella medesima prospettiva, la Corte non ha mancato di rilevare come "non a caso, la legge 31 dicembre 2012, n. 247, recante "Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense", all'art. 34, nel regolare la composizione del predetto Organo, richiama gli artt. 52 e segg. del r.d.l. n. 1578 del 1933 e gli artt. 59 e segg. del r.d. n. 37 del 1934, e, all'art. 38, che disciplina la eleggibilità e le incompatibilità dei componenti del CNF, non opera alcun riferimento alla separazione delle funzioni amministrative da quelle giurisdizionali".

Sempre con riferimento alla nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense introdotta con la legge n. 247 del 2012, la Corte ha avuto occasione di pronunciarsi sulla esatta portata della disciplina transitoria di cui all'art. 65, comma 5, nella parte in cui prevede che le norme contenute nel nuovo codice deontologico si applichino anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l'incolpato. Tale previsione, secondo Sez. U, n. 11025, Rv. 630847, est. Cappabianca, vale esclusivamente a disciplinare il fenomeno della successione nel tempo delle norme aventi natura strettamente deontologica, come reso evidente dallo stesso tenore letterale della norma, il quale, nel riferirsi espressamente alle sole "norme contenute nel codice deontologico" non abbraccia l'intero impianto dell'ordinamento professionale disciplinare; sicché, per tutti gli ulteriori profili ordinamentali che non trovano la relativa fonte regolamentare nel codice deontologico ed, in particolare, per l'istituto della prescrizione, la cui fonte è di matrice legale, deve trovare applicazione il criterio generale dell'irretroattività delle norme più favorevoli stabilito in tema di sanzioni amministrative, pure in presenza dello jus superveniens introdotto con l'art. 56, comma 3, della legge n. 247 citata, che ha rideterminato il termine massimo di prescrizione dell'azione disciplinare.

3.2. Questioni processuali.

Con riferimento ai rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale avente natura pregiudiziale, la giurisprudenza di legittimità - Sez. U, n. 11309, Rv. 630859, est. Di Blasi - ha ribadito il principio - già affermato da Sez. U, n. 16169 del 2011, Rv. 618519, e da Sez. U, n. 5991 del 2012, Rv. 622061 - che, a seguito della modifica dell'art. 653 cod. proc. pen. disposta dall'art. 1 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (modifica che, oltre ad eliminare l'originaria limitazione dell'efficacia del giudicato penale alla sola sentenza pronunziata in seguito a dibattimento, ne ha ulteriormente ampliato la portata, aggiungendo alle ipotesi già previste quella dell'assoluzione perché il fatto "non costituisce illecito penale"), qualora l'addebito abbia ad oggetto gli stessi fatti contestati in sede penale, si impone la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza del procedimento penale, ai sensi dell'art. 295 cod. proc. civ. L'efficacia di tale sospensione è destinata ad esaurirsi con il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento penale, senza che la ripresa di quello disciplinare innanzi al Consiglio dell'Ordine Forense sia soggetta a termine di decadenza.

Sempre in tema di sospensione del procedimento disciplinare per pregiudizialità penale, Sez. U, n. 11908, Rv. 630863, est. San Giorgio, ha confermato il principio, già affermato da Sez. U, n. 13975 del 2004, Rv. 575671, secondo cui il termine previsto dall'art. 297, primo comma, cod. proc. civ., per la riassunzione del procedimento stesso decorre dalla conoscenza effettiva da parte del Consiglio locale dell'Ordine della definizione del processo penale, al quale l'organo titolare dell'azione disciplinare è estraneo, con l'ulteriore precisazione che tale conoscenza (che Sez. U, n. 13975 del 2004 aveva fissato "ad epoca non anteriore al deposito in cancelleria della relativa decisione, non bastando a tale effetto la pubblicazione in udienza mediante lettura del dispositivo ai sensi dell'art. 615, comma terzo, cod. proc. pen.") va fatta coincidere con l'acquisizione, da parte del Consiglio, della copia integrale della sentenza, recante l'attestazione della relativa irrevocabilità.

In relazione, invece, alla decisione adottata all'esito del procedimento, Sez. U, n. 11024, Rv. 630846, est. Cappabianca, nel declinare puntualmente il principio di necessaria correlazione fra addebito contestato e decisione disciplinare in relazione ad una denunziata ipotesi di difformità fra contestazione (riferita alla violazione dell'obbligo, previsto dall'art. 37 del codice deontologico, di astenersi dal prestare la propria attività professionale quando determini conflitto con gli interessi di un assistito) e relativa decisione (riferita, invece, alla violazione dell'obbligo, previsto dall'art. 51 del codice deontologico, di astenersi dall'assunzione di un incarico professionale contro ex-cliente in assenza delle indicate condizioni e, in particolare, prima del decorso di almeno un biennio dalla cessazione del rapporto professionale), ha escluso il fondamento di un'interpretazione ispirata a canoni puramente formali, valorizzando, piuttosto, la ratio più autentica del principio, correlata all'esigenza di garantire la pienezza ed effettività del contraddittorio sul contenuto dell'accusa e di evitare che l'incolpato sia condannato per un fatto, naturalisticamente inteso, rispetto al quale non abbia potuto esplicare idonea difesa.

In tal senso, secondo la decisione citata, il principio in esame può ritenersi violato esclusivamente ove si realizzi una radicale modificazione o trasformazione degli elementi essenziali e dei profili fattuali della fattispecie concreta oggetto di addebito, che, ingenerando incertezza sullo stesso oggetto dell'imputazione, si traduca in effettivo pregiudizio per le indefettibili prerogative difensive. Per converso, il medesimo principio è rispettato, non determinandosi alcuna lesione del diritto di difesa, in presenza, come nel caso oggetto di giudizio, di una mera riqualificazione giuridica dell'incolpazione, immutati restando gli elementi essenziali della materialità del fatto addebitato.

Nell'esaminare la dedotta nullità della decisione del Consiglio Nazionale Forense per asserita mancanza della sottoscrizione del presidente del collegio, fondata sul rilievo che la copia della decisione, munita di attestazione di conformità all'originale, notificata al ricorrente recava in calce la dicitura "firmato" con l'indicazione a stampa del nome e del cognome del presidente e del segretario, la Corte - Sez. U, n. 11024, Rv. 630845, est. Cappabianca - nel ribadire il consolidato orientamento secondo cui la mancanza della sottoscrizione del giudice non costituisce motivo di nullità della sentenza ex art. 161, secondo comma, cod. proc. civ., se si riferisce alla copia notificata e non all'originale del provvedimento (cfr. Sez. 1, n. 3292 del 1993, Rv. 481483), ha statuito, in linea con Sez. U, n. 17357 del 2009, Rv. 609094, che, qualora la conformità all'originale della copia notificata della sentenza risulti attestata dal consigliere segretario con le modalità sopra evidenziate, "tale formulazione della copia non è idonea a dimostrare la mancanza della sottoscrizione dell'originale asseverando, anzi, il contrario".

Infine, con riferimento alla proposizione del ricorso per cassazione contro le decisioni del Consiglio nazionale forense emesse in sede disciplinare, la Corte - Sez. U, n. 9031, Rv. 630304, est. Nobile - ha avuto modo di ribadire, conformemente all'orientamento fatto proprio da Sez. U, n. 19565 del 2011, Rv. 618748, l'applicabilità del termine breve di trenta giorni decorrente dalla notificazione della pronuncia impugnata, ai sensi dell'art. 56, del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, convertito in legge 22 gennaio 1934, n. 36, nella specie applicabile ratione temporis; non senza evidenziare, peraltro, che anche l'art. 36 della legge 31 dicembre 2012, n. 247, contenente la nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense, ha ribadito la precedente indicazione temporale.

È stato, inoltre, stabilito - Sez. U, n. 3775, Rv. 629590, est. Giusti, sulla scia di Sez. U, n. 16538 del 2008, Rv. 603566 - che, qualora il ricorso proposto innanzi alle Sezioni Unite della Suprema Corte venga sottoscritto dal procuratore dell'avvocato incolpato, occorre che questi, oltre ad essere iscritto nell'albo speciale degli ammessi al patrocinio avanti alle giurisdizioni superiori, sia munito di "mandato speciale", riferito specificamente alla impugnazione della sentenza disciplinare, in quanto il requisito della specialità, prescritto dall'art. 66 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, assolve all'esigenza che "la volontà della parte di impugnare si formi tenendo conto della decisione oggetto del ricorso e, pertanto, necessariamente dopo la sua pubblicazione e con specifico riferimento ad essa", onde "non può essere considerata idonea la procura già rilasciata per la rappresentanza e la difesa nelle fasi dinanzi al Consiglio dell'ordine territoriale o al Consiglio nazionale forense, ancorché conferita in vista dell'intero procedimento".

4. Notai.

Il contenuto numero di pronunce che hanno interessato il sistema della responsabilità disciplinare dei notai rende opportuno procedere al loro esame nell'ambito di una trattazione sostanzialmente unitaria, ancorchè articolata nella consueta distinzione fra decisioni afferenti a profili di diritto sostanziale, da un lato, e, dall'altro, decisioni relative a questioni processuali.

Riguardo alle prime va, innanzitutto, richiamato l'arresto della giurisprudenza di legittimità - Sez. 2, n. 8036, Rv. 630369, est. Mazzacane - che ha puntualmente declinato il principio di personalità dell'attività notarile in relazione alla peculiare ipotesi di adozione, da parte del notaio, di un modulo organizzativo del lavoro suscettibile di censura alla stregua del parametro normativo costituito dall'art. 47, secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89, in quanto caratterizzato da un amplissimo ricorso alla delega a favore di numerosi collaboratori, con conseguente elusione del carattere personale della prestazione. La decisione della Corte, destinata ad inserirsi nel solco interpretativo tracciato da Sez. U, n. 13617 del 2012, Rv. 623441, e Sez. 3, n. 7274 del 2008, Rv. 602630, ha ribadito che il notaio, nell'espletamento della propria opera, non può limitarsi al mero accertamento della volontà delle parti ed alla direzione nella compilazione degli atti, ma deve svolgere personalmente tutte le funzioni attribuitegli dall'ordinamento nel ricevimento degli atti, incluse le attività preparatorie e quelle successive, ugualmente necessarie per assicurare la serietà e la certezza degli effetti tipici degli atti stessi e dei risultati pratici perseguiti. Deve, pertanto, escludersi che il notaio possa sistematicamente delegare le suddette attività, sulla base del loro carattere "routinario" o "seriale", ai propri collaboratori senza incorrere in responsabilità disciplinare.

In una simile dimensione argomentativa, la Corte ha ritenuto che, ai fini che qui occupano, non é consentito operare alcuna distinzione fra atti "routinari" ed atti che tali non sono, posto che il contenuto tipico legislativamente predeterminato dei primi non esclude, comunque, la sussistenza di ampi margini di discrezionalità per le parti nella regolamentazione dei propri interessi - in virtù del principio di autonomia contrattuale di cui all'art. 1322 cod. civ. - attraverso la predisposizione di clausole finalizzate ad assicurare un più completo adeguamento del negozio alle loro specifiche intenzioni od a garantire l'adempimento; anche in siffatte ipotesi si rivela, pertanto, opportuno l'intervento preventivo del notaio, tenuto a garantire che l'atto corrisponda puntualmente alla effettiva volontà delle parti. Lo stesso tenore testuale della norma di cui all'art. 47, secondo comma, della legge notarile, come sostituito dall'art. 12, comma 1, della legge 28 novembre 2005, n. 246 ("Il notaio indaga la volontà delle parti e sotto la propria direzione e responsabilità cura la compilazione integrale dell'atto"), non conferisce alcuna legittimità alla distinzione sopra prospettata, al pari degli artt. 36 e 37 dei principi di deontologia professionale notarile, che pongono l'accento sul rapporto personale instaurato con le parti che deve caratterizzare l'attività del notaio, onde coglierne la effettiva volontà in relazione alla stesura dell'atto.

Sempre in tema di atti notarili, uno specifico profilo di responsabilità disciplinare riconducibile alla violazione dell'art. 28, primo comma, della legge n. 89 del 1913, che vieta al notaio di ricevere o autenticare atti "espressamente proibiti dalla legge", è stato ravvisato da Sez. 2, n. 8611, Rv. 630678, est. Mazzacane in relazione alla dichiarazione di coerenza catastale richiesta dall'art. 19, comma 14, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito nella legge 30 luglio 2010, n. 122; norma che prevede, con riferimento agli atti pubblici ed alle scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, a pena di nullità, "la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale". Il predetto onere, espressamente imposto agli intestatari, ha osservato la Corte, non può ritenersi assolto mediante la dichiarazione di conformità allo stato di fatto dell'immobile della sola planimetria catastale depositata, vale a dire di un documento che contiene essenzialmente la descrizione grafica dell'immobile, essendo indispensabile che la medesima dichiarazione si riferisca anche ai dati catastali, posto che questi ultimi costituiscono elementi obiettivi di riscontro delle caratteristiche patrimoniali del bene, rilevanti ai fini fiscali.

Pertanto, l'omissione della dichiarazione di conformità riferita (anche) ai dati catastali determina la nullità assoluta dell'atto, attesa l'evidente finalità pubblicistica della norma, volta al contrasto dell'evasione fiscale, e la conseguente responsabilità disciplinare del notaio ai sensi dell'art. 28, primo comma, della legge notarile, posto che nella nozione di atti proibiti dalla legge che il notaio non può ricevere o autenticare rientrano senza dubbio quelli affetti da vizi espressamente determinanti nullità assoluta.

Sempre sul piano sostanziale, è da segnalare, altresì, l'arresto di legittimità - Sez. 2, n. 4485, Rv. 629601, est. Manna - che, ha riconosciuto, in capo al notaio che proceda alla pubblicazione di un testamento contenente l'attribuzione di un legato immobiliare, il duplice obbligo, civile e deontologico, di provvedere alla trascrizione, in quanto il legato si acquista senza necessità di accettazione. Diversa soluzione, invece, è destinata a valere nel caso di istituzione di erede ex re certa, in quanto l'acquisto dell'immobile che il testatore ha incluso nella quota ereditaria richiede l'accettazione dell'istituito. Nel dettare tale principio, in un caso in cui la contestazione disciplinare riguardava la violazione degli artt. 1, comma 2, 14, lett. b) e 42, lett. c) dei principi di deontologia professionale notarile, avendo il notaio fatto ricorso in numerosi atti di pubblicazione di testamento olografo e di attivazione di testamenti pubblici a clausole di esonero dall'obbligo di trascrivere i relativi acquisti immobiliari mortis causa, la sentenza in esame ha escluso la sindacabilità della valutazione nel merito operata dalla decisione impugnata, laddove la stessa aveva ritenuto che, anche nei casi in cui si era trattato della pubblicazione di disposizioni testamentarie a titolo particolare, nulla consentiva di ritenere che le clausole di esonero fossero contrarie alla deontologia professionale in quanto mirate ad un'elusione sostanzialmente "pilotata" dell'obbligo in parola.

È stato, poi, escluso da Sez. 2, n. 1437, Rv. 629437, est. Giusti che integri un'ipotesi di responsabilità disciplinare per violazione dell'art. 147, primo comma, lett. a, della legge n. 89 del 2013, la condotta del notaio, pur reiterata, diretta ad ottenere l'accesso ai documenti acquisiti dal Consiglio notarile in funzione di vigilanza, ed il successivo esercizio dei rimedi giurisdizionali contro i relativi dinieghi, trattandosi di un complesso di attività coincidenti con l'esercizio del diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi garantito dagli artt. 24 e 113 Cost., salvo che non ne sia accertata l'abusività nella sede propria. La Corte ha, altresì, osservato che una diversa soluzione non può essere avallata neppure dal canone deontologico "tanto più notaio, tanto meno giudice", poiché questo si riferisce propriamente all'attività professionale del notaio, orientandola alla prevenzione delle liti, ma rimane del tutto estraneo alla sfera privata del professionista che, in quanto tale, ha il diritto costituzionale di agire e difendersi in giudizio.

La medesima decisione da ultimo richiamata, Rv. 629435, ha, invece, ravvisato la sussistenza di un illecito disciplinare ai sensi dell'art. 147, primo comma, lett. b, della legge n. 89 del 2013 - che punisce con la censura o con la sospensione fino ad un anno (o, nei casi più gravi, con la destituzione) il notaio che "viola in modo non occasionale le norme deontologiche elaborate dal Consiglio nazionale del notariato" - nel caso di presenza sistematica ed organizzata di un notaio, già avente una sede secondaria, presso un'ulteriore sede secondaria ai fini dell'espletamento della propria opera. Tale condotta, invero, integra una violazione dall'art. 10 del codice deontologico, che non consente l'apertura di un ufficio secondario in più di un Comune sede notarile ed equipara all'ufficio secondario la ricorrente presenza del notaio presso studi di altri professionisti od organizzazioni estranee al notariato. In tale prospettiva, la Corte ha, altresì, compiuto una puntuale ricostruzione della ratio ispiratrice della norma in esame, ravvisandola nell'esigenza di evitare concentrazioni di attività che possano nuocere al corretto svolgimento della professione notarile, senza che abbia, pertanto, rilievo scriminante il fatto che il notaio abbia continuato ad esercitare le funzioni anche nella propria sede.

Rilevante appare, altresì, la decisione - Sez. 2, n. 1170, Rv. 629085, est. San Giorgio - che ha riconosciuto come l'obbligo di pagamento immediato dell'imposta di registro sussista anche nel caso di utilizzo del procedimento telematico ex art. 3 ter del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 463 (tanto più che il notaio riceve dal cliente la somma occorrente a tal fine), onde l'omesso controllo da parte del professionista circa l'esistenza di adeguata provvista sul proprio conto corrente, minando il rapporto fiduciario con l'Amministrazione finanziaria, integra l'illecito di cui all'art. 147, lett. a, della legge notarile.

Di particolare interesse, in tema di trattamento sanzionatorio conseguente a violazioni di stampo disciplinare, la decisione - Sez. 2, n. 3203, Rv. 629349, est. Manna - che ha ritenuto configurabile l'attenuante del ravvedimento operoso, consistente nell'essersi adoperati per eliminare le conseguenze dannose della violazione o nell'aver riparato interamente il danno prodotto, prevista dall'art. 144 della legge n. 89 del 2013, anche nell'ipotesi di tardiva registrazione di atti, non ostandovi la doverosità dell'adempimento. Nel tratteggiare il proprio iter argomentativo, la Corte si è riallacciata espressamente ad una precedente decisione - Sez. 3, n. 14238 del 1999, Rv. 532325 - in occasione della quale si era affermato che l'annotazione tardiva di atti che il notaio abbia ricevuto anteriormente alla numerazione e vidimazione del repertorio, determina (soltanto) la cessazione della condotta vietata e costituisce comportamento suscettivo di valutazione per la concessione delle attenuanti, ai sensi dell'art. 144 della legge notarile. La conclusione, desumibile da tale precedente, che la doverosità dell'atto ritardato non vale ad escludere che il successivo compimento di esso, siccome ad ogni modo dovuto, rilevi in funzione attenuante, è confermata ed arricchita di nuovi spunti dimostrativi dalla decisione più recente. La Corte, in particolare, ha valorizzato il presupposto che, mentre l'attenuante consistente nell'integrale riparazione presuppone la commissione di un illecito che abbia cagionato un danno di natura patrimoniale, quella consistente nell'eliminazione delle conseguenze dannose della violazione è tendenzialmente applicabile ad ogni tipo di illecito disciplinare che abbia prodotto, in concreto, un pregiudizio non patrimoniale, come indirettamente confermato dalla giurisprudenza penale della stessa Suprema Corte sull'omologa attenuante prevista dall'art. 62, n. 6 cod. pen., secondo cui l'elisione o l'attenuazione delle conseguenze del reato si riferiscono al danno in senso penalistico, inerente alla lesione del bene giuridico tutelato, e non riguarda, quindi, i reati contro il patrimonio o che comunque offendano il patrimonio (cfr. Sez. 6, n. 5996 del 1989, Rv. 181099).

Ciò posto, è evidente che l'eliminazione di tali conseguenze dannose può realizzarsi mediante ogni condotta idonea a rimediare alla lesione del bene protetto dall'ordinamento notarile e, nell'ipotesi di violazione di tipo omissivo (natura che accomuna la gran parte degli illeciti disciplinari previsti dalla legge notarile), tale effetto può essere realizzato soltanto attraverso il compimento della condotta omessa.

La doverosità di questa non costituisce, pertanto, secondo la Corte, argomento idoneo ad escludere l'attenuante in esame, poiché non vi può essere altro comportamento resipiscente idoneo a porre rimedio alla violazione.

Sul piano processuale, meritano di essere poste in rilievo le seguenti decisioni. Sez. 2, n. 20260, Rv. 632750, est. Manna ha rilevato che, nell'ambito del procedimento disciplinare, le conclusioni formulate dall'organo che esercita la relativa azione, ai sensi dell'art. 153, comma 3, della legge n. 89 del 2013 (come sostituito dall'art. 39 del d.lgs. 1° agosto 2006, n. 249), riguardano l'esito finale dell'iniziativa disciplinare promossa ed il trattamento sanzionatorio proposto, la cui scelta tra quelli consentiti dalla tipologia dell'infrazione permane a vantaggio esclusivamente della Commissione di disciplina, che, peraltro, in nessun caso ne rimane vincolata. Ne consegue che la sanzione richiesta, indipendentemente dalla circostanza che sia esatta o erronea, generica o mancante, non determina alcun effetto sull'atto terminale del procedimento disciplinare.

Sempre con riferimento alla fase terminativa del giudizio avanti alla Commissione amministrativa regionale di disciplina, la già citata Sez. 2, n. 1437, Rv. 629434, est. Giusti ha ritenuto che la mancata lettura del dispositivo, immediatamente dopo la decisione, da parte del presidente della Commissione non comporta la nullità della sanzione, in quanto tale conseguenza non è espressamente sancita né dall'art. 157 della legge n. 89 del 1913 (come sostituito dall'art. 44 del d.lgs. 1° agosto 2006, n. 249), né da altra norma. Parimenti, anche il deposito della decisione oltre il termine di trenta giorni previsto dal citato art. 157, non dà luogo ad alcuna forma di nullità, poiché tale ipotesi di ritardo non è idonea, in difetto di una specifica previsione di legge, ad estinguere i poteri decisori del giudicante.

La specifica natura del giudizio celebrato avanti alla Corte d'appello in sede di reclamo avverso la decisione della Commissione amministrativa regionale di disciplina costituisce, parimenti, oggetto della decisione della Suprema Corte appena citata, Rv. 629436, che ha rimarcato come lo stesso, pur avendo indubbi connotati impugnatori, non è propriamente assimilabile all'appello, che, secondo la disciplina processuale civile, si configura come un procedimento di secondo grado avente natura omogenea rispetto a quello di primo grado. L'approdo di tale impostazione ha consentito alla Suprema Corte di riconoscere l'inapplicabilità, nel giudizio di reclamo in materia disciplinare, del divieto di produzione di nuovi documenti stabilito dall'art. 345 cod. proc. civ., dovendosi escludere che nella fase amministrativa avanti alla Commissione si possano verificare preclusioni di tipo istruttorio che si riverberino anche sulla fase giurisdizionale.

Infine, sul tema dei rapporti fra sentenza irrevocabile emessa in sede penale e procedimento disciplinare, Sez. 2, n. 19340, Rv. 632158, est. Bucciante ha ribadito come, ai sensi dell'art.158 quinquies della legge n. 89 del 1913, la condanna penale del notaio faccia stato nel procedimento disciplinare a suo carico in ordine alla ricostruzione e alla qualificazione del fatto, anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo (nella specie, l'effetto preclusivo del giudicato penale concerneva l'integrazione del dolo in falsità ideologica).

  • appalto pubblico
  • giurisdizione arbitrale
  • clausola compromissoria

CAPITOLO XXXVII

L'ARBITRATO

(di Roberto Mucci )

Sommario

1 Controversie arbitrabili. - 2 Compromesso e clausola compromissoria. - 3 Arbitrato rituale e irrituale. - 4 Il procedimento. - 4.1 Le parti e gli arbitri. - 4.2 Trattazione. - 4.3 Decisione. - 4.4 Il lodo. - 5 L'impugnazione del lodo. - 5.1 Il giudizio di impugnazione. - 5.2 I motivi di impugnazione per nullità. - 6 Procedimento arbitrale e "ragionevole durata". - 7 Rapporti tra giustizia arbitrale e giustizia ordinaria. - 8 Arbitrato estero. - 9 L'arbitrato in materia di appalti pubblici. - 10 L'arbitrato societario.

1. Controversie arbitrabili.

Per quanto riguarda il tema generale della deferibilità agli arbitri delle controversie, Sez. 1, n. 2126, Rv. 629876, est. Forte, ha ripreso il principio affermato da Sez. U, n. 25508 del 2006, Rv. 593855, est. Rordorf, circa la preclusione della compromettibilità in arbitri delle controversie relative ad interessi legittimi, con riferimento alle posizioni soggettive dei privati su cui incidono gli atti autoritativi della P.A., in quanto sottratte alla disponibilità delle parti.

Con Sez. 1, n. 3887, Rv. 630216, est. Salvago, la Corte ha poi affermato che l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una persona giuridica privata è compromettibile in arbitri, concernendo essa, pur se posta a tutela di un interesse "collettivo", diritti patrimoniali disponibili all'interno di un rapporto contrattuale, senza coinvolgere interessi di terzi estranei, se non in modo eventuale ed indiretto, ferma l'inapplicabilità dell'art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 alla relativa clausola statutaria, trattandosi di disposizione dettata per l'arbitrato societario.

2. Compromesso e clausola compromissoria.

Sez. 1, n. 8868, Rv. 631155, est. Campanile, ha ribadito il principio già affermato da Sez. 1, n. 18134 del 2013, Rv. 627447, est. Forte, secondo la quale la nullità del contratto non comporta la nullità della clausola compromissoria in esso inserita, poiché la clausola costituisce un contratto autonomo ad effetti processuali. È pertanto infondato desumere dalla affermata competenza arbitrale il rigetto implicito dell'eccezione di nullità del contratto in cui la clausola compromissoria è inserita. Peraltro, Sez. 1, n. 17711, Rv. 632468, est. De Marzo, conformemente a Sez. 2, n. 25024 del 2013, Rv. 628710, est. Giusti, puntualizza come il principio di autonomia della clausola compromissoria rispetto al contratto cui accede, se fondatamente conduce all'affermazione per cui la nullità di quest'ultimo non travolge, per trascinamento, la clausola ivi contenuta, restando riservato agli arbitri l'accertamento della dedotta invalidità, non implica, altresì, che la stessa possa conservare la sua efficacia in ipotesi di inesistenza dell'accordo cui afferisce, ancorché derivante da fattori sopravvenuti.

La Corte, inoltre, esaminando una fattispecie relativa ad una clausola compromissoria la cui proposta, proveniente da una fondazione, era stata seguita da una delibera di accettazione - sostituiva di altra precedente mai esternata - dell'ente pubblico destinatario rivelatasi non conforme ad essa e sfornita di prova quanto all'avvenuta accettazione quale nuova proposta da parte della fondazione proponente, ha affermato - Sez. 1, n. 15993, Rv. 632076, est. Campanile - che "la forma scritta ad substantiam richiesta per la validità della clausola compromissoria non postula che la corrispondente volontà sia indefettibilmente espressa in un unico documento recante la contestuale sottoscrizione di entrambe le parti, che può anche realizzarsi con lo scambio delle missive contenenti, rispettivamente, la proposta e l'uniforme accettazione, ex art. 1326 cod. civ., del deferimento della controversia ad arbitri". In tema di proposta di compromesso, con riferimento ad una peculiare fattispecie relativa alle controversie tra l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura e i beneficiari dei contributi agricoli dell'Unione europea, si è posta su una analoga linea di "deformalizzazione" - fermo "il nucleo indefettibile dell'incontro effettivo, e riscontrabile per iscritto, di volontà sulla compromettibilità e sull'oggetto del compromesso" - Sez. 1, n. 10436, Rv. 631610, est. Acierno.

La clausola compromissoria contenuta in un capitolato, generale o speciale, non deve comunque necessariamente essere approvata specificamente, essendo sufficiente, ai fini della validità della stessa, che la volontà di rimettere ad arbitri la risoluzione di controversie si possa evincere da atto scritto (Sez. 1, n. 17721, Rv. 632173, est. Piccininni).

Giova richiamare anche Sez. 2, n. 21221, Rv. 632391-632392, est. San Giorgio, che ha ribadito il principio affermato da Sez. 1, n. 17935 del 2009, Rv. 610305, est. Salvago, secondo cui in tema di arbitrato, l'istituto della ratifica è applicabile anche alla clausola compromissoria inserita in un contratto da un soggetto che non ne aveva il potere, costituendo espressione di autonomia negoziale, in quanto tale meritevole di tutela, atteso che comporta, sul piano funzionale, la valutazione positiva da parte dell'ordinamento dell'interesse del soggetto legittimato a recuperare, nella propria sfera giuridica, il risultato dell'attività da altri compiuta senza esserne legittimato, così realizzando anche un'esigenza di economia giuridica, salvi i limiti desumibili dal sistema a tutela delle parti originarie e dei terzi.

3. Arbitrato rituale e irrituale.

Sull'arbitrato rituale, per la già citata Sez. 1, n. 3558, Rv. 629952, est. Macioce, nel giudizio di impugnazione del lodo, ove le parti abbiano concordato sulla natura rituale dell'arbitrato e sull'applicazione ad esso delle regole processuali civili vigenti, vanno conseguentemente applicati anche i principi giurisprudenziali in tema di accertamento e liquidazione del danno, ivi compresa la liquidazione dei danni in via equitativa, tanto nell'ipotesi in cui sia mancata interamente la prova del loro preciso ammontare per l'impossibilità della parte di fornire congrui ed idonei elementi al riguardo, quanto nell'ipotesi di notevole difficoltà di compiere una precisa quantificazione.

Per quanto riguarda l'arbitrato irrituale, per Sez. 1, n. 6125, Rv. 630517-630518, est. Campanile, la risoluzione del contratto per mutuo consenso può essere rilevata anche d'ufficio dal collegio di arbitri irrituali. Inoltre, diversamente che nell'ipotesi della domanda giudiziale, in cui è impossibile individuare "la comune intenzione delle parti", i canoni ermeneutici negoziali sono applicabili all'arbitrato irrituale poiché le parti affidano all'arbitro la soluzione della controversia soltanto attraverso lo strumento negoziale, riconducibile all'istituto del mandato collettivo o congiunto, mediante una composizione amichevole ovvero un negozio di accertamento riferibile alla volontà delle stesse parti, le quali si impegnano a considerare la decisione arbitrale quale espressione della loro stessa volontà.

Per Sez. 1, n. 6830, Rv. 630133, est. Mercolino, l'arbitrato irrituale, quale strumento di risoluzione delle controversie imperniato sull'affidamento a terzi del compito di ricercare una composizione amichevole riconducibile alla volontà delle parti, ha natura negoziale e, pertanto, il relativo lodo è impugnabile - fino all'entrata in vigore del nuovo art. 808 ter cod. proc. civ., sull'annullabilità del lodo in caso di pronuncia su conclusioni esorbitanti dai limiti della convenzione di arbitrato - solo per vizi della volontà negoziale o per incapacità delle parti o degli arbitri. Ne consegue che "sia nel caso in cui il ricorrente intenda far valere la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sia nel caso, opposto, in cui sostenga che l'oggetto della decisione corrisponda puntualmente a quello della controversia deferita agli arbitri, il vizio denunciato si traduce in una questione d'interpretazione della volontà dei mandanti e si risolve, analogamente a quanto accade in ogni altra ipotesi di interpretazione della volontà negoziale, in un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se condotto nel rispetto dei criteri di ermeneutica contrattuale e correttamente motivato".

In una fattispecie relativa ad una clausola compromissoria contenuta nello statuto di un consorzio che deferiva ad un arbitro la soluzione delle controversie tra consorziati "attraverso uno strumento inappellabile destinato a realizzare la volontà delle parti di comporre la controversia", Sez. 6-1, n. 10300, Rv. 631226, est. Bisogni, nel qualificare come irrituale l'arbitrato previsto da detta clausola, ha affermato che "la sentenza che neghi la propria competenza in relazione ad una convenzione di arbitrato irrituale non è impugnabile per regolamento di competenza, in quanto tale tipologia di arbitrato determina l'inapplicabilità di tutte le norme dettate per quello rituale, ivi compreso l'art. 819 ter cod. proc. civ.".

Si è poi ritenuta - Sez. 1, n. 13212, Rv. 631362, est. Campanile - l'applicabilità all'arbitrato irrituale dell'art. 1722, n. 1, cod. civ., con la conseguenza che il mandato conferito agli arbitri per la pronuncia del lodo deve ritenersi estinto alla scadenza del termine prefissato dalle parti, da ritenersi essenziale. Nel caso in cui la controversia abbia ad oggetto diritti reali immobiliari, detto termine non è prorogabile se non con patto avente la forma scritta ad substantiam, poiché il mandato (o la modifica dei termini di un mandato) a concludere un negozio per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam, deve essere rilasciato per iscritto a pena di nullità; né, in mancanza della forma scritta, l'esistenza del patto di proroga può essere desunta da elementi presuntivi, quale il comportamento delle parti.

Per Sez. 1, n. 16164, Rv. 632258, est. Mercolino, l'arbitrato irrituale, pur avendo natura negoziale, costituisce fonte di regolamentazione eteronoma degli interessi in conflitto, sicché la diligenza degli arbitri deve essere valutata in riferimento all'oggetto dell'incarico conferito, che non consiste nella composizione della controversia in modo necessariamente transattivo ed appagante per tutte le parti in causa, ma nella pronuncia di una decisione, secondo diritto o equità e nel rispetto del principio del contraddittorio, al termine di un procedimento in cui, previa definizione del thema decidendum, sia stato consentito a ciascuna delle parti lo svolgimento di attività di allegazione, eccezione e prova su di un piano di parità.

Infine, nello specifico ambito dell'arbitrato nelle controversie di lavoro, Sez. L, n. 17868, Rv. 631917, est. Arienzo, ha affermato, in tema di controversie tra società cooperativa e socio, che ai fini della validità della clausola compromissoria di devoluzione in arbitri di tali controversie, in base all'art. 412 ter cod. proc. civ. (nel testo antecedente alle modifiche recate dalla legge 4 novembre 2010, n. 183, cosiddetto collegato lavoro), è necessario che essa sia prevista non dallo statuto della cooperativa, ma dal contratto collettivo nazionale di lavoro.

4. Il procedimento.

Diverse sono state le pronunce della Corte intervenute nel 2014 sui vari aspetti del procedimento arbitrale.

4.1. Le parti e gli arbitri.

Circa le parti, Sez. 1, n. 1090, Rv. 629677, est. Campanile, con riferimento alla clausola compromissoria a struttura cosiddetta "binaria" ha affermato che tale clausola - che devolva determinate controversie alla decisione di tre arbitri, due dei quali da nominare da ciascuna delle parti - può trovare applicazione in una lite con pluralità di parti quando, in base ad una valutazione da compiersi a posteriori, in relazione al petitum e alla causa petendi, risulti il raggruppamento degli interessi in gioco in due soli gruppi omogenei e contrapposti, sempre che tale raggruppamento sia compatibile con il tipo di pretesa fatta valere. È stata pertanto ritenuta valida una clausola siffatta individuando un unico centro di interesse, pure in presenza di una pluralità di società obbligate alla liberazione di una stessa fideiussione, in quanto fra tali società si erano verificati fenomeni successori tali per cui la pluralità di parti risultava solo apparente.

Sul compenso degli arbitri, per Sez. 1, n. 12542, Rv. 631358, est. Di Virgilio, il compenso spettante ad un avvocato, nominato presidente del collegio arbitrale di disciplina di cui all'art. 59 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, applicabile ratione temporis alle controversie tra dipendenti e amministrazioni pubbliche in materia disciplinare, va determinato unilateralmente dall'amministrazione avuto riguardo a criteri equitativi di valutazione ritenuti più adeguati all'oggetto e al valore della controversia, nonché alla natura e all'importanza del compito attribuito all'arbitro (quale, come nella specie, quello previsto dalla vigente tariffa professionale degli avvocati per la partecipazione alle singole udienze), non trovando applicazione il punto 9 della tabella relativa alle tariffe professionali degli avvocati di cui al d.m. 5 ottobre 1994, n. 585 (applicabile ratione temporis), che, nel disciplinare i compensi per l'attività forense anche stragiudiziale, fa riferimento al collegio arbitrale composto da soli avvocati e non a quello di composizione mista, di cui all'art. 59 del d.lgs. n. 29 del 1993.

4.2. Trattazione.

La Corte, con Sez. 1, n. 3558, Rv. 629951, est. Macioce, ha ritenuto legittima la fissazione, da parte degli arbitri alle parti, dei termini perentori di cui all'art. 184 cod. proc. civ., quale frutto della libera e lecita scelta di recepimento di un modello processuale ispirato ad esigenze di speditezza e concentrazione istruttoria.

Peraltro, nel procedimento arbitrale, ispirato al principio delle libertà delle forme, gli arbitri non sono tenuti - Sez. 1, n. 4808, Rv. 630074, est. Di Virgilio - all'osservanza delle norme del codice di procedura civile relative al giudizio ordinario di cognizione non espressamente richiamate all'atto del conferimento dell'incarico arbitrale, con il solo limite dell'osservanza delle norme di ordine pubblico, come il principio del contraddittorio. Ne consegue che l'omessa comunicazione al consulente tecnico di parte, già nominato, delle indagini predisposte dal consulente d'ufficio non è causa di nullità, ove il consulente della parte interessata avrebbe potuto essere informato di tali operazioni dal difensore della medesima, regolarmente avvisato.

Sempre con riferimento ai consulenti, per Sez. 1, n. 6736, Rv. 630040, est. Campanile, in materia di arbitrato rituale, il consulente tecnico d'ufficio ha titolo per chiedere il pagamento del proprio compenso esclusivamente agli arbitri - a cui spetta, ex art. 814 cod. proc. civ., il diritto ad ottenere il rimborso dalle parti - dovendosi escludere una responsabilità solidale di queste ultime poiché, a differenza di quanto avviene nel giudizio ordinario, la figura del consulente nell'arbitrato rituale, che pure ha natura giurisdizionale, non ha carattere pubblicistico, quale ausiliario del giudice, con qualifica di pubblico ufficiale, che esegue la sua prestazione per un superiore interesse di giustizia, ma una matrice privatistica, essendo le parti legate agli arbitri da un rapporto di mandato, in cui, ai sensi dell'art. 1719 cod. civ., il mandante ha l'obbligo di somministrare al mandatario i mezzi necessari per l'esecuzione del mandato e per l'adempimento delle obbligazioni contratte in proprio nome, tra le quali anche quella nei confronti del consulente.

Secondo Sez. 1, n. 131, Rv. 629301, est. Campanile, in materia di arbitrato rituale, la fissazione, da parte degli arbitri, di un'unica udienza per la precisazione delle conclusioni ed il deposito delle comparse conclusionali, ossia per l'illustrazione delle conclusioni, con fissazione di un ulteriore termine per il deposito da entrambe le parti delle memorie di replica, non viola il principio del contraddittorio.

4.3. Decisione.

La proroga del termine per la pronuncia del lodo arbitrale, a norma dell'art. 820, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo vigente anteriormente alla modifica apportata dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, non può essere ravvisata - secondo quanto affermato da Sez. 1, n. 18607, Rv. 631962, est. Lamorgese - implicitamente nella concessione, ad opera degli arbitri, di un termine per memorie istruttorie su richiesta di una delle parti, ma postula l'effettiva ammissione di mezzi di prova, consentendosi altrimenti una proroga tacita del termine per la decisione senza il consenso di entrambi i contendenti, con inammissibile alterazione del contraddittorio.

Si è poi ritenuta, in un caso in cui con la domanda di arbitrato era stata proposta unicamente l'impugnazione di delibera consortile comminativa di sanzioni, mentre l'arbitro aveva rideterminato la sanzione e condannato la parte, l'applicabilità - Sez. 1, n. 19786, Rv. 632533, est. Campanile - del principio di cui all'art. 112 cod. proc. civ., sicché resta inibito agli arbitri esaminare aspetti nuovi della vicenda che non si traducano in mere argomentazioni difensive.

In tema di compenso e spese, infine, per Sez. 1, n. 20371, Rv. 632165, est. Campanile, la liquidazione effettuata direttamente dagli arbitri ha valore di una mera proposta contrattuale, che diviene vincolante solo se accettata da tutti i contendenti, sicché la parte che non ha accettato tale proposta non ha interesse ad impugnare il capo del lodo arbitrale riguardante la liquidazione delle spese legali e degli onorari del giudizio, nonché degli onorari degli arbitri, del compenso del segretario e delle spese di funzionamento del collegio.

4.4. Il lodo.

Per Sez. 3, n. 11634, Rv. 630993, est. Rubino, in tema di arbitrato, anche prima dell'introduzione dell'art. 824 bis cod. proc. civ. da parte del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, gli effetti tra le parti del lodo arbitrale rituale erano equiparabili a quelli della sentenza, avendo l'attività degli arbitri natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario. Ne consegue che degli effetti favorevoli al condebitore del lodo reso tra il creditore ed uno dei condebitori solidali prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006 può giovarsi altro condebitore solidale che non sia stato parte del giudizio arbitrale, applicandosi pure al lodo non impugnabile l'effetto espansivo della sentenza previsto dall'art. 1306, secondo comma, cod. civ.

È poi inammissibile - come affermato da Sez. 1, n. 10450, Rv. 631224, est. Lamorgese - il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di rigetto del reclamo nei confronti del decreto di dichiarazione di esecutorietà del lodo. Avendo il lodo efficacia vincolante fra le parti dalla data della sua ultima sottoscrizione, deve escludersi che il decreto di esecutorietà sia in alcun modo assistito dal requisito della decisorietà, che è propria della sentenza arbitrale, né da quello della definitività, esistendo diversi modi per rimuoverne l'efficacia, con conseguente esclusione dell'attitudine di tale decreto a pregiudicare i diritti soggettivi derivanti dal rapporto definito con il lodo arbitrale, avendo rilevanza limitata alla sola possibilità di mettere in esecuzione il lodo.

Per Sez. 1, n. 9544, Rv. 631078, est. Di Virgilio, in tema di lodo arbitrale, l'attestazione che la deliberazione è stata adottata in conferenza personale di tutti gli arbitri e che, in ipotesi di omessa sottoscrizione da parte di arbitro dissenziente, questi non abbia voluto sottoscriverlo, benché costituisca - ai sensi del combinato disposto degli artt. 823, commi primo, secondo, n. 6, e terzo, e 829, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., nel testo vigente ratione temporis - requisito di validità della pronuncia, non richiede formule particolari, essendo sufficiente che dal testo del provvedimento risulti, anche in modo implicito, l'osservanza di dette modalità di deliberazione.

Peraltro, quando dallo stesso atto contenente il lodo risulti la sottoscrizione di tutti gli arbitri, adottata in un luogo ed in una data risultanti dal medesimo documento, non ricorre la necessità dell'apposizione della data a fianco delle singole sottoscrizioni, dovendosene presumere la contestualità (Sez. 1, n. 19324, Rv. 632215, est. Lamorgese).

È poi valido - secondo la già citata Sez. 1, n. 8868, Rv. 631157, est. Campanile - il lodo in cui il dispositivo e la relativa motivazione siano redatti e depositati in tempi diversi, perché, da un lato, il procedimento arbitrale è ispirato alla libertà delle forme e, dall'altro, tale lodo, ancorché non contenuto in unico documento (come, del resto, si verifica in alcuni procedimenti speciali previsti dal codice di procedura civile), consente il raggiungimento dello scopo a cui è destinato, ex art. 156, terzo comma, cod. proc. civ., componendosi di una parte dispositiva e di una motivazione.

Infine, per una particolare questione processuale relativa al deposito del lodo ai fini della sua esecuzione, Sez. 6-1, n. 107, Rv. 629817, est. Bisogni, decidendo un conflitto negativo di competenza, ha affermato che "nel caso in cui il tribunale adito sull'istanza di declaratoria di esecutività di lodo arbitrale dichiari la propria incompetenza per territorio, il giudice successivamente adito, ove declini a sua volta, anche in sede di appello a seguito del reclamo proposto dalla controparte, la propria competenza, è tenuto a sollevare regolamento di competenza d'ufficio ex art. 45 cod. proc. civ., non ostandovi né la natura camerale del giudizio, né il disposto di cui all'art. 44 cod. proc. civ. (ricorrendo un'ipotesi di competenza funzionale ex art. 28 cod. proc. civ. in relazione all'art. 825 cod. proc. civ.), né, infine, la preclusione di cui all'art. 38 cod. proc. civ., instaurandosi il contraddittorio solo a seguito del reclamo alla corte d'appello, essendo disposta la declaratoria di esecutività con decreto inaudita altera parte".

5. L'impugnazione del lodo.

Anche su tale profilo, molteplici sono state le pronunce della Corte nel corso del 2014, con particolare riferimento alla complessa tematica del "catalogo" dei vizi.

5.1. Il giudizio di impugnazione.

In generale, per Sez. 1, n. 13898, Rv. 631409, est. Campanile, l'arbitrato rituale ha natura giurisdizionale per cui l'impugnazione del lodo è soggetta alla disciplina e ai principi che regolano il giudizio di appello, in quanto compatibili. Ne consegue che, in caso di tardiva iscrizione a ruolo, l'impugnazione è improcedibile, trovando applicazione l'art. 348, primo comma, cod. proc. civ. e non l'art. 171 cod. proc. civ.

Per Sez. 1, n. 2323, Rv. 629764, est. Genovese, nel processo di impugnazione per nullità del lodo arbitrale non è ammissibile l'intervento del terzo, rimasto estraneo al giudizio innanzi agli arbitri, svoltosi nel vigore della disciplina successiva alla legge 5 gennaio 1994, n. 25 ed antecedente a quella introdotta dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (che ha previsto e disciplinato tale intervento proprio con riferimento al giudizio arbitrale), restando la tutela dei diritti del terzo, eventualmente pregiudicati dalla sentenza arbitrale, affidata all'esperimento di un'ordinaria azione di accertamento, svincolata dall'osservanza dei termini di cui agli artt. 404 e 326 cod. proc. civ. e dalle regole di competenza risultanti dall'art. 828 cod. proc. civ.

In tema di lodo parziale, per Sez. 1, n. 8457, Rv. 630882, est. Campanile, il lodo parziale con il quale gli arbitri hanno escluso la propria "competenza" a pronunciarsi in ordine ad una specifica domanda, così definendo il merito della stessa, deve essere oggetto di impugnazione immediata ai sensi dell'art. 827, terzo comma, cod. proc. civ., avendo deciso una questione preliminare di merito a norma dell'art. 279, secondo comma, n. 4, in riferimento all'ipotesi di cui allo stesso art. 279, secondo comma, n. 2, cod. proc. civ.

Ancora sul lodo parziale, per Sez. 2, n. 16963, Rv. 631855, est. Migliucci, il lodo parziale è immediatamente impugnabile, ai sensi dell'art. 827, terzo comma, cod. proc. civ., solo nel caso in cui, decidendo su una o più domande, abbia definito il giudizio relativamente ad esse, attesa l'esecutività che il lodo stesso può assumere in questa ipotesi; viceversa, l'immediata impugnabilità deve essere esclusa quando il lodo abbia deciso questioni preliminari di merito senza definire il giudizio, come, nella specie, rigettando l'eccezione di prescrizione.

5.2. I motivi di impugnazione per nullità.

In generale, sulla qualificazione del lodo ai fini dell'impugnazione, Sez. 1, n. 2127, Rv. 629453, est. Forte, ha chiarito che in caso di domanda di nullità del lodo, la qualificazione dell'arbitrato come rituale o irrituale costituisce un fatto impeditivo, modificativo o estintivo del diritto tutelato, non potendo quindi qualificarsi come domanda o eccezione "nuova", in quanto non si tratta di questione attinente alla competenza ma preliminare di merito.

Nel caso di giudizio di equità, per Sez. 1, n. 10805, Rv. 631480, est. Genovese, in ipotesi di arbitrato rituale di equità, ove non venga dedotta in sede di impugnazione la totale mancanza di potestas iudicandi degli arbitri per eccesso di potere derivante dall'esorbitanza dei limiti segnati dalle parti al loro potere decisorio, il giudice dell'impugnazione non è tenuto a verificare l'applicazione in concreto dei criteri equitativi nella decisione della controversia, non essendo sindacabile il corretto esercizio dei suddetti poteri.

Sui singoli motivi di impugnazione, per Sez. 1, n. 21215, Rv. 632410, est. Mercolino, qualora il lodo abbia pronunciato su una controversia in nessun modo riconducibile al compromesso o all'oggetto della clausola compromissoria viene meno la stessa investitura degli arbitri, sicché è configurabile il vizio di cui all'art. 829, primo comma, n. 1, cod. proc. civ. (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modificazioni introdotte dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), secondo cui il lodo è nullo non solo nell'ipotesi di sua inesistenza o di specifici vizi genetici del negozio compromissorio, ma anche nel caso in cui si riveli insussistente la potestà decisoria arbitrale, e tale vizio è rilevabile anche d'ufficio dal giudice dell'impugnazione, a cui compete il potere di accertare la volontà delle parti di deferire ad arbitri la risoluzione di talune controversie attraverso l'interpretazione delle espressioni in cui si coagula il consenso negoziale. Ancora sulla potestas iudicandi degli arbitri, Sez. 1, n. 21100, in corso di massimazione, est. Campanile, ha affermato che la positiva verifica dei poteri degli arbitri postula l'identità tra le parti del giudizio arbitrale e quelle che hanno stipulato il contratto e la clausola compromissoria, sicché l'accertamento della legitimatio ad causam di queste ultime coinvolge la stessa potestas iudicandi degli arbitri, il cui difetto, comportando un vizio insanabile del lodo ex art. 829 cod. proc. civ. (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), è rilevabile d'ufficio nel giudizio di impugnazione, anche in sede di legittimità, indipendentemente dalla sua deduzione nel procedimento arbitrale, quando derivi da nullità del compromesso o della clausola compromissoria.

Per Sez. 1, n. 11895 (Rv. 631478), est. Salvago, la sanzione di nullità prevista dall'art. 829, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. per il lodo contenente disposizioni contraddittorie non corrisponde a quella dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., ma va intesa nel senso che detta contraddittorietà deve emergere tra le diverse componenti del dispositivo, ovvero tra la motivazione ed il dispositivo, mentre la contraddittorietà interna tra le diverse parti della motivazione, non espressamente prevista tra i vizi che comportano la nullità del lodo, può assumere rilevanza, quale vizio del lodo, soltanto in quanto determini l'impossibilità assoluta di ricostruire l'iter logico e giuridico sottostante alla decisione per totale assenza di una motivazione riconducibile al suo modello funzionale.

Circa il vizio di cui al n. 5 dell'art. 829 cod. proc. civ., per Sez. 1, n. 2807, Rv. 629636, est. Lamorgese, qualora, con l'impugnazione per nullità, si sostenga che il lodo arbitrale sia stato sottoscritto in data diversa da quella da esso risultante, al fine di far accertare la tardività del deposito del lodo medesimo, si deduce una questione di falso, ammissibile solo se proposta con rituale querela, secondo le forme di cui all'art 221 cod. proc. civ.

Secondo la già citata Sez. 1, n. 131, Rv. 629302, est. Campanile, la previsione di cui all'art. 829, primo comma, n. 8, cod. proc. civ., come modificato dalla legge 5 gennaio 1994, n. 25, (ratione temporis applicabile), si riferisce all'ipotesi in cui il lodo è contrario ad altro lodo non più impugnabile o ad una sentenza passata in giudicato emessi in altro procedimento arbitrale o giurisdizionale, sicché, in caso di un lodo definitivo contrario ad un lodo non definitivo emesso nello stesso procedimento arbitrale, non ricorre la detta ipotesi, né quella di cui all'art. 829, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., di contraddittorietà di disposizioni, poiché ciò comporterebbe il venir meno dell'autonomia del lodo non definitivo, configurandosi, invece, una nullità per essere stata la pronuncia resa al di fuori dei limiti funzionali della convenzione di arbitrato.

Con riferimento al terzo comma dell'art. 829 cod. proc. civ., nel testo riformato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, sull'impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, Sez. 1, n. 12379, Rv. 631488, est. Macioce, ha dato continuità all'indirizzo interpretativo sulle questioni di diritto transitorio esplicitato da Sez. 1, n. 6148 del 2012, Rv. 622519, est. Cristiano, così massimata: "le modifiche apportate all'art. 829 cod. proc. civ. dalla legge di riforma di cui al d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 sono volte a delimitare l'ambito d'impugnazione del lodo arbitrale, laddove le convenzioni concluse prima della sua entrata in vigore continuano ad essere regolate dalla legge previgente, che disponeva l'impugnabilità del lodo per violazione della legge sostanziale, a meno che le parti non avessero stabilito diversamente; ne consegue che, in difetto di una disposizione che ne sancisca la nullità o che obblighi le parti ad adeguarle al nuovo modello, la salvezza di tali convenzioni deve ritenersi insita nel sistema, pur in difetto di un'esplicita previsione della norma transitoria".

Infine, per la già citata Sez. 1, n. 19324, Rv. 632214, est. Lamorgese, la denuncia di nullità del lodo arbitrale postula, in quanto ancorata agli elementi accertati dagli arbitri, l'esplicita allegazione dell'erroneità del canone di diritto applicato rispetto a detti elementi, e non è, pertanto, proponibile in collegamento con la mera deduzione di lacune d'indagine e di motivazione, che potrebbero evidenziare l'inosservanza di legge solo all'esito del riscontro dell'omesso o inadeguato esame di circostanze di carattere decisivo.

6. Procedimento arbitrale e "ragionevole durata".

Interessanti questioni si sono poste anche nel procedimento arbitrale in relazione al tema, di evidente attualità, della "ragionevole durata del processo". Per Sez. 2, n. 143, Rv. 628959, est. Bianchini, ai fini della liquidazione dell'indennizzo per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, il giudizio di impugnazione del lodo innanzi alla corte d'appello è equiparabile ad un giudizio di primo grado, perché il cittadino che adisce la giustizia ordinaria ha la fondata aspettativa di ottenere una decisione finale di merito in cinque anni, mentre questa aspettativa cade quando egli si rivolge in primis all'arbitrato rituale.

Per Sez. 6-2, n. 3316, Rv. 629707, est. Carrato, ai fini della determinazione della ragionevole durata del processo, non rileva il tempo di svolgimento della procedura arbitrale, ancorché, a seguito di impugnazione del lodo, la controversia sia sfociata nel giudizio civile ordinario, della cui durata trattasi, ciò in quanto l'arbitrato, pur se rituale, ha natura privatistica ed è esterno all'esercizio della funzione giurisdizionale.

7. Rapporti tra giustizia arbitrale e giustizia ordinaria.

Sul presupposto della natura giurisdizionale del procedimento di arbitrato rituale, sostitutivo del giudizio ordinario, affermato da Sez. U, n. 24153 del 2013, Rv. 627788, est. Segreto, nel corrente anno Sez. 1, n. 17908, Rv. 632217, est. Didone, ha a sua volta affermato che "è inammissibile l'appello avverso la decisione del tribunale declinatoria della propria competenza a favore degli arbitri rituali, poiché l'attività di questi ultimi ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché la relativa questione può essere fatta valere solo con regolamento di competenza".

In tema di giudicato sull'esistenza e sulla validità della clausola compromissoria, poi, Sez. 1, n. 21213, Rv. 622772, est. Mercolino, ha affermato che "la sentenza dichiarativa dell'improponibilità della domanda, perché devoluta alla cognizione degli arbitri, non vincola questi ultimi quanto alla giuridica esistenza ed alla validità della clausola compromissoria, spettando ad essi di verificare la regolarità della loro investitura ad opera dei contraenti. Ne consegue che il giudicato derivante dall'omessa impugnazione di quella statuizione è meramente formale, preclusivo della riproposizione della medesima questione davanti al giudice dello stesso processo, ma non in un diverso giudizio promosso dalle parti dinanzi ad altra autorità giudiziaria, né spiega efficacia vincolante nel successivo procedimento arbitrale, che non è la prosecuzione di quello originariamente instaurato, ma costituisce una definizione negoziale della lite, la cui previsione comporta l'improponibilità suddetta per effetto della rinuncia delle parti alla giurisdizione".

8. Arbitrato estero.

In tema di arbitrato estero, va segnalata Sez. U, n. 1005, Rv. 628870, est. Spirito, che, in tema di regolamento preventivo di giurisdizione, si è posta in continuità con il revirement di Sez. U, n. 24153 del 2013, Rv. 627787, est. Segreto, la quale, in conseguenza della riconosciuta funzione giurisdizionale dell'arbitrato rituale, ha ammesso che, proposta l'eccezione di arbitrato estero, sia esperibile il regolamento di giurisdizione. La pronuncia in esame ha pertanto affermato che "In presenza di una clausola compromissoria di arbitrato estero, l'eccezione di compromesso, attesa la natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario da attribuirsi all'arbitrato rituale in conseguenza delle disciplina complessivamente ricavabile dalla legge 5 gennaio 1994, n. 5 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, deve ricomprendersi, a pieno titolo, nel novero di quelle di rito, dando così luogo ad una questione di giurisdizione e rendendo ammissibile il regolamento preventivo di cui all'art. 41 cod. proc. civ., precisandosi, peraltro, che il difetto di giurisdizione nascente dalla presenza di una clausola compromissoria siffatta può essere rilevato in qualsiasi stato e grado del processo a condizione che il convenuto non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana, e dunque solo qualora questi, nel suo primo atto difensivo, ne abbia eccepito la carenza".

9. L'arbitrato in materia di appalti pubblici.

Nella materia delle opere pubbliche, per Sez. 1, n. 6290, Rv. 630043-630044, est. Mercolino, nell'esaminare una fattispecie relativa ad una controversia sull'esecuzione di un contratto di appalto stipulato da una regione quale ente delegato dalla Cassa per il Mezzogiorno, deferita al giudizio degli arbitri, ha affermato che la declinatoria della competenza arbitrale costituisce l'esercizio di un diritto potestativo di carattere sostanziale, che, attuandosi mediante un negozio unilaterale ad effetti anche processuali, di natura esterna al processo ed antecedente ad esso, postula una manifestazione di volontà chiara ed inequivocabile dell'amministrazione, volta a ricondurre la controversia nell'ambito della giurisdizione, attraverso l'esclusione della cognizione arbitrale, che rispetto a questa si pone come eccezione alla regola. Inoltre, con riferimento alla specifica controversia, la Corte ha escluso la natura convenzionale dell'arbitrato previsto dal contratto stipulato tra le parti, cosicché, ai fini della costituzione del collegio arbitrale, trova applicazione l'art. 45 del capitolato generale delle opere pubbliche, approvato con d.P.R. 16 luglio 1962 n. 1063, in ragione del rinvio di cui all'art. 8, ultimo comma, della legge 10 agosto 1950, n. 646. Invero, nei contratti di appalto stipulati da enti concessionari o delegati dalla Cassa per il Mezzogiorno, eventuali deroghe pattizie alla disciplina dettata per le opere pubbliche dello Stato possono avere effetto esclusivamente rispetto a quelle norme del d.P.R. n. 1063 del 1962 che rivestono carattere dispositivo, e non già con riguardo a quelle dotate di forza cogente, tra le quali deve essere annoverato anche l'art. 45 citato.

Qualora poi il contratto di appalto stipulato tra l'ente pubblico e la società appaltatrice abbia previsto l'applicazione del capitolato generale delle opere pubbliche di cui al d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, è legittima - Sez. 1, n. 10000, Rv. 631080, est. Di Virgilio - la pattuizione di una clausola compromissoria, in deroga all'art. 45 del d.P.R. n. 1063 cit., che preveda la costituzione di un collegio arbitrale composto da tre anziché da cinque membri ed il cui contenuto non sia evincibile da un unico documento avente forma scritta, ma dalla volontà in tal senso manifestata, da un lato, dalla società appaltatrice (con la notificazione della domanda di arbitrato, la contestuale nomina dell'arbitro e l'invito all'ente pubblico a nominare l'arbitro di competenza) e, dall'altro, dall'ente pubblico (con la nomina dell'arbitro, la successiva designazione del terzo arbitro con funzioni di presidente del collegio arbitrale e con l'invito alla controparte ad esprimere l'accettazione del terzo arbitro, espressa dalla società appaltatrice con lettera inviata all'ente).

Le previsioni del capitolato generale d'appalto per le opere pubbliche di cui al d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, espressamente richiamate dai contratti di appalto stipulati dalle amministrazioni non statali, costituiscono peraltro - Sez. 1, n. 19025, Rv. 632089, est. Benini - clausole negoziali operanti per volontà pattizia, ivi compresa quella che regola la composizione del collegio arbitrale (e che può essere identica o diversa da quella di cui al capitolato generale). Ne consegue che, proprio in ragione della natura negoziale di tale ultima clausola, la nuova disciplina sulla composizione dei collegi arbitrali di cui all'art. 32 della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (nel testo sostituito dall'art. 10 della legge 10 novembre 1998, n. 418), benché immediatamente operante con riferimento ai collegi da costituire, non trova applicazione agli arbitrati in materia di opere pubbliche espletati o espletandi ai sensi del d.P.R. n. 1063 del 1962 aventi fondamento pattizio.

Va ricordata inoltre Sez. 1, n. 19531, Rv. 632490, est. De Marzo, che, in una fattispecie in cui la sentenza impugnata aveva ritenuto che l'essersi la P.A. difesa dinanzi agli arbitri, contribuendo alla scelta del presidente del collegio e proponendo domanda riconvenzionale, avesse determinato la rinuncia alla formulata declinatoria della loro competenza, ha affermato che la declinatoria della competenza arbitrale costituisce l'esercizio di un diritto potestativo di carattere sostanziale, che, attuandosi mediante un negozio unilaterale ad effetti anche processuali, di natura esterna al processo ed antecedente ad esso, postula una manifestazione di volontà chiara ed inequivocabile della P.A., volta a ricondurre la controversia nell'ambito della giurisdizione, attraverso l'esclusione della cognizione arbitrale, che rispetto a questa si pone come eccezione alla regola, senza che tali scelte difensive, anche finalizzate alla sottoposizione della questione della ritualità della declinazione di competenza al collegio arbitrale, possano di per sé esprimere una rinuncia univoca agli effetti della stessa.

Infine, deve essere menzionata Sez. 1, n. 12705, Rv. 631370, est. Campanile, che, esaminando la normativa in materia di provvedimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti da calamità naturali e di intervento statale per l'edilizia residenziale per Napoli, ha dato continuità al precedente di cui a Sez. 1, n. 13464 del 2010, Rv. 613537, sulla unitarietà di tale complessiva disciplina circa la facoltà di accesso all'arbitrato, ribadendo pertanto il divieto di deferimento ad arbitri delle relative controversie.

10. L'arbitrato societario.

Nella materia societaria, Sez. 1, n. 3665, Rv. 630038-630039, est. Di Virgilio, ha ritenuto che la clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società di persone, che preveda la nomina di un arbitro unico ad opera dei soci e, nel caso di disaccordo, ad opera del presidente del tribunale su ricorso della parte più diligente, è affetta, sin dalla data di entrata in vigore del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, da nullità sopravvenuta rilevabile d'ufficio - ove non fatta valere altra e diversa causa di illegittimità in via d'azione - con la conseguenza che la clausola non produce effetti e la controversia può essere introdotta solo davanti al giudice ordinario. Ha inoltre ritenuto che la clausola compromissoria contenuta nello statuto societario, la quale, non adeguandosi alla prescrizione dell'art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, non preveda che la nomina degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla società, è nulla anche ove si tratti di arbitrato irrituale.

Le norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizio sono inderogabili in quanto la loro violazione determina una reazione dell'ordinamento a prescindere dalla condotta delle parti e rende illecita la delibera di approvazione e, quindi, nulla. Tali norme, infatti, non solo sono imperative, ma contengono principi dettati a tutela, oltre che dall'interesse dei singoli soci ad essere informati dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere l'effettiva situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente. Ne consegue che, non essendo venuta meno l'indisponibilità dei diritti protetti dalle suddette disposizioni a seguito della riforma di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 - che agli artt. 2434 bis e 2379 cod. civ. ha previsto termini di decadenza per l'impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio e, in via generale, per l'impugnazione delle delibere nulle - non è compromettibile in arbitri la controversia relativa alla validità della delibera di impugnazione del bilancio (Sez. 6-1, n. 13031, Rv. 631360, est. Cristiano).