APPROFONDIMENTI TEMATICI APPROFONDIMENTI TEMATICI

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  • maternità

CAPITOLO I

IL FIGLIO DI DUE MADRI

(di Paolo Di Marzio )

Sommario

1 La vicenda personale ed i giudizi di merito. - 2 Il ricorso per Cassazione proposto dal Procuratore generale della Corte d'Appello di Torino. - 3 Il ricorso proposto dal Ministero dell'Interno. - 4 Gli istituti giuridici coinvolti: 4a)La fecondazione eterologa. - 4b) La surrogazione di maternità. - 4c) Il matrimonio omosessuale. - 5 La decisione adottata dalla Suprema Corte. - BIBLIOGRAFIA

1. La vicenda personale ed i giudizi di merito.

Le signore R.V.M., di nazionalità spagnola, e L.M.B., cittadina italiana, hanno contratto matrimonio in Spagna il 20.6.2009. Dal certificato di nascita del minore risulta che sono entrambe madri di T.B.V., bambino che porta i cognomi di ambedue ed è nato a Barcellona il 21.2.2011.

La signora L.M.B. ha donato gli ovuli necessari per il concepimento del bambino mediante fecondazione eterologa, ed è pertanto madre genetica del piccolo, mentre la gravidanza è stata portata avanti fino alla nascita dalla signora R.V.M., madre partoriente; il minore è cittadino spagnolo.

Le signore hanno domandato congiuntamente la trascrizione dell'atto di nascita del bambino in Italia nel corso dell'anno 2013. L'ufficiale dello stato civile di Torino, raccolto il parere contrario della locale Procura della Repubblica, ha opposto il rifiuto a trascrivere l'atto, ritenendo ostative ragioni di ordine pubblico. Le signore hanno proposto reclamo in data 30.7.2013.

Agli inizi dell'anno 2014 R.V.M. e L.M.B. hanno divorziato consensualmente, sempre in Spagna, sulla base di un accordo sottoscritto il 21.10.2013, in cui si prevede l'affidamento congiunto del minore con condivisione tra le due donne delle responsabilità genitoriali.

Avverso il diniego di trascrizione opposto dall'Ufficiale dello stato civile R.V.M. e L.M.B. hanno proposto reclamo ai sensi dell'art. 96 del d.P.R. n. 396 del 2000, che è stato respinto dal Tribunale di Torino con decreto del 21.10.2013, ritenendo sussistere un ostacolo di ordine pubblico, perché nell'ordinamento italiano madre è (solo) colei che partorisce. Il Tribunale ha evidenziato che le domande originariamente proposte dalle due donne erano state: 1) l' accertamento del rapporto di filiazione intercorrente tra il minore e L.M.B., cittadina italiana; 2) l'accertamento dei requisiti di legge per il riconoscimento nello Stato italiano dell'atto di nascita del bambino; 3) l'accertamento dei requisiti di legge per l'acquisto, da parte del minore, della cittadinanza italiana; 4) l'ordine, da impartirsi all'Ufficiale dello stato civile, di provvedere alla annotazione e trascrizione nei registri dell'anagrafe dell'atto di nascita del bambino.

Annotava il Tribunale che nell'atto di nascita del minore allegato dalle parti in integrale, il minore risultava figlio della madre A, di cittadinanza spagnola, e della madre B, di cittadinanza italiana, mentre nel certificato di nascita «prodotto per estratto, la prima risulta essere il padre e la seconda la madre». Osservava, inoltre, che le domande volte ad ottenere l'accertamento del rapporto di filiazione ed il riconoscimento della cittadinanza italiana al minore (comunque cittadino spagnolo) non potevano essere esaminate nella procedura attivata ai sensi dell'art. 96 del d.P.R. n. 396 del 2000, prevista per contestare, in sede di volontaria giurisdizione, il rifiuto opposto dall'Ufficiale dello stato civile dal compiere un atto di sua competenza. Unica domanda ammissibile nell'ambito del giudizio promosso era quindi quella volta all'«accertamento dei requisiti di legge per il riconoscimento, nello Stato Italiano, dell'atto di nascita del minore ... domanda che deve essere riformulata come volta ad ottenere la trascrizione dell'atto di nascita formato all'estero».

Il Tribunale rilevava però che al fine della trascrizione di atti di nascita formati all'estero, le disposizioni che regolano la materia sono gli artt. 17 (Trasmissioni di atti) e 19 (Trascrizioni) del d.P.R. n. 396 del 2000. La prima norma disciplina la trasmissione, curata dall'Autorità Consolare all'Ufficiale dello stato civile italiano, degli atti e provvedimenti relativi al cittadino italiano formati all'estero perché possa provvedersi alla trascrizione. La seconda disposizione regola invece gli atti dello stato civile redatti all'estero ed in relazione a cittadini stranieri, residenti però in Italia, che possono essere trascritti presso il Comune di residenza degli interessati nel nostro Paese. Nel caso in esame, però, il minore è un cittadino straniero e risiede all'estero, non vi sono perciò le condizioni perché gli atti che lo riguardano siano trascritti nei registri dell'anagrafe italiana.

Il Tribunale ha perciò concluso che non possa procedersi alla trascrizione dell'atto di nascita, formato all'estero, del minore T.B.V., ai sensi dell'art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000, per contrarietà con l'ordine pubblico, inteso come insieme di principi desumibili dalla Carta Costituzionale o comunque fondanti l'intero assetto ordinamentale, fra i quali le norme in materia di filiazione che fanno espresso riferimento ai concetti di padre, madre, marito e moglie. In particolare osta alla trascrizione, nel caso di specie, il principio immanente nel nostro ordinamento secondo il quale la madre è solo colei che partorisce il bambino (art. 269, comma 3, c.c.).

Le reclamanti hanno quindi proposto impugnazione domandando alla Corte d'Appello di Torino, previa revoca del decreto impugnato, di accertare e dichiarare esistente il rapporto di filiazione tra il minore e la sig.ra L.M.B. ai sensi dell'art. 33 della L. n. 218 del 1995; di rilevare che sussistono i requisiti di legge per il riconoscimento nello Stato Italiano dell'atto di nascita del minore e del conseguente diritto di quest'ultimo ad acquisire la nazionalità italiana; di ordinare all'Ufficiale dello stato civile di Torino di provvedere alla trascrizione e\o annotazione nei Pubblici Registri dell'Anagrafe dell'atto di nascita del minore con ogni consequenziale provvedimento di legge ritenuto opportuno per la tutela di T.B.V.

Ha rilevato la Corte di merito che il minore è nato in Spagna e secondo il diritto spagnolo l'italiana L.M.B. è madre legittima, in applicazione del principio del ius sanguinis, tanto quanto la spagnola R.V.M. e le due donne sono indicate nel certificato di nascita - Certification Literal - del registro dello stato civile del Comune di Barcellona come "madre A" e "madre B". Alla trascrizione del certificato di nascita del minore può pertanto procedersi ai sensi dell'art. 17 del d.P.R. n. 396 del 2000. Secondo la Corte d'Appello, dal disposto dell'art. 33 della l. n. 218 del 1995 discende, con evidenza, che la norma di diritto internazionale privato attribuisce ai provvedimenti accertativi (certificato di nascita) dello Stato estero ogni determinazione in ordine al rapporto di filiazione, con conseguente inibizione al giudice italiano di sovrapporre propri accertamenti sulla validità di un titolo che è valido per la legge nazionale di rinvio (cfr. Cass. Sez. 1, n. 00367/2013, Cass. Sez. 1, n. 14545/2003).

Occorreva tuttavia anche valutare se la trascrizione dell'atto di nascita del minore dovesse ritenersi non consentita per contrasto con l'ordine pubblico italiano.

I giudici dell'appello hanno ritenuto di aderire, al proposito, all'orientamento proposto dalla Suprema Corte (Cass. Sez. 3, n. 19405/2003; Cass. Sez. L, n. 10070/2013, che richiama Cass. Sez. 1, n. 17349/2012 e Cass. Sez. L, n. 04040/2006) secondo cui il concetto di ordine pubblico ai fini internazional-privatistici si identifica con quello indicato con l'espressione "ordine pubblico internazionale", da intendersi come «complesso di principi fondamentali caratterizzanti l'ordinamento interno in un determinato periodo storico e fondati su esigenze di garanzia comuni ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, sulla base di valori sia interni che esterni all'ordinamento purché accettati come patrimonio condiviso in una determinata comunità giuridica sovranazionale».

Questa premessa è risultata necessaria per affermare che, nonostante il coinvolgimento di numerose situazioni problematiche nella vicenda in esame, operando anche riferimento alla necessità di valorizzare il superiore interesse del minore, il possibile contrasto con l'ordine pubblico interno doveva essere escluso. Questo doveva affermarsi sebbene in Italia il matrimonio omosessuale non riceva un riconoscimento legale, non si preveda la possibilità che un bambino abbia una madre (ulteriore e, comunque,) diversa dalla partoriente, la inseminazione eterologa sia consentita solo a coppie infertili di sesso diverso e la maternità surrogata sia vietata, prevedendosi l'irrogazione di sanzione penale per i trasgressori.

Secondo i Giudici torinesi occorreva valorizzare adeguatamente il preminente interesse del minore che, ove il suo atto di nascita non fosse stato trascritto, non avrebbe avuto in Italia un esercente la responsabilità genitoriale e nessuno avrebbe potuto esercitarne la rappresentanza con riferimento a problematiche sanitarie, scolastiche e ricreative; oltre all'incertezza giuridica in cui si sarebbe trovato nella società italiana, il minore si sarebbe anche visto privato dei rapporti successori nei confronti della famiglia della madre genetica ma non partoriente.

In conseguenza di queste valutazioni la Corte d'Appello di Torino, con decreto depositato il 4.12.2014, ha accolto il reclamo ed ha ordinato all'Ufficiale dello stato civile di Torino di trascrivere l'atto di nascita del minore, figlio di due madri.

2. Il ricorso per Cassazione proposto dal Procuratore generale della Corte d'Appello di Torino.

Avverso il decreto emesso dalla Corte d'Appello ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale di Torino.

Il ricorrente ha osservato che il «tema centrale della questione» consiste nel verificare se la trascrizione dell'atto di nascita del figlio di due madri comporti la violazione dell'ordine pubblico italiano, ostandovi in tal caso il limite previsto dagli artt. n. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000, e n. 65 della l. n. 218 del 1995.

La Corte d'Appello di Torino, ha ricordato l'impugnante, aveva richiamato la giurisprudenza della Suprema Corte laddove afferma che in materia di ordine pubblico, ai fini internazional-privatistici, il concetto rilevante è quello di ordine pubblico internazionale, da intendersi come il complesso di principi fondamentali caratterizzanti non solo l'ordinamento interno ma anche esterni, «purché accettati come patrimonio condiviso in una determinata comunità giuridica sovranazionale», fermo restando che ogni giudizio il quale abbia conseguenze su di un minore deve essere orientato al rispetto del suo superiore interesse. Ha osservato allora il ricorrente che la Corte di merito non aveva però ritenuto di operare riferimento anche alla recente pronuncia della prima sezione civile della Suprema Corte del 26 settembre 2014, n. 24001. In questa decisione la Suprema Corte ha ribadito che l'ordine pubblico non si identifica con qualsiasi norma imperativa, consistendo esso nei principi fondamentali che caratterizzano l'ordinamento giuridico, mentre è invece inesatto affermare che l'ordine pubblico si identifichi con «i valori condivisi della comunità internazionale». L'ordine pubblico internazionale è il limite che l'ordinamento giuridico nazionale pone all'ingresso di norme e provvedimenti stranieri a protezione della sua coerenza interna, e «non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale», come sostenuto dai ricorrenti, «ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili». In quella decisione, pertanto, la Suprema Corte ha ritenuto che il divieto di pratiche di surrogazione di maternità, protetto da sanzione penale, attiene all'ordine pubblico. Contro questa valutazione non può invocarsi la migliore tutela del superiore interesse del minore, perché l'interesse del minore è stato valutato a monte dal legislatore, che ha deciso di riconoscere la maternità a chi ha partorito il bambino, consentendo peraltro di attivare l'istituto dell'adozione per assicurare al minore anche un secondo genitore che non abbia con lui legami biologici.

Il Procuratore ricorrente ha quindi sostenuto che il principio secondo cui «la filiazione sia necessariamente discendenza da persone di sesso diverso» appare come «un principio fondamentale, e addirittura immanente perché discendente dal diritto naturale». Un simile principio non può essere messo in discussione, conseguendone il contrasto con l'ordine pubblico «delle discipline che consentono soluzioni antitetiche, quale quella spagnola che consente la formazione di un atto di nascita nel quale al minore sono attribuite due madri».

Il Procuratore Generale di Torino domandava pertanto l'annullamento del decreto di accoglimento della domanda di trascrizione dell'atto di nascita del bambino indicato come figlio di due madri, pronunciato dalla Corte d'Appello di Torino, e la conferma del decreto di segno opposto pronunciato invece dal Tribunale di Torino in data 21.10.2013.

3. Il ricorso proposto dal Ministero dell'Interno.

Avverso il decreto della Corte d'Appello di Torino ha proposto impugnazione in Cassazione anche il Ministero dell'Interno.

Nel ricorso redatto quale difensore del Ministero, l'Avvocatura dello Stato ha innanzitutto contestato, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000, nonché degli artt. 5 e 9 della legge n. 40 del 2004.

Il ricorrente ha ricordato, a tal proposito, che l'art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000 dispone: «Gli atti formati all'estero non possono essere trascritti se sono contrari all'ordine pubblico», ed ha sostenuto che la nozione di ordine pubblico (internazionale) posta a fondamento della propria decisione dalla Corte d'Appello di Torino nel decreto impugnato, la quale ha indotto i giudici piemontesi a disporre la trascrizione dell'atto di nascita del minore, appare null'affatto condivisibile. La Corte di merito ha affermato, infatti, che l'ordine pubblico internazionale italiano sarebbe costituito dall'insieme di principi e di valori che rappresentano un «patrimonio condiviso in una determinata comunità giuridica sovranazionale», ma questa impostazione non può condividersi. «L'accoglimento di un'interpretazione così estensiva della nozione di ordine pubblico ... finirebbe per vuotare di ogni significato la stessa norma con la quale quel limite è stato introdotto dal legislatore italiano, rendendola assolutamente inutile e superflua ... invero, lo scopo precipuo della norma con la quale il legislatore impedisce la trascrizione di atti esteri contrari all'ordine pubblico è quello di salvaguardare quell'insieme di principi e valori ritenuti fondamentali nel nostro ordinamento al punto di essere considerati parte integrante e imprescindibile del sostrato giuridico nazionale».

Il ricorrente ha segnalato che pure la Suprema Corte ha talora proposto, in materia di diritto internazionale privato, definizioni dell'ordine pubblico assai estensive e non condivisibili. Anche il Ministero ha perciò inteso richiamarsi, adesivamente, alla nozione di ordine pubblico dettata dalla Cassazione con sentenza n. 24001 del 2014, analizzando proprio un caso di maternità surrogata, ed ha ricordato che la Corte di legittimità ha affermato con chiarezza che «l'ordine pubblico internazionale ... è il limite che l'ordinamento nazionale pone all'ingresso di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna, dunque non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili». Pertanto, secondo il ricorrente, «l'esistenza, nel nostro ordinamento, di principi 'fondamentali' e 'irrinunciabili'», importa che gli stessi «appaiano 'superabili' soltanto» per effetto di «un diverso approccio legislativo interno e non scardinabili dall'esistenza, in altri Paesi, di discipline legislative rappresentative di principi diversi e contrari ... tra questi, un principio fondamentale è senza dubbio quello inerente la nozione di filiazione che il nostro ordinamento intende esclusivamente quale discendenza da persone di sesso diverso». Tanto si desume pure dalla legislazione in materia di fecondazione assistita, cui le resistenti hanno fatto ricorso nel caso in esame, la quale prevede, all'art. 5 della legge n. 40 del 2004, che «possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». In relazione a questo profilo nulla è mutato a seguito della sentenza della Corte costituzionale che ha ritenuto in certi limiti ammissibile la pratica della fecondazione eterologa, da valutarsi pertanto impropriamente citata dai giudici della Corte di merito, ha osservato il ricorrente.

Del resto l'art. 12, comma 2, della stessa legge n. 40 del 2004, continua a prevedere l'irrogazione di sanzioni a carico di «chiunque a qualsiasi titolo, in violazione dell'art. 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi o uno dei componenti sia minorenne ovvero che siano composte da soggetti dello stesso sesso o non coniugati o non conviventi».

Ancora decisivo, al fine di escludere la possibilità di riconoscere l'esistenza di un rapporto di filiazione tra L.M.B. ("madre italiana"), che ha donato gli ovuli, ed il minore T.V.B., è poi il disposto di cui all'art. 9, comma 3, della legge n. 40 del 2004, laddove prevede che « in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi ... nel caso di specie, infatti, avendo» L.M.B. «donato gli ovuli ai fini del concepimento ... l'applicazione del citato articolo 9 precluderebbe la possibilità di riconoscere alla stessa alcun tipo di relazione giuridica parentale con il minore. In forza, dunque, della legislazione attualmente vigente nel nostro ordinamento e dell'intangibile principio ad essa sotteso concernente la nozione di filiazione quale discendenza da persone di sesso diverso, non può negarsi la palese contrarietà all'ordine pubblico della trascrizione di un atto di nascita, quale quello oggetto del presente giudizio, che riconosca ad un soggetto una duplice maternità», ha concluso l'Avvocatura sul punto.

In definitiva, secondo il Ministero dell'interno, il provvedimento straniero che attribuisca ad un soggetto una duplice maternità si pone in contrasto a tal punto radicale con diversi principi del nostro ordine pubblico da non potersi riconoscere efficace nel diritto interno.

4. Gli istituti giuridici coinvolti: 4a)La fecondazione eterologa.

Sembra opportuno ricordare che, pacificamente, il bambino di cui le ricorrenti hanno domandato la trascrizione dell'atto di nascita è nato a seguito di fecondazione eterologa, praticata nell'ambito di una coppia omosessuale.

Si attua una tecnica di fecondazione eterologa quando il seme maschile o l'ovulo femminile utilizzati per il concepimento non appartengono ad uno dei componenti della coppia che intende avere un bambino, bensì ad un donatore esterno alla stessa.

Prima del divieto introdotto dalla legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), alla fecondazione eterologa si ricorreva senza ostacoli normativi anche in Italia. Nel 1997 la pratica era attuata in ben 75 centri privati, che operavano nel rispetto delle direttive impartite con circolari ed ordinanze dal Ministero della sanità. In questo clima di sperimentazione del libero ricorso alle tecniche di fecondazione è poi intervenuta la ricordata legge n. 40 del 2004, che ha imposto il divieto assoluto di pratica della fecondazione eterologa.

Ha avuto così impulso in Italia il fenomeno del c.d. "turismo procreativo". In sostanza, anche le coppie sterili o infertili di connazionali che avrebbero avuto diritto ad accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ma non erano in grado di conseguire un concepimento omologo, hanno cominciato a recarsi all'estero per sottoporsi alla pratica della fecondazione eterologa.

Seguivano alcune pronunce contrastanti emesse dalle Corti europee. In particolare, la Sezione I della CEDU aveva affermato nel 2010 - caso S.H. and Others c. Austria, 1° aprile 2010 (C. 57813/00) - l'irragionevolezza del divieto assoluto di accesso alla fecondazione eterologa in Austria, un Paese che, come l'Italia, comunque consentiva la pratica della procreazione medicalmente assistita. La Grande Camera della stessa Corte, cui era stato deferito il medesimo giudizio su cui aveva in precedenza pronunciato la Prima Sezione, ha deciso il 3 novembre 2011 in senso (sostanzialmente) opposto, affermando che il legislatore austriaco dell'epoca non aveva ecceduto il limite di discrezionalità che doveva essergli riconosciuto nel disciplinare la materia evidenziando, tra l'altro, il rischio che la donazione di ovuli possa condurre allo sfruttamento ed alla umiliazione delle donne, con particolare riferimento a quelle provenienti da un contesto economicamente svantaggiato.

Quindi la Corte costituzionale, con la sentenza n. 162 del 2014, ha sancito l'incostituzionalità del divieto assoluto di ricorso alla fecondazione eterologa nel nostro ordinamento. La Consulta ha rilevato che il divieto senza eccezioni della fecondazione eterologa si poneva in contrasto con il diritto all'autodeterminazione delle persone e delle coppie ed il diritto alla salute, anche psichica, degli aspiranti genitori. La Corte costituzionale ha quindi osservato che, indubbiamente, i diritti della coppia che intendeva accedere alla pratica della fecondazione assistita dovevano porsi in bilanciamento con i diritti del possibile frutto del concepimento, il figlio, ed ha preso in considerazione, al proposito, i diritti all'identità genetica ed a conoscere il genitore biologico, nonché il rischio psicologico di vedersi attribuire una genitorialità non naturale. Ha osservato allora la Consulta che rischi analoghi si pongono anche in riferimento all'adozione, che non per questo è fatta oggetto di un divieto legislativo, dovendo anche tenersi presente che la pratica della fecondazione eterologa è finalizzata a favorire la vita, pertanto un valore positivo.

Il divieto di praticare la fecondazione eterologa è perciò venuto meno nel nostro Paese, per effetto della sentenza n. 162 del 2014 della Corte Costituzionale, ma solo in relazione alle «coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». La pratica della fecondazione eterologa nell' ambito di coppie di cui non sia accertata l'infertilità, ed anche di coppie di persone dello stesso sesso, in Italia continua pertanto ad essere vietata dalla legge senza eccezioni, anche a prescindere dal possibile collegamento con la pratica, anch'essa vietata, della surrogazione di maternità.

4b). La surrogazione di maternità.

In materia di trascrivibilità del certificato di nascita di un minore formato all'estero, quando ciò possa incontrare limiti di ordine pubblico, la prima sezione della Suprema Corte si è pronunciata di recente, in un caso che ha avuto anche ampia eco mediatica.

Due cittadini italiani, coniugati con problemi di infertilità, avevano ottenuto dalla locale Autorità dell'anagrafe un certificato di nascita in base al quale risultavano essere i genitori di un bambino nato in Ucraina.

Tornati in Italia erano stati assoggettati a procedimento penale per alterazione di stato, sospettandosi la non veridicità della loro dichiarazione di nascita relativa al bambino.

Il P.M. della Procura della Repubblica presso il competente Tribunale per i minorenni aveva promosso e conseguito anche la pronuncia dello stato di adottabilità del minore. Nel corso del giudizio i coniugi avevano dichiarato che il bambino era stato generato facendo ricorso alla maternità surrogata, in conformità con la legge ucraina che consente questa pratica. Il Tribunale accertava mediante consulenza tecnica che neppure il marito della coppia italiana era geneticamente padre del minore.

Il giudice di prime cure osservava che la pratica della maternità surrogata, così come la fecondazione eterologa, in Italia sono vietate dall'art. 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40. Inoltre, anche la legge ucraina era stata violata perché in quel Paese è consentita la maternità surrogata, ma a condizione che almeno il 50% del patrimonio genetico del bambino provenga dalla coppia committente.

Il Tribunale ne desumeva che il bambino avrebbe potuto essere soltanto adottato dai coniugi italiani e che la denuncia di filiazione da loro effettuata era perciò avvenuta in frode alla disciplina dell'adozione. Anche la Corte d'Appello, adita in sede di impugnazione, affermava che sebbene il certificato di nascita ucraino del minore risultasse formalmente regolare, non poteva ugualmente essere trascritto in Italia, ai sensi dell'art. 65 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) essendo contrario all'ordine pubblico, «atteso che la l. n. 40 del 2004 vieta qualsiasi forma di surrogazione di maternità e la stessa fecondazione eterologa». Ne conseguiva inevitabilmente l'accertamento della condizione di abbandono - e dunque lo stato di adottabilità - del bambino, ai sensi dell'art. 8 della legge 4 maggio 1983, n. 184, dato che il minore, nato in Ucraina, non era assistito in Italia né dai genitori né da altri parenti.

I coniugi proponevano allora ricorso anche per Cassazione, che si pronunciava con la ricordata sentenza n. 24001 del 2014, confermando la decisione adottata dai giudici di merito. La prima sezione della Suprema Corte coglieva l'occasione per chiarire che la nozione di ordine pubblico indicata dai ricorrenti, secondo cui esso consiste nei «valori condivisi della comunità internazionale», è (quanto meno) incompleta. L'ordine pubblico, invece, se è vero che certamente non si identifica con le «semplici norme imperative, bensì con i principi fondamentali che caratterizzano l'ordinamento giuridico», è anche vero che, nell'accezione di ordine pubblico internazionale, rappresenta il «limite che l'ordinamento giuridico nazionale pone alla rilevanza di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna», pertanto «non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili».

La Suprema Corte, operata la riassunta premessa, ha ricordato che «l'ordinamento italiano - per il quale madre è colei che partorisce (art. 269, comma 3, c.c.) - contiene all'art. 12, comma 6, l. n. 40 del 2004, un espresso divieto, rafforzato da sanzione penale, della surrogazione di maternità ... il divieto di pratiche di surrogazione di maternità è certamente di ordine pubblico, come suggerisce già la previsione della sanzione penale ... vengono qui in rilievo la dignità umana - costituzionalmente tutelata - della gestante e l'istituto dell'adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in contrasto». Merita peraltro di essere anche ricordato che, come segnalato dalla dottrina, la coppia di coniugi in questione «aveva per tre volte avanzato domanda di adozione. Tali richieste erano state respinte per 'grosse difficoltà nella elaborazione di una sana genitorialità adottiva'» [Distefano, 2015, 164].

La vicenda appena riassunta presenta comunque delle peculiarità che la distinguono dalle altre analoghe sinora sottoposte all'esame delle Corti. In questo caso, infatti, il Giudice italiano ha ritenuto di poter ritenere accertato che il certificato di nascita del bambino, di cui era stata domandata la trascrizione in Italia, risulta invalido anche per la legge del Paese in cui è stato formato. Inoltre, in questa ipotesi di nascita a seguito di maternità surrogata, neppure l'uomo della coppia committente aveva fornito alcun contributo genetico utilizzato per il concepimento del bambino.

Il Giudice di legittimità ha pure sinteticamente rilevato che il divieto di pratiche di surrogazione di maternità non è suscettibile di entrare in conflitto con la tutela del superiore interesse del minore, perché «il legislatore italiano, invero, ha considerato, non irragionevolmente, che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce».

4c). Il matrimonio omosessuale.

Una tematica che presenta motivi di interferenza con la questione della possibilità di trascrivere l'atto di nascita formato all'estero del bambino che è indicato quale figlio di due madri, sottoposta all'esame del Giudice di legittimità, è quella che si ricollega alla qualificazione che deve attribuirsi nel diritto italiano al matrimonio contratto tra persone dello stesso sesso.

Il problema della rilevanza nell'ordinamento interno di un simile matrimonio sembra essersi posto in sede giudiziaria per la prima volta nel 2005, a seguito del rifiuto opposto dall'Ufficiale dello stato civile del Comune di Latina, che era stato richiesto di procedere alla trascrizione del matrimonio contratto all'estero da due omosessuali. Questi ultimi contestarono la scelta dell'Autorità comunale innanzi al Tribunale di Latina, che ritenne però corretta la valutazione operata dall'Ufficiale dello stato civile, perché un simile matrimonio si pone in contrasto con l'ordine pubblico italiano. I richiedenti la trascrizione non mancarono di ricorrere in appello, e la Corte di merito di Roma affermò che il matrimonio omosessuale non può essere trascritto nei registri dello stato civile italiano perché è inesistente per il nostro ordinamento, in quanto difetta di un requisito essenziale dell'istituto, che consiste nella diversità di sesso tra i coniugi. Sulla ennesima impugnativa proposta dagli interessati la Suprema Corte, con la sentenza n. 04184/2012, ha affermato che il matrimonio omosessuale contratto all'estero non è inesistente per il diritto interno ma, non essendo normativamente previsto che esso possa sortire alcun effetto, lo stesso deve considerarsi inefficace. È parso opportuno ricordare questa vicenda perché sembra esemplarmente rappresentativa delle diverse opinioni che sono state espresse in materia di riconoscimento di un matrimonio omosessuale celebrato all'estero.

Nel caso delle due madri deciso dalla Suprema Corte in esame, merita peraltro di essere evidenziato che la domanda (residua) verteva sulla possibilità di trascrivere l'atto di nascita di un bambino, e non l'atto di matrimonio delle due donne che sono indicate entrambe quali sue madri nel documento.

Dei limiti entro cui può trovare riconoscimento il matrimonio omosessuale si è occupata la Corte costituzionale già con sentenza n. 138 del 2010. La Consulta ha osservato che per formazione sociale «deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l'unione omosessuale, quale stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l'aspirazione a tale riconoscimento (che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia) possa essere realizzata soltanto attraverso un'equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio».

La Corte costituzionale ha operato, pertanto, l'espresso riconoscimento del rilievo costituzionale, ex art. 2 Cost., delle unioni tra persone dello stesso sesso, intese quali formazioni sociali, ed ha ritenuto di dover rimettere al legislatore «nell'esercizio della sua piena discrezionalità, d'individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni omosessuali», unitamente alla possibilità della Corte stessa d'intervenire a tutela di specifiche situazioni (com'è avvenuto per le convivenze more uxorio).

A sua volta, la Suprema Corte, con la ricordata sentenza n. 4184 del 2012, investita del problema della possibilità di trascrivere nei registri d'anagrafe italiani un matrimonio omosessuale contratto all'estero, ha osservato che «il matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato all'estero non è inesistente per l'ordinamento italiano, ma soltanto inidoneo a produrre effetti giuridici», in assenza di una specifica previsione legislativa. La Corte ha pure specificato che «nella specie, l'intrascrivibilità di tale atto dipende non già dalla sua contrarietà all'ordine pubblico, ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18 ... ma dalla previa e più radicale ragione, riscontrabile anche dall'ufficiale dello stato civile in forza delle attribuzioni conferitegli, della sua non riconoscibilità come atto di matrimonio nell'ordinamento giuridico italiano. Ciò che, conseguentemente, esime il Collegio dall'affrontare la diversa e delicata questione dell'eventuale intrascrivibilità di questo genere di atti per la loro contrarietà con l'ordine pubblico».

L'evoluzione della giurisprudenza del Giudice di legittimità in materia ha poi condotto, di recente, ad affermare espressamente che la trascrizione del matrimonio omosessuale non incontra nell'ordinamento giuridico italiano limiti di ordine pubblico, Cass. Sez. I, n. 02400/2012.

In materia si è quindi pronunciato, con sentenza n. 4899 del 26.10.2015, anche il Consiglio di Stato, ed ha affermato che «anche escludendo ... l'applicabilità alla fattispecie considerata del fattore ostativo previsto all'art. 18» del d.P.R. n. 396 del 2000, «(non potendosi qualificare come contrario all'ordine pubblico il matrimonio tra persone dello stesso sesso), la trascrizione dell'atto in questione deve intendersi preclusa proprio dal difetto di uno degli indispensabili contenuti dell'atto di matrimonio trascrivibile», la diversità di sesso tra i coniugi.

5. La decisione adottata dalla Suprema Corte.

La prima sezione della Cassazione ha deciso il giudizio con sentenza della Sez. 1, n. 19599/2016 (Pres. Di Palma, Est. Lamorgese). Si tratta di una decisione meditata, lunga, articolata, che detta ben sette principi di diritto e non è agevole sintetizzare. Possono forse riassumersi le conclusioni scrivendo che gli ostacoli alla trascrizione dell'atto di nascita straniero del bambino figlio di due madri, poste dalla legislazione nazionale ed invocate dai ricorrenti, non deve ritenersi integrino principi dell'ordine pubblico italiano e non si risolvono, perciò, in ragioni sufficienti ad escludere la trascrizione del suo certificato di nascita, occorrendo assicurare la miglior tutela al preminente interesse del minore. In conseguenza la Suprema Corte ha confermato il decreto della Corte di Appello di Torino che aveva ordinato la trascrizione del certificato di nascita del bambino nei registri dello stato civile italiano.

Non essendo possibile, nei limiti di questo contributo, esaminare tutti i principi di diritto espressi dalla Corte di legittimità, sembra opportuno concentrare l'attenzione su almeno uno dei profili innovativi della decisione e quindi, necessariamente, sulla nozione di ordine pubblico adottata dalla Cassazione, perché suscettibile di trovare applicazione in un numero di casi molto elevato.

Il Giudice di legittimità ricorda innanzitutto, in materia di definizione di che cosa debba intendersi per maternità surrogata (punto 10.2), che «la legge n. 40 del 2004 non consente alle coppie dello stesso sesso di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (art. 5) e punisce chi le "applica" con una sanzione amministrativa pecuniaria (art. 12, comma 2)». Inoltre, «di "surrogazione di maternità" e di "commercializzazione di gameti o di embrioni" parla l'art. 12, comma 6, che le vieta con una norma che - come sottolineato dalla Corte cost. n. 162 del 2004 (al p. 9) - è attualmente in vigore e le punisce con una sanzione penale detentiva nei confronti di "chiunque, in qualsiasi forma, [le] realizza, organizza o pubblicizza"».

Tanto premesso, la Suprema Corte scrive che «per surrogazione di maternità o maternità surrogata (o gestazione per altri) si intende la pratica con la quale una donna assume l'obbligo di provvedere alla gestazione e al parto per conto di altra persona o di una coppia sterile, alla quale si impegna a consegnare il nascituro: in tal caso, una donna utilizza il corpo di un'altra donna che presta il proprio al solo fine di aiutarla a realizzare il suo esclusivo desiderio di avere un figlio.

Nel caso in esame, invece, una donna», la madre spagnola, «ha partorito un bambino (anche) per sé, sulla base di un progetto di vita della coppia costituita con la sua partner femminile ... quest'ultima non si è limitata a dare il consenso alla inseminazione da parte di un donatore di gamete maschile (evidentemente esterno alla coppia), ma ha donato l'ovulo che è servito per la fecondazione ed ha consentito la nascita» del bambino, partorito dalla madre spagnola e «frutto dell'unione di due persone coniugate in Spagna. È questa una fattispecie diversa e non assimilabile ad una surrogazione di maternità».

Sulla base di queste premesse la Corte di legittimità ha quindi dettato il principio di diritto secondo cui, in «tema di PMA, la fattispecie nella quale una donna doni l'ovulo alla propria partner (con la quale, nella specie, è coniugata in Spagna) la quale partorisca, utilizzando un gamete maschile donato da un terzo ignoto, non costituisce un'ipotesi di maternità surrogata o di surrogazione di maternità, ma un'ipotesi di genitorialità realizzata all'interno della coppia, assimilabile alla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per essere il feto legato biologicamente ad entrambe le donne registrate come madri in Spagna (per averlo l'una partorito e per avere l'altra trasmesso il patrimonio genetico)».

A quanto sembra la decisione della Cassazione intende la maternità surrogata come un'ipotesi limitata alla gestazione di un nascituro con l'impegno da parte della gestante di consegnare poi il bambino ai committenti a seguito della nascita. Questa situazione non ricorrerebbe nel caso di specie perché la madre gestante ha condotto innanzi la gravidanza, cui non aveva assicurato un contributo genetico, intendendo consentire la nascita di un bambino (anche) proprio.

In che cosa consista la pratica della maternità surrogata non lo dice la legge n. 40 del 2004 e, sembra, la nozione non è definita neanche in altri testi legislativi. Neppure la scienza sembra avere dettato sinora una definizione certa di che cosa debba intendersi quando si parla di maternità surrogata. La Cassazione ha ritenuto che, al fine di decidere la controversia sottopostale, occorresse comunque spiegare la pratica in che cosa consista, ma sembra opportuno osservare che la definizione proposta non è la sola ipotizzabile. In Spagna, ad esempio, si preferisce parlare della pratica indicandola come "gestazione per sostituzione". Intesa la maternità surrogata come una gestazione per sostituzione - e, si badi, è solo una delle ipotesi possibili, possono proporsene di ulteriori - rimane da dubitare che nel caso esaminato dalla Suprema Corte l'agire delle ricorrenti non abbia integrato la fattispecie. Di fatto una madre si è sostituita all'altra, che aveva donato il patrimonio genetico, nel portare innanzi la gravidanza. Se si pone l'accento sull'alterazione del ciclo naturale della nascita, qualsiasi gestazione per sostituzione potrebbe forse anch'essa qualificarsi come una surrogazione di maternità.

Particolare attenzione merita poi il concetto di ordine pubblico che la Cassazione ha ritenuto di indicare. La Suprema Corte ha dettato il principio di diritto (punto 7) secondo cui «il giudice italiano, chiamato a valutare la compatibilità con l'ordine pubblico dell'atto di stato civile straniero (nella specie, dell'atto di nascita), i cui effetti si chiede di riconoscere in Italia, a norma degli artt. 16, 64 e 65 della l. n. 218 del 1995 e 18 d.P.R. n. 396 del 2000, deve verificare non già se l'atto straniero applichi una disciplina della materia conforme o difforme rispetto ad una o più norme interne (seppure imperative o inderogabili), ma se esso contrasti con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo».

La questione di che cosa debba intendersi per ordine pubblico non è semplice. È complesso anche trovare un accordo sul se esista un solo ordine pubblico o se da questo debba distinguersi un ordine pubblico internazionale e, soprattutto, indicare in che cosa le due nozioni si differenziano.

Sicuramente condivisibile appare il rilievo che non ogni norma imperativa dell'ordinamento positivo integra un principio di ordine pubblico. Del resto, se così non fosse, non staremmo qui a parlare di "principi" di ordine pubblico, una nozione che, qualunque significato si intenda attribuirle, evidentemente si differenzia da quella di norme di legge.

La dottrina tradizionale afferma, e l'impostazione non pare meritevole di censura, che l'ordine pubblico si compone dei principi fondanti dell'ordinamento, desumibili dalla Costituzione e dalle leggi. Questo concetto permette di affermare che l'ordine pubblico deve desumersi dall'intero sistema dell'ordinamento positivo, considerato nel suo complesso, dovendo evincersi dallo stesso quali sono i principi fondamentali che lo reggono.

È indubbiamente vero, poi, che il disposto di cui agli articoli 10 ed 11 della Costituzione impone di tener conto degli impegni assunti dall'Italia in sede internazionale, e sembra possa condividersi pure l'opinione che dal diritto internazionale pattizio e consuetudinario possano desumersi principi che, in quanto recepiti nel nostro ordinamento, concorrono ad integrarne l'ordine pubblico. Ma è proprio questo il punto. Anche il diritto internazionale recepito costituisce un sistema di diritto vigente, ed è dall'intero sistema che sembra debbano desumersi i suoi principi.

La Cassazione scrive che l'ordine pubblico italiano deve ritenersi integrato, in materia di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, dai principi desumibili dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e ben venga. Nell'ampia materia in considerazione, peraltro, non sembrano da trascurare, ad esempio, i principi desumibili dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata in sede ONU nel 1948. Inoltre, pressoché in ogni settore del diritto esistono anche norme convenzionali che, essendo state recepite, sono ormai parte dell'ordinamento interno. In materia di tutela dei minori, ad esempio, può farsi riferimento alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1959 ed alla Convenzione europea di Strasburgo sull'esercizio dei diritti dei minori del 1996, e non solo.

Sembra allora che pure queste norme convenzionali possano ritenersi parte del sistema da cui occorre desumere i principi vigenti dell'ordine pubblico italiano.

Resta poi fermo che occorre anche domandarsi, nell'ipotesi di contrasto: tra un principio, qualificabile come fondamentale e desumibile da norme internazionali, con un diverso principio, anch'esso qualificabile come fondamentale, che sia però previsto dall'ordinamento nazionale, a quale dei due debba assicurarsi prevalenza. Ove si ritenesse che sia sempre il principio desunto dal diritto internazionale a dover prevalere, l'intero ordinamento giuridico nazionale, compresi i suoi principi fondamentali, finirebbe per dover essere considerato un sistema giuridico meramente dispositivo. Ogni principio pur fondamentale del nostro ordinamento giuridico, infatti, potrebbe considerarsi in vigore fin quando un principio anch'esso fondamentale, ma posto da fonte internazionale recepita, non si ponga in contrasto con esso.

Pare meritare una considerazione, inoltre, quello che sembra poter essere un problema, ma non ha ricevuto uno specifico esame da parte della Cassazione nella decisione in commento. Tradizionalmente si afferma che l'ordine pubblico è posto a presidio dei valori fondamentali dell'ordinamento, onde evitare che atti stranieri, anche giudiziari, possano essere riconosciuti efficaci nel nostro Paese quando si pongano in contrasto con i suoi principi fondamentali. Nel caso in esame, del bambino con due madri, è la stessa Suprema Corte a ribadire più volte, nel corso della decisione in esame, che le pratiche sottese alla nascita del bambino sono vietate nel nostro ordinamento. Tuttavia le due madri si sono giovate dell'elasticità delle norme del diritto internazionale privato, che trova la sua ragion d'essere nel facilitare il riconoscimento degli atti e delle decisioni straniere, per conseguire l'efficacia in Italia di un provvedimento che in base alle leggi nazionali non avrebbe potuto essere legittimamente adottato. Lo schema potrebbe essere riutilizzato più volte, anche in settori molto diversi dell'ordinamento, con conseguenze imprevedibili. Occorrerà pertanto individuare con attenzione quali siano gli atti ed i provvedimenti stranieri che tuttora non possono essere recepiti nel nostro Paese perché in contrasto con l'ordine pubblico italiano.

Nella specifica materia della maternità plurima, poi, suscita perplessità il fatto che, essendo il riconoscimento della stessa inibito dalla legislazione nazionale, si rischia l'insorgere della discriminazione censuaria tra le aspiranti, perché non tutte le donne unite in una coppia possono recarsi all'estero per porre in essere le pratiche necessarie per la nascita di un loro bambino. Inoltre, qualora si ritenesse di seguire in uno Stato estero che lo consenta la medesima pratica, donazione dell'ovulo parte di una donna e gestazione a cura dell'altra, nell'ambito di un rapporto trilaterale di cui sia parte anche un uomo conosciuto, padre genetico e semmai compagno di vita (coniuge?) di una delle due, quanti saranno i genitori? Chi eserciterà la responsabilità genitoriale? Sulle decisioni di maggiore importanza nell'interesse del minore occorrerà raggiungere un accordo a tre, decidendo a maggioranza? Tanti interrogativi.

In questo settore, peraltro, la questione di definire con la massima precisione quali siano i limiti al riconoscimento degli atti stranieri posti dall'ordine pubblico nazionale sembra ancora meritevole di approfondimento, ed il problema si presenta come assai attuale. La giurisprudenza di merito ha già esaminato il caso di due donne italiane, coniugate in Spagna, che hanno domandato la trascrizione del certificato di nascita di un bambino nato a Barcellona, a seguito di fecondazione eterologa. Nel documento spagnolo risultano essere entrambe madri del minore. La peculiarità del caso, rispetto a quello esaminato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, consiste nel fatto che una delle due donne indicate come madri nel certificato di nascita non ha fornito l'ovulo utilizzato per la fecondazione e neppure ha portato innanzi la gravidanza. Si tratta, in sostanza, di una donna che può forse definirsi come una co-madre sociale del bambino la quale, in base al diritto italiano, potrebbe al più accedere alla stepchild adoption (cfr. Cass. Sez. 1, n. 12962/2012, Pres. Di Palma, Est. Acierno), ma non potrebbe essere riconosciuta come madre del bambino. Il Tribunale di Napoli, con decreto depositato il 6.12.2016 (Pres. Casoria, Est. Sdino), ha ordinato all'Ufficiale dello stato civile di trascrivere anche questo atto di nascita straniero.

. BIBLIOGRAFIA

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C. CASTRONOVO, Fecondazione eterologa: il passo (falso) della Corte Costituzionale, in Europa e diritto privato, 3/2014, p. 117 ss.

M. DISTEFANO, Maternità surrogata ed interesse superiore del minore: una lettura internazionalistica su un difficile puzzle da ricomporre, in riv. telematica Genius, 1/2015 p. 164.

G. FERRANDO, La riproduzione assistita nuovamente al vaglio della Corte costituzionale. L'illegittimità del divieto di fecondazione "eterologa", in Corr. giur., 8-9/2014, p. 1062.

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P. MOROZZO DELLA ROCCA, Dove finirà l'embrione se il piano si inclina ancora?, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, p. 149.

  • indennità di licenziamento
  • licenziamento
  • soppressione di posti di lavoro

CAPITOLO II

I RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO

(di Luigi Di Paola, Ileana Fedele )

Sommario

1 Introduzione. - 2 La fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dipendente da riassetto aziendale: prevale l'orientamento "liberale". - 2.1 Le ragioni dell'orientamento "liberale" in una recentissima sentenza. - 2.2 Il problema del sindacato del giudice in ordine alla effettività e "non pretestuosità" del riassetto. - 3 La fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per effetto di riduzione del personale omogeneo e fungibile: rileva anche il criterio del rendimento del lavoratore. - 4 L'onere di allegazione e prova dell'obbligo di repechage. - 4.1 La tesi imperniata sull'estensione dell'obbligo di repechage alle mansioni inferiori. - 4.2 Implicazioni della riconducibilità dell'obbligo di repechage all'interno della fattispecie del giustificato motivo oggettivo. - 5 Considerazioni conclusive. - BIBLIOGRAFIA

1. Introduzione.

Nell'ultimo ventennio, sul tema del licenziamento per giustificato motivo oggettivo si sono registrate oscillazioni giurisprudenziali concernenti due fondamentali aspetti: a) quello della necessaria presenza di determinate ragioni (o finalità) a sostegno dell'operazione di riassetto organizzativo, nonché dei limiti del sindacato giudiziale sulla predetta operazione - culminante nella soppressione del posto del lavoratore licenziato - effettuata dal datore di lavoro; b) quello degli oneri di allegazione e prova del c.d. obbligo di repechage.

Quanto al primo aspetto, si è per lungo tempo escluso che il datore potesse conseguire, mediante l'operazione in questione, un mero profitto, atteso il valore riconosciuto alla stabilità del posto, quale obiettivo - scaturente, per taluno, da principi costituzionali - meritevole di essere salvaguardato, sia pur entro certi limiti, ossia fintanto che l'impresa si trovi ad operare in un quadro di accettabile efficienza, senza patire, pertanto, situazioni (sindacabili dal giudice) di apprezzabile difficoltà economica persistente (costituente la necessaria ragione remota dell'attività di riorganizzazione).

Quanto al secondo, il diffuso convincimento della eccesiva gravosità della prova dell'impossibilità, per il datore, di collocare il lavoratore in altri posti non occupati della compagine aziendale, con mansioni compatibili (equivalenti o, secondo un indirizzo riaffermato recentissimamente - e v., sul punto, il successivo § 4.1. -, anche inferiori) con quelle di originaria assegnazione, ha dato fondamento alla tesi - reputata espressione di un alleggerimento dell'onere - secondo cui l'ambito della prova è circoscritto alle indicazioni delle postazioni ipoteticamente disponibili prospettate, in esecuzione di un dovere di collaborazione, dal lavoratore.

Nell'anno in corso la S.C. ha avviato un processo di rivisitazione dei descritti orientamenti, pervenendo, in relazione al primo aspetto, ad una valorizzazione delle esigenze di competitività dell'impresa e, in relazione all'altro, a ristabilire la piena corrispondenza tra oneri di allegazione e probatori.

D'altra parte, la sempre più marcata considerazione per l'efficienza dell'apparato produttivo, strettamente collegata al rendimento dei singoli lavoratori, suggerisce di segnalare ulteriormente una interessante presa di posizione della S.C., versosimilmente destinata a trovare successive conferme, in tema di criteri di scelta - integrati, appunto, anche dall'entità quantitativa e qualitativa della prestazione lavorativa - dei licenziandi, per effetto di soppressione del posto in presenza di più posizioni fungibili.

2. La fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dipendente da riassetto aziendale: prevale l'orientamento "liberale".

Punto di approdo del dibattito è Sez. L, n. 13516/2016, Manna, Rv. 640460, ove è precisato che il datore di lavoro, «nel procedere al riassetto della sua impresa, può ricercare il profitto mediante la riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi, fermo il limite che il suo obbiettivo non può essere perseguito soltanto con l'abbattimento del costo del lavoro, ossia con il puro e semplice licenziamento di un dipendente non giustificato da un effettivo mutamento dell'organizzazione tecnico-produttiva ma solo dal fine di sostituirlo con un altro meno retribuito, ancorché addetto alle medesime mansioni. Ne consegue che, in caso di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro, al quale l'art. 41 Cost., nei limiti di cui al comma 2, lascia la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi ai fini dell'incremento della produttività aziendale, non è tenuto a dimostrare l'esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, trattandosi di necessità non richiesta dall'art. 3 della l. n. 604 del 1966 e dovendosi altrimenti ammettere la legittimità del licenziamento soltanto laddove esso tenda ad evitare il fallimento dell'impresa e non anche a migliorarne la redditività». Sulla stessa scia si pone Sez. L, n. 24458/2016, Blasutto, secondo cui «non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta dell'imprenditore che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato. Occorre cioè che risulti l'effettività e la non pretestuosità delle ragioni addotte dall'imprenditore, a giustificazione della soppressione, in via mediata attraverso l'indicazione delle motivazioni economiche che tale scelta hanno determinato. In altri termini, al giudice è demandato il compito di riscontrare nel concreto la genuinità del motivo oggettivo indicato a giustificazione del licenziamento e il nesso di causalità tra tale motivo e il recesso».

In estrema sintesi, dalla combinazione degli illustrati principi sembra ricavarsi l'idea che l'iniziativa datoriale volta alla riorganizzazione aziendale che abbia determinato la soppressione del posto, purché effettiva e non pretestuosa, non necessiti di esplicitazione delle ragioni di supporto alla riorganizzazione stessa.

Ed infatti l'obiettivo (pur a livello di mero proposito) datoriale di miglioramento dell'efficienza e competitività dell'impresa, una volta ritenuto naturale espressione di esigenze meritevoli di incondizionata tutela ricomprese nella previsione di cui all'art. 3, seconda parte, della legge 15 luglio 1966, n. 604, è suscettibile di costuire la base di ogni operazione di riassetto, con l'unico limite della effettività e "non pretestuosità".

2.1. Le ragioni dell'orientamento "liberale" in una recentissima sentenza.

Sez. L, n. 25201/2016, Amendola, Rv. 642226, ha ribadito, dando maggior corpo all'orientamento illustrato al § precedente, che «Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della l. n. 604 del 1966, l'andamento economico negativo dell'azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa».

Queste, in sintesi, le ragioni di supporto al principio: a) l'interpretazione letterale della norma esclude che per ritenere giustificato il licenziamento per motivo oggettivo debba ricorrere il presupposto fattuale della situazione di difficoltà economica non contingente; b) la concezione del licenziamento quale extrema ratio, per cui la scelta che legittima l'uso del licenziamento dovrebbe essere "socialmente opportuna", non appare costituzionalmente imposta, essendo l'iniziativa economica privata libera, fermo restando il vincolo invalicabile per cui essa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; c) ogni valutazione del giudice che attribuisca rilievo alla situazione sfavorevole di mercato, implica una estensione - preclusa dall'art. 30, comma 1, della l. n. 183 del 2010 - «al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro»; ed è valutazione di merito quella che attribuisce a chi la esercita la facoltà di effettuare un giudizio comparativo tra più possibili soluzioni, selezionando quella che appare più confacente sotto il profilo organizzativo o produttivo e che connota la discrezionalità propria delle opzioni imprenditoriali, ove non altrimenti limitate dalla legge. Non è tale, invece, quella che riguarda l'esistenza stessa di una ragione organizzativa o produttiva che riconduce la decisione datoriale alla giustificazione che la legge postula per l'esercizio del potere; d) l'interpretazione accolta non palesa profili di tensione neanche con l'ordinamento dell'Unione europea.

Se ne trae la conseguenza che al datore spetta dedurre e provare la mera effettività della riorganizzazione, quale "ragione organizzativa o produttiva" della soppressione del posto, esplicandosi il sindacato giudiziale, oltre che su tale aspetto, anche su quello della "non pretestuosità" dell'operazione.

La questione della esternazione e sindacabilità delle ragioni del riassetto, pur sembrando in linea di massima esser risolta in senso negativo, conserva tuttavia un suo rilievo, per come si dirà al § successivo.

2.2. Il problema del sindacato del giudice in ordine alla effettività e "non pretestuosità" del riassetto.

Si tratta di stabilire, in concreto, quando il riassetto organizzativo possa dirsi non effettivo o pretestuoso.

Secondo Sez. L, n. 13516/2016, Manna, Rv. 640460, ciò si verifica ove le ragioni del predetto riassetto siano «atte a nasconderne altre concernenti esclusivamente la persona del lavoratore licenziato», ossia ove il mutamento nell'organizzazione tecnico-produttiva non sia genuino ma strumentalmente piegato ad espellere personale (a vario titolo) non gradito.

In altri termini, il datore non potrebbe, al solo fine di procedere al licenziamento di uno o più dipendenti sgraditi, architettare un riassetto solo fittizio dell'organizzazione aziendale non rispondente alla realtà dei fatti (ossia solo apparente ma senza alcuna ricaduta sostanziale).

È agevole intuire, ad ogni modo, come in tali casi sarà lo stesso lavoratore ad offrire indizi circa la pretestuosità del licenziamento, se non, addirittura circa la portata discriminatoria dello stesso (con conseguente mutamento della stessa tipologia dell'atto espulsivo, assoggettato anche ad una diversa regola in punto di oneri probatori).

In senso analogo, la già richiamata Sez. L, n. 24458/2016, Blasutto, ritiene che «il riscontro di effettività non attiene alla sola scelta aziendale di sopprimere il posto di lavoro occupato dal lavoratore o di ridurre il personale, non potendo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo trovare la sua ontologica giustificazione nella scelta operata (ad libitum) dall'imprenditore (sarebbe così preclusa in radice la verifica di legittimità non rimanendo al giudice altro riscontro se non la presa d'atto che il lavoratore licenziato occupava il posto di lavoro soppresso), ma attiene alla verifica del nesso causale tra soppressione del posto di lavoro e le ragioni della organizzazione aziendale addotte a sostegno del recesso».

Il che equivale a dire che il giudice deve verificare se il riassetto aziendale sia stato la causa effettiva della soppressione del posto e, in ultima istanza, del licenziamento.

Per ricondurre tale affermazione a concretezza si precisa - Sez. L, n. 19185/2016, Manna, Rv. 641379 - che «il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati poi distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all'origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta (...). Infatti, se tale redistribuzione fosse un mero effetto di risulta (e non la causale del licenziamento) si dovrebbe concludere che la vera ragione del licenziamento risiede altrove e non in un'esigenza di più efficiente organizzazione produttiva».

Occorrerà, tuttavia, verificare come verrà calato nella valutazione delle concrete fattispecie il principio della verifica circa la "congruità causale"; infatti può non essere agevole comprendere quale delle due operazioni - soppressione del posto e redistribuizione - sia stata (non tanto attuata, quanto) concepita prima ed abbia dato origine al licenziamento (sopprimo il posto e, quindi, redistribuisco ovvero redistribuisco e, quindi, sopprimo).

La pretestuosità può poi essere l'effetto di una ragione di supporto alla riorganizzazione non veritiera.

Al riguardo la citata Sez. L, n. 25201/2016, Amendola, puntualizza che ove il licenziamento sia stato motivato richiamando l'esigenza di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli ovvero a spese notevoli di carattere straordinario ed in giudizio si accerti che la ragione indicata non sussiste, il recesso può risultare ingiustificato per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità e sulla pretestuosità della causale addotta dall'imprenditore.

Il che presuppone che il datore, autovincolandosi, abbia fornito l'indicazione delle ragioni a supporto del riassetto organizzativo; ma questa é ipotesi difficile a verificarsi nel futuro, poiché, per come visto al § 2, l'indicazione in questione, secondo l'orientamento qui in esame, parrebbe non doversi ritenere più necessaria, bastando la prospettazione dell'avvenuto, effettivo, riassetto culminante nella soppressione del posto.

3. La fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per effetto di riduzione del personale omogeneo e fungibile: rileva anche il criterio del rendimento del lavoratore.

Quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella soppressione di un posto di lavoro in presenza di più posizioni fungibili, non essendo utilizzabile il criterio della impossibilità di repechage, il datore di lavoro deve improntare l'individuazione del soggetto da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, ai sensi dell'art. 1175 c.c. Sul punto Sez. L, n. 25192/2016, Blasutto, Rv. 642225, ha puntualizzato che, in tale contesto, l'art. 5 della legge 23 luglio 1991, n. 223, offre uno standard idoneo ad assicurare che la scelta sia conforme a tale canone; tuttavia, non può escludersi l'utilizzabilità di altri criteri, purché non arbitrari, ma improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati. Tra i criteri in questione possono annoverarsi quello del maggior costo della retribuzione, "il minore rendimento lavorativo" e le condizioni economiche complessive di ciascun lavoratore, in quanto oggettivamente enucleabili tra fatti riferibili alla comune esperienza con riguardo alle qualità e alle condizioni personali del lavoratore; inoltre, tali criteri - secondo la S.C. - si prestano, ciascuno di essi ed anche in concorso tra loro, alla elaborazione di una graduatoria e, dunque, consentono, su basi oggettive, una comparazione tra tutti i lavoratori interessati dalla riduzione dell'organico in quanto assegnati a posizioni di lavoro fungibili.

Il principio, pur nella sua intrinseca validità, lascia aperta la questione della comparabilità dei rendimenti di più lavoratori - e, a monte, della stessa misurabilità dei predetti rendimenti - ove il frutto dell'attività espletata non sia ben identificabile con un prodotto finito o con un risultato.

4. L'onere di allegazione e prova dell'obbligo di repechage.

La S.C., all'esito di una fase in cui - per come sopra anticipato - si era fatta strada l'idea che il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo fosse tenuto ad allegare l'esistenza di altri posti di lavoro presso cui poter essere ricollocato, gravando sul datore l'onere di provare, solo nei limiti delle allegazioni della controparte, l'impossibilità di assegnarlo a mansioni diverse, sembra attualmente tornata all'indirizzo tradizionale.

Al riguardo si segnala Sez. L, n. 05592/2016, Patti, Rv. 639305 e, più di recente Sez. L, n. 12101/2016, Manna, Rv. 640388 (non registrandosi in seguito pronunce di segno diverso sul punto), nella quale è evidenziato che incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del c.d. repechage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore.

In tal quadro il lavoratore ha solo l'onere di dimostrare il fatto costitutivo dell'esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l'illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo.

4.1. La tesi imperniata sull'estensione dell'obbligo di repechage alle mansioni inferiori.

Con una recentissima sentenza - Sez. L, n. 22798/2016, Amendola, è stato ribadito, in conformità ad un orientamento in attuale ascesa, che l'obbligo di repechage si estende, anche nella formulazione dell'art. 2103 c.c. anteriore alle modifiche apportate dall'art. 3 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, alle mansioni inferiori rispetto a quelle disimpegnate dal lavoratore destinato al licenziamento.

L'ipotesi della soppressione del posto in conseguenza di riorganizzazione aziendale rende legittimo, infatti, l'adeguamento del contratto, avuto riguardo alle esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro, da giudicarsi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore.

L'assoggettamento all'obbligo in questione incontra, però, secondo la S. C., due limiti, «da individuarsi nel rispetto dell'assetto organizzativo dell'impresa insindacabilmente stabilito dall'imprenditore e nel consenso del lavoratore all'adibizione a tali mansioni».

Il che significa, quanto al primo limite, che il datore non è tenuto a modificare l'assetto organizzativo dell'impresa per reperire una postazione disponibile, anche di livello inferiore, per il lavoratore in esubero.

Il secondo implica che l'adibizione del licenziando a mansioni inferiori non può essere l'effetto di una mera iniziativa del datore.

In concreto, stando alla citata pronuncia, il consenso del lavoratore andrebbe sollecitato dal datore mediante una previa offerta di compiti inferiori, la cui non accettazione legittima l'atto espulsivo.

Sul lavoratore graverebbe, peraltro, un onere di allegazione della mancata offerta (il che si desume dal seguente passo della motivazione: «il mezzo di gravame ... non può che essere respinto, atteso che, come riportato nello storico della lite, il lavoratore aveva segnalato sin dall'atto introduttivo del giudizio la circostanza delle nuove assunzioni di manovali e la mancata offerta datoriale di compiti equivalenti o anche di livello inferiore»), in difetto del quale sembra lecito ritenere che il datore possa dirsi esonerato dalla prova contraria.

Non è chiaro se un tale onere, concernente un aspetto particolare, costituisca deroga alla regola - tenuta ferma dall'orientamento più recente, sopra descritto - della corrispondenza tra oneri di allegazione e prova; o piuttosto non sia espressione dell'altro orientamento cui la S.C. mostri implicitamente di voler nuovamente attribuire maggior dignità.

Il tema, in buona sostanza, si risolve, ancora, nella questione, in linea generale illustrata al § precedente, della necessità, o meno, di un onere di allegazione del lavoratore concernente in vario modo l'obbligo di repechage.

4.2. Implicazioni della riconducibilità dell'obbligo di repechage all'interno della fattispecie del giustificato motivo oggettivo.

La riconducibilità dell'obbligo di repechage all'interno della fattispecie ha come principale e possibile implicazione la ricorrenza della "manifesta insussistenza del fatto" - di cui all'art. 18, comma 7, St. lav., come modificato dalla legge "Fornero" -, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria "attenuata", ove sia mancata la prova dell'assolvimento del predetto obbligo.

Il rischio, con tale ricostruzione, di azzeramento di ogni ipotesi residuale (in cui sia accertato che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo) cui sia correlabile, per effetto del rinvio operato dal comma settimo del predetto art. 18 al comma quinto, la tutela indennitaria "forte", potrebbe indurre - in presenza di uno scenario dominato proprio dal riconoscimento, sia pur a livello di giurisprudenza di merito, della predetta tutela indennitaria a fronte della violazione dell'obbligo di repechage - ad identificare un fondamento normativo, dell'obbligo in questione, non riconducibile alla previsione di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966.

Un primo spunto in tal senso è offerto, ad esempio, da Sez. L, n. 20436/2016, Lorito, ove é statuito che l'onere probatorio inerente sia alla concreta riferibilità del licenziamento a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo - organizzativo sia alla impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, può «ricondursi al generale principio della buona fede, che impone a ciascun contraente di soddisfare i propri interessi nel modo meno pregiudizievole per la controparte».

Una rigorosa applicazione del sillogismo potrebbe in ipotesi consentire di configurare il repechage, quale fattore esterno al giustificato motivo oggettivo, oggetto dei doveri contemplati dagli artt. 1175 e 1375 c.c., ossia di un'obbligazione "accessoria" il cui mancato adempimento integrerebbe, a questo punto, non la "manifesta insussistenza del fatto" bensì una tipologia di vizio minore.

Del resto, nella già citata Sez. L, n. 22798/2016, Amendola, l'idea - espressa da Sez. L, n. 12101/2016, Manna (su cui v. il § 4) - che l'esistenza del giustificato motivo oggettivo include anche l'impossibilità del c.d. repechage, sembra esser superata dall'affermazione che la predetta impossibilità è mera "condizione di legittimità" del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

In tale prospettiva, sarebbe, in primo luogo, arginato in radice il problema della eventuale necessità di una motivazione - nel corpo del licenziamento - circa l'impossibiltà in questione.

In secondo luogo, nulla cambierebbe in punto di onere probatorio, gravante, secondo la regola di cui all'art. 1218 c.c., sul datore.

Più problematico, invece, si rivela, stando a tale ricostruzione, il profilo dell'onere di allegazione del lavoratore, su cui v. il § successivo.

5. Considerazioni conclusive.

L'orientamento imperniato sulla limitazione del sindacato giudiziale alla effettività e "non pretestuosità" dell'operazione di riassetto aziendale lascia aperti i problemi: a) della ammissibilità di riassetti operati al fine di intensificare al massimo della tollerabilità (o, eventualmente, oltre misura) il rendimento dei lavoratori, mediante effettive soppressioni di postazioni lavorative - comunque produttive - e redistribuzione delle mansioni tra i restanti occupati, in ipotesi già gravati da un carico non indifferente; b) della plausibilità di eliminazione di postazioni mediamente produttive, seppur in misura non sufficientemente adeguata secondo il giudizio dell'imprenditore (che, in ipotesi, decida di sopprimere il posto perché produttivo, ad esempio, per quattro giorni a settimana anziché per cinque).

Si tratta, in altri termini, di stabilire se, in questi casi limite, un principio di ragionevolezza possa orientare il sindacato sulla "non pretestuosità", eventualmente facendo leva - mediante l'utilizzazione di criteri di normalità tecnico-organizzativa - sul parametro costituzionale della "dignità" del lavoratore, suscettibile di essere eventualmente intaccato da un licenziamento operato per il conseguimento di una competitività estrema, quale obiettivo difficilmente giustificabile in quanto riferibile alla mera sfera volitiva datoriale.

Sul versante dell'obbligo di repechage rimangono aperti tre interrogativi, di cui il primo di taglio generale, il secondo discendente dalla riconosciuta estraneità del predetto obbligo alla previsione di cui all'art. 3 della l. n. 604 del 1966, il terzo relativo all'esigenza di una migliore articolazione degli oneri di allegazione e prova secondo l'indirizzo attualmente prevalente.

Si tratta, pertanto, attualmente di stabilire: a) se l'obbligo in questione - qualora si reputi oramai superata l'idea che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo costituisca una extrema ratio - possa ancora ritenersi elemento, anche se accessorio (secondo quanto visto al § precedente), della fattispecie; in caso di risposta affermativa: b) se, una volta configurato l'obbligo come esterno alla fattispecie in quanto proiezione dei doveri di correttezza e buona fede, il lavoratore debba allegare in giudizio, oltre alla mancanza di giustificato motivo anche, sia pur genericamente, la violazione del repechage; c) se il lavoratore possa, una volta acquisito il quadro delle difese datoriali emergenti dalle allegazioni contenute nella memoria, contestare specificamente, in prima udienza, le predette allegazioni mediante l'indicazione di postazioni disponibili non evidenziate dal datore (il quale, pertanto, dovrebbe essere ammesso ad ampliare la difesa, dovendo il suo onere essere necessariamente correlato alle indicazioni del lavoratore).

Non sembra ipotizzabile, almeno allo stato - in presenza di spunti ancora inidonei a tradursi in mature riflessioni -, una radicale inversione di tendenza che porti al disconoscimento dell'obbligo di repechage; al quesito sub b) potrebbe allora darsi risposta positiva, deducendosi un doppio inadempimento del datore, uno principale ed uno accessorio; qualora l'inadempimento accessorio non sia stato allegato, potrebbe dubitarsi della necessità per il datore di dare comunque la prova del repechage (con la conseguenza che l'unica dimostrazione consisterà nella effettività del riassetto organizzativo); anche al quesito sub c) potrebbe rispondersi affermativamente, in quanto l'impostazione prefigurata potrebbe costituire un punto di equilibrio fra i due indirizzi giurisprudenziali contrapposti, perché recupera, sia pure in seconda battuta allorché l'indicazione appare concretamente possibile ed esigibile, l'onere per il lavoratore di circostanziare la propria richiesta.

. BIBLIOGRAFIA

S. BINI, A proposito della divaricazione tra onus probandi e onus allegandi in materia di obbligo di repechage, in Arg. Dir. Lav., 2016, 993 ss.

M. PERSIANI, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage, in Giur. It., 2016, 1166-1167.

A. PERULLI, Il controllo giudiziale dei poteri dell'imprenditore tra evoluzione legislativa e diritto vivente, in Riv. It. Dir. Lav., I, 2015, 83.

G. SANTORO PASSARELLI, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Dir. Rel. Ind., I, 2015, 58.

S. VARVA, Il licenziamento economico, Giappichelli, 2015, 59

  • lavoro temporaneo
  • struttura occupazionale
  • assegnazione ad altro incarico
  • retrocessione di grado
  • impiegato dei servizi pubblici
  • insegnante

CAPITOLO III

LE SEZIONI UNITE ED IL DANNO DA "PRECARIZZAZIONE" EX ART. 36 D.LGS. 30 MARZO 2001, N. 165, FRA ORDINAMENTO INTERNO ED INTERPRETAZIONE CONFORME AI PARAMETRI EUROPEI

(di Ileana Fedele )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il divieto di conversione del rapporto alla prova dei parametri europei. - 3 La natura del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 ed il suo inquadramento nell'ambito del sistema della responsabilità civile. - 4 I criteri di liquidazione del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001. - 5 I limiti dell'interpretazione conforme. - 6 Il punto di equilibrio di Sez. U, 15 marzo 2016, n. 5072. - 7 Riflessi sul cosiddetto "precariato scolastico". - 8 Le reazioni della dottrina. - 9 La (nuova) questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Trapani. - 10 La questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Foggia. - 11 Considerazioni conclusive. - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Il fenomeno del precariato nel pubblico impiego contrattualizzato ha indotto un vasto ed ormai annoso contenzioso con particolare riferimento alle conseguenze derivanti dall'illegittima apposizione del termine (o comunque dalla violazione delle disposizioni riguardanti l'assunzione o l'impiego), ai sensi dell'art. 36 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che, nel porre il divieto alla trasformazione in rapporto a tempo indeterminato, affida al risarcimento del danno la tutela del lavoratore e - di riflesso - la compatibilità dell'ordinamento interno con la normativa eurounitaria in materia. Infatti, nelle ipotesi in cui siano ravvisabili le condizioni per l'applicabilità del divieto, sia sotto il profilo soggettivo (il datore lavoro va inquadrato fra le «pubbliche amministrazioni») che oggettivo (la fattispecie è sussumibile nell'ambito delle ipotesi di «assunzione o impiego di lavoratori»), occorre affrontare il passaggio successivo, inteso a qualificare il danno risarcibile secondo la disposizione in commento e, di conseguenza, ad individuarne i criteri di liquidazione. Proprio su questo aspetto - determinante per la stessa tenuta del sistema - si è sviluppato un contrasto interpretativo, sfociato nel proliferare di diverse soluzioni in dottrina ed in giurisprudenza, avallate dalla "laconicità" della norma, nel perdurante silenzio del legislatore che, anche in occasione del riordino della disciplina sul contratto di lavoro a tempo determinato, si è limitato a sancire: «Resta fermo quanto disposto dall'articolo 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001.» (art. 29, comma 4, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81).

2. Il divieto di conversione del rapporto alla prova dei parametri europei.

È noto che l'opzione incentrata sulla tutela solo risarcitoria del lavoratore a termine nel settore pubblico è stata preservata dalla Corte cost. (27 marzo 2003, n. 89), che ha escluso l'illegittimità dell'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 - così respingendo le censure di irragionevolezza e disparità di trattamento tra lavoratore pubblico e privato - per la necessità di salvaguardare il momento genetico del rapporto con la pubblica amministrazione, a tutela dei principi di imparzialità e buon andamento attraverso il meccanismo del concorso, quale procedura costituzionalmente prevista per garantire l'esigenza di una corretta selezione dei candidati.

Se, dunque, la conformità dell'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 alla costituzione sembra ormai acquisita (salvo quanto si dirà infra), è stata ripetutamente sotto esame la conformità con l'ordinamento europeo, per verificare la compatibilità del divieto di costituzione del rapporto a tempo indeterminato con la clausola 5 dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE preordinata alla prevenzione degli abusi da successione di contratti o rapporti a tempo determinato.

Infatti, la Corte di giustizia U.E., chiamata più volte a pronunciarsi sull'ordinamento italiano, ha affermato che l'accordo quadro non è ostativo ad una normativa interna che escluda la conversione del rapporto purché le autorità nazionali prevedano misure adeguate a prevenire gli abusi - vale a dire misure non solo proporzionate bensì sufficientemente effettive e dissuasive per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell'accordo quadro - e con caratteristiche tali da non essere «meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)» (Corte di giustizia, 7 settembre 2006, C-53/04, n. 52; conforme, in relazione a caso analogo, Corte di giustizia, 7 settembre 2006, C-180/04, n. 37). Su tali premesse, la Corte ha concluso che la normativa italiana, «che prevede norme imperative relative alla durata e al rinnovo dei contratti a tempo determinato, nonché il diritto al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa del ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a una successione di contratti rapporti di lavoro a tempo determinato, sembra prima facie soddisfare i requisiti» indicati, rimettendo al giudice del rinvio di «valutare in quale misura le condizioni di applicazione nonché l'attuazione effettiva dell'art. 36, secondo comma, prima frase, del d.lgs. n. 165/2001 ne fanno uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l'utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato» (Corte di giustizia, 7 settembre 2006, C-53/04, n. 52; conforme, Corte di giustizia, 7 settembre 2006, C-180/04, n. 37).

Tale interpretazione è stata ribadita con successiva pronuncia pure emessa in riferimento all'ordinamento italiano (Corte di giustizia, 1 ottobre 2010, C-3/10).

Nell'ulteriore intervento sollecitato da un giudice italiano la Corte (12 dicembre 2013, C-50/13), pur confermando il proprio consolidato orientamento, a fronte della prospettazione del giudice del rinvio (secondo cui, in base all'interpretazione elaborata dalla Corte Suprema di cassazione, per un lavoratore del settore pubblico sarebbe impossibile fornire le prove richieste dal diritto nazionale al fine di ottenere il risarcimento del danno, poiché gli si imporrebbe di fornire, segnatamente, la prova della perdita di opportunità di lavoro e quella del conseguente lucro cessante), ha ritenuto di «fornire precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua decisione» (Corte di giustizia, 12 dicembre 2013, C-50/13, n. 31). E tali precisazioni hanno comportato l'affermazione - piuttosto perentoria - secondo cui «l'accordo quadro deve essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale, quale quella oggetto del procedimento principale, la quale, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all'obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall'ordinamento dell'Unione.» (Corte di giustizia, 12 dicembre 2013, C-50/13, n. 34).

In particolare, la Corte, in riferimento al principio di effettività, ha osservato che «dalla decisione di rinvio si evince che la normativa interna in questione nel procedimento principale, nell'interpretazione datane dalla Corte suprema di cassazione, pare che imponga che un lavoratore del settore pubblico, quale il sig. Papalia, il quale desideri ottenere il risarcimento del danno sofferto, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, non goda di nessuna presunzione d'esistenza di un danno e, di conseguenza, debba dimostrare concretamente il medesimo. Secondo il giudice del rinvio, una prova siffatta, quanto all'interpretazione seguita nell'ordinamento nazionale, richiederebbe che il ricorrente sia in condizioni di provare che il proseguimento del rapporto di lavoro, in base a una successione di contratti a tempo determinato, l'abbia indotto a dover rinunciare a migliori opportunità di impiego»; e, nel caso di specie, «la prova richiesta in diritto nazionale può rivelarsi difficilissima, se non quasi impossibile da produrre da parte di un lavoratore quale il sig. Papalia. Pertanto, non si può escludere che questa prescrizione sia tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte di questo lavoratore, dei diritti attribuitigli dall'ordinamento dell'Unione e, segnatamente, del suo diritto al risarcimento del danno sofferto, a causa dell'utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato» (Corte di giustizia, 12 dicembre 2013, C-50/13, n. 32). Sicché, nel rimettere al giudice del rinvio le verifiche del caso, la Corte ha espressamente affidato al giudice interno anche l'esame circa la sussistenza di presunzioni che possano agevolare l'onere probatorio, come sostenuto dal Governo italiano, «e, di conseguenza, incidere sull'analisi concernente il rispetto del principio di effettività in una controversia quale quella di cui al procedimento principale» (Corte di giustizia, 12 dicembre 2013, C-50/13, n. 33).

3. La natura del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 ed il suo inquadramento nell'ambito del sistema della responsabilità civile.

La non perspicua formula utilizzata dal legislatore («Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative»: art. 36, comma 5, secondo periodo, d.lgs. n. 165 del 2001, testo vigente), ha indotto diverse interpretazioni, anche intese ad escludere la configurabilità di qualsivoglia danno, sul rilievo che il lavoratore ha beneficiato di un'occupazione illegittima e potrebbe vantare unicamente il diritto alle retribuzioni spettanti per l'attività prestata (diritto invero già sancito dall'art. 2126 c.c.).

In effetti, la norma sembra collegare il risarcimento non già alla «perdita di una occupazione a tempo indeterminato» - secondo la formula invalsa nella giurisprudenza di merito allorché individua una delle componenti del danno risarcibile nel pregiudizio sofferto dal lavoratore per la mancata conversione del rapporto di lavoro - bensì alla «prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative», senza offrire margini per individuare quale possa essere il danno derivante dalla "prestazione".

Tutto ciò dà conto dello sforzo compiuto in prima battuta dalla giurisprudenza di merito per approdare ad una lettura "conforme" dell'art. 36 cit., oscillando fra meccanismi di responsabilità extracontrattuale e forme di responsabilità contrattuale, sino all'emersione di un indirizzo divenuto progressivamente prevalente, coagulatosi intorno alla soluzione genovese del danno da perdita del posto di lavoro, da risarcire per equivalente utilizzando il parametro previsto dall'art. 18, commi 4 e 5, legge 20 maggio 1970, n. 300 (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla legge 28 giugno 2012, n. 92), quale «unico istituto attraverso il quale il legislatore ha monetizzato il valore del posto di lavoro assistito dalla c.d. stabilità reale, quale è quella alle dipendenze della pubblica amministrazione» (Trib. Genova 14 maggio 2007). Il fondamento di tale giurisprudenza si rinviene proprio nel principio di equivalenza postulato dalla Corte di giustizia, nel senso che le misure adottate nel settore pubblico per prevenire e sanzionare gli abusi da successione dei contratti o rapporti a termine «non devono tuttavia essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna» (Corte di giustizia, 12 dicembre 2013, C-50/13, n. 21): il "danno da prestazione" è stato quindi inteso come "danno da perdita di occupazione", assumendo quale situazione analoga di natura interna le conseguenze sanzionatorie previste per il settore privato (conversione del rapporto ed indennità forfetizzata per il cosiddetto periodo intermedio: art. 32, commi 5 e 6, legge 4 novembre 2010, n. 183), al fine di assicurare al lavoratore del settore pubblico una tutela che, se può legittimamente non consistere nel ripristino del rapporto, non deve essere meno favorevole di quella offerta al lavoratore dipendente da datore privato.

Anche la dottrina ha contribuito ad alimentare il dibattito, giungendo per lo più alla conclusione che, nel silenzio del legislatore, i pur lodevoli sforzi della giurisprudenza pervengono a soluzioni comunque non in linea con i requisiti europei ed alimentano un quadro di incertezza e disparità di trattamento per l'assenza di un criterio uniforme di determinazione del quantum.

Neppure la giurisprudenza di legittimità - sino all'intervento delle Sezioni Unite in commento - ha espresso un orientamento univoco, oscillando fra l'orientamento inteso a mantenere il danno nelle coordinate tradizionali della responsabilità civile, essenzialmente in termini di perdita di chance, con i conseguenti oneri probatori, ancorché alleggeriti da presunzioni (Sez. L, n. 00392/2012, Vidiri, Rv. 620269, Sez. L, n. 15714/2014, Berrino, Rv. 631691), e quello invece inteso a cogliere più direttamente le indicazioni della Corte di giustizia, arrivando a configurare un danno con valenza sanzionatoria (per l'appunto denominato "comunitario), presunto e risarcibile tramite indennità forfetizzata, personalizzabile in base al caso concreto (Sez. L, n. 19371/2013, Manna, Rv. 628401, Sez. L, n. 27481/2014, Tria, Rv. 634073).

4. I criteri di liquidazione del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001.

A valle - per così dire - della questione affrontata nel paragrafo precedente si pone quella più immediatamente diretta ad individuare i criteri di liquidazione del danno ex art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001: infatti, ove si acceda alla tradizionale impostazione in chiave compensativa, la liquidazione seguirà gli ordinari schemi (danno emergente e lucro cessante) e, nel caso di perdita di chance, potrà essere stimata in base alle probabilità a vantaggio dell'interessato; nell'ipotesi in cui, invece, si aderisca alla necessità di assumere il danno come presunto, si aprirà la strada all'indennità forfetizzata, in funzione punitiva e con finalità dissuasiva.

Nell'attuazione pratica, a parte il ricorso al parametro previsto dall'art. 18, commi 4 e 5, legge n. 300 del 1970 (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012), invalso nella giurisprudenza di merito, la giurisprudenza di legittimità - sino all'intervento delle Sezioni Unite in commento - ha oscillato fra l'applicazione del criterio di cui all'art. 32, commi 5-6, legge n. 183 del 2010 (Sez. L, n. 19371/2013, Manna, Rv. 628401) e quello previsto dall'art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604 (Sez. L, n. 27481/2014, Tria, Rv. 634073).

5. I limiti dell'interpretazione conforme.

Le difficoltà interpretative testimoniate dalle differenti opzioni sperimentate in giurisprudenza ed in dottrina senza approdare - almeno sinora - ad una soluzione realmente appagante, in assenza di un apposito intervento normativo, potevano anche profilare la necessità di sollevare questione di costituzionalità dell'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. in ordine alla compatibilità con la direttiva in materia, con particolare riferimento alla clausola 5 dell'accordo quadro ad essa allegato. Infatti, ove si escluda la possibilità di approdare ad un'interpretazione conforme, non sarebbe possibile la disapplicazione diretta dell'art. 36 cit. in quanto come, più volte ritenuto dai giudici europei, la clausola 5 non è incondizionata e sufficientemente precisa da poter essere invocata da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale (v. Corte di giustizia, 23 aprile 2009, C-378/07, n. 196).

6. Il punto di equilibrio di Sez. U, 15 marzo 2016, n. 5072.

A seguito di ordinanza interlocutoria del 4 agosto 2015, n. 16363, la questione della portata applicativa e dei criteri di determinazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 è stata rimessa alle Sezioni Unite, che, in esito all'udienza del 1° dicembre 2015, hanno enunciato i principi di diritto così massimati:

«In materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui all'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di chance di un'occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell'art. 1223 c.c.» (Sez. U, n. 05072/2016, Amoroso, Rv. 639065).

«In materia di pubblico impiego privatizzato, nell'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso - siccome incongruo - il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all'art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come "danno comunitario", determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l'indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l'onere probatorio del danno subito.» (Sez. U, n. 05072/2016, Amoroso, Rv. 639066).

La pronuncia delle Sezioni Unite affronta la questione partendo da un'ampia ricostruzione della normativa - interna ed europea - in materia, soffermandosi sulle peculiari caratteristiche che legittimano la differente disciplina prevista per il lavoro pubblico contrattualizzato, con particolare riferimento al divieto di conversione a tempo indeterminato, disposizione che ha superato positivamente il vaglio di compatibilità costituzionale e comunitaria. Proprio sul fondamento rappresentato da tale legittima preclusione, la Corte è giunta ad escludere che il danno risarcibile ex art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001 possa consistere nella perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato «perché una tale prospettiva non c'è mai stata». Il danno, invece, va rapportato alla «prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative», secondo la formulazione testuale della norma, ed è configurabile come perdita di chance, nel senso che «se la pubblica amministrazione avesse operato legittimamente emanando un bando di concorso per il posto, il lavoratore, che si duole dell'illegittimo ricorso al contratto a termine, avrebbe potuto parteciparvi e risultarne vincitore» ovvero «le energie lavorative del dipendente sarebbero state liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato». Pertanto, il lavoratore dovrà agire secondo la regola generale della responsabilità contrattuale posta dall'art. 1223 c.c. per vedersi riconoscere il risarcimento del danno e sarà onerato della relativa prova, che potrà essere in concreto difficile.

Nondimeno, per l'ipotesi di abuso nella successione di contratti a termine, quale illegittimità qualificata direttamente contemplata dalla clausola 5 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione della compatibilità di tale assetto con il diritto europeo, in specifico riferimento al principio di effettività affermato dalla Corte di giustizia, prospettando la necessità di vagliare la praticabilità di un'interpretazione adeguatrice della norma, prima di giungere a sospettarne l'illegittimità costituzionale ex art. 117, primo comma, Cost. In effetti - osserva la Corte - occorre ricercare nel perimetro delle "interpretazioni plausibili" e nell'ambito del dato positivo della disposizione in esame un parametro che valga ad agevolare l'onere probatorio gravante sul lavoratore, per colmare quel deficit di tutela stigmatizzato dai giudici europei. In tale prospettiva, è stato escluso il riferimento alla disciplina del licenziamento illegittimo (sia quella dell'art. 8 della legge n. 604 del 1966, che quella dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970, anche nella nuova formulazione, nonché, in ipotesi, quella del regime indennitario di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015), perché «per il dipendente pubblico a termine non c'è la perdita di un posto di lavoro». Il parametro è stato dunque individuato nella fattispecie omogenea di cui all'art. 32, comma 5, legge n. 183 del 2010, che concerne il risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine, quale misura con portata sanzionatoria (e qualificabile come "danno comunitario", per esprimere direttamente la valenza di interpretazione adeguatrice) che esonera il lavoratore dalla prova del danno subito, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto (al lavoratore, quindi, non è «precluso provare che le chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato»).

Nell'ottica di salvaguardare il canone di equivalenza pure postulato dalla Corte europea, è stato sottolineato come l'utilizzazione del criterio di cui all'art. 32 cit. non comporti una posizione di maggior tutela del lavoratore privato rispetto al pubblico dipendente, in quanto per il primo l'indennità forfetizzata costituisce una misura di contenimento del danno, mentre per il secondo rappresenta uno strumento di agevolazione dell'onere probatorio.

Quindi, solo nell'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine "scatta" l'applicazione del "danno comunitario", mentre l'isolata violazione ricade negli schemi ordinari.

7. Riflessi sul cosiddetto "precariato scolastico".

L'approdo ermeneutico di Sez. U, n. 05072/2016 è stato pienamente condiviso dalla Sezione Lavoro in sede di esame del contenzioso sul cosiddetto "precariato scolastico", con le pronunce (per tutte, Sez. L, n. 22552/2016, Torrice, Rv. 641608) emesse a seguito delle sentenze della Corte di giustizia (sentenza 26 novembre 2014, C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13) e della Corte cost. 20 luglio 2016, n. 187. Infatti, i giudici di legittimità, dopo aver affrontato la questione della configurabilità dell'abuso da successione di contratti a termine in riferimento alla specifica normativa di settore (legge 3 maggio 1999, n. 124, rapporti con il d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, evoluzione sino alla legge 13 luglio 2015, n. 107), hanno ritenuto - sul piano delle ricadute sanzionatorie dell'accertata illegittima reiterazione - che, ove l'interessato non abbia conseguito il bene della vita in virtù della stabilizzazione comunque intervenuta, si apre la via al risarcimento ai sensi dell'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001, in applicazione dei principi espressi da Sez. U, n. 05072/2016, riconoscendo al lavoratore anche la possibilità di offrire la prova del maggior danno.

In precedenza, la Sezione Lavoro si era già uniformata alla soluzione ermeneutica di Sez U, n. 05072/2016, applicando i principi del danno comunitario in caso di abusiva reiterazione di contratti a tempo determinato nel settore della sanità (Sez. L, n. 14633/20016, Napoletano; nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda del dipendente per non aver provato il danno subito).

8. Le reazioni della dottrina.

La dottrina si è divisa fra chi, pur non nascondendo i limiti di qualsivoglia interpretazione giurisprudenziale rispetto ad una questione che necessita di un intervento del legislatore, plaude alla soluzione nomofilattica adottata dalla Suprema Corte, quale adeguato bilanciamento fra le opzioni in campo (compatibilità "eurounitaria", da un lato, e valenza costituzionale del peculiare sistema ex art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, dall'altro), e chi, invece, sottolinea l'inadeguatezza del paramentro prescelto sul piano dell'effettività ed equivalenza della tutela apprestata al lavoratore.

Nell'ambito del primo schieramento, secondo taluno l'interpretazione poteva spingersi più oltre, esonerando del tutto il lavoratore dall'onere della prova con il riconoscimento del risarcimento nella misura massima prevista dall'art. 32 legge n. 183 del 2010 (dodici mensilità), come indennità forfettizzata standard per i casi di accertamento dell'illegittimità dei contratti subordinati a termine nella P.A. [PAssALAcquA, 2016, 829], mentre, secondo altri, era necessario salvaguardare il requisito della "proporzionalità", accanto a quelli della "dissuasività, proporzionalità, effettività", escludendo arricchimenti oltre il danno effettivamente subito [Miscione, 2016, 745].

Le opinioni critiche, invece, stigmatizzano la "consistenza" della misura risarcitoria riconoscibile al lavoratore pubblico [Nunin, 2016, 882], soprattutto ove si consideri che il parametro indennitario di cui all'art. 32 legge n. 183 del 2010 è stato reputato costituzionalmente legittimo poiché si accompagna alla trasformazione del rapporto [Allocca, 2016, 619], sicché si giunge a ritenere preferibile il criterio di cui all'art. 18 l. n. 300 del 1970 nella precedente formulazione, già adottato dalla maggioritaria giurisprudenza di merito [Frasca, 2016, 855].

Merita, infine, di essere segnalata per l'originalità del contributo, la posizione di chi reputa che la distanza fra le sanzioni applicate nel settore privato e quelle previste nel settore pubblico (distanza che risulterebbe addirittura amplificata a seguito dell'intervento della Corte cost. sui precari della scuola, cui l'ordinamento garantisce l'immissione in ruolo a tempo indeterminato e dunque una misura più satisfattiva dell'indennizzo massimo ottenibile dai precari pubblici "ordinari"), possa essere più adeguatamente colmata ove si inquadri il danno di cui all'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 nell'ambito della responsabilità precontrattuale, quale lesione dell'affidamento del lavoratore precario, collegando la quantificazione del danno alla sua inoccupabilità a tempo indeterminato, derivante dal protrarsi dell'abuso precontrattuale, evitando l'irrigidimento su uno specifico parametro risarcitorio [Armone, 2016].

9. La (nuova) questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Trapani.

Proprio sulla conformità della tutela, siccome delineata da Sez. U, n. 05072/2016, ai principi di equivalenza ed effettività più volte indicati dalla giurisprudenza europea si appunta la recente ordinanza con la quale è stata nuovamente adita la Corte di giustizia (Trib. Trapani, 5 settembre 2016).

Infatti, nell'ordinanza di rinvio sono state avanzate due questioni pregiudiziali: 1) se costituisca misura "equivalente ed effettiva" l'attribuzione al lavoratore pubblico, vittima di un'abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato, di un'indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità della retribuzione, con la possibilità per costui di conseguire l'integrale ristoro del danno solo provando la perdita di altre opportunità lavorative o provando che avrebbe superato la prova se fosse stato bandito un regolare concorso; 2) se il principio di equivalenza vada inteso nel senso che, laddove lo Stato membro decida di non applicare al settore pubblico la conversione del rapporto di lavoro (riconosciuta nel settore privato), questi sia tenuto comunque a garantire al lavoratore la medesima utilità, eventualmente mediante un risarcimento del danno che abbia necessariamente ad oggetto il valore del posto di lavoro a tempo indeterminato.

10. La questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Foggia.

Si incentra, invece, sul divieto di conversione del rapporto ex art. 36 d.gs. n. 165 del 2001 - la cui legittimità è stata ribadita da Sez. U, n. 05072/2016 - la recentissima ordinanza con cui il Tribunale di Foggia (Trib. Foggia 26 ottobre 2016) ha sollevato questione di costituzionalità degli artt. 10, comma 4-ter, d.lgs. n. 368 del 2001, e 36, commi 5, 5-ter e 5-quater, d.lgs. n. 165 del 2001, per violazione - fra gli altri - degli artt. 3 e 117 Cost. in relazione alle clausole 4 e 5 dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, in riferimento all'ipotesi di abusiva reiterazione ultratriennale del termine nel settore della sanità pubblica. Il giudice remittente assume come dato di partenza l'assetto risultante dalla sentenza delle Sezioni Unite in commento, per poi osservare come, alla luce di recenti pronunce della Corte di giustizia europea (Corte di giustizia, 14 settembre 2016, C-184/15 e C-197/15) oltre che della Corte cost. (sentenze n. 260 del 2015, in ordine ai precari delle Fondazioni liriche sinfoniche, e n. 187 del 2016, sui precari della scuola), si evidenzi un'irragionevole disparità di trattamento - sul piano dell'adeguatezza della tutela - rispetto ai lavoratori privati ed agli stessi dipendenti pubblici cui è stato riconosciuto il diritto alla stabilità lavorativa.

11. Considerazioni conclusive.

Il contenzioso sviluppatosi sul cosidetto precariato pubblico ha ormai raggiunto livelli difficilmente arginabili sul piano della fisiologica composizione dei conflitti attraverso l'interpretazione giurisprudenziale.

Infatti, nonostante l'apprezzato intento nomofilattico perseguito dalla Suprema Corte, la complessità normativa - declinata in disposizioni speciali per i diversi settori - ed il continuo intreccio di questioni di costituzionalità e di conformità dell'ordinamento interno ai parametri europei rendono arduo l'approdo ad una soluzione definitiva per la tutela di tutti i delicati interessi coinvolti.

In particolare, appare difficilmente superabile l'antinomia insita nel ruolo che l'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 è chiamato a svolgere nell'ordinamento interno, diviso fra la necessaria salvaguardia dell'interesse pubblico sotteso al divieto di conversione del rapporto ed il risarcimento da riconoscere al lavoratore, al quale va assicurato un risarcimento effettivo e - almeno tendenzialmente - equivalente ad un posto di lavoro cui, tuttavia, non ha alcun diritto; di qui, la tensione, che traspare nella pronuncia delle Sezioni Unite in commento, fra la coerenza con la riaffermata legittimità del divieto e la necessità di riconoscere comunque una tutela in linea con i parametri europei.

Il quadro, già di difficile lettura, come dimostrato dai contrasti interpretativi insorti sull'art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001, è stato ulteriormente complicato dalle pronunce emesse dalla Corte di giustizia e dalla Corte cost. sul precariato scolastico. E se i giudici di legittimità hanno ricondotto anche tale aspetto "a sistema", facendo applicazione della soluzione espressa dalle Sezioni Unite, la giurisprudenza di merito, anche su sollecitazione di parte della dottrina, è tornata a sollevare nuovamente la questione innanzi al giudice europeo ed a quello costituzionale, sottoponendo ulteriormente a prova la tenuta dell'assetto così raggiunto.

Il "cerchio", dunque, non può dirsi ancora chiuso, non solo in ordine al punto di equilibrio ricercato sulla misura risarcitoria da liquidare al lavoratore precario pubblico (sulla cui adeguatezza ed equivalenza, rispetto al lavoratore privato, i giudici europei sono stati nuovamente interpellati), ma anche, a ben vedere, rispetto alla stabilizzazione riconosciuta solo in favore di alcuni dipendenti pubblici per effetto di principi affermati dalla Corte di giustizia e dalla Corte cost. (quanto alla configurabilità dell'abuso nella indiscriminata successione dei contratti a termine a fronte di posti di lavoro "vacanti e disponibili"), potenzialmente validi anche per altri settori, come quello sanitario.

. BIBLIOGRAFIA

ALLOCCA, Le Sezioni Unite chiariscono i criteri di liquidazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001, in Riv. it. dir. lav., 2016, 619 ss.

ARMONE, Precariato pubblico e risarcimento del danno: declinazioni civilistiche, in Giustizia civile.com, 13 ottobre 2016.

FRASCA, La quantificazione del "danno comunitario" da illegittima reiterazione di contratti a tempo determinato nel pubblico impiego: nel perdurante silenzio del legislatore, si pronunciano le Sezioni Unite, in Arg. dir. lav., 2016, 855 ss.

MISCIONE, La fine del precariato pubblico ma non solo per la scuola, in Lav. giur., 2016, 745 ss.

NUNIN, Precariato scolastico: la Consulta dice basta agli abusi (ma non scioglie tutti i nodi), in Lav. giur., 2016, 882 ss.

PASSALACQUA, Le Sezioni Unite sull'abuso del contratto a termine nella pa optano per la trasposizione dell'indennità prevista per il settore privato: il cerchio si chiude davvero?, in Dir. rel. ind., 2016, 829 ss.

  • discriminazione fondata sull'età
  • lavoro occasionale

CAPITOLO IV

LAVORO INTERMITTENTE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE. IL RINVIO PREGIUDIZIALE IN SEDE DI LEGITTIMITÀ

(di Valeria Piccone )

Sommario

1 Il lavoro intermittente nella vicenda Abercrombie & Fitch, la sentenza della corte territoriale. - 2 La giurisprudenza europea da Mangold a Kücükdeveci. - 3 Principio di uguaglianza e interpretazione conforme. - 4 Il rinvio pregiudiziale della Corte di legittimità.

1. Il lavoro intermittente nella vicenda Abercrombie & Fitch, la sentenza della corte territoriale.

Il lavoro intermittente [Raimondi, 2014, 601; Morone, 2012, 1252] caratterizzato da una lunga serie di interventi legislativi, giunge per la prima volta ad una decisione giurisdizionale di particolare incisività sul punto della non discriminazione, essendo state molto rare le pronunzie che lo hanno riguardato, nessuna in sede di legittimità, fino al recente rinvio pregiudiziale della Corte di cassazione del febbraio 2016.

Tale contratto, come noto, si caratterizza per l'associazione fra subordinazione e discontinuità della prestazione lavorativa, da rendersi solo qualora sia richiesta dal datore di lavoro secondo quanto previsto dagli artt. 33-40 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276.

Le poche pronunzie di merito oscillano fra riconoscimento del diritto alla conversione del rapporto di lavoro (così, Trib. Milano, 9 dicembre 2010) in contratto a tempo indeterminato e riconoscimento del solo diritto al risarcimento del danno (Trib. Monza, 15 ottobre 2012); il contratto è legittimo secondo la normativa vigente, ma l'assenza di una ragione di carattere discontinuo alla base dello stesso assume, rilievo atteso che soltanto il contratto che sia ancorato a prestazioni di carattere discontinuo riceve una adeguata giustificazione.

Nella vicenda Abercrombie & Fitch, dopo una pronunzia della Corte d'appello di Milano [Calafà, 2015, 536; Bonanomi, 2015, 467] la questione interpretativa è stata oggetto di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia da parte della Corte di cassazione con ordinanza Sez. L, n. 03982/2016, Napoletano, Rv. 638852.

Il ricorrente era stato assunto dalla società convenuta con "contratto a chiamata a tempo determinato" di iniziali quattro mesi e poi prorogato in relazione al fatto che alla data di assunzione aveva meno di 25 anni ed era disoccupato; dall'1 gennaio 2012 il contratto cd. "intermittente" era stato convertito in contratto a tempo indeterminato senza specificazione delle ipotesi legittimanti previste dal d.lgs. n. 276 del 2003; terminato il 26 luglio 2012 il piano di lavoro, il lavoratore non era stato più inserito nella programmazione e, a seguito di scambi di e-mail, gli era stato comunicato che avendo egli compiuto 25 anni ed essendo venuto meno il requisito soggettivo dell'età, era da considerarsi cessato alla suddetta data. Il giudice di primo grado aveva ritenuto l'improponibilità delle domande di declaratoria di nullità e/o inefficacia del licenziamento intimato - con richiesta di condanna alle conseguenze di cui all'art. 18 della l. 20 maggio 1970, n. 300 - respingendo quelle dirette ad accertare la natura discriminatoria del comportamento tenuto dalla società e la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato ordinario a tempo indeterminato.

La Corte di appello di Milano ha accolto l'impugnazione, ritenendo la proponibilità di tutte le istanze avanzate, sul presupposto che la domanda diretta ad accertare il comportamento discriminatorio della società resistente non fosse, in realtà, istanza avente ad oggetto l'impugnazione del licenziamento - che sarebbe stata assoggettata al rito speciale di cui alla l. 28 giugno 2012, n. 92 - bensì domanda volta ad ottenere la rimozione degli effetti della discriminazione, le cui conseguenze erano quelle di cui all'art. 18 della l. n. 300 del 1970 e, cioè, la rimessione in servizio. La Corte precisa, al riguardo, che la riforma Fornero non ha comportato un diverso assetto processuale, sostituendo ed assorbendo, con riguardo al tema della discriminazione nei casi di licenziamento, il rito sommario regolato dal d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, che continua a mantenere efficacia nei casi ivi contemplati.

Per quanto concerne il comportamento discriminatorio, il Collegio sottolinea come l'unico requisito rilevante al momento dell'assunzione del ricorrente ai sensi dell'art. 34 d.lgs. n. 276 del 2003 fosse quello anagrafico (meno di 25 anni o più di 45). Si osserva in primo luogo che la direttiva 2000/78/CE, al punto 25 delle premesse, rileva che il divieto di discriminazione basata sull'età costituisce un elemento essenziale per il perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione, ma che, tuttavia, in talune circostanze, delle disparità di trattamento in funzione dell'età possono essere giustificate richiedendo disposizioni specifiche che possono variare a seconda della situazione degli stati membri con riguardo a giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, purché i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. La Corte milanese richiama a questo punto le sentenze della Corte di giustizia 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold e 19 gennaio 2010, C- 555/07, Seda Kucukdeveci v. Swedex, nella parte in cui hanno statuito il carattere di principio generale del diritto comunitario della non discriminazione in ragione dell'età ed il compito del giudice nazionale di assicurare la tutela che il diritto comunitario attribuisce ai singoli.

Secondo le Conclusioni dell'Avvocato generale del 23 settembre 2008, nella causa C-388/07, The Incorporated Trustees of the National Council for Ageing, l'età è un «criterio fluido», un «elemento in una sequenza»; dunque, la «discriminazione in base all'età può essere graduata» (Conclusioni dell'Avvocato generale del 15 febbraio 2007, causa C-411/05, Palacios de la Villa); essa «non definisce un gruppo fisso e ben definito» [Bonardi, 2007, 130] e la sua individuazione, pertanto, costituisce una indagine complessa.

2. La giurisprudenza europea da Mangold a Kücükdeveci.

In Mangold l'interpretazione conforme impone all'interprete di accantonare la norma interna speciale incompatibile a vantaggio della regola generale in forza dell'obbligo per il giudice nazionale di offrire "un'interpretazione ed un'applicazione conformi alle esigenze del diritto comunitario" (così, Corte di giustizia 5 ottobre 2004, cause riunite C-397/01 - C403/01, Pfeiffer) , pur in presenza di una direttiva il cui termine per la trasposizione non sia ancora scaduto.

Con tale pronunzia la Corte, pur occasionalmente passando attraverso la normativa "quadro" di cui alla direttiva 2000/78, che vieta, tra l'altro, le discriminazioni in ragione dell'età, giunge per la prima volta ad affermare che il principio comunitario di non discriminazione ha natura sovraordinata, incondizionata ed è immediatamente applicabile.

Non è, tuttavia, la direttiva inattuata a trovare un'impossibile applicazione in luogo della norma interna incompatibile; nella interpretazione ad excludendum fornita dai giudici di Lussemburgo, venuta meno la norma discriminatoria, l'opera di uniformazione giudiziale consente il rispetto del principio di uguaglianza per effetto della riespansione della norma generale.

Nonostante il risultato finale sia quello di determinare la disapplicazione rispetto ad una norma non dotata di efficacia diretta, nondimeno, l'approdo è reso possibile dal passaggio attraverso il principio generale di uguaglianza.

In Mangold, quindi, si impone una ancora più incisiva declinazione del principio di collaborazione sancito dall'art. 10 TCE, oggi art. 4 TUE: diventa obbligatorio per l'interprete disapplicare la legge nazionale contrastante con un principio generale anche in presenza di una direttiva il termine per la cui trasposizione non sia ancora scaduto.

Nella successiva Corte di giustizia 7 settembre 2006, causa C-81/05 Cordero Alonso, i giudici di Lussemburgo, chiamati a pronunziarsi su quesiti pregiudiziali relativi all'interpretazione della direttiva del Consiglio del 20 ottobre 1980, 80/987/CEE, concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, hanno affermato che le istituzioni amministrative e giurisdizionali, nell'applicare la normativa comunitaria sono "vincolate al principio dell'uguaglianza dinanzi alle legge e al divieto di discriminazione risultante dal diritto comunitario, con la portata precisata dall'interpretazione fornitane dalla Corte" e che ciò vale altresì qualora "la normativa nazionale di cui trattasi, secondo la giurisprudenza costituzionale dello Stato membro interessato, è conforme a un diritto fondamentale analogo riconosciuto dall'ordinamento giuridico nazionale".

Si impone, quindi, una declinazione del principio di collaborazione sancito dall'art. 4 TUE in chiave di non applicazione della legge nazionale contrastante con un principio generale anche qualora la giurisprudenza costituzionale dello Stato sia conforme a un diritto fondamentale analogo riconosciuto dall'ordinamento interno. Nel tempo, quel principio ha assunto una forza ed una portata dirompenti, facendo del principio di uguaglianza, sub specie di divieto di discriminazione per età, la punta di diamante nella tutela dei diritti fondamentali assicurata dalla Corte di giustizia.

In Kücükdeveci la ricorrente, alle dipendenze della Swedex, contestava il proprio licenziamento, sostenendo che il termine di preavviso nei suoi confronti avrebbe dovuto essere di quattro mesi a decorrere dal 31 dicembre 2006, in applicazione dell'art. 622, n. 2, primo comma, punto 4, del BGB. La lesione lamentata consisteva nella previsione della disciplina tedesca secondo cui, per il calcolo della durata del termine di preavviso non sono presi in considerazione i periodi di lavoro svolti prima del compimento del venticinquesimo anno di età, previsione ritenuta misura di discriminazione in base all'età contraria al diritto dell'Unione e, pertanto, da disapplicare.

Il giudice tedesco sospendeva il procedimento sottoponendo alla Corte due questioni.

Con la prima, veniva chiesto se la normativa in esame costituisse una disparità di trattamento in base all'età, vietata dal diritto dell'Unione.

Con la seconda, veniva chiesto quali fossero le conseguenze dell'incompatibilità tra la disciplina nazionale e quella dell'Unione, in particolare se fosse possibile disapplicare la disposizione nazionale in una controversia tra privati.

Secondo la prospettazione dell'avvocato generale Yves Bot, la normativa rilevante per la fattispecie era da individuarsi nella direttiva 2000/78 perché, tra l'altro, «i fatti all'origine della controversia sono avvenuti dopo la scadenza del termine di cui ha beneficiato la Repubblica federale di Germania per trasporre la direttiva».

Nelle conclusioni si legge che la causa ha come oggetto solo l'esclusione di una disposizione nazionale incompatibile con la direttiva 2000/78 (l'art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB), allo scopo di consentire al giudice nazionale di applicare le restanti disposizioni di tale articolo, nella specie, i termini di preavviso determinati sulla base della durata del rapporto; pertanto, si conclude che l'accoglimento di tale tesi non impone alla Corte di ritornare sulla sua giurisprudenza relativa all'assenza di effetto diretto orizzontale delle direttive.

L'avvocato generale invita la Corte a «seguire un percorso più ambizioso» richiamando le affermazioni contenute nella sentenza Mangold.

3. Principio di uguaglianza e interpretazione conforme.

Il principio di non discriminazione fondata sull'età, in quanto strettamente collegato alla direttiva 2000/78, nell'interpretazione dell'Avvocato Generale, consente al giudice nazionale di disapplicare ogni contraria disposizione di legge nazionale anche in una controversia che vede contrapporsi due privati.

Fulcro della decisione diventa a questo punto (così perfezionandosi l'approdo di Mangold), il principio generale del diritto dell'Unione che vieta ogni discriminazione in base all'età, principio che esiste «per forza propria», anche se poi è inverato nella direttiva 2000/78 che ne è concreta espressione.

Entra in gioco, a questo punto, il giudice nazionale cui spetta il compito di «assicurare (...) la tutela giuridica che il diritto dell'Unione attribuisce ai soggetti dell'ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove necessario, ogni contraria disposizione di legge» (punto 51).

Il principio generale di non discriminazione che, secondo la Corte, è applicazione del principio generale della parità di trattamento, «trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» e viene, poi, consacrato nell'art. 21, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che, in virtù dell'art. 6, n. 1, TUE ha lo stesso valore giuridico dei Trattati.

Il principio di uguaglianza, a chiare lettere, viene definito principio generale dell'Unione. Quel principio, ove non fosse stato abbastanza chiaro in Mangold, trova solo "specificazione", secondo la Corte, nella direttiva 2000/78. Il corollario era già stato espresso in termini similari, con riguardo all'art. 119 del Trattato, nelle sentenze Corte di giustizia 8 aprile 1976, C-43/75, Defrenne e Corte di giustizia, 31 marzo 1981, C- 96/80, Jenkins. Ma in Kücükdeveci, il principio generale di uguaglianza si spinge fino alle più ardite conseguenze, quelle che poi condurranno alla recente giurisprudenza riconducibile a Corte di giustizia, 19 aprile 2016, causa C-441/14 Dansk Industri v. Successione Karsten Eigil Rasmussen.

Al centro, è il giudice nazionale.

La Corte non lascia adito a dubbi: il giudice nazionale rappresenta l'anello centrale della catena interpretativa qualora sia investito di una controversia tra privati; l'obbligo di garantire il rispetto del principio di non discriminazione in base all'età - quale concretamente derivante dalla direttiva 2000/78 ma come espressione di un principio generale del diritto comunitario, sovraordinato, orizzontale ed immediatamente applicabile - gli imporrà di disapplicare, se necessario, qualsiasi disposizione contraria della normativa nazionale, indipendentemente dall'esercizio della facoltà di cui dispone, nei casi previsti dall'art 267, secondo comma, TFUE, di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull'interpretazione di tale principio.

L'interpretazione conforme ha ormai assunto la netta conformazione di strumento di chiusura: essa è un imprescindibile obbligo per l'interprete ma è anche metodo conservativo, perché ogni qualvolta non possa farsi ricorso ad essa e sussista una normativa confliggente, scatterà l'obbligo di disapplicazione della regolamentazione interna per applicare quella comunitaria nella sua interezza e tutelare i diritti che questa riconosce ai singoli.

La Corte, nella parte finale della sentenza, conclude affermando che «è compito del giudice nazionale (...), assicurare (...) la tutela giuridica che il diritto dell'Unione attribuisce ai soggetti dell'ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove necessario, ogni contraria disposizione di legge» (punto 51).

Registrata la parziale inidoneità dei concetti di primazia e disapplicazione, si è ormai definitivamente intensificato il ricorso all'interpretazione conforme come strumento di composizione del sistema; essa, nella più recente evoluzione, "sfuma" di nuovo nella disapplicazione, nell'intento chiarissimo di assicurare definitivamente il rispetto di quel sovraordinato principio di uguaglianza al centro dello scenario giurisdizionale europeo.

Nella opzione interpretativa della corte territoriale, l'interpretazione conforme va condotta su binari estremi e, cioè, fino a determinare la disapplicazione ogni qualvolta l'esito adeguatore non sia scontato.

La Corte d'appello di Milano sottolinea come i giudici di Lussemburgo abbiano si riconosciuto la possibilità per gli Stati membri di predisporre contratti divergenti da quelli ordinari a tempo determinato pur in presenza di profili svantaggiosi per il lavoratore, al fine di favorire l'occupazione di soggetti con difficoltà di accesso al lavoro, ma purché lo strumento utilizzato non sia sproporzionato rispetto alla finalità da realizzare, richiedendo il rispetto del principio di proporzionalità che qualsiasi deroga ad un diritto individuale prescriva di conciliare, per quanto possibile, il principio di parità di trattamento con il fine perseguito (il richiamo è a Corte di giustizia 19 marzo 2002, causa C-476/99, Lommers).

Il pregnante riconoscimento dei divieti di discriminazione come espressione di un principio generale di uguaglianza, quale sancito soprattutto dalla seconda decisione con il suo richiamo all'art. 6 TUE e alla Carta di Nizza fa si, secondo la Corte, che l'uguaglianza viva "di una vita propria" che prescinde dai comportamenti attuativi o omissivi degli Stati membri. Osserva ancora la Corte di Milano come dalla natura precisa ed incondizionata di tale principio discenda la conseguenza che anche le specificazioni del principio stesso possano spiegare i propri effetti su tutti i consociati ed essere, dunque, invocate dai privati verso lo Stato nonché verso altri privati.

La Corte di giustizia, infine, precisa la Corte, ha evidenziato che l'art. 6 della direttiva 2000/78 impone, per rendere accettabile un trattamento differenziato in base all'età, due precisi requisiti dettati dalla finalità legittima e dalla proporzionalità e necessità dei mezzi utilizzati per il perseguimento degli obiettivi, requisiti, tuttavia, mancanti nel caso di specie, essendosi limitato il legislatore nazionale ad attribuire rilevanza esclusivamente all'età, allo scopo di introdurre un trattamento differenziato, senza alcuna altra condizione soggettiva del lavoratore (per es. disoccupazione protratta da un certo tempo o assenza di formazione professionale) e non avendo esplicitamente finalizzato tale scelta ad alcun obiettivo individuabile. La eliminazione della necessità che il lavoratore fosse in stato di disoccupazione (se minore di 25 anni) ovvero che fosse espulso dal ciclo produttivo o iscritto nelle liste di collocamento o mobilità (se di età superiore a 45 anni) frutto delle modifiche apportate all'impianto originario dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in l. 14 maggio 2005, n. 80, ha determinato l'intervento correttivo della Corte.

Il mero requisito dell'età, quindi, secondo la Corte d'appello, non può giustificare l'applicazione di un contratto pacificamente più pregiudizievole, per le condizioni che lo regolano, di un contratto a tempo indeterminato, e la discriminazione che si determina rispetto a coloro che hanno superato i 25 anni di età non trova alcun ragionevole fondamento. Analogamente, nessuna giustificazione è ravvisabile nel fatto che, per il solo compimento del venticinquesimo anno, il contratto debba essere risolto.

Alla luce di tali argomentazioni, quindi, secondo il giudice d'appello di Milano, si evidenzia il contrasto tra quanto disposto dal comma 2 dell'art. 34 del d.lgs. n. 276 del 2003 ed i principi affermati dalla direttiva 2000/76, la cui efficacia diretta non può essere messa in discussione, in quanto espressione di un principio generale dell'Unione Europea.

Ritenuto, quindi, il contenuto discriminatorio della norma considerata, la Corte ha censurato il comportamento della società appellata che aveva proceduto all'assunzione dell'appellante con un contratto intermittente esclusivamente sulla base dell'età anagrafica e condannato la Abercrombie a riammettere l'appellante nel posto di lavoro risarcendogli altresì il danno, quantificato sulla base della retribuzione media percepita dalla data della risoluzione del rapporto a quella della sentenza.

Nella vicenda in esame sembra configurarsi qualcosa di simile a ciò che avviene, mutatis mutandis, nei contratti a tempo determinato. Non è possibile in questa sede soffermarsi sugli approdi della importante sentenza delle Sezioni Unite n. 5072/2016 sulla "compatibilità comunitaria" e la connessa responsabilità da violazione del diritto dell'Unione, ma può essere opportuno sottolineare che, riguardando la più recente disciplina che concerne il contratto a termine sotto la lente di ingrandimento europea ed alla luce della giurisprudenza di cui a Corte di giustizia 26 novembre 2014, cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo, considerata la liberalizzazione nell'apposizione del termine che lo caratterizza, affinché la normativa interna possa considerarsi compatibile con i principi dell'Unione, il contratto dovrà essere "strutturalmente" a termine e, cioè, l'apposizione del termine non potrà che rispondere ad esigenze strutturali del contratto, in quanto volto a fronteggiare esclusivamente necessità di carattere temporaneo.

Nel caso che qui ci interessa, ancora una volta l'interpretazione conforme conduce all'accantonamento della norma interna configgente e si sostanzia, nonostante la Corte non vi faccia alcun riferimento, nella disapplicazione della norma stessa.

Il rapporto osmotico fra interpretazione conforme e disapplicazione, quando si parla di uguaglianza, appare di grande evidenza nella predetta decisione: la Corte richiama più volte l'obbligo di interpretazione adeguatrice e ne percorre le strade per assicurare un risultato conforme al diritto dell'Unione, risultato, tuttavia, che le appare alla fine impossibile, tanto da indurla ad optare per la disapplicazione della norma interna configgente, ritenendo, quindi, costituito fra le parti un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Nonostante il nucleo della sentenza, quello che concerne il carattere discriminatorio del regolamento contrattuale considerato, appaia molto succinto nella motivazione della Corte d'appello, esso è estremamente chiaro: il mero requisito dell'età, non accompagnato da ulteriori specificazioni, non può giustificare l'applicazione di un contratto pacificamente pregiudizievole per il lavoratore. Gli obiettivi di politica del lavoro risultano estremamente confusi nel caso considerato - si direbbe, a differenza di quanto avveniva con la legge Hartz nel caso Mangold - tanto da indurre la Corte d'appello a ritenere insussistenti le ragioni giustificatrici della deroga al divieto di discriminazione per l'assenza di qualsivoglia richiamo ad una condizione soggettiva del lavoratore.

La Corte di Giustizia nella sentenza 21 luglio 2011, cause riunite C-159/10 e C-160/10, Fuchs e nella sentenza del 5 marzo 2009, C-388/07, Age Concerne England aveva chiarito ulteriormente il principio espresso in Mangold secondo cui, se è vero che gli Stati membri dispongono di un ampio margine discrezionale nella definizione delle misure atte a realizzare una finalità di politica sociale e di occupazione, tuttavia, essi non possono svuotare della sua sostanza il divieto di discriminazioni basate sull'età enunciato nella direttiva 2000/78. I giudici di Lussemburgo escludono che semplici affermazioni generiche che riconducono un determinato provvedimento alla politica del lavoro siano sufficienti per dimostrare che l'obiettivo perseguito dal provvedimento stesso giustifichi una deroga al principio del divieto di discriminazioni fondate sull'età; inoltre, secondo la Corte di Giustizia, una normativa è idonea a garantire la realizzazione dell'obiettivo addotto solo se risponde realmente all'intento di raggiungerlo, in modo coerente e sistematico (così, Corte di giustizia, 10 marzo 2009, C-169/07, Hartlauer).

4. Il rinvio pregiudiziale della Corte di legittimità.

La sentenza della Corte d'appello di Milano è stata oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di cassazione. La società condannata, infatti, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970 sotto diversi profili, ha dedotto che erroneamente parte istante aveva azionato l'art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 e l'art. 702bis c.p.c. e, cioè, la procedura speciale prevista in ambito antidiscriminatorio, mentre avrebbe dovuto agire mediante ricorso al procedimento di cui all'art. 1, commi 48 e segg. della l. 28 giugno 2012, n. 92; sul piano sostanziale, ha dedotto la violazione dell'art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, della direttiva 2000/78, nonché del principio generale comunitario di non discriminazione, poiché nella specie la normativa favorisce i lavoratori in ragione della loro età e non viceversa essendo, quindi, sovrapponibile alla normativa dell'Unione. Ha chiesto, poi, l'appellante il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia deducendo, infine, in punto risarcitorio, l'esclusiva possibilità di ottenere il risarcimento del danno in luogo della conversione del contratto e, comunque, che il risarcimento del danno non avrebbe potuto essere commisurato alla media delle retribuzioni corrisposte.

La Corte richiama preliminarmente la propria consolidata giurisprudenza (in particolare, Sez. U, n. 03758/2009, Finocchiaro, Rv. 606660) secondo cui l'inesattezza del rito non determina la nullità della sentenza salvo che la parte, in sede di impugnazione, indichi uno specifico pregiudizio processuale derivante dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa ed apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte. Essa osserva, quindi, che l'art. 34 potrebbe porsi in conflitto con il principio di non discriminazione per età che deve essere considerato un principio generale dell'Unione (il richiamo è a Corte di giustizia C-555/07 Kucukdeveci, nonché a Corte di giustizia 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold citate, nonché alla altresì citata Corte di giustizia 8 aprile 1976, causa C-43/75, Defrenne) cui la direttiva 2000/78 da espressione concreta e che è sancito anche dall'art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. L'art. 6, n. 1, comma 1, infatti, della predetta Direttiva 2000/78, enuncia che una disparità di trattamento in base all'età non costituisce discriminazione, laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari; la formula dell'art. 34 vigente all'epoca dei fatti di causa, tuttavia, mostra di non contenere alcuna esplicita ragione rilevante ai sensi dell'art. 6, n. 1, primo comma, della direttiva 2000/78.

Con ordinanza del 29 febbraio 2016, la Corte di legittimità ha, quindi, disposto, ai sensi dell'art. 267 del TFUE di chiedere, in via pregiudiziale, alla Corte di giustizia se la normativa nazionale di cui all'art. 34 del d.lgs. n. 276 del 2003, secondo cui il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età, sia contraria al principio di non discriminazione in base all'età, di cui alla Direttiva 2000/78 e alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 21, n. 1).

La palla passa ancora una volta alla Corte di giustizia cui è rimesso il compito di chiarire se effettivamente nel caso in esame si sia verificato un intollerabile vulnus al principio generale di uguaglianza che imponga la rimozione della norma interna con esso contrastante.

Sembrava impossibile, ai tempi di Mangold, che la legislazione nazionale italiana potesse formare oggetto di un rinvio pregiudiziale in termini di probabile lesione del divieto di discriminazione per età. La proliferazione normativa e la frammentazione dei tipi contrattuali ha reso evidente, tuttavia, anche per il nostro ordinamento, la continua necessità di verificare la compatibilità dei nuovi strumenti contrattuali con i principi dell'Unione, ormai definitivamente consolidatisi intorno al principio generale di uguaglianza.

In attesa della decisione, le conclusioni dell'Avvocato Generale Michael Bobeck del 23 marzo 2017 pongono di nuovo al centro il giudice nazionale.

Nell'affermare la perfetta compatibilità fra la direttiva 2000/78 e l'art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, l'Avvocato Generale conferma il ruolo della Carta come Cartina di tornasole dello stato di salute dei diritti fondamentali, ed assegna un ruolo ancora una volta nodale al giudice interno cui spetta il difficile compito di verificare la "compatibilità Comunitaria" attraverso lo strumento ultimo ed imprescindibile rappresentato dall'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

  • condominio
  • responsabilità
  • danno

CAPITOLO V

LASTRICO SOLARE DI USO ESCLUSIVO E DANNI DA INFILTRAZIONE

(di Annamaria Fasano )

Sommario

1 Il principio di diritto espresso dalle S.U. con sentenza n. 9449 del 2016. - 2 L'ordinanza interlocutoria. - 2.1 Riflessioni. - 3 La ripartizione delle spese tra condomini. - 4 Il lastrico solare. - 5 Lastrico solare in uso esclusivo e danni a terzi. - 6 La sentenza delle Sezioni Unite, 29 aprile 1997, n. 3672. - 7 La giurisprudenza successiva. - 8 I criteri di imputazione della responsabilità del condominio ex art. 2051 c.c. - 9 La soluzione del contrasto. - BIBLIOGRAFIA

1. Il principio di diritto espresso dalle S.U. con sentenza n. 9449 del 2016.

Con la sentenza delle Sez. U, n. 09449/2016, Petitti, Rv. n. 639821, la Corte afferma il seguente principio di diritto: "In tema di condominio di edifici, qualora l'uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l'usurario esclusivo, quale custode del bene ai sensi dell'art. 2051 c.c., sia il condominio in forza degli obblighi inerenti l'adozione di controlli necessari alla conservazione delle parti comuni incombenti sull'amministratore ex art. 1130 comma 1, n. 4, c.p.c., nonché sull'assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria; il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, salva la rigorosa prova contraria della specifica imputabilità soggettiva del danno, secondo i criteri di cui all'art. 1126 c.c., che pone le spese di riparazione ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell'usurario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio".

Per il Collegio sono chiare le diverse posizioni del titolare dell'uso esclusivo e del condominio: il primo è tenuto agli obblighi di custodia ex art. 2051 c.c., in quanto si trova in rapporto diretto con il bene potenzialmente dannoso, ove non sia sottoposto alla necessaria manutenzione; il secondo è tenuto, ex art. 1130, comma 1, n. 4, e 1135, comma 1, n. 4, c.c., a compiere gli atti conservativi e le opere di manutenzione straordinaria relativi alle parti comuni dell'edificio. È sul concorso tra tali due tipi di responsabilità che è stata risolta la questione di massima sottoposta all'esame delle Sezioni Unite.

2. L'ordinanza interlocutoria.

Nel corso del giudizio di merito, le decisioni del Tribunale e della Corte di appello si erano uniformate al principio espresso dalla sentenza delle Sez. U, n. 02672/1997, Calabrese, Rv. 106087, emessa in sede di risoluzione di contrasto, secondo cui: "poiché il lastrico solare dell'edificio (soggetto al regime del condominio) svolge la funzione di copertura del fabbricato anche se appartiene in proprietà superficiaria o se è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini, all'obbligo di provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo. Pertanto, dei danni cagionati all'appartamento sottostante per le infiltrazioni d'acqua provenienti dal lastrico, deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti gli obbligati inadempienti alla funzione di conservazione, secondo le proporzioni stabilite dal citato art. 1126, vale a dire, i condomini ai quali il lastrico serve da copertura, in proporzione dei due terzi, e il titolare della proprietà superficiaria o dell'uso esclusivo, in ragione delle altre utilità, nella misura del terzo residuo". Con ordinanza interlocutoria n. 13526 del 2014, la Seconda Sezione civile della Suprema Corte ritiene opportuno l'intervento delle Sezioni Unite per un ripensamento dell'indirizzo condiviso dalle corti di merito (Sezioni Unite n. 2672 del 1997) secondo cui obbligati, sia alle riparazioni che al risarcimento dei danni arrecati all'appartamento sottostante, sono i "condomini che usufruiscono della copertura del terrazzo in concorso con il proprietario superficiario", secondo la proposizione di cui all'art. 1126 c.c. Il Collegio ritiene necessaria una rivalutazione della questione, sia tenendo conto delle criticità espresse da parte della dottrina, sia in ragione di alcuni contrasti insorti nella giurisprudenza successiva, che avevano richiamato l'applicazione dell'art. 2051 c.c., nell'ipotesi di cattiva manutenzione di cose in uso esclusivo, al condominio, seguendo il principio che addebita il danno ascrivibile ai singoli o al condominio all'eventuale comportamento lesivo di chi lo ha cagionato. Si afferma che la linea di contrasto è percepibile anche a proposito della individuazione del legittimato passivo a resistere all'azione risarcitoria del terzo (anche se condomino) danneggiato. Si introduce, secondo il Collegio in questo modo una distinzione tra l'ipotesi in cui si lamentavano danni dovuti a vetustà e danni riconducibili a difetti originari di progettazione o di esecuzione dell'opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario, sancendo nel primo caso l'esclusiva legittimazione del condominio e nel secondo caso quella del condomino. Secondo la Seconda Sezione civile, va, altresì, considerato il fatto che quando l'illecito è rappresentato dalla condotta omissiva o commissiva dei condomini fonda una responsabilità aquiliana, la quale deve essere scrutinata secondo le rispettiva colpe e, in caso di responsabilità condominiale, secondo i criteri millesimali, senza utilizzare la normativa coniata ad altro fine.

Il Collegio conclude, pertanto, ritenendo condivisibile la tesi che sostiene la responsabilità ex art. 2051 c.c., sottolineando, in particolare, l'indebita applicazione degli artt. 1123 e 1126 c.c., che venivano interpretati dalla sentenza del 1997, non più come norme che disciplinano la ripartizione delle spese interne, ma come fonti da cui scaturiscono le obbligazioni propter rem.

2.1. Riflessioni.

Per schematizzare, la Corte, nell' ordinanza interlocutoria, individua alcuni dei passaggi qualificanti dell'orientamento criticato delle S.U. del 1997, ponendo in evidenza come la sentenza delle Sezioni Unite n. 3672 del 1997:

1. Escludeva, in via di principio "che la responsabilità per danni prodotti nell'appartamento sottostante dalle infiltrazioni d'acqua provenienti dal lastrico solare per difetto di manutenzione si ricolleghi al disposto dell'art. 2051 cod. civ.";

2. Affermava che "dall'art. 1123 e dall'art. 1126 cod. civ. discendono obbligazioni poste dalla legge a carico ed a favore dei condomini dell'edificio, da qualificare come obbligazioni propter rem di cui i partecipanti al condominio sono ad un tempo soggetti attivi e soggetti passivi";

3. Deduceva da tali premesse che: "le obbligazioni reali di conservazione riguarderebbero tutti i rapporti reali inerenti, con la conseguenza che la susseguente responsabilità per inadempimento concerne i danni arrecati ai beni costituenti il fabbricato";

Si finiva così per assimilare "le condizioni materiali di dissesto e di degrado del lastrico" come species dell'unico concetto tecnico "di difetto di manutenzione" e quale coincidente conseguenza "dell'inadempimento delle obbligazioni propter rem";

La Corte giungeva alla conseguenza che la responsabilità ed il risarcimento dei danni sono regolati secondo gli stessi criteri di imputazione e di ripartizione, cioè quelli prescritti dall'art. 1126 cod. civ.

Un aspetto rilevante, posto in evidenza nella ordinanza interlocutoria, consente una riflessione in ordine alla registrata discrasia tra l'imputazione della responsabilità e l'applicabilità dell'art. 1126 c.c.. Il Collegio fa esplicito riferimento alla "maggiore utilità che i condomini aventi l'uso esclusivo (quale piano di calpestio) traggano rispetto agli altri condomini che si giovano della funzione principale del lastrico, quella di copertura", colto nel collegamento tra "il diritto dei proprietari è l'utilità che essi traggono dai beni", ed è stato constatato che "il risarcimento prescinde da ogni considerazione sull'utilità che danneggiante trae dal pregiudizio arrecato, criterio contrario a quello che regge l'art. 1126 c.c., fondato sull'utilità del danneggiante". Questa obiezione assume rilievo in ragione della difficoltà a coniugare la ratio dell'art. 1126 c.c. con il sistema normativo di riferimento della responsabilità risarcitoria. In relazione a questo specifico aspetto, va precisato che l'interesse del condominio quale utilizzatore esclusivo del lastrico è un interesse individuale che si può distinguere, ma certamente non si contrappone, in quanto si coordina, con l'interesse che è comune ai condomini (e quindi anche al proprietario esclusivo del lastrico), in ordine alla funzione di copertura che lo stesso bene svolge. Questa è la ragione che, nell'ambito del rapporto tra il condomino uti singulus ed il gruppo dei partecipanti al condominio giustifica, nella ripartizione delle spese di manutenzione del lastrico solare, l'applicazione della disciplina specifica contenuta nell'art. 1126 c.c.. La soluzione del problema della responsabilità ha conseguenze rilevanti, in quanto non riguarda solo le modalità di allocazione del risarcimento del danno, ma anche la responsabilità per l'adempimento della correlativa obbligazione. Volendo fare una semplificazione molto suggestiva, il criterio di imputazione della responsabilità per danni derivanti da infiltrazioni al lastrico solare si trova nella medesima condizione del passante che venga colpito da un pezzo di cornicione che si è staccato dal prospetto condominiale o del proprietario di una autovettura in sosta che da quest'ultimo accadimento abbia a subire danni al proprio bene. In questa prospettiva, le due norme l'art. 2051 c.c. e l'art. 1126 c.c. operano su piani completamente diversi, posto che la prima esprime una imputazione di responsabilità per le conseguenze negative derivanti da un evento danno che prescinde da un preesistente rapporto; la seconda esprime, invece, un criterio di ripartizione di spese erogate o da erogarsi in virtù dell'esistenza e della rilevanza sub specie iuris di una relazione condominiale. Orbene, dovendo ritenere assimilabili le due situazioni, in caso di danno derivante dal distacco del cornicione, i singoli condomini sarebbero tenuti a pagare secondo i criteri individuati dall'art. 1126 c.c.?

A questo punto viene spontaneo ricordare l'indirizzo della giurisprudenza di legittimità che, nelle ipotesi in esame, vede una legittimazione esclusiva del condominio, a cui fa pure cenno la Suprema Corte nella ordinanza interlocutoria, il quale potrà chiamare in giudizio i soggetti dai quali pretenda di essere garantito, sia pure nella forma della garanzia impropria (Sez. 3, n. 00020/2010, Frasca, Rv. 610827). Molto interessante anche l'affermazione conclusiva operata dalla Seconda Sezione civile, laddove, con riferimento alla specie, discorre ex professo di "una responsabilità condominiale" che può essere accompagnata, ma anche sostituita, dalla responsabilità del singoli condomini. Se sussiste una responsabilità condominiale deve anche potersi ipotizzare l'esistenza di un "illecito condominiale", così come anche alla responsabilità aquiliana del singolo condomino deve corrispondere una fattispecie illecita diversamente caratterizzata. Una prospettiva come quella delineata non può non enfatizzare l'individualità del condominio e la soggettività della stesso.

3. La ripartizione delle spese tra condomini.

Per comprendere il ragionamento a cui giungono le Sezioni Unite giova brevemente illustrare i criteri di ripartizione delle spese tra condomini. La ripartizione delle spese per la conservazione e il godimento delle parti comuni dell'edificio è regolata dall'art. 1123 c.c., a norma del quale vengono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salva diversa convenzione. La dottrina dominante ritiene che la disciplina della ripartizione delle spese relativa alle cose, agli impianti ed ai servizi condominiali, contenute negli artt. 1123 c.c., sarebbe ispirata alla necessità di adottare i principi dettati in materia di comunione alle peculiarità della fattispecie condominiale, contraddistinta dalla possibilità che alcuni partecipanti ricavino dall'uso del bene comune una utilità maggiore rispetto a quella tratta dagli altri condomini. In particolare, la distribuzione delle spese in discorso sarebbe ispirata alla regola della obiettiva utilità, desumibile dalla interpretazione complessiva delle norme citate.

Mentre l'art. 1123, comma 1, c.c., riprenderebbe, in ordine alle spese per la conservazione e il godimento delle parti comuni dell'edificio, il criterio della suddivisione in base alle quote di proprietà già enunciato in materia di comunione dall'art. 1104 c.c., i rimanenti commi della medesima disposizione, nel prevedere per le cose destinate a servire i condomini in maniera diversa la ripartizione proporzionata all'uso (potenziale), indicherebbero il principio generale in materia di condominio, che impone di modulare la contribuzione in ragione della obiettiva utilizzabilità della cosa, senza fare alcuna distinzione tra spese di conservazione e di godimento, tutte menzionate espressamente nel comma 1, ed indistintamente ricomprese nel richiamo generale operato dal capoverso. L'art. 1123, comma 2, c.c., stabilisce che se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura differente, le spese sono ripartite in proporzione all'uso che ciascuno può farne. Secondo la S.C., nell'applicazione dell'art. 1123, comma 2, c.c., deve aversi riguardo non al godimento effettivo, bensì al godimento potenziale che il condomino può ricavare dalla cosa comune, atteso che quella del condominio è una obbligazione propter rem che trova fondamento nel diritto di comproprietà della cosa comune, sicché il fatto che egli non la utilizza non lo esonera dall'obbligo di pagamento delle spese suddette ( Sez. 2, n. 13160/1991, Marotta, Rv. 474933).

Un indirizzo ritiene che in ragione della formulazione dell'art. 1123, comma 2, c.c., si deve tenere conto anche del valore delle singole unità immobiliari.

La norma di cui all'art. 1126 c.c., costituirebbe, nella prospettiva tradizionale, solo una speciale applicazione dei principi già enunciati, in quanto la misura del contributo sarebbe predeterminata dal legislatore sulla base della presunzione (assoluta) secondo cui l'utilità desunta dalla funzione di copertura del lastrico è doppia rispetto a tutte le altre (ad es. di calpestio, di affaccio ecc. ) ritraibili dall'utente esclusivo. Secondo l'indirizzo prevalente, se si tratta di beni destinati ad essere utilizzati dai condomini in misura diversa, le relative spese sono ripartite in proporzione dell'uso che ciascuno può farne. Per quanto a noi interessa, come sostenuto dalla giurisprudenza, le spese di rifacimento del tetto (o lastrico) di edificio diviso in più piani sono affrontate dai condomini ex artt. 1117 e 1123 c.c. in base al valore del piano o della porzione di esso appartenente a ciascuno in via esclusiva. Non è applicabile il principio di cui all'art. 1101 c.c. in materia di comunione, per cui le spese gravano sui partecipanti in eguale misura. Il che trova spiegazione nella funzione meramente strumentale delle parti comuni rispetto alle parti in proprietà esclusiva dei condomini delle quali esse sono a servizio, consentendone l'uso. I contributi per la conservazione, quindi, vanno ricondotti al criterio dell'appartenenza e si dividono in proporzione alle quote; le spese per l'uso, aventi origine dal godimento soggettivo e personale, si suddividono in proporzione all'uso e misura di esso. Le spese per la conservazione costituiscono obbligationes propter rem", dove il nesso tra l'obbligo e la res non è modificato da alcuna interferenza con l'elemento soggettivo. L'obbligazione di concorrere alle spese per l'uso, invece, scaturisce da questo e, ciò che più conta, indipendentemente dalla misura proporzionale dell'appartenenza. Il contributo è adeguato al godimento, che può cambiare in ordine alla cosa da un condominio ad altro in modo autonomo rispetto al valore della quota. In sostanza, come è stato autorevolmente affermato, l'ordinamento, circa l'imputazione e la ripartizione delle spese, dà rilevanza al rapporto di diritto in un caso, alla relazione di fatto nell'altro.

In sintesi, la ripartizione delle spese necessarie per le parti comuni dell'edificio avviene proporzionalmente tra tutti i condomini (art. 1123, comma 1, c.c.). La proporzionalità non trova applicazione nel caso fosse utilizzabile il criterio della riparazione in base alle singole utilizzazioni effettive dei proprietari.

Così, se il bene servisse i condomini in misura diversa, le spese vanno commisurate all'uso che ciascuno può farne, non al valore delle singole proprietà. Si precisa, infatti, che "il logorio che determina la necessità della manutenzione, infatti, dipende dall'uso, per cui è giusto che alle relative spese i condomini contribuiscano in funzione dell'uso individuale" [Triola, 2007].

Il principio di proporzionalità fra spese ed uso, (secondo cui le spese per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell'edificio sono ripartite, qualora si tratti di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, in proporzione all'uso che ciascuno può farne), comporta che ove la possibilità dell'uso sia esclusa, con riguardo alla destinazione delle quote immobiliari di proprietà esclusiva, per ragioni strutturali indipendenti dalla libera scelta del condominio, va escluso anche l'onere del condomino stesso di contribuire alle spese di gestione del relativo servizio.

4. Il lastrico solare.

Con riferimento al lastrico solare, diversi possono essere i criteri di ripartizione delle spese, secondo il diverso regime di utilizzabilità di tale manufatto. Il lastrico non è praticabile, servendo al solo fine di copertura dell'edificio, al pari del tetto: in tal caso le spese devono essere ripartite tra tutti quanti i condomini in base all'art. 1123, comma 1, c.c., ossia secondo le tabelle millesimali di comproprietà. L'obbligo di concorso alle spese non grava su quei condomini che non traggono alcun vantaggio (neppure potenziale) dal bene: così in presenza di appartamenti localizzati in distinti corpi di fabbrica o posti in fabbricati che, pur facendo parte dello stesso corpo, si trovino tuttavia (come nel caso di costruzioni a sezione di minore area rispetto a quella di base) a livello superiore a quello del lastrico. Il lastrico solare è praticabile da tutti quanti i condomini: trovano applicazione i criteri suindicati, e tenuto conto che comprende anche la struttura su cui appoggia il manto di materiale impermeabile che ricopre l'edificio, le relative spese di riparazione e manutenzione fanno carico a tutti condomini nella misura prevista dall'art. 1123 c.c. Il lastrico solare è, infatti, di proprietà comune ed al condominio incombe, pertanto, l'obbligo di eseguire tutti i lavori necessari affinché la copertura dell'edificio sia perfettamente efficiente e rispondente allo scopo per cui fu costruita, essendo altrimenti responsabile di ogni possibile danno, compresi quelli prodotti eventualmente alla struttura di sostegno. La responsabilità del condominio trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo di curare la conservazione delle cose comuni, che al condominio appartiene per espressa previsione legislativa (art. 1104, 1118, c.c.). Diversa è la situazione in cui il lastrico solare è utilizzabile soltanto da uno o più condomini determinati. La fattispecie, da ultimo richiamata, è espressamente disciplinata dall'art. 1126 c.c. che ripartisce l'onere delle spese: un terzo a carico di coloro che hanno l'uso esclusivo del lastrico ed i residui due terzi a carico dei rimanenti condomini, cui il lastrico serve (ossia i condomini le cui abitazioni si trovino nella colonna d'aria sottostante il lastrico, non necessariamente, peraltro, con riferimento alla sola parte da riparare, in caso di intervento parziale), in proporzione del valore di piano o della porzione di piano di ciascuno (secondo cioè l'art. 1123, 1 comma, c.c.). Ove il lastrico sia di uso esclusivo di più condomini, la quota di un terzo su di essi gravante dovrà essere ripartita in ragione del criterio di cui all'art. 1123, 1 comma, c.c. Il condomino che, oltre ad avere l'uso esclusivo del lastrico, sia anche proprietario di un'unità immobiliare ad esso sottostante, è tenuto ad un duplice contribuzione alle spese: per un terzo, quale utente esclusivo del manufatto, e per i rimanenti due terzi, in proporzione alla sua unità immobiliare, quale proprietario della stessa. Fanno, invece, capo soltanto a chi ha diritto esclusivo di calpestio, le spese relative ai parapetti e altri simili ripari, atteso che essi servono non già alla copertura, ma alla praticabilità del lastrico.

Nel caso in cui una parte dell'edificio che, in base all'art. 1117 c.c., dovrebbe considerarsi comune, sia in proprietà esclusiva di un condomino, il diritto di quest'ultimo non può considerarsi pieno ed assoluto, essendo limitato dal concorrente diritto degli altri condomini a che tale parte adempia alla propria funzione tipica. In sostanza, può essere di proprietà esclusiva, ma su di esso non possono essere costituite servitù suscettibili di incidere negativamente sui diritti dei condomini. Il diritto di proprietà deve essere inteso come limitato dal concorrente diritto degli altri condomini a che il lastrico (o la terrazza a livello) adempia a funzione di copertura, onde il diritto del comproprietario non può considerarsi in alcun caso "pieno ed esclusivo", ma contemperato anche alle utilità che gli altri condomini ricevono dal lastrico medesimo, cui corrisponde il loro obbligo di concorso, proporzionale all'utilità nelle spese di ricostruzione e riparazione. Può anche verificarsi l'ipotesi, abbastanza frequente, che il lastrico appartenga a persona che non è proprietaria di alcun appartamento nel condominio. In ragione della utilitas arrecata al condominio si stabilisce che la manutenzione del lastrico, come del terrazza a livello, devono provvedere tutti i condomini cui il lastrico (o la terrazza) funge da copertura, in concorso con l'eventuale proprietario superficiario o titolare del diritto di uso esclusivo secondo le proporzioni imposte dall'art. 1126 c.c. già menzionato. Si precisa che la norma, nel disciplinare la ripartizione delle spese di riparazione e ricostruzione del lastrico solare per cui ne ha l'uso esclusivo, non specifica la natura reale o personale di esso, né al fine rileva l'attribuzione millesimale, utilizzata come criterio per contribuire agli oneri condominiali.

Secondo la S.C., essendo lecito attribuire il tetto di un edificio in condominio in proprietà esclusiva ad un condomino, nulla vieta che nell'operare tale attribuzione si addossino pure a quel condomino tutte le spese relative alla manutenzione del bene di sua esclusiva proprietà; deve soltanto riconoscersi l'esigenza di una espressa e specifica pattuizione in quel senso, non potendosi presumere, nel silenzio del titolo, che il condominio, per il fatto di riservarsi formalmente tale proprietà esclusiva, intenda assicurare ai proprietari l'esonero di ogni concorso nelle spese di manutenzione.

Nel caso in cui manchi tale principio, le spese di manutenzione del tetto stesso vanno ripartite tra tutti i condomini, con i criteri di cui all'art. 1126 c.c., come stabilito per i lastrici solari di uso esclusivo.

L'indirizzo prevalente della giurisprudenza di legittimità ritiene che l'art. 1126 c.c. trova applicazione anche nel caso in cui il lastrico solare sia di proprietà esclusiva di un condomino.

Per un orientamento della dottrina [R. Triola, 1996], le spese per la manutenzione del lastrico solare in proprietà esclusiva vanno ripartite allo stesso modo di quelle in uso esclusivo, secondo il criterio previsto dall'art. 1126 c.c., dovendosi precisare che tale disposizione non va applicata in via diretta (dal momento che disciplina l'ipotesi del lastrico solare comune con semplice diritto di uso esclusivo in favore di un condominio), ma mediante ricorso all'analogia, da ritenere consentito in considerazione del carattere semplicemente speciale e non eccezionale di tale norma e della ricorrenza della identità di ratio. Infatti, sia nel lastrico solare comune con uso esclusivo in favore di un solo condomino, che nel caso di lastrico solare in proprietà esclusiva, l'usura che rende necessarie le opere di manutenzione o riparazione è ricollegabile, in una certa misura, al godimento di un solo condomino, che non quantitativamente diverso nelle due ipotesi. Per la tesi prevalente, la domanda diretta ad ottenere l'esecuzione dei lavori di manutenzione e ripristino va proposta nei confronti del condominio, in persona dell'amministratore, quale rappresentante di tutti i condomini obbligati, e non già del proprietario del lastrico, il quale può essere chiamato in giudizio a titolo personale soltanto ove frapponga impedimenti all'esecuzione dei lavori in questione, al solo fine di sentirsi inibire comportamenti ostruzionistici, ed ordinare comportamenti di indispensabile cooperazione.

Alcuni autori [Triola, 2007 cit.] non condividono questa impostazione, obiettando che non si riesce a comprendere in che modo potrebbe essere emessa nei confronti del condominio una condanna ad eseguire lavori su una proprietà di un condomino. La domanda, invece, sarà proposta dal condominio nei confronti del proprietario esclusivo del lastrico, che potrà pretendere il contributo nelle spese dai condomini (Sez. 3, n. 05848/2007, Mazza, Rv. 597528).

5. Lastrico solare in uso esclusivo e danni a terzi.

La questione della responsabilità dei danni per infiltrazioni del lastrico solare è stata oggetto, anche in passato, di una vastissima giurisprudenza spesso contrastante. Al riguardo, infatti, né dottrina, né giurisprudenza hanno trovato una soluzione definitiva. La questione spesso oggetto di esame riguardava l'omessa manutenzione del lastrico di proprietà o di uso esclusivo di un solo condomino, da cui derivavano danni (alla proprietà di altri condomini o alle persone dei terzi).

La giurisprudenza si era orientata sostanzialmente seguendo tre indirizzi:

1. Alcune pronunce ritenevano responsabile il solo usurario o proprietario, in quanto custode della terrazza o del lastrico. Secondo tale tesi, il criterio di ripartizione delle spese, sopra menzionato, trovava il suo fondamento nella norma contenuta nell'art. 1126 c.c., volta a disciplinare soltanto i rapporti tra i condomini, fondati sul vincolo imposto dalla comunione forzosa ai singoli proprietari delle unità immobiliari dell'edificio, nel quale risiedeva la causa di siffatta regolamentazione.

2. Un indirizzo prevalente, invece, ravvisava la responsabilità del condominio. La ratio andava trovata nella funzione svolta dal lastrico solare di copertura dell'intero fabbricato. Di conseguenza, il condominio avrebbe dovuto averne la custodia, occupandosi della relativa manutenzione e rispondere di eventuali danni. Si stabiliva l'imputazione del quantum a cui era tenuto ogni singolo condomino per il conseguente risarcimento al terzo danneggiato secondo i criteri determinati dall'art. 1126 c.c.

3. Un altro indirizzo fondava la responsabilità per i danni cagionati ai terzi dalla rovina del bene nel disposto dell'art. 2051 c.c. e, quindi, nella violazione degli obblighi derivanti dalla qualità di custode del bene stesso. Custode era il soggetto avente un rapporto diretto e giuridicamente rilevante con il bene. La giurisprudenza prevalente individuava quale legittimato passivo il condominio, in persona dell'amministratore, ai sensi dell'art. 2051 c.c., mentre l'art. 1126 aveva, secondo questo orientamento, la funzione interna di ripartire il risarcimento tra i condomini. Quindi anche i danni, al pari delle spese, erano da ripartire in funzione del citato articolo 1126 c.c.

6. La sentenza delle Sezioni Unite, 29 aprile 1997, n. 3672.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, Sez. U, n. 03672/1997, Corona, Rv. 503962, sono intervenute per dirimere i suddetti contrasti, statuendo che la responsabilità per danni prodotti all'appartamento sottostante dalle infiltrazioni d'acqua provenienti dal lastrico solare (lastrico condominiale o in proprietà o uso esclusivo), per difetto di manutenzione, non vada ricollegata al disposto dell'art. 2051 c.c., ma all'art. 1123 c.c., nel caso di lastrico condominiale, e all'art. 1126 c.c., nel caso di lastrico in proprietà o uso esclusivo. Ne consegue che dei danni cagionati all'appartamento sottostante per le infiltrazioni d'acqua provenienti dal lastrico, deteriorato per difetto di manutenzione, parimenti rispondono tutti gli obbligati inadempienti al vincolo di conservazione, secondo le proporzioni stabilite dall'art. 1126 c.c., vale a dire i condomini ai quali il lastrico serve di copertura, in misura di due terzi, ed il titolare della proprietà superficiaria o dell'uso esclusivo, in ragione della residua frazione di un terzo.

Le Sezioni Unite, con la decisione in commento, hanno ritenuto che la responsabilità per i danni si ricollegasse, piuttosto che al disposto dell'art. 2051 c.c., ed al generale principio del neminem laedere, direttamente alla titolarità del diritto reale e, perciò, dovesse considerarsi come conseguenza dell'inadempimento delle obbligazioni di conservare le parti comuni, poste a carico dei condomini (art. 1223, co. 1, c.c.) e del titolare della proprietà superficiaria o dell'uso esclusivo (art. 1126 c.c.). Secondo la Corte, tanto l'art. 1123 co. 1, c.c., quanto l'art. 1126 c.c. vengono qualificati come tipi di obbligazioni propter rem, contrassegnate dalla titolarità, giacché soggetti attivi e soggetti passivi ne sono i partecipanti al condominio, e dall'oggetto, consistente nella prestazione delle spese per la conservazione dei beni esistenti nell'edificio. Le obbligazioni reali di conservazione coinvolgerebbero tutti i rapporti reali riguardanti l'edificio, con la conseguenza che la responsabilità per inadempimento deve coprire i danni arrecati ai beni comuni costituenti il fabbricato. La Corte precisa che, se alle riparazioni ed alle ricostruzioni del lastrico solare sono obbligati i condomini secondo le regole previste dagli artt. 1123 e 1126 c.c., al risarcimento dei danni cagionati all'appartamento sottostante per difetto di manutenzione dovrebbero essere tenuti gli obbligati inadempienti. Si fa salva l'eventualità che con l'individuata responsabilità per inadempimento delle obbligazioni propter rem potesse concorrere la responsabilità extracontrattuale per fatto illecito, fondata nel disposto dell'art. 2051 cod. civ. e nascente dalla lesione di un diritto soggettivo dei condomini estraneo ai rapporti di condominio (per esempio, del diritto alla salute del proprietario del piano sottostante), ovvero dalla lesione di un diritto dei terzi che entrano in relazione con l'edificio.

Secondo la Corte, le norme condominiali elaborate dal nostro legislatore sembrano essere riferite essenzialmente al profilo "reale" del fenomeno, pertanto, mediante il ricorso al diritto delle obbligazioni può ritenersi configurato il generale dovere di correttezza e di cooperazione attiva tra i condomini, idoneo a preservare le esigenze abitative dei vicini.

Devono, quindi, trovare applicazione i canoni fissati dall'art. 1218 c.c. per le obbligazioni contrattuali, salva l'eventualità di un fatto illecito commesso dal titolare del diritto reale, che configura una responsabilità extracontrattuale. Nella parte motiva della sentenza n. 9449 del 2016, si legge che i profili critici della soluzione data dalla decisione del 1997 vanno inquadrati in ciò che risulta attratta ad una disciplina di tipo obbligatorio una situazione in cui viene in rilievo la produzione di un danno ad un terzo, per effetto della violazione di un obbligo di custodia e comunque nel dovere di manutenzione della cosa comune.

7. La giurisprudenza successiva.

La suddetta sentenza non ha uniformato la giurisprudenza successiva, infatti, alcune pronunce della Suprema Corte (Cass. n. 06376/2006, Cass. n. 00642/2003; Cass. n. 15131/2001; Cass. n. 07727/2000) hanno espresso indirizzi difformi richiamando l'applicazione dell'art. 2051 c.c.

Si è, infatti, sostenuto che il condominio di un edificio, quale custode dei beni e dei servizi comuni, essendo obbligato ad adottare tutte la misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno, risponde, in base al disposto dell'art. 2051 c.c., dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini, ancorché i danni siano imputabili ai vizi edificatori dello stabile, comportanti la concorrente responsabilità del costruttore - venditore, non potendosi equiparare i difetti originari dell'immobile al caso fortuito, che costituisce l'unica causa di esonero del custode della responsabilità dell'art. 2051 c.c. Quindi, secondo questo indirizzo della giurisprudenza, la legittimazione passiva del condomino sussiste anche per quanto riguarda i danni subiti dai singoli condomini, in quanto, a tal fine, i criteri di ripartizione delle spese necessarie (ex art. 1126 c.c.) non incidono sulla legittimazione del condominio nella sua interezza e del suo amministratore, comunque tenuto a provvedere alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio ai sensi dell'art. 1130 c.c.

8. I criteri di imputazione della responsabilità del condominio ex art. 2051 c.c.

La responsabilità civile per danni cagionati da cose in custodia, di cui all'art. 2051 c.c., individua un'ipotesi di responsabilità oggettiva, per la cui configurazione è sufficiente la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato origine all'evento lesivo, ed essendo esclusa solo dal caso fortuito, la S.C. ha affermato che il condominio di un edificio, quale custode dei beni e dei servizi comuni, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno e risponde dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini. Per la sussistenza di una responsabilità ex art. 2051 c.c. è sufficiente la prova del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, mentre non assume rilievo la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia non presuppone, né implica, uno specifico obbligo di custodia analogo a quello previsto per il depositario, responsabilità a chi, di fatto, si trova nella condizione di controllare i rischi inerenti alla cosa. La speciale responsabilità ex art. 2051 c.c. va ricercata nella circostanza che il custode ha il potere di governo sulla cosa. Grava, pertanto, sui condomini la responsabilità per danni subiti da terzi (nel novero dei quali vanno ricompresi anche i conduttori di appartamenti siti nell'edificio), in conseguenza di omissioni addebitabili all'amministratore del condomino ovvero di inerzia da parte dell'assemblea condominiale nell'adottare gli opportuni provvedimenti atti ad eliminare una situazione di pericolo. Il più intenso dovere di vigilanza e di precauzione si estende a tutti i danni derivanti da un dinamismo connaturato alla cosa, ovvero per lo sviluppo di un agente dannoso sorto dalla cosa medesima. L'art. 2051 c.c. istituisce una relazione temporale soltanto tra il momento in cui si verifica il danno ed il periodo durante il quale si attua la custodia della cosa, senza attribuire rilevanza cronologica al momento in cui sono cominciati i fatti produttivi del pregiudizio. Nulla impedisce che la serie eziologica sfociata nel danno riferibile in ultima istanza alla cosa venga avviata in epoca anche notevolmente anteriore a quella dell'inizio della custodia, sempre che sia poi individuabile un contributo causale dell'azione o dell'omissione del "custode" alla realizzazione dell'evento. La prevalente giurisprudenza non esita a riconoscere la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. pure quando tra gli antecedenti causali del danno sia presenti delle cause naturali. Né vi è ragione di escludere a priori l'applicabilità della norma quando nella serie eziologica siano inserite attività umane incidenti sul bene produttivo del pregiudizio economico. Il custode del bene ha il dovere di accertarsi che il bene oggetto della sua vigilanza, si trovi in situazione tale, per il dinamismo ad esso connaturato e per lo sviluppo di un agente dannoso in esso insorto, da cagionare danni a terzi e nel caso positivo, di adottare tempestivamente le cautele idonee ad evitare la degenerazione della situazione da pericolosa a dannosa. Il caso fortuito è il limite alla responsabilità del custode. Secondo la comune opinione la nozione di caso fortuito deve essere concepita in termini relativamente ampi, e vi rientra anche il fatto del danneggiato e della condotta del terzo. Una parte rilevante degli interpreti ritiene che il caso fortuito è astrattamente comprensivo non solo delle cause successive, ma anche delle serie eziologicamente antecedenti alla condotta posta in essere dal custode.

La giurisprudenza è unanime nell'affermare la responsabilità del condominio se e quando dalla mancata manutenzione del lastrico solare derivi un danno all'appartamento sottostante. La S.C., Sez. 3, n. 17983/2014, Sestini, Rv. 632560, ha affermato il principio che il condominio risponde, ai sensi dell'art. 2051 c.c. dei danni ai terzi subiti da terzi estranei ed originati da parti comuni dell'edificio, mentre l'amministratore, in quanto tenuto a provvedere non solo alla gestione delle cose comuni, ma anche alla custodia delle stesse, è soggetto, ai sensi dell'art. 1218 c.c., solo all'azione di rivalsa eventualmente esercitata dal condominio per il recupero delle somme che esso abbia versato ai terzi danneggiati. In passato sul presupposto che il condominio sarebbe privo di soggettività giuridica, ma è un autonomo centro di imputazione di interessi, non identificabile con i singoli condomini, si è affermato che in tema di responsabilità extracontrattuale, se il danno subito da un condomino sia causalmente imputabile al concorso di un condomino e di un terzo, al condomino che abbia agito chiedendo l'integrale risarcimento dei danni solo nei confronti del terzo, il risarcimento non può essere diminuito in ragione del concorrente apporto causale colposo imputabile al condominio, applicandosi in tal caso non l'art. 1227, comma 1, ma l'art. 2055, comma 1, c.c., che prevede la responsabilità solidale degli autori del danno. Oggi questa impostazione potrebbe essere rivalutata in ragione del riconoscimento, da parte della recente giurisprudenza di legittimità, di una soggettività giuridica in capo al condominio. Le Sez. U, n. 19663/2014, San Giorgio, Rv. 632218, la Corte ha stabilito che in caso di violazione del termine ragionevole di durata del processo, qualora il giudizio sia stato promosso dal condominio, sebbene a tutela di diritti connessi alla partecipazione di singoli condomini, ma senza che costoro siano stati parti in causa, la legittimazione ad agire per l'equa riparazione spetta esclusivamente al condominio, quale autonomo soggetto giuridico, in persona dell'amministratore, autorizzato dall'assemblea dei condomini.

Con riferimento al lastrico solare ed alla terrazza a livello di uso esclusivo o di proprietà esclusiva, la tesi che sostiene la riconducibilità dei danni derivanti da infiltrazioni all'art. 2051 c.c. fa riferimento alle tesi argomentative esposte.

Numerose sono le sentenze della Corte che ritengono configurarsi la responsabilità del condominio, quale custode ex art. 2051 c.c., per i danni derivanti al singolo condomino, o a terzi, per difetto di manutenzione del lastrico solare (ex plurimis, Sez. 2, n. 00642/2003, Cioffi, Rv. 559836).

In particolare, con la decisione richiamata si precisa anche che la domanda di risarcimento dei danni è proponibile nei confronti del condominio in persona dell'amministratore, quale rappresentante di tutti i condomini tenuti ad effettuare la manutenzione, ivi compreso il proprietario del lastrico o colui che ne ha l'uso esclusivo. Secondo la Corte, i criteri di ripartizione delle spese necessarie per provvedere alla manutenzione del lastrico solare, e più in generale di tutte le parti comuni dell'edificio condominiale, stabiliti dagli artt. 1123 - 1126 c.c., non incidono su tale legittimazione del condominio nella sua interezza e del suo amministratore, che a tale manutenzione è tenuto, comunque, a provvedere.

La giurisprudenza di merito, con riferimento a tale obbligo di custodia, ha anche sostenuto che i proprietari dell'appartamento sottostante al lastrico hanno l'obbligo, accertata la colpevole inerzia del condominio, di attivarsi direttamente per provvedere all'esecuzione delle necessarie opere di manutenzione; infatti, l'inerzia dell'assemblea non può esonerare i titolari del diritto di uso esclusivo del lastrico solare dal provvedere, sia pure in via di urgenza, all'esecuzione delle opere necessarie al fine di evitare che vengano cagionati danni a terzi, atteso che ciò discende dal citato obbligo di conservazione che grava anche in capo ai titolari della proprietà superficiaria o del diritto di uso esclusivo. (Trib. Torino 9 giugno 1998, n. 3390).

Come si è detto, in queste ipotesi la condotta pregiudizievole può concretizzare una ipotesi di responsabilità ex art. 2051 c.c., in capo al condominio, ma nulla esclude, secondo alcuni, che possa configurarsi l'operatività dell'art. 2055 c.c.

Infatti, la giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 12606/1995, Sabatini, Rv. 494988) ha affermato il principio che, in caso di danni a terzi determinati dalla omessa esecuzione dei lavori di manutenzione straordinaria della terrazza a livello di un edificio in condominio, tutti i condomini sono solidalmente responsabili ex art. 2055 c.c., ed ai fini della determinazione delle quote nei rapporti interni, si applicherebbe il criterio di cui all'art. 1126 c.c. Secondo questa decisione, infatti, la responsabilità ex delicto investirebbe in realtà i soli rapporti tra danneggiato e danneggiante, mentre nei rapporti interni tra questi ultimi, sono diverse le norme che vengono in considerazione. Un altro indirizzo ritiene che la responsabilità per il danno provocato dalla cosa in custodia può configurarsi anche qualora la cosa sia in comproprietà e, in tale ipotesi, danneggiato può essere anche uno dei comproprietari, come nel caso di danni da infiltrazioni di acqua provenienti da un terrazzo a livello, con funzione anche di copertura degli appartamenti sottostanti.

9. La soluzione del contrasto.

Le Sezioni Unite con la sentenza n. 09446/2016, dopo aver illustrato i vari indirizzi della dottrina e della giurisprudenza in materia ed il sollevato contrasto, sulla base dei rilievi critici sollevati nell'ordinanza interlocutoria, affermano che, qualora l'uso del lastrico solare (o della terrazza a livello) non sia comune a tutti i condomini, dei danni da infiltrazioni nell'appartamento sottostante rispondono sia il proprietario, o l'usurario esclusivo, sia il condominio, nonché sull'assemblea dei condomini ex art. 1135, comma 1, n. 4, c.c., tenuta a provvedere alle opere di manutenzione straordinaria; il concorso di tali responsabilità va di norma risolto, secondo i criteri offerti dall'art. 1126 c.c. La responsabilità per danni da infiltrazioni prodotte dal lastrico solare o dal terrazzo di proprietà o di uso esclusivo è attratta all'ambito di operatività dell'art. 2051 c.c., avuto riguardo alla posizione del soggetto che del lastrico o della terrazza abbia l'uso esclusivo.

Proprio in ragione della funzione assolta dal lastrico solare o della terrazza posta a copertura dell'edificio o di una sua parte, sia configurabile anche una concorrente responsabilità del condominio, nel caso in cui l'amministratore ometta di attivare gli obblighi conservativi delle cose comuni su di lui gravanti ai sensi dell'art. 1130, primo comma, n. 4, c.p.c., ovvero nel caso in cui l'assemblea non adotti le determinazioni di sua competenza in materia di opere di manutenzione straordinaria, ai sensi dell'art. 1135, comma 1, n. 4, c.p.c. In particolare, ai pone in evidenza, accogliendo le obiezioni sollevate dalla dottrina più attenta, come sia difficile comprendere che una disciplina di tipo obbligatorio attragga una situazione in cui viene in rilievo la produzione di un fanno ad un terzo per effetto della violazione dell'obbligo di custodia e comunque del dovere di manutenzione della cosa comune.

Rilevato che la previsione legislativa della responsabilità del concorso tra il condominio ed il condomino che abbia l'uso esclusivo del lastrico solare o di una sua parte, di cui all'art. 1126 c.c., trova la propria giustificazione nella differente utilizzazione del bene comune e quindi nella necessità che chi abbia l'uso esclusivo della cosa comune concorra in misura maggiore alle spese, restano gli altri due terzi a carico degli altri condomini dell'edificio o della parte di edificio a cui il lastrico solare presta servizio, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano necessari alla conservazione delle parti comuni, ed all'assemblea dei condomini di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria ex art. 1135 c.c.

Sulla base del rapporto esistente tra la superficie del lastrico e della terrazza a livello, e la struttura immediatamente sottostante, che costituisce cosa comune, la regola di ripartizione della responsabilità va individuata nell'art. 1126 c.c.

Secondo le Sezioni Unite il concorso di tali responsabilità, salvo la rigorosa prova contraria della riferibilità del danno all'uno o all'altro, va di regola stabilito secondo il criterio di imputazione previsto dall'art. 1126 c.c., il quale pone le spese di riparazione o di ricostruzione per un terzo a carico del proprietario o dell'usurario esclusivo del lastrico (o della terrazza) e per i restanti due terzi a carico del condominio. Si afferma testualmente:

"In assenza di prova della riconducibilità del danno a fatto esclusivo del titolare del diritto di uso esclusivo del lastrico solare o di una parte di questo, e tenuto conto che l'esecuzione di opere di riparazione o di ricostruzione necessarie al fine di evitare il deterioramento del lastrico o della terrazza a livello e il conseguente danno da infiltrazioni, richiede la necessaria collaborazione del primo e del condominio, il criterio di riparto previsto per le spese di riparazione o ricostruzione dalla citata disposizione costituisce un parametro legale rappresentativo di una situazione di fatto, correlata all'uso e alla custodia della cosa nei termini in essa delineati, valevole anche ai fini della ripartizione del danno cagionato alla cosa comune che, nella sua parte superficiale, sia in uso esclusivo ovvero sia di proprietà esclusiva, è comunque destinata a svolgere una funzione anche nell'interesse dell'intero edificio o della parte di questo ad essa sottostante. "

La Corte adotta un indirizzo che media tra i due orientamenti precedenti.

Le conseguenze di questa impostazione sono prevalentemente tre.

Troveranno applicazione tutte le disposizioni che disciplinano la responsabilità extracontrattuale, con la conseguenza che l'acquirente di un appartamento in condominio non potrà essere ritenuto responsabile del pagamento degli obblighi risarcitori sorti in conseguenza di un evento dannoso verificatosi prima dell'acquisto dell'immobile, in quanto dei danni risponde chi era proprietario dell'immobile al momento del verificarsi dell'evento dannoso. Trova, conseguentemente, applicazione l'art. 2055 c.c., pertanto, il danneggiato può agire nei confronti del singolo condomino, sia pure nei limiti della quota imputabile al condominio. Trova anche applicazione l'intera disciplina dell'art. 2051 c.c., anche per i limiti alla esclusione della responsabilità del soggetto che ha la custodia del bene di cui è stato provocato il danno.

. BIBLIOGRAFIA

SCARPA A., Le spese, in Il nuovo condominio, a cura di Triola R., Giappichelli, 2013

TRIOLA R., Manutenzione di lastrico solare in edificio condominiale: ripartizione del spese e responsabilità per danni, nota a Cass., Sez. III, 7 dicembre 1995, n. 12606, Giustizia civile, 1996, I.

  • imposta sull'incremento di valore
  • imprenditore
  • imposta professionale
  • IVA
  • cessazione d'attività

CAPITOLO VI

L'IVA A CARICO DELL'EX IMPRENDITORE O EX PROFESSIONISTA

(di Francesca Picardi )

Sommario

1 La questione: il compenso riscosso dopo la cessazione dell'attività. - 2 La soluzione delle Sezioni Unite: distinzione tra presupposto impositivo e condizione di esigibilità. - 3 Le opinioni della dottrina. - 4 Problemi applicativi. - 5 La cessazione del presupposto impositivo d'imposta per morte. - 6 Conclusioni. - BIBLIOGRAFIA

1. La questione: il compenso riscosso dopo la cessazione dell'attività.

Non è infrequente che un professionista cessi la propria attività, ponendo in essere tutti i relativi adempimenti fiscali, anche ai fini IVA, e solo successivamente riscuota un compenso per una sua precedente prestazione professionale. Ciò accade soprattutto ove il debitore sia fallito e la realizzazione del credito, oltre ad essere condizionata dai tempi della procedura concorsuale, resti del tutto incerta. In tale ipotesi si pone il problema della debenza dell'IVA, essendo venuto meno il presupposto soggettivo del tributo, consistente, ai sensi dell'art. 1 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nell'esercizio di imprese o di arti e professioni.

Così, ad esempio, nella fattispecie pervenuta all'attenzione della Suprema Corte, il contribuente ha impugnato l'avviso di accertamento, notificatogli nel 2007, in relazione all'anno d'imposta 2002, allegando di aver cessato la sua attività di architetto nel 1997 e conseguentemente contestando la carenza del presupposto soggettivo IVA al momento della riscossione dei corrispettivi. L'Agenzia delle Entrate ha denunciato, con il ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza di merito favorevole al contribuente, la violazione degli artt. 5, comma 1, e 21 e la falsa applicazione dell'art. 6 del d.P.R. n. 633 del 1972, asserendo che la prestazione, se imponibile a fini IVA, al momento della sua esecuzione, deve necessariamente restare tale anche se il corrispettivo viene incassato successivamente alla cessazione dell'attività professionale, in quanto la realizzazione del compenso non integra l'evento generatore del tributo, ma solo il suo presupposto di esigibilità e l'estremo limite temporale per l'adempimento dell'obbligo di fatturazione. Ha, inoltre, richiamato la propria circolare 11/E del 16 febbraio 2007 e la propria risoluzione 232/E del 20 agosto 2009, secondo cui il contribuente ha l'obbligo di tenere aperta la partita IVA e procedere alla regolare fatturazione dei pagamenti ricevuti anche successivamente alla cessazione delle prestazioni relative alla sua attività, ove abbia ancora pendenze creditorie e non vi rinunci, non coincidendo la cessazione dell'attività con quella dell'esecuzione delle prestazioni professionali, ma con l'estinzione di tutti i rapporti giuridici e la dismissione dei beni strumentali.

Sez. 6-T, n. 24432/2014, Caracciolo, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima importanza avente ad oggetto l'imponibilità IVA dei compensi per prestazioni professionali percepiti dopo la cessazione dell'attività e la dismissione della partita IVA, concentrando l'attenzione sull'individuazione del momento di esaurimento del presupposto soggettivo di tale tributo, con conseguente attrazione nel campo dell'imposta di registro, e, cioè, sulla cessazione dell'attività professionale, senza porre in discussione l'orientamento consolidato secondo cui, ai sensi dell'art. 6, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, il presupposto oggettivo dell' IVA si verifica, per le prestazioni di servizi, con il pagamento, in tutto o in parte, del corrispettivo, fatta eccezione per le ipotesi di cui al precedente art. 3, comma 3, dello stesso d.P.R. n. 633 del 1972 o per quelle di fatturazione anticipata.

Difatti, è stato più volte precisato che l'art. 6, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 pone una presunzione assoluta di corrispondenza tra la data della percezione del corrispettivo e quella di esecuzione della prestazione, sicché, ogni qual volta si debba individuare quando una determinata prestazione di servizi è stata effettuata, non rileva accertare la data in cui è stata storicamente eseguita, bensì quella di percezione del relativo corrispettivo (salvo il caso di precedente emissione di fattura). Tale principio è stato affermato per negare la sussistenza dell'obbligazione tributaria e del connesso obbligo di fatturazione prima della riscossione del corrispettivo, ma anche per individuare la disciplina applicabile in caso di successione di leggi nel tempo. In particolare, secondo Sez. T, n. 03976/2009, Scarano, Rv. 606704, e Sez. T, n. 13209/2009, Magno, Rv. 608594, le prestazioni di servizi sono soggette all' IVA, ai sensi dell'art. 3, comm 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, soltanto se rese verso corrispettivo e si considerano effettuate all'atto del relativo pagamento, cosicché prima di tale momento non sussiste alcun obbligo (ma solo la facoltà) di emettere fattura o di pagare l'imposta: ne consegue che la pretesa fiscale relativa ad una prestazione di servizi non può prescindere, in mancanza di fatturazione o autofatturazione spontanea, dall'accertamento che il pagamento del corrispettivo sia stato effettuato, non essendo sufficiente la dimostrazione della sussistenza materiale della prestazione; secondo Sez. 1, n. 11150/1995, Rordorf, Rv. 494387, l'art. 6, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, disponendo che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all'atto del pagamento del corrispettivo, pone una presunzione assoluta di corrispondenza tra la data della sua percezione e la data di esecuzione della prestazione cui il corrispettivo si riferisce, per cui, ogni qual volta si debba individuare quando una determinata prestazione di servizi è stata effettuata, non rileva accertare la data nella quale storicamente la medesima sia stata eseguita, bensì (salvo il caso di precedente emissione di fattura) quella di percezione del relativo corrispettivo: pertanto, anche al fine di stabilire se sia stato o meno raggiunto dal contribuente, in un determinato arco di tempo, un certo volume d'affari da cui derivi l'obbligo di presentazione della dichiarazione annuale per l'assoggettamento ad IVA, il volume d'affari deve essere calcolato in relazione alla data di pagamento dei corrispettivi e non già a quella di effettiva esecuzione delle prestazioni professionali svolte.

2. La soluzione delle Sezioni Unite: distinzione tra presupposto impositivo e condizione di esigibilità.

Le Sezioni Unite, pur dichiarando il ricorso inammissibile, in difetto di prova della sua notifica, hanno risolto la questione, ai sensi degli artt. 363, commi 3 e 4, c.p.c., per l'esigenza nomofilattica di rimuovere incertezze e prevenire contrasti interpretativi, ritenendo necessario distinguere, sia alla luce dell'art. 10 della direttiva n. 1977/388/CEE sia degli artt. 62, 63, e 66 della direttiva n. 2006/112/CE, il fatto generatore dell'imposta e, cioè, l'evento da cui scaturisce l'obbligazione tributaria, da identificare con l'espletamento dell'operazione (indifferentemente cessione di beni o prestazione di servizi), dalla sua esigibilità e, cioè dalla sua attitudine ad essere riscossa dall'erario. Ad avviso della Suprema Corte, la discrezionalità, conferita dall'ordinamento comunitario agli Stati membri, può investire esclusivamente le condizioni di esigibilità, ma non può estendersi al fatto generatore dell'obbligazione tributaria, sicché l'art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 deve essere interpretato nel senso di ritenere il pagamento mera condizione di esigibilità dell' IVA e non suo presupposto impositivo. Ciò, peraltro, è confermato dalla circostanza che il successivo art. 26 del d.P.R. n. 633 del 1972, in conformità con l'art. 90 della direttiva n. 2006/112/CE, prevede che l'inadempimento e la risoluzione del contratto non facciano venir meno l'obbligazione tributaria, ma incidano solo sulla determinazione della base imponibile.

Si è, inoltre, sottolineato che mentre è del tutto plausibile che muti il momento impositivo in considerazione della tipologia delle operazioni o anche delle scelte degli operatori, il fatto generatore del tributo, quale indice della capacità contributiva, in ossequio agli art. 3 e 53 della Cost., deve restare ancorato al dato oggettivo omogeneo della materialità ed effettività della cessione dei beni o prestazione di servizi.

A ciò si aggiunga che la coincidenza del presupposto d'imposta con l'ultimazione della prestazione, che non è nella completa disponibilità del contribuente, elimina il rischio di manovre elusive o fraudolente in danno di una risorsa dell'Unione europea ed assicura la neutralità fiscale dell' IVA, consentendo di estendere il tributo a tutte quelle operazioni che, essendo state poste in essere durante l'attività economica imprenditoriale o professionale, hanno beneficiato del regime fiscale IVA e delle relative detrazioni sugli acquisti.

In conclusione, come ritenuto dalle Sez. U, n. 08059/2016, Cappabianca, Rv. 639482, il compenso del professionista va assoggetto ad IVA anche se percepito successivamente al venir meno del presupposto soggettivo del tributo e, cioè, alla cessazione dell'attività, ed alla sua formalizzazione, ove sia antecedente a tale momento il fatto generatore dell'obbligazione tributaria, da identificarsi, alla luce del diritto comunitario e del principio di neutralità fiscale, con l'espletamento della prestazione.

3. Le opinioni della dottrina.

Come riconosciuto dalla dottrina, la presente ricostruzione è sicuramente coerente con il diritto dell'Unione Europea.

Si sono, tuttavia, manifestate alcune perplessità relativamente alla nascita dell'obbligazione tributaria a carico del contribuente in base a direttive comunitarie, che non sono state integralmente e correttamente recepite nell'ordinamento interno, in cui, da un lato, è del tutto assente la distinzione tra fatto generatore e condizione di esigibilità del tributo e, dall'altro lato, l'art. 6, comma 3, del d.P.R n. 633 del 1972 fa coincidere l'esecuzione della prestazione di servizi con il pagamento del corrispettivo e non con il compimento dell'operazione nella sua materialità.

In particolare è stato osservato che, in virtù del principio dell'estoppel (v., tra le altre, Corte di Giustizia, 21 ottobre 2010, C-227/2009), ove le disposizioni di una direttiva comunitaria che, dal punto di vista sostanziale, siano incondizionate e sufficientemente precise, non sono state trasposte nell'ordinamento nazionale, lo Stato membro inadempiente non può trarre vantaggio dalla sua trasgressione del diritto comunitario, invocandone l'efficacia diretta nei confronti del contribuente, per cui si riconosce esclusivamente a quest'ultimo la possibilità di agire in giudizio contro le autorità interne per tutelare la posizione di vantaggio nascente dalla direttiva non attuata [Centore, 2016, 568; Peirolo, 2016, 1952].

Si può, però, rilevare che la distinzione tra fatti costitutivi e condizioni di esigibilità di un diritto non deriva dalla disciplina comunitaria, ma appartiene alla configurazione stessa del rapporto obbligatorio e, pertanto, anche di quello tributario, la cui nascita, collegata ai presupposti d'imposta, non necessariamente coincide con la possibilità di riscossione. A ciò va aggiunto che l'art. 6 del d.P.R. n. 633 del 1972 detta una disciplina funzionale non a delineare il tributo, ma a consentirne ed a facilitarne l'esazione, per cui si limita, come si evince dal suo tenore letterale, a stabilire delle mere presunzioni, in virtù delle quali le operazioni si considerano effettuate in un dato momento: presunzioni che non sono, peraltro, qualificate come assolute e sembrano, dunque, ammettere una prova contraria. I presupposti impositivi dell' IVA si ricavano, invece, dall'art. 1 del d.P.R. n. 633 del 1972 e consistono, in modo del tutto conforme alle direttive comunitarie, con le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell'esercizio delle imprese o di arti e professioni e con le importazioni da chiunque effettuate. Non sembra, pertanto, che si ponga alcun problem di inadeguata trasposizione delle direttive comunitarie - in particolare della direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977 (77/388/CEE) e di quella del 28 novembre 2006 (2006/112/CE) - di cui sarebbe, dunque, vietata l'applicazione orizzontale tra i privati e quella a favore dello Stato membro inadempimente. Invero, la Suprema Corte si è limitata ad adeguare l'interpretazione delle disposizioni già presenti nel nostro ordinamento ai principi generali di diritto interno prima e ancora che a quelli di diritto comunitario.

In proposito è sufficiente sottolineare che il presupposto impositivo dell'IVA per i servizi, in quanto espressione della capacità contributiva, deve necessariamente coincidere, in ossequio agli artt. 3 e 53 Cost., con la materiale esecuzione della prestazione e non con la percezione del corrispettivo, così come avviene per le cessioni di beni e per alcune categorie di servizi - si pensi, ad esempio, a quelli resi in ambito transnazionale, per i quali, se non sono caratterizzati dalla periodicità, il momento di effettuazione dell'operazione coincide con l'ultimazione della prestazione in virtù dell'ultimo comma dell'art. 6 del d.P.R. n. 633 del 1972, introdotto dalla legge 15 dicembre 2011 n. 217 in adempimento della direttiva 2010/45/UE del 13 luglio 2010. Va, difatti, osservato che può mutare il momento impositivo in considerazione della tipologia delle operazioni o delle scelte degli operatori, che hanno la facoltà di anticiparlo mediante l'emissione della fattura, ma il fatto generatore del tributo, quale indice della capacità contributiva, deve restare il medesimo, in ossequio agli art. 3 e 53 della Cost., e non può, pertanto, essere sganciato dalla materialità ed effettività della cessione dei beni o prestazione di servizi. In conclusione, l'identificazione del presupposto impositivo con la materiale esecuzione della prestazione di servizi, oltre ad essere più coerente con il sistema comunitario, evita, in ossequio agli art. 3 e 53 della Cost., quelle disparità di trattamento che altrimenti si verificherebbero tra i contribuenti in considerazione del diverso trattamento fiscale a cui risulterebbero assoggettate: le cessioni di beni e le prestazioni di servizi; le diverse tipologie di prestazioni di servizi (e, cioè, quelle per cui opera e quelle per cui non opera, ai fini IVA, il principio di cassa); le medesime prestazioni di servizi in considerazione della eventuale volontaria anticipazione del momento impositivo con l'emissione della fattura.

In definitiva, la distinzione tra fatto impositivo e condizione di esigibilità e l'identificazione del primo nella materiale esecuzione del corrispettivo trova il suo fondamento, prima ancora che nell'ordinamento comunitario, nel coordimamento, alla luce degli artt. 3 e 53 Cost., degli artt. 1 e 6 del d.P.R. n. 633 del 1972 e nei principi generali.

4. Problemi applicativi.

Appare, pertanto, del tutto legittima la pretesa dell' IVA, da parte dell'Amministrazione finanziaria, per le prestazioni di servizi rese da un professionista, ma anche da un imprenditore nell'esercizio della rispettiva attività (professionale o imprenditoriale) pure ove il corrispettivo sia incassato successivamente alla cessazione, di cui, pertanto, diventa, irrilevante individuare l'esatto momento in cui si verifica [per l'estensione della conclusione delle Sezioni Unite anche all'ex imprenditore, v. espressamente Peirolo, 2016, 1951].

Occorre, piuttosto, chiarire le modalità operative di tale regola.

In assenza di un'espressa indicazione in tal senso, la cessazione dell'attività imprenditoriale o professionale, che è pur sempre espressione della libertà d'iniziativa economica, non sembra poter essere subordinata né alla riscossione di un determinato credito, che, peraltro, resta del tutto incerta, né alla sua rinuncia. Parimenti non può essere imposta, in via interpretativa, la fatturazione, il cui obbligo di emissione è disciplinato in modo esaustivo dall'art. 21 del d.P.R. n. 633 del 1972 e non è affatto collegato alla cessazione dell'attività, sorgendo solo nel momento in cui l'operazione si considera effettuata ai sensi del precedente art. 6, salve le deroghe espressamente previste.

Non resta, dunque, che ritenere che al momento dell'eventuale riscossione del corrispettivo l'ex imprenditore o professionista deve pagare l'IVA, assolvendo i necessari adempimenti ed in particolare quello della fatturazione e della dichiarazione, e successivamente deve inserire nella propria dichiarazione annuale tale entrata non tra i redditi diversi, configurati come una categoria chiusa in base all'elencazione di cui all'art. 67 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ma quale reddito da lavoro autonomo o reddito d'impresa.

Invero, l'adempimento degli obblighi formali connessi all'IVA presuppone la titolarità di una partita IVA, la cui attribuzione richiede, allo stato, in assenza di una disciplina ad hoc, una nuova denuncia di inizio attività ex art. 35 del d.P.R. n. 633 del 1972, da effettuare al solo fine di incassare il corrispettivo, per procedere immediatamente dopo alla denuncia di cessazione attività. De iure condendo, sarebbe alquanto opportuno un intervento del legislatore che disciplinasse tale ipotesi, prevedendo una dichiarazione speciale, diversa da quelle di cui all'art. 35 del d.P.R. n. 633 del 1972, funzionale esclusivamente a realizzare il credito relativo alla pregressa attività imprenditoriale o professionale ed idonea ad esaurire tutti i relativi adempimenti relativi all'IVA, possibilmente senza costi a carico del contribuente, che potrebbe altrimenti, essere disencitavato e non incassare somme modeste. Nelle more, tuttavia, i problemi applicativi possono essere risolti con un'interpretazione estensiva dell'art. 35 d.P.R. n. 633 del 1972, tre le cui dichiarazioni può essere ricompresa quella di inizio attività, sia pure limitata alla realizzazione del credito pregresso. Ad ogni modo, l'applicazione di tale disposizione dovrebbe essere adattata dall'Agenzia delle Entrate al caso di specie: ad esempio, con l'elaborazione di un modulo specifico di contestuale inizio e fine attività, limitato alla realizzazione del compenso successivamente alla cessazione dell'attività, da compilare direttamente presso gli uffici ed a cui collegare la ri-attribuzione della precedente partita IVA.

5. La cessazione del presupposto impositivo d'imposta per morte.

Una delle possibili cause di cessazione dell'attività può essere la morte o l'estinzione del soggetto che la esercita.

In passato si è sostenuto che i corrispettivi dei servizi espletati dall'imprenditore deceduto, ma riscossi dagli eredi, i quali non abbiano proseguito l'attività del de cuius, non ricadono nell'ambito applicativo dell'IVA, per assenza del presupposto soggettivo, che deve coesistere con quello oggettivo (Del Federico, Morte dell'imprenditore e successione nella ditta individuale, in Il fisco, 2007, 4718) e che alla medesima soluzione deve pervenirsi per il professionista e lavoratore autonomo, la cui morte "dà luogo all'immediata cessazione dell'attività, attesa la natura personale delle prestazioni rese", a nulla rilevando che "nello stesso luogo e senza interruzione, le medesime prestazioni vengano svolte da un altro lavoratore autonomo, anche se questo sia l'erede" (S. Sammartino, Profilo soggettivo del presupposto dell'IVA, Milano, 1975, 191).

In questo stesso senso si era espresso il Ministero delle Finanze con la risoluzione ministeriale n. 501918 del 5 giugno 1973, in cui si legge "come è noto, ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, le prestazioni di servizi si considerano effettuate, ai fini dell'applicabilità dell'imposta sul valore aggiunto, all'atto del pagamento dei corrispettivi, sempreché prima di tale evento non si faccia luogo al rilascio della fattura. Peraltro per l'assoggettabilità o meno al tributo delle operazioni in esame, occorre considerare se all'atto del verificarsi del predetto evento, pagamento dei corrispettivi, con i presupposti oggettivi coesistano i presupposti soggettivi voluti dalla legge ai fini dell'imposizione. In particolare, nel caso di decesso del titolare di un'impresa individuale prima del verificarsi del momento impositivo, poiché l'impresa ha cessato di esistere per effetto della morte del suo titolare, non vi è dubbio che i corrispettivi pagati agli eredi e riguardanti prestazioni rese dall'imprenditore deceduto devono considerarsi fuori del campo di applicazione dell'imposta sul valore aggiunto per assenza del presupposto soggettivo".

È evidente l'incompatibilità di tali posizioni con la soluzione delle Sezioni Unite che, distinguendo il presupposto impositivo dalla condizione di esigibilità dell'IVA, consente di collocare il primo quando l'imprenditore/professionista è ancora in vita e, dunque, quando ancora sussiste il presupposto soggettivo d'imposta.

L'Amministrazione finanziaria, adeguandosi alla Suprema Corte, potrà, peraltro, superare le contraddizioni del passato. Va, difatti, ricordato che, sebbene con riguardo al diverso problema delle imposte sui redditi, nella successiva risoluzione ministeriale n. 8/873 del 1° dicembre 1980, assumendosi una posizione opposta rispetto alla risoluzione ministeriale n. 501918 del 5 giugno 1973, gli onorari riscossi dagli eredi per l'attività professionale, svolta a suo tempo dal de cuius, erano stati classificati come redditi di lavoro autonomo, soggetti alla relativa disciplina impositiva, in quanto l'erede "per effetto della successione mortis causa subentra nei rapporti giuridico patrimoniali del de cuius lasciandoli inalterati", sicché non può variare il titolo del reddito prodotto dal de cuius e confluito tra i redditi dell'erede - tesi confermata dalla Sez. T, n. 04785/2009, Marinucci, Rv. 607666, secondo cui il credito relativo a prestazioni effettuate dal professionista costituisce, per la sua essenza, un reddito di lavoro autonomo, in quanto deriva dall'esercizio di un'attività professionale, e conserva detta natura anche se, a seguito della morte del professionista, la relativa somma venga corrisposta all'erede, il quale è dunque soggetto alla ritenuta d'acconto prevista dall'art. 25 del d.P.R. n. 600 del 1973.

Anche in tale ipotesi sorge il problema pratico di come assolvere gli adempimenti connessi all'IVA Come noto, l'art. 35-bis del d.P.R.R. n. 633 del 1972 stabilisce che gli obblighi ai fini IVA derivanti dalle operazioni effettuate dal contribuente deceduto possono essere adempiuti dagli eredi, ancorché i relativi termini siano scaduti non oltre quattro mesi prima della data della morte del contribuente, entro i sei mesi da tale data. Atteso il tenore letterale dell'articolo, sembrerebbe difficile estendere la regola anche all'ipotesi in cui il credito del de cuius per attività professionale o imprenditoriale sia incassato dagli eredi oltre il termine ultimo di sei mesi dal decesso, sebbene questa sia l'unica strada ragionevole. Del resto, è plausibile che il termine ivi fissato si riferisca solo agli obblighi già insorti al momento del decesso, mentre per quelli che nascono successivamente, ferma la possibilità degli eredi di sostituirsi al de cuius negli adempimenti, il termine andrebbe individuato secondo la disciplina ordinaria.

6. Conclusioni.

In definitiva, l'interpretazione delle Sezioni Unite, fondata sul coordinamento degli artt. 1 e 6 del d.P.R. n. 633 del 1972, alla luce della distinzione di carattere generale tra fatti costitutivi e condizioni di esigibilità dell'obbligazione, appare conforme non solo all'ordinamento comunitario, ma anche ai principi costituzionali di uguaglianza e capacità contributiva. Spetta ora agli operatori ed in particolar modo all'Agenzia delle Entrate, da un lato, individuare soluzioni applicative corrette e rispettose della libertà d'iniziativa economica e, dall'altro, assumere posizioni coerenti rispetto ai diversi tributi ed alle differenti cause di cessazione d'attività.

. BIBLIOGRAFIA

CENTORE, La definizione euro-unionale del momento impositivo delle operazioni IVA, in Riv. giur. trib., 2016, 556;

DEL FEDERICO, Morte dell'imprenditore e successione nella ditta individuale, in Il fisco, 2007, 4718;

PEIROLO, Compensi soggetti a IVA anche se incassati dopo la cessazione dell'attività professionale, in Corr. trib., 2016, 1947;

PERRINO, Valore aggiunto (imposta sul), Cessazione di attività professionale, Pagamento successivo del compenso, in Foro it., 2016, I, 1637;

S. SAMMARTINO, Profilo soggettivo del presupposto dell'IVA, Milano, 1975.

  • contribuente
  • controllo fiscale
  • dichiarazione d'imposta

CAPITOLO VII

IL DECORSO DEL TERMINE DI DECADENZA PER L'ACCERTAMENTO NON IMPEDISCE ALL'AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA DI CONTESTARE IL CREDITO CHIESTO A RIMBORSO CON LA DICHIARAZIONE

(di Giuseppe Nicastro )

Sommario

1 Il principio. - 2 La vicenda. - 3 I diversi orientamenti della Sezione tributaria e l'ordinanza interlocutoria n. 23529 del 2014. - 4 Il recupero dell'eccedenza d'imposta mediante la richiesta di rimborso in sede di dichiarazione. - 5 La sentenza delle Sezioni Unite n. 5069 del 2016. - 6 Le prime reazioni della dottina. - 7 Alcune considerazioni conclusive. - BIBLIOGRAFIA

1. Il principio.

Con la sentenza n. 5069 del 2016 (Sez. U, n. 05069/2016, Cicala, Rv. 639014), le Sezioni unite civili hanno affermato il principio secondo cui, nel caso in cui il contribuente abbia esposto nella dichiarazione dei redditi un'eccedenza d'imposta, chiedendone il rimborso, l'amministrazione finanziaria può contestare il relativo credito anche qualora siano scaduti i termini per l'esercizio del suo potere di accertamento senza che abbia adottato alcun provvedimento (escludendo, così, la Corte che l'inutile decorso dei termini per l'accertamento possa comportare la cristallizzazione, nell'an e nel quantum, del diritto del contribuente al rimborso del menzionato credito). Ciò in quanto i termini decadenziali per l'accertamento operano limitatamente al riscontro dei crediti e non anche dei debiti dell'amministrazione, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum.

2. La vicenda.

Con la dichiarazione dei redditi relativa al periodo d'imposta 1° ottobre 1996-30 settembre 1997, una fondazione bancaria aveva chiesto, ai sensi dell'art. 94, comma 1, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 ? nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modificazioni apportate a tale d.P.R. dal decreto legislativo 12 dicembre 2003, n. 344 ? il rimborso dell'eccedenza d'imposta risultante dalla stessa dichiarazione.

Il 21 settembre 2004 ? decorsi, quindi, quasi sette anni dalla presentazione della dichiarazione ? in mancanza di qualsiasi comunicazione o provvedimento in ordine all'avanzata richiesta di rimborso, la fondazione presentava all'amministrazione finanziaria una domanda di esecuzione dello stesso. Trascorsi novanta giorni da tale domanda, in assenza di riscontri da parte dell'Agenzia delle entrate, la stessa fondazione, ai sensi dell'art. 21, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, proponeva ricorso alla commissione tributaria provinciale avverso il rifiuto tacito della restituzione, deducendo che il credito relativo all'eccedenza d'imposta chiesta a rimborso con la dichiarazione, non essendo stato contestato dall'Agenzia delle entrate né in sede di liquidazione, ai sensi dell'art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, né in sede di accertamento in rettifica della dichiarazione, si era ormai consolidato, e chiedendo, perciò, la condanna della stessa Agenzia alla restituzione della detta eccedenza.

La commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, condividendo la tesi della fondazione ricorrente secondo cui il credito esposto nella dichiarazione doveva ritenersi «ormai ineccepibile, se non altro per la scadenza dei termini di accertamento» (così la motivazione della sentenza della commissione tributaria provinciale).

La Commissione tributaria regionale dell'Emilia-Romagna, pronunciandosi sull'appello proposto dall'ufficio, confermava la decisione di primo grado, con la motivazione che «l'Agenzia delle Entrate, in sede di appello cerca di contestare un credito ormai ampiamente consolidato riproponendo questioni di merito. Infatti, si tratta semplicemente di un credito derivante da una dichiarazione dei redditi MOD 760-bis periodo 1/10/96-30/9/1997 presentata nel dicembre 1997. Pertanto bene ha fatto la CTP ad accogliere il ricorso del contribuente relativamente alla spettanza di capitale ed interessi».

Tale ultima pronuncia veniva impugnata dall'Agenzia delle entrate con ricorso per cassazione.

3. I diversi orientamenti della Sezione tributaria e l'ordinanza interlocutoria n. 23529 del 2014.

La Sezione tributaria della Corte, assegnataria del ricorso, con l'ordinanza interlocutoria n. 23529/2014, trasmetteva gli atti al Primo Presidente della stessa Corte per l'eventuale rimessione della causa alle Sezioni unite civili, ai sensi dell'art. 374, secondo comma, c.p.c., presentando essa la questione di massima di particolare importanza, già decisa in senso difforme dalla stessa Sezione tributaria, «se, qualora il contribuente abbia presentato la dichiarazione annuale, ai fini dell'imposta sui redditi, esponendo un credito di rimborso, l'amministrazione finanziaria sia tenuta, o no, a provvedere sulla richiesta di rimborso nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all'accertamento in rettifica, con la conseguenza che, decorso il termine predetto senza che sia stato adottato alcun provvedimento, il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizza - oppure no - nell'an e nel quantum».

La soluzione negativa a tale questione ? nel senso, cioè, dell'insussistenza dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere al rimborso del credito d'imposta richiesto in sede di dichiarazione entro il termine di decadenza previsto per l'accertamento in rettifica della stessa e della conseguente mancata cristallizzazione del diritto al rimborso per effetto dello spirare del detto termine senza che sia stato adottato alcun provvedimento - era stata sostenuta dalla Sezione tributaria della Suprema Corte con riguardo sia alle imposte dirette che a quelle indirette.

Quanto alle prime, l'ordinanza interlocutoria ricordava le tre sentenze della Sezione tributaria Sez. T, n. 09524/2009, Magno, Rv. 606975, Sez. T, n. 02918/2010, Marinucci, Rv. 611875, e Sez. T, n. 11444/2011, Persico, Rv. 617247. Si erano, peraltro, espresse nello stesso senso anche le sentenze della stessa Sezione tributaria Sez. T, n. 04587/2010, Bognanni, non massimata, e Sez. T, n. 07899/2012, Cirillo, Rv. 622391. Sulla base della lettura di tali pronunce, sembra potersi affermare che, nelle stesse, la negazione del "consolidamento" del credito esposto nella dichiarazione dei redditi riposava, da un lato, sulla non perentorietà del termine previsto dall'art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 per il controllo cosiddetto cartolare della dichiarazione (le stesse sentenze, peraltro, nell'escludere il "consolidamento" «anche quando l'amministrazione abbia omesso di procedere ad accertamento e rettifica della dichiarazione nel termine stabilito dall'articolo 43, D.P.R. 600/1973» - così la sentenza n. 9524 del 2009 - nulla dicevano in ordine alla perentorietà di tale termine per l'accertamento, previsto a pena di decadenza); dall'altro, sulla considerazione che, poiché l'azione del contribuente per il recupero dell'eccedenza d'imposta è sottoposta all'ordinario termine di prescrizione decennale (e non al termine di decadenza dell'art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602), resta «ferma [...] la conseguente possibilità per l'ufficio di opporre eccezioni».

Quanto alle imposte indirette, l'ordinanza interlocutoria citava le tre sentenze della Sezione tributaria Sez. T, n. 00194/2004, D'Alonzo, Rv. 569366, Sez. T, n. 29398/2008, Carleo, Rv. 605973, e Sez. T, n. 08642/2009, Carleo, Rv. 607848.

L'ordinanza interlocutoria evidenziava tuttavia come l'opposto avviso fosse stato, più di recente, consapevolmente e motivatamente espresso dalla stessa Sezione tributaria con la sentenza Sez. T, n. 09339/2012, Olivieri, Rv. 622962, la quale aveva ritenuto inammissibile, alla stregua dei princípi della collaborazione e della buona fede nei rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria, della certezza dei rapporti giuridici e dell'efficienza dell'amministrazione, che, a fronte dell'istanza di rimborso formulata dal contribuente con la presentazione della dichiarazione annuale, l'amministrazione finanziaria potesse postergare sine die il relativo provvedimento, avanzando, eventualmente, contestazioni in ordine alla sussistenza del diritto al rimborso e negando, di conseguenza, lo stesso a distanza di anni dall'istanza. Tale possibilità avrebbe determinato un'ingiustificata perdurante incertezza in ordine alla definizione del rapporto tributario, idonea a incidere negativamente non solo nei confronti del contribuente - che non può fare affidamento in tempi brevi sulla liquidità della somma chiesta in restituzione - ma anche nei riguardi della stessa amministrazione finanziaria che, ai fini della programmazione e dello svolgimento delle attività rientranti nella propria competenza, deve potere conoscere in tempo utile le effettive necessità finanziarie con le quali fare tempestivamente fronte all'adempimento delle proprie obbligazioni ed evitare i maggiori oneri patrimoniali determinati dall'eventuale ritardo colpevole. L'ordinanza interlocutoria proseguiva evidenziando che, secondo la sentenza n. 9339 del 2012, la disciplina positiva in materia di rimborsi d'imposta imporrebbe di distinguere il caso in cui il rimborso venga richiesto con un'autonoma istanza - ipotesi con riguardo alla quale la legge prevede anche il termine per l'adempimento da parte dell'amministrazione e le conseguenze dell'inadempimento della stessa (erano citati l'art. 38, comma 7, del d.P.R. n. 602 del 1973, l'art. 37, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973 e gli artt. 38-bis e 38-ter del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633) - dal caso in cui il rimborso sia invece richiesto con la dichiarazione annuale, rispetto al quale le norme tributarie «sembrano ricollegare l'obbligo di provvedere della PA in ordine alla richiesta di rimborso ai medesimi termini stabiliti per l'esercizio del potere di controllo delle dichiarazioni e di accertamento della maggiore imposta».

Con riguardo a tale impostazione, l'ordinanza interlocutoria ritieneva peraltro opportuno rilevare - proprio in relazione all'esigenza di tutela dei princípi della collaborazione e della buona fede nei rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria, della certezza dei rapporti giuridici e dell'efficienza dell'amministrazione sottolineata dalla sentenza n. 9339 del 2012 - che quest'ultima, nell'affermare che il diritto al rimborso richiesto con la dichiarazione annuale si cristallizza nell'an e nel quantum una volta decorsi i termini di decadenza imposti all'amministrazione per procedere all'accertamento in rettifica, non risultava avere espressamente considerato, per un verso, le effettive possibilità di controllo, da parte della stessa amministrazione, circa l'esistenza dei presupposti per il godimento delle agevolazioni richieste con la dichiarazione e, per altro verso, il fatto che quando, come nella specie, il credito d'imposta nasce non da un mero computo aritmetico ma, appunto, da un'agevolazione fiscale (si trattava, in particolare, dell'esonero dalla ritenuta sui dividendi da partecipazioni azionarie e della riduzione alla metà dell'IRPEG previsti, in favore di alcuni soggetti, rispettivamente, dall'art. 10-bis della legge 29 dicembre 1962, n. 1745, e dall'art. 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601), è onere del contribuente richiedente provarne i relativi presupposti; onere che non sembra poter essere soddisfatto con la mera affermazione della ricorrenza degli stessi. D'altro canto ? come già era stato sottolineato dalle pronunce favorevoli all'orientamento opposto a quello fatto proprio dalla sentenza n. 9339 del 2012 - ritenere che il provvedimento di diniego del rimborso non sia soggetto al termine decadenziale stabilito per procedere all'accertamento in rettifica e possa essere sempre emanato sino a che il contribuente abbia il diritto di ottenere il rimborso dell'eccedenza d'imposta, non comporterebbe uno "sbilanciamento" in danno del contribuente, posto che neppure lo stesso, quando chiede il rimborso in sede di dichiarazione, è vincolato a un termine di decadenza, ma solo a quello di prescrizione. L'ordinanza osservava infine che, con riguardo a un ipotetico atteggiamento dilatorio dell'amministrazione, occorreva considerare anche che, secondo la giurisprudenza della Corte (erano citate, come pronunce più recenti, le sentenze Sez. T, n. 21735/2014, Virgilio, non massimata, e Sez. T, n. 21737/2014, Napolitano, anch'essa non massimata), il contribuente che intenda impugnare il silenzio-rifiuto in ordine alla propria istanza di rimborso avanzata con la dichiarazione non deve attendere i termini di decadenza imposti all'amministrazione per la liquidazione e la rettifica della stessa.

Si ricorda, per completezza, che la tesi favorevole alla "cristallizzazione" del diritto al rimborso esposto nella dichiarazione era stata sostenuta, oltre che dalla sentenza n. 9339 del 2012, anche da: relativamente alle imposte sui redditi, Sez. T, n. 11830/2002, Falcone, Rv. 556752, Sez. T, n. 01790/2005, Falcone, Rv. 581714, Sez. T. n. 01154/2008, Napoletano, Rv. 601542, Sez. T, n. 17697/2009, Bisogni, non massimata, Sez. T, n. 26318/2010, Giacalone, non massimata sul punto, Sez. T, n. 09339/2012, Olivieri, Rv. 622962, Sez. T, n. 06701/2013, Cicala, non massimata, Sez. T, n. 24916/2013, Olivieri, non massimata sul punto; relativamente all'IVA, Sez. T, n. 19510/2003, Schirò, Rv. 569082, Sez. T, n. 15679/2004, Botta, Rv. 575527, Sez. T, n. 10192/2008, Lupi, non massimata, Sez. T, n. 28024/2008, D'Alessandro, Rv. 605826, Sez. T, n. 04246/2007, Di Blasi, Rv. 595976, Sez. T, n. 07963/2007, Genovese, non massimata.

4. Il recupero dell'eccedenza d'imposta mediante la richiesta di rimborso in sede di dichiarazione.

La questione esaminata dalle Sezioni unite presuppone che dalla dichiarazione dei redditi presentata da un soggetto all'IRPEF o all'IRPEG (e ora all'IRES) risulti un'eccedenza d'imposta e che questa venga chiesta a rimborso dal contribuente con la stessa dichiarazione.

L'eccedenza d'imposta e il suo recupero sono attualmente disciplinati, per i soggetti all'IRPEF, dall'art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 917 del 1986, e, per i soggetti all'IRES, dall'art. 80, unico comma, dello stesso decreto.

Tali disposizioni corrispondono agli artt. 19, comma 2 (per i soggetti all'IRPEF), e 94, comma 1 (per i soggetti all'IRPEG), dello stesso d.P.R. n. 917 del 1986, nel testo anteriore alle già citate modificazioni della fine del 2003.

Nel ricorso all'esame delle Sezioni Unite, veniva specificamente in rilievo, come si è visto, l'art. 94, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, nel testo anteriore alla citata riforma. Per tale ragione, nell'esposizione si farà riferimento (salvo diversa indicazione) a tale disposizione.

Come risulta dal testo della medesima, nonché del precedente art. 93, il contribuente, al momento della dichiarazione, una volta determinata l'imposta dovuta, provvede a scomputare dalla stessa i crediti d'imposta (attualmente, l'art. 80 del d.P.R. n. 917 del 1986 fa peraltro riferimento allo scomputo dei soli crediti per le imposte pagate all'estero), le ritenute d'acconto e i versamenti in acconto di cui agli articoli precedenti. Nell'ipotesi in cui, da tale calcolo sottrattivo, risulti un importo positivo, egli dovrà effettuare il versamento a conguaglio dell'imposta dovuta; nel caso di importo negativo, si ha, invece, un'eccedenza d'imposta, cioè un credito del contribuente nei confronti dell'erario. L'evidenziazione nella dichiarazione di un'eccedenza dipende, dunque, da un lato, dalla determinazione dell'imposta dovuta, dall'altro, dagli elementi ? crediti d'imposta, ritenute alla fonte a titolo di acconto, versamenti in acconto ? da questa scomputati.

In ragione di ciò, si è sottolineata in dottrina «l'eterogeneità dei fattori che possono concorrere» [La Rosa, 2006, 750] a determinare le eccedenze d'imposta, affermando, altresì, che gli stessi fattori causali, nei crediti da dichiarazione, «si fondono, elidendo ogni possibilità di collegamento del credito con le sue cause originarie» [La Rosa, 2012, 217].

Sempre in dottrina, è stato ancora evidenziato come tale eterogeneità dei fattori causali che determinano le eccedenze d'imposta, unitamente alla «estraneità ad esse di quelle finalità ripristinatorie di assetti patrimoniali ingiustamente alterati che [...] caratterizza» l'indebito oggettivo, dovrebbe indurre ad escludere la riconducibilità delle eccedenze all'area del detto indebito [La Rosa, 2006, 750].

L'art. 94 attribuiva poi al contribuente, come è noto, la scelta tra l'utilizzazione dell'eccedenza portandola in diminuzione dell'imposta relativa al periodo d'imposta successivo e la richiesta di rimborso della stessa in sede di dichiarazione; ipotesi, quest'ultima, che è quella che rileva nell'àmbito della questione esaminata dalle Sezioni unite. La disciplina vigente dell'art. 80 del d.P.R. n. 917 del 1986 prevede, peraltro, accanto alle due opzioni indicate, l'ulteriore possibilità per il contribuente di utilizzare l'eccedenza esposta in dichiarazione in compensazione ai sensi dell'art. 17 del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241.

Un'eccedenza d'imposta può aversi, d'altro canto, anche nell'àmbito della disciplina dell'IVA, ogni qual volta dalla relativa dichiarazione annuale risulti che l'ammontare detraibile dell'imposta subita sugli acquisti, aumentato dei versamenti effettuati in sede di liquidazione periodica, è superiore a quello dell'imposta dovuta in base alla stessa dichiarazione. In tale caso, ai sensi dell'art. 30, secondo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, il contribuente ha il diritto di computare l'importo dell'eccedenza in detrazione dall'imposta a debito dell'anno successivo, ovvero di chiederne il rimborso. Tale ultima richiesta è consentita, peraltro, solo nelle ipotesi tassativamente previste dai commi terzo e quarto dello stesso art. 30 «e comunque in caso di cessazione di attività».

Va pertanto sottolineato che, nel caso dell'IVA, il rimborso dell'eccedenza si configura come un'ipotesi eccezionale rispetto al riporto a nuovo della stessa, essendo possibile, dietro richiesta del contribuente «all'atto della presentazione della dichiarazione annuale», oltre che nell'indicata ipotesi di cessazione dell'attività, nei soli casi in cui risulti un'eccedenza detraibile anche dalle dichiarazioni dei due anni precedenti (comma quarto dell'art. 30) o in quelli ? relativi, per lo più, a situazioni di fisiologico credito in conseguenza dell'esercizio di determinate attività o dell'effettuazione di particolari operazioni - individuati dal comma terzo dello stesso art. 30 (e sempre che, per tali ultimi casi, ricorra anche il presupposto quantitativo costituito dall'essere l'eccedenza detraibile di importo superiore a € 2.582,28).

Qualora il contribuente, in sede di dichiarazione dei redditi, chieda il rimborso dell'eccedenza d'imposta in essa evidenziata, la stessa dichiarazione «costituisce istanza di rimborso, che soddisfa la condizione posta dall'art. 38 del D.P.R. n. 602/1973 per evitare la decadenza del credito» (così Sez. U, n. 02687/2007, Cicala, Rv. 594805). In effetti - come sintetizzato dalla massima di tale sentenza ? «qualora il contribuente abbia evidenziato nella dichiarazione [dei redditi] un credito d'imposta, non trova applicazione, ai fini del rimborso del relativo importo, il termine di decadenza previsto dall'art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, non occorrendo la presentazione di un'apposita istanza, in quanto l'Amministrazione, resa edotta con la dichiarazione dei conteggi effettuati dal contribuente, è posta in condizione di conoscere la pretesa creditoria»; dal che consegue che «la relativa azione è pertanto sottoposta all'ordinario termine di prescrizione decennale» (e non a quello decadenziale del citato art. 38).

Oltre ad affermare tali princípi, la sentenza n. 2687 del 2007 ha risolto il contrasto che si era manifestato nella giurisprudenza di legittimità in ordine al momento dal quale decorre il termine prescrizionale dell'art. 2946 c.c., chiarendo che su tale «decorrenza non incide [...] il limite temporale stabilito per il controllo c.d. formale o cartolare delle dichiarazioni e la liquidazione delle somme dovute, ai sensi dell'art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973», trattandosi di «disposizione [...] volta [...] ad imporre un obbligo all'Amministrazione finanziaria, senza stabilire un limite all'esercizio dei diritti del contribuente». Ne consegue che, secondo le Sezioni Unite, il termine di prescrizione decennale del diritto al rimborso dell'eccedenza d'imposta risultante dalla dichiarazione dei redditi non decorre dalla scadenza del termine previsto dall'art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 per il controllo cosiddetto cartolare della dichiarazione, ma - come sembra doversi senz'altro ritenere, pur in assenza di un'affermazione espressa in tale senso, sulla base della motivazione della sentenza - dalla data di presentazione della dichiarazione.

Con riguardo al séguito della sentenza delle Sezioni Unite n. 2687 del 2007, va peraltro osservato che, mentre la sottoposizione dell'azione di rimborso dell'eccedenza d'imposta all'ordinario termine di prescrizione decennale (e non a quello decadenziale dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973) può ritenersi un principio ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, lo stesso non può dirsi a proposito dell'affermazione della decorrenza di tale termine prescrizionale dalla data di presentazione della dichiarazione. Circa tale punto, deve infatti rilevarsi che proprio alcune sentenze della Suprema Corte che si erano espresse nel senso del consolidamento del diritto al rimborso esposto nella dichiarazione per effetto di «un riconoscimento esplicito in sede di liquidazione, ovvero per effetto di un riconoscimento implicito derivante dal mancato esercizio nei termini del potere di rettifica» (così sia la massima della sentenza n. 1154 del 2008 che la motivazione delle sentenze n. 17697 del 2009 e n. 26318 del 2010, tutte già citate al paragrafo 3.) hanno affermato ? anche successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 2687 del 2007 ? che il predetto termine prescrizionale decorre non dalla data di presentazione della dichiarazione ma da quella del riconoscimento, sia esso esplicito o implicito, e, quindi, del consolidamento del credito. Va peraltro rilevato che la decorrenza del termine in considerazione dalla presentazione della dichiarazione dei redditi è stata, più di recente, riaffermata da Sez. T, n. 21734/2014, Virgilio, Rv. 632511.

Tale questione della decorrenza del termine di prescrizione decennale per l'esercizio dell'azione di rimborso dell'eccedenza d'imposta è, peraltro, autonoma rispetto a quella esaminata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 5069 del 2016. La risoluzione della stessa dipende infatti dall'affermazione, o no, della possibilità per il contribuente di esercitare la detta azione di rimborso immediatamente, senza, cioè, dovere attendere la scadenza dei termini previsti per l'esercizio dei poteri di liquidazione o di accertamento dell'amministrazione finanziaria; problematica, questa, la cui soluzione è indipendente dalla soluzione che si voglia dare al diverso problema - del quale erano investite le Sezioni Unite - degli effetti che il decorso dei medesimi termini produce sulla possibilità, per la stessa amministrazione, di contestare il diritto al rimborso. La diversità dei piani sui quali si collocano le due problematiche è evidenziata, del resto, anche dalla citata sentenza n. 21734 del 2014.

Sempre a proposito dell'idoneità della dichiarazione tributaria "a credito" a valere come istanza di rimborso - atta, perciò, a impedire la decadenza dal relativo diritto - sembra opportuno menzionare anche Sez. T, n. 15840/2006, Virgilio, Rv. 591753, della quale si riporta la seguente massima: «In tema di rimborso delle imposte sui redditi, la disposizione di cui all'art. 36-bis, comma primo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 ? in forza della quale (nel testo vigente "ratione temporis") gli uffici delle imposte, in sede di liquidazione delle dichiarazioni, procedono "ad effettuare rimborsi eventualmente spettanti in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai sostituti d'imposta, sulla scorta dei dati e degli elementi desumibili dalle dichiarazioni stesse e dai relativi allegati" ?, letta in coordinamento con il disposto dell'art. 41, secondo comma, ultima parte, del d.P.R. n. 602 del 1973, deve essere intesa, stante il carattere eccezionale della procedura da essa prevista e in base al complesso del sistema normativo tributario, nel senso che non è sufficiente, di per sé, ai fini di investire l'ufficio dell'obbligo di provvedere al rimborso, che dal controllo cartolare della dichiarazione si riscontri una discordanza tra il dovuto ed il versato; è invece necessario che nella dichiarazione stessa risulti ? ove le modalità di redazione lo consentano ? un credito "esposto" o "fatto valere", e cioè che da essa si possa evincere, con ragionevole certezza, una manifestazione di volontà idonea, in quanto tale, a svolgere la funzione, e quindi a tener luogo, dell'istanza di rimborso di cui all'art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, senza necessità di ulteriori adempimenti, altrimenti operando la normale procedura della richiesta differita di cui a quest'ultima norma. (Sulla base dell'enunciato principio, la S.C. ha quindi ritenuto che nel caso di specie, relativo a dichiarazione di sostituto d'imposta recante l'indicazione di un importo delle ritenute alla fonte "effettuate" inferiore a quello delle imposte "versate", la ricorrente fosse tenuta a presentare istanza di rimborso ai sensi dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, nel termine decadenziale - all'epoca - di diciotto mesi dalla data del versamento, escludendo che la fattispecie rientrasse invece nei casi in cui l'organo competente aveva l'obbligo di provvedere d'ufficio al rimborso, con conseguente soggezione del relativo diritto all'ordinaria prescrizione decennale)».

L'interesse della pronuncia sembra risiedere nel fatto che essa sottolinea la necessità che la dichiarazione, per valere come istanza di rimborso, oltre che essere stata regolarmente presentata, contenga una manifestazione di volontà del contribuente che la renda effettivamente idonea a svolgere la funzione di tale istanza.

5. La sentenza delle Sezioni Unite n. 5069 del 2016.

Le Sezioni Unite, investite della questione, hanno affermato di non condividere l'interpretazione seguita, in particolare, dalla sentenza n. 9339 del 2012 (e, più di recente, sia pure in modo implicito, da Sez. T, n. 02277/2016, Cicala, non massimata), ritenendo «preferibile» la soluzione accolta dall'altro orientamento della giurisprudenza della Corte «secondo cui i termini decadenziali in questione [cioè quelli per la notificazione degli avvisi di accertamento] sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito della Amministrazione e non a quelle con cui la Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito».

La stessa sentenza osserva poi come tale soluzione «susciti una certa disarmonia nel sistema», dato che, dopo che siano decorsi i termini per l'accertamento, «alla Amministrazione viene consentito di contestare il contenuto di un atto del contribuente [cioè la dichiarazione] solo nella misura in cui tale contestazione consente alla Amministrazione di evitare un esborso e non invece sotto il profilo in cui la medesima contestazione comporterebbe la affermazione di un credito della Amministrazione».

Le Sezioni Unite osservano, però, di seguito, che «In sostanza, si tratta, per altro, di una applicazione del principio secondo cui "quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum" (art. 1442 del codice civile)».

La soluzione preferita, del resto - conclude, sul punto, la sentenza - «non lascia senza difesa il contribuente che ben può impugnare il silenzio della Amministrazione che non dia seguito alla istanza di rimborso, ottenendo sul punto una pronuncia giudiziale».

Passando, quindi, all'esame delle ulteriori doglianze avanzate dall'Agenzia delle entrate con il proprio ricorso, le Sezioni Unite affermano che, poiché il credito chiesto a rimborso con la dichiarazione originava dall'asserita spettanza di agevolazioni fiscali (quelle, già menzionate al paragrafo 3., previste dagli artt. 10-bis della legge n. 1745 del 1962, e 6 del d.P.R. n. 601 del 1973), «era preciso onere del richiedente, allegare e provare i presupposti fondanti la pretesa fatta valere». Poiché il tema della sussistenza, in capo alla fondazione bancaria, dei presupposti soggettivi e oggettivi necessari al fine di potere fruire dei citati benefici era rimasto, invece, «assolutamente, estraneo alla decisione, non risultando essere stato, né dedotto, né trattato dalla decisione di appello», le Sezioni Unite, accogliendo il ricorso, hanno rinviato ad altra sezione della commissione tributaria regionale perché decidesse in applicazione degli enunciati princípi in tema di onere della prova delle condizioni per avere diritto alle invocate agevolazioni.

6. Le prime reazioni della dottina.

L'interpretazione fatta propria dalle Sezioni Unite si fonda dunque sul principio, stabilito dall'art. 1442, comma 4, c.c., quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum. Si tratta, come è ben noto, del principio che consente al convenuto per l'esecuzione del contratto di paralizzare la domanda dell'avversario che sia fondata su tale atto negoziale opponendo l'annullabilità dello stesso anche nel caso in cui sia prescritta l'azione per farla valere.

Nei primi contributi dottrinali apparsi successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite n. 5069 del 2016 è stata proprio l'applicabilità del principio dell'imprescrittibilità dell'eccezione di annullamento alla fattispecie della dichiarazione "a credito" a essere messa, talora, in discussione.

Si è, in proposito, sostenuto che l'applicazione di tale principio postulerebbe l'esistenza di una lacuna nella disciplina della fattispecie che sarebbe, invece, insussistente. Secondo questa tesi, la normativa tributaria detterebbe, in realtà, una disciplina compiuta del procedimento di rimborso dell'eccedenza d'imposta esposta nella dichiarazione "a credito" in base alla quale, una volta che questa venga presentata, l'amministrazione finanziaria sarebbe obbligata a comunicare al contribuente i fatti impeditivi del riconoscimento del credito, chiedendogli di integrare e, eventualmente, documentare quanto indicato nella dichiarazione (art. 6, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212), entro il termine previsto per il controllo della stessa (art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973), dato che, in caso contrario, sarebbero «nulli i provvedimenti emessi» (art. 6, comma 5, della legge n. 212 del 2000). Da ciò conseguirebbe che, in mancanza della detta comunicazione di fatti impeditivi del riconoscimento del credito entro il termine dell'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, l'inerzia dell'amministrazione assumerebbe il significato di assenza di tali fatti e, per l'effetto, di «"riconoscimento implicito" del credito» [Miscali e Doglio, 2016, 1715-1717].

Secondo un'altra tesi, l'inapplicabilità alla fattispecie della regola quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum deriverebbe dal fatto che, posto che essa, secondo la stessa giurisprudenza di legittimità, «non è regola generale [ma] vale soltanto per i casi in cui la legge la prevede (artt. 1442, 1495, 1667 c.c.), in deroga alla regola generale dell'art. 2934 c.c. secondo cui la prescrizione estingue il diritto, tanto se fatto valere in via di azione quanto se fatto valere in via di eccezione» (Sez. 2, n. 03702/2011, De Chiara, Rv. 616712), non esisterebbe alcuna disposizione che la renda operante nell'ordinamento tributario. Ne discenderebbe che, dovendosi in esso applicare la regola generale dell'art. 2934 c.c., lo spirare del termine di decadenza dell'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 estinguerebbe il potere di accertamento in rettifica dell'amministrazione finanziaria tanto nel caso in cui esso venga fatto valere in via di azione quanto nel caso in cui venga fatto valere in via di eccezione. Il tempestivo esercizio di tale potere entro il termine di decadenza citato e nelle forme autoritative previste dalla legge costituirebbe perciò condizione necessaria perché l'amministrazione finanziaria possa legittimamente contestare, anche in via di eccezione - nell'àmbito del giudizio promosso dal contribuente avverso il rifiuto tacito della restituzione di tributi - la spettanza del credito esposto nella dichiarazione. Discipline analoghe sarebbero, del resto, previste anche nei rapporti di diritto privato, nelle ipotesi in cui il legislatore prevede dei termini di decadenza per l'esercizio di taluni diritti, come nei casi della vendita e dell'appalto, in cui il compratore o il committente che abbiano omesso di denunciare nei previsti termini di decadenza, rispettivamente, il vizio della cosa venduta e le difformità o i vizi dell'opera, decadono dal diritto alle relative garanzie anche se intendano far valere lo stesso in via di eccezione (artt. 1495, comma 3, e 1667, comma 3, c.c.) [Gargiulo, 2016].

Sotto altro aspetto, si è sostenuto che, poiché l'eccezione di annullamento prevista dall'art. 1442, comma 4, c.c., costituisce un'eccezione in senso stretto (e non una mera difesa), di tal ché l'onere della prova dei fatti sui quali essa si fonda dovrebbe gravare, ai sensi dell'art. 2697, comma 2, c.c., su chi la fa valere, ne conseguirebbe che, anche a volere ammettere l'applicabilità della regola dell'art. 1442, comma 4, c.c., alla fattispecie della dichiarazione "a credito", l'onere di provare i fatti suscettibili di paralizzare la domanda di restituzione avanzata dal contribuente doveva gravare sull'Agenzia delle entrate e non, come ritenuto dalle Sezioni Unite, sul contribuente [Aiudi, 2016].

Ha inteso prescindere dal richiamo al principio civilistico dell'art. 1442, comma 4, c.c., anche la dottrina che si è espressa in senso adesivo alla soluzione adottata dalle Sezioni Unite, avendo essa preferito fondare l'esclusione della cristallizzazione del diritto del contribuente al rimborso del credito esposto nella dichiarazione sulla considerazione che l'ordinamento tributario raramente attribuisce all'inerzia dell'amministrazione finanziaria significato positivo e, quando lo fa, ciò avviene in modo espresso (o, comunque, non controvertibile). In assenza di una siffatta attribuzione di significato, non sarebbe possibile fare derivare dalla semplice mancata tempestiva rettifica «una implicita accettazione della dichiarazione e quindi la incontestabilità del rimborso che dalla stessa emerge» [Pace, 2016].

La dottrina non ha, infine, mancato di sottolineare il passaggio della sentenza n. 5069 del 2016 (riportato al paragrafo 5.) nel quale le Sezioni Unite mostrano consapevolezza di come la soluzione intepretativa prescelta possa generare «una certa disarmonia nel sistema» [Aiudi, 2016]. In effetti, irregolarità suscettibili di determinare l'emersione di un'eccedenza d'imposta richiesta a rimborso con la dichiarazione possono essere contenute sia in una dichiarazione "a credito" che in una dichiarazione "non a credito" e determinano, nelle due ipotesi, un identico pregiudizio per la finanza pubblica. Da ciò la difficoltà di giustificare un diverso trattamento delle stesse, e dei contribuenti che le hanno commesse, quanto ai termini (e alle forme) di contestazione e, in particolare, la sussistenza di un più lungo termine per la contestazione in base alla circostanza, del tutto accidentale, che l'irregolarità sia contenuta in una dichiarazione "a credito". Tale «disarmonia» troverebbe tuttavia giustificazione, secondo le Sezioni Unite, nel più volte menzionato principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum.

7. Alcune considerazioni conclusive.

Come si è visto al paragrafo 5., la sentenza delle Sezioni Unite n. 5069 del 2016 ha affermato la possibilità, per l'amministrazione finanziaria, di contestare, in via di eccezione (nell'àmbito del giudizio promosso dal contribuente avverso il rifiuto della restituzione di tributi), il credito esposto nella dichiarazione, ancorché siano ormai inutilmente scaduti i termini per l'esercizio del potere di accertamento. La statuizione delle Sezioni Unite parrebbe, quindi, di portata generale, nel senso che essa sembra consentire la predetta contestazione a prescindere da quale sia il fattore (o i fattori) che, tra i plurimi possibili (vedi il paragrafo 4.), può avere determinato l'eccedenza d'imposta chiesta a rimborso con la dichiarazione.

A quest'ultimo proposito, può in effetti osservarsi che le irregolarità che possono avere condotto a una dichiarazione dei redditi "a credito" - e che potrebbero, quindi, essere contestate dall'amministrazione finanziaria - potrebbero riguardare la determinazione dell'imponibile, l'applicazione dell'imposta (sotto il profilo dell'aliquota o del regime di tassazione) e, infine, gli elementi scomputati dall'imposta, cioè i crediti d'imposta, le ritenute alla fonte a titolo di acconto e i versamenti in acconto.

Tutte tali irregolarità rientrano appieno nell'àmbito dell'attività di accertamento e tutte sembrerebbero poter essere eccepite dall'amministrazione finanziaria, al fine di contestare il credito esposto nella dichiarazione che da esse sia derivato, anche dopo che i termini per l'accertamento siano inutilmente spirati.

Tale conclusione non sembrerebbe, tuttavia, poter essere spinta sino a ritenere che l'amministrazione finanziaria possa prospettare, quale eccezione processuale nell'àmbito del giudizio promosso avverso il rifiuto della restituzione di tributi, una rettifica dei ricavi dichiarati dal contribuente, atteso che, in tale caso, sembrerebbe aversi non la contestazione dell'esistenza di un debito dell'amministrazione ma un vero e proprio accertamento (fuori termine) di un suo credito (che verrebbe opposto in compensazione); ciò che la sentenza delle Sezioni Unite ha, invece, escluso.

Sempre al paragrafo 5., si è detto come le Sezioni Unite abbiano affermato che, poiché il credito chiesto a rimborso originava, nella specie, dall'asserita spettanza di agevolazioni fiscali, «era preciso onere del richiedente, allegare e provare i presupposti fondanti la pretesa fatta valere».

Al riguardo, sembra potersi osservare che, nei casi di ricorso avverso il silenzio tacito della restituzione - in cui manca, quindi, un atto amministrativo espresso - considerata anche la più volte sottolineata eterogeneità dei fattori che possono concorrere a determinare le eccedenze d'imposta, potrebbe risultare eccessivo esigere che il contribuente si faccia carico, sin dal ricorso introduttivo, di tutte le possibili contestazioni che l'amministrazione finanziaria potrebbe avanzare in ordine alla spettanza del credito da lui esposto nella dichiarazione, sembrando, invece, corretto ritenere che egli possa assolvere i propri oneri di allegazione e di prova anche nel corso del giudizio, quando solo allora sia stato possibile, per lui, conoscere le specifiche contestazioni dell'amministrazione.

Sembra, infine, doversi ritenere che il principio dettato dalla sentenza n. 5069 del 2016, ancorché riferito alla contestazione dei crediti esposti nella dichiarazione dei redditi, non potrà non essere seguíto anche con riguardo ai crediti chiesti a rimborso nella dichiarazione IVA (nelle ipotesi, tassativamente previste dai commi secondo, terzo e quarto dell'art. 30 del d.P.R. n. 633 del 1972, in cui tale richiesta è consentita), non ravvisandosi ragioni che possano indurre a pervenire, in tale analoga ipotesi, a una diversa conclusione.

Successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite n. 5069 del 2016, la Sezione tributaria si è, già in due occasioni, pronunciata in senso a essa conforme (Sez. T, n. 12557/2016, Meloni, Rv. 640075, e Sez. T, n. 10476/2016, Locatelli, non massimata).

. BIBLIOGRAFIA

B. AIUDI, Il rimborso del credito esposto nella dichiarazione fiscale annuale? L'Ufficio finanziario può sempre negarlo, in Bollettino Tributario d'informazioni, 2016, 14, pagg. 1131-1134;

G. GARGIULO, Rettifica delle "dichiarazioni a credito" tra processo e azione amministrativa, in Rivista di Giurisprudenza tributaria, 2016, 6, pagg. 475-480;

M. MISCALI e M. DOGLIO, Il decorso del termine di decadenza non consolida il credito chiesto a rimborso in dichiarazione, in Corriere Tributario, 2016, 22, pagg. 1713-1717;

A. PACE, Il consolidamento della dichiarazione "non" implica riconoscimento dell'agevolazione, in Bollettino Tributario d'informazioni, 2016, 14, pagg. 1134-1136;

S. LA ROSA, Principi di diritto tributario, IV ed., Giappichelli, Torino, 2012;

S. LA ROSA, Accertamento tributario e situazioni soggettive del contribuente, in Rivista di diritto tributario, 2006, 10, pagg. 735-755.

  • imposta locale
  • proprietà privata
  • catasto

CAPITOLO VIII

LA REVISIONE DEL CLASSAMENTO CATASTALE QUALE ATTO GENERALE E LA GIURISDIZIONE ESCLUSIVA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (CASS. SEZ. U, N. 07665/2016, CIRILLO, RV. 639286)

(di Marzia Minutillo Turtur )

Sommario

1 Premessa. - 2 La vicenda processuale. - 2.1 Il ricorso alle Sezioni Unite. - 3 Gli atti di classamento. - 4 Gli orientamenti giurisprudenziali sugli atti impugnabili ex art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992. - 5 I riferimenti normativi. - 6 Considerazioni sistematiche. - 7 La soluzione delle Sezioni Unite. - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Sez. U, n. 07665/2016, Cirillo, Rv. 639286, hanno affrontato la tematica del riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice tributario in tema di atti di classamento catastale.

La sentenza, così massimata "La notifica al contribuente dell'avviso di accertamento per revisione del classamento e della rendita – impugnabile davanti alla commissione tributaria, quale operazione catastale individuale – non incide sulla giurisdizione amministrativa concernente gli atti amministrativi generali relativi alle microzone comunali, i quali possono essere autonomamente impugnati davanti al giudice amministrativo, anche da soggetti esponenziali di interessi diffusi." ha rappresentato l'occasione per una disamina approfondita della portata del giudizio tributario e della sua natura nelle diverse modifiche e previsioni normative che lo hanno caratterizzato, nell'ottica di una chiara definizione dell'ambito della giurisdizione amministrativa quanto alla disciplina catastale nella sua portata generale ed individuale.

Il presente contributo è volto ad analizzare il contesto in cui matura la questione e la relativa controversia, i presupposti normativi e interpretativi di riferimento in considerazione della soluzione sul punto adottata dalle Sezioni Unite.

2. La vicenda processuale.

Raffaele Ungaro, Codacons, Adusbef Puglia, Adoc Provinciale di Lecce hanno proposto ricorso dinnanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sezione di Lecce, per l'annullamento del provvedimento di suddivisione del territorio del comune di Lecce in microzone catastali ai sensi dell'art. 2 d.P.R. n. 138 del 23 marzo 1998; della delibera della giunta comunale di Lecce n. 639 del 2012 relativa alla richiesta di revisione del classamento delle unità immobiliari ricadenti nelle microzone 1 e 2 del comune di Lecce ai sensi dell'art. 1 comma 335 della l. n. 311 del 30 dicembre 2004; della delibera della giunta comunale di Lecce n. 746 del 2012 con medesimo oggetto e parziale modifica dell'allegato D.G.M. n. 639 del 2010; della determinazione del Direttore dell'Agenzia del Territorio del 29.11.2010 con oggetto "revisione del classamento delle unità immobiliari urbane site nel comune di Lecce ai sensi dell'art. 1 comma 335 l. n. 311 del 2004" e dell'avviso di accertamento catastale del 21.12.2012, nonché di tutti gli atti presupposti, connessi o consequenziali collegati al nuovo classamento catastale della zona in questione.

Gli istanti, a sostegno dell'impugnazione, hanno dedotto, in relazione all'adozione di tali atti, violazione e falsa applicazione dell'art. 2 del d.P.R. n. 138 del 1998 lamentando la ricorrenza del vizio di eccesso di potere per sviamento, violazione del principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, eccesso di potere per erroneità dei presupposti, nonché violazione e falsa applicazione della l. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335, in relazione alla determinazione dell'Agenzia del Territorio per carenza di motivazione, eccesso di potere per sviamento, illogicità manifesta, erroneità dei presupposti ed infine illegittimità dell'individuazione delle microzone sempre per violazione di legge ed eccesso di potere per erroneità dei presupposti.

In tale giudizio si è costituita l'Avvocatura Distrettuale dello Stato eccependo in via preliminare il difetto di giurisdizione del tribunale adito e contestando tutte le pretese dei ricorrenti. Il comune di Lecce si è costituito sostenendo la posizione dei ricorrenti nei confronti dell'Agenzia delle Entrate.

Il T.A.R. Puglia, ritenuta la propria giurisdizione – richiamata la disciplina di legge ed affermato che gli atti regolamentari e gli atti amministrativi generali in materia tributaria possono essere disapplicati dalle commissioni tributarie, ma non sono impugnabili dinnanzi alle stesse in considerazione della ricorrenza dell'esercizio nel caso in esame di un potere discrezionale a carattere generale confluito nella emanazione di atti normativi destinati ad incidere su una pluralità indifferenziata di soggetti – dopo aver chiarito come oggetto del giudizio non fosse in alcun modo l'atto impositivo, ma bensì i presupposti atti amministrativi di carattere generale riguardanti il procedimento di revisione del classamento degli immobili e l'intera attività di microzonizzazione del territorio leccese, ha accolto il ricorso annullando gli atti impugnati.

L'Agenzia delle Entrate e il Ministero dell'Economia e delle Finanze hanno impugnato la sentenza del Tar Puglia n. 1621 del 2013.

L'Ungaro e le associazioni di consumatori citate, oltre al comune di Lecce, hanno, in sostanza, invocato la motivazione resa dalla sentenza impugnata, chiedendo, per l'effetto, il rigetto dell'appello proposto.

Con sentenza n. 8067 del 2013 il Consiglio di Stato accoglieva l'appello e annullava la sentenza del Tar Puglia dichiarando il proprio difetto di giurisdizione in relazione al ricorso proposto richiamando la giurisdizione del giudice tributario.

In particolare nella motivazione il Consiglio di Stato considerava la fondatezza delle osservazioni in materia di giurisdizione contenute nella sentenza di primo grado, ma le riteneva "irrilevanti" nel caso concreto oggetto di giudizio.

Si è infatti affermato (pag. 2 della sentenza) che "non vi è modo di dubitare che, stante il testo degli art. 2 e 7 comma 5 del d. lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, in linea generale deve ritenersi che gli atti regolamentari e gli atti amministrativi generali in materia tributaria possono essere disapplicati dalle commissioni tributarie, ma non sono impugnabili davanti alle stesse", citando allo scopo la sentenza delle Sez. U, n. 00675/2010, Salvago, Rv. 611201.

Riteneva tuttavia il Consiglio di Stato che l'interpretazione e la disciplina richiamata dalla Corte di cassazione, proprio in relazione alle controversie di classamento delle singole unità immobiliari e attribuzione della rendita catastale, non potessero essere riferite al caso in esame, che trova la propria disciplina in ordine alla giurisdizione nella previsione di cui all'art. 74 della l. 21 novembre del 2000 n. 342 secondo la quale "a decorrere dal gennaio 2000 gli atti comunque attributivi o modificativi delle rendite catastali per terreni e fabbricati sono efficaci solo a decorrere dalla loro notificazione, a cura dell'ufficio del territorio competente, ai soggetti intestatari della partita. Dall'avvenuta notificazione decorre il termine di cui all'art. 21 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 e successive modificazioni per proporre il ricorso di cui all'art. 2, comma 3, dello stesso decreto legislativo. Dell'avvenuta notificazione gli uffici competenti danno tempestiva comunicazione ai comuni interessati".

Dalla norma richiamata il Consiglio di Stato desume la ricorrenza di due diverse norme:

- la prima di carattere sostanziale relativa al tempo e modo con il quale gli atti attributivi o modificativi della rendita catastale acquistano efficacia (mediante la notifica appunto al contribuente come mera attribuzione di efficacia valevole verso l'esterno), ma che determina una "conseguenza esiziale: in assenza di notifica, gli atti non sono efficaci e, conseguentemente, non possono incidere su situazioni soggettive del contribuente", sicché in assenza di notifica i detti atti non sono efficaci e quindi la giurisdizione in concreto non può essere azionata mancando il presupposto necessario della lesività dell'atto";

- la seconda di carattere processuale con individuazione del regime giurisdizionale per tali atti (sebbene a portata generale), poiché "al compimento della notifica e quindi al perfezionamento della fattispecie eventualmente lesiva, si accompagna l'effetto di uno spostamento della giurisdizione in favore del giudice tributario. Peraltro, lo si noti, provvedendo ad allargare le attribuzioni originarie di tale giudice, in quanto consente di procedere davanti a questi ad una impugnazione in via principale e non già incidentale di un atto presupposto. Infatti è consentito di impugnare immediatamente, visto l'obbligo di rispettare il termine decadenziale, il provvedimento lesivo, proponendo il ricorso di cui all'art. 3 comma 2, delle disposizioni sul processo tributario, ossia facendo riferimento alla disposizione che consente al giudice tributario di risolvere in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione… il che significa che il ricorso di cui all'art. 2 comma 3, proposto a norma dell'art. 74, non è più di mera pregiudizialità, ma aggredisce direttamente l'atto presupposto, ossia quello generale in tema di pianificazione in tema di attribuzione o modificazione delle rendite catastali per terreni e fabbricati, senza attendere la mediazione dell'atto impositivo, attesa che non risulta compatibile con il breve termine decadenziale".

Conclude quindi il giudice amministrativo affermando che tale disciplina comporta il superamento del meccanismo della disapplicazione e conduce ad una "cognizione piena del giudice tributario anche dell'atto a monte, con consequenziale attribuzione del potere di annullamento, in un'ottica di concentrazione ed unità del processo del tutto condivisibile".

2.1. Il ricorso alle Sezioni Unite.

Con ricorso ex art. 362 c.p.c Ungaro, Codacons, Adusbef Puglia, Adoc provinciale Lecce, e ad adiuvandum il comune di Lecce, hanno contestato la decisione del Consiglio di Stato e hanno chiesto che venisse affermata, quanto all'oggetto della controversia, la giurisdizione del giudice amministrativo richiamando il disposto dell'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 quale base per una conoscenza "meramente incidentale" da parte del giudice tributario di atti amministrativi generali, atti con carattere di presupposto dell'atto impositivo, per risolvere la questione sottoposta alla sua cognizione e relativa al singolo rapporto impositivo tra Stato e contribuente, senza alcuna eventualità di allargamento del potere giurisdizionale del giudice tributario con possibilità di annullamento di atti generali e cogenti, con conseguente violazione del divieto costituzionale di creazione di giudici speciali.

L'agenzia delle Entrate e il Ministero dell'Economia e delle Finanze resistono con controricorso sostenendo l'assenza di qualsiasi efficacia lesiva degli atti a monte dei provvedimenti di accertamento con comunicazione di variazione in aumento della rendita catastale.

3. Gli atti di classamento.

In via preliminare occorre considerare come con il ricorso introduttivo Ungaro e gli altri ricorrenti (associazioni di consumatori portatori di interessi generali e diffusi della cittadinanza di Lecce) avessero evidenziato come dal comune di Lecce in epoca 1999 fosse stato avviato un procedimento di revisione parziale del classamento delle unità immobiliari di proprietà privata poiché nella prima e seconda micro zona del comune di Lecce il rapporto tra il valore medio di mercato e il corrispondente valore medio catastale, ai fini dell'applicazione dell'ICI, si discostava in modo consistente dal medesimo valore per le altre micro zone comunali.

Il primo punto da affrontare è stato dunque quello della valutazione della natura e portata degli atti di classamento catastale, e in particolare del provvedimento di microzonizzazione catastale, con conseguente avvio del nuovo iter di classificazione catastale. L'interpretazione proposta dal Consiglio di Stato tende a svalutare la portata generale di tali atti, configurandone efficacia e rilevanza solo a seguito della notificazione dell'atto impositivo che li presuppone al contribuente, sebbene non ne escluda l'utilizzabilità di tali atti ad altri fini. Secondo l'interpretazione proposta dunque tali atti non sarebbero mai valutabili e oggetto di giudizio in sé, ma solo ed esclusivamente in seguito al manifestarsi in concreto di una specifica pretesa impositiva; risulterebbero dunque sottratti alla giurisdizione del giudice amministrativo per rientrare in quella del giudice tributario, con potere di cognizione non più incidentale, ma bensì diretta (con conseguente potere di annullamento).

Tuttavia gli atti di classamento catastale, e gli atti presupposto e istruttori che precedono la valutazione finale, rappresentano atti riferibili alla P.A. sia quando il classamento è operato in assenza di una rendita proposta, sia quando la determinazione dell'ufficio avviene a seguito della prescritta dichiarazione del possessore.

Tale provenienza dalla P.A. depone per la natura di atto amministrativo dell'atto di classamento, poiché accerta lo stato dei beni con conseguente attribuzione di una corrispondente qualificazione giuridica, tanto che tale tipologia di atti amministrativi è stata costantemente inquadrata tra gli atti dichiarativi e in particolare tra gli atti di certazione.

Dalla natura dichiarativa dell'atto di classamento dovrebbe dunque conseguire che il giudizio relativo a tale atto sia un giudizio di accertamento, anche se si è costantemente evidenziato come le illegittimità formali dell'atto, i vizi dell'atto, la sua adozione con eccesso di potere quale conseguenza di violazione di legge, portino ad un vero e proprio giudizio di annullamento dell'atto. Anche in relazione alle tariffe d'estimo, espressione del potere di accertamento valutativo attribuito dalla legge all'amministrazione con riferimento all'entità della rendita nei confronti di una indeterminata pluralità di soggetti, può essere riscontrata la portata di atto amministrativo espressione di discrezionalità e dunque la sua soggezione ad un giudizio di annullamento in relazione ai vizi dell'atto. Ed è proprio quanto a tali atti ed alla loro portata che sembra potersi riferire per interpretazione letterale e sistematica l'art. 7, comma 5, del d. lgs. n. 546 del 1992, ove viene evidenziato il potere di disapplicazione del giudice tributario di regolamenti o atti generali ai fini della decisione in relazione all'oggetto dedotto in giudizio, salva l'eventuale impugnazione nella sede competente.

Il classamento dunque non determina un tributo, ma una rendita che costituisce la base per l'applicazione di svariati tributi.

Proprio la considerazione del classamento come atto di esercizio del potere discrezionale della P.A. ha portato la giurisprudenza della Corte di cassazione ad evidenziare con costanza ed omogeneità la necessità di una compiuta ed articolata "motivazione" dell'atto di classamento, che non si può più dunque limitare alla sola enunciazione degli elementi oggettivi della categoria catastale, della classe e della rendita, in considerazione appunto della natura valutativa dell'atto di classamento (in questo senso Sez. T, n. 00969/2012, Di Blasi, Rv. 622951, così massimata "In tema di estimo catastale, quando procede all'attribuzione di ufficio di un nuovo classamento ad un'unità immobiliare a destinazione ordinaria, l'Agenzia del Territorio, a pena di nullità del provvedimento per difetto di motivazione, deve specificare se tale mutamento è dovuto a trasformazioni specifiche subite dall'unità immobiliare in questione, oppure ad una risistemazione dei parametri relativi alla microzona in cui si colloca l'unità immobiliare. L'Agenzia dovrà indicare, nel primo caso, le trasformazioni edilizie intervenute, e nel secondo caso l'atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti del contesto urbano. Tali specificazioni e indicazioni, infatti, sono necessarie per rendere possibile al contribuente di conoscere il presupposto del riclassamento, di valutare l'opportunità di fare o meno acquiescenza al provvedimento e di approntare le proprie difese con piena cognizione di causa, nonché per impedire all'Amministrazione, nel quadro di un rapporto di leale collaborazione, di addurre in un eventuale successivo contenzioso ragioni diverse rispetto a quelle enunciate".

Emerge dunque una considerazione complessa dell'atto di classamento, che ha una valenza anche a fini civili e non genera di per sé una pretesa tributaria in considerazione della sua natura amministrativa, dunque con valenza tributaria solo indiretta (ovvero solo in seguito alla formalizzazione dell'atto impositivo).

Da ciò dovrebbe dunque conseguire un potere d'impugnazione diretta dell'atto, entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione, per un eventuale annullamento con effetti erga omnes dinnanzi al giudice amministrativo; mentre il contribuente potrà chiedere nella specifica controversia tributaria la disapplicazione di un atto amministrativo generale o regolamentare in occasione dell'impugnazione di uno degli atti indicati nell'art. 19 del d. lgs. n. 546 del 1992.

4. Gli orientamenti giurisprudenziali sugli atti impugnabili ex art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992.

Ciò premesso – circa la ricorrenza o meno di un'effettiva giurisdizione del giudice tributario in forma diretta tanto da poter giungere all'annullamento dell'atto di riclassamento catastale – occorre considerare l'interpretazione della giurisprudenza di legittimità quanto agli atti impugnabili ex art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546. L'interpretazione costantemente emersa è volta a consentire, in considerazione di un'applicazione estensiva dell'elencazione di cui all'art. 19 predetto, in ossequio ai principi costituzionali di tutela del contribuente e buon andamento della P.A., un'impugnazione degli atti che portino a conoscenza del contribuente una "ben individuata pretesa tributaria".

Emerge dunque un'ampia considerazione del potere d'impugnazione purché tuttavia sia collegato al rapporto autoritativo e dunque all'esercizio concreto del potere d'imposizione da parte dell'Amministrazione finanziaria.

In tal senso in particolare si è pronunciata Sez. T, n. 21392/2012, Schirò, Rv. 624436, secondo la quale: "In tema di contenzioso tributario, è inammissibile l'azione del contribuente finalizzata esclusivamente a far accertare le maggiori perdite subite in conseguenza dell'erroneo pagamento di tributi non dovuti, o versati in misura superiore a quella prescritta, dal momento che il ricorso davanti al giudice tributario può essere proposto soltanto avverso gli atti impugnabili, tassativamente indicati nell'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, elencazione che pur essendo suscettibile di interpretazione estensiva – in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione dell'allargamento della giurisdizione tributaria operato con la legge 28 dicembre 2001, n. 448 – si riferisce, in ogni caso, solo ad atti dell'Amministrazione finanziaria che, pur non rivestendo l'aspetto formale proprio di uno di quelli dichiarati espressamente impugnabili, portino a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, suscitandone l'interesse a chiederne il controllo di legittimità in sede giurisdizionale.".

Nello stesso senso Sez. 6–T, n. 25297/2014, Conti, Rv. 633636, Sez. T, n. 16952/2015, Bruschetta, Rv. 636281, Sez. T, n. 17010/2012, Virgilio, Rv. 623917, Sez. T, n. 10987/2015, Tirelli, Rv. 618117, Sez. T, n. 2616/2015, Napolitano, Rv. 634214, Sez. 6–T, n. 15957/2015, Cosentino, Rv. 636113, Sez. 6–T, n. 13548/2015, Caracciolo, Rv. 635738.

Ne consegue quindi una considerazione ampia degli atti impugnabili, ma pur sempre in relazione e correlazione con una specifica pretesa tributaria, con possibilità di disapplicazione da parte del giudice tributario degli atti presupposto in caso di loro illegittimità o adozione con eccesso di potere. Una considerazione dunque del singolo interesse e diritto azionato quanto all'atto impositivo, nell'ambito del quale non sembrano rientrare ed essere compresi gli interessi diffusi della cittadinanza e del territorio (tramite le osservazioni dell'ente locale) in relazione al provvedimento complessivo di classamento, a portata generale e con efficacia erga omnes, caso ricorrente nel ricorso presentato da Ungaro ed altri.

In tal senso occorre ricordare come l'azione avviata dalle associazioni rappresentative di consumatori e cittadinanza avesse evidenziato la necessità di riconsiderazione dell'atto di classamento e microzonizzazione del comune di Lecce poiché tale procedimento, pur avviato nell'anno 1999, risultava concluso nell'anno 2010 in relazione ad attività impositiva e caratterizzazione territoriale delle zone valutate del tutto diverse rispetto alla fase di avvio del procedimento.

5. I riferimenti normativi.

La questione sottoposta con il ricorso pone dunque il problema del coordinamento tra gli articoli 2 e 19 del d. lgs. n. 546 del 1992 in relazione alla previsione di cui all'art. 74 comma 1, della l. n. 342 del 21 novembre 2000 ed al rinvio in tale articolo contenuto all'art. 2 comma 3 del decreto 546 citato, considerato che la previsione di cui all'art. 2 è stata modificata in epoca successiva all'entrata in vigore della l. n. 342 del 2000. In mancanza di un intervento di coordinamento ed adeguamento normativo la disciplina di riferimento dovrebbe essere identificata in relazione all'originario disposto dell'art. 2 comma 3, nel senso di richiamare l'oggetto della giurisdizione tributaria in relazione anche alla materia del classamento catastale, e chiarire che per tutti i provvedimenti che presuppongono un atto di classamento catastale, quando si manifestino in uno specifico atto impositivo, il termine per il ricorso e impugnazione decorre dall'effettiva notificazione dell'atto impositivo stesso.

Il richiamo aveva l'evidente funzione di riportare a sistema complessivo e generale la possibilità di impugnare l'atto di accertamento e impositivo solo dal momento dell'effettiva conoscenza dello stesso da parte del contribuente destinatario della pretesa erariale.

Una norma dunque di garanzia nei confronti del contribuente ai fini dell'effettiva conoscibilità degli atti, correlata alla nuova disciplina introdotta per la notificazione dell'atto impositivo, che di fatto ha superato la precedente disciplina che attribuiva rilevanza agli atti di riclassamento catastale con la mera pubblicazione sull'albo pretorio del Comune.

Una tale disciplina in nessun modo appare incidere sull'ordinaria disciplina degli atti generali e dei regolamenti – e dunque sulla possibile verifica di legittimità degli stessi in relazione ai presupposti che ne legittimano l'adozione – dinnanzi al giudice amministrativo.

Nonostante tale evidente riferimento temporale e conseguente interpretazione sistematica della previsione di cui all'art. 74 della l. n. 342 del 2000 il Consiglio di Stato ha fondato la propria opzione interpretativa in considerazione della previsione di cui all'art. 2 comma 3 del d.lgs. n. 546 del 1992 per come modificato successivamente alla entrata in vigore del predetto art. 74.

La lettura sistematica delle disposizioni richiamate, anche nell'attuale formulazione, e l'analisi del correlato disposto tra tali disposizioni e l'art. 7 comma 5 del d. lgs. n. 546 del 1992, evidenziano tuttavia sempre e comunque un potere di cognizione incidentale del giudice tributario delle questioni da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione e dunque questioni presupposto collegate inscindibilmente, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, all'essere stata azionata una specifica pretesa impositiva in relazione ad un singolo e specifico rapporto tra Stato e contribuente. In quest'ambito complessivo di valutazione si inserisce il disposto di cui all'art. 7 comma 5 citato che attribuisce al giudice tributario il potere di disapplicazione di atti generali e regolamenti nel contesto della propria decisione, salva la facoltà di impugnazione nella sede competente. Un sistema questo improntato ad effettiva completezza e sistematicità, che risulta superato – con un consistente allargamento della giurisdizione tributaria chiamata a giudicare direttamente della legittimità di atti generali e regolamenti con potere di annullamento degli stessi – dall'interpretazione del Consiglio di Stato, che sostanzialmente afferma la assenza di rilevanza degli atti generali prima che gli stessi acquistino portata concreta mediante la confluenza del loro contenuto in un atto impositivo regolarmente notificato al contribuente, e individua la ratio della più ampia giurisdizione del giudice tributario nella decorrenza del termine decadenziale di impugnazione, che tuttavia in relazione alla disciplina richiamata deve essere riferito all'atto impositivo della singola pretesa della Amministrazione finanziaria nei confronti del contribuente.

Nel corpo della sentenza infatti si sottolinea che in assenza della notifica gli atti di classamento o la determinazione della rendita non sono efficaci e dunque non possono incidere sulle situazioni soggettive dei contribuenti, ma se ne richiama tuttavia la utilizzabilità ad altri fini, circostanza che evidenzia una sostanziale contraddittorietà della conclusione, considerato che l'efficacia conseguente all'effettiva attività di notificazione dovrebbe essere riferita al singolo atto impositivo e non all'atto presupposto.

L'opzione interpretativa del Consiglio di Stato lascia poi emergere una mancata considerazione di una serie di diversi interessi alla sindacabilità dell'atto generale e del regolamento in relazione alla loro portata, circostanza questa che di fatto si risolverebbe in una assenza di sindacato e tutela verso tali atti, che tuttavia, a prescindere dal loro essere presupposto di atti impositivi, rappresentano delle scelte valutative, discrezionali e programmatiche della P.A. a carattere generale.

La giurisprudenza di legittimità ha affrontato il tema del riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice tributario in modo costante ed univoco, evidenziando, come già richiamato in relazione alla tipologia di atti impugnabili ex art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992, il radicarsi della giurisdizione tributaria solo in relazione all'effettiva attivazione di una pretesa impositiva.

In tal senso Sez. U, n. 06224/2006, Botta, Rv. 589552, ha chiarito che: "È affidata alla giurisdizione esclusiva del giudice tributario la tutela del contribuente riguardo ai "tributi di ogni genere e specie", in base all'art. 2, comma 1, del d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, come modificato dall'art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (e quindi anche in ordine alla tassa sulle merci sbarcate, imbarcate ed in transito nei porti italiani, di cui si controverte nella specie). Tale tutela, nondimeno, può svolgersi solo attraverso l'impugnazione di specifici atti impositivi dell'amministrazione finanziaria, nell'inammissibilità di ogni accertamento preventivo, positivo o negativo del debito di imposta, sia dinanzi alle commissioni tributarie, che dinanzi al giudice ordinario: ove manchi uno specifico atto impositivo, nella richiesta del cui annullamento consiste il petitum sostanziale idoneo a radicare la giurisdizione esclusiva del giudice tributario, questo, in mancanza della "mediazione" rappresentata dall'impugnativa dell'atto impositivo, non può giudicare della legittimità degli atti amministrativi generali, dei quali può conoscere, "incidenter tantum" ed entro confini determinati, solo ai fini della disapplicazione nella singola fattispecie dell'atto amministrativo presupposto dell'atto impositivo impugnato".

L'analisi del principio di diritto evidenziato in correlazione con il ricorso introduttivo del giudizio dell'Ungaro Raffaele ed altri sembra quindi chiarire come nel caso in esame il petitum fosse da individuare nella richiesta di valutare la legittimità degli atti amministrativi presupposto di eventuali e successivi atti di imposizione in relazione ai vizi tipici di tali atti generali così come richiamati nell'atto introduttivo del giudizio dinnanzi al TAR Puglia.

Nello stesso senso Sez. U, n. 00675/2010, Di Iasi, Rv. 611201, ha chiarito, proprio in relazione agli atti di classamento, che: "Spetta alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo l'impugnazione proposta da un Comune avverso il provvedimento di classamento di un immobile e di attribuzione della rendita catastale emesso dall'Agenzia del Territorio, qualora si denuncino i vizi tipici previsti dagli art. 2 e ss. della l. n. 1034 del 1971. (Principio affermato con riferimento all'impugnazione proposta da un Comune avverso provvedimenti di classamento di alcuni immobili che, avendoli qualificati nel gruppo "E" come aventi particolari destinazioni pubbliche, li avevano resi esenti dall'ICI)." Un principio già evidenziato, anche se in relazione ad un caso concreto diverso, da Sez. U, n. 16429/2007, Malpica, Rv. 598760, dove si richiama ancora una volta la ricorrenza della giurisdizione tributaria solo in relazione alla cognizione del rapporto autoritativo tra Amministrazione finanziaria e contribuente, con esclusione da tale ambito della controversia relativa all'accertamento in radice della titolarità del diritto di proprietà invocato dal privato nei confronti della p.a. con conseguente giurisdizione del giudice ordinario. Nello stesso senso anche Sez. U, n. 07526/2013, Nobile, Rv. 625841, secondo la quale: "La giurisdizione tributaria non ricorre allorquando non sia in discussione l'obbligazione tributaria, né il potere impositivo sussumibile nello schema potestà-soggezione, proprio del rapporto tributario, in quanto non tutte le controversie nelle quali abbia incidenza una norma fiscale si trasformano in controversie tributarie di competenza delle relative commissioni. Ne consegue che spetta al giudice ordinario la controversia che, non essendo in discussione l'esistenza dell'obbligazione tributaria, né l'obbligo della ritenuta fiscale, riguardi semplicemente la determinazione dell'ammontare di un assegno straordinario dovuto dal Fondo di solidarietà per il sostegno del reddito ad ex dipendenti di imprese di credito, aderenti ad un accordo per esodo volontario incentivato, ai sensi dell'art. 10 del d.m. n. 158 del 2000". Nel corpo della motivazione infatti la Corte evidenzia come "la giurisdizione tributaria ha per oggetto sia l'an che il quantum della pretesa tributaria e comprende anche l'individuazione del soggetto tenuto al versamento dell'imposta o dei limiti nel quali esso, per qualità, sia obbligato, ma non ricorre allorquando non è in discussione l'obbligazione tributaria e neppure il potere impositivo sussumibile nello schema potestà – soggezione, proprio del rapporto tributario".

Infine un'evoluzione interpretativa in ordine all'individuazione dei soggetti legittimati ad adire la giurisdizione tributaria in materia di classamento delle unità immobiliari e attribuzione della rendita catastale emerge da Sez. U, n. 15201/2015, Di Iasi, Rv. 635996, secondo la quale: "La controversia avente ad oggetto il classamento delle unità immobiliari e l'attribuzione della rendita catastale appartiene alla giurisdizione delle commissioni tributarie, ex art. 2, comma 2, del d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, anche quando la rendita o l'atto di classamento siano impugnate dall'amministrazione comunale e non (o non solo) dal contribuente, dovendosi escludere, alla stregua di un'interpretazione letterale, logica e sistematica, oltre che costituzionalmente orientata, che l'inciso "promosse dai singoli possessori", contenuto nella norma, sia idoneo a condizionare, sotto il profilo soggettivo di chi adisca il giudice, i limiti della giurisdizione delle suddette commissioni." La decisione evidenzia come – fermo il principio per cui appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie aventi ad oggetto tributi di ogni genere e specie, con impugnazione degli atti impositivi e di quelli ad essi equiparati – sebbene il giudice tributario sia normalmente adito dal contribuente ciò non esclude, ove ne ricorrano presupposti legittimanti e condizioni adeguate, che sia legittimamente adito da altri soggetti, ed in particolare da un comune, poiché non ricorre alcuna intenzione effettiva ed esplicita del legislatore di delimitare la giurisdizione del giudice tributario da un punto di vista soggettivo, ricorrendo nel caso in esame un'indicazione di tipo meramente esplicativo ricognitivo. Emerge dunque una chiara comprensione ed allargamento della platea dei soggetti interessati ad impugnare un atto impositivo rispetto ad un immobile sito nel territorio comunale, sempre e comunque in relazione alla attivazione di una pretesa tributaria della Amministrazione finanziaria. Precisa la decisione come questo principio non tocca e scalfisce altro principio di carattere generale secondo il quale "la giurisdizione tributaria non ricorre quando non sia in discussione l'obbligazione tributaria, né il potere impositivo sussumibile nello schema potestà – soggezione propria del rapporto tributario e che spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo l'impugnazione proposta da un comune avverso il provvedimento di classamento di un immobile o di attribuzione della rendita catastale emesso dall'Agenzia del Territorio, qualora si denuncino i vizi tipici previsti dagli art. 2 e seguenti della l. n. 1034 del 1971".

6. Considerazioni sistematiche.

In senso critico rispetto alla decisione del Consiglio di Stato alcune considerazioni di tipo sistematico si impongono: non può essere superato il principio generale relativo al riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice tributario per come costantemente individuato anche dalla giurisprudenza di legittimità in relazione all'oggetto del giudizio introdotto dall'Ungaro, relativo ad atti generali della P.A. quanto alla lamentata ricorrenza del vizio di eccesso di potere e violazione di legge nell'adozione dell'atto stesso; la difficoltà di accedere ad un'interpretazione dell'art. 74 della l. n. 342 del 2000 sostanzialmente "creativa" di cognizione "diretta" con conseguente potere di annullamento dell'atto generale da parte del giudice tributario, identificando la ratio tale allargamento nella previsione di termine decadenziale di impugnazione, termine che tuttavia deve essere evidentemente riferito al rapporto impositivo, alla specifica pretesa tributaria (come costantemente evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità) nel rapporto potere – soggezione tra Amministrazione finanziaria e contribuente. La sostanziale assenza di sindacato per atti a portata generale, espressione di discrezionalità amministrativa, validi anche a fini civili e non solo tributari, espressione di poteri di indirizzo e valutazione della pubblica amministrazione, che sarebbero asseritamente inefficaci, mentre entrano a far parte dell'ordinamento con valutazione in funzione di accertamento e creazione conseguente del tributo. L'evidente vuoto di tutela rispetto ad atti che comunque devono poter essere valutati nel loro contenuto generale a prescindere dalla diretta lesione di una posizione di diritto soggettivo in presenza di interessi diffusi e a portata più ampia – espressione anche della comunità territoriale di riferimento – al rispetto del principio di legge legittimante la modifica dell'atto di classamento catastale (per cui si potrebbe eventualmente affrontare nell'avvio e valutazione del giudizio amministrativo il profilo relativo all'eventuale carenza di interesse, non essendo appunto ipotizzabile un'inefficacia assoluta dell'atto generale prima che confluisca nella singola e specifica pretesa impositiva, considerato che si tratta come già detto di atti con portata obiettiva, generale, innovativa ed attributiva di una determinata posizione ai beni di un ampio contesto territoriale). La difficoltà di considerare fondato, nel coordinamento ipotizzato di tali norme, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata, un così consistente allargamento della giurisdizione tributaria, sulla base di un mero richiamo normativo all'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 tra l'altro senza alcuna considerazione della cadenza temporale che ha caratterizzato tale norma nella sua diversa formulazione e senza una chiara esplicitazione del principio a portata esiziale desunto.

7. La soluzione delle Sezioni Unite.

La Corte nell'evidenziare la fondatezza del ricorso ha ricostruito in modo analitico la disciplina di riferimento, richiamando contenuto e modifiche normative dell'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 quanto all'oggetto della giurisdizione tributaria, dell'art. 7 del medesimo decreto in ordine alla definizione e portata dei poteri dei giudici tributari, dell'art. 19 quanto all'identificazione degli atti impugnabili.

È inoltre stata analizzata la disposizione relativa all'attribuzione e modificazione delle rendite catastali ai sensi dell'art. 74 della l. n. 342 del 2000, per correlarne portata e contenuto all'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 nella sua diversa, e modificata nel tempo, formulazione.

Dall'esegesi di tali disposizioni emerge dunque la necessaria conclusione a parere della Corte per cui: "Il senso del perdurante rinvio all'art. 2, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 e successive modificazioni non è quello di richiamare nella legge 21 novembre 2000 n. 342, all'articolo 74, qualsivoglia testo del ridetto comma 3, anche il più eterogeneo, ma quello di rinviare a tutte le modificazioni del processo tributario riguardanti le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l'intestazione, la delimitazione, la figura, l'estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell'estimo tra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella, nonché le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l'attribuzione della rendita catastale", con la conseguenza che ove nell'art. 74 si legge articolo 2, comma 3, si deve invece leggere articolo 2, comma 2 a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 37, comma 3 della l. n. 448 del 2011 in correlazione con l'intervento effettuato sull'art. 19 lettera f) del d.lgs. n. 546 del 1992 come modificato appunto dal d.l. n. 16 del 2012".

Dalla considerazione delle disposizioni richiamate deriva dunque la presenza di un sistema coerente e completo che collega "l'attribuzione e la modificazione delle rendite catastali (art. 74) alla specifica norma processuale tributaria di riferimento (art. 2, nuovo comma 2 cit.), e la disapplicazione di un regolamento o atto generale (art. 7, comma 5) con la generale cognizione incidentale del giudice tributario (art. 2, nuovo comma 3) in piena coerenza logica e giuridica".

La logica conseguenza della valutazione sistematica e ricostruttiva effettuata è per la Corte che nessuna disposizione del d. lgs. n. 546 del 1992 attribuisce alle commissioni tributarie un potere direttamente incisivo degli atti generali in deroga alla tipica giurisdizione di legittimità costituzionalmente riservata agli organi della giustizia amministrativa, non essendovi alcuno spazio per l'impugnazione di atti che possono coinvolgere un numero indeterminato di soggetti con effetti nei confronti della generalità dei contribuenti.

Si rifà dunque la Corte al proprio orientamento costante in tal senso e richiama ancora una volta la caratterizzazione in senso impugnatorio del giudizio tributario, sicché l'azione del contribuente si esercita solo mediante l'impugnazione di specifici atti impositivi, di riscossione o di rifiuto.

È dunque l'elemento della mediazione, rappresentata dall'impugnativa dell'atto impositivo, di riscossione o di diniego, l'elemento discretivo e centrale per il giudice tributario per entrare a contatto con gli atti amministrativi generali, dei quali comunque può avere conoscenza solo ed esclusivamente incidenter tantum, al solo fine della disapplicazione nel singolo caso concreto dell'atto amministrativo presupposto dell'atto impugnato. Da ciò consegue dunque che la controversia sugli atti amministrativi generali esula dalla giurisdizione delle commissioni tributarie, il cui potere di annullamento riguarda soltanto gli atti indicati nel d.lgs. 496 del 1992, e non si estende agli atti generali o a questi assimilabili, dei quali l'art. 7 consente esclusivamente la disapplicazione, ferma restando l'impugnabilità dinnanzi al giudice amministrativo.

Conclude dunque la Corte la propria valutazione evidenziando come debba escludersi che l'art. 74 della l. n. 342 del 2000, in relazione agli generali di formazione, aggiornamento ed adeguamento del catasto, deroghi all'ordinario riparto della giurisdizione tra giudice tributario ed amministrativo, proprio perché la disposizione in questione è da riferire all'impugnazione delle cd. "operazioni catastali individuali", mentre permane la piena ricorrenza della giurisdizione amministrativa in relazione agli atti a portata generale determinanti un nuovo classamento catastale valido per la generalità dei contribuenti sulla base della revisione dei parametri della microzona. Un nuovo reticolo di microzone dunque avente portata generale in ambito comunale, la cui portata, rilevanza ed anche diffusività, quanto agli interessi coinvolti, è manifestata dalla Corte anche in relazione alla piena legittimazione a contraddire sul punto da parte delle associazioni di consumatori o di categoria, portatrici notoriamente di interessi riferibili alla generalità dei cittadini e contribuenti.

La considerazione di tali atti come atti generali – quali atti amministrativi, non dissimili da altri a valenza urbanistica e di natura pianificatoria per l'Amministrazione, con il fine specifico di risolvere specifici problemi tecnico estimativi posti in astratto dall'ordinamento fiscale destinati ad operare nei confronti di una generalità indeterminata di destinatari, individuabili solo ex post – determina dunque la piena riferibilità dei rimedi contro tali atti proprio alla giurisdizione amministrativa.

. BIBLIOGRAFIA

BUCICCO, Il Catasto. Profili procedimentali e processuali, Napoli 2008.

DEL VAGLIO, Accertamento catastale e motivazione dell'atto di attribuzione della rendita in Rivista di diritto tributario, anno 2005, pag.809 e seguenti.

SALANITRO, Profili sostanziali e processuali dell'accertamento catastale Milano 2003.

URICCHIO, Il contenzioso catastale: la difficile convivenza tra giurisdizioni in Rassegna tributaria, 2005, 5, pag. 1403 e seg.

  • giurisdizione tributaria

CAPITOLO IX

LA DISCIPLINA DEL RICORSO PER CASSAZIONE CONTRO LE SENTENZE DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE CENTRALI E L'INESISTENZA DELLA NOTIFICAZIONE: I PIÙ RECENTI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ ALLA LUCE DELLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE, SEZ. U, N. 14916 DEL 20 LUGLIO 2016

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 La disciplina del ricorso per cassazione contro le sentenze delle commissioni tributarie centrali. - 2 Le conseguenze della violazione dell'art. 330 c.p.c. - 3 L'inesistenza e la nullità della notificazione: distinzione. - 4 La vicenda processuale. - 5 La decisione: i punti fondamentali. - 6 Considerazioni finali. - BIBLIOGRAFIA

1. La disciplina del ricorso per cassazione contro le sentenze delle commissioni tributarie centrali.

Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640603, hanno affrontato, in primo luogo, la questione della disciplina applicabile al ricorso per cassazione contro le sentenze delle commissioni tributarie regionali, con specifico riferimento all'art. 330 c.p.c.

In giurisprudenza, sussistono due diversi indirizzi interpretativi in ordine a tale problema.

Una prima tesi afferma che alla proposizione del ricorso vanno applicate le disposizioni dettate dal codice di procedura civile, in particolare, l'art. 330 c.p.c., in base al quale la notificazione deve essere fatta:

a) presso il domicilio eletto o la residenza indicata dalla parte nell'atto di notificazione della sentenza, purché entrambi questi luoghi siano situati nella circoscrizione del giudice che ha pronunciato la sentenza stessa;

b) qualora manchi la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio nell'atto di notificazione della sentenza (ed anche nel caso in cui non vi sia stata notificazione della sentenza) o l'una o l'altra vi siano, ma siano fuori dalla circoscrizione del giudice che ha pronunciato quest'ultima, presso l'ufficio del procuratore costituito o la residenza dichiarata o il domicilio eletto per il giudizio che si è concluso con la sentenza da impugnare;

c) nel caso in cui manchino la costituzione di procuratore, la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio, e, comunque, quando l'impugnazione sia proposta dopo un anno dalla pubblicazione della sentenza, presso la parte personalmente nei luoghi degli artt. 137 ss. c.p.c.

Tale tesi trova giustificazione nel fatto che l'art. 62, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, richiamerebbe proprio il codice di rito, e sulla circostanza che detto decreto non conterrebbe disposizioni peculiari in ordine alle modalità di proposizione del ricorso per cassazione, mentre prescriverebbe, con gli artt. 20, 22 e 53, forme semplificate di presentazione del ricorso in primo grado ed in appello dinanzi alle commissioni tributarie.

Pertanto, l'art. 330 c.p.c. disciplinerebbe la notifica degli atti di impugnazione, mentre, per quanto concerne, in generale, le ulteriori notificazioni e le comunicazioni in corso di procedimento, troverebbe applicazione l'art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992, che derogherebbe, quindi, all'art. 170 c.p.c.

Una seconda impostazione sostiene, invece, che la disciplina di cui all'art. 17, secondo comma, del d.lgs. n. 546 del 1992, in base a cui l'elezione di domicilio, una volta effettuata dal contribuente, conserva efficacia anche nei successivi gradi di giudizio, è applicabile pure al giudizio di legittimità, rappresentando l'equivalente tributario dell'art. 330 c.p.c., con la conseguenza che la notificazione del ricorso per cassazione effettuata presso il domicilio eletto nel ricorso proposto innanzi al giudice di prime cure sarebbe sempre valida.

2. Le conseguenze della violazione dell'art. 330 c.p.c.

La seconda questione affrontata nella sentenza in esame concerne, sul presupposto che sia ritenuto applicabile l'art. 330 c.p.c. alla notificazione dei ricorsi per cassazione in ambito tributario, le conseguenze del mancato rispetto di questa disposizione.

Infatti, l'ordine, stabilito dall'art. 330 c.p.c., dei luoghi nei quali deve essere eseguita la notificazione dell'impugnazione è chiaramente previsto con lo scopo di rendere possibile la difesa della parte impugnata.

Peraltro, nonostante l'univocità dello scopo della disposizione, sono state proposte in giurisprudenza varie interpretazioni degli effetti derivanti dalla sua violazione.

Un primo gruppo di sentenze ha considerato l'eventualità che il ricorso per cassazione sia stato notificato presso il procuratore della controparte nominato in primo grado quando, nel giudizio di appello, la medesima parte sia rimasta contumace.

Fra queste, un orientamento valorizza la circostanza che l'elezione di domicilio presso il procuratore ha effetto limitatamente al grado del giudizio per il quale la procura medesima è stata conferita, salvo espressa contraria previsione, e giunge ad affermare che, pertanto, la notificazione del ricorso per cassazione alla parte rimasta contumace in secondo grado, che avvenga presso il procuratore domiciliatario della medesima in primo grado, è affetta da giuridica inesistenza e non da mera nullità, in quanto eseguita in luogo e presso persona non aventi più alcun riferimento con il destinatario.

In simile ipotesi, quindi, il ricorso deve ritenersi inammissibile, senza alcuna possibilità di sanatoria mediante rinnovazione o costituzione della parte intimata, ai sensi dell'art. 291 c.p.c. (Sez. 2, n. 01100/2001, Settimj, Rv. 543481).

Una ulteriore tesi, invece, muove dal medesimo presupposto secondo cui, ove la procura non sia stata espressamente rilasciata per tutti i gradi del giudizio, l'elezione di domicilio nella stessa contenuta spiega i suoi effetti solo per il grado di giudizio per il quale è stata conferita e, ai fini della notificazione della sentenza, non oltre l'anno dalla pronuncia di questa, ma perviene ad una conclusione opposta.

Infatti, si sostiene che la notificazione del ricorso per cassazione alla parte rimasta contumace in secondo grado, se effettuata presso il procuratore domiciliatario della medesima in primo grado, deve ritenersi eseguita in luogo diverso da quello prescritto dall'art. 330, comma 3, c.p.c., ma non privo di un qualche riferimento con il destinatario della notifica, con la conseguenza che deve considerarsi nulla e non inesistente, e, perciò, sanabile mediante rinnovazione o costituzione della parte intimata.

Chi propone questa soluzione considera che l'atto in questione, pur se viziato, perché eseguito al di fuori delle previsioni dell'art. 330, commi 1 e 3, c.p.c., può essere riconosciuto come appartenente alla categoria delle notificazioni, anche se non è idoneo a produrne in modo definitivo gli effetti propri (Sez. U, n. 10817/2008, Malpica, Rv. 603086).

Un secondo gruppo di sentenze ha esaminato, invece, l'ipotesi in cui la parte destinataria del ricorso per cassazione abbia revocato la nomina del difensore che la aveva assistita nel giudizio di prime cure, designandone uno diverso per il secondo grado, ed abbia ricevuto la notifica del ricorso presso il primo difensore nominato.

Come nelle fattispecie precedenti, la procura conferita in prime cure, all'atto della notifica del ricorso per cassazione, era divenuta inefficace, ma non perché il suo effetto fosse limitato al giudizio di primo grado e la parte fosse rimasta contumace in appello, bensì in quanto la revoca del mandato al precedente procuratore, accompagnata dalla sua sostituzione con un nuovo difensore, comportava l'inefficacia della procura conferita per il primo grado, ai sensi dell'art. 85 c.p.c.

Alcune pronunce hanno ritenuto che la notifica del ricorso per cassazione, eseguita in un luogo diverso da quello prescritto, ma non privo di un astratto collegamento con il destinatario, determinasse la nullità della notifica, che pertanto, era sanata, con effetto ex tunc, per raggiungimento dello scopo mediante rinnovazione o costituzione in giudizio dell'intimato, anche se effettuata al solo fine di eccepire la nullità, con conseguente ammissibilità del ricorso (Sez. 3, n. 13451/2013, Carluccio, Rv. 626356).

Un ulteriore orientamento interpretativo ha affermato, invece, che la notificazione del ricorso per cassazione, che avvenisse non presso il procuratore domiciliatario della parte nel giudizio di secondo grado, ma presso quello designato per il primo grado, fosse affetta da giuridica inesistenza, non da mera nullità, con esclusione, pertanto, di ogni possibilità di sanatoria o rinnovazione.

Infatti, la seconda procura con elezione di domicilio travolgerebbe la prima elezione e non consentirebbe di considerare il luogo in essa indicato come ancora riferibile al destinatario dell'atto, essendo venuto meno ogni rapporto tra la parte ed il procuratore cessato, il quale non sarebbe più gravato da alcun obbligo, poiché non opererebbe, in tale ipotesi, la proroga disposta dall'art. 85 c.p.c. per il solo caso della semplice revoca del mandato, non accompagnata dalla nomina di un nuovo difensore (Sez. 3, n. 00759/2016, Travaglino, Rv. 638542).

3. L'inesistenza e la nullità della notificazione: distinzione.

Dall'esame della giurisprudenza appena svolto emerge come la problematica concernente la notificazione nulla e quella inesistente sia stata estremamente dibattuta, venendo in questione esigenze fra loro fortemente contrapposte (per una completa disamina delle tematiche qui trattate si rinvia anche alla relazione n. 150/2014 dell'Ufficio del Massimario e del Ruolo).

Da un lato, la disciplina codicistica della nullità degli atti processuali è fondata sul principio di strumentalità delle forme, per cui la nullità dell'atto non dipende dalla semplice violazione di regole formali, ma dalle conseguenze che ne derivano sull'idoneità dell'atto a raggiungere lo scopo prefissato dal legislatore.

Pertanto, l'art. 160 c.p.c., mentre stabilisce che l'inosservanza delle prescrizioni sulla persona ed il luogo della consegna in tema di notificazione comporta la nullità della stessa, dopo aver sanzionato tale violazione con la previsione della nullità, allo stesso tempo fa salvo l'art. 156 c.p.c., nella parte in cui esclude che la nullità medesima possa essere pronunciata a fronte del raggiungimento dello scopo [Conso, 1965, 135; Fazzalari, 1945, 254].

Dall'altro, per quanto riguarda, invece, l'inesistenza della notificazione, si ritiene comunemente in dottrina che la violazione delle prescrizioni sulle modalità di notifica non esuli dall'ambito della nullità finché i relativi vizi siano logicamente conciliabili con il verificarsi della conoscenza dell'atto e, quindi, tale conoscenza sia ipotizzabile come potenziale sviluppo dell'attività irritualmente compiuta [Denti, 1962, 635 ss.].

L'attività è inesistente, al contrario, quando, per una radicale estraneità delle modalità di esecuzione della notifica dal modello processuale, non possa ragionevolmente ritenersi conseguito lo scopo prefissato, vale a dire il raggiungimento della sfera di conoscibilità del destinatario, essendo la conoscenza ascrivibile solo a fatti accidentali, esterni ed autonomi, privi di ogni nesso con l'attività di notifica (Sez. U, n. 22641/2007, Botta, Rv. 600100).

Si afferma tradizionalmente che l'inesistenza giuridica della notificazione nella fase di consegna consegua ad una anomalia nel procedimento per effetto di una violazione che escluda in astratto, con un giudizio ex ante, qualsiasi possibilità di raggiungimento dello scopo dell'atto, rappresentato dalla conoscenza di esso da parte del destinatario.

Tale violazione deve sostanziarsi nella mera apparenza della notificazione, difettando del tutto i requisiti essenziali per individuare un atto rispondente al modello di notificazione delineato dal legislatore, in quanto la consegna è fatta a soggetto o in luogo che non abbia alcuna attinenza con il destinatario della notificazione stessa.

Sez. U, n. 22641/2007, Botta, Rv. 600100, peraltro, hanno precisato ulteriormente l'ambito applicativo dell'inesistenza della notifica, escludendola sia qualora sussista un effettivo collegamento tra il luogo della notifica ed il suo destinatario, sia ove detto collegamento, pur mancante, sia stato presunto dal notificante in forza di un affidamento meritevole di tutela.

Questa ultima impostazione sembra porre in secondo piano la circostanza che le garanzie di conoscibilità dell'atto da parte del destinatario sono ispirate, nel sistema codicistico, ad un criterio di effettività, con la conseguenza che il collegamento fra il destinatario stesso ed il luogo di notifica dell'atto dovrebbe fondarsi, al fine di escluderne l'inesistenza, solo su criteri oggettivi e non soggettivi [Frassinetti, 2009, 514 ss].

In conclusione, secondo la giurisprudenza precedente alla sentenza in esame, possono verificarsi due situazioni:

a) la notificazione è stata posta in essere in luogo o presso persona che abbiano, comunque, un collegamento con il destinatario dell'atto che faccia apparire ipotizzabile, secondo un giudizio ex ante, il raggiungimento dello scopo dell'atto nonostante il vizio della notificazione: in tale evenienza la notificazione è nulla e suscettibile di sanatoria;

b) la notificazione è integralmente difforme dal suo modello legale per la sua abnormità: ne derivano l'insanabilità e l'impossibilità di disporne la rinnovazione ex art. 291 c.p.c.

4. La vicenda processuale.

Nella fattispecie oggetto di Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640603, l'Agenzia delle Entrate, per mezzo di cinque avvisi di accertamento emessi ai fini IVA per gli anni dal 1999 al 2003, aveva recuperato a tassazione, nei confronti di una società statunitense, l'imposta, precedentemente rimborsata, ritenuta illegittimamente detratta ai sensi dell'art. 74-ter, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, in quanto tale società aveva svolto attività di tour operator, e non solo di autonoleggio, con conseguente indetraibilità dell'IVA relativa ai costi sostenuti per le cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate da terzi a diretto vantaggio dei viaggiatori.

I giudici di primo e di secondo grado avevano ritenuto detti avvisi di accertamento illegittimi, ritenendo non fosse stata data adeguata prova che la contribuente, negli anni in contestazione, svolgesse effettivamente attività di tour operator e non esclusivamente di autonoleggio.

Davanti alla Suprema Corte la società resistente ha eccepito l'inammissibilità del ricorso ai sensi dell'art. 330 c.p.c., perché notificato presso il difensore domiciliatario per il giudizio di primo grado, anziché presso il difensore costituito nel giudizio di appello e presso il quale essa aveva eletto domicilio per tale grado del processo.

La quinta sezione civile, con ordinanza interlocutoria n. 15946 del 2014, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite, avendo rilevato contrasti nella giurisprudenza della Corte su due questioni:

a) se alla proposizione del ricorso per cassazione avverso sentenze delle commissioni tributarie regionali debba applicarsi la disciplina dettata dall'art. 330 c.p.c., oppure quella speciale prevista dall'art. 17, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, relativo al processo tributario;

b) ove si accolga la prima tesi, se sia affetta da inesistenza giuridica oppure da nullità, sanabile secondo le norme del codice di rito, la notificazione eseguita presso il procuratore domiciliatario della controparte in primo grado, nel caso in cui questa sia rimasta contumace in appello o qualora abbia revocato il mandato a detto difensore e lo abbia sostituito con uno nuovo presso il quale abbia anche eletto domicilio.

I profili della controversia che qui interessano, pertanto, concernono l'applicabilità al ricorso per cassazione, nel processo tributario, del codice di rito e l'individuazione dei casi in cui la notificazione di un atto (nella specie, di impugnazione) debba essere considerata inesistente oppure nulla.

5. La decisione: i punti fondamentali.

Le Sezioni Unite hanno affrontato, in primo luogo, la questione dell'individuazione del luogo di notificazione del ricorso per cassazione proposto avverso sentenza di una commissione tributaria regionale, dovendo stabilire se dovesse essere applicato il disposto dell'articolo 330 c.p.c. o quello dell'art. 17 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

Tale questione era resa particolarmente complessa dalla poca chiarezza delle disposizioni del d.lgs n. 546 del 1992.

Infatti, gli artt. 1, comma 2, e 49 di detto decreto stabiliscono, rispettivamente, che i giudici tributari devono applicare le norme del decreto stesso e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile, e che alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, fatto salvo quanto disposto nel decreto in questione.

Al contrario, l'art. 62, comma 2, in tema di ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali, prescrive che si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con quelle del decreto de quo.

Per decidere il caso le Sezioni Unite hanno richiamato il proprio precedente di Sez. U, n. 29290/2008, Cicala, Rv. 606008, secondo cui l'art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992 costituirebbe eccezione al solo art. 170 c.p.c. per le notificazioni endoprocessuali, con la conseguenza che, mancando, per la notifica degli atti di impugnazione, una disposizione specifica, deve trovare applicazione quella prevista dall'art. 330 c.p.c.

Inoltre, le Sezioni Unite hanno evidenziato che Sez. U, n. 08053/2014, Botta, Rv. 629829, occupandosi dell'applicabilità al ricorso per cassazione contro le sentenze delle commissioni tributarie delle disposizioni di cui all'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, avevano già rilevato la contrapposizione tra le disposizioni di rinvio contenute negli artt. 1, comma 2, e 49 del d.lgs. n. 546 del 1992, relative al processo e alle impugnazioni in generale, e quella del successivo art. 62, concernente il giudizio di cassazione, in quanto gli artt. 1 e 49 stabilivano la prevalenza della norma processuale tributaria, ove esistente, sulla norma processuale ordinaria, la quale aveva un ruolo sussidiario, mentre l'art. 62, viceversa, per il giudizio di cassazione, rendeva applicabile espressamente il codice di procedura civile, escludendo l'esistenza di un giudizio tributario di legittimità e, pertanto, di un giudizio di cassazione speciale in materia tributaria.

La sentenza in commento ha chiarito, perciò, che occorre tenere distinta la disciplina dell'art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992 che, benché non si riferisca alle sole notificazioni endoprocessuali, regola il processo dinanzi alle commissioni tributarie, da quella prevista dal codice di rito ordinario in tema di ricorso per cassazione, che riguarda quest'ultimo.

Pertanto, al ricorso per cassazione avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali deve applicarsi, con riferimento al luogo della notificazione, l'art. 330 c.p.c.

Tale ultima disposizione deve tenere conto del principio di ultrattività dell'indicazione della residenza o della sede e dell'elezione di domicilio effettuate in primo grado, stabilito dall'art. 17, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, con la conseguenza che è valida la notificazione eseguita presso uno di tali luoghi, ai sensi del citato art. 330, comma 1, seconda ipotesi, c.p.c., nel caso in cui la parte non si sia costituita nel giudizio di appello, oppure, costituitasi, non abbia espresso al riguardo alcuna indicazione [Russo, 2016, 3287].

In secondo luogo, la sentenza in esame si è occupata delle conseguenze derivanti dalla violazione del menzionato art. 330 c.p.c., in ordine alle quali esistevano i sopra riportati orientamenti difformi nella giurisprudenza di legittimità.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto di individuare, al fine di arrestare le continue oscillazioni della giurisprudenza al riguardo, un criterio distintivo il più possibile chiaro, univoco e sicuro tra le tradizionali nozioni di inesistenza e di nullità della notificazione, e di esaminare la stessa configurabilità della inesistenza come vizio dell'atto autonomo e più grave della nullità.

La Corte di cassazione ha rilevato che la categoria della inesistenza non è prevista nel codice di rito, il quale contempla eventualmente la sola ipotesi della nullità insanabile, per cui essa deve essere definita in termini assolutamente rigorosi e confinata ad ipotesi del tutto eccezionali.

Pertanto, l'inesistenza non è stata ritenuta qualificabile, in senso stretto, come un vizio dell'atto più grave della nullità, concernendo essa, invece, il diverso profilo della contrapposizione fra non atto ed atto venuto ad esistenza.

Al fine di meglio definire tale ultima contrapposizione, la decisione in commento ha chiarito, quindi, che l'inesistenza della notificazione è configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell'atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un'attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile tale atto.

Per individuare tali ipotesi, ha attribuito rilievo all'art. 156 c.p.c. e ad altre disposizioni codicistiche, quali gli artt. 121 e 131, comma 1, i quali sono espressione del principio di strumentalità delle forme degli atti processuali, in base a cui dette forme sono prescritte al fine esclusivo di conseguire un determinato scopo, coincidente con la funzione che il singolo atto è destinato ad assolvere nell'ambito del processo e con lo scopo ultimo dello stesso, rappresentato dalla pronuncia sul merito della situazione giuridica controversa.

In particolare, ha valorizzato proprio l'art. 156 c.p.c. il quale, dopo avere previsto che la nullità di un atto può essere pronunciata, anche al di là dell'espressa comminatoria di legge, quando lo stesso manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo, stabilisce che la nullità non può mai essere dichiarata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.

Le Sezioni Unite hanno sottolineato, inoltre, che pure il principio del giusto processo ex artt. 111 Cost. e 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali impone all'interprete di preferire scelte ermeneutiche tendenti a garantire la pronuncia di decisioni sul merito da parte del giudice.

Da tali disposizioni hanno dedotto che, per quanto concerne la notificazione, ove un atto, riconoscibile come tale, esista, ogni vizio dello stresso ricade nell'ambito della nullità, senza che possa distinguersi, al fine di individuare ulteriori ipotesi di inesistenza attraverso la negazione del raggiungimento dello scopo, tra valutazione ex ante e constatazione ex post, poiché il legislatore ha inteso dare prevalenza a quest'ultima e, quindi, ai dati dell'esperienza concreta, sia pure dovuta ad accadimenti del tutto accidentali, rispetto agli elementi di astratta potenzialità e prevedibilità.

Pertanto, poiché scopo della notificazione è la presa di conoscenza di un atto da parte del destinatario, attraverso la certezza legale che esso sia entrato nella sua sfera di conoscibilità, con gli effetti che ne conseguono in termini di instaurazione del contraddittorio, una notificazione nulla può essere sempre sanata, con efficacia retroattiva, attraverso la costituzione in giudizio della parte intimata oppure, in mancanza di tale costituzione, in seguito all'ordine di rinnovazione della notificazione emesso dal giudice ex art. 291 c.p.c. (a meno che la parte stessa non abbia a ciò già spontaneamente provveduto).

Inoltre, la decisione in questione chiarisce che l'effetto sanante ex tunc prodotto dalla costituzione del convenuto opera anche qualora la costituzione sia effettuata al solo fine di eccepire la nullità.

Per quanto concerne, invece, la distinzione fra notificazione inesistente e notificazione esistente, le Sezioni Unite hanno affermato che gli elementi costitutivi imprescindibili del relativo procedimento vanno individuati, con riferimento al ricorso per cassazione:

a) nell'attività di trasmissione, che deve essere svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere l'attività stessa, in modo da potere ritenere esistente e individuabile il potere esercitato;

b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall'ordinamento, in virtù dei quali la stessa debba comunque considerarsi eseguita ex lege.

Se ne ricava che, secondo la decisione in esame, restano esclusi dall'ambito della nullità, integrando la fattispecie di inesistenza della notificazione, oltre alle ipotesi di mancanza materiale dell'atto, quelle di assenza degli elementi costituivi summenzionati e, in particolare, i casi in cui l'atto venga restituito al mittente, tale notifica dovendosi considerare tentata, ma non compiuta.

È stata superata, quindi, la tesi che include nel modello legale della notificazione, facendone derivare, in sua mancanza, l'inesistenza della stessa, il requisito del collegamento o del riferimento tra il luogo della notificazione e il destinatario, poiché il luogo ove il ricorso per cassazione è notificato non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell'atto, ma si colloca fuori del perimetro strutturale della notificazione. Ne consegue che la mera assenza di tale collegamento o riferimento con il destinatario ricade nell'ambito della nullità, sanabile, con effetto ex tunc, attraverso la costituzione dell'intimato o la rinnovazione dell'atto, spontanea o su ordine del giudice ex art. 291 c.p.c.

6. Considerazioni finali.

La decisione in commento si caratterizza per l'affermazione di due importanti principi, l'uno in tema di giudizio tributario, l'altro riguardante la distinzione fra notificazione inesistente e notificazione nulla.

Con riferimento al primo profilo, è chiarita con forza l'insussistenza di un giudizio tributario di legittimità e, pertanto, di un giudizio di cassazione speciale in materia tributaria, dovendosi ritenere che vi sia un unico giudizio ordinario di cassazione per tutte le controversie.

La Corte di cassazione ha, così, ribadito il suo ruolo di giudice di ultima istanza per ogni tipologia di causa, a prescindere dalla natura dell'autorità giudiziaria che ne abbia avuto cognizione nei gradi precedenti.

Quanto alla seconda questione, le Sezioni Unite sono intervenute per risolvere in via definitiva ogni possibile contrasto che potesse sorgere in giurisprudenza in ordine ai casi in cui una notificazione poteva essere considerata o meno inesistente.

La sentenza in esame ha ridotto al minimo la categoria della inesistenza della notificazione, riconducendola ad alcune ipotesi di rara verificazione, e ha superato, almeno dal punto di vista della ricostruzione del fenomeno, la giurisprudenza precedente.

Di indubbio rilievo, per la loro valenza sistematica, sono due affermazioni delle Sezioni Unite.

La prima riguarda la necessità di intervenire per evitare, per il futuro, interpretazioni variegate nella materia de qua.

In questo modo, la Corte di cassazione sembra avere dato alla sua funzione nomofilattica una particolare portata, non essendosi limitata ad accogliere una delle soluzioni prospettate in precedenza, ma avendone elaborata una dotata di rilevanti profili di novità.

Per raggiungere tale obiettivo, essa si è avvalsa, nella migliore tradizione delle corti supreme, della possibilità di interpretare dei principi generali presenti nel sistema (come quello di strumentalità delle forme), attribuendo loro il contenuto concreto da essa ritenuto più consono alle esigenze del sistema medesimo.

La seconda concerne l'importanza attribuita al principio del giusto processo, inteso come diretto ad ottenere una decisione nel merito ad opera del giudice.

Detto principio pare ormai sempre più destinato, in futuro, a rendere meno probabili decisioni in rito delle cause.

Viene da chiedersi, infatti, se non si stia assistendo ad una notevole riduzione dell'ambito delle questioni meramente processuali, le quali potrebbero quasi scomparire, dovendo il giudice valutare esclusivamente l'avvenuta instaurazione di un contraddittorio effettivo (o almeno il tentativo di tale instaurazione), mentre perderebbero ogni importanza violazioni solo formali della legge processuale che questo contraddittorio non precludano.

Una simile tendenza potrebbe favorire, ad esempio, almeno nei casi dubbi, una applicazione estensiva del principio della "ragione più liquida" e, quindi, una inversione dell'ordine delle questioni, in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio valorizzate dall'art. 111 Cost., con statuizione nel merito della domanda senza valutare le problematiche di rito logicamente preliminari.

. BIBLIOGRAFIA

CONSO G., Prospettive per un inquadramento delle nullità processuali civili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, 110.

DENTI V., voce Inesistenza degli atti processuali civili, in Noviss. dig. it., vol. VIII, 1962.

FAZZALARI E., Notificazione dell'atto di appello presso il procuratore costituito nel giudizio di primo grado, invece che alla residenza dichiarata o al domicilio eletto all'atto di notificazione della sentenza, in Giur. compl. cass. civ., 1945, I, 254.

FRASSINETTI A., Sulla nullità della notifica del ricorso in cassazione presso il difensore in primo grado della parte rimasta contumace in appello, in Riv. dir. proc., 2009, 2, 514 ss.;

RUSSO A., Le Sezioni Unite indicano le linee-guida sul luogo di notificazione del ricorso per cassazione, Il Fisco, 2016, 34, 3287.

  • procedura civile

CAPITOLO X

LA DECORRENZA DEL TERMINE BREVE PER LA NOTIFICAZIONE DELL'IMPUGNAZIONE (OVVERO SUL «VALORE INTRINSECO DELLA STABILITÀ DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA PROCESSUALE»)

(di Roberto Mucci )

Sommario

1 Il principio enunciato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 12084/2016. - 2 Le ragioni dell'orientamento confermato. - 3 I rilievi critici della dottrina. - 4 L'ordinanza interlocutoria della Prima Sezione n. 9782/2015. - 5 Le Sezioni Unite: l'accelerazione del giudicato in funzione della certezza dei rapporti. - 6 Considerazioni conclusive. - BIBLIOGRAFIA

1. Il principio enunciato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 12084/2016.

Sez. U, n. 12084/2016, D'Ascola, Rv. 639972, ha enunciato il seguente principio di diritto: «La notifica di un primo atto di appello (o ricorso per cassazione) avvia una dinamica impugnatoria al fine di pervenire alla definizione della lite e dimostra conoscenza legale della sentenza da parte dell'impugnante. Ne consegue che qualora questi, prima che sia giunta declaratoria di inammissibilità od improcedibilità, notifichi una seconda impugnazione, quest'ultima deve risultare tempestiva in relazione al termine breve decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione».

La sentenza ha così ribadito l'orientamento consolidato di legittimità richiamando i principi della consumazione del potere di impugnazione e della equipollenza tra notificazione della sentenza e notificazione dell'impugnazione inammissibile o improcedibile ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare.

Il primo principio - sancito dagli artt. 358 e 387 c.p.c. rispettivamente per il giudizio di appello e per quello di cassazione - comporta che l'impugnazione dichiarata inammissibile o improcedibile non può essere riproposta, anche se non è scaduto il relativo termine di legge. In tal modo, con una soluzione innovativa rispetto al previgente codice di rito civile, è stato ampliato l'ambito di applicazione del divieto di riproposizione del gravame estendendolo anche al vizio di improcedibilità e al giudizio di appello, nel quadro della revisione del sistema delle impugnazioni e dei relativi termini. Ciò in adesione ad un indirizzo di fondo, di derivazione carneluttiana, teso a favorire il rapido esaurimento del processo e la certezza dei rapporti giuridici; certezza, questa, conseguente appunto alla certezza del provvedimento giurisdizionale che quei rapporti abbia definito.

L'altro principio - di derivazione giurisprudenziale - comporta che «gli effetti consustanziali alla notificazione della sentenza effettuata nei modi indicati dall'art. 285 c.p.c., consistenti nel surrogare il termine breve di cui all'art. 326 c.p.c. a quello lungo decorrente dalla pubblicazione, si producono anche a seguito di fatti diversi dalla notificazione della sentenza, purché idonei a dimostrarne in modo inequivocabile la conoscenza legale» [Caporusso, 2013, 1994].

2. Le ragioni dell'orientamento confermato.

È noto che l'art. 326, primo comma, c.p.c. stabilisce che i termini brevi di impugnazione di cui al precedente art. 325 sono perentori e decorrono dalla notificazione della sentenza. Nondimeno, la giurisprudenza della Corte di cassazione insegna da tempo (pur constando alcuni precedenti dissonanti, deponenti nel senso della non surrogabilità della notificazione della sentenza agli effetti del decorso del termine breve per impugnare) che la decorrenza del termine breve discende - oltre che dalla notifica della sentenza - dalla proposizione di una prima impugnazione che non consumi il potere di riproporre quella impugnazione, o altra diversa, posto che, come prima ricordato, ai sensi degli artt. 358 e 387 c.p.c. la riproposizione dell'impugnazione inammissibile o improcedibile è preclusa solo dalla sentenza che dichiara l'inammissibilità o l'improcedibilità.

L'orientamento, peraltro risalente, è stato fissato da Sez. U, n. 3111/1982, Tondo, Rv. 421045, così massimata: «La riproposizione del ricorso inammissibile od improcedibile, consentita, tanto nella forma di un nuovo ricorso autonomo, quanto in quella del ricorso incidentale (quando sia sopravvenuta l'impugnazione di altra parte), fino a che non sia intervenuta pronuncia giudiziale di inammissibilità od improcedibilità, è soggetta, in difetto di notificazione della sentenza, al termine breve decorrente dalla data di notificazione dell'impugnazione da rinnovare, atteso che tale notificazione deve ritenersi equipollente, al fine della conoscenza legale della sentenza da parte dell'impugnante, alla notificazione della sentenza medesima». Questa sentenza ha così risolto il contrasto che sussisteva tra quelle pronunce che davano rilievo alla notificazione dell'impugnazione quale equipollente della notificazione della sentenza e le altre che consideravano esclusivamente la notificazione della sentenza impugnata, indipendentemente dalla circostanza che tale notificazione fosse anteriore o posteriore all'impugnazione invalida. Le Sezioni Unite hanno riconosciuto sufficiente, ai fini del termine breve di impugnazione, la "scienza legale" della sentenza derivante all'istante dalla notificazione di un'impugnazione inammissibile o improcedibile, muovendo dal tenore dell'art. 326, cpv., c.p.c. ritenuto estensivamente applicabile anche al caso in cui l'impugnazione notificata sia inammissibile o improcedibile e debba pertanto essere riproposta (e dunque non solo al caso dell'impugnazione "valida").

Il criterio della scienza legale ha poi trovato conferma in Sez. U, n. 21864/2007, Botta, Rv. 599805: «Il principio di consumazione dell'impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di appello, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, sempre che la seconda impugnazione risulti tempestiva, dovendo la tempestività valutarsi, anche in caso di mancata notificazione della sentenza, non in relazione al termine annuale, bensì in relazione al termine breve decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell'impugnante».

Successivamente la Corte, pur invitata a ripensare le ragioni poste a fondamento dell'orientamento in discorso, le ha ribadite con riferimento a una fattispecie di concorso cumulativo di impugnazioni. Così, secondo Sez. 3, n. 10053/2009, Frasca, Rv. 607914, due sono le ragioni essenziali della sufficienza della scienza legale comunque acquisita: a) il difensore, per redigere l'atto di impugnazione, deve necessariamente aver esaminato, e quindi conoscere, la sentenza impugnata e, d'altro canto, lo stare in giudizio per mezzo del difensore realizza per la parte quella situazione di conoscenza legale della sentenza cui è preordinata la notificazione della sentenza e cui allude l'art. 326, primo comma, c.p.c.; b) la scienza legale della sentenza, idonea a far decorrere il termine per impugnare, si ha quante volte alla redazione dell'atto di impugnazione, che è atto interno alla sfera della procura, segue la sua notificazione, che ne costituisce l'esternazione nel processo.

Tale orientamento è stato confermato con riferimento a una ricca casistica: p. es., con riguardo alla proposizione di un'impugnazione diversa da quella prevista dalla legge, come nel caso dell'appello avverso sentenza inappellabile, la Corte ha ritenuto che dalla detta impugnazione decorre per la parte il termine breve per impugnare nei modi rituali; del pari, in caso di concorso cumulativo di impugnazioni la Corte ha affermato che la proposizione di una delle impugnazioni fa decorrere per la parte il termine breve per proporre l'impugnazione concorrente.

Dunque, il fondamento di tale fungibilità della notificazione della sentenza ai fini del decorso del termine breve per l'impugnazione risiede nella ritenuta attitudine della notificazione ad assicurare alle parti la conoscenza legale della sentenza, con la conseguenza - sul presupposto dell'efficacia bilaterale della notificazione della sentenza [Impagnatiello, 2003, 175-177], per il quale l'effetto acceleratorio si determina anche nei confronti del notificante - che la detta notificazione non risulta indispensabile tutte le volte in cui la parte abbia dato prova di conoscere il contenuto del provvedimento impugnabile avendo proposto l'impugnazione o avendo ricevuto la notifica dell'impugnazione della controparte ovvero avendo posto in essere un atto diverso dall'impugnazione, ma "collegato" al contenuto della sentenza.

Inoltre, un argomento testuale viene rinvenuto dalla Corte nel disposto dell'art. 326, cpv., c.p.c. che, nel far decorrere dall'impugnazione proposta nei confronti di alcune delle controparti in causa scindibile ex art. 332 c.p.c. il termine breve per impugnare nei confronti delle altre controparti, è ritenuto suscettibile di esprimere un principio di carattere generale al pari di quello contenuto nel primo comma.

Infine, altro argomento si rinviene talora nelle pronunce della Corte con riferimento all'art. 333 c.p.c.: la norma, che pone a carico della parte che riceve la notifica dell'impugnazione principale l'onere di impugnare in via incidentale, non distingue tra le impugnazioni principali validamente proposte e quelle inammissibili. Pertanto, se si ritenesse che dalla notifica dell'impugnazione inammissibile non debba decorrere per la stessa parte impugnante il termine breve per riproporla, si creerebbe una disparità di trattamento tra tale parte - che per rinnovare l'impugnazione beneficerebbe del termine lungo - e la parte alla quale l'impugnazione è notificata, astretta ad impugnare in via incidentale nei più brevi termini di cui agli artt. 343 e 371 c.p.c.

3. I rilievi critici della dottrina.

Il descritto meccanismo acceleratorio della decorrenza del termine breve per impugnare, riferito alla conoscenza legale della sentenza, è stato criticato in modo pressoché unanime dalla dottrina.

In sintesi, un primo rilievo si è incentrato sulla constatazione che l'equipollenza tra notifica della sentenza e proposizione dell'impugnazione ai fini del decorso del termine breve si pone in contrasto con quanto la Corte è solita affermare in altre fattispecie, nelle quali si ribadisce che il decorso del termine breve presuppone la notificazione della sentenza ex artt. 285 e 327, primo comma, c.p.c., sicché, in difetto di tale puntuale attività, la "scienza legale" della sentenza acquisita aliunde non fa decorrere il termine breve né per il notificato, né per il notificante. Si tratterebbe di una «frattura nella giurisprudenza della Cassazione, circa l'individuazione (e quindi le applicazioni) della regola sancita dal combinato disposto degli artt. 285 e 326 c.p.c.» [Impagnatiello, 2003, 178]. Conclusivamente, l'orientamento in parola sarebbe «1) in contrasto con quanto in casi analoghi la Suprema Corte ha avuto occasione di affermare; 2) privo di base normativa espressa e ricavato per via interpretativa in violazione di principi giuridici fondamentali» [Triola, 2007, 1514]. Al riguardo, sono stati richiamati i casi: a) della notificazione della sentenza eseguita personalmente alla parte costituita ai fini dell'esecuzione forzata (dove pure non può esservi dubbio circa la conoscenza della sentenza da parte del notificante); b) della notificazione della sentenza solo ad alcune delle parti di un giudizio su cause scindibili (sicché si afferma che la notifica della sentenza ad alcuni litisconsorti non fa decorrere per il notificante il termine per impugnare nei confronti degli altri); c) della notificazione della sentenza in unica copia al procuratore costituito per più parti (benché sia evidente che detta notifica, pur viziata, sia sufficiente ad assicurare la conoscenza legale del contenuto della sentenza); d) della proposizione dell'istanza di correzione in pendenza del termine annuale; e) della riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio; f) della normale infungibilità della notificazione ex art. 285 c.p.c. rispetto ad altre forme di notificazione o di comunicazione del testo integrale del provvedimento impugnabile (come, p. es., nel caso delle ordinanze aventi natura di sentenza o della comunicazione della sentenza tramite biglietto di cancelleria contenente il dispositivo).

Si è allora affermato in dottrina che l'orientamento criticato appare, in definitiva, contraddittorio. Per altro verso, si è notato come il meccanismo acceleratorio del termine di impugnazione previsto dagli artt. 285 e 326 c.p.c. presenti una "impronta di formalismo" che lo rende assolutamente non surrogabile. Inoltre, la soluzione affermata dalla Corte finirebbe col ridurre la questione del termine breve a un'indagine di fatto sull'an e sul quantum del "collegamento" tra atto e motivazione della sentenza, aprendo le porte a complicazioni pratiche in una materia che, per sua natura, avrebbe invece bisogno di certezze.

Un secondo rilievo si è basato sul presupposto che la notificazione della sentenza è atto formale infungibile ai fini del decorso del termine breve per impugnare, sicché nessuna rilevanza potrebbe avere la conoscenza del provvedimento impugnabile conseguente alla proposizione di una prima impugnazione. In particolare, è stato attaccato l'assunto, alla base dell'orientamento criticato, secondo cui la notificazione della sentenza ex art. 285 c.p.c. ha lo scopo di fornire alla parte alla quale è diretta la conoscenza legale del provvedimento e la conoscenza della sentenza, pur non ottenuta tramite la notificazione, produce gli stessi effetti della conoscenza legale.

Ciò in quanto la presunzione legale di conoscenza della sentenza si produrrebbe in capo alle parti per effetto della pubblicazione della sentenza, non già in conseguenza della notificazione effettuata nei modi previsti dall'art. 285 c.p.c. [Cerino-Canova, 1982, 633], ché, diversamente opinando, non si spiegherebbe la decadenza della parte dall'impugnazione ex art. 327 c.p.c. con il decorso del termine lungo dalla pubblicazione ed anche in assenza di notificazione, né la previsione dell'art. 327 cpv. circa la non applicabilità del termine lungo di decadenza al contumace che dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della sua notificazione o per nullità degli atti previsti dall'art. 292 c.p.c. Si è pertanto concluso che la pubblicazione non potrebbe essere considerata estranea alla formazione della conoscenza legale della sentenza da parte dei litiganti, conoscenza che anzi scaturisce direttamente dalla pubblicazione e alla quale la notificazione non aggiunge alcunché [Impagnatiello, 2003, 184], essendo essa invece preordinata all'interesse della parte ad anticipare il passaggio in giudicato della sentenza, sicché sarebbe incongruo far dipendere lo stesso effetto acceleratorio dalla proposizione di un'impugnazione, la quale mira invece al risultato opposto della caducazione o della riforma della sentenza.

Un terzo rilievo ha riguardato la valenza dell'art. 326, cpv., c.p.c. a supporto dell'orientamento criticato. La norma avrebbe un ambito limitato di applicazione poiché presupporrebbe la pendenza di un processo con pluralità di parti su cause scindibili e la proposizione di una valida impugnazione, sicché essa non potrebbe essere invocata per giustificare l'effetto del decorso del termine breve di impugnazione non solo nei processi con due sole parti, ma anche nei casi di impugnazione principale inammissibile che, essendo l'inammissibilità rilevabile d'ufficio, è inidonea a instaurare un valido giudizio e a consentire la litis denuntiatio di cui all'art. 332 c.p.c. Essa inoltre avrebbe lo scopo di garantire l'unità del procedimento in fase di gravame mediante l'estensione il più possibile sollecita dell'impugnazione a tutte le parti vittoriose e - almeno secondo un'opinione [Impagnatiello, 2003, 189] - costituirebbe una deroga all'art. 329 c.p.c. al fine di sottrarre la disciplina dell'impugnazione parziale nei processi con pluralità di parti su cause scindibili agli effetti dell'acquiescenza poiché consentirebbe alla parte che ha notificato l'impugnazione soltanto ad alcune delle controparti di estenderla anche alle altre, con l'unico limite del rispetto del termine breve decorrente dalla prima notifica. L'art. 326, cpv., c.p.c. non avrebbe, insomma, nulla a che vedere con la conoscenza legale della sentenza comprovata dalla proposizione dell'impugnazione nei confronti di alcuni dei litisconsorti in cause scindibili; si tratterebbe invece di una norma di favore per la parte che, in un processo con pluralità di parti, abbia proposto un'impugnazione limitata ad alcuni capi della sentenza, perché le permette di impugnare anche i capi inizialmente non impugnati superando la preclusione di cui all'art. 329 c.p.c. Inoltre, poiché la Corte è ferma nel ritenere che, in caso di scindibilità delle cause, la notificazione della sentenza nei confronti di uno dei litisconsorti non fa decorrere, neanche nei confronti del notificante, il termine breve per impugnare nei confronti degli altri litisconsorti, si perverrebbe a una disparità di trattamento tra la parte che notifica la sentenza e quella che notifica l'impugnazione: il termine breve non decorrerebbe per la prima, mentre decorrerebbe per la seconda.

Infine, un quarto rilievo [Triola, 2007, 1515] è stato mosso all'altro aggancio positivo individuato dalla Corte, ovverosia, come detto, l'art. 333 c.p.c. Si è osservato che la paventata disparità di trattamento tra la parte che impugna in via incidentale e quella che ha impugnato in via principale sarebbe solo eventuale, poiché dipenderebbe dal momento in cui è proposta l'impugnazione principale (potrebbe infatti mancare del tutto, ove la parte residua del termine annuale coincida o superi di poco il termine breve), e comunque potrebbe essere ipotizzata solo nel caso in cui questa presenti vizi formali e necessiti, pertanto, di essere riproposta emendata poiché solo in tal caso sorgerebbe l'onere per la parte che ha ricevuto l'impugnazione principale di impugnare in via incidentale nello stesso processo. Nessuna disparità di trattamento sarebbe invece concepibile in caso di impugnazione principale inammissibile per errore nella scelta del mezzo di impugnazione (non essendovi alcun onere per le controparti di impugnativa incidentale nello stesso processo), né in caso di concorso cumulativo di impugnazioni (stante l'autonomia delle impugnazioni concorrenti).

4. L'ordinanza interlocutoria della Prima Sezione n. 9782/2015.

Le sollecitazioni della dottrina per la riconsiderazione della questione da parte delle Sezioni Unite hanno trovato positiva considerazione nell'ordinanza Sez. 1, n. 9782/2015, Genovese.

La fattispecie scrutinata ha riguardato una società che aveva agito contro un piccolo comune chiedendo la risoluzione per grave inadempimento del contratto di noleggio di un autovelox e il risarcimento dei danni. Accolta la domanda con sentenza depositata il 3 settembre 2003 (non notificata), il comune interponeva appello notificando l'atto il 3 novembre 2003 alla società in bonis. Si costituiva però il fallimento deducendo che la società era stata dichiarata fallita con sentenza del 30 giugno 2003 e che l'appello era nullo, in quanto notificato a soggetto non più esistente. Abbandonato il giudizio ex artt. 181 e 309 c.p.c., il comune riproponeva nel marzo 2004 una seconda impugnazione nei confronti della curatela che resisteva eccependo la tardività del gravame. La corte di appello, richiamando il costante orientamento di legittimità (citava Sez. 2, n. 15082/2006, Correnti, Rv. 590863, e Sez. 3, n. 20912/2005, Purcaro, Rv. 584204), accoglieva l'eccezione affermando che la prima impugnazione aveva fatto decorrere per il comune appellante il termine "breve" di trenta giorni di cui all'art. 325 c.p.c. e la seconda impugnazione, notificata quattro mesi dopo, era stata proposta tardivamente, quando la sentenza di primo grado era ormai passata in giudicato.

Ricorreva allora per cassazione il comune lamentando falsa applicazione dell'art. 358 c.p.c.: contestava la "lettura tradizionale" di tale norma da parte della giurisprudenza di legittimità, ritenendo non applicabile alla fattispecie il principio di consumazione del potere di impugnazione; allegava infatti l'incolpevole ignoranza circa l'intervenuto fallimento e la conseguente nullità del gravame dopo che il termine breve per impugnare era già decorso; invocava a tal fine un risalente precedente (Sez. L, n. 3132/1984, Chiavelli, Rv. 435180, secondo cui l'art. 358 c.p.c. non è applicabile nel caso in cui venga dichiarata la nullità del gravame, dovendosi considerare il diritto di impugnazione, anziché consumato, non esercitato per la nullità del relativo atto, in ordine al quale la pronuncia del giudice ha valore soltanto dichiarativo); denunciava di incostituzionalità la detta lettura tradizionale dell'art. 358 c.p.c. alla stregua dell'art. 24 Cost. poiché essa sottrarrebbe all'appellante il diritto di impugnazione senza che gli sia imputabile alcuna negligenza; sottolineava come detto orientamento fosse criticato pressoché unanimemente dalla dottrina, secondo la quale la notificazione della sentenza ai fini del decorso dei termini di impugnazione non può avere equipollenti.

La Prima Sezione, richiamato il principio di consumazione dell'impugnazione e il consolidato orientamento di legittimità secondo il quale la notificazione dell'impugnazione inammissibile o improcedibile è equipollente alla notificazione della sentenza, con la conseguenza, cui esso conduce, di far decorrere il termine breve per l'impugnazione anche se la sentenza non sia stata notificata, ha rilevato che, ai fini del decorso dei termini di impugnazione, la notificazione della sentenza non avrebbe equipollenti e la conoscenza effettiva della sentenza ottenuta dalla parte aliunde (cioè in modo diverso dalla notificazione o dalla pubblicazione) dovrebbe rimanere irrilevante. Ha altresì osservato che una riconsiderazione del consolidato orientamento di legittimità potrebbe trovare fondamento nell'attuale formulazione dell'art. 327 c.p.c., che ha ridotto da un anno a sei mesi il termine lungo di decadenza per proporre impugnazioni: «In tal modo - si legge nell'ordinanza di rimessione -, anche il temuto pregiudizio per la celerità del procedimento si verrebbe sensibilmente ad attenuare poiché la parte che abbia proposto irrituale impugnazione contro una sentenza non notificata vede sensibilmente ridotto il termine per far valere le sue difese con una impugnazione correttamente proposta».

5. Le Sezioni Unite: l'accelerazione del giudicato in funzione della certezza dei rapporti.

Ritenuti insussistenti i presupposti di fatto (la declaratoria di nullità del primo atto di appello, considerato che il primo giudizio era stato spontaneamente abbandonato da parte ricorrente, e la scusabilità dell'ignoranza del fallimento di parte appellata) allegati dal comune a sostegno dell'unico motivo di ricorso per cassazione, le Sezioni Unite hanno svolto una nuova riflessione sul principio di diritto (la notificazione dell'impugnazione equivale, per il notificante, alla notificazione della sentenza eseguita ex art. 285 c.p.c. ai fini del decorso del termine breve) di cui la Prima Sezione aveva richiesto il riesame, confermando e precisando l'orientamento tradizionale mediante la confutazione, punto per punto, dei rilievi critici mossi dalla dottrina.

Per fare ciò, le Sezioni Unite spostano risolutamente l'asse del discorso sul piano assiologico, riportandosi all'indirizzo carneluttiano di cui si diceva all'inizio: rammentati i cardini dell'orientamento tradizionale e sottolineato che il suo assunto di fondo, legato alla conoscenza legale della sentenza, è stato corroborato con il principio dell'efficacia bilaterale della notificazione della sentenza ex art. 285 c.p.c. (in forza del quale il termine per impugnare decorre tanto per il notificato che per il notificante, il quale deve assoggettarsi all'effetto acceleratorio che ha voluto imporre alla controparte) applicato anche a chi notifica l'impugnazione, è allora «da questo effetto acceleratorio che occorre muovere per cogliere l'elemento unificante che giustifica la tesi dominante», sicché il nesso unificante (la ratio autentica) delle norme in gioco (l'art. 326 cpv. c.p.c. e gli addentellati di cui agli artt. 332 e 333 c.p.c., ma altresì gli artt. 358 e 387 c.p.c. esprimenti il principio di consumazione del potere di impugnazione) risiede «nel voler stimolare l'esercizio del potere di impugnazione al fine di accelerare la formazione del giudicato» per «agevolare la certezza dei rapporti giuridici che scaturisce dalla fine del processo».

È questo, per le Sezioni Unite, «il fattore che giustifica la decorrenza del termine breve per impugnare in capo a chi propone l'impugnazione. Questo atto innesca una dinamica processuale che fa trascendere il processo in un'orbita impugnatoria, dalla quale non può regredire per rientrare in una fase di stasi meditativa». Alla luce di questo «nesso coerenziatore» non è consentita una lettura disaggregata delle norme: dal complesso di esse è invece dato cogliere la volontà del legislatore di favorire la formazione del giudicato con strumenti idonei (artt. 285, 325, 326, primo comma, c.p.c.), unificare le impugnazioni (art. 332 c.p.c.), limitare la loro proliferazione (artt. 358 e 387 c.p.c.), ancorare il termine per le impugnazioni successive a un dato normativo (l'art. 326 cpv. c.p.c.).

Cadono allora le quattro obiezioni della dottrina più sopra ripercorse. 1) Nessuna "frattura" nella giurisprudenza della Corte, denunciata dalla dottrina soprattutto con riferimento alla notificazione della sentenza a fini esecutivi: «a qualificare la notificazione dell'impugnazione è proprio la dimensione impugnatoria di questo atto, che lo rende ben diverso dalla notificazione della sentenza unita al precetto, di cui è un qualcosa in più e non in meno». 2) Nessuna applicazione "analogica" dell'art. 326 c.p.c.: semmai estensiva, da riconnettere a quella situazione di notum facere realizzata dalla notificazione della sentenza, cui allude il primo comma della norma, poiché «la conoscenza della sentenza entra nel processo in quanto essa stessa è sottoposta a critica mediante un'impugnazione, la quale implica la conoscenza e la volontà di procedere oltre», dovendosi inoltre tenere fermo - al contrario di quanto opinato in dottrina - che notificazione della sentenza e notificazione dell'impugnazione hanno lo stesso obiettivo della stabilizzazione della decisione mediante l'accelerazione della scelta processuale successiva, tanto che sia percorsa quanto che sia omessa l'impugnazione successiva. 3) Nessuna "marginalità" del dato positivo di cui all'art. 326 cpv. c.p.c.: esso è invece «testualmente rivelatore dell'onere dell'impugnante di esercitare la sua facoltà di attacco entro il termine breve decorrente dal momento in cui lo esercita per la prima volta» e il riferimento alle cause scindibili (art. 332 c.p.c.) si spiega in quanto solo per esse è stato necessario esplicitare quell'onere; la norma «vale quindi come utile e convergente riferimento interpretativo». 4) Nessuna "irrilevanza" pratica del profilo della disparità di trattamento nelle impugnazioni incidentali ex art. 333 c.p.c.: al contrario, il problema ben potrebbe sorgere nel caso - tutt'altro che raro, stante l'incremento di previsioni codicistiche sanzionatorie - di impugnazione inammissibile per motivi di carattere formale, rispetto alla quale si configura l'onere di reagire immediatamente in via incidentale.

Verificata la valida resistenza dell'indirizzo tradizionale alle obiezioni della dottrina e riconosciutane la ratio nel meccanismo di accelerazione della formazione del giudicato a fini di certezza dei rapporti giuridici (il «filo ermeneutico» che dà respiro alla trama degli indici normativi individuati dalla giurisprudenza di legittimità ormai ultratrentennale), il discorso delle Sezioni Unite può approdare all'elemento di chiusura: il «valore intrinseco della stabilità della giurisprudenza in materia processuale». Se la tesi tradizionale, confermata dalle Sezioni Unite, risulta «portatrice di un'opportuna tensione verso la ragionevole durata del processo (...) anche il principio della certezza del diritto compone i canoni del giusto processo regolato dalla legge. Soprattutto la legge processuale deve essere interpretata con rassicurante costanza, senza scarti innovativi che non siano giustificati da mutamenti del quadro normativo o da evidenze risolutive», secondo gli insegnamenti sul valore immanente della regola dello stare decisis, in cui si esprime la funzione nomofilattica della Corte, contenuti in Sez. U, n. 13620/2012, Mazzacane, Rv. 623343, Sez. U, n. 10143/2012, Amoroso, Rv. 622883, e Sez. U, n. 10864/2011, Vivaldi, Rv. 617621, nonché sui confini dell'applicazione dell'overruling di cui a Sez. U, n. 15144/2011, Morelli, Rv. 617905. Vale anche qui, insomma, il «principio di precauzione» da tempo fissato dalle Sezioni Unite: dinanzi a due possibili interpretazioni alternative della norma processuale, ciascuna compatibile con la lettera della legge, le ragioni di economico funzionamento del sistema giudiziario devono indurre l'interprete a preferire quella consolidatasi nel tempo, a meno che il mutamento dell'ambiente processuale o l'emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l'abbandono e consentano, pertanto, l'adozione dell'esegesi da ultimo formatasi (Sez. U, n. 10864/2011, cit.).

In definitiva, il valore della stabilità processuale colpisce in radice le accuse di incertezza mosse dalla dottrina all'orientamento tradizionale.

6. Considerazioni conclusive.

La formulazione testuale delle norme incidenti sulla questione qui esaminata consente contrapposte linee interpretative che trovano giustificazione in più generali opzioni di fondo. Le critiche - numerose e autorevoli - mosse dalla dottrina pressoché unanime alla tesi giurisprudenziale richiamano, come si è visto, esigenze di certezza delle regole processuali e di promozione delle facoltà di impugnazione, intese in termini di diritti non altrimenti modellabili se non per via di previsione positiva.

A tale ultimo riguardo, tuttavia, ben può rilevarsi che l'impugnazione può inquadrarsi in termini non di diritto (in sé tendenzialmente insuscettibile di compressioni), ma di potere (come tale conformabile), che l'appello non possiede una garanzia costituzionale e che il relativo grado di giudizio è affetto da crescenti criticità le quali possono esigere sanzioni di inammissibilità o preclusioni finalizzate alla effettività del sistema giudiziario nei confronti di tutti i suoi possibili fruitori (così, tra le altre, Sez. 6-3, n. 10723/2014, De Stefano, Rv. 630697, in tema decorrenza del termine breve dalla comunicazione dell'ordinanza ex art. 348 c.p.c., che ha particolarmente approfondito gli aspetti di compatibilità costituzionale).

Ad ogni modo, a fronte dei rilievi critici della dottrina, l'orientamento confermato dalle Sezioni Unite appare, al postutto, ispirato ad una pragmatica ragionevolezza della soluzioni in vista della salvaguardia dell'esigenza di concentrazione dei giudizi di impugnazione e di sollecita formazione del giudicato e della certezza propria di esso. A tal fine, il criterio della conoscenza legale viene esplicitamente utilizzato - ad onta delle critiche - in una prospettiva di deformalizzazione degli adempimenti, in adesione ai principi del giusto processo. Così, la Corte ha più volte affermato che il principio di consumazione dell'impugnazione, secondo un'interpretazione conforme ai principi costituzionalizzati del giusto processo, che sono diretti a rimuovere, anche nel campo delle impugnazioni, gli ostacoli alla compiuta realizzazione del diritto di difesa, rifuggendo formalismi rigoristici, impone di ritenere che, fino a quando non intervenga una declaratoria di improcedibilità, possa essere proposto un secondo atto di appello, sempre che la seconda impugnazione risulti tempestiva e si sia svolto regolare contraddittorio tra le parti (Sez. 3, n. 23220/2005, Petti, Rv. 585279, e successive conformi).

Costituendo l'orientamento in discorso un vero e proprio ius receptum (in tal senso Sez. 3, n. 20912/2005, cit.), non poteva prescindersi da un attento vaglio del necessario bilanciamento tra le ragioni di un eventuale mutamento di indirizzo e le esigenze di stabilità proprie delle regole di diritto vivente, particolarmente sentite nel campo del diritto processuale. Le Sezioni Unite hanno coerentemente percorso e sviluppato questa seconda opzione.

. BIBLIOGRAFIA

S. CAPORUSSO, Sull'esercizio del potere d'impugnazione secondo il canone della Cassazione, in "Il Foro italiano", 2013, I, c. 1993 ss.

S. CAPORUSSO, La "consumazione" del potere di impugnazione, Napoli, 2011.

A. CERINO-CANOVA, Sulla soggezione del notificante al termine breve di gravame, in "Rivista di diritto processuale", 1982, p. 624 ss.

G. IMPAGNATIELLO, Conoscenza della sentenza e termine breve per impugnare, in Annali della Facoltà di economia di Benevento, VIII, Napoli, 2003, p. 171 ss.

R. TRIOLA, Osservazioni in tema di termini per la riproposizione di impugnazione inammissibile, in "Giustizia civile", 2007, 6, p. 1514 ss

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CAPITOLO XI

LE CONSEGUENZE DELLA COSTITUZIONE DELL'APPELLANTE MEDIANTE IL DEPOSITO DELLA CD. VELINA

(di Rosaria Giordano )

Sommario

1 Premessa. - 2 La rimessione della questione alle Sezioni Unite. - 3 La tesi dell'improcedibilità. - 4 La tesi della nullità sanabile. - 5 Termine entro il quale deve essere depositato l'originale dell'atto. - 6 La decisione delle Sezioni Unite. - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

L'improcedibilità, nell'ambito dei mezzi di impugnazione, sanziona l'omissione o il ritardato compimento di determinate attività processuali da effettuarsi in limine litis, sebbene successivamente alla proposizione del gravame.

Il legislatore, peraltro, non definisce in generale la categoria dell'improcedibilità alla quale, per quanto attiene alle impugnazioni, si limita a fare riferimento in quattro specifiche disposizioni, ossia l'art. 348 c.p.c. in tema d'appello, l'art. 369 c.p.c. relativo al ricorso per cassazione, l'art. 399 c.p.c. in materia di revocazione e l'art. 408 c.p.c. sull'opposizione di terzo.

Tali norme hanno il proprio comune denominatore nel sanzionare con l'improcedibilità, in luogo dell'estinzione, determinate inattività processuali poste in essere dall'impugnante, dopo la proposizione del gravame, ed integrano fattispecie ritenute tassative [Luiso, 2015, 363].

Più in particolare, gli effetti dell'improcedibilità dell'appello sono disciplinati dall'art. 358 c.p.c. per il quale, ove sia intervenuta la relativa declaratoria, il gravame non potrà essere riproposto, sebbene non sia ancora decorso il termine per impugnare: tale previsione - cui fa da "pendant", in materia di ricorso per cassazione, l'art. 387 c.p.c., sancisce il principio di cd. consumazione dell'impugnazione [Carnelutti, 1941, 437], che ha vocazione generale.

In tema di improcedibilità dell'appello, l'art. 348, comma 1, c.p.c., stabilisce che: «L'appello è dichiarato improcedibile, anche d'ufficio, se l'appellante non si costituisce in termini».

Su un piano generale, occorre ricordare che la costituzione in causa è un atto processuale formale che pone stabilmente la parte davanti al giudice, rendendone attuale la partecipazione al giudizio. Pertanto, poiché ai sensi dell'art. 347 c.p.c. ai fini della costituzione in giudizio in appello trovano applicazione le norme dettate dagli artt. 165 e ss. c.p.c. per il processo di primo grado, l'appellante deve costituirsi in cancelleria nel termine di dieci giorni dalla notifica dell'atto di citazione, termine decorrente, ove l'atto debba essere notificato ad una pluralità di parti, dalla prima notifica, come chiarito da Sez. U, n. 10864/2011, Vivaldi, Rv. 617622.

La problematica in esame attiene, nel quadro sinteticamente delineato, alle conseguenze della costituzione in causa in appello mediante il deposito, entro il predetto termine, non già dell'originale dell'atto introduttivo notificato, bensì di una copia dello stesso.

2. La rimessione della questione alle Sezioni Unite.

Proposto ricorso per cassazione avverso una sentenza che aveva parzialmente accolto il gravame dell'altra parte, il ricorrente deduceva, mediante i primi due motivi di impugnazione, che il giudice di secondo grado aveva deciso sul merito del gravame sebbene: a) il primo atto di citazione notificato era stato iscritto a ruolo da esso appellato al solo fine di ottenere la declaratoria di improcedibilità per l'inattività dell'altra parte ai sensi dell'art. 348, comma 1, c.p.c.; b) era stato notificato dall'appellante un secondo atto di appello, da ritenersi inammissibile in virtù del principio di consumazione dell'impugnazione di cui all'art. 358 c.p.c., appello peraltro iscritto a ruolo con il deposito della "velina" dell'atto notificato, senza che, nel prosieguo del giudizio, fosse stato depositato l'originale.

La Sezione Seconda della Corte di Cassazione, mediante ordinanza interlocutoria, Sez. 2, n. 25529/2015, Picaroni, non massimata, assumendo la sussistenza di un contrasto nella giurisprudenza della S.C., concernente le conseguenze dell'iscrizione a ruolo "con velina" delle cause di appello rimetteva alle Sezioni Unite delle seguenti questioni:

a) se la costituzione in giudizio mediante il deposito di copia dell'atto di appello comporti di per sé l'improcedibilità del giudizio di gravame, oppure dia luogo a una nullità sanabile;

b) « in questa seconda ipotesi, se per evitare l'improcedibilità il deposito dell'originale dell'atto di impugnazione debba necessariamente avvenire entro la prima udienza, oppure possa essere utilmente effettuato nel prosieguo del giudizio, oppure ancora se sia già di per sé sufficiente (ipotesi che in giurisprudenza non risulta essere stata prospettata) la costituzione stessa in giudizio dell'appellato, in quanto dimostrativa dell'avvenuto raggiungimento dello scopo dell'atto».

3. La tesi dell'improcedibilità.

Il precedente più significativo nella giurisprudenza della Corte per il quale la costituzione in appello attraverso il deposito della copia, in luogo dell'originale, dell'atto di citazione notificato comporta, ai sensi dell'art. 348, comma 1, c.p.c., l'improcedibilità del gravame è costituito da Sez. 2, n. 18009/2008, Bertuzzi, Rv. 604107, per il quale il deposito dell'atto di citazione in appello privo della notifica alla controparte, all'atto della costituzione nel giudizio di secondo grado, determina l'improcedibilità del gravame ex art. 348 c.p.c., essendo privo di effetti sananti l'eventuale deposito tardivo dell'atto notificato in prima udienza, oltre il termine perentorio stabilito dalla legge.

Nella richiamata decisione si evidenzia, invero, l'impossibilità di assimilare, quoad effectum, le conseguenze dell'omessa o ritardata costituzione in giudizio in primo grado ed in appello, atteso che la disciplina dettata, per il solo giudizio d'appello, dall'art. 348 c.p.c. è ispirata ad un favor per il passaggio in giudicato della decisione oggetto di impugnazione che sanziona l'omessa costituzione in giudizio con l'improcedibilità, istituto che si distingue nettamente dalla nullità e non contempla, a differenza della stessa, alcuna possibilità di sanatoria [Sassani - Consolo - Luiso, 1996, 390].

Nella delineata prospettiva, la Corte aveva escluso, almeno in tale precedente, che in appello si possa evitare la radicale conseguenza dell'improcedibilità nell'ipotesi in esame, rilevando che il differente assetto proprio del giudizio di primo grado - nell'ambito del quale la ritardata costituzione delle parti è un'irregolarità che non produce alcuna conseguenza in un sistema nel quale la materia della nullità degli atti introduttivi del giudizio è ispirata al principio della conservazione dell'atto per effetto di sanatoria ex art. 164 c.p.c. o successiva regolarizzazione ai sensi dell'art. 182 c.p.c. - possa "trasporsi" in appello.

Conferma di tale tesi si trae, secondo tale decisione, inoltre, nel rilievo officioso dell'improcedibilità da parte del giudice, sanzione che, pertanto, deriva direttamente dalla legge qualora non venga rispettato il termine previsto dall'art. 348 c.p.c. per la costituzione in giudizio, la quale, peraltro, deve avvenire, avendo riguardo al disposto dell'art. 347 c.p.c., nel rispetto delle regole formali dettate dagli artt. 165 e ss. c.p.c. che comprendono, tra l'altro, il deposito dell'originale, e non della cd. velina, dell'atto di citazione.

In effetti, non si dubita, nell'ambito della dottrina più autorevole che ha approfondito la problematica, che tra le formalità cd. necessarie (contrapposte a quelle cd. eventuali) della costituzione in giudizio rientra il deposito dell'originale dell'atto di citazione [Saletti, 1993, 2].

Inoltre, come si è più di recente osservato, l'argomento principale che è posto a fondamento dell'altra tesi, ovvero quello per il quale il deposito di una velina dell'atto di impugnazione in luogo dell'originale notificato non comporta l'improcedibilità del gravame ma solo una nullità sanabile, è suscettibile di giustificare, "a catena", la medesima conclusione anche a fronte di difformità della costituzione in giudizio rispetto al modello legale più gravi, come, ad esempio, l'omesso deposito nel termine previsto anche della cd. velina [Bernini, 2013, 146].

4. La tesi della nullità sanabile.

Nella giurisprudenza della Corte era tuttavia assolutamente dominante la differente impostazione per la quale la costituzione in appello mediante il deposito, entro il termine di dieci giorni dalla notifica, della copia, in luogo dell'originale dell'atto di impugnazione, non comporta l'improcedibilità del gravame.

Tale orientamento è stato inaugurato da Sez. 1, n. 23027/2004, Luccioli, Rv. 578443, ed è stato sviluppato, con dovizia di argomentazioni, da Sez. 3, n. 06912/2012, Frasca, Rv. 623670.

In particolare, quest'ultima decisione ha evidenziato che l'improcedibilità dell'appello è comminata dall'art. 348, comma 1, c.p.c. per l'inosservanza del termine di costituzione dell'appellante, non anche per l'inosservanza delle forme di costituzione, sicché, essendo il regime dell'improcedibilità di stretta interpretazione, in quanto derogatorio al sistema generale della nullità, il vizio della costituzione tempestiva ma inosservante delle forme di legge soggiace al regime della nullità e, quindi, al principio del raggiungimento dello scopo, per il quale rilevano anche comportamenti successivi alla scadenza del termine di costituzione.

La ritenuta tassatività delle fattispecie di improcedibilità e l'impossibilità di ricondurre a quella prevista dal comma primo dell'art. 348 c.p.c. anche l'ipotesi nella quale l'appellante si sia tempestivamente costituito in giudizio mediante, peraltro, il deposito di una velina dell'atto di citazione, è stata, inoltre, posta in evidenza da Sez. 2, n. 23192/2010, Settimj, Rv. 614870, la quale ha sottolineato che l'art. 348 c.p.c., nella formulazione novellata dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, ha apportato significative modifiche alla disciplina dell'improcedibilità dell'appello, in quanto ha previsto quali ipotesi testualmente tassative quelle individuate nei suoi due commi, ovvero la mancata tempestiva costituzione dell'appellante e la mancata comparizione dello stesso, una volta costituitosi, alla prima udienza ed in quella successiva. Questo implica, in accordo con tale impostazione interpretativa, che la sanzione immediata ed insanabile, attiene alla sola mancata tempestiva costituzione dell'appellante che deve aver luogo "in termini" non anche all'omessa osservanza delle "forme" previste per i procedimenti davanti al tribunale, nonostante per le stesse, compreso dunque il deposito dell'originale della citazione, operi rinvio il precedente art. 347 c.p.c.

In alcune decisioni si è rilevato, inoltre, per supportare la medesima tesi prevalente, anche su una non meno trascurabile argomentazione tratta dall'ormai consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale in tema di perfezionamento del procedimento notificatorio, in ordine alla scissione soggettiva, quanto all'individuazione del momento di siffatto perfezionamento, tra la posizione del notificante e del destinatario della notifica, tutte le volte che venga in rilievo il necessario rispetto di un termine perentorio per il compimento della notifica.

A riguardo è stato osservato, in particolare, da Sez. 2, n. 15715/2013, Carrato, Rv. 626894, che «la possibilità di provvedere alla costituzione in giudizio da parte dell'attore (e, corrispondentemente, da parte dell'appellante in secondo grado) e alla contestuale iscrizione a ruolo della causa prima del perfezionamento della notificazione (mediante il deposito della cd. "velina") è un dato che deve ritenersi acquisito alla luce della lettura costituzionalmente orientata operata dal Giudice delle leggi (cfr. sentenza 2 aprile 2004, n. 107, ed ordinanza 12 aprile 2005, n. 154, ma già prima v., in senso analogo, l'ordinanza 23 giugno 2000, n. 239), secondo cui tale ultimo adempimento si perfeziona per il notificante sin dalla consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, sicché a partire da tale momento egli è legittimato a compiere tutte le attività che presuppongono la notificazione, ferma restando la decorrenza del termine ultimo per la costituzione dalla consegna effettiva al destinatario».

5. Termine entro il quale deve essere depositato l'originale dell'atto.

La seconda questione prospettata, in termini maggiormente problematici, dall'ordinanza interlocutoria, era quella, laddove si ritenga che la costituzione in appello con velina dia luogo ad una nullità sanabile, se per evitare l'improcedibilità il deposito dell'originale dell'atto di impugnazione debba necessariamente avvenire entro la prima udienza, oppure possa essere utilmente effettuato nel prosieguo del giudizio, oppure ancora se sia già di per sé sufficiente (ipotesi che in giurisprudenza non risulta essere stata prospettata) la costituzione stessa in giudizio dell'appellato, in quanto dimostrativa dell'avvenuto raggiungimento dello scopo dell'atto.

In realtà, solo alcune delle pronunce che hanno affermato il principio per il quale la costituzione nel giudizio di appello con il deposito della cd. velina comporta una nullità sanabile si sono occupate espressamente anche della correlata questione del momento ultimo entro il quale l'originale deve essere prodotto in gravame.

Alcune decisioni hanno ritenuto, a riguardo, che, una volta sancito il principio per il quale la sola omessa costituzione nel giudizio d'appello implica l'improcedibilità dello stesso, mentre la costituzione mediante il deposito della cd. velina in luogo dell'originale è una nullità sanabile (o, come talvolta si è pure ritenuto, una irregolarità), ne consegue che, ove lo scopo dell'atto sia stato raggiunto non essendovi difformità tra originale e copia, non rileva il momento del giudizio di appello nel quale avviene la produzione. In particolare, è stato affermato da Sez. 2, n. 23192/2010, Settimj, Rv. 614870, che tale controllo può essere effettuato in sede di decisione dell'impugnazione.

In senso più rigoroso, un altro orientamento, fatto proprio da Sez. 3, n. 06912/2012, Frasca, Rv. 623670, ha affermato che il controllo sulla procedibilità del gravame deve essere effettuato alla prima udienza, ossia quella di cui all'art. 350, comma 2, c.p.c. laddove la stessa si svolga dinanzi alla corte d'appello (ovvero l'udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. nell'ipotesi di appello di fronte al tribunale).

Sotto altro profilo, l'importanza, per la soluzione della seconda questione prospettata dall'ordinanza interlocutoria delle considerazioni effettuate dalla stessa Sez. 3, n. 06912/2012, Frasca, Rv. 623670, si individua anche nella necessità che siffatta pronuncia si pone di farsi carico dell'esigenza che, pur ove venga richiesto un rinvio per la produzione dell'originale o si adducano elementi giustificativi per l'omesso deposito dello stesso, ciò non comporti un rinvio "sine die" per l'effettuazione di questo controllo necessario ai fini della decidibilità del gravame. La soluzione era stata individuata nell'utilizzo da parte del giudice dei poteri di direzione del procedimento ex art. 175, comma 1, c.p.c.: invero, per consentire un sollecito svolgimento del processo, il giudice dovrebbe assegnare un termine alla parte appellante ex art. 152 c.p.c. in modo da scongiurare manovre dilatorie poiché, pur trattandosi di termine ordinatorio, ove non prorogato prima della scadenza ai sensi dell'art. 154 c.p.c., la parte incorrerebbe nella relativa decadenza.

6. La decisione delle Sezioni Unite.

Nel decidere sul complesso delle ripercorse questioni prospettate dall'ordinanza interlocutoria, Sez. U, n. 16598/2016, Frasca, Rv. 640829, ha enunciato il principio per il quale la tempestiva costituzione dell'appellante con la copia dell'atto di citazione (cd. velina) in luogo dell'originale non determina l'improcedibilità del gravame ai sensi dell'art. 348, comma 1, c.p.c., ma integra una nullità per inosservanza delle forme indicate dall'art. 165 c.p.c., sanabile, anche su rilievo del giudice, entro l'udienza di comparizione di cui all'art. 350, comma 2, c.p.c. mediante deposito dell'originale da parte dell'appellante, ovvero a seguito di costituzione dell'appellato che non contesti la conformità della copia all'originale (e sempreché dagli atti risulti il momento della notifica ai fini del rispetto del termine ex art. 347 c.p.c.), salva la possibilità per l'appellante di chiedere la remissione in termini ex art. 153 c.p.c. (o 184-bis c.p.c., ratione temporis applicabile) per la regolarizzazione della costituzione nulla, dovendosi ritenere, in mancanza, consolidato il vizio ed improcedibile l'appello.

Le Sezioni Unite, pertanto, hanno in primo luogo avallato l'orientamento già dominante, almeno nella giurisprudenza di legittimità, in virtù del quale la costituzione in giudizio in appello, mediante il deposito della velina, in luogo dell'originale dell'atto notificato, comporta non già l'improcedibilità del gravame ai sensi dell'art. 348 c.p.c. bensì una nullità sanabile.

La Corte ritiene, in particolare, che tale ricostruzione sia giustificata in base al raffronto tra il comma 1 dell'art. 347 c.p.c. ed il comma 1 dell'art. 348 c.p.c., atteso che nella prima disposizione si richiamano le forme ed i termini della costituzione in giudizio dinanzi al tribunale, mentre l'art. 348 c.p.c. sanziona con l'improcedibilità la sola mancata costituzione tempestiva, senza fare riferimento, in sostanza, alle forme della stessa.

Con riguardo alla seconda e condizionata questione prospettata dall'ordinanza interlocutoria, in ordine all'individuazione del termine ultimo entro il quale deve avvenire la regolarizzazione della costituzione in causa in sede di gravame, mediante il deposito dell'originale dell'atto notificato, le Sezioni Unite si riconducono alla posizione più rigorosa già affermata da Sez. 3, n. 06912/2012, Frasca, Rv. 623670, statuendo che la sanatoria deve avvenire entro la prima udienza del giudizio di appello - purché effettivamente celebrata e non di mero rinvio - in quanto è nel corso della stessa che il giudice è tenuto a svolgere, anche d'ufficio, i controlli in ordine alla regolarità della costituzione in giudizio.

Peraltro, le Sezioni Unite si discostano - e probabilmente questo è il profilo più innovativo della pronuncia rispetto alla giurisprudenza precedente - dalla predetta decisione, non riconoscendo al giudice d'appello il potere, riscontrato l'omesso deposito dell'originale dell'atto introduttivo anche alla prima udienza, di concedere d'ufficio un termine all'appellante per la relativa produzione.

Si osserva, infatti, che l'art. 350 c.p.c. non attribuisce al giudice siffatto potere mentre assegna per converso allo stesso alcuni poteri volti alla regolarizzazione del processo sotto altri profili, ossia quello di ordinare l'integrazione del contraddittorio, quello di cui all'art. 332 c.p.c. e quello di ordinare il rinnovo della notificazione dell'atto di appello.

Peraltro, al contempo, le Sezioni Unite precisano che l'appellante il quale non è in grado, per "circostanze esterne" alla propria responsabilità integranti caso fortuito o forza maggiore, di depositare entro la prima udienza l'originale dell'atto di citazione notificato può, prima o nel corso della stessa, chiedere la rimessione in termini ai sensi dell'art. 153, comma 2, c.p.c.

La differenza rispetto alla giurisprudenza precedente è una svolta in senso più rigoroso per l'appellante che non soltanto dovrà depositare, ove possibile, l'originale dell'atto entro la prima udienza ma avrà egli stesso l'onere di richiedere la rimessione in termini, senza potersi giovare di un ulteriore termine concesso d'ufficio dal giudice, anche, peraltro, in difetto dei presupposti di cui all'art. 153, comma 2, c.p.c.

Le Sezioni Unite affermano, quindi, il principio per il quale, se l'appellante non sana entro la prima udienza la nullità costituita dalla costituzione in causa mediante il deposito della cd. velina in luogo dell'originale dell'atto di citazione, detta nullità si "consolida" e deve essere dichiarata l'improcedibilità del gravame.

La pronuncia delle Sezioni Unite effettua, altresì, alcune considerazioni circa la rilevanza della condotta processuale dell'appellato.

In particolare, si osserva che qualora l'appellante si sia costituito mediante il deposito della copia dell'atto di citazione e non abbia sanato il vizio entro l'udienza di cui all'art. 350 c.p.c., ove l'appellato contesti la conformità della copia rispetto all'originale, non potrà che essere dichiarata l'improcedibilità dell'appello.

Laddove, per converso, l'appellato si costituisca senza nulla eccepire, le Sezioni Unite effettuano una distinzione.

Invero, qualora l'atto depositato sia costituito da una copia recante la relata dell'attività di notificazione dell'ufficiale giudiziario (completa o meno con riguardo al perfezionamento nei confronti del destinatario), la mancata contestazione da parte dell'appellato sana il vizio della costituzione in causa.

Diversamente, tale sanatoria non può verificarsi ove la copia non rechi la relata di notificazione, fattispecie nella quale deve essere quindi dichiarata l'improcedibilità del gravame a prescindere dalla condotta processuale dell'appellato.

. BIBLIOGRAFIA

BERNINI, Inammissibilità, improcedibilità ed estinzione, in Le impugnazioni civili a cura di Luiso e Vaccarella, Torino 2013, 144.

CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma 1941, 341.

CONSOLO – LUISO – SASSANI, Commentario alla riforma del processo civile, Milano 1996.

LA CHINA, Procedibilità (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXV, Milano, 1986, 794.

LUISO, Diritto processuale civile, II, 8a ed., Milano 2015, 359.

PANZAROLA, Sulla rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2009, 1638.

SALETTI, Costituzione in giudizio, in Enc. giur. Treccani, X, Roma, 1993, 1.

  • giurisdizione civile
  • procedura civile

CAPITOLO XII

I LIMITI DELLA RICORRIBILITÀ IN CASSAZIONE DELL'ORDINANZA EX ARTT. 348-BIS E 348-TER C.P.C.

(di Eduardo Campese )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il contrasto, manifestatosi in dottrina e giurisprudenza, quanto al regime dell'ordinanza di inammissibilità. - 3 I limiti della ricorribilità in Cassazione dell'ordinanza ex artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. come sanciti dalle Sezioni Unite. - 4 Brevi osservazioni. - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la con sentenza Sez. U, n. 01914/2016, rv. nn. da 638368 a 638370, Di Iasi, hanno affrontato la questione della ricorribilità, o meno, dell'ordinanza di inammissibilità dell'appello ex art. 348-ter c.p.c., intorno alla quale - fin dal suo ingresso sulla scena del processo civile - era insorto un dibattito sia in dottrina, sia, per l'affacciarsi di divergenti opinioni, presso la giurisprudenza di legittimità.

È bene da subito circoscrivere il campo dei profili controversi su cui la decisione è intervenuta in funzione nomofilattica.

Stante il silenzio della legge intorno all'impugnabilità di quell'ordinanza, - indiscussa la mancanza di uno specifico mezzo di impugnazione/contestazione, quali che ne siano i vizi denunciati - il disappunto avverso la scelta legislativa si era orientato, non tanto sul caso in cui l'inammissibilità vertesse su ragioni di "merito" (appello erroneamente ritenuto privo di ragionevole probabilità di accoglimento), quanto su quello in cui essa fosse viziata per ragioni processuali: il problema, riguardava, in altri termini, l'impugnabilità dell'ordinanza per "vizi propri".

Se, infatti, la contestazione del "merito" della stessa si può riversare sul ricorso per cassazione (ordinario) avverso la sentenza di primo grado (art. 348-ter, comma 3, c.p.c.), non altrettanto può dirsi quando l'ordinanza è resa al di fuori delle ipotesi contemplate dalla legge, o comunque in presenza di doglianze processuali non enucleabili nella decisione di prime cure.

Il farraginoso meccanismo contemplato dalla disciplina del filtro in appello - che rende impugnabile in cassazione la sentenza di primo grado ove l'appello sia privo di ragionevole probabilità di accoglimento - pur nelle sue criticità, aveva finito quindi per essere accettato quale strumento di contestazione dell'ordinanza filtro nell'un caso, ma non aveva trovato spazio nell'altro, e ciò ha condotto al consolidarsi del dubbio su cui le Sezioni Unite sono intervenute a componimento del contrasto: se e quale sia il rimedio impugnatorio invocabile avverso i "vizi propri" (processuali) dell'ordinanza de qua.

Sembra opportuno, allora, ancor prima di esaminare il contenuto della suddetta interessante statuizione, fare un passo indietro per ricordare il contesto dottrinale e giurisprudenziale sul quale, con riguardo a questo specifico aspetto (così prescindendosi, in questa sede, per intuibili ragioni di sintesi, dalla trattazione, se non nei limiti di quanto si rivelerà strettamente necessario, dei presupposti e dei limiti temporali dell'ordinanza predetta), la stessa sarebbe poi andata ad incidere.

2. Il contrasto, manifestatosi in dottrina e giurisprudenza, quanto al regime dell'ordinanza di inammissibilità.

Gli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. nulla dicono in ordine a possibili rimedi avverso l'ordinanza di "inammissibilità", ma prevedono che, a seguito della sua pronuncia, sia possibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado per i motivi di cui all'art. 360 c.p.c., ad esclusione del n. 5) laddove il giudice del gravame abbia giustificato la dichiarata "inammissibilità" sulle stesse ragioni di fatto che avevano fondato la decisione già impugnata con l'appello.

L'interprete deve, quindi, inevitabilmente interrogarsi sui rapporti tra il giudizio di appello, conclusosi con la predetta pronuncia di "inammissibilità" e l'instaurando giudizio di cassazione, con particolare riguardo al profilo delle censure deducibili con il ricorso per cassazione.

E qui il discorso si snoda in una duplice direzione, giacchè, da un lato, deve essere affrontata la questione relativa all'an ed al quomodo per dedurre (in cassazione ?) gli eventuali vizi dell'appello e dell'ordinanza conclusiva del giudizio; dall'altro, si propone la problematica concernente la possibilità di impugnare, o meno, con il ricorso per cassazione parti della sentenza di primo grado in precedenza non impugnate, ovvero di denunciarne vizi non sollevati con l'atto di appello.

Precisandosi, fin da ora, che, attese la specificità e la sinteticità doverosamente caratterizzanti il contenuto di questo breve scritto, tale seconda problematica non potrà essere in questa sede affrontata, la risposta al primo interrogativo ha profondamente diviso la dottrina perché, ferma l'impossibilità di censurare con l'impugnazione la valutazione del giudice sulla ricorrenza del presupposto della "non ragionevole probabilità di accoglimento", sulla quale sussiste un generale consenso, mentre alcuni commentatori hanno ritenuto l'ordinanza affetta da vizi autonomamente ricorribile in cassazione ex art. 111 Cost., altri, invece, sono stati dell'avviso che le suddette censure sarebbero (quasi sempre) deducibili attraverso il ricorso proposto contro la sentenza di prime cure.

E su tale apetto anche le prime pronunce rese dalla Suprema Corte sul punto si sono rivelate, tra loro, in dichiarato contrasto.

In particolare, secondo un orientamento (Sez. 6-2, n. 07273/2014, Giusti, rv. 630754), quell'ordinanza, se emanata nell'ambito suo proprio, cioè per manifesta infondatezza nel merito del gravame, non era ricorribile per cassazione, non avendo carattere definitivo, giacché il comma 3 dell'art. 348-ter consente di impugnare per cassazione il provvedimento di primo grado; viceversa, la stessa era ricorribile per cassazione ove avesse dichiarato l'inammissibilità dell'appello per ragioni processuali, avendo, in tal caso, carattere definitivo e valore di sentenza, in quanto la declaratoria di inammissibilità dell'appello per questioni di rito non può essere impugnata col provvedimento di primo grado e, ai sensi dell'art. 348bis c.p.c., deve essere pronunciata con sentenza.

Ad avviso di altro indirizzo interpretativo, invece (Sez. 6-3, n. 08940/2014, Frasca, rv. 630776), il ricorso per cassazione, sia ordinario che straordinario, non era mai esperibile avverso l'ordinanza de qua, e ciò a prescindere dalla circostanza che essa fosse stata emessa nei casi in cui ne era consentita l'adozione, ovvero al di fuori di essi, ostando, quanto all'esperibilità del ricorso ordinario, la lettera dell'art. 348-ter, comma 3, c.p.c. (che definisce impugnabile unicamente la sentenza di primo grado), e, quanto al ricorso straordinario, la non definitività dell'ordinanza, dovendosi valutare tale carattere con esclusivo riferimento alla situazione sostanziale dedotta in giudizio, della quale si chiede tutela, e non anche a situazioni aventi mero rilievo processuale, quali il diritto a che l'appello sia deciso con ordinanza soltanto nei casi consentiti, nonché al rispetto delle regole processuali fissate dall'art. 348-ter c.p.c..

Tutto ciò aveva, allora, indotto Sez. 6-2, n. 00223/2015, Giusti, a sollecitare l'intervento delle Sezioni Unite per risolvere il contrasto fin qui descritto.

3. I limiti della ricorribilità in Cassazione dell'ordinanza ex artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. come sanciti dalle Sezioni Unite.

Nel risolvere la riportata questione, Sez. U, n. 01914/2016, Di Iasi, rv. nn. da 638368 a 638370, ha affermato i seguenti principi: a) l'ordinanza di inammissibilità dell'appello resa ex art. 348-ter c.p.c. è ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., limitatamente ai vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale (quali, per mero esempio, l'inosservanza delle specifiche previsioni di cui agli artt. 348-bis, comma 2, e 348ter, commi 1, primo periodo e 2, primo periodo, c.p.c.), purché compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso; b) l'ordinanza di inammissibilità dell'appello resa ex art. 348-ter c.p.c. non è ricorribile per cassazione, nemmeno ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., ove si denunci l'omessa pronuncia su un motivo di gravame, attesa la natura complessiva del giudizio "prognostico" che la caratterizza, necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza ed a tutti i motivi di ciascuna di queste, ponendosi, eventualmente, in tale ipotesi, solo un problema di motivazione; c) la decisione che pronunci l'inammissibilità dell'appello per ragioni processuali, ancorché adottata con ordinanza richiamante l'art. 348-ter c.p.c. ed eventualmente nel rispetto della relativa procedura, è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, trattandosi, nella sostanza, di una sentenza di carattere processuale che, come tale, non contiene alcun giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito del gravame, differendo, così, dalle ipotesi in cui tale giudizio prognostico venga espresso, anche se, eventualmente, fuori dei casi normativamente previsti.

In particolare, le Sezioni Unite hanno preliminarmente ricordato, da un lato, che, ai sensi del comma 1 dell'art. 360 c.p.c., possono essere impugnate con ricorso per cassazione le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado (dovendo, pertanto, escludersi l'esperibilità del ricorso ordinario per cassazione avverso le ordinanze, fatti salvi eventuali casi di ordinanze aventi natura sostanziale di sentenza), nonché (giusta il disposto del comma 4 dell'art. 360 c.p.c.) le sentenze ed i provvedimenti diversi dalla sentenza avverso i quali sia ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge; dall'altro, che, avuto riguardo ai presupposti del ricorso per violazione di legge previsto dall'art. 111, comma 7, Cost., deve altresì escludersi che l'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. sia impugnabile con censure riguardanti il "merito" della controversia, giusta la previsione di ricorribilità per cassazione della sentenza di primo grado e quindi la non definitività, sotto questo profilo, dell'ordinanza predetta.

Ne hanno, quindi, tratto la conclusione che il contrasto de quo, nei termini di cui si è in precedenza dato conto, doveva essere circoscritto alla ricorribilità (o meno) di quell'ordinanza per vizi propri di carattere processuale, cioè alle ipotesi in cui, non essendo l'errore del giudice d'appello deducibile come motivo di impugnazione del provvedimento di primo grado, mancherebbe la possibilità di rimettere in discussione la tutela che compete alla situazione giuridica dedotta nel processo attraverso il ricorso per cassazione avverso la pronuncia di primo grado.

Tanto premesso, il collegio ha innanzitutto ritenuto di dover sgomberare il campo di indagine da possibili suggestioni indotte dalla costatazione che, come risulta con chiarezza anche dalla Relazione Illustrativa dell'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, le intenzioni del legislatore nell'introdurre gli articoli 348-bis e 348-ter c.p.c. erano volte alla creazione di un ennesimo strumento di semplificazione ed accelerazione del processo civile e che l'orientamento che esclude sempre l'impugnabilità dell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. appare certamente più conforme a tale intento perché, almeno prima facie, sembra idoneo ad evitare che uno strumento pensato per accelerare e semplificare si trasformi in una possibile fonte di complicazione del sistema e moltiplicazione delle impugnazioni.

Tale non del tutto ingiustificata suggestione è stata, tuttavia, giudicata come non determinante nella indagine in esame sul presupposto che «...non sempre la voluntas legislatoris coincide con la voluntas legis come realizzatasi nel testo legislativo, senza considerare che, se pure la direttiva interpretativa secondo l'intenzione del legislatore riflette l'antico topos dell'autorità, non rappresenta di certo criterio ermeneutico unico o prevalente, essendo peraltro appena il caso di sottolineare che l'intentio auctoris non potrebbe giammai legittimare una lettura delle norme in ipotesi contraria a costituzione....».

Successivamente, muovendo dal duplice rilievo che (a) risulta ormai da tempo chiarito che un provvedimento, ancorché emesso in forma di ordinanza o di decreto, assume carattere decisorio - requisito necessario per proporre ricorso ex art. 111 Cost. - quando pronuncia o, comunque, incide con efficacia di giudicato su diritti soggettivi, con la conseguenza che ogni provvedimento giudiziario che abbia i caratteri della decisorietà nei termini sopra esposti, nonché della definitività, - in quanto non altrimenti modificabile - può essere oggetto del ricorso predetto, e che (b), le ordinanze tra le quali si è ravvisato il contrasto in esame non pongono in discussione il concetto di decisorietà sopra riportato, né il fatto che tale carattere sia riscontrabile nell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. (non perché essa incide sul diritto processuale all'impugnazione ma perché è emessa in un giudizio vertente su situazioni di diritto soggettivo o delle quali è comunque prevista la piena giustiziabilità), le Sezioni Unite rimarcando che quel contrasto si era radicato, quindi, esclusivamente in relazione al significato da attribuire al presupposto della "definitività" dell'ordinanza in esame (come già evidenziatosi in precedenza), hanno ritenuto non condivisibile la spiegazione che, di tale concetto, è stata resa da Cass. n. 8940 del 2014 (secondo la quale, giova ribadirlo, tale sarebbe solo quella sulla situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo, con la conseguenza che finché quest'ultima sia ridiscutibile - nella specie con il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado - difetterebbe la definitività idonea a giustificare il ricorso straordinario).

Ciò, innanzitutto, in quanto essa non trova riscontro nel dato normativo costituzionale e neppure nella legislazione processuale ordinaria, né può ritenersi confermata dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, le quali, con le sentenze Sez. U, n. 03073/2003 e Sez. U, n. 11026/2003 (richiamate, peraltro, dalla medesima Cass. n. 08940/2014, benché deducendone conseguenze che il collegio non ha ritenuto, allo stato, di poter avallare), hanno, sia pure con differente grado di chiarezza, affermato che se il provvedimento al quale il processo è preordinato non ha carattere decisorio perché - non costituendo espressione del potere/ dovere del giudice di decidere controversie tra parti contrapposte, in cui ciascuna tenda all'accertamento di un proprio diritto soggettivo nei confronti dell'altra - non ha contenuto sostanziale di sentenza, analogo carattere non decisorio permane anche quando si faccia valere la lesione di un diritto processuale, in quanto la pronuncia sull'osservanza delle norme che regolano il processo ha necessariamente la medesima natura dell'atto giurisdizionale cui quest'ultimo è preordinato, e, quindi, ove esso sia privo di decisorietà, non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio, alla stregua della sua natura strumentale, sicchè le censure relative ad inosservanze di norme regolanti la procedura non possono utilizzare strumenti processuali diversi da quelli previsti per le doglianze relative al merito del giudizio.

Inoltre - hanno proseguito le Sezioni Unite - «...la già riportata opzione interpretativa di Cass. n. 8940 del 2014, troncando la potenziale corrispondenza tra l'ambito della decisorietà e quello della definitività attraverso una operazione ermeneutica non avallata dalla lettura dei citati precedenti giurisprudenziali, finisce per proporre una interpretazione ingiustificatamente riduttiva del comma 7 dell'art. 111 Cost., che rischia di non sottrarsi alle insidie di avventurosi paralogismi e potrebbe, in ipotesi, finire, di fatto, per ridurre l'ambito della denunciabilità, ai sensi dell'art. 111 comma 7 Cost., delle violazioni della legge processuale...».

La disciplina processuale vigente, però, non consente, allo stato, una simile lettura della "definitività" richiesta ai fini del ricorso straordinario per cassazione, risultando, peraltro, quest'ultima «...potenzialmente idonea a confondere o comunque sovrapporre due nozioni di definitività (e le ragioni ad esse sottese) che, pur riguardando entrambe il ricorso per cassazione, hanno motivo di rimanere concettualmente separate: la definitività di cui al comma 3 dell'art. 360 c.p.c. (questa sì ancorata ad un dato normativo esplicito) e la definitività che consente l'impugnazione straordinaria per violazione di legge ai sensi del comma 7 dell'art. 111 Cost., essendo evidente che, nel primo caso, è in discussione solo il "momento" dell'impugnazione, trattandosi comunque di sentenze impugnabili con ricorso ordinario per cassazione e la mancanza di "definitività" (nel senso che la decisione non "definisce" neppure parzialmente il giudizio) non elimina la ricorribilità con ricorso ordinario ma (in alcuni casi) la pospone prevedendola insieme con l'impugnazione della sentenza che invece "definisce almeno parzialmente il giudizio", mentre, nel secondo caso, si tratta di provvedimenti per i quali non è prevista alcuna forma di impugnazione ordinaria (neppure successiva), in ciò realizzandosi il presupposto della "definitività" (intesa come non modificabilità) in relazione al rimedio straordinario previsto dall'art. 111 Cost...».

Si è, peraltro, ritenuto di dover ricordare che, in sede di Assemblea costituente, si pervenne alla formulazione della previsione dell'art. 111, comma 7, Cost. dopo un'articolata discussione ed all'esito di una mediazione tra la proposta che intendeva configurare il ricorso per cassazione esclusivamente come garanzia individuale delle parti e quella volta ad affermare, attraverso la disposizione in parola, non solo lo ius litigatoris ma anche lo ius costitutionis.

Il ricorso per cassazione che ne è risultato costituisce perciò - ad avviso del collegio - «...un modello di impugnazione assolutamente peculiare, in cui (almeno finché la disposizione permanga nell'attuale testo) deve trovare spazio e ragione sia la funzione nomofilattica della Corte di cassazione sia la tutela del singolo cittadino contro le violazioni della legge commesse dai giudici di merito: rispetto a tale modello di ricorso (ed alle ragioni che ne hanno determinato la genesi) non può non risultare impropriamente riduttiva una interpretazione che escluda la possibilità di impugnare sempre, per le violazioni di legge commesse dai giudici di merito, i provvedimenti decisori che non siano altrimenti modificabili o censurabili...».

Ferme le considerazioni generali sopra esposte, si è poi ritenuto necessario evidenziare che la prospettazione di una sorta di relazione "asimmetrica" tra il requisito della decisorietà e quello della definitività richiesti per la ricorribilità ex art. 111 Cost. imporrebbe «... non solo che si precisi con chiarezza il tipo di relazione che si intende richiamare - individuandone esplicitamente i referenti normativi - ma soprattutto che si estenda l'indagine a tutti i possibili profili esegetici idonei a rendere non solo la tenuta speculativa ma anche la fecondità pratica di tale ipotizzata asimmetria...».

E, proprio sul versante "concreto" dell'indagine in esame, non può trascurarsi che il caso in cui - come nella specie - vi sia una pronuncia a carattere decisorio (siccome resa in un giudizio che verte su situazioni di diritto soggettivo o delle quali è comunque prevista la piena giustiziabilità) che non sia in sé altrimenti modificabile, ma che tuttavia non possa ritenersi definitiva con riferimento alla situazione sostanziale dedotta in giudizio, rappresenta, di fatto, un'ipotesi particolarissima, essenzialmente connessa all'assoluta novità che il meccanismo costituito dagli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c. ha introdotto nel nostro ordinamento, dovendosi, così, esaminare le conseguenze alle quali si giungerebbe aderendo all'una o all'altra delle soluzioni prospettate, per valutare se esse siano in concreto compatibili col sistema di valori ai quali si è ispirato il legislatore costituente nel disciplinare il ricorso straordinario per cassazione nell'ambito dei principi fondamentali del processo, e, perciò, verificare l'astratta configurabilità di ipotetici limiti al concetto di definitività, quale presupposto per il ricorso straordinario ex art. 111 Cost., anche in relazione alle censure in concreto ipotizzabili con riguardo all'ordinanza in discussione.

Orbene, alla stregua della disciplina risultante dagli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., il soccombente che si è visto dichiarare inammissibile l'appello con l'ordinanza di cui all'art. 348ter c.p.c., proponendo ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, non può ovviamente che dedurre motivi attinenti a quella decisione e non può, quindi, far valere censure riguardanti eventuali errores in procedendo commessi dal giudice d'appello, posto che, per poter conseguire una pronuncia su tali eventuali, errori l'unica possibilità sarebbe quella di impugnare il provvedimento che pone termine al procedimento di appello, ossia l'ordinanza declaratoria dell'inammissibilità dello stesso.

Se tale ordinanza non fosse impugnabile, non sarebbe, perciò, in alcun modo sindacabile la decisione che "nega" alla parte il giudizio d'appello, vale a dire l'impugnazione idonea a provocare un riesame della causa nel merito non limitato al controllo di vizi specifici ma inteso ad introdurre un secondo grado in cui il giudizio può essere interamente rinnovato non in funzione dell'esame della sentenza di primo grado ma come nuovo esame della controversia, sia pure nei limiti del proposto appello.

È vero - hanno rimarcato le Sezioni Unite - che non è previsto alcun diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio di secondo grado inteso come diritto ad un nuovo esame della causa nel merito, onde il legislatore ordinario ben avrebbe la possibilità di eliminare completamente il giudizio di appello ovvero di escluderlo in relazione a specifiche controversie ed a cagione delle relative peculiarità o ancora, come nella specie, di prevederne l'inammissibilità sulla base di un giudizio prognostico affidato al giudice d'appello nella ricorrenza di determinate circostanze e nel rispetto di una specifica procedura.

In tale ultimo caso, tuttavia, l'esclusione di ogni possibile controllo sul rispetto di limiti, termini e forme previsti dal legislatore per la decisione prognostica affidata al giudice d'appello equivarrebbe a lasciare al mero arbitrio di quest'ultimo la possibilità che la parte fruisca di un giudizio di secondo grado, in quanto la mancanza di ogni possibile impugnazione - sia pure straordinaria - finirebbe per determinare di fatto l'impossibilità di verificare la correttezza della decisione, e, a fortiori, la "giustificatezza", rispetto a regole date, della disparità di trattamento tra coloro che hanno potuto fruire dell'appello e chi non ha potuto fruirne.

Peraltro, lasciare che, senza alcun potenziale controllo, il giudice d'appello resti arbitro di decidere se la parte possa, o meno, fruire del giudizio di secondo grado, potrebbe, in prospettiva, determinare una sorta di incontrollabile soppressione "di fatto" del procedimento di gravame, finendo in pratica per privare le parti di tale impugnazione anche oltre le ipotesi ed i limiti previsti dal legislatore e per scaricare sulla Corte di cassazione questioni che (alla stregua della disciplina vigente, non contemplante una generalizzata ricorribilità per saltum) potrebbero e dovrebbero essere "filtrate" attraverso il giudizio d'appello, mentre la previsione della impugnabilità dell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. ne faciliterebbe un utilizzo "fisiologico", evitando possibili arbitrii ed ingiustificate disparità di trattamento, e senza che, in concreto, ciò arrechi un aggravio particolarmente rilevante per la Suprema Corte di cassazione (se si pensa che la mera possibilità di impugnazione dell'ordinanza, scongiurando un ipotetico uso abnorme e incontrollato dell'istituto, potrebbe ridurre in prospettiva agguerrite, complesse ed "improprie" impugnazioni in cassazione della sentenza di primo grado, riguarderebbe in ogni caso ipotesi limitate e questioni di pronta soluzione - siccome esclusivamente riferibili ad alcuni vizi processuali propri dell'ordinanza - e potrebbe essere esaminata dalla Corte di cassazione - come nella specie - insieme alla eventuale impugnazione della sentenza di primo grado, in alcuni casi potendo la relativa decisione risultare "assorbente" rispetto all'esame di quest'ultima).

In altri termini, secondo il collegio «....rendere incontrollabile una decisione che, escludendo la possibilità di esperire un giudizio di secondo grado, ha indiscutibilmente la potenzialità di determinare l'esito della lite (o comunque influire in maniera rilevante su di esso) significherebbe sottrarla al fisiologico percorso potenzialmente "correttivo" assicurato attraverso il sistema delle impugnazioni (anche "straordinarie") e consegnare quindi le ragioni della parte che, senza il rispetto delle regole previste, sia stata privata del mezzo di gravame in parola, esclusivamente - concorrendone i presupposti - ad una eventuale azione risarcitoria, tra l'altro con indubbio effetto moltiplicativo del contenzioso...».

Anche alla luce di tali considerazioni, valutate in riferimento alla particolare realtà processuale delineata dagli artt. 348-bis e 348-ter c.p.c., le Sezioni Unite hanno, dunque, optato per l'impugnabilità, ex art. 111 Cost., dell'ordinanza suddetta per vizi propri consistenti in violazione della normativa processuale, ritenendo, però, di dover precisare che non tutti gli errores in procedendo astrattamente ipotizzabili con riferimento ad una decisione giurisdizionale sono compatibili con la peculiare disciplina introdotta dagli artt. 348-bis e 348-ter citati e che, d'altro canto, non sempre avverso tali errori il ricorso straordinario si rivela l'unico rimedio esperibile.

Fermo quanto precede, tra gli errores in procedendo denunciabili in relazione all'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. sono stati individuati, innanzitutto, quelli derivanti dall'inosservanza delle specifiche previsioni rinvenibili nei medesimi artt. 348-bis e 348-ter.

In particolare, occorre considerare che, giusta l'art. 348-bis, l'ordinanza in esame, essendo, nelle intenzioni del legislatore, uno strumento di semplificazione e di accelerazione inteso alla riduzione dei tempi necessari per la definizione delle cause civili, può essere pronunciata nella fase iniziale del processo "all'udienza di cui all'art. 350..., prima di procedere alla trattazione, sentite le parti" e che, pertanto, la pronuncia di tale ordinanza oltre il suddetto termine, ovvero senza aver sentito le parti, sicuramente costituisce error in procedendo che non potrebbe essere fatto valere altrimenti che attraverso il ricorso straordinario.

L'art. 348-bis, comma 2, poi, esclude il "filtro" per le cause in cui è obbligatorio l'intervento del Pubblico Ministero, ex art. 70, comma 1, c.p.c., e per quelle che in primo grado si sono svolte secondo il rito sommario di cognizione, mentre l'art. 348-ter, comma 2, prevede che, in presenza di un appello principale e di un gravame incidentale, l'ordinanza di inammissibilità è pronunciata a condizione che per entrambe le impugnazioni ricorrano, appunto, "i presupposti di cui all'art. 348-bis, comma 1", essendo, in mancanza, il giudice tenuto a procedere "alla trattazione di tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza".

E non vi è dubbio che anche il mancato rispetto delle suddette regole comporti altrettante violazioni della norma processuale che non potrebbero essere fatte valere se non attraverso il ricorso straordinario.

Particolare attenzione le Sezioni Unite hanno riservato al comma 1 dell'art. 348-ter c.p.c., laddove si precisa che l'ordinanza in questione non può essere pronunciata se non "fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello" e quando l'impugnazione non ha "una ragionevole probabilità di essere accolta", così chiaramente limitando l'ambito applicativo dell'ordinanza medesima a quello dell'impugnazione manifestamente infondata nel merito.

Infatti, se la suddetta ordinanza è prevista solo nelle ipotesi in cui viene emesso un giudizio prognostico sfavorevole circa la possibilità di accoglimento dell'impugnazione nel merito, la decisione che pronunci, invece, l'inammissibilità dell'appello per ragioni di carattere processuale - ancorché erroneamente con ordinanza, richiamando l'art. 348-ter c.p.c. e, in ipotesi, pure nel rispetto della relativa procedura - è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, perciò senza neppure la necessità di valutare la sussistenza dei presupposti per la proposizione del ricorso straordinario, trattandosi, nella sostanza, di una sentenza di carattere processuale che non contiene alcun giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito della impugnazione e perciò differisce dalle ordinanze in cui tale giudizio prognostico viene espresso, anche se, eventualmente, fuori dei casi normativamente previsti.

A quelle finora esaminate devono, poi, aggiungersi ulteriori ipotesi di violazione delle previsioni dettate per disciplinare l'ordinanza in questione, ancorché implicite siccome non espressamente previste dai citati artt. 348-bis e 348-ter ma indirettamente ricavabili dal sistema delineato in proposito dal legislatore: ci si riferisce alle ipotesi in cui l'appello è fondato su ius superveniens o fatti sopravvenuti (ad esempio, sopravvenienza di norme interpretative, sentenze della Corte costituzionale, o fatti che avrebbero legittimato, avverso sentenze pronunciate in appello o unico grado, la denuncia di alcuni vizi revocatori).

Ciò in quanto il giudizio prognostico sfavorevole espresso dal giudice d'appello nell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. si sostanzia nella conferma di una sentenza "giusta" per essere l'appello prima facie destituito di fondamento, e non potrebbe, pertanto, intervenire rispetto a norme o fatti che non siano stati considerati dal giudice di primo grado.

Infine, alla stregua delle considerazioni finora espresse circa il fondamento e le ragioni della ricorribilità dell'ordinanza in esame ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., non può escludersi la denunciabilità degli errores in procedendo riferibili ad ogni altro provvedimento giudiziario, ovviamente, come rilevato, nei limiti della compatibilità logica e/o strutturale dei medesimi con il contenuto tipico della decisione espressa nell'ordinanza suddetta, ed a tale ultimo proposito viene innanzitutto in considerazione la violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione ai vizi di omessa pronuncia, ultrapetizione ed extra petizione.

Soffermandosi, in particolare (per il rilievo indiretto che la questione avrebbe assunto per la decisione del merito della controversia sottoposta al loro esame), sulla omessa pronuncia, le Sezioni Unite hanno ritenuto che, nell'ipotesi di ordinanza ai sensi dell'art. 348ter c.p.c., in cui non è possibile una pronuncia di inammissibilità dell'impugnazione per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento se non in relazione a tutti i motivi d'appello (ed a tutti gli appelli proposti avverso la medesima sentenza), non risulta pertanto neppure configurabile una omessa pronuncia riguardo a singoli motivi di appello, potendo eventualmente porsi (nei limiti e nei termini in cui sia consentito dalla legislazione vigente) soltanto un problema di motivazione della decisione - necessariamente complessiva - assunta.

Per quanto riguarda, da ultimo, gli eventuali errori processuali configurabili in riferimento alla statuizione sulle spese contenuta nell'ordinanza in questione, si è preliminarmente evidenziato che tale decisione non può risultare in alcun modo "coinvolta" dall'esito del ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, non potendo a tale ipotesi riferirsi l'effetto espansivo cd. "esterno" previsto dal comma 2 dell'art. 336 c.p.c., posto che la cassazione giudica su di una impugnazione che, pur essendo proposta avverso la medesima sentenza di primo grado, è oggettivamente diversa da quella sulla quale ha giudicato il giudice d'appello e che l'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. non può assimilarsi ai "provvedimenti e atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata" ai quali, secondo il citato comma secondo dell'art. 336 c.p.c., devono ritenersi estesi gli effetti della riforma o della cassazione della sentenza.

La statuizione sulle spese contenuta nell'ordinanza suddetta può, perciò, essere rimessa in discussione (ai sensi del comma 1 del citato art. 336 c.p.c.) soltanto se -ammessa l'impugnabilità dell'ordinanza medesima - l'impugnazione venga accolta, oppure se vi sia stata impugnazione con espresso riguardo a detta statuizione (ad es. da parte del vincitore che lamenti una impropria compensazione ovvero una liquidazione inferiore al minimo previsto o anche da parte del soccombente che lamenti una liquidazione eccessiva).

In tal caso - hanno concluso le Sezioni Unite - non vi è ragione alcuna (giuridica, logica e/o "pratica") per escludere l'impugnabilità dell'ordinanza in questione, risultando, del resto, difficilmente condivisibili (non fosse altro perché "improprie" e comunque idonee a moltiplicare il numero dei processi e dei giudici chiamati a conoscerne) impugnazioni alternative da proporsi in sede esecutiva o attraverso apposito giudizio di cognizione (con tutte le impugnazioni relativamente previste).

4. Brevi osservazioni.

Le Sezioni Unite, come si è visto, hanno ammesso, sebbene nei limiti finora descritti, la ricorribilità dell'ordinanza di inamissibilità ex art. 348-ter c.p.c. esclusivamente per vizi suoi propri di carattere processuale.

Qualche riflessione merita, però, anche la questione della ricorribilità della medesima ordinanza per la sindacabilità da parte dei giudici della legittimità della sussistenza di una ''ragionevole probabilità'' di infondatezza.

Su quest'aspetto problematico, in verità, le Sezioni Unite prendono posizione in maniera chiara nel senso di escludere qualsiasi sindacabilità della valutazione compiuta dal giudice d'appello, e ciò sulla base della condivisibile considerazione che quest'ultima si estrinseca in un vero e proprio giudizio prognostico, come tale difficile da sottoporre a controllo esterno.

Si è però osservato [Carratta, 2016, 1382 e ss .], che una siffatta argomentazione, sebbene inoppugnabile, non risolve il problema della sindacabilità dell'operato del giudice nel compimento di tale giudizio prognostico.

Invero, anche quanto alla contestazione della sussistenza di questo elemento, la ricorribilità diretta dell'ordinanza andrebbe ammessa, sebbene anche qui con opportuni limiti.

Se con la pronuncia dichiarativa dell'inammissibilità dell'appello proposto per mancanza di una ''ragionevole probabilità di essere accolto'' il giudice d'appello, di fatto, decide sulla fondatezza, o meno, di un diritto sostanziale (lo stesso sul quale si è pronunciata la sentenza appellata), la sindacabilità in cassazione dell'ordinanza del giudice d'appello andrebbe ammessa anche con riguardo all'assenza o alla non corretta applicazione di tutti i presupposti richiamati dall'art. 348-bis c.p.c. per consentire di pervenire ad una decisione ''semplificata'' dell'appello proposto.

È indubbio, infatti, che anche con riferimento ad una simile ipotesi (non corretta valutazione della mancanza di una ''ragionevole probabilità'' di accoglimento dell'appello proposto) l'ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità è stata emessa all'esito del procedimento decisorio ''semplificato'' previsto per il ''filtro'', senza la piena e completa esplicazione del diritto di difesa e del contraddittorio che si sarebbe avuta ove la sentenza fosse stata emessa ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c. oppure seguendo il procedimento ordinario ex art. 352 c.p.c.: anche in relazione a tale profilo, di conseguenza, l'ordinanza assume, nella ''sostanza'', l'efficacia propria della sentenza definitiva di rigetto nel merito dell'appello proposto.

Occorre intendersi, tuttavia, sulla sindacabilità da parte del giudice della legittimità di questo particolare presupposto del ''filtro'' [Carratta, 2016, 1382 e ss .].

Infatti, quella circa l'insussistenza di una ''ragionevole probabilità'' di fondatezza dell'appello è una valutazione - come appare evidente - di natura prognostica e, come tale, sottratta al controllo diretto del giudice della legittimità.

Quindi, non è nella direzione del ''merito'' della valutazione prognostica compiuta dal giudice d'appello che potrebbe rivolgersi il sindacato della Corte.

Non si può escludere, tuttavia, che tale valutazione risulti corroborata dal giudice d'appello con riferimento ad elementi di fatto e/o di diritto non corretti.

Se così avesse operato il giudice d'appello, anche il presupposto dell'assenza di una ''ragionevole probabilità'' di accoglimento, pur formalmente affermato sussistente, nella sostanza mancherebbe, aprendo ancora una volta la strada alla possibilità di ricorso diretto avverso l'ordinanza-filtro. Si pensi, ad esempio, all'ipotesi in cui la valutazione del giudice d'appello sia fondata sull'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che configurerebbe il vizio di cui al n. 5 dell'art. 360 c.p.c., o a quella in cui detta valutazione si basi su un'erronea applicazione o interpretazione di una norma di diritto sostanziale, che integrerebbe il vizio di cui al n. 3 del medesimo articolo. O, ancora, si pensi all'ipotesi in cui il giudice d'appello sia incorso in omissione di pronuncia rispetto a qualcuno dei motivi di appello proposti e questo - come evidenziano le stesse Sezioni Unite - abbia determinato un vizio di motivazione dell'ordinanza.

Ebbene, sembra difficile escludere che anche in queste situazioni, proprio per la presenza di vizi propri dell'ordinanza, sebbene riferibili alla non corretta valutazione dell'assenza di una ''ragionevole probabilità'' di accoglimento dell'appello, la parte possa sindacare davanti al giudice della legittimità l'operato del giudice d'appello.

Non è mancato, peraltro, chi [Tiscini, 2016, 1141], ha rimarcato che, quanto alla violazione dell'art. 112 c.p.c. (error in procedendo e perciò astrattamente rientrante nell'ambito del ricorso straordinario), le Sezioni Unite hanno precisato che intorno all'ordinanza dell'art. 348-ter c.p.c. non si possa contemplare il vizio di omessa pronuncia, concretamente delineabile solo in presenza di impugnazioni articolate su più motivi di cui il giudice abbia esaminato solo alcuni. Dal momento che l'ordinanza di inammissibilità opera solo quando la mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento sussiste in relazione a tutti i motivi di appello, «...non risulta pertanto neppure configurabile una omessa pronuncia riguardo a singoli motivi di appello, potendo eventualmente porsi (nei limiti e nei termini in cui sia consentito dalla legislazione vigente) soltanto un problema di motivazione della decisione - necessariamente complessiva - assunta...».

Ma la lettura così offerta del vizio motivazionale non sposta di molto i termini della questione, quanto all'impugnabilità in cassazione. Quale che ne sia la qualificazione (omessa pronuncia o difetto di motivazione), si tratta pur sempre di error in procedendo, "vizio proprio" dell'ordinanza denunciabile direttamente con il ricorso straordinario nei termini visti [Tiscini, 2016, 1141].

Da ultimo, va sottolineato che le Sezioni Unite hanno espressamente indicato tra le ragioni di autonoma impugnabilità dell'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c. la pronuncia della medesima oltre il termine previsto dalla norma esemplificabile nella formula "prima di procedere alla trattazione", ovvero prima di procedere alla verifica della regolarità del contraddittorio ex art. 350, comma 2, c.p.c. ed agli adempimenti di cui al successivo comma 3, oltre che alla trattazione vera e propria.

L'indicazione che delimita lo spatium processuale all'interno del quale può procedersi all'adozione dell'ordinanza filtro si completa con quella desumibile dall'art. 348-ter comma 2, che ne definisce il limite iniziale da non oltrepassare (lo spirare del termine per l'impugnazione incidentale).

Non può sottacersi, tuttavia, che recentemente, Sez. 3, n. 12293/2016, rv. 640215, Graziosi, ha ritenuto validamente adottata l'ordinanza predetta prima della scadenza del termine per l'impugnazione incidentale sul rilievo della mancanza d'interesse a far valere il vizio da parte del ricorrente (in precedenza appellante).

Se ne deve inferire che qualora la censura fosse stata posta dall'appellato si sarebbe rilevato un deficit del contraddittorio produttivo dell'invalidità del provvedimento adottato.

Il profilo della sequenza procedimentale all'interno della quale può essere adottata la predetta ordinanza assume un diverso rilievo in ordine alle modalità di realizzazione concreta del contraddittorio che deve precedere la decisione ex art. 348-ter c.p.c., garantita dal riferimento testuale "sentite le parti" (da intendersi ovviamente costituite) contenuto nell'art. 348-ter, comma 1, c.p.c..

Al riguardo la menzionata pronuncia n. 12293 ha ritenuto l'insussistenza di una lesione effettiva del diritto di difesa nell'adozione del provvedimento all'esito di un'udienza "dedicata" alla conferma, modifica o revoca del provvedimento d'inibitoria, assunto inaudita altera parte, ex art. 351, comma 3, c.p.c..

A sostegno della soluzione adottata è stato rilevato che la valutazione dell'ammissibilità dell'appello sotto il profilo prognostico costituisce un vaglio obbligatorio officioso al pari delle altre verifiche di rito ex art. 350, comma 2 e 3, c.p.c., ancorché anticipata rispetto a queste ultime; che, al fine di assumere la decisione ex art. 348-ter c.p.c. non è necessario attivare un sub procedimento incidentale dedicato esclusivamente a tale adempimento; che il rispetto del contraddittorio non s'identifica con la predeterminazione dell'oggetto del contraddittorio medesimo; che la cognizione di natura sommaria, alla base della decisione sull'inibitoria non è diversa dal giudizio prognostico ex art. 348-ter c.p.c. e l'aver attivato la discussione sulla prima è sufficiente a decidere anche in ordine alla seconda; che la valutazione prognostica positiva giustifica la conferma dell'inibitoria, quella negativa l'ordinanza ex art. 348-ter c.p.c.; che entrambe le valutazioni si fondano su un accertamento di tipo prognostico, ancorché incompleto.

Si deve osservare, tuttavia, che per evitare l'eterogenesi dei fini, sarebbe senz'altro auspicabile l'indicazione preventiva in contraddittorio della gamma di decisioni che possono essere assunte in limine litis, anche senza scandirle in più di un'udienza, rivelandosi, infine, nettamente preferibili (e, del resto, molte corti d'appello hanno adottato tale modulo organizzativo) soluzioni organizzative di smistamento preventivo delle cause a seconda del binario ad esse proprio (inibitoria, ordinanza ex art. 348-ter c.p.c.; sentenza ex artt. 281-sexies e 351, commi 1 e 4, c.p.c., sostitutiva della decisione sull'inibitoria, o assunta per altre ragioni impedienti la prosecuzione del giudizio ma non rientranti nell'ambito di applicazione dell'art. 348-ter c.p.c.; sentenza assunta all'esito della piena trattazione, da riservarsi a cause caratterizzate da complessità di decisione).

. BIBLIOGRAFIA

CARRATTA A., Le Sezioni Unite e i limiti di ricorribilità in Cassazione dell'ordinanza sul "filtro in appello", in Giurisp. it., Giugno 2016, 1378 e ss.

TISCINI R., Impugnabilità dell'ordinanza filtro per vizi propri. L'apertura delle Sezioni Unite al ricorso straordinario, in Corr. giur., 2016, 8-9, 1132 e ss.

  • giurisdizione arbitrale

CAPITOLO XIII

IMPUGNAZIONE DEL LODO PER ERRORI DI DIRITTO E REGIME TRANSITORIO

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa: la questione di diritto e la sua duplice rilevanza. - 2 Le ragioni del contrasto ed i principi sanciti dalle S.U. - 3 Percorso logico-giuridico seguito dalla S.C. e spunti di riflessione de iure condito e de iure condendo. - 3.1 Lo scrutinio di costituzionalità. - 3.2 Ripercussioni della tesi del "vecchio regime". - BIBLIOGRAFIA

1. Premessa: la questione di diritto e la sua duplice rilevanza.

In forza delle ordinanze interlocutorie Sez. 1, n. 25039/2015, n. 25040/2015 e n. 25662/2015 (non massimate) è rimessa alle S.U. la questione di diritto relativa all'applicabilità dell'art. 829, comma 3, c.p.c., nel testo introdotto dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ai procedimenti arbitrali promossi successivamente alla sua entrata in vigore ma la cui convenzione arbitrale sia stata stipulata in data anteriore. Il contrasto verte, dunque, sull'interpretazione e sulla portata della disciplina transitoria esplicitamente prevista dall'art. 27, commi 3 e 4, del citato decreto (di riforma dell'arbitrato) la quale distingue le norme introdotte dall'art. 20 del medesimo decreto, relative alla convenzione di arbitrato, da quelle di cui agli artt. 21, 22, 23, 24 e 25, inerenti il giudizio arbitrale ed in particolare anche il novellato art. 829 c.p.c.

Nell'attualità la questione ha una duplice rilevanza, de iure condito ma anche de iure condendo, in ragione dell'emananda riforma dell'arbitrato, oggetto del più ampio disegno di legge delega per la riforma del processo civile, presentato alla Camera l'11 marzo 2015. Quest'ultimo difatti prevede, tra i criteri direttivi, il potenziamento dell'istituto dell'arbitrato anche attraverso l'eventuale estensione del meccanismo della translatio iudicii, ai rapporti tra processo ed arbitrato, nonché attraverso la razionalizzazione della disciplina dell'impugnativa del lodo arbitrale.

2. Le ragioni del contrasto ed i principi sanciti dalle S.U.

Secondo un primo orientamento, il nuovo regime impugnatorio non sarebbe applicabile nel caso di convenzione arbitrale antecedente all'entrata in vigore della riforma, in applicazione del generale principio sancito dall'art. 11 preleggi ed in ragione dell'incostituzionalità della specifica norma transitoria, di cui all'art. 27, comma 4, d.lgs. n. 40 del 2006, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., se interpretata nel senso dell'applicabilità del "nuovo regime" (si veda, ex plurimis, Sez. 1, n. 06148/2012, Rv. 622519) [Nela, 2009, 919, e Petrillo, 2009, 1088].

Il contrapposto orientamento, condiviso dalla quasi unanime giurisprudenza di merito, si fonda invece sul "chiarissimo" disposto letterale della citata norma transitoria, considerato anche conforme ad una lettura logico-sistematica, teleologica e storica della norma, oltre che a Costituzione, a "Convenzione" ed alla natura giurisdizionale e non negoziale del lodo rituale e del relativo procedimento arbitrale (si veda, ex plurimis, Sez. 6-1, n. 21205/2013, Rv. 627936).

Le Sez. U, n. 09284/2016, Rv. 639686, Sez. U, n. 09285/2016, Rv. 639687, e Sez. U, n. 09342/2016 (non massimata), risolvono il contrasto, seguendo un autonomo percorso argomentativo, sancendo principi massimati da questo Ufficio nei termini che seguono. «In tema di arbitrato, l'art. 829, comma 3, c.p.c., come riformulato dall'art. 24 del d.lgs. n. 40 del 2006, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all'art. 27 del d.lgs. n. 40 cit., a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l'entrata in vigore della novella, ma, per stabilire se sia ammissibile l'impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, la legge - cui l'art. 829, comma 3, c.p.c., rinvia - va identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato, sicché, in caso di convenzione cd. di diritto comune stipulata anteriormente all'entrata in vigore della nuova disciplina, nel silenzio delle parti deve intendersi ammissibile l'impugnazione del lodo, così disponendo l'art. 829, comma 2, c.p.c., nel testo previgente, salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile. ...»...«In caso di clausola compromissoria societaria, inserita nello statuto anteriormente alla novella, è ammissibile l'impugnazione del lodo per "errores in iudicando" ove "gli arbitri, per decidere, abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità delle delibere assembleari", così espressamente disponendo la legge di rinvio, da identificarsi con l'art. 36 del d.lgs. n. 5 del 2003».

3. Percorso logico-giuridico seguito dalla S.C. e spunti di riflessione de iure condito e de iure condendo.

Evidenziata la questione di diritto, dato atto del contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità si è esplicitato l'iter logico-giuridico seguito dalle S.U. per concludere con i presenti spunti di riflessione che l'importante intervento della S.C. suscita, come detto, de iure condito oltre che in vista della redigenda riforma dell'arbitrato.

Il contrasto interpretativo, ancorché denunciato con riferimento alla norma transitoria di cui all'art. 27 d.lgs. n. 40 del 2006, per le S.U. deve trovare la sua risoluzione nell'interpretazione del riformato art. 829, comma 3, c.p.c.. È infatti indiscutibile la portata del citato art. 27, nel senso di rendere applicabile il nuovo regime impugnatorio per errores in iudicando ai soli arbitrati azionati successivamente all'entrata in vigore della riforme del 2006 ancorché fondanti su convenzioni arbitrali stipulate antecedentemente a tale data.

La statuizione delle S.U. di cui innanzi coglie le ragioni del contrasto, pur non esplicitandone le argomentazioni e rifacendosi alla "chiara" disposizione transitoria.

Tentando ora di esplicitare le dette ragioni, in quanto rilevanti per i presenti spunti di riflessione, deve rilevarsi che il legislatore delegato dispone, per i giudizi arbitrali ancora da azionare alla data di entrata in vigore della riforma, l'applicabilità esclusiva delle nuove disposizioni procedimentali. Il d.lgs. n. 40 del 2006 sembrerebbe quindi aver inteso disciplinare in materia unitaria tutti i procedimenti arbitrali sorti a partire dall'entrata in vigore della riforma, ancorché fondati su convenzioni arbitrali preesistenti, anche con riferimento alla disciplina dell'impugnabilità degli errores in iudicando, di cui al riformato art. 829, comma 3, c.p.c.. Tale disciplina, difatti, pur potendo essere, entro certi limiti, oggetto di accordo tra le parti, non attiene alla convenzione arbitrale nella sua essenza di presupposto del giudizio arbitrale ed è oggetto di specifica direttiva con legge delega n. 80 del 2005. Il legislatore, sia delegante che delegato, attribuisce infatti alla disciplina dell'impugnazione per nullità la funzione di conferire maggiore stabilità ai lodi rituali e, quindi, maggiore appetibilità all'arbitrato, quale procedimento avente natura giurisdizionale. La finalità è quella di deflazionare la giustizia civile ordinaria, così concorrendo ad attuare il principio costituzionale e "convenzionale" della ragionevole durata del processo ordinario (con le positive ricadute anche in termini di attrattiva per investimenti, in ipotesi, anche provenienti dall'estero).

Si potrebbe ritenere dunque interpretabile il combinato disposto degli artt. 829, comma 3, c.p.c. e 27 del d.lgs. n. 40 del 2006 nel senso che il nuovo regime di impugnabilità del lodo per errores in iudicando, al pari di tutte le altre nuove norme che regolano il giudizio arbitrale, sia applicabile ai procedimenti arbitrali azionati successivamente alla riforma, ancorché fondati su convenzioni precedenti ad essa. Il detto regime di impugnazione, pur potendo avere un collegamento con la volontà delle parti in termini di previsione dell'impugnabilità, in ipotesi anche contenuta nella convenzione di arbitrato, non afferisce alla convenzione arbitrale nella sua essenza di presupposto del giudizio arbitrale.

L'intervento delle S.U., premessa l'applicabilità del riformato art. 829 c.p.c. anche alle convenzioni arbitrali antecedenti la riforma del 2006, in forza della norma transitoria di cui al citato art. 27, sostanzialmente "sostituisce" la norma transitoria prevista dal legislatore delegato con una di portata opposta, identificandola nello stesso riformato comma 3 dell'art. 829 c.p.c..

La S.C. evidenzia, difatti, che la "legge", alla quale il riformato art. 829, comma 3, c.p.c., fa riferimento al fine di rendere ammissibile l'impugnazione del lodo per i detti motivi di diritto, deve necessariamente essere differente dallo stesso citato comma 3, il quale ammette l'impugnazione del lodo per errores in iudicando nel caso di espressa previsione delle parti o della legge. Deve altresì trattarsi della legge che disciplina la convenzione d'arbitrato, in quanto essa definisce, anche per volontà delle parti, i limiti di impugnabilità del loto, ma vigente nel momento in cui la convenzione viene stipulata. Solo la legge vigente in quel momento può quindi ascrivere al silenzio delle parti un significato normativamente predeterminato.

Il chiarimento delle S.U. di cui innanzi priva di efficacia, sostanzialmente riscrivendola, la norma transitoria di cui all'art. 27, comma 4, d.lgs. n. 40 del 2006, che, invece per stessa statuizione del Supremo consesso, implicherebbe l'applicazione del "vecchio regime" impugnatorio anche nel caso di convenzioni antecedenti alla riforma.

Potrebbe considerarsi altresì che, comunque, il nuovo art. 829 comma 3, c.p.c., utilizzando la particella disgiuntiva "o", fa riferimento, circa il regime impugnatorio, sia all'espressa volontà delle parti sia a disposizione di legge. Per quest'ultima potrebbe quindi intendersi espressa previsione legislativa di impugnabilità per errores in iudicando, quale potrebbe essere, in ipotesi, l'art. 36 del d.lgs. n. 5 del 2003 per il c.d. arbitrato societario, e non la legge che disciplina e regola la convenzione arbitrale quale frutto della volontà delle parti. Diversamente opinando si interpreterebbe la norma nel senso di farle prevedere un'inutile duplicazione di riferimenti.

Le S.U. argomentano altresì muovendo dall'assunto in forza del quale il silenzio è comportamento di per sé neutro, potendo quindi solo il contesto normativo preesistente attribuirgli un particolare significato, ed ambiguo, potendo assumere un significato convenzionale solo in ragione del contesto, anche normativo, proprio del luogo e del momento dell'azione.

Particolari spunti di riflessione, quindi, potrebbero sorgere dalla disamina delle argomentazioni delle S.U circa la valutazione del comportamento silente delle parti, di cui innanzi.

In primo luogo, la S.C. fa esplicito riferimento all'art. 1368, comma 2, c.c. che, però, prevede un criterio di interpretazione di clausole ambigue. Circostanza, quest'ultima, difficilmente rinvenibile nel caso che ci occupa, non essendovi ambiguità circa gli effetti negoziali del silenzio delle parti, sia antecedentemente che successivamente alla riforma del 2006, ma dubbi solo in ordine alla portata della norma transitoria in esame. Sarebbe forse condivisibile il richiamo al diverso art. 1339 c.c., nella sua applicazione con riferimento ai contratti di durata o ad esecuzione differita, con conseguente sopravvenuta inefficacia della "tacita clausola di impugnabilità" e sua sostituzione con la "clausola di non impugnabilità" (si veda, ex plurimis, Sez. 3, n. 01689/2006, Rv. 587843).

Il principio di diritto di cui innanzi si attaglia al caso in esame, al fine di verificare, ed in ipotesi escludere, eventuali effetti sostanziali retroattivi indiretti della norma transitoria sulle convenzioni arbitrali antecedenti alla riforma del 2006.

Si deve necessariamente considerare, difatti, che quello in esame è un intervento del legislatore in materia di procedimento avente natura giurisdizionale e, quindi, caratterizzato da norme preordinate alla risoluzione di controversie da parte di soggetti, gli arbitri, in posizione di terzietà e nel rispetto delle regole del contraddittorio e, quindi, della parità delle armi. L'inversione del rapporto tra regola ed eccezione, operato con il nuovo art. 829, comma 3, c.p.c., dunque, potrebbe essere letto, con riferimento alle convenzioni arbitrali antecedenti alla riforma, come frutto di norma imperativa di diritto pubblico (processuale) in quanto regolante il procedimento arbitrale. L'imperatività della norma (nuovo comma 3 dell'art. 829 c.p.c.) non esclude infatti che il regime impugnatorio, in forza della stessa previsione legislativa, possa essere derogabile dalle parti, contrattuali o processuali, a determinate condizioni, attagliandosi ciò, peraltro, perfettamente all'arbitrato. Deve altresì considerarsi che l'inderogabilità della norma imperativa deve essere valutata con riferimento alla portata di essa e, quindi, nella specie, all'inversione del rapporto tra regola ed eccezione attuata con il nuovo comma 3 dell'art. 829 c.p.c.

Tale norma inciderebbe indirettamente sulla convenzione arbitrale, non nella sua valenza di presupposto del giudizio arbitrale ma solo con riferimento alla previsione delle parti circa il regime di impugnabilità per errores in iudicando che non ha ancora prodotto i suoi effetti al momento dell'entrata in vigore della riforma. In forza del meccanismo di cui al previgente art. 829, comma 2, c.p.c., infatti, per espressa disposizione normativa, la mancata esclusione dell'impugnabilità per errores in iudicando ad opera della parti, in accordo tra loro sul punto, implica scelta pattizia per il regime di impugnabilità del lodo.

Le stesse S.U., sempre in merito al "silenzio" delle parti, citano poi esplicitamente precedenti di legittimità inerenti valutazione e portata negoziale o "probatoria" di un comportamento silente. Nel caso di specie, però, trattasi di valutazioni e di portata del silenzio non in discussione, determinando esso l'applicabilità di uno dei due regimi di impugnazione a seconda del momento di proposizione della domanda arbitrale. Potrebbero invece ritenersi rilevanti le questioni inerenti l'interpretazione della norma transitoria, la sua eventuale portata retroattiva e, nel caso di ritenuta retroattività, la compatibilità di essa con i principi costituzionali.

In secondo luogo, sempre a detta delle S.U., il silenzio potrebbe assumere un significato convenzionale (del quale, comunque, nel caso che ci occupa non si discute per quanto già innanzi evidenziato) solo in ragione del contesto anche normativo proprio del luogo e del momento dell'azione. La stessa S.C., benché con riferimento al non rilevante significato negoziale da attribuire al consenso, fa quindi esplicito riferimento al "momento dell'azione" che, in materia di arbitrato, coincide proprio con la proposizione della domanda arbitrale.

È certo possibile, precisano le S.U., che una legge sopravvenuta privi di effetti una determinata convenzione contrattuale, ammessa nel momento in cui fu stipulata, ma sarebbe invece impossibile che una norma sopravvenuta ascriva al silenzio delle parti un significato convenzionale che le vincoli per il futuro in termini diversi da quelli definiti dalla legge vigente al momento della conclusione del contratto.

Con tale ultima argomentazione la S.C. sembra ritornare sulla questione alla stessa rimessa ma senza esplicitare se l'impossibilità di cui innanzi sia riconducibile alla natura non retroattiva della norma transitoria, alla sua interpretazione costituzionalmente orientata ovvero se, data la natura retroattiva della norma, necessiterebbe un sindacato da parte della Consulta.

Con specifico riferimento al c.d. arbitrato societario, infine, le S.U. chiariscono che la norma di cui all'art. 36 del d.lgs. n. 5 del 2003 è certamente in rapporto di specialità con l'art. 829 c.p.c. ma il fatto che vi faccia esplicito riferimento pone il problema della natura del rinvio. Si è molto discusso in ordine al se il detto rinvio debba intendersi riferito alla sopravvenuta nuova versione della norma richiamata ma, per le S.U., è indiscutibile che il legislatore abbia inteso escludere la possibilità delle parti di rinunciare all'impugnabilità del lodo per errores in iudicando, in particolare quando oggetto della controversia sia la validità di una delibera assembleare.

In questa prospettiva, precisa la S.C., non ha alcuna rilevanza se il rinvio all'art. 829 c.p.c. debba essere inteso in senso materiale, al precedente testo (come indurrebbe a ritenere il riferimento al secondo comma, che solo in quel testo disciplinava l'impugnazione del lodo), o in senso formale, al nuovo testo della norma richiamata. Nel rapporto con il vecchio testo dell'art. 829 c.p.c., infatti, il citato art. 36 ha una portata inequivocabilmente derogatoria, imponendo comunque la pronuncia secondo diritto e, dunque, l'impugnabilità del lodo per errores in iudicando anche contro l'originaria volontà delle parti (quando per decidere si sia conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari).

Nel rapporto con il nuovo testo dell'art. 829 c.p.c. il citato art. 36 deve essere considerato una "legge" che "dispone" l'impugnazione del lodo da c.d. arbitrato societario, anche per violazione delle regole di diritto.

Queste ultime condivisibili argomentazione sembrerebbero confermare le evidenziate riflessioni e la necessità di non identificare, anche in ragione dell'utilizzo della particella disgiuntiva "o", il riferimento che il nuovo art. 829, comma 3, c.p.c. fa all'impugnabilità per errores in iudicando in forza di specifica previsione di legge (quale effettivamente potrebbe essere l'art. 36 citato con riferimento al c.d. arbitrato societario) con la legge che attribuisce effetti alla volontà delle parti circa il regime impugnatorio, alla quale pure fa riferimento il detto riformato art. 829, comma 3, c.p.c..

La disamina dell'iter motivazionale delle tre sentenze delle S.U. costituisce quindi spunto per le riflessioni di cui innanzi e per un alternativo approccio alla risoluzione della questione di diritto, a prescindere dall'adesione ad uno dei due contrapposti orientamenti di legittimità. Muovendo dal quadro normativo di riferimento, anche alla luce della ratio degli interventi legislativi in materia di arbitrato, a partire dal codice di rito del Regno d'Italia del 1865 fino ai recenti disegni di legge delega per nuove riforme, si potrebbe interpretare la norma transitoria in esame per verificare se essa sia suscettibile di una lettura, in ipotesi "costituzionalmente" e "convenzionalmente" "orientata", tale da escludere l'applicabilità del "nuovo regime" impugnatorio ai procedimenti arbitrali azionati dopo la riforma del 2006 ma in forza di convenzioni arbitrali antecedenti.

All'esito dell'interpretazione della norma transitoria, non solo letterale e logico-sistematica ma anche teleologica e storica, si potrebbe vagliare la sua eventuale efficacia retroattiva - processuale o sostanziale -, nonché la "compatibilità costituzionale" e "convenzionale" di essa, se considerata retroattiva.

Nell'ipotesi di ritenute criticità costituzionali, infine, si sarebbe potuto analizzare l'annesso profilo dell'ammissibilità di un'eventuale questione di legittimità costituzionale.

3.1. Lo scrutinio di costituzionalità.

Trattandosi di ambito, quello del diritto transitorio, nel quale la discrezionalità del legislatore è ampia, in quanto limitata solo da ragionevolezza costituzionale, nel caso che ci occupa potrebbe ritenersi difatti elevato il rischio di sollecitare alla Consulta un intervento additivo-manipolativo, di tipo "creativo", tale da sostituirsi al legislatore in possibili scelte discrezionali (con conseguente plausibile pronuncia in termini di manifesta inammissibilità).

In merito si può preliminarmente rilevare che la S.C., in assenza di contrasto interpretativo in seno a se stessa, ritiene conforme a costituzione una fattispecie sostanzialmente identica a quella in esame. Trattasi in particolare della disciplina transitoria dettata dalla precedente legge di riforma dell'arbitrato (art. 27 della legge 5 gennaio 1994, n. 25) in relazione all'art. 838 c.p.c., applicabile ratione temporis, che esclude per gli arbitrati internazionali l'applicabilità dell'art. 829, comma 2, c.p.c.. Il riferimento specifico è a plurime e concordi sentenze, addirittura emesse antecedentemente al "revirement" del 2013 circa la natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale, ed in particolare a: Sez. 1, n. 01102/2010, Rv. 611481, conforme a Sez. 1, n. 03696/2007, Rv. 592221 (sul punto preceduta da Sez. 1, n. 00544/2004, Rv. 569448).

Nel dettaglio, si ritiene manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 27 della l. n. 25 del 1994, relativamente alla disciplina transitoria della normativa sull'arbitrato internazionale, introdotta con la detta riforma del 1994, nella parte in cui prevedeva il divieto di impugnazione per errores in iudicando anche per i lodi emessi in procedimenti arbitrali iniziati dopo la sua entrata in vigore ma attivati sulla base di clausola compromissoria stipulata anteriormente. L'esistenza di antecedenti situazioni convenzionalmente scelte dalle parti, come specificano le pronunce innanzi richiamate, non può paralizzare la discrezionalità del legislatore relativamente ad un mutamento, per il futuro, delle regole processuali, che valga per entrambe le parti, così non violando non solo il principio di uguaglianza ma anche quello inerente l'esercizio del diritto di difesa, in un ordinamento nel quale, peraltro, il doppio grado di giudizio non è costituzionalmente tutelato. La tutela giurisdizionale dei diritti è comunque suscettibile di limitazioni se ciò non determini un sostanziale svuotamento del diritto di azione.

Tale ultima argomentazione potrebbe ritenersi valevole, a fortiori, con riferimento alla norma transitoria di cui all'art. 27 del d.lgs. n. 40 del 2006 in quanto l'impugnazione per nullità permane, ancorché con i detti limiti circa la deducibilità degli errores in iudicando, peraltro oggetto di possibile accordo di impugnabilità stipulabile non solo in sede di convenzione arbitrale ma anche successivamente.

Circa la violazione del principio di ragionevolezza, conclude infine la S.C. nel caso in esame, essa è ravvisabile soltanto quando le deroghe alle regole stabilite siano ingiustificate ed arbitrarie e non anche quando le scelte siano espressione della discrezionalità del legislatore. Trattandosi di disciplina transitoria, quindi fisiologicamente destinata ad applicazione limitata nel tempo, il parametro di ragionevolezza va altresì individuato con riferimento alla sua astratta idoneità ad interrompere la conseguenzialità logica dei principi affermati dal legislatore, non rilevando le disparità di mero fatto, venutesi in tal modo occasionalmente a determinare.

Come già innanzi evidenziato, sempre in termini di ragionevolezza della scelta legislativa, la riforma dell'arbitrato del 2006, al pari della precedente riforma del 1994, ed in particolare la nuova formulazione dell'art. 829, comma 3, c.p.c. e la norma transitoria per essa operante, tendono peraltro a conferire maggiore stabilità al lodo e, quindi, a rendere maggiormente appetibile il ricorso all'arbitrato. Esse contribuiscono a decongestionare la giurisdizione ordinaria, in funzione della ragionevole durata dei processi civili, ed a favorire gli scambi e gli investimenti, anche internazionali. La regola della non impugnabilità del lodo per violazione di norme sostanziali attinenti al merito della decisione, peraltro, subisce, ovviamente anche nel caso rientrante nell'ambito applicativo della norma transitoria in esame, le due eccezioni di cui allo stesso riformato art. 829, comma 3, ultimo inciso, e comma 4, c.p.c., concorrendo a confermare la ragionevolezza della scelta discrezionale del legislatore.

Lo scopo del legislatore del 2006 e la stessa ratio della riforma dell'arbitrato verrebbero difatti sacrificati in assenza della norma transitoria in esame, così come innanzi interpretata, procrastinando di decenni la razionalizzazione dell'impugnazione del lodo rituale per errores in iudicando.

La scelta del legislatore del 2006, se ritenuta ragionevole, potrebbe escludere, pertanto, non solo la violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. ma anche del principio dell'affidamento legislativo. L'ordinamento giuridico, comprendendo in esso il sistema costituzionale, non impedisce difatti al legislatore di emanare disposizioni che modifichino in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, nel quale potremmo annoverare la convenzione di arbitrato perlomeno in ordine alla scelta delle parti circa il regime di impugnazione in esame, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, per le norme penali incriminatrici il divieto di retroattività di cui all'art. 25, comma 2, Cost. (in tal senso si veda, ex plurimis, con riferimento particolare all'arbitrato, Corte cost., n. 419/2000).

Quanto detto potrebbe ritenersi condivisibile, nel caso di specie, in quanto le disposizioni non trasmodano in un regolamento irrazionale, così frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti, l'affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto (in tal senso si veda Corte cost., n. 31/2011). Nel caso che ci occupa, difatti, come già evidenziato, la norma transitoria in oggetto, anche con riferimento all'entrata in vigore del nuovo art. 829, comma 3, c.p.c., è giustificata dall'esigenza di assicurare la coerente attuazione della riforma del 2006 e, quindi, dello scopo ad essa sotteso e funzionale ad assicurare attuazione di altri principi di rango costituzionale e "convenzionale", tra i quali anche la ragionevole durata del processo civile ordinario.

La scelta legislativa discrezionale, trasfusa nella norma transitoria in esame, potrebbe dunque ritenersi ragionevole anche con riferimento al discrimen temporale dal quale dipende l'applicazione della nuova o della vecchia disciplina, individuato dal citato art. 27, comma 4, nella data di proposizione della domanda di arbitrato. Il legislatore della riforma, difatti, come già innanzi ricostruito, fa in merito ragionevole applicazione del principio tempus regit processum con la norma transitoria in oggetto, con la quale, peraltro, si è conformato al principio di cui all'art. 5 c.p.c.

Il discrimine discrezionalmente individuato dal legislatore, pertanto, oltre a non violare l'art. 3 Cost. in termini di ragionevolezza, è conforme al principio di uguaglianza, essendo trattati in modo diseguale situazioni non uguali proprio in ragione del "fluire del tempo" (per il riferimento all'importanza del fluire del tempo si vedano, ex plurimis, Corte cost., n. 108/2002, Corte cost., n. 376/2001). Quest'ultimo, difatti, a fortiori trattandosi nel caso in esame di disciplina transitoria, costituisce idoneo elemento di differenziazione delle situazioni soggettive di coloro che azionano il procedimento arbitrale antecedentemente alla riforma del 2006 rispetto a coloro che promuovono l'arbitrato successivamente ad essa, tanto se in virtù di convenzione antecedente quanto se in forza di convenzione susseguente alla riforma.

Potrebbe quindi concludersi circa l'insussistenza di alcuna ingiustificata disparità di trattamento per il fatto che situazioni soggettive identiche, di coloro che hanno stipulato la convenzione antecedentemente alla riforma del 2006, siano nel caso concreto soggette a diversa disciplina ratione temporis.

Si potrebbe altresì ritenere insussistente anche la violazione degli artt. 41 Cost. e 117 Cost., in riferimento all'art. 6 della CEDU ed 1 del relativo protocollo addizionale. La garanzia costituzionale dell'autonomia privata non è difatti incompatibile con la prefissione di limiti a tutela di interessi generali, in ragione del rilevante interesse pubblico di cui risulta portatrice la riforma del 2006 (si vedano, ex plurimis, Corte cost., n. 31/2011, cit., e Corte cost.. n. 162/2009).

Per converso, come già evidenziato innanzi, la riforma in esame e segnatamente la nuova disciplina dell'impugnazione del lodo per nullità e la relativa norma transitoria integrano misure urgenti per la giustizia civile in ottica di deflazione della giurisdizione ordinaria e, quindi, di ragionevole durata dal processo ordinario. Trattasi di beni-interessi di rango costituzionale e "convenzionale" di cui agli artt. 111 Cost. e 6 CEDU (rilevante in ragione del parametro interposto costituito dall'art. 117 Cost.), le cui tutele nel caso in oggetto non pregiudicherebbero il diritto ad un "processo equo", innanzi ad un organo imparziale e con parità delle armi.

All'esito della presente disamina emerge, come maggiormente problematico, il profilo inerente la compatibilità costituzionale e convenzionale della norma transitoria in esame, se interpretata nel senso della sua applicabilità anche con riferimento alle convezioni arbitrali antecedenti alla riforma del 2006, con la tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantito ex art. 24 Cost., sotto il profilo del "diritto di accesso al Giudice" ex art. 6 CEDU.

Premesso infatti che il diritto di accesso ad un giudice non è assoluto, potendo essere sottoposto a legittime restrizioni, dal momento che la sua stessa natura richiede una regolamentazione da parte dello Stato, la Corte EDU in merito afferma che nella conformazione a tale diritto inviolabile gli Stati dispongono di un certo margine di valutazione. I relativi confini sono però segnati dall'esigenza che le limitazioni apportate non restringano l'accesso offerto all'individuo in modo o fino a un punto tale da pregiudicare in maniera sostanziale il diritto stesso. Tali limitazioni, precisa altresì la Corte EDU, sono conciliabili con l'art. 6 par. 1 della CEDU a condizione che perseguano uno scopo legittimo e che sussista un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (si vedano, Corte europea diritti dell'uomo, 3 dicembre 2009, Kart c. Turchia; Corte europea diritti dell'uomo, 14 dicembre 2006, Markovic c. Italia; Corte europea diritti dell'uomo, 18 febbraio 1999, Waite e Kennedy c. Germania).

Nel caso che ci occupa, essendo introdotta una limitazione alla facoltà di impugnare il lodo nonostante preesistente volontà contraria delle parti, potrebbe configurarsi una questione di restrizione del "diritto di accesso al giudice" nei termini di cui innanzi. Il quesito potrebbe però essere risolto in considerazione della disciplina in esame e della ratio sottesa alla scelta del legislatore più volte esplicitata ed in ciò le S.U., di cui innanzi, non sono di guida per l'interprete, non affrontando la questione.

Potrebbe difatti considerarsi ragionevole l'effetto della disciplina in esame in quanto normativa transitoria, quindi destinata ad esaurirsi nel tempo, volta a soddisfare rilevanti interessi di ordine pubblico, anche essi di rango costituzionale e convenzionale, trattandosi di arbitrato, che, in quanto tale, già implica di per sé la scelta per in "giudice privato". Nella specie sembrerebbe anche difficile argomentare la lesione degli artt. 3 e 24 Cost. in ragione di un legittimo affidamento delle parti in ordine alla perdurante applicabilità del "vecchio regime impugnatorio", sia in ragione della "chiara" norma transitoria sia in ragione della quasi totale assenza di incertezze, nella giurisprudenza di merito, circa il regime applicabile oltre che nell'esplicitato conflitto in seno alla giurisprudenza di legittimità (Per un'attenta e recente applicazione giurisprudenziale del "diritto di accesso al Giudice", nei termini di cui nel testo e con riferimento a normativa transitoria, inerente la materia fallimentare ed in particolare l'appello avverso la dichiarazione di fallimento in luogo del precedente sistema di opposizione a tale dichiarazione, si veda Sez. 6-1, n. 16270/2016, Rv. 641032).

Lo scrutinio della norma transitoria, infine, potrebbe ulteriormente avvalorare quanto già detto circa il possibile profilo di manifesta inammissibilità di una eventuale questione di legittimità costituzionale della disposizione in esame, sempre che la si ritenga effettivamente incostituzionale. In virtù dell'ampia discrezionalità del legislatore ordinario in materia di diritto transitorio, in una fattispecie come quella in oggetto, nella quale, in assenza della norma transitoria di cui all'art. 27, comma 4, del d.lgs. n. 40 del 2006, la "scelta legislativa" conforme a Costituzione potrebbe non dirsi certa ed univoca. L'eventuale questione di legittimità costituzionale potrebbe difatti sostanziarsi in una richiesta di intervento di tipo manipolativo-creativo. Si tratterebbe di questione inammissibile, in quanto implicante la sostituzione della Consulta al legislatore in scelte discrezionali tra una pluralità di soluzioni (per la manifesta inammissibilità di questione di legittimità costituzionale nel caso in cui la pronuncia additiva della Consulta che si evoca non costituisca una conseguenza necessitata dell'applicazione del principio costituzionale si vedano, ex plurimis: Corte cost., n. 9/2006, cit.; Corte cost., n. 273/2005; Corte cost., n. 260/2005; Corte cost., n. 399/2005).

Solo se si ritenesse violato il diritto di difesa, inteso, come innanzi chiarito, in termini di "diritto di accesso al giudice", forse, vi sarebbe spazio per la proposizione di una questione di legittimità costituzionale in ipotesi non manifestamente inammissibile. Se vi fosse una tale violazione, difatti, la Consulta potrebbe ritenersi chiamata a sostituire il legislatore in una scelta guidata e non altamente discrezionale, in quanto la scelta legislativa opposta potrebbe considerarsi lesiva non solo dell'art. 24 Cost. ma anche dell'art. 117 Cost., in ragione della violazione dell'art. 6 CEDU.

Se si propendesse per la manifesta inammissibilità di una questione di costituzionalità potrebbe infine ritenersi, a fortiori, insostenibile un'interpretazione della norma transitoria in oggetto, "costituzionalmente orientata", tale da escludere l'applicabilità del riformato art. 829, comma 3, c.p.c. ai procedimenti arbitrali azionati successivamente all'entrata in vigore della riforma del 2006 ma fondati su convenzioni arbitrali antecedenti a tale data. Se si argomentasse nei termini di cui innanzi, difatti, sembrerebbe difficilmente sostenibile una interpretazione, che si dica "costituzionalmente orientata", tale da "forzare il quadro normativo di riferimento" ottenendo un effetto di dubbia verificazione con l'eventuale intervento della Consulta.

3.2. Ripercussioni della tesi del "vecchio regime".

Qualora si propendesse per la tesi dell'applicabilità del "vecchio regime" impugnatorio, si dovrebbero considerare gli effetti di essa in merito ad altre norme introdotte o modificate con la riforma del 2006 che, al pari di quella di cui al riformato art. 829, comma 3, c.p.c., pur se procedimentali hanno quale necessario presupposto la volontà espressa delle parti nella convenzione di arbitrato.

Trattasi, in particolare, perlomeno, dell'art. 816-quater c.p.c., in materia di arbitrato con pluralità di parti, e dell'art. 820 c.p.c., in merito al termine per la pronuncia del lodo, per le quali opera la medesima disposizione transitoria di cui all'art. 27, comma 4, c.p.c.. Nel caso in cui si dovesse invece propendere per l'interpretazione della norma transitoria nel senso dell'applicabilità del "nuovo regime" impugnatorio, sempre che si ritenesse essa avente efficacia retroattiva incostituzionale, in quanto scelta discrezionale irragionevole, si dovrebbero sottoporre al medesimo scrutinio perlomeno le altre due disposizioni innanzi citate. L'art. 816-quater c.p.c., novità della riforma del 2006, introduce l'arbitrato con pluralità di parti, in precedenza previsto solo per il c.d. arbitrato societario dall'art. 34 d.lgs. n. 5 del 2003. La detta norma prevede che si possa dar luogo ad un arbitrato multiparti solo ove la convenzione arbitrale devolva ad un terzo la nomina degli arbitri, ovvero se gli arbitri siano nominati con l'accordo di tutte le parti o se le altre parti, dopo che la prima ha nominato l'arbitro o gli arbitri, nominino d'accordo un ugual numero di arbitri o ne affidino ad un terzo la nomina. La detta disposizione prevede, per il caso in cui non ricorra taluna delle dette ipotesi, la scissione dell'unico procedimento in più procedimenti bilaterali e, nel caso di litisconsorzio necessario, l'improcedibilità dell'arbitrato. Sicché, potrebbe porsi il problema dell'individuazione delle conseguenze di una convenzione arbitrale stipulata antecedentemente alla riforma, quindi soggetta al regime previgente ex art. 27, comma 3, d.lgs. n. 40 del 2006, che non preveda modalità di nomina conformi a quelle specificatamente indicate dall'introdotto art. 816-quater c.p.c..

Con particolare riferimento al termine per la pronuncia del lodo, il riformato art. 820 c.p.c. prevede, salva diversa disposizione delle parti, che gli arbitri debbano pronunciare il lodo entro il termine di duecentoquaranta giorni dall'accettazione della nomina, in luogo dei centottanta giorni invece contemplati dal previgente art. 820 c.p.c.. Nel caso in esame, quindi, applicare la detta norma a procedimenti arbitrali instaurati successivamente all'entrata in vigore della riforma del 2006 ma fondati su convenzioni arbitrali anteriori a tale data implicherebbe, perlomeno secondo la tesi del "vecchio regime", incidere retroattivamente sull'autonomia privata delle parti che, non convenendo un diverso termine di pronuncia del lodo rispetto a quello normativamente previsto, avevano inteso riferirsi proprio al termine di centottanta giorni di cui al previgente art. 820 c.p.c. Tale ultima questione rileva anche in ragione della circostanza per la quale il mancato rispetto del detto termine è causa di impugnazione del lodo per errores in procedendo, ex art. 829, comma 1, n. 6, c.p.c., salvo che ricorrano le condizioni di cui all'art. 821 c.p.c.

Analoghe considerazioni potrebbero essere effettuate anche con riferimento all'art. 832 c.p.c., inerente i "regolamenti arbitrali" la cui disciplina è stata introdotta con la riforma del 2006, con contestuale abrogazione della disciplina dell'arbitrato internazionale, e per la quale opera la medesima disposizione transitoria di cui all'art. 27 del d.lgs. n. 40 del 2006. È infine il caso di evidenziare che la tesi del "vecchio regime" potrebbe portare, di riflesso, ad una rivisitazione dell'orientamento della S.C., costante ed uniforme, inerente la disposizione transitoria di cui all'art. 27 della l. n. 25 del 1994 con riferimento all'art. 838 c.p.c., come modificato dalla riforma del 1994, nei procedimenti ove ancora rilevi ratione temporis.

. BIBLIOGRAFIA

P.L. NELA, Contro l'applicazione dell'art. 829, comma 3, c.p.c. alle convenzioni arbitrali concluse prima della riforma, in Riv. dir. proc., 2009, pag. 919 e ss.

C. PETRILLO, Arbitrato – entrata in vigore della nuove discipline sul giudizio di cassazione e dell'Arbitrato, AA.VV., in BRUGUGLIO-CAPPONI (a cura di), Commentario alle riforme del processo civile, Vol. III, Tomo II, Padova, 2009, pag 1088 e ss.