Premessa

PRESENTAZIONE

 

La Rassegna del Massimario sulla giurisprudenza penale della Corte di cassazione si propone, come in passato, di rappresentare in maniera tendenzialmente completa il percorso compiuto dalla giurisprudenza di legittimità nel 2016.

L’obiettivo è stato quello di monitorare le decisioni della Corte di cassazione per ricostruire lo sviluppo del diritto giurisprudenziale nell’ambito delle diverse e più importanti tematiche affrontate nell’anno.

Si tratta di una analisi della giurisprudenza non limitata alla mera rappresentazio­ne delle sentenze, con elencazione delle massime. Lo sforzo compiuto è stato quello di individuare le ragioni “intrinseche” delle decisioni intervenute, con riguardo alle esigenze sostanziali sottese ed alle tecniche argomentative utilizzate.

In tale contesto è stata perseguita la finalità di delineare un rapporto tra i “casi” decisi e gli effetti nomofilattici – là dove ci sono stati – delle soluzioni giurisprudenziali, ragionando su classi omogenei di fatti e di reati ed evidenziando il senso concreto e le linee interpretative delle soluzioni adottate.

Del resto l’attività dell’Ufficio del Massimario è rivolta alla ricerca degli indirizzi giurisprudenziali che assumano il valore di formante del diritto penale, sostanziale e processuale, attraverso lo studio dei provvedimenti della Corte di cassazione e la registrazione ordinata dei principi in essi contenuti attraverso la redazione di massime, tendenzialmente autosufficienti.

È stato rilevato come nel nostro sistema giudiziario né i “principi di diritto” né, a maggior ragione, le “massime” di giurisprudenza che li esprimono siano vincolanti per il giudice”.

I principi, nella loro ordinata registrazione, assolvono, tuttavia, ad una funzione di formante dell’impianto motivazionale delle pronunce della Corte.

In tal senso, pur nella non vincolatività del “precedente”, i principi e la loro ordinata registrazione possono contribuire a realizzare l’esigenza costituzionale della certezza del diritto, intesa come strumento per l’attuazione del superiore principio della uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

La ragionevole prevedibilità delle decisioni e delle conseguenze penali delle condotte umane, nel senso indicato dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza sovranazionale, incide sull’attuazione del principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, rispetto al quale mal si concilia la possibilità che classi omogenee di fatti siano decise in senso asimmetrico.

A tale superiori finalità volge la funzione nomofilattica della Corte di cassazione: essa è strumento per garantire l’esatta e omogenea osservanza delle leggi, l’affidamento ragionevole che le parti fanno in un orientamento giurisprudenziale consolidato, pur nella consapevolezza della possibilità di un sempre possibile mutamento, lo stesso diritto oggettivo dello Stato.

In tale difficile operazione virtuosa si colloca l’attività dell’Ufficio del Massimario che, come è stato già rilevato in passato, costituisce lo specchio della Cassazione, di cui registra oggi la difficile realtà, scontandone anche le conseguenze, dal momento che al numero abnorme di sentenze prodotte corrisponde un aumento esponenziale delle massime, il che determina la obiettiva difficoltà di rappresentare in modo coerente la giurisprudenza di legittimità attraverso la semplice attività di massimazione.

La Rassegna del 2016 si compone di due volumi.

Il primo è suddiviso in due parti, a loro volta ripartite in sezioni e capitoli. Nella prima parte della Rassegna, dedicata al diritto sostanziale, sono stati ricostruiti gli orientamenti della giurisprudenza su temi, come quelli della imprescrittibilità della pena dell’ergastolo o della compatibilità della circostanza aggravante della crudeltà con il dolo d’impeto, sui quali sono intervenute le Sezioni unite; attenzione è stata tuttavia rivolta anche ad argomenti in cui, pur in assenza di interventi delle Sezioni unite, sono state registrate rilevanti pronunce.

In tale contesto sono stati evidenziati gli orientamenti della Corte in tema di recidiva, di delitti contro la pubblica amministrazione, di delitti colposi di evento contro la vita e l’incolumità individuale – con particolare riguardo, quanto a quest’ultimo, alla responsabilità penale nell’attività medico chirurgica ed al nuovo reato di omicidio stradale.

Non mancano anche quest’anno le analisi delle sentenze pronunciate in tema di criminalità organizzata, con particolare riguardo ai reati inerenti alla associazione mafiosa; in questa sezione della Rassegna è stato inserito inoltre un contributo con il quale si è provato a ricostruire la giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di reati commessi con finalità di terrorismo per i quali, come è noto, si pongono stringenti questioni di attualità che hanno indotto il legislatore ad intervenire più volte introducendo nuove figure delittuose e definendo nuove forme di anticipazione di tutela di beni primari.

Attenzione è stata rivolta, quanto alla legislazione complementare, a tematiche nuove, come quella della rilevanza penale della surrogazione di maternità effettuata all’estero, ma sono stati anche ricostruiti gli orientamenti della Corte su materie più classiche fra le quali si segnalano l’immigrazione, la valenza del principio di offensività nel reato di coltivazione di piante di stupefacenti, l’edilizia, la responsabilità da reato delle persone giuridiche.

Nella seconda parte della Rassegna, dedicata al diritto processuale, sono state va­lorizzate le questioni su cui si è registrato nel 2016 l’intervento delle Sezioni unite: diritto di difesa (impedimento del difensore per motivi di salute e nomina di un sostituto, rinuncia alla impugnazione), indagini preliminari (misure pre-cautelari, intercettazioni), invalidità degli atti, accesso ai riti alternativi, misure cautelari, impugnazioni, (rilevabilità della mancata rinnovazione della prova dichiarativa nel caso di reformatio in pejus in appello della sentenza assolutoria), esecuzione, giurisdizione onoraria.

Anche in ambito processuale è stata tuttavia riservata attenzione a tematiche più generali di indubbio rilievo quali le notificazioni, i poteri valutativi del giudice dell’u­dienza preliminare, i rapporti con l’autorità straniera.

Il secondo volume è stato dedicato alle pronunce riguardanti i temi su cui di recente sono stati registrati significativi interventi legislativi.

Si tratta di tematiche, come quelle della tenuità del fatto, della messa alla prova, della decriminalizzazione, dei reati societari e delle misure cautelari personali, in cui, dopo alcune rilevanti pronunce delle Sezioni semplici, le Sezioni unite della Corte hanno affermato decisivi principi di diritto.

Non diversamente, sono stati ricostruiti, in questo volume, gli indirizzi della giurisprudenza formatisi, o in corso di formazione, su tematiche strettamente connesse agli interventi normativi che hanno ampliato le facoltà e i diritti nel processo della vittima del reato.

Quanto alla tenuità del fatto, la Corte di cassazione a Sezioni unite nel 2016 ha chiarito i presupposti, la struttura e la natura giuridica del nuovo istituto previsto dall’art.131-bis cod.pen., specificando, da una parte, il contenuto e il valore dell’accertamento posto alla base della pronuncia con cui è dichiarata la causa di non punibilità in questione e, dall’altra, come questa si rapporti con il principio di offensività, con particolare riguardo ai reati di pericolo come quello di guida in stato di ebbrezza, in cui sono presenti soglie di punibilità crescenti.

Con due rilevanti pronunce le Sezioni unite sono intervenute in tema di messa alla prova definendo i contorni di sistema dell’istituto, le sue finalità, le sue modali­tà operative, escludendo la immediata impugnabilità dell’ordinanza di rigetto della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova e chiarendo come, ai fini dell’individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la disciplina dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, il richiamo contenuto all’art.168-bis cod. pen. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni vada riferito alla pena massima prevista per la fattispecie ba­se, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese quelle ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.

Quanto ai reati societari, e, più in generale, al diritto penale della economia, la Corte di cassazione ha risolto alcuni contrasti sorti al suo interno in relazione alla portata applicativa del reato di false comunicazioni sociali, così come novellato a seguito della entrata in vigore della legge n. 69 del 2015.

La questione ha riguardato, in particolare, se, a seguito della novella legislativa, la nozione di fatto, cui gli artt. 2621 e 2622 cod. civ. fanno riferimento, dovesse ricomprendere nell’area punitiva della norma incriminatrice soltanto i dati oggettivi della realtà sensibile, oppure potessero essere false anche le valutazioni di bilancio, ossia le stime di valore contabile in esso contenute.

Si è trattato di una questione potenzialmente dirompente posto che quasi tutte le voci di bilancio sono frutto di una qualche valutazione.

Le Sezioni unite hanno ricostruito l’evoluzione storica della norma prevista dall’art.2621 cod. civ., con particolare riguardo all’oggetto materiale ed alle condotte penalmente tipiche, affermando la persistente rilevanza, ai fini della configurazione del reato previsto dall’art.2621 cod. civ., delle c.d. valutazioni nella disciplina del bilancio di esercizio.

Di rilevante valenza è stata la sentenza delle Sezioni unite in tema di decriminalizzazione, volta a dirimere un contrasto giurisprudenziale sviluppatosi a seguito dell’intervento abrogativo realizzato con il d. lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, che ha disposto l’abrogazione di una serie di reati previsti da specifiche disposizioni del codice penale ed incidenti su interessi di natura prettamente privatistica. I reati oggetto di abrogazione sono stati, come è noto, trasformati in illeciti civili, con applicazio­ne delle relative sanzioni pecuniarie da parte del giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno qualora l’autore abbia commesso le condotte tipizzate con dolo e venga accolta la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa (art.8). La questione è nata in relazione alla disciplina transitoria. In assenza di indicazioni da parte della legge delega, il legislatore delegato ha tendenzialmente previsto l’applicazione della sanzione pecuniaria civile anche per i fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore del decreto (art.12).A differenza, tuttavia, di quanto chiarito per le diverse figure di reato depenalizzate e contestualmente trasformate in illeciti amministrativi dal coevo d.lgs.15 gennaio 2016, n.8, nel citato decreto n.7, non è stata introdotta alcuna disposizione che contempli la possibilità per il giudice dell’impugnazione di provvedere sulle statuizioni civili pronunziate nei gradi di merito. Ciò ha determinato l’insorgere di dubbi interpretativi. Ci si è chiesti, in particolare, se, nonostante il venir meno del reato e, conseguentemente, della possibilità di pronunciare una sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione conservasse il potere di decidere il ricorso agli effetti civili.

Le Sezioni unite nell’ambito di una articolata motivazione hanno chiarito che in caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile ai sensi del d. lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili, fermo restando il diritto della parte civile di agire ex novo nella sede naturale, per il risarcimento del danno e l’eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria civile.

Inoltre, a seguito della entrata in vigore della legge n.47 del 2015, le Sezioni unite hanno preso posizione su questioni relative alle necessità di motivazione in ordine alla scelta delle misure cautelari con riguardo alla inidoneità di quella degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico e, in tema di misure cautelari reali, sulla portata, a seguito della legge indicata, nel procedimento di riesame avverso i provvedimenti di sequestro, del rinvio dell’art. 324, comma 7, cod. proc. pen., alle disposizioni contenute nell’art. 309, comma 10, cod. proc. pen.

Il merito di aver realizzato la Rassegna va, ancora una volta, ai magistrati dell’Ufficio del Massimario: Luigi Barone, Paolo Bernazzani, Matilde Brancaccio, Assunta Cocomello, Francesca Costantini, Alessandro D’Andrea, Paolo Di Geronimo, Luigi Giordano, Mariaemanuela Guerra, Giuseppe Marra, Maria Meloni, Pietro Molino, Andrea Nocera, Vittorio Pazienza, Andrea Antonio Salemme, Debora Tripiccione, Andrea Venegoni, coordinati da Piero Silvestri.

La rifinitura dell’editing è stata curata dal personale addetto alla Segreteria dell’Ufficio del Massimario.

A tutti va il più vivo ringraziamento per il loro contributo.

Un grazie speciale va infine al Presidente Giuseppe Maria Berruti che, dopo aver diretto l’Ufficio del Massimario e del Ruolo fino allo scorso anno con intelligenza, assidua partecipazione e convinto coinvolgimento in ogni iniziativa innovativa, è stato nominato Presidente Titolare della Terza Sezione civile per poi assumere l’alto incarico istituzionale di componente della Commissione nazionale per le società e la Borsa.

 

Roma, 23 gennaio 2017

 

Giovanni Amoroso - Giorgio Fidelbo

PARTE PRIMA - QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE --- SEZIONE I VICENDE DEL REATO

  • prescrizione della pena
  • carcerazione
  • detenuto

CAPITOLO I

L'IMPRESCRITTIBILITÀ DELLA PENA DELL'ERGASTOLO

(di Alessandro D'Andrea )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 Il primo indirizzo esegetico. - 3 Il secondo orientamento interpretativo. - 4 La soluzione delle Sezioni Unite.

1. La questione controversa.

La questione «Se il delitto di omicidio volontario aggravato, punibile in astratto con la pena dell'ergastolo, commesso prima della modifica dell'art. 157 cod. pen. da parte della legge 5 dicembre 2005, n. 251, sia imprescrittibile pure in presenza del riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 8 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203" è stata risolta in modo affermativo dalla sentenza Sez. U, n. 19756 del 24 settembre 2015, dep. 2016, Trubia, Rv. 266329, ritenendo che "Il delitto punibile in astratto con la pena dell'ergastolo, commesso prima della modifica dell'art. 157 cod. pen., per effetto della legge 5 dicembre 2005, n. 251, è imprescrittibile, pur in presenza del riconoscimento di circostanza attenuante dalla quale derivi l'applicazione di pena detentiva temporanea».

Il principio, espresso a soluzione di una problematica affrontata in diverse pronunce della Corte consolidatesi in due distinti orientamenti interpretativi, è stato pronunciato con riferimento ad una fattispecie concernente delitti di omicidio aggravato commessi prima della riforma dell'art. 157 cod. pen., giudicati previo riconoscimento della circostanza attenuante speciale prevista per i collaboratori di giustizia dall'art. 8 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203.

2. Il primo indirizzo esegetico.

Per il primo indirizzo esegetico il reato di omicidio volontario aggravato, astrattamente punito con la pena dell'ergastolo, è da considerarsi un delitto sempre imprescrittibile, anche nel caso in cui lo stesso sia stato commesso anteriormente alla legge di riforma 5 dicembre 2005, n. 251 (meglio nota come legge "ex Cirielli"), ed in cui le circostanze aggravanti, in sede di giudizio di comparazione, siano state ritenute equivalenti o subvalenti rispetto alle riconosciute attenuanti.

La tesi dell'imprescrittibilità dei reati puniti astrattamente con la pena dell'ergastolo era stata per la prima volta affermata in due datate sentenze, perfettamente omologhe tra loro (Sez. 3, n. 2856 del 16 dicembre 1966, Sciolpi, Rv. 103617 e Sez. 4, n. 341 del 7 febbraio 1969, Cerrato, Rv. 113403), invero assunte allo specifico scopo di individuare i reati rispetto ai quali dovesse operare la sospensione dei termini processuali.

Una decisione effettivamente aderente al caso di specie, in realtà, si è avuta solo con la sentenza Sez. 1, n. 41964 del 22 ottobre 2009, Pariante, Rv. 245080, in cui, per la prima volta, è stato affermato il principio per cui la nozione di imprescrittibilità dei delitti per i quali la legge prevede la pena dell'ergastolo, quantunque oggetto di formalizzazione solo con la legge n. 251 del 2005, sia da ritenersi già sussistente ed operante in epoca antecedente ad essa. Ne consegue che il reato punito con detta pena, anche se commesso prima dell'entrata in vigore della citata legge, è imprescrittibile, pur senza una specifica disposizione testuale in tal senso.

Nella sentenza, in particolare, la Corte ha disatteso l'impostazione per cui solo la modifica apportata dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, all'art. 157 cod. pen. avrebbe reso imprescrittibili i reati puniti con la pena dell'ergastolo, specificamente osservando: «a) che la giurisprudenza sia di legittimità che di merito, in base alla formulazione letterale dell'art. 157 cod. pen. nel testo previgente - che prevedeva l'applicabilità della prescrizione ai soli reati puniti con le pene della reclusione, dell'arresto, della multa e dell'ammenda - ha ritenuto univocamente [ . . . ] con argomentazione "a contrario", che solo i reati per i quali la legge stabiliva la pena dell'ergastolo dovevano ritenersi imprescrittibili; b) che la nuova formulazione dell'art. 157 cod. pen., ponendosi in un rapporto di assoluta continuità con l'indicato orientamento giurisprudenziale, non ha fatto altro che recepire l'indicato principio di diritto nell'ordinamento positivo, in occasione di una generale ridefinizione dell'istituto della prescrizione, anche allo scopo di dirimere ogni possibile controversia connessa alla problematica se, per l'affermazione dell'imprescrittibilità del reato, fosse sufficiente l'astratta punibilità dello stesso con la pena dell'ergastolo [ . . . ] ovvero l'applicazione effettiva delle circostanze aggravanti tale da comportare una condanna alla pena dell'ergastolo».

Le stesse considerazioni sono state riaffermate, quindi, nella pronuncia Sez. 1, n. 11047 del 7 febbraio 2013, Stasi, Rv. 254408, nella quale, nel precisare che la modifica apportata all'art. 157 cod. pen. dalla c.d. legge "ex Cirielli" ha reso esplicitamente imprescrittibili i reati puniti con la pena dell'ergastolo, imprescrittibilità peraltro disciplinata anche dalla normativa previgente in materia, è stato ribadito il principio di diritto per cui il delitto di omicidio aggravato, punibile in astratto con la pena dell'ergastolo, commesso prima della modifica dell'art. 157 cod. pen. operata dalla legge n. 251 del 2005, è imprescrittibile, anche se le circostanze aggravanti siano state ritenute equivalenti o subvalenti, in sede di giudizio di comparazione, alle circostanze attenuanti.

Per la predetta interpretazione, infatti, non vi sarebbe «differenza alcuna tra la disciplina vigente e quella in vigore al momento della consumazione del reato quanto alla imprescrittibilità del reato punito con la pena dell'ergastolo, da valutarsi in concreto cioè in relazione non già alla pena astrattamente comminabile ma in riferimento alla fattispecie criminosa ritenuta dal giudice della cognizione, indipendentemente dall'applicazione specifica della regola generale portata dall'art. 69 c.p., peraltro esplicitamente dichiarata inapplicabile dall'art. 157 c.p., comma 3».

3. Il secondo orientamento interpretativo.

Negli arresti interpretativi più recenti la Corte ha modificato la propria esegesi, affermando il principio diametralmente opposto, per il quale, prima della riforma della legge n. 251 del 2005, erano da considerarsi imprescrittibili solo i reati per i quali era stata effettivamente irrogata in sentenza la pena dell'ergastolo.

Tale principio era stato inizialmente affermato nella pronuncia Sez. 1, n. 9391 del 17 gennaio 2013, O., Rv. 254407, per la quale il delitto di omicidio aggravato, punibile in astratto con la pena dell'ergastolo, è imprescrittibile, anche se posto in essere da minore o se le circostanze aggravanti siano state oggetto di comparazione con quelle attenuanti, soltanto se commesso dopo la modifica dell'art. 157 cod. pen. da parte della legge n. 251 del 2005, ciò in quanto la disciplina anteriore alla riforma del 2005, in presenza di un giudizio di equivalenza o prevalenza delle circostanze attenuanti, si porrebbe come una disciplina normativa più favorevole, nella misura in cui prevede termini prescrizionali più brevi per l'incidenza delle diminuzioni conseguenti alle circostanze attenuanti e degli effetti conseguenti al giudizio di comparazione tra circostanze.

Benché anche questo orientamento affermi di condividere l'approdo interpretativo, proprio dell'altro indirizzo esegetico, per cui anche prima della previsione introdotta dalla novella del 2005 i reati punibili con la pena dell'ergastolo erano imprescrittibili, appare, tuttavia, non revocabile in dubbio che soltanto sulla base della legge precedente può tenersi conto delle circostanze attenuanti e del giudizio di comparazione, con possibilità, pertanto, che la conseguente diminuzione di pena possa avere incidenza sulla determinazione del tempo di prescrizione, considerato che l'attuale formulazione dell'art. 157 cod. pen. esclude, ai fini del computo della prescrizione, la rilevanza della diminuzione per le circostanze attenuanti e dei risultati del giudizio di comparazione tra circostanze.

Nella valutazione del singolo caso, quindi, deve essere applicata, di volta in volta, la normativa in concreto più favorevole, dovendosi ritenere tale, ove temporalmente applicabile, quella antecedente alla riforma del 2005, in quanto caratterizzata dalla previsione della possibilità di computare il tempo della prescrizione con riferimento alla specifica e concreta configurazione finale che del fatto il giudice ha ritenuto in sentenza, avendo riguardo alla qualificazione giuridica effettuata ed ai relativi elementi circostanziali. Per la normativa previgente alla legge n. 251 del 2005, cioè, era imprescrittibile solo il reato in concreto punito con la pena perpetua - in quanto per i delitti, pur edittalmente puniti con la pena dell'ergastolo, per i quali vi sia stato riconoscimento di attenuanti e giudizio di bilanciamento con irrogazione di pena temporanea, la prescrizione opera al maturare del termine previsto dalla normativa suddetta -.

Il nuovo spunto interpretativo è stato oggetto di concordi pronunce in tutte le successive sentenze di legittimità emesse in materia, e cioè nelle decisioni: Sez. 1, n. 42041 del 24 marzo 2014, Acri, Rv. 260503; Sez. 1, n. 32781 del 22 maggio 2014, Abbinante, Rv. 260536; Sez. 1, n. 42040 del 21 marzo 2014, Berardi, n.m.; Sez. 1, n. 35407 del 1 aprile 2014, Fracapane, Rv. 260534 - in cui è stato espresso il principio di diritto per cui «il delitto punito con l'ergastolo è imprescrittibile sia in base alla precedente normativa implicitamente (art. 157 cod. pen., comma 1, vecchio testo, che prevedeva un termine di prescrizione per i reati puniti fino alla pena massima non inferiore a ventiquattro anni, nulla disponendo per quelli sanzionati con la pena perpetua), sia in base all'attuale disciplina della prescrizione esplicitamente (art. 157 cod. pen., u.c., nel testo sostituito dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6, comma 1), con la differenza, qualificante come più favorevole l'antecedente normativa di cui all'art. 157 cod. pen., commi 2 e 3, in vigore fino al 7 dicembre 2005, secondo la quale, nella determinazione del termine di prescrizione, erano rilevanti le circostanze del reato e, in particolare, il giudizio di bilanciamento tra le stesse, tale da escludere la pena dell'ergastolo e, quindi, l'imprescrittibilità del reato, nel caso di riconosciute circostanze attenuanti in rapporto di equivalenza o di prevalenza rispetto alle circostanze aggravanti, con la conseguente applicabilità, in luogo dell'ergastolo, della pena massima di anni ventiquattro di reclusione prevista per l'omicidio volontario semplice dall'art. 575 cod. pen. in relazione all'art. 23 cod. pen., comma 1; mentre la disciplina attuale della prescrizione esclude, in ogni caso, ai sensi del nuovo testo dell'art. 157 cod. pen., commi 2 e 3, la rilevanza delle circostanze attenuanti, sia comuni sia speciali, e del giudizio di comparazione tra esse e le circostanze aggravanti, ai fini del calcolo dei termini di prescrizione» -.

Da ultimo, la sentenza Sez. 1, n. 20430 del 27 gennaio 2015, Bilardi, Rv. 263687, ha nuovamente riaffermato il principio per cui in materia di prescrizione, con riferimento al delitto di omicidio cui sono applicabili circostanze aggravanti che comportano l'irrogazione della pena dell'ergastolo, la disciplina precedente alla riforma dell'art. 157 cod. pen., introdotta con la legge 5 dicembre 2005, n. 251, è più favorevole di quella sopravvenuta, e, in quanto tale, è applicabile ai fatti commessi sotto la sua vigenza, giacché, in base ad essa, il reato, al quale è astrattamente irrogabile l'ergastolo per effetto dell'aggravante, può essere estinto per prescrizione quando vengono concretamente riconosciute dal giudice circostanze attenuanti prevalenti o equivalenti, laddove, diversamente, la nuova disciplina esclude ogni rilevanza in proposito tanto delle circostanze attenuanti, sia comuni che speciali, quanto del giudizio di comparazione tra esse e le circostanze aggravanti.

4. La soluzione delle Sezioni Unite.

Come in precedenza anticipato, le Sezioni Unite hanno risolto l'indicato conflitto riconoscendo la correttezza della prima opzione ermeneutica, riferendola, tuttavia, ad un quesito più ampio rispetto a quello originariamente formulato, essendo stata vagliata la questione non solo con riguardo alla specifica incidenza del riconoscimento della particolare attenuante a effetto speciale della collaborazione sulla prescrizione del reato di omicidio aggravato (commesso anteriormente all'entrata in vigore della novella del 2005) per cui la legge commina la pena perpetua, bensì, in termini più generali, con riferimento alla possibilità di ritenere prescrittibili i delitti punibili in astratto con la pena dell'ergastolo, commessi prima della modifica dell'art. 157 cod. pen. disposta dalla legge n. 251 del 2005, nelle ipotesi in cui «il concorso di circostanze attenuanti comporti l'applicazione della pena detentiva temporanea ovvero - in relazione alla disposizione di diritto intertemporale di cui all'art. 226, comma 1, del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 - la previsione in concreto della potenziale irrogazione della reclusione».

La soluzione favorevole all'imprescrittibilità degli indicati delitti è da preferirsi, per il Supremo Collegio, in ragione della particolare funzione svolta dalla norma dell'art. 157 cod. pen. - invero valorizzata, nella sua più recente formulazione, da parte di entrambi gli orientamenti in contrasto per sostenere la validità del rispettivo approccio ermeneutico -. L'indicata disposizione, infatti, non solo disciplina la prescrizione dei reati, ma provvede anche a distinguere in modo chiaro due differenti categorie di reati, diversificando quelli imprescrittibili da quelli suscettibili di estinzione per decorso del tempo.

La prima classe si determina per esclusione, in ragione dell'omessa considerazione nell'art. 157 cod. pen. degli elementi (delitti) che la compongono, in virtù della condizione necessaria e sufficiente della previsione normativa della sanzione dell'ergastolo, comminata dalla legge per le relative condotte delittuose. Compongono, invece, la seconda categoria tutte le contravvenzioni e i residui delitti punibili astrattamente con pena pecuniaria e/o con pena detentiva temporanea.

Nel sistema positivamente definito dall'originario testo dell'art. 157 cod. pen. 1a comminazione dell'ergastolo - per previsione della norma incriminatrice o per il concorso di una circostanza aggravante - delimita a priori i confini dell'istituto della prescrizione, includendo in essa le contravvenzioni ed i delitti punibili con la multa o con la reclusione ed escludendo, al contempo, i delitti punibili astrattamente con la pena dell'ergastolo.

L'indicata esclusione comporta, per la Corte, l'ineluttabile corollario per cui a tali delitti imprescrittibili non sono riferibili le disposizioni di cui al secondo e terzo comma dell'art. 157 cod. pen., da ritenersi dettate, per l'evidente connessione con il primo comma, esclusivamente con riguardo ai reati astrattamente punibili con le pene dell'ammenda, dell'arresto, della multa e della reclusione.

A fronte dell'indicata soluzione, il Supremo Collegio ritiene non condivisibile il contrario approccio ermeneutico, che, per suffragare la tesi della prescrittibilità dei reati astrattamente punibili con la pena dell'ergastolo, in mancanza dell'irrogazione in concreto della pena perpetua, valorizza proprio le disposizioni contenute nei commi 2 e 3 dell'art. 157 cod. pen. (testo originario) per argomentare che a dover trovare applicazione è la disciplina del primo comma della norma nel caso in cui, per effetto del concorso di circostanze attenuanti - ovvero della equivalenza o della prevalenza di esse -, sia in concreto esclusa l'applicazione dell'ergastolo.

L'interpretazione sistematica e letterale del predetto articolo, infatti, dimostra l'erroneità dell'indicata esegesi, atteso che tale argomentazione risulta, in primo luogo, «inficiata dalla fallacia della ignoratio elenchi: l'interprete postula, in relazione alla classe dei delitti astrattamente punibili con l'ergastolo, l'applicazione di regulae iuris non pertinenti, in quanto dettate per la classe differente costituita dai reati astrattamente punibili con pene diverse da quella detentiva perpetua. E nell'errore è embricato quello ulteriore in cui incorre l'orientamento confutato, là dove sovrappone - e, confondendo, sostituisce - al profilo di rilevanza normativa della previsione della sanzione astrattamente applicabile al reato [ . . . ] la considerazione della pena in concreto irrogata dal giudice, escludendo o ritenendo la prescrizione a seconda che, rispettivamente, sia - ovvero non debba essere - applicato l'ergastolo, così introducendo, con non consentita ermeneutica creativa, una regola non prevista dall'ordinamento e in contrasto con la disciplina positiva».

Sotto altro e decisivo profilo, poi, l'originaria disciplina dell'art. 157, comma 2, cod. pen., con i testuali e pregnanti riferimenti all'«aumento massimo» e alla «diminuzione minima» delle sanzioni, anche in correlazione col giudizio di comparazione, rende palese come le indicate disposizioni concernano esclusivamente le pene temporanee - uniche suscettibili di aumento o diminuzione - senza possibilità alcuna di assimilazione ad esse della diversa ipotesi della «sostituzione» della pena detentiva perpetua con quella temporanea, determinata dal riconoscimento delle circostanze attenuanti.

  • delitto contro la persona
  • circostanza aggravante

CAPITOLO II

L'AGGRAVANTE DELLA CRUDELTÀ ED I DELITTI COMMESSI CON DOLO D'IMPETO

(di Vittorio Pazienza )

Sommario

1 Premessa. - 2 Gli aspetti controversi: struttura, natura, ambito applicativo dell'aggravante. - 3 (Segue). Compatibilità dell'aggravante con il dolo d'impeto. - 4 Le soluzioni indicate dalle Sezioni unite: distinzione tra sevizie e crudeltà, natura e ratio della circostanza. - 5 (Segue). Aggravante della crudeltà e dolo d'impeto. - 6 (Segue). Il "ridimensionamento" della rilevanza dogmatica del dolo d'impeto.

1. Premessa.

Tra le decisioni di maggior rilievo emesse dalle Sezioni unite penali, nel corso del 2016, deve certamente essere annoverata Sez. U, n. 40516 del 23/06/2016, Del Vecchio, Rv. 267628/267630, che ha fornito alcune importanti indicazioni interpretative a proposito di una delle circostanze aggravanti comuni elencate nell'art. 61 cod. pen. Si allude all'aggravante dell'avere "adoperato sevizie" o "agito con crudeltà verso le persone", di cui al n. 4 del predetto art. 61, la cui portata applicativa è attualmente oggetto di un rinnovato interesse nell'elaborazione giurisprudenziale, in conseguenza del sempre più frequente ripetersi di gravi fatti di sangue, molto spesso connotati da grande risonanza nell'opinione pubblica, perché maturati in ambito familiare o comunque ricollegabili al deteriorarsi delle relazioni interpersonali tra la vittima e l'autore del reato.

L'occasione per l'intervento delle Sezioni unite è stata offerta da un'ordinanza di rimessione (Sez. 1, ord. n. 18955 del 13/01/2016) che ha posto in evidenza la non univocità delle soluzioni offerte dalle Sezioni semplici non solo su aspetti "intrinseci" all'art. 61 n. 4 (distinzione tra sevizie e crudeltà, natura soggettiva o oggettiva dell'aggravante, necessità o meno che la vittima percepisca la sofferenza ulteriore), ma anche sull'applicabilità dell'aggravante nelle ipotesi in cui venga accertato che l'azione delittuosa è stata posta in essere con dolo d'impeto: questione risolta negativamente da una parte della più recente giurisprudenza.

Si vedrà tra breve che il Supremo consesso ha fornito - all'esito di una convincente analisi della struttura dell'aggravante e dell'elaborazione giurisprudenziale in materia - soluzioni chiare ed esaustive su tutte le questioni controverse, escludendo tra l'altro qualsiasi incompatibilità tra la predetta aggravante ed il dolo d'impeto: categoria, quest'ultima, alla quale è stata negata qualsiasi particolare valenza dogmatica.

Prima di esaminare il percorso argomentativo indicato dalle Sezioni unite, è opportuno richiamare brevemente i profili che, nella giurisprudenza di legittimità, sono stati oggetto delle richiamate divergenze interpretative.

2. Gli aspetti controversi: struttura, natura, ambito applicativo dell'aggravante.

Come rilevato anche dall'ordinanza di rimessione, le incertezze interpretative cui si accennava in premessa hanno riguardato gli stessi confini semantici dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 4: la distinzione tra "sevizie" e "crudeltà", infatti, è stata talora tracciata basandosi sulla natura rispettivamente fisica o morale delle sofferenze inflitte (Sez. 1, n. 5901 del 14/02/1980, Iaquinta, Rv. 145246), altre volte identificando le sevizie nei patimenti e nelle sofferenze inflitte alla vittima, e la crudeltà nelle manifestazioni indicative dell'ansia dell'agente di appagare il proprio impulso diretto ad arrecare dolore, anche se non attuate come strumento di esecuzione del reato o rivolte a persona diversa dalla vittima (Sez. 1, n. 5015 del 21/02/1979, Tredici, Rv. 142116); in altre decisioni, privilegiando un criterio distintivo basato su criteri quantitativi piuttosto che qualitativi, «essendo la sevizia un incrudelimento di grado maggiore» (Sez. 1, n. 747 del 06/10/1987, dep. 1988, Mastrototaro Rv. 177452). Nelle decisioni più recenti, il riferimento all'uno o all'altro termine appare indistinto (cfr. ad es. Sez. 1, n. 32006 del 06/07/2006, Cosman, Rv. 234785, secondo cui «la circostanza aggravante di aver adoperato sevizie o di aver agito con crudeltà verso la persona ricorre quando le modalità della condotta esecutiva di un delitto rendono evidente la volontà di infliggere alla vittima un patimento ulteriore rispetto al mezzo che sarebbe nel caso concreto sufficiente ad eseguire il reato, rivelando in tal modo, per la loro superfluità rispetto al processo causale, una particolare malvagità del soggetto agente»).

Anche la natura dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 4 ha dato luogo ad incertezze interpretative soprattutto in dottrina, dove alcuni Autori hanno anche di recente sostenuto che si tratti di circostanza oggettiva, valorizzandone la pertinenza alle modalità dell'azione: in giurisprudenza, invece, appare costante l'affermazione circa la natura soggettiva dell'aggravante, alla quale peraltro - secondo la prevalente opinione - non è connaturata la finalità di arrecare sofferenze inutili, essendo sufficiente la coscienza e volontarietà degli atti posti in essere eccedendo i limiti di normale causalità nella produzione dell'evento (Sez. 1, n. 12680 del 29/01/2008, G., Rv. 239365). Di recente tuttavia è stata evidenziata (Sez 1, n, 19966 del 15/01/2013, Amore, Rv. 256254, in motivazione) la necessità di provare «se gli imputati agirono per realizzare quel quid pluris della sofferenza aggiuntiva rispetto al normale processo di causazione della morte»).

Un ulteriore profilo controverso, evidenziato dall'ordinanza di rimessione, ha riguardato la necessità o meno che le sofferenze vengano percepite dalla vittima: necessità affermata dalla giurisprudenza più risalente (Sez. 1, n. 556 del 22/06/1971, Cocchi, Rv. 119609), ma negata dalle decisioni più recenti (Sez. 1, n. 4678 del 20/10/1998, dep. 1999, Ventra, Rv. 213019; Sez. 1, n. 16473 del 23/02/2006, Diaz Rodrigues, Rv. 234086): fermo restando che, per la configurabilità dell'aggravante, l'azione delittuosa deve essere perpetrata nei confronti di un soggetto ancora in vita (Sez. 1, n. 19966 del 2013, cit.).

Nella elaborazione interpretativa più recente, le maggiori incertezze applicative sono state registrate in relazione alla configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 4 nella particolare ipotesi - peraltro assai ricorrente, e riscontrata anche nella fattispecie concreta posta all'esame delle Sezioni unite - in cui l'azione delittuosa è costituita da una serie reiterata di colpi inferti alla vittima. Dall'esame della giurisprudenza delle Sezioni semplici emerge, infatti, una divergenza di vedute anche indipendentemente dal fatto (su cui ci si soffermerà nel prossimo paragrafo) che l'azione delittuosa sia o meno sorretta da un dolo d'impeto.

In particolare, secondo un primo indirizzo, la mera reiterazione dei colpi non potrebbe mai integrare l'aggravante della crudeltà, «atteso che tale reiterazione, essendo connessa alla natura del mezzo per conseguire l'effetto delittuoso, non eccede i limiti della normalità causale e non trasmoda in una manifestazione di efferatezza» (così, in motivazione, Sez. 1, n. 33021 del 16/05/2012, Victorero Teran, Rv. 253527; nello stesso senso, Sez. 1, n. 27235 del 11/03/2015, E.A.M.). In una diversa prospettiva, si è invece affermato che l'idoneità della reiterazione dei colpi a concretare l'aggravante della crudeltà non può essere esclusa in termini assoluti, ma solo se tale azione non eccede i limiti della normalità causale, trasmodando in efferatezza: pertanto, «anche la reiterazione dei colpi che hanno attinto la vittima può essere in concreto significativa di una condotta idonea a concretare l'aggravante, allorchè essa non sia meramente funzionale al delitto, ma costituisca espressione . . . della volontà dell'agente di infliggere sofferenze che esulano dal normale processo di causazione dell'evento morte» (Sez. 1, n. 40829 del 05/06/2014, Gal).

3. (Segue). Compatibilità dell'aggravante con il dolo d'impeto.

È proprio in tale incerto contesto che si inserisce l'ulteriore divergenza interpretativa segnalata dall'ordinanza di rimessione, riguardante l'applicabilità dell'aggravante nelle ipotesi in cui la condotta criminosa sia connotata da dolo d'impeto.

È noto che tale figura, secondo l'elaborazione offerta dalla dottrina tradizionale in tema di intensità del dolo, ricorre quando la decisione criminosa è improvvisa e viene eseguita immediatamente, esplodendo nell'azione delittuosa; il dolo d'impeto viene perciò distinto dal c.d. dolo di proposito, che sussiste nelle ipotesi di marcata distanza temporale tra il sorgere dell'idea criminosa e la sua esecuzione, e che trova la sua massima espressione nella premeditazione (unica figura esplicitamente riconosciuta nel codice: artt. 577 e 585 cod. pen.). Secondo una parte della dottrina, anche alle predette figure non codificate dovrebbe conferirsi rilievo nella valutazione dell'intensità del dolo, perché quello di proposito sarebbe caratterizzato - rispetto al dolo d'impeto - da una maggiore persistenza ed intensità della volontà a delinquere; altri Autori negano invece che tale distinzione abbia una reale utilità, evidenziando che la stessa giurisprudenza è solita evocare la categoria del dolo d'impeto per escluderne la concreta rilevanza.

Si vedrà nel paragrafo seguente che tale seconda impostazione è stata pienamente avallata dalle Sezioni unite. Già in epoca risalente, peraltro, era stata affermata la piena compatibilità, con il dolo d'impeto, dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 4, la quale «non esige affatto, neppure implicitamente, che si tratti di reato premeditato o preordinato. Infatti, sembra evidente che l'uso di crudeltà (o di sevizie), se obiettivamente tale, non assume una diversa connotazione giuridica solo perché posto in essere a seguito di una determinazione volitiva coeva o immediatamente precedente alla condotta esecutiva del reato» Sez. 1, n. 435 del 02/07/1982, dep. 1983, Leanza, Rv. 156977). Nella medesima prospettiva, si era anche precisato che l'aggravante in questione «è compatibile con il dolo d'impeto ed anche con quello eventuale, poiché attiene al modo di manifestarsi della condotta, con conseguente maggiore riprovevolezza di un modus agendi connotato da particolare insensibilità od efferatezza, e non si riferisce invece all'evento» (così, in motivazione, Sez. 1, n. 12680 del 2008, cit.).

Alcune recenti decisioni, peraltro, hanno tracciato linee argomentative almeno in parte diverse.

Si è in particolare affermato - muovendo dal divieto di bis in idem sostanziale - che l'indagine sulla sussistenza dell'aggravante impone di verificare, sulla scorta delle circostanze concrete, se vi sia stato «un effettivo superamento della 'normalità causale' determinante l'evento, con volontà di infliggere alla vittima sofferenze aggiuntive rispetto a quelle 'ricomprese' nella ordinaria incriminazione del fatto tipico»; tuttavia, in tale indagine, «non può ritenersi possibile la considerazione sub specie aggravante di elementi di disvalore già ricompresi nel finalismo omicidiario o in diversa e autonoma circostanza". Su tali basi interpretative, si è concluso che, nella fattispecie concreta, "la mera reiterazione dei colpi (pur in tal caso consistente) non può essere ritenuto fonte di detto aggravamento di pena, in un contesto sorretto dal dolo d'impeto e dal finalismo omicidiario correlato a tale condizione psicologica» (Sez. 1, n. 8163 del 10/02/2015, P., Rv. 262595). In una prospettiva analoga, ancor più di recente, v. Sez. 1, n. 14810 del 12/01/2016, Giannini, la quale ha escluso l'aggravante (che era stata riconosciuta dal giudice di merito) in una fattispecie di uxoricidio commesso con 59 colpi di forbice, "connotati da un evidente dolo d'impeto, funzionale al medesimo (ed esclusivo) finalismo e determinismo causale di uccidere" (quest'ultimo è stato desunto, tra l'altro, dalla sostituzione "in corso d'opera" delle prime forbici con un altro paio di maggiori dimensioni). Infine, Sez. 5, n. 25799 del 12/12/2015, dep. 2016, Stasi, ha condiviso le argomentazioni della sentenza n. 8163 del 2015, valorizzando la configurabilità, nel caso di specie, di un dolo d'impeto ed osservando che la dinamica omicidiaria (vittima colpita più volte al capo, trascinata in terra, nuovamente colpita nella stessa regione ed infine lanciata giù dalle scale della cantina), i tempi di inflizione dei colpi, il mezzo utilizzato non denotavano la volontà dell'imputato "di infliggere alla fidanzata sofferenze trascendenti il normale processo di causazione della morte, tale da costituire un elemento aggiuntivo, un "quid pluris" rispetto all'attività necessaria ai fini della consumazione del reato".

4. Le soluzioni indicate dalle Sezioni unite: distinzione tra sevizie e crudeltà, natura e ratio della circostanza.

Come già accennato in premessa, il Supremo consesso ha risolto in senso affermativo la questione della compatibilità con il dolo d'impeto dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 4, all'esito di un'ampia analisi della sua struttura e del suo ambito applicativo.

La decisione ha anzitutto analizzato gli elementi costitutivi dell'aggravante, chiarendo che la distinzione tra le "sevizie" e la "crudeltà" - ritenuta peraltro di scarsa utilità pratica, come confermato dagli scarsi approfondimenti in ambito teorico - è agevolmente tracciabile alla luce della valenza semantica dei due termini utilizzati nell'art. 61 n. 4. In particolare, "le sevizie costituiscono azioni studiate, specificamente indirizzate finalisticamente ad infliggere alla vittima sofferenze fisiche aggiuntive, gratuite"; in altri termini, "si può affermare che le sevizie richiedono dolo intenzionale: proprio la architettata, finalistica volontà di infliggere sofferenze perverse". La condotta crudele è invece definita dalle Sezioni unite come "quella che, pur non mostrando una studiata predisposizione finalizzata a cagionare, per qualche verso, un male aggiuntivo, eccede rispetto alla "normalità causale" e mostra l'efferatezza che costituisce il nucleo della fattispecie aggravante".

In definitiva, ad avviso delle Sezioni Unite, il tratto comune delle due ipotesi prese in considerazione dall'art. 61 n. 4 è costituito proprio dalla manifestazione di efferatezza: ciò rende condivisibile l'indirizzo interpretativo (di gran lunga prevalente: cfr. ad es. Sez. 1, n. 2489 del 14/10/2014, dep. 2015, Bruzzone, Rv. 262179) che attribuisce all'aggravante natura soggettiva, trattandosi "di comportamenti che rilevano precipuamente nella sfera della colpevolezza, dell'atteggiamento interiore, caratterizzato da particolare riprovevolezza per via della sua perversità".

Sul punto, il Supremo Consesso ha peraltro inteso precisare che la natura soggettiva deve essere riconosciuta nonostante il tenore dell'art. 61 n. 4 chiami in causa le particolari modalità dell'azione: e ciò in quanto queste ultime "rilevano più che per la concreta afflittività della condotta tipica che conduce all'evento, per il contrassegno di spietatezza che conferiscono, nel complesso, alla volontà illecita manifestatasi nel delitto". Questo spiega, tra l'altro, il fatto che l'aggravante deve essere riconosciuta sia quando l'azione crudele si manifesta in danno di persona che non è in grado di percepirne l'afflittività (perché in stato di incoscienza, ecc.), sia quando è rivolta nei confronti di persona diversa dalla vittima (es. del figlio costretto ad assistere allo scempio del genitore).

Alla luce di tale intrinseca volontarietà che deve connotare l'azione efferata, le Sezioni Unite hanno definito l'aggravante qui in esame "come una circostanza soggettiva a colpevolezza dolosa", precisando che tale "colpevolezza circostanziale" può manifestarsi anche nella forma del dolo eventuale, nel senso che l'aggravante è configurabile anche quando l'agente, consapevole della concreta possibilità che dalla sua condotta derivi un pregiudizio "eccedente", si determina ugualmente ad agire, accettando tale eventualità. Per altro verso, l'aggravante deve ritenersi sussistente anche quando è l'evento del reato ad essere oggetto di dolo eventuale ("si tiene una condotta virulenta accettando la possibilità che da essa discenda l'evento lesivo").

Concludendo sul punto, le Sezioni unite hanno operato una importante puntualizzazione, in esplicito dissenso dall'impostazione accolta nell'ordinanza di rimessione: la riprovevolezza aggiuntiva, che è alla base dell'aggravante, "riguarda l'azione e non l'autore. Si infligge una pena più severa perché la condotta è efferata e non perché l'agente è una persona crudele". Tali conclusioni sono per le Sezioni unite imposte non solo dal chiaro tenore letterale della norma, ma anche dalla necessità di evitare l'attribuzione, al diritto penale, di connotazioni autoriali poco compatibili con i parametri fissati in materia dalla Costituzione.

5. (Segue). Aggravante della crudeltà e dolo d'impeto.

Così ricostruita la fisionomia dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 4, le Sezioni unite sono passate ad esaminare la questione della sua compatibilità con il dolo d'impeto, prendendo le mosse dalla ricorrente ipotesi - riscontrata, come già accennato, anche nel caso di specie - in cui l'azione delittuosa si concretizza in una forsennata ripetizione di atti lesivi in danno della vittima.

Al riguardo, il Supremo consesso ha richiamato adesivamente l'indirizzo secondo cui la reiterazione di colpi può integrare l'aggravante dell'avere agito con crudeltà qualora, per il numero dei colpi inferti, non sia soltanto funzionale al delitto, ma costituisca "espressione autonoma di ferocia belluina che trascende la mera volontà di arrecare la morte" (Sez. 1, n. 27163 del 28/05/2013, Brangi, Rv. 256476). In altri termini, l'aggravamento di pena può trovare applicazione solo quando la speciale aggressività, la veemenza ecc. non trovano giustificazione nella dinamica omicidiaria, ed eccedono la normalità causale costituendo "espressione della volontà di infliggere sofferenze "eccentriche" cioè non direttamente finalizzate a determinare l'evento morte".

Peraltro, valorizzando la struttura "a colpevolezza dolosa" della circostanza (cfr. supra, § 4), le Sezioni unite hanno posto nel massimo rilievo la necessità di accertare, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, se la reiterazione dei colpi sia stata effettivamente un modo per infierire crudelmente sulla vittima, ovvero abbia costituito solo una contingente modalità omicidiaria, ovvero ancora sia stata dovuta ad alterazioni psicopatologiche dell'agente, non accompagnate da una effettiva volontà di procurare sofferenze eccedenti la normalità causale.

Qualora dall'analisi delle concrete risultanze emerga la sussistenza delle connotazioni dolose richieste dall'aggravante, il Supremo consesso ha escluso - in linea con gli arresti delle Sezioni semplici già in precedenza richiamati (cfr. supra, § 3) - che possano sorgere problemi di compatibilità con il dolo d'impeto: "in effetti non si scorge alcuna ragione logica, empirica o legale che consenta di escludere l'affermata compatibilità: è ben possibile che un delitto maturato improvvisamente si estrinsechi in forme che denotano efferatezza, brutalità; e l'art. 61 n. 4 cod. pen. non caratterizza per nulla la circostanza in una guisa che postuli una protratta ponderazione in ordine alle modalità dell'aggressione".

Le Sezioni Unite hanno quindi posto in evidenza che il contrasto prospettato doveva ritenersi più apparente che reale.

In particolare, il Supremo consesso ha affermato che il percorso argomentativo qui appena richiamato, e posto alla base della ritenuta compatibilità dell'aggravante con il dolo d'impeto, non poteva dirsi realmente confutato dalla pronuncia che era stata valorizzata dall'ordinanza di rimessione (Sez. 1, n. 8163 del 2015, cit.). Infatti, tale decisione aveva escluso la sussistenza dell'aggravante non già per ragioni dogmatiche, legate alle caratteristiche normative del dolo d'impeto e della crudeltà, bensì sulla base di quanto emerso dalle peculiari connotazioni del caso concreto (essendo stata ricostruita, in quella sede, un'aggressione rapida commessa con dolo d'impeto - inteso come reazione immediata ad uno stimolo esterno - frutto di rabbia ed aggressività, con colpi ravvicinati ed in rapida sequenza, inferti in sedi che non consentivano di inferire alcun ulteriore determinismo volitivo).

In altri termini, l'esclusione dell'aggravante da parte della Prima sezione, nella sentenza n. 8163 del 2015, non era stata in realtà determinata, secondo le Sezioni unite, "dall'esistenza del dolo d'impeto, cioè di una deliberazione criminosa improvvisa, bensì dalla rabbiosa concitazione che determinò la furiosa e non mirata ripetizione dei colpi che attinsero la vittima in organi non vitali, tanto che la morte sopravvenne solo in un momento successivo al termine dell'azione violenta".

In buona sostanza, l'indagine della Prima sezione si era svolta in perfetta aderenza ai parametri delineati dal Supremo consesso per la configurabilità dell'aggravante: quest'ultima era stata esclusa perché, alla luce di quanto emerso, le lesioni inferte non erano risultate sorrette da una perversa volontà di cagionare sofferenze gratuite. Vi era stata parossistica impulsività, ma non dolo di crudeltà.

È stata conclusivamente sottolineata, dalle Sezioni unite, la necessità di distinguere nettamente il tema del dolo d'impeto da quello dei tratti impulsivi della condotta, e di prestare la massima attenzione, nell'indagine, a tutte le peculiari caratteristiche della fattispecie concreta: "la concitazione, la rabbia, possono in qualche caso spiegare l'incalzante agire aggressivo, escludendo l'esistenza della già evocata colpevolezza di crudeltà. Analogamente è a dirsi per ciò che riguarda l'alterata condizione mentale che può costituire la spiegazione della virulenta azione aggressiva. Come sempre, quando si tratta di cogliere i tratti interiori dell'agire, la strenua ricerca dei dettagli e la loro serrata ed equilibrata analisi costituiscono strumenti indispensabili ai fini del giudizio".

6. (Segue). Il "ridimensionamento" della rilevanza dogmatica del dolo d'impeto.

Su tali basi ricostruttive, le Sezioni unite hanno conclusivamente inteso precisare che il riferimento al dolo d'impeto, riscontrabile nelle più recenti analisi interpretative, deve essere considerato "frutto di confusione e sovrapposizione tra tale forma dell'elemento soggettivo e le componenti impulsive della condotta", ben potendo aversi una deliberazione illecita fulminea ed estemporanea ma, al contempo, fredda e ordinata; così come, per altro verso, "un crimine lungamente preordinato può essere eseguito in una condizione psichica emotivamente perturbata dalla stessa drammaticità dell'atto".

A sostegno di tale assunto, il Supremo Consesso ha ulteriormente osservato - in linea con le osservazioni della più recente dottrina - che, in realtà, è la stessa distinzione del dolo d'impeto dal dolo di proposito (cfr. supra, § 3) a risultare priva di un reale interesse dogmatico, poiché esprime un dato meramente cronologico, inerente la maggiore o minore repentinità della decisione illecita e della sua esecuzione, "di per sé non dirimente da alcun punto di vista ed afferente più al piano della prova che a quello categoriale".

In questa prospettiva, è stato valorizzato anche il fatto che, nell'elaborazione giurisprudenziale, il riferimento al dolo d'impeto compare solitamente proprio al fine di escludere la concreta rilevanza di tale figura: quest'ultima è stata infatti ritenuta compatibile con l'aggravante del nesso teleologico (Sez. 6, n. 34285 del 27/06/2012, Cutrera, Rv. 253158) e con quella dei motivi abietti o futili (Sez. 5, n. 17686 del 26/01/2010, Matei, Rv. 247223), oltre che con il dolo eventuale (Sez. 1, n. 23517 del 07/03/2013, Corbo, Rv. 256472). Altrettanto significativa, al riguardo, è stata ritenuta dalle Sezioni unite anche una più risalente decisione, secondo la quale il dolo d'impeto, che connota la risposta immediata o quasi immediata ad uno stimolo esterno, non esclude la lucidità, ma non richiede neppure una immediatezza assoluta della risposta allo stimolo, essendo diversi, in ogni soggetto, i tempi di reazione (Sez. 1, n. 39791 del 30/09/2005, Masciovecchio, Rv. 232943).

  • sanzione penale
  • circostanza aggravante
  • circostanza attenuante

CAPITOLO III

LA RECIDIVA

(di Matilde Brancaccio )

Sommario

1 Recidiva ed automatismi sanzionatori nel quadro costituzionale. - 2 Recidiva e reato continuato: cenni di ordine generale e questioni controverse. - 3 Il contrasto sull'interpretazione dell'art. 81, comma 4, cod. pen. - 4 La risoluzione del contrasto con la sentenza Sezioni Unite Filosofi del 23 giugno 2016. - 5 Altre questioni rilevanti in tema di recidiva.

1. Recidiva ed automatismi sanzionatori nel quadro costituzionale.

La recidiva costituisce, secondo l'orientamento consolidato in giurisprudenza e, oramai, secondo le affermazioni prevalenti anche in dottrina, circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole (cfr. Sez. U, n. 35738 del 27/5/2010, Calibè, Rv. 247838) e diviene circostanza ad effetto speciale (cfr. la sentenza Sez. U, n. 20798 del 2472/2011, Indelicato, Rv. 249664) quando comporta un aumento di pena superiore a un terzo; in tal caso essa soggiace, per le ipotesi di concorso con circostanze aggravanti dello stesso tipo, alla regola dell'applicazione della pena prevista per la circostanza più grave (ex art. 63, comma 4, c.p.).

All'evoluzione del concetto di recidiva hanno contribuito numerose sentenze della Corte costituzionale, chiamata più volte al sindacato di legittimità sullo "statuto deteriore"[1] inequivocabilmente previsto dal legislatore per il soggetto che si renda autore di reati più volte nel corso della vita.

E difatti, nonostante la recidiva rappresenti uno tra gli istituti di diritto penale più risalenti nella codificazione, continua ad essere tra quelli maggiormente controversi, anche in ragione delle rilevanti modifiche apportate alla sua disciplina, non sempre coerenti con il dettato costituzionale.

Recepita nell'ordinamento italiano sin dal codice del 1889, la recidiva trova il suo fondamento teorico in una serie di ragioni di politica criminale, oggetto di attenzione della dottrina nel corso degli anni.

Accanto a chi, in epoca risalente, coglieva la ratio dell'inasprimento della pena per il recidivo nella cd. "disobbedienza riprovevole" del reo ovvero nell'indice di maggiore pericolosità del soggetto che delinque nuovamente, successivamente si è ricondotto il fondamento alla maggiore intensità dell'elemento soggettivo dimostrata dal colpevole che sia ricaduto nel reato. Altra parte della dottrina ravvisa nella commissione di un nuovo fatto criminoso un indice di maggiore capacità a delinquere: in questo senso si è osservato che "la capacità a delinquere è bidimensionale, venendo in considerazione sia in chiave retributiva (quale aspetto della colpevolezza per il fatto), sia in chiave preventiva (quale capacità di nuovi reati)".

L'istituto è stato oggetto di rilevanti riforme che lo hanno via via allontanato dal regime di disciplina previsto dall'iniziale formulazione del codice del 1930. La prima modifica è avvenuta ad opera del d.l. 11 aprile 1974, n. 9 (conv. in 1. 7 giugno 1974, n. 220, "Provvedimenti urgenti per la giustizia penale"), le cui essenziali innovazioni sono consistite nel rendere comunque facoltativa la recidiva e soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze.

Successivamente, con la 1. 5 dicembre 2005, n. 251, si sono apportate ulteriori, rilevanti modifiche, in un'ottica generale di forte inasprimento delle risposte sanzionatorie; le più importanti hanno riguardato, in sintesi: a) il restringimento ai delitti non colposi dei reati cd. "espressivi" (quelli, cioè, nuovamente commessi dopo la commissione del precedente e "fondante" reato); b) l'innalzamento dei limiti di aumento per la recidiva "semplice" e per quella "aggravata" e "pluriaggravata"; e) analoghi inasprimenti e mutamenti di disciplina - tra cui quello che riguarda il limite minimo di aumento per la continuazione - sono stati previsti per la recidiva "reiterata"; f) infine, è stato introdotto un nuovo comma 5 all'art. 99, che prevede l'obbligatorietà dell'aumento di pena nel caso in cui la recidiva riguardi uno dei delitti di cui all'art. 407 comma 2 lettera a) c.p.p..

Soprattutto, sono state introdotte una serie di previsioni di automatismi sanzionatori, che hanno riguardato in particolare il giudizio di bilanciamento tra circostanze (art. 69 cod. pen.), con il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata di cui al comma 4 dell'art. 99 cod. pen., la stessa previsione di una forma di recidiva reiterata "qualificata" dalla tipologia dei reati espressivi commessi (art. 99, comma 5) ed anche limiti minimi di aumento di pena per il recidivo reiterato che commetta reati in continuazione.

Rispetto a tali disposizioni di rigido inasprimento normativo caratterizzate da automatismi sanzionatori, la giurisprudenza costituzionale ha attuato un percorso di vera e propria loro erosione, in base alla considerazione generale di illegittimità dei parametri di valutazione "rigidi" ed "obbligati" dettati da tali norme al giudice, dai quali deriva una limitazione dei suoi poteri di commisurazione concreta della pena al fatto di reato commesso, sulla base di considerazioni aprioristiche, riferite al reo o al reato, prive di ragionevolezza ed arbitrarie[2]. Nell'ambito di tale giurisprudenza sulla necessaria ragionevolezza delle preclusioni concernenti norme con effetti favorevoli, la Corte costituzionale ha ormai più volte sindacato la previsione dell'art. 69, comma 4, cod. pen. - che, per la recidiva come per altre fattispecie aggravanti, esclude la soccombenza in riferimento ad ogni possibile circostanza attenuante - senza negarne, in generale, la complessiva compatibilità costituzionale, e tuttavia verificando, caso per caso, se fosse giustificata la presunzione assoluta sottesa al divieto di prevalenza delle attenuanti.

E così, i giudici delle leggi hanno via via affermato l'illegittimità, sotto tale profilo, della normativa introdotta nel 2005. Numerose sono state le sentenze di incostituzionalità:

- con la sentenza n. 251 del 2012 la Corte aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del quarto comma dell'art. 69 c.p. nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza dell'attenuante prevista (all'epoca) dal comma 5 del citato art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in materia di stupefacenti. La violazione riscontrata attiene al principio di proporzionalità della pena ex art. 27, comma 3, Cost., in ragione della sopravvalutazione dei criteri di colpevolezza e pericolosità su quello della gravità del fatto oggettivo nel giudizio di individualizzazione della pena riservato al giudice ed alla luce anche dell'enorme distanza di sanzioni previste per l'ipotesi attenuata rispetto a quella base del reato e delle rilevanti ricadute pratiche;

- con la sentenza n. 105 del 2014 era intervenuta la dichiarazione di illegittimità costituzionale dello stesso comma 4 dell'art. 69 cod. pen. nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza di cui all'art. 648, secondo comma, cod. pen.;

- con la sentenza n. 106 del 2014 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità del divieto di prevalenza dell'attenuante di cui all'art. 609-bis, terzo comma, c.p. sulla recidiva reiterata;

- con la sentenza n. 74 del 2016 è caduto l'automatismo relativo anche all'attenuante della collaborazione nell'ambito dei procedimenti per fatti di narcotraffico. Nella specie la Corte ha ricordato che la previsione del comma 7 dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 ha la specifica funzione di "incentivare il ravvedimento post-delittuoso del reo, rispondendo, sia all'esigenza di tutela del bene giuridico, sia a quella di prevenzione e repressione dei reati in materia di stupefacenti". Si è ritenuto, dunque, contraddittorio che il legislatore, nel caso dei recidivi, neutralizzi la spinta incentivante con la previsione che, anche nel caso di collaborazione, le pene dell'art. 73 (notoriamente molto elevate) non possano essere diminuite per il divieto di prevalenza derivante dall'art. 69, comma 4, cod. pen.

Del resto, la sentenza n. 74 del 2016 Corte cost. si iscrive nel solco della giurisprudenza pregressa dei giudici costituzionali in tema di condotta susseguente al reato (della quale la scelta collaborativa rappresenta senz'altro una forma particolarmente qualificata), sulla cui base si è escluso che possa svilirsi il rilievo sulla pena dei comportamenti successivi al delitto. Questi ultimi, infatti, soprattutto se realizzati attraverso forme di collaborazione come quella prevista dal comma 7 dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, costituiscono fattore assai rilevante sul piano della pericolosità (non necessariamente sintomatico di resipiscenza, ma certo significativo della dissoluzione di pregressi legami criminali).

Ed infatti, la Corte, con la sentenza n. 183 del 2011, aveva già dichiarato la parziale illegittimità, per violazione degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., dell'art. 62-bis, comma 2, c.p., come sostituito dall'art. 1, comma 1, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell'applicazione del primo comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta del reo susseguente al reato, per violazione del principio di ragionevolezza, derivante dalla preferenza accordata ad uno solo degli indici di commisurazione della pena previsti dall'art. 133 c.p. (quello della condotta antecedente al delitto), a discapito dell'indice riferito alla condotta successiva al reato e violando così anche la finalità rieducativa della pena costituzionalmente orientata (art. 27, comma 3 Cost.). La rigida presunzione d'una elevata capacità a delinquere - fondata sulla condizione di recidiva reiterata e tale da precludere l'applicazione di attenuanti generiche - è stata ritenuta "inadeguata ad assorbire e neutralizzare gli indici contrari, che possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento. Mentre la recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento, la condotta susseguente si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali", così da privare di ogni razionale giustificazione l'effetto preclusivo introdotto dal legislatore.

Se tanto era già stato affermato nella sentenza del 2011, lo stesso ragionamento ovviamente s'imponeva di fronte alla pretesa che una condotta susseguente di particolare significato, come la collaborazione con gli inquirenti prevista dal comma 7 dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, restasse sempre inidonea, per il sol fatto della recidiva, ad indurre un effettivo contenimento dei valori di pena previsti per i fatti di narcotraffico.

A chiusura del quadro di illegittimità diffusa delineato dall'analisi delle pronunce di incostituzionalità che hanno colpito le previsioni di automatismi sanzionatori collegate alla recidiva, deve poi rammentarsi la decisione, anch'essa recente, riferita alla stessa, generale disposizione di effetti obbligatori della recidiva reiterata qualificata ai sensi del comma 5 dell'art. 99 cod. pen., che è rimasta travolta dal giudizio di irragionevolezza, attraverso la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale della citata norma, proprio nella parte in cui prevedeva l'applicazione obbligatoria dell'aggravante.

Il riferimento è alla sentenza n. 185 del 2015, in cui la Corte costituzionale, eliminando dalla disposizione di cui al comma 5 dell'art. 99 cod. pen. 1e parole "è obbligatorio e", ricorda come la sua costante giurisprudenza abbia affermato che "le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit"[3]. La sentenza n. 185 del 2015 ricostruisce la storia dell'istituto della recidiva reiterata, dando atto dell'evoluzione costituzionalmente orientata della giurisprudenza di legittimità sui criteri per il suo riconoscimento e la sua applicazione. Si rammenti, altresì che la questione di costituzionalità era stata sollevata proprio da un'ordinanza della Corte di cassazione (Sez. 5, n. 37443 del 3/7/2014, F., Rv. 260130), sotto un duplice profilo: quello della manifesta irragionevolezza della norma censurata e quello dell'identità di trattamento di situazioni diverse cui essa dà luogo.

I giudici costituzionali, dichiarando l'illegittimità del comma 5 dell'art. 99 cod. pen. 1imitatamente alle parole "è obbligatorio e", con riferimento ai parametri costituzionali di cui all'art. 3 e 27 Cost., quanto alla violazione del principio di eguaglianza e della ragionevolezza del trattamento differenziato, hanno sottolineato come il rigido automatismo sanzionatorio cui dava luogo la norma censurata - collegando l'automatico e obbligatorio aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso, inserito nel catalogo di cui all'art. 407, comma 2, lett. a) cod. proc. pen. - fosse del tutto privo di ragionevolezza, perché inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice, prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo. Quanto alla finalità rieducativa della pena, la sentenza afferma (richiamando le pronunce n. 192 del 2007 e n. 183 del 2011 C.Cost.) che la previsione di un obbligatorio aumento di pena legato solamente al dato formale del titolo di reato, senza alcun accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso - in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati dall'art. 133 cod. pen. - sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo, viola anche l'art. 27, terzo comma, Cost., che implica "un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra" (cfr. le sentenze n. 341 del 1994 e n. 251 del 2012). La preclusione dell'accertamento della sussistenza nel caso concreto delle condizioni che dovrebbero legittimare l'applicazione della recidiva può rendere, infatti, la pena palesemente sproporzionata, e dunque avvertita come ingiusta dal condannato, vanificandone la finalità rieducativa prevista appunto dall'art. 27, terzo comma, Cost.

Proprio calando la pronuncia di incostituzionalità del comma 5 dell'art. 99 cod. pen. nei casi concreti, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha recentemente, nel 2015 e nel 2016, ribadito che è illegittima la decisione con cui il giudice applichi l'aumento di pena per effetto della recidiva, ritenuta obbligatoria in sede di giudizio di merito ex art. 99, comma quinto, cod. pen., senza operare alcuna concreta verifica in ordine alla sussistenza degli elementi indicativi di una maggiore capacità a delinquere del reo (Sez. 2, n. 50146 del 12/11/2015, Caruso, Rv. 265684), ovvero ricolleghi l'aumento di pena apportato per la recidiva esclusivamente al dato formale del titolo di reato, senza un necessario accertamento della concreta significatività del nuovo episodio in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti, avuto altresì riguardo ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo (Sez. 6, n. 34670 del 28/6/2016, Cascone, Rv. 267685; conf. Sez. 5, n. 48341 del 7/10/2015, Lo Presti, Rv. 265333).

Dunque, nell'anno 2016 il tema della recidiva è stato nuovamente al centro del dibattito giurisprudenziale della Corte di cassazione, proseguendo il percorso interpretativo, già disegnato nel 2015, di analisi delle conseguenze della sentenza della Corte costituzionale n. 185 del 2015.

Inoltre, preso atto che, sul finire del 2015, i giudici delle leggi, chiamati nuovamente a pronunciarsi su temi inerenti alla recidiva, con la sentenza n. 241 del 2015, hanno dichiarato inammissibile una questione riferita all'art. 81, comma 4, cod. pen. ed al regime di applicazione della recidiva reiterata nel reato continuato, la Corte di cassazione, nel 2016, si è espressa a Sezioni Unite proprio sul regime di applicazione della recidiva reiterata nel reato continuato, ed in particolare sulle condizioni di operatività del limite minimo di aumento di pena, previsto - nella misura di un terzo della pena base - dal comma quarto dell'art. 81 cod. pen. per i casi di continuazione tra reati riferiti a recidivi.

Sul tema, nella giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni, infatti, si era registrato il sorgere di un rilevante contrasto, giunto all'esame delle Sezioni Unite dopo che, nell'anno 2015, vi erano state pronunce difformi rispetto all'orientamento dominante, con riferimento all'applicabilità del limite minimo dell'aumento pari ad un terzo per il reato continuato commesso da soggetti recidivi, per i quali l'aggravante era stata riconosciuta equivalente ad altre circostanze, invece attenuanti, egualmente ritenute.

Le Sezioni Unite, con la pronuncia Sez. U, n. 31669 del 23/6/2016, Filosofi, Rv. 267044, hanno affermato il principio secondo cui, in tema di reato continuato, il limite di aumento di pena non inferiore ad un terzo di quella stabilita per il reato più grave, previsto dall'art. 81, comma quarto, cod. pen. nei confronti dei soggetti ai quali è stata applicata la recidiva di cui all'art. 99, comma quarto, cod. pen., opera anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti. Si esamineranno nel prosieguo, dettagliatamente, le motivazioni che hanno condotto la Suprema Corte ad adottare la soluzione enunciata, mentre sin d'ora si chiariranno alcune criticità interpretative riferite, nel complesso, al rapporto tra recidiva e reato continuato.

2. Recidiva e reato continuato: cenni di ordine generale e questioni controverse.

La giurisprudenza di legittimità, interrogatasi sulla compatibilità tra i due istituti della recidiva e del reato continuato, dopo oscillanti orientamenti, tuttavia da tempo, secondo una linea maggioritaria, l'ha ammessa (per l'opzione di incompatibilità, cfr. Sez. U, n. 4 del 4/5/1968, Pierro, Rv. 108758 e la giurisprudenza conforme, registratasi sino agli anni Ottanta: per tutte Sez. 2, n. 3285 del 28/11/1983, dep. 1984, Reggio, Rv. 163617; Sez. 3, n. 11981 del 12/7/1988, Urrata, Rv. 179863; tuttavia, ancora nel senso dell'incompatibilità vedi, recentemente, Sez. 5, n. 5761 del 11/11/2010, dep. 2011, Melfitano, Rv. 249255).

Tra le molte pronunce ammissive, Sez. 3, n. 4992 del 6/1/1987, Risuglia, Rv. 175754; Sez. 4, n. 7665 del 22/7/1985, Fissore, Rv. 170250; Sez. 3, n. 11274 del 16/6/1986, Scarpa, Rv. 174018; Sez. 4, n. 6859 del 23/4/1993, Dò, Rv. 195137 (secondo cui "nel caso di reato commesso dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna per un reato in precedenza consumato, il riconoscimento della recidiva non è di ostacolo al contestuale riconoscimento della continuazione ove si accerti la permanenza dell'identico disegno criminoso. La recidiva opera, infatti, soltanto relativamente ai reati commessi dopo una sentenza irrevocabile di condanna ed il fatto che l'agente abbia persistito nella condotta criminosa nonostante la controspinta psicologica costituita dalla precedente condanna è conciliabile con il permanere dell'originario disegno criminoso.").

Si arriva, così, alla sentenza Sez. U, n. 9148 del 17/4/1996, Zucca, Rv. 205543 (e, prima ancora, si veda Sez. U, n. 7682 del 21/6/1986, Nicolini, Rv. 173419) ed alla giurisprudenza successiva, largamente dominante nell'affermare la compatibilità tra i due istituti della recidiva e della continuazione tra reati.

Con tale più recente tendenza interpretativa si è sottolineato il fatto che la riforma del 2005 ha sancito la compatibilità anche a livello di diritto positivo, perché l'art. 5 della legge n.251 del 2005 ha modificato l'art. 81 cod. pen., aggiungendovi un comma 4 che disciplina esplicitamente (limitando, ancora una volta la discrezionalità del giudice) l'ipotesi di applicazione della continuazione nei confronti del recidivo ex art. 99, comma 4, ed anche l'art. 671 cod. proc. pen. (v. ora il comma 2-bis di tale norma che rimanda espressamente all'art. 81, comma 4, c.p.). Tra le altre, Sez. 1, 13 marzo 2008, n. 14937, Caradonna, Rv. 240144, ribadendo affermazioni analoghe a quelle della sentenza Sezioni Unite Zucca sulle modalità di interazione tra i due istituti, ha affermato che la compatibilità fra recidiva e continuazione comporta, sussistendone le condizioni, la loro applicazione congiunta, praticando sul reato base, se del caso, l'aumento di pena per la recidiva e, quindi, quello per la continuazione, che può essere riconosciuta anche fra un reato già oggetto di condanna irrevocabile ed un altro commesso successivamente alla formazione di detto giudicato; conformi a tale indirizzo Sez. 6, 24 novembre 2011, n. 19541, dep. 2012, Bisesi, Rv. 252847; Sez. 4, 21 giugno 2013, n. 37759, Lopreste, Rv. 256212; Sez. 5, 2 luglio 2013, n. 41881, Marrella, Rv. 256712; Sez. 4, 30 settembre 2014, n. 49658, Paternesi, Rv. 261169; contra Sez. 5, 11 novembre 2010, n. 5761, Melfitano, Rv. 249255.

Nel 2016 è stato ribadito, da Sez. 2, n. 18317 del 22/4/2016, Plaia, Rv. 266695, nonché da Sez. 2, n. 19477 del 20/4/2016, Calise, Rv. 266522, che non esiste incompatibilità tra gli istituti della recidiva e della continuazione, potendo quest'ultima essere riconosciuta anche tra un reato già oggetto di condanna irrevocabile ed un altro commesso successivamente alla formazione di detto giudicato.

Sulla compatibilità tra gli istituti della recidiva e della continuazione si registra in dottrina analoga evoluzione di quella avutasi in giurisprudenza, rispetto ad iniziali posizioni contrapposte[4].

Data, comunque, per scontata la prevalente opinione nel senso della compatibilità, quanto ai caratteri dell'aumento per la continuazione ed ai limiti di esso (previsti nel minimo aumento di un terzo dall'art. 81, comma 4, cod. pen.), deve evidenziarsi che è proprio in questo ambito che si registra la difformità di opinioni riemersa con maggior vigore nella giurisprudenza di legittimità nel corso del 2015, poi confluita nell'intervento delle Sezioni Unite del 2016, cui già si è fatto cenno.

E difatti, l'orientamento decisamente minoritario, affacciatosi nel 2011 in modo isolato nel panorama giurisprudenziale, aveva trovato due pronunce di conferma nel 2015; d'altra parte, l'orientamento largamente maggioritario egualmente era stato affermato in tale anno; il dissenso, peraltro, si era registrato prevalentemente all'interno della Quinta Sezione Penale.

Ed è proprio un'ordinanza di tale Sezione (la n. 18935 del 12 aprile 2016) che rimette nel 2016 alle Sezioni Unite la questione attinente al se il limite di aumento di pena non inferiore ad un terzo di quella stabilita per il reato più grave, previsto dall'art. 81, comma 4, cod. pen. nei confronti dei soggetti ai quali è stata applicata la recidiva di cui all'art. 99, comma 4, cod. pen., operi anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.

Deve, a tal proposito sottolinearsi come, in generale, con riferimento alla previsione del limite minimo dell'aumento di pena previsto dall'art. 81, comma 4, cod. pen., la Corte di cassazione ha ritenuto manifestamente infondata la questione di una sua possibile illegittimità costituzionale.

Sez. 5, n. 30630 del 9/4/2008, Nikolic, Rv. 240445 ha chiarito, infatti, che detto aumento trova la sua giustificazione nella sostanziale diversità delle situazioni regolate, avendo il legislatore facoltà di comminare le pene con aumenti differenziati in misura precostituita in ragione della minore o maggiore proclività a delinquere del reo, quest'ultima espressa dalla recidiva reiterata, ed è del tutto ragionevole oltre che conforme al principio dell'emenda di cui all'art. 27 Cost., considerato che una pena non commisurata adeguatamente al valore dell'illecito, identificato anche in base alla propensione a delinquere che il reo esprime, sarebbe frustranea rispetto alla rieducazione del condannato.

Recentemente la posizione di chiusura rispetto a questioni di costituzionalità della previsione in quanto tale è stata ribadita anche da Sez. 2, n. 18092 del 12/4/2016, Lovreglio, Rv. 266850, massimata sotto diverso aspetto.

D'altra parte, deve sottolinearsi come la stessa Corte costituzionale, con la ordinanza n. 193 del 2008 ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, e 81, quarto comma, cod. pen., osservando che l'art. 81, quarto comma, cod. pen. presuppone una positiva valutazione da parte del giudice circa la concreta idoneità della recidiva reiterata ad aggravare la pena per i reati in continuazione o in concorso formale, come emerge dal tenore letterale della norma (laddove si rivolge ai "soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva") e che "risulterebbe, del resto, affatto illogico che una circostanza, priva di effetti ai fini della determinazione della pena per i singoli reati contestati all'imputato (ove non indicativa, in tesi, di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), possa produrre un sostanziale aggravamento della risposta punitiva in sede di applicazione di istituti - quali il concorso formale di reati e la continuazione - volti all'opposto fine di mitigare la pena rispetto alle regole generali sul cumulo materiale". Analoghe conclusioni venivano tratte in una successiva pronuncia (Corte cost., ord. n. 171 del 2009) e richiamate dalla ultima ordinanza n. 241 del 2015, entrambe di inammissibilità su questioni riferite al comma 4 dell'art. 81 cod. pen.

In particolare, nella prima pronuncia la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità riferita alla disposizione in esame, nella parte in cui sarebbe applicabile al caso dell'imputato dichiarato recidivo reiterato in rapporto agli stessi reati uniti dal vincolo della continuazione, del cui trattamento sanzionatorio si discute, "suggerendo" la diversa opzione che essa invece sia applicabile (solo) al caso dell'imputato che sia stato dichiarato recidivo reiterato con una precedente sentenza definitiva.

La sentenza del giudice delle leggi ritiene di leggere in tal senso la prevalente giurisprudenza di legittimità: vi è, pertanto, necessità, ai fini dell'applicabilità dell'art. 81, comma 4, cod. pen., che la recidiva reiterata sia stata dichiarata con sentenza passata in giudicato precedentemente alla data di commissione dei nuovi fatti di reato in continuazione (o concorso formale tra loro). Tra le sentenze più recenti espressione di tale orientamento, Sez. 1, n. 18773 del 26/3/2013, De Luca, Rv. 256011 (secondo cui il limite di aumento minimo per la continuazione, pari ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave, previsto dall'art. 81, comma quarto, cod. pen., si applica nei soli casi in cui l'imputato sia stato ritenuto recidivo reiterato con una sentenza definitiva emessa precedentemente al momento della commissione dei reati per i quali si procede e non anche quando egli sia ritenuto recidivo reiterato in relazione agli stessi reati uniti dal vincolo della continuazione del cui trattamento sanzionatorio si discute); la pronuncia richiama la precedente sentenza conforme, Sez. 1, n. 31735 del 1/7/2010, Samuele, Rv. 248095.

Nella seconda ordinanza, la Corte costituzionale, in realtà, analizza la questione della facoltatività della recidiva reiterata nell'an proponendo tale interpretazione costituzionalmente orientata, poi adottata dalle sezioni Unite Calibè e già presente nella giurisprudenza di legittimità e costituzionale.

Nell'ultima pronuncia, si prende atto, da parte dei giudici delle leggi, dell'opzione dominante nella giurisprudenza di legittimità, quanto alla necessità, ai fini dell'applicazione della disposizione ex art. 81, comma 4, cod. pen., che la recidiva reiterata sia stata accertata con sentenza passata in giudicato, precedentemente alla data di commissione dei reati per i quali si procede, avallandola[5].

Devono, altresì, ricordarsi, sotto diverso profilo attinente all'interpretazione del comma 4 dell'art. 81 cod. pen., alcune questioni aperte in giurisprudenza e più frequenti.

Anzitutto, il limite minimo previsto dalla disposizione va riferito all'aumento complessivo per la continuazione e non a quello applicato per ciascuno dei reati satelliti, ovvero alla misura di ciascun aumento successivo al primo (così, Sez. 2, n. 18092 del 12/4/2016, Lovreglio, Rv. 266850; Sez. 1, n. 5478 del 13/1/2010, Motta, Rv. 246116; Sez. 2, n. 44366 del 26/11/2010, D'Ambra, Rv. 249062 e Sez. F, n. 37482 del 04/09/2008, Rocco, Rv. 241809).

Inoltre, deve ricordarsi che il giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen. va instaurato solo tra le circostanze aggravanti e le attenuanti inerenti al reato base più grave, mentre delle circostanze riguardanti i reati "satellite" deve tenersi conto solo ai fini della determinazione dell'aumento per la continuazione. In tal senso si esprime la giurisprudenza dominante e più recente: ex multis, Sez. 3, n. 26340 del 25/3/2014, Di Maggio, Rv. 260057; Sez. 1, n. 49344 del 13/11/2013, Gelao, Rv. 258348); tuttavia le Sezioni Unite, con la pronuncia n. 3286 del 27/11/2008, dep. 2009, Chiodi, Rv. 241755, hanno affermato che la circostanza attenuante dell'integrale riparazione del danno va valutata e applicata in relazione a ogni singolo reato unificato nel medesimo disegno criminoso.

3. Il contrasto sull'interpretazione dell'art. 81, comma 4, cod. pen.

La questione oggetto della pronuncia più rilevante del 2016 in tema di recidiva, ed in particolare sul regime di interazione dell'istituto con quello della continuazione tra reati, è stata proprio quella delle Sezioni Unite Filosofi già richiamata, sul contrasto sorto circa l'operatività del limite minimo di aumento previsto dal comma 4 dell'art. 81 cod. pen.

Specificamente, con provvedimento del 9 maggio 2016, il Primo Presidente rimetteva alle Sezioni Unite, per l'udienza del 23 giugno 2016, la questione "Se il limite di aumento di pena non inferiore a un terzo di quella stabilita per il reato più grave, di cui all'art. 81, quarto comma, cod. pen., nei confronti dei soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma, stesso codice, operi anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti."

Seguendo lo schema di sintesi della stessa motivazione della sentenza delle Sezioni Unite, si rammenta in proposito che una prima pronuncia (Sez. 5, n. 9636 del 24/01/2011, Ortoleva, Rv. 249513) aveva ritenuto tale limite minimo, pari ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave, non applicabile nel caso in cui il giudice non abbia considerato la recidiva reiterata concretamente idonea ad aggravare la sanzione per i reati in continuazione o in concorso formale, ed in relazione ad essi l'abbia esclusa e, pertanto, non "applicata", ritenendo sussistente tale situazione nel caso esaminato, ove il Tribunale aveva riconosciuto all'imputato l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen., ritenuta equivalente alle contestate aggravanti, tra cui la recidiva specifica reiterata, che la Corte considerava, quindi, apprezzata come sostanzialmente non incidente in concreto sull'entità della pena. In senso conforme si erano espresse successivamente Sez. 5, n. 22980 del 27/01/2015, Parada, Rv. 263985 e Sez. 5, n. 43040 del 20/06/2015, Martucci, Rv. 264824.

A tale prima decisione, risalente all'inizio del 2011, si era contrapposta altra pronuncia (Sez. 6, n. 25082 del 13/06/2011, Levacovich, Rv. 250434), nello stesso anno, nella quale si riteneva di dover pervenire a conclusioni diametralmente opposte, rilevandosi che, ad eccezione dei casi in cui la recidiva fosse stata esclusa, in quanto non sintomatica di una più accentuata colpevolezza e pericolosità dell'imputato, venendo così espunta dal regime sanzionatorio applicabile, essa conservi inalterati, nelle altre ipotesi, i suoi effetti ulteriori, ivi compreso quello di cui all'art. 81, quarto comma, cod. pen. Tale evenienza, in presenza di un giudizio di bilanciamento, si verificherebbe tanto nel caso di ritenuta equivalenza quanto in quello di subvalenza rispetto alle attenuanti riconosciute, poiché, verificandosi dette ipotesi, la recidiva risulterebbe "ritenuta" ed "applicata".

Pervenendo ad identiche conclusioni, successive pronunce si ponevano sulla scia della decisione appena richiamata, con argomentazioni del tutto sovrapponibili (Sez. 3, n. 431 del 28/09/2011, dep. 2012, Guerreschi, Rv. 251883; Sez. 6, n. 49766 del 21/11/2012, Khelifa, Rv. 254032; Sez. 5, n. 48768 del 07/06/2013, Caziuc, Rv. 258669; Sez. F, n. 53573 del 11/09/2014, Procaccio, Rv. 261887; Sez. 4, n. 36247 del 28/05/2015, Zerbino, Rv. 264402; Sez. 3, n. 19496 del 24/09/2015, dep. 2016, Carambia; Sez. 5, n. 18253 del 07/01/2016, Hicham; nello stesso senso si veda anche Sez. 6, n. 20664 del 15/2/2016, Cipriani, n.m.), rendendo maggioritario l'orientamento in esame e quasi incontrastato sino al momento in cui, nel 2015, le due citate sentenze - Parada e Martucci - non rimettevano in discussione tale linea evolutiva dell'interpretazione di legittimità.

Val la pena di sottolineare come entrambi gli orientamenti contrapposti si richiamino alla pregressa giurisprudenza delle Sezioni Unite in materia di recidiva, ed in particolare alla citata sentenza Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247839, declinandone le affermazioni diversamente, per sostenere gli approdi differenti.

Ed infatti, mentre la tesi maggioritaria sottolinea come sia chiaro che la sentenza Calibè affermi espressamente che la recidiva deve ritenersi 'accertata' nei suoi presupposti (sulla base dell'esame del certificato del casellario giudiziario), 'ritenuta' dal giudice ed 'applicata' anche quando semplicemente svolga la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l'effetto alleviatore di una circostanza attenuante, poiché anche in tal caso, infatti, essa determina tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio, l'orientamento minoritario considera inoperante la recidiva reiterata anche quando il giudice non l'abbia ritenuta concretamente idonea ad aggravare la sanzione per i reati in continuazione o in concorso formale e, quindi, in concreto non l'abbia applicata, in ciò non rinvenendo contraddizioni con la sentenza Calibè. Si afferma, altresì, dalla tesi minoritaria (cfr. la sentenza Martucci, in particolare), che dovrebbero distinguersi ontologicamente e semanticamente il momento in cui la recidiva viene riconosciuta ("ritenuta") e quello della sua applicazione in concreto, sottolineando come, a voler seguire l'opzione maggioritaria, due situazioni molto differenti tra loro - perché legate ad una diversa valutazione della personalità del reo e della gravità del reato (quali oggettivamente sono, rispettivamente, il giudizio di prevalenza ovvero di equivalenza della recidiva di cui all'art. 99, comma 4, c.p., rispetto alle circostanze attenuanti eventualmente con essa concorrenti, diversamente considerate dallo stesso legislatore, che vieta il primo, ma consente il secondo) - verrebbero ad essere immotivatamente assimilate ai fini dell'inasprimento del trattamento sanzionatorio, contemplato dall'art. 81, comma 4, c.p.

4. La risoluzione del contrasto con la sentenza Sezioni Unite Filosofi del 23 giugno 2016.

Le Sezioni Unite, ripercorso il contrasto nei termini anzidetti, optano per la soluzione adottata dall'orientamento maggioritario ed affermano il principio secondo cui:

"In tema di reato continuato, il limite di aumento di pena non inferiore ad un terzo di quella stabilita per il reato più grave, previsto dall'art. 81, comma quarto, cod. pen. nei confronti dei soggetti ai quali è stata applicata la recidiva di cui all'art. 99, comma quarto, cod. pen., opera anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti".

Le Sezioni Unite evocano, in motivazione, anzitutto gli approdi precedenti del massimo collegio di legittimità in tema di recidiva, dai quali già si poteva evincere la preferenza per la tesi affermata: le sentenze, in particolare, Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247839 e Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, Rv. 187856.

Ed infatti, dapprima soffermandosi sulla sentenza Calibé, si ricorda come questa abbia ribadito che la recidiva reiterata di cui al quarto comma dell'art. 99 cod. pen. operi quale circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole di natura facoltativa. Nel senso che è consentito al giudice di escluderla motivatamente e considerarla tamquam non esset ai fini sanzionatori, all'esito di una verifica in concreto sulla reiterazione dell'illecito quale indice sintomatico di riprovevolezza e pericolosità, da effettuare tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell'eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali. Rileva ancora la richiamata sentenza Calibè che, se tale valutazione ha esito negativo, il giudice, escludendo la recidiva, la ritiene non rilevante e non la applica, non considerandola ai fini della determinazione della pena, né, tanto meno, nel giudizio di comparazione di cui all'art. 69 cod. pen. Diversamente, nel caso in cui la recidiva venga apprezzata come indicativa di maggior colpevolezza e pericolosità, essa - secondo la ricostruzione della sentenza Calibè, pacificamente adottata dalla pronuncia delle Sezioni Unite Filosofi del 2016 - produce tutti i suoi effetti, ivi compresi quelli di cui all'art. 81, quarto comma, cod. pen.

In tali ipotesi, infatti, essa, oltre che "accertata" nei presupposti (sulla base dell'esame del certificato del casellario), è anche "ritenuta" dal giudice ed "applicata", determinando l'effetto tipico di aggravamento della pena, anche nel caso in cui svolga semplicemente la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l'effetto alleviatore di una circostanza attenuante[6].

Le Sezioni Unite Filosofi, premesso che la questione del limite di aumento minimo per la continuazione in caso di recidiva reiterata si pone solamente nell'ipotesi in cui la recidiva venga ritenuta dal giudice ed utilizzata nel giudizio di bilanciamento, non rilevando il diverso caso in cui la recidiva sia stata, invece, esclusa (come chiaramente precisato nella sentenza Sez. U, Calibé), analizzano la corretta accezione del verbo "applicare" utilizzato dall'art. 81, quarto comma, cod. pen., verificando, quindi, quando la recidiva possa dirsi "applicata" dal giudice. A tale proposito, sembra ai giudici di legittimità "decisamente preferibile" la soluzione adottata dall'orientamento maggioritario e dalla stessa sentenza Calibè, la quale, peraltro, richiama altra, importante pronuncia delle Sezioni Unite: la già citata Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, Rv. 187856.

La sentenza Grassi, prendendo in esame una vicenda concernente l'applicabilità dell'indulto di cui al d.P.R. n. 394 del 1990, ha considerato il significato di "utilizzazione funzionale" che va riconosciuto al verbo "applicare", con riferimento ad una norma; secondo tale pronuncia, una disposizione normativa può dirsi che sia "applicata" se "concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai suoi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso". Con specifico riferimento alla circostanza aggravante si osserva che la stessa è riconosciuta ed applicata non soltanto quando è produttiva del suo effetto tipico di aumento dell'entità della pena, ma anche quando, in applicazione dell'art. 69 cod. pen., si determinino altri effetti, quali la neutralizzazione di una circostanza attenuante concorrente.

La sentenza Filosofi aderisce espressamente alle considerazioni svolte nelle due precedenti decisioni delle Sezioni Unite, osservando come le stesse si attaglino maggiormente alla specificità della recidiva, la quale richiede, da parte del giudice, un accertamento complesso e articolato, inerente la maggiore colpevolezza e l'aumentata capacità a delinquere, che solo se negativo esclude ogni conseguenza e che, invece, permane e sopravvive comunque alla valutazione comparativa operata nel giudizio di bilanciamento, perché, quando questo avviene, la recidiva è stata già riconosciuta ed applicata, essendole stata attribuita quell'oggettiva consistenza che consente il confronto con le attenuanti concorrenti: attività successiva, questa, rimessa alla discrezionalità del giudice.

Sottolineano le Sezioni Unite, nella pronuncia Filosofi, come, all'atto del giudizio di comparazione, l'azione dell'applicare la recidiva si è già esaurita, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario: la recidiva ha comunque esplicato i suoi effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali, però, la recidiva avrebbe comportato l'aumento di pena.

Le Sezioni Unite, peraltro, offrono una lettura ampia delle ragioni che impongono la scelta adottata, anche nel confronto con la giurisprudenza analoga declinata in tema di recidiva con riferimento ad altri istituti con essa interfacciantisi.

Si evidenzia, così, che anche là dove si sono affrontate tali diverse questioni, comunque riferite alla recidiva, si è ritenuto che il giudizio di bilanciamento con altre circostanze concorrenti non determini conseguenze neutralizzanti degli ulteriori effetti della recidiva.

E così, in tema di prescrizione, si è affermato che la recidiva reiterata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente (Sez. 6, n. 39849 del 16/09/2015, Palombella, Rv. 264483; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013 Romano, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/06/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, Locatelli, Rv. 241945). Ci si riferisce, inoltre, in simili casi, alla sostanziale "applicazione" della recidiva, rilevando che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all'art. 69 cod. pen., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare (v., ad es., Sez. 2, n. 2731 del 02/12/2015, dep. 2016, Conti, Rv. 265729 in tema di prescrizione; Sez. 1, n. 8038 del 18/01/2011, Santoro, Rv. 249843; Sez. 1, n. 43019 del 14/10/2008, Buccini, Rv. 241831; Sez. 1, n. 29508 del 14/07/2006, Maggiore, Rv. 234867 in tema di divieto di sospensione dell'esecuzione di pene detentive brevi; Sez. 1, n. 47903 del 25/10/2012, dep. 2012, Cecere, Rv. 253883; Sez. 1, n. 27846 del 13/07/2006, Vicino, Rv. 234717, in materia di detenzione domiciliare).

Neppure può dirsi - affermano con chiarezza le Sezioni Unite - che tale ragionamento si ponga in contraddizione con il principio del favor rei, dal momento che il giudice può tanto escludere radicalmente la recidiva, quanto ritenerla sussistente e confrontarla con le circostanze concorrenti, con esiti diversi circa la dosimetria della pena[7].

5. Altre questioni rilevanti in tema di recidiva.

Nell'anno 2016 si sono registrati ulteriori temi di confronto giurisprudenziale nel percorso interpretativo della Corte di legittimità con riferimento alla recidiva, parte dei quali già anticipati nel par. 1, là dove si sono analizzate le ricadute della sentenza di incostituzionalità n. 185 del 2015, nonché nel par. 2, con riferimento alla riaffermata compatibilità tra gli istituti della recidiva e della continuazione (cfr. sul punto, Sez. 2, n. 18317 del 2016 e Sez. 2, n. 19477 del 2016, citate.).

Se ne offre, in questa sede, un panorama necessariamente selezionato, avuto riguardo alle pronunce intervenute su aspetti maggiormente interessanti, per i loro caratteri di novità ovvero per ribadire orientamenti su cui esistono opinioni non univoche.

In generale, sul tema della recidiva, si è affermato che, ai fini del riconoscimento della recidiva aggravata infraquinquennale, il calcolo dei cinque anni va effettuato considerando come "dies a quo" non già la data di commissione dell'ultimo delitto antecedente a quello espressivo della recidiva, bensì quella relativa al passaggio in giudicato della sentenza avente ad oggetto il medesimo reato presupposto (Sez. 6, n. 15441 del 17/3/2016, Graviano, Rv. 266547; unico precedente conforme, in passato, Sez. 4, n. 36131 del 24/5/2007, De Colombi, Rv. 237651).

Sez. 2, n. 3662 del 21/6/2016, Prisco, Rv. 265782, in tema di contestazione della recidiva, ha affermato che tale circostanza, essendo inerente alla persona del colpevole, ove contestata in calce a più imputazioni, deve intendersi riferita a ciascuna di esse salvo che si tratti di reati di diversa indole ovvero commessi in date diverse. Sul punto, vi è una tesi difforme, rappresentata da Sez. 6, n. 5075 del 9/1/2914, Crucitti, Rv. 258046.

Infine, ancora su temi generali, si è ribadito l'orientamento consolidato secondo cui la nozione di reati "della stessa indole", posta dall'art 101 cod. pen. e rilevante per l'applicazione della recidiva ex art. 99, comma secondo, n. 1, cod. pen., prescinde dalla identità della norma incriminatrice e fa riferimento ai criteri del bene giuridico violato o del movente delittuoso, che consentono di accertare, nei casi concreti, i caratteri fondamentali comuni fra i diversi reati; così, Sez. 6, n. 15439 del 17/3/2016, C., Rv. 266545 (in passato, tra le numerose conformi, Sez. 2, n. 40105 del 21/10/2010, Apostolico, Rv. 248774; Sez. 1, n. 46138 del 27/10/2009, Greco, Rv. 245504; Sez. 3, n. 3362 del 4/10/1996, Barrese, Rv. 206531).

Raggruppando, invece, le decisioni più significative secondo macroargomenti di interazione tra istituti possono distinguersi quelle riferite a:

a) recidiva ed effetti della sentenza di incostituzionalità n. 185 del 2015.

Come si è già anticipato, la Suprema Corte ha dovuto confrontarsi con le rilevanti ricadute della dichiarazione di incostituzionalità della recidiva cd. obbligatoria prevista dall'art. 99, comma 5, cod. pen., avvenuta a seguito della pronuncia di incostituzionalità n. 185 del 2015 Corte cost.

Si è affermato, in merito alla legalità della pena inflitta con la previgente disciplina, che è rilevabile d'ufficio, anche in caso di ricorso inammissibile, l'illegittimità sopravvenuta della sanzione che ha applicato la recidiva obbligatoria di cui all'art. 99, comma quinto, cod. pen., in epoca antecedente alla sentenza della Corte costituzionale n. 185 del 2015, qualora dalla motivazione non emerga alcuna valutazione in ordine all'effettiva incidenza della recidiva sul disvalore del fatto, che porti a ritenere comunque legittimo l'aumento di pena disposto; ed invece, si è coerentemente ritenuta la legittimità della pena, qualora tale valutazione emerga, ancorchè implicitamente. In tal senso si sono espresse Sez. 2, n. 37385 del 21/6/2016, Arena, Rv. 267912; Sez. 2, n. 27366 del 11/5/2016, Bella, Rv. 267154; Sez. 2, n. 20205 del 26/4/2016, Bonaccorsi, Rv. 266679. Si confronti anche la sentenza Sez. 6, n. 34670 del 2016, cit., che ha chiaramente affermato l'obbligo, derivante dalla sentenza n. 185 del 2015 Corte cost., di accertamento della concreta significatività del nuovo episodio in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti, avuto riguardo ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo, ai fini del riconoscimento della recidiva.

L'indirizzo giurisprudenziale si iscrive, specificamente, nell'orientamento emerso sin dal 2015, immediatamente dopo la pronuncia di incostituzionalità (cfr. Sez. 2, n. 43399 del 9/9/2015, Nicolosi, Rv. 265170) e, in generale, è coerente con le affermazioni in tema di illegalità della pena, conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di una disciplina incidente sul trattamento sanzionatorio, pronunciate nel corso del 2015 dalle stesse Sezioni Unite: cfr. Sez. U, n. 33040 del 26/2/2015, Jazouli, Rv. 264207.

b) recidiva e cause di estinzione del reato o della pena.

Prescrizione: in tale ambito, tra le pronunce di legittimità massimate, si segnalano quelle con cui si è ribadito nuovamente che la recidiva reiterata determina i suoi effetti di circostanza aggravante ad effetto speciale, rilevante ai fini del computo del termine di prescrizione, anche quando sia stata solo implicitamente oggetto di riconoscimento da parte del giudice, in motivazione, mediante riferimento ai precedenti risultanti dal certificato penale: così Sez. 5, n. 38287 del 6/4/2016, Politi, Rv. 267862 (in precedenza, conformi, più esplicitamente, cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 35805 del 18/6/2013, Romano, Rv. 25798; Sez. 1, n. 26786 del 18/6/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37750 del 26/6/2008, Locatelli, Rv. 241945); si richiama, peraltro, sul tema dei rapporti tra recidiva e prescrizione, anche quanto riportato nel corso dell'analisi della sentenza delle Sezioni Unite Filosofi.

Si è, inoltre, affermato, in generale, che la recidiva reiterata, quale circostanza ad effetto speciale, incide sul calcolo del termine prescrizionale minimo del reato, ai sensi dell'art. 157, comma secondo, cod. pen. e, in presenza di atti interruttivi, anche su quello del termine massimo, in ragione della entità della proroga, ex art. 161, comma secondo, cod. pen. (Sez. 2, n. 13463 del 18/2/2016, Giofrè, Rv. 266532, che si richiama alla giurisprudenza tradizionale sulla generale affermazione della rilevanza della recidiva ai fini del computo del termine di prescrizione). Tale pronuncia si pone consapevolmente in contrasto con altra tesi, espressa nel 2015 da Sez. 6, n. 47269 del 9/9/2015, Fallani, Rv. 265518, secondo cui è possibile tener conto della recidiva reiterata al fine dell'individuazione del termine prescrizionale-base, ai sensi dell'art. 157, comma secondo, cod. pen., o del termine massimo, ai sensi dell'art. 161, comma secondo, cod. pen., ma non contemporaneamente, altrimenti ponendosi a carico del reo lo stesso elemento, in violazione del principio del "ne bis in idem" sostanziale.

c) recidiva e contenuto della motivazione del provvedimento che la ritiene o la esclude.

Deve segnalarsi una pronuncia (Sez. 6, n. 20271 del 27/4/2016, Duse, Rv. 267130), che ha ribadito un principio, già in passato affermato, in tema di sufficienza della motivazione implicita a fondare l'applicazione della recidiva contestata; il principio è così massimato: "L'applicazione della recidiva facoltativa contestata richiede uno specifico onere motivazionale da parte del giudice, che, tuttavia, può essere adempiuto anche implicitamente, ove si dia conto della ricorrenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore". La fattispecie oggetto della decisione si riferiva a motivazione implicita desunta dal richiamo, operato in sentenza, alla negativa personalità dell'imputato evincibile dall'altissima pericolosità sociale della condotta da costui posta in essere. La decisione interviene dando continuità a quello che sembra essere l'orientamento tuttora maggioritario (cfr. Sez. 2, n. 39743 del 17/9/2015, Dal Vento, Rv. 264533; Sez. 2, n. 40218 del 19/6/2012, Fatale, Rv. 254341; Sez. 3, n. 22038 del 21/4/2010, F., Rv. 247634; Sez. 2, n. 5542 del 14/12/1979, dep. 1980, Chierotti, Rv. 145166), pur in presenza di pronunce dai diversi accenti riferite in generale alla motivazione della ritenuta od esclusa recidiva. Tra queste ultime, si evidenziano: Sez. 6, n. 16244 del 27/2/2013, Nicotra, Rv. 256183, che segnala la necessità di uno specifico onere di motivazione del giudice in relazione alla recidiva, sia che egli la escluda sia nel caso in cui la ritenga, dinanzi ad una sentenza di merito che aveva utilizzato una mera formula di stile per rigettare la richiesta difensiva di disapplicazione della recidiva; Sez. F, n. 35526 del 19/8/2013, De Silvio, Rv. 256713, che egualmente sottolinea la necessità di un'adeguata motivazione in ordine alla sussistenza in concreto delle condizioni per ritenere la recidiva che, altrimenti, deve essere esclusa e Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014, dep. 2015, n. 263464, Gordyusceva, Rv. 263474, che richiama l'attenzione sull'obbligo di specifica motivazione in caso di applicazione dell'aumento di pena per la recidiva facoltativa, espressione del potere discrezionale del giudice (tuttavia contra, Sez. 5, n. 711 del 19/11/2009, dep. 2010, Stracuzzi, Rv. 245733; Sez. 3, n. 13923 del 18/2/2009, Criscuolo, Rv. 243505).

Si ricordi, in generale, che le Sezioni unite, con la decisione del 27 ottobre 2011, n. 5859/2012, Marcianò, Rv. 251690 avevano affermato la sussistenza di un dovere di motivazione specifica sulla recidiva facoltativa in capo al giudice, sia se si ritenga, sia se si escluda la rilevanza della circostanza in parola: sui diversi accenti di tale dovere, come visto, tuttora si discute.

d) recidiva e computo della pena.

Nel 2016, Sez. 2. N. 30437 del 16/6/2016, Cutrì, R. 267416 ha affermato che lo sbarramento quantitativo previsto dall'art. 99, ultimo comma, cod. pen. - per cui "l'aumento della pena non può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo" - si riferisce esclusivamente alle pregresse condanne per delitti dolosi e non anche a quelle per reati contravvenzionali.

e) Recidiva e patteggiamento.

Interessante è anche la pronuncia Sez. 6, n. 6673 del 18/2/2016, Mandri, Rv. 266119, secondo cui, in tema di patteggiamento, la declaratoria di estinzione del reato conseguente al decorso dei termini e al verificarsi delle condizioni previste dall'art. 445 cod. proc. pen. comporta l'estinzione degli effetti penali anche ai fini della recidiva (conforme, in precedenza, Sez. 3, n. 7067 del 12/12/2012, dep. 2013, Micillo, Rv. 254742), sicchè non sono corretti la contestazione mossa, nè l'eventuale riconoscimento della recidiva in sentenza, là dove siano decorsi cinque anni dall'irrevocabilità della condanna sulla cui base era stata contestata la recidiva stessa.

SEZIONE II I DELITTI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

  • funzione pubblica
  • pubblico ufficiale
  • servizio pubblico

CAPITOLO I

LE QUALIFICHE PUBBLICISTICHE

(di Alessandro D'Andrea )

Sommario

1 La pubblica funzione. - 2 L'incaricato di pubblico servizio. - 3 Il servizio pubblico attuato attraverso organismi privati. - 4 La cessazione della qualità di pubblico ufficiale.

1. La pubblica funzione.

La questione relativa all'individuazione della pubblica funzione, e, quindi, della qualifica soggettiva indicata dall'art. 357 cod. pen., è stata reiteratamente affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, ancora nell'anno di riferimento, in conformità all'ormai tradizionale approccio ermeneutico, per il quale le coordinate da tenere presenti per la configurazione della qualità di pubblico ufficiale sono: a) lo svolgimento di un'attività secondo norme di diritto pubblico, distinguendosi poi la pubblica funzione, nella quale sono esercitati i poteri tipici della potestà amministrativa, dal pubblico servizio, in cui tali poteri sono assenti (Sez. U, n. 10086 del 13 luglio 1998, Citaristi, Rv. 211190); b) la possibilità o il dovere di formare e manifestare la volontà della Pubblica Amministrazione, oppure esercitare, indipendentemente da formali investiture, poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, disgiuntamente considerati (Sez. U, n. 7958 del 27 marzo 1992, Delogu, Rv. 191171); c) la valutazione, più che del rapporto di dipendenza tra il soggetto e la P.A., dei caratteri propri dell'attività in concreto esercitata dal soggetto ed oggettivamente considerata (così, tra le altre, Sez. 5, n. 46310 del 4 novembre 2008, Pasqua, Rv. 242589 e Sez. 5, n. 29377 del 8 febbraio 2013, Bliznakoff, Rv 256943).

Si tratta di un'esegesi precipuamente fondata sulla novellata formulazione dell'art. 357 cod. pen., nella quale - espunto ogni riferimento al rapporto di dipendenza del soggetto dallo Stato o da altro ente pubblico ed eliminate tutte le specificazioni presenti nel precedente testo normativo, con la residua sola specificazione della (più complessa) funzione amministrativa - i limiti di individuazione della pubblica funzione dettati dalla legge 26 aprile 1990, n. 86, risultano caratterizzati da una natura: "esterna", comune anche alla nozione di incaricato di pubblico servizio, per cui l'attività deve comunque concernere l'area pubblicistica; "interna" all'area pubblicistica, che serve a distinguere la pubblica funzione dal pubblico servizio, individuando tale ultimo, in via residuale, nel caso di concreta mancanza dell'esercizio di poteri tipici della pubblica funzione. È necessario, infatti, che il pubblico ufficiale abbia la disponibilità, almeno alternativamente, di uno dei tre poteri indicati nel secondo comma dell'art. 357 cod. pen., e cioè di quello deliberativo (formazione e manifestazione della volontà della P.A.), di quello autoritativo o di quello certificativo.

Conseguentemente, in applicazione degli indicati canoni ermeneutici, la Corte ha riconosciuto, nella sentenza Sez. 5, n. 34912 del 7 marzo 2016, Machì, Rv. 267831, la qualifica di pubblico ufficiale al dipendente dell'Agenzia delle Entrate, sul presupposto che costui esplica la propria attività secondo norme di diritto pubblico, in particolare formando - o contribuendo a formare - e manifestando la volontà della P.A., attraverso l'esercizio di poteri autoritativi, o deliberativi o certificativi connessi alla gestione delle entrate erariali.

Gli atti emanati dall'Agenzia delle Entrate, infatti, a differenza di analoghi provvedimenti assunti da altre Agenzie non fiscali, rientrano tra quelli tipici dell'ordinamento statale, in quanto all'Agenzia delle Entrate è stato, per legge, affidato l'esercizio di una tipica e imprescindibile funzione statale, e cioè la gestione delle entrate tributarie erariali e dei servizi indicati dalla legge istitutiva (d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300). Nonostante l'autonomia organizzativa e funzionale di cui è dotata l'Agenzia delle Entrate, quindi, i suoi atti rientrano tra quelli tipici dell'ordinamento statale, con conseguente indiscussa configurabilità della sua natura pubblicistica.

Ai fini e per gli effetti di cui all'art. 357 cod. pen., pertanto, quella svolta dall'Agenzia delle Entrate è una pubblica funzione amministrativa, in quanto diretta a realizzare in via immediata le finalità essenziali all'esistenza ed al funzionamento dello Stato meglio precisate nelle norme di riferimento. Nel contempo, la sua complessa attività è disciplinata da norme di diritto pubblico ed è espressione della formazione della volontà della P.A., che manifesta attraverso la sua iniziativa istituzionale ed i suoi provvedimenti.

L'applicazione degli stessi parametri interpretativi la si rinviene, poi, nella pronuncia Sez. 5, n. 38466 del 22 luglio 2015, Todaro, Rv. 264921, in cui la Corte ha affermato che riveste la qualità di pubblico ufficiale il direttore di un istituto scolastico legalmente riconosciuto, atteso che l'insegnamento rappresenta una sicura espressione della pubblica funzione e che le scuole secondarie private sono state equiparate alle scuole pubbliche dalla legge 19 gennaio 1942, n. 86. Nel caso di specie, ritenuto l'indicato assunto ermeneutico, è stato concretamente configurato il delitto di falso ideologico con riguardo alla condotta del direttore di un centro studi riconosciuto dalla Regione Sicilia, che aveva rilasciato diplomi scolastici di scuola superiore a soggetti che non avevano mai sostenuto l'esame di Stato.

In senso analogo, la sentenza Sez. 5, n. 41004 del 5 maggio 2015, Mameli, Rv. 264874, ha affermato che ricorre la qualità di pubblico ufficiale in capo al protutore dell'interdetto che, al di fuori dei casi di usurpazione dell'investitura, eserciti di fatto le funzioni proprie del tutore, svolgendo, quest'ultimo, poteri autoritativi e certificativi propri di una pubblica funzione nell'interesse della collettività.

La Corte, infatti, tenendo debitamente conto di come, dopo la legge n. 86 del 1990, vi sia stata una netta evoluzione dell'ordinamento verso una concezione "oggettiva" della funzione pubblica e delle relative modalità di esercizio - il cui indice rivelatore deve primariamente essere ricercato nella disciplina (che deve evidenziare finalità di interesse pubblico) dell'attività concretamente svolta -, ha correttamente sottolineato come, guardando ai compiti espressamente stabiliti dal codice civile, il tutore eserciti una potestà di certificazione, significativamente svolta nell'ambito di un procedimento a carattere giurisdizionale, che svela, per la sua stessa struttura, la natura pubblicistica degli interessi coinvolti. Oltre a ciò, poi, rileva come il tutore eserciti, nei confronti dell'incapace, un potere autoritativo, del quale è investito proprio in quanto esercente una pubblica funzione nell'interesse della collettività.

Nella decisione Sez. 6, n. 27945 del 31 maggio 2016, Bucci, Rv. 267392, è stato, poi, precisato che l'ufficiale giudiziario, pur al di fuori della sua attività per conto del Ministero della Giustizia, riveste la qualità di pubblico ufficiale, potendo egli espletare altre attività involgenti il suo tipico ruolo di ufficiale fidefaciente - come, ad esempio, quelle in materia di protesti o di cassa cambiaria - nel cui esercizio mantiene la qualità di pubblico ufficiale, considerato che l'ufficiale giudiziario presta un'attività indubbiamente pubblica per la quale può avvalersi anche di una struttura propria, indipendente da quella del Ministero della Giustizia.

Riveste, inoltre, la qualifica di pubblico ufficiale il personale di Trenitalia s.p.a. incaricato del controllo dei biglietti di linea, in quanto, per come chiarito in Sez. 6, n. 15113 del 17 marzo 2016, Totta, Rv. 267311, esso è tenuto a provvedere alla constatazione dei fatti ed alle relative verbalizzazioni nell'ambito delle attività di prevenzione e di accertamento delle infrazioni relative ai trasporti.

Per gli stessi criteri interpretativi, quindi, la Corte ha escluso, nella sentenza Sez. 6, n. 30323 del 14 giugno 2016, Messina, Rv. 267522, che il responsabile di un'associazione privata avente la finalità di promuovere servizi culturali ed iniziative per il tempo libero in favore dei dipendenti della Polizia di Stato e dei loro familiari, possa rivestire la qualifica di pubblico ufficiale, non essendo, in tal caso, configurabile nessuna attività di formazione o di manifestazione della volontà della P.A., ovvero di esercizio di poteri autoritativi o certificativi. È stato anche escluso che il predetto soggetto possa assumere la qualità di incaricato di pubblico servizio, non essendo l'attività da lui espletata oggettivamente di pubblico interesse.

In Sez. 6, n. 23236 del 17 febbraio 2016, Billè, Rv. 267252 è stato affermato, ancora, che l'ENASARCO è un ente che, pur avendo la forma giuridica di fondazione di diritto privato, persegue finalità di pubblico interesse, posto che si occupa di previdenza integrativa a contribuzione obbligatoria degli associati, cui eroga un servizio pubblico sotto la vigilanza ministeriale e della Corte dei Conti, per cui ne deriva che deve essere riconosciuta la qualifica di pubblico ufficiale, e non quella di incaricato di pubblico servizio, a colui che determina le scelte degli investimenti immobiliari di detto soggetto giuridico.

Con un'ultima pronuncia di interesse, infine, la Corte ha precisato, in Sez. 5, n. 9542 del 2 dicembre 2015, dep. 2016, Nivola, Rv. 267554, che non riveste la qualifica di pubblico ufficiale il commissario, designato, ex art. 161, comma 3, 1. fall., per la stesura della relazione sul piano di fattibilità del concordato preventivo, poiché ad esso, a differenza di altre figure soggettive, quali quelle del curatore, del commissario giudiziale e del commissario liquidatore, la legislazione fallimentare non attribuisce espressamente l'indicata qualifica. Per la Corte, infatti, la mancanza di un'esplicita attribuzione a tale professionista della qualità di pubblico ufficiale è circostanza di decisivo rilievo, considerato che, per l'appunto, la predetta qualifica è stata espressamente conferita dalla legge fallimentare ad altri soggetti delle procedure concorsuali, in particolare attraverso le previsioni di cui agli artt. 30 (curatore), 165 (commissario giudiziale) e 199 (commissario liquidatore). Questo elemento, d'altro canto, è già stato ritenuto determinante nell'escludere la qualità di pubblico ufficiale per il liquidatore giudiziale nominato nella procedura di concordato preventivo, al quale pure tale qualifica non è stata espressamente attribuita dalla legge (Sez. 5, n. 15951 del 16 gennaio 2015, Bandettini, Rv. 263264).

2. L'incaricato di pubblico servizio.

Analogamente a quanto evidenziato con riferimento al pubblico ufficiale, l'esegesi giurisprudenziale sviluppatasi, nell'anno in oggetto, in ordine all'individuazione della qualifica di incaricato di pubblico servizio si connota per la sua sostanziale conformità rispetto all'interpretazione antecedente, consolidando l'affermazione della concezione funzionale-oggettiva, che basa la sussistenza della titolarità della qualifica soggettiva sull'effettivo svolgimento di un'attività pubblicistica.

Il legislatore del 1990, infatti, nel delineare la nozione di incaricato di pubblico servizio, ha privilegiato il criterio oggettivo-funzionale, utilizzando la locuzione "a qualunque titolo", eliminando ogni riferimento, invece contenuto nel vecchio testo dell'art. 358 cod. pen., al rapporto d'impiego con lo Stato o altro ente pubblico (concezione "soggettiva").

Per la dominante esegesi, pertanto, non si richiede più che l'attività svolta sia direttamente imputabile a un soggetto pubblico, essendo sufficiente che il servizio, anche se concretamente attuato attraverso organismi privati, realizzi finalità pubbliche. Il capoverso dell'art. 358 cod. pen. esplicita il concetto di servizio pubblico, ritenendolo formalmente omologo alla funzione pubblica, di cui al precedente articolo, ma caratterizzato dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima (poteri deliberativi, autoritativi o certificativi). Il pubblico servizio, in sostanza, è un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione (cioè mediante norme di diritto pubblico e atti autoritativi), tuttavia delimitata "in alto" dalla mancanza dei tre poteri tipici della pubblica funzione, e delimitata "in basso" dalla carenza di svolgimento di semplici mansioni di ordine o dalla prestazione di un'opera meramente materiale. Tali ultime devono essere interpretate, poi, in senso atecnico, senza puntuali riferimenti a previsioni normative, trovando applicazione nei riguardi di chiunque svolga un'attività di modesto rilievo, che si esaurisca nella mera esecuzione di ordini altrui (mansioni d'ordine) oppure in un impiego preponderante di energia fisica (opera materiale).

Per come da tempo esplicato dalla giurisprudenza di legittimità, il parametro di delimitazione esterna del pubblico servizio è identico a quello della pubblica funzione ed è costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l'operatività dell'agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, con esclusione, in ogni caso, dall'area pubblicistica delle mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale (così, tra le tante, Sez. 6, n. 39359 del 7 marzo 2012, Ferrazzoli, Rv. 254337).

In applicazione degli indicati parametri, quindi, la Corte ha ritenuto, nella sentenza Sez. 3, n. 33049 del 17 maggio 2016, B., Rv. 267401, che riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio il cappellano del carcere, avuto riguardo ai compiti assegnatigli per legge, funzionali all'interesse pubblico perseguito dallo Stato nel trattamento delle persone condannate o internate.

L'attività svolta dal cappellano del carcere, infatti, trova il suo fondamento nell'art. 15 dell'ord. pen., che espressamente prevede che il trattamento del condannato e dell'internato sia svolto avvalendosi anche della religione, a tal fine contemplando il servizio di assistenza cattolica all'interno della struttura penitenziaria, con compito di organizzare e presiedere alle pratiche di culto, istruzione e assistenza dei detenuti.

Sulla base dell'indicato presupposto, quindi, è stato affermato, nella stessa sentenza, che il cappellano, rivestendo la qualità di incaricato di pubblico servizio, integra il delitto di violenza sessuale con "abuso di autorità" qualora commetta il reato in danno di un detenuto, osservato che tale espressione - costituente, unitamente alla "violenza" o alla "minaccia", una delle modalità di consumazione tipiche del reato di cui all'art. 609-bis cod. pen. - ricomprende non solo le posizioni autoritative di tipo formale e pubblicistico, coincidenti con la qualifica di pubblico ufficiale, ma anche ogni potere di supremazia di natura privata, di cui l'agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali.

Sempre in tema di reati contro la libertà sessuale, quindi, la Corte ha chiarito, nella decisione Sez. 3, n. 26427 del 25 febbraio 2016, B., 267298, che, ai fini della procedibilità d'ufficio prevista dall'art. 609-septies, comma 4, n. 3, cod. pen., assume la qualifica di incaricato di pubblico servizio l'ausiliario socio assistenziale di una casa di riposo, attese le mansioni di assistenza diretta alla persona cui è tenuto, coinvolgenti compiti di carattere intellettivo e non meramente esecutivo e materiale.

Con la sentenza Sez. 6, n. 45082 del 1 ottobre 2015, Marrocco, Rv. 265341, poi, è stato affermato che il gestore di un'agenzia di pratiche automobilistiche autorizzata alla riscossione delle tasse regionali riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio, atteso che la riscossione integra un'attività o una funzione di natura pubblica ed egli, per le incombenze affidategli, subentra nella posizione della P.A., svolgendo mansioni che ineriscono al corretto e puntuale svolgimento della riscossione medesima.

La Corte ha già in passato precisato, infatti, che la riscossione di tasse automobilistiche integra un'attività o una funzione di natura pubblica (così, ad esempio, Sez. 6, n. 15724 del 6 febbraio 2013, Reni, Rv. 256226, con riferimento all'attività di riscossione espletata da una delegazione dell'ACI), per cui anche il gestore di fatto di tale attività non può che rivestire la qualifica soggettiva prevista dall'art. 358 cod. pen.

In quanto incaricato di pubblico servizio, poi, commette il delitto di peculato - per come precisato da Sez. 6, n. 46954 del 21 maggio 2015, Bongiovanni, Rv. 265275 - il concessionario titolare dell'attività di raccolta delle giocate del lotto che ometta il versamento all'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato delle somme riscosse per le giocate, atteso che il denaro incassato dall'agente è, sin dal momento della sua riscossione, di pertinenza della P.A. e che il reato si consuma allo spirare del termine fissato dalla legge o dal contratto di concessione.

In ragione di quanto stabilito dalla sentenza Sez. 6, n. 8070 del 2 febbraio 2016, Antuori, Rv. 266314 - in piena conformità a Sez. 1, n. 36676 del 14 giugno 2013, Lepre, Rv. 256886; nonché agli evidenziati criteri di differenziazione tra la qualifica ex art. 358 cod. pen. e le persone esercenti un servizio di pubblica necessità - non può essere riconosciuta la qualifica di incaricato di pubblico servizio al commesso di tribunale, trattandosi di soggetto che, normalmente, espleta mansioni meramente esecutive. Nella specie, la Corte ha escluso la configurabilità del delitto di corruzione nei confronti di alcuni commessi che, senza essere concretamente inseriti, anche solo di fatto, nell'assetto organizzativo dell'ufficio, avevano svolto, in cambio di somme di denaro, attività in favore di alcuni difensori, rilasciando copie informali e comunicando il contenuto di atti e provvedimenti del giudice, anche prima del loro deposito.

3. Il servizio pubblico attuato attraverso organismi privati.

L'ambito applicativo in cui maggiormente rileva il criterio oggettivo-funzionale, attraverso cui - alla stregua di quanto osservato - la giurisprudenza di legittimità procede all'individuazione delle figure di incaricato di pubblico servizio, è certamente rappresentato da quelle - invero numerose - situazioni in cui il servizio, pur sempre finalizzato alla realizzazione di finalità pubbliche, viene in concreto attuato nell'ambito o attraverso organismi privati.

È il caso, ad esempio, della sentenza Sez. 6, n. 6847 del 26 gennaio 2016, Miele, Rv. 267015, in cui è stata configurata la qualifica di incaricato di pubblico servizio nei riguardi dell'amministratore di un Istituto di vigilanza privata avente il compito di trasportare, contare, custodire e versare denaro per conto di terzi, considerato che tali mansioni - volte allo svolgimento in forma garantita di attività proprie di un servizio di pubblico interesse - implicano un complesso di obblighi di rendiconto e di tenuta della documentazione contabile, che necessariamente esula dallo svolgimento di incombenti solo materiali o di ordine. In applicazione dell'indicato principio, la Corte ha ritenuto integrato il delitto di peculato nella condotta del legale rappresentante del predetto Istituto che si era appropriato di una somma di denaro che aveva il compito di custodire in un proprio "caveau", dopo averlo prelevato da alcuni punti vendita della Società committente e prima di versarlo presso un Istituto di credito.

Il direttore generale di una fondazione, cui la legge regionale istitutiva ha attribuito compiti di valorizzazione del patrimonio culturale della Sicilia e di conservazione e ordinamento dell'archivio storico dell'autonomia e dell'attività dell'Assemblea Parlamentare Regionale, riveste, per la sentenza Sez. 6, n. 4126 del 12 novembre 2015, dep. 2016, Acierno, Rv. 266309, la qualifica di incaricato di pubblico servizio, attesa la natura pubblica delle funzioni e dei servizi affidati alla fondazione.

Nel rispetto dei parametri ermeneutici propri del consolidato indirizzo giurisprudenziale, infatti, la Corte ha ritenuto configurata, nella specie, la qualifica ex art. 358 cod. pen. sul presupposto che l'imputato, oltre a rivestire la qualità di Presidente di un gruppo parlamentare, era stato formalmente incaricato dal Presidente dell'Assemblea Regionale Siciliana di funzioni aventi ad oggetto la gestione di denaro pubblico che non si collegavano alla carica da questi ricoperta.

Significativamente, la pronuncia Sez. 6, n. 28299 del 10 novembre 2015, dep. 2016, Bonomelli, Rv. 267045, ha precisato, con riferimento alle società operanti nei c.d. settori speciali (nella fattispecie quello dell'energia), che i funzionari da esse dipendenti sono incaricati di pubblico servizio, atteso il rilievo pubblicistico dell'attività svolta da dette società, obbligate ad adottare la procedura di evidenza pubblica nella gestione degli appalti. In motivazione, la Corte ha precisato, infatti, come proprio l'obbligatorietà della procedura di evidenza pubblica costituisca un importante indice sintomatico del rilievo pubblicistico dell'attività svolta dalla società, in quanto la sua previsione presuppone la necessità ed il riconoscimento che una determinata attività, relativa a settori strategici per gli interessi pubblici di uno Stato, sia sottoposta ad un regime amministrativo che assicuri la tutela della concorrenza assieme all'imparzialità della scelta del soggetto aggiudicatario.

Con riferimento, poi, ad una fattispecie in cui è stata riconosciuta la qualifica di incaricato di pubblico servizio al Presidente di una società per azioni, operante secondo le regole privatistiche ma partecipata interamente da un Comune, avente ad oggetto la gestione di servizi di manutenzione del verde pubblico e dell'arredo urbano, la sentenza Sez. 6, n. 1327 del 7 luglio 2015, dep. 2016, Caianiello, Rv. 266265, ha ribadito il generale principio - già sostanzialmente affermato in Sez. 6, n. 49759 del 27 novembre 2012, Zabatta, Rv. 254201 e Sez. 6, n. 45908 del 16 ottobre 2013, Orsi, Rv. 257384 - per cui, ai fini della configurazione del reato di peculato, i soggetti inseriti nella struttura organizzativa e lavorativa di una società per azioni possono essere considerati pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, allorquando la ragione d'essere della società medesima risieda nel generale perseguimento di finalità connesse a servizi di interesse pubblico, a nulla rilevando che dette finalità siano realizzate con meri strumenti privatistici.

Sempre in termini generali, quindi, la decisione Sez. 6, n. 49286 del 7 luglio 2015, Di Franco, Rv. 265702, ha affermato che riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio il dipendente di una società di diritto privato, ad intera partecipazione pubblica, che operi per il soddisfacimento di finalità tipicamente pubbliche.

Con maggiore dettaglio, invece, la pronuncia Sez. 6, n. 6405 del 12 novembre 2015, dep. 2016, Minzolini, Rv. 265830, ha affermato che il direttore di un telegiornale della R.A.I. riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio in considerazione della connotazione pubblicistica dell'attività di informazione radiotelevisiva, essendo irrilevante la natura privata di tale società. Alla stregua dei principi che regolano l'individuazione della figura di incaricato di pubblico servizio, come evincibili dal disposto del novellato art. 358 cod. pen., infatti, non appare esservi dubbio alcuno in ordine al fatto che il direttore di un telegiornale della R.A.I. rivesta la qualità di incaricato di pubblico servizio, a prescindere dalla natura privata di tale società, in considerazione della certa connotazione pubblicistica dell'attività di informazione radiotelevisiva svolta dalla R.A.I. Essa si caratterizza, in particolare, per la diretta inerenza al preminente interesse generale ad una informazione corretta e pluralista, concretandosi in un servizio offerto alla generalità dei cittadini da un soggetto - la R.A.I. Radio Televisione Italiana s.p.a. - che, nonostante la veste di società per azioni, peraltro partecipata totalitariamente da enti pubblici, è: designata dalla legge quale concessionaria dell'essenziale servizio pubblico radiotelevisivo; sottoposta a vigilanza da parte di apposita commissione parlamentare; destinataria di un canone avente natura di imposta, tra l'altro destinato, precipuamente, alla copertura dei costi dell'attività propria al suddetto servizio pubblico di informazione radiotelevisiva. Pertanto, l'attività in concreto svolta, di carattere intellettivo e non meramente esecutivo o d'ordine, pur senza i poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione, attiene a bisogni di pubblico interesse, non aventi carattere industriale o commerciale, il cui soddisfacimento è perseguito istituzionalmente con capitali pubblici e secondo modalità e forme determinate da regolamentazione di natura pubblicistica, rientrando, così, nell'alveo della prestazione di pubblico servizio, quale definita dall'art. 358 cod. pen.

Sempre in materia, deve essere dato conto della sentenza Sez. 6, n. 3743 del 10 dicembre 2015, dep. 2016, Masini, n.m., che ha ulteriormente puntualizzato come, stante il criterio oggettivo-funzionale cui risulta informata la nozione di incaricato di pubblico servizio recepita dall'art. 358 cod. pen. - per cui non basta una concessione pubblica a trasformare oggettivamente qualunque attività espletata dal concessionario in servizio pubblico, né qualunque attività svolta nell'ambito di un ente pubblico o di una società a partecipazione pubblica è automaticamente pertinente allo svolgimento delle funzioni istituzionali per le quali l'ente medesimo è istituito o controllato - in nessun caso la scritturazione degli attori potrebbe ritenersi inerente alle finalità di interesse pubblico che la R.A.I., in quanto concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, è tenuta a perseguire.

Ad ulteriore sviluppo delle argomentazioni da ultimo espresse, deve essere rappresentato, infine, il contenuto dell'interessante decisione Sez. 2, n. 53074 del 4 ottobre 2016, Giuli, n.m., in cui è stata precipuamente e diffusamente considerata la problematica relativa alla configurazione delle qualifiche soggettive con riguardo all'ipotesi degli enti privatizzati.

La Corte ha, infatti, osservato come costituisca, ormai, un dato acclarato che il legislatore, sotto la spinta dell'ordinamento europeo, ha avviato un processo di trasformazione di molti enti pubblici economici in società private (normalmente società per azioni), e di molti enti pubblici (non economici) in fondazioni o associazioni, per cui lo Stato e gli enti pubblici territoriali hanno progressivamente dismesso la veste di operatore economico per acquisire quella di regolatore di mercato, svolgendo funzioni di indirizzo e sorveglianza. Proprio con riferimento agli enti privatizzati, quindi, si è registrata la forte coesistenza in essi di elementi pubblicistici, e, in particolare, con riguardo alle società per azioni, si è assistito ad una conseguente attrazione della loro attività nella sfera pubblicistica. Ne è derivato che lo schema societario, per come reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, di per sé non costituisce un indice di riconoscimento della natura privatistica dell'ente. La forma societaria, infatti, assume solo un carattere neutro, rendendo necessario basarsi, per il riconoscimento della natura pubblicistica dell'ente, su parametri ulteriori, quali, ad esempio, quelli indicati dall'art. 3 d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163.

In relazione ai superiori aspetti, allora, la Corte ha evidenziato il rilievo in concreto assunto dalla sentenza Sez. 2, n. 17889 del 14 aprile 2015, Markab Group, Rv. 263658, che ha distinto l'ipotesi dell'ente istituito per soddisfare bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale dall'ente che soddisfa bisogni di interesse generale invece avente tale carattere industriale o commerciale, in quanto, pur essendo entrambi gli enti finalizzati a soddisfare bisogni di interesse generale, solo in relazione ai primi è possibile individuare degli organismi di diritto pubblico.

Anche la Corte di Giustizia, nella decisione Corte giustizia, 22 maggio 2003, Taitotalo Oy, ha affermato la necessità di valutare, volta per volta, l'esistenza o l'assenza di un bisogno di interesse generale, ai fini dell'individuazione della natura pubblicistica dell'ente, tenendo conto di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti, quali le circostanze che hanno presieduto alla creazione dell'organismo interessato e le condizioni in cui quest'ultimo esercita la propria attività.

In sostanza, è stato valorizzato il parametro sostanzialistico funzionale e superato il dato meramente "formalistico-strutturale" dell'ente, in esito ad un approccio interpretativo coerente con i principi reiteratamente affermati dalla giurisprudenza costituzionale, da quella amministrativa e da quella civile.

Particolarmente significativa, infine, è, per la Corte, la circostanza che anche la legislazione comunitaria, in un'ottica di riavvicinamento delle diverse posizioni riscontrabili nelle legislazioni dei Paesi aderenti, ha elaborato una nozione di organismo pubblico fondato su una concezione sostanzialistica o funzionale (Direttive 92/50/CEE, 93/36/CEE e 93/37/ CEE).

4. La cessazione della qualità di pubblico ufficiale.

Un'interessante decisione è stata pronunciata, nell'anno in esame, a precisazione del contenuto del disposto dell'art. 360 cod. pen.

Si tratta della sentenza Sez. 6, n. 27392 del 19 maggio 2016, Bisignano, Rv. 267234, con cui la Corte ha chiarito che l'art. 360 cod. pen. - che prevede la configurabilità del reato anche nelle ipotesi in cui il soggetto investito del pubblico ufficio abbia perduto la qualifica soggettiva pubblicistica - costituisce un'eccezione alla regola generale secondo cui l'indicata qualifica deve sussistere al momento della commissione del reato, con la conseguenza che tale disposizione non può essere applicata nei casi in cui il fatto commesso si riferisca ad un ufficio o servizio che l'agente inizi ad esercitare in un momento successivo.

La sentenza è posta in termini di conformità rispetto alle linee interpretative già da tempo tracciate nell'esegesi giurisprudenziale riguardo all'ambito di applicazione della norma dell'art. 360 cod. pen., secondo cui la tutela penale apprestata dall'ordinamento in relazione alla qualità di pubblico ufficiale (o d'incaricato di un pubblico servizio o di esercente un servizio di pubblica necessità) è disposta nel pubblico interesse, che può essere leso o posto in pericolo non solo durante il periodo in cui il pubblico ufficiale esercita le sue mansioni, ma anche dopo, quando il soggetto investito del pubblico ufficio abbia perduto tale qualifica, sempre che il reato da lui commesso si riconnetta all'ufficio precedentemente prestato (Così, tra le più recenti, Sez. 6, n. 20558 del 11 maggio 2010, Pepoli, Rv. 247394 e Sez. 6, n. 39010 del 10 aprile 2013, Baglivo, Rv. 256596).

L'art. 360 cod. pen., infatti, non richiede necessariamente l'attualità dell'esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio, e cioè che l'agente sia titolare dei poteri o della qualità di cui abusa nell'immanenza della condotta criminosa, ma stabilisce, in linea con la concezione oggettivo-funzionale delle qualità e dei poteri correlati alle novellate figure degli artt. 357 e 358 cod. pen., un peculiare criterio di collegamento tra la specificità del bene giuridico tutelato dalle relative fattispecie incriminatrici e la effettiva capacità offensiva di una condotta la cui realizzazione è in concreto resa possibile proprio dalla natura dell'attività precedentemente esercitata. Siffatta disposizione, dunque, sta ad indicare che una connessione sostanziale tra il fatto commesso e l'ufficio o il servizio in precedenza ricoperto o esercitato può esservi anche nell'ipotesi in cui il potere pubblicistico, ormai, non sia più formalmente esercitabile per l'intervenuta cessazione della relativa qualità "nel momento in cui il reato è commesso".

Per la Corte, tuttavia, occorre considerare, sotto altro ma connesso profilo, che la norma dell'art. 360 cod. pen. costituisce pur sempre un'eccezione alla regola secondo cui le qualifiche soggettive pubblicistiche devono sussistere al momento del fatto, poiché è il possesso di tali qualifiche ad investire il soggetto di quei poteri o doveri il cui abuso o violazione integra il contenuto di disvalore proprio del singolo delitto contro la pubblica amministrazione. Ne consegue, pertanto, l'inapplicabilità di tale previsione normativa nei casi in cui le condotte siano anteriori all'acquisto della qualifica, ossia quando quest'ultima non sussista ancora al tempo della condotta, ma il fatto commesso si riferisca ad un ufficio o servizio che il soggetto attivo venga ad esercitare in un momento successivo: l'ultrattività della qualifica personale si basa su un collegamento di natura funzionale con il fatto che il legislatore ha in via eccezionale considerato rilevante, ma la tassatività della relativa sequenza temporale impone pur sempre di ritenere, al fine qui considerato, che il fatto deve seguire la perdita della qualità, non precederne l'assunzione.

  • reato
  • pubblica amministrazione

CAPITOLO II

I DELITTI CONTRO LA P.A.: GLI SVILUPPI APPLICATIVI DELLA L. N. 190 DEL 2012

(di Piero Silvestri )

Sommario

Premessa. Gli sviluppi applicativi della 1. n. 190 del 2012.

Premessa.. Gli sviluppi applicativi della 1. n. 190 del 2012.

A quattro anni dall'entrata in vigore della c.d. legge anticorruzione (L. 6 novembre 2012, n. 190), l'attenzione della giurisprudenza della Corte di cassazione continua ad essere prevalentemente volta alla elaborazione conseguente allo "spacchettamento"' legislativo del previgente art. 317 cod. pen. nelle due fattispecie di concussione e d'induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater cod. pen.).

È diffusa l'affermazione secondo cui in questi anni si è tentato di far fronte al non chiaro disposto normativo e di superare la difficoltà - derivante della necessità di individuare correttamente la nozione di induzione - di delineare i rapporti interni tra figure criminose.

La serrata evoluzione giurisprudenziale in materia di concussione e induzione indebita ha accentrato l'interesse generale, dando luogo ad un ampio confronto dottrinale, caratterizzato da una molteplicità di ricostruzioni sistematiche e da una diffusa rivisitazione critica delle scelte legislative e, in alcuni casi, delle risposte della giurisprudenza ritenute influenzate, proprio a causa della inadeguatezza del dato normativo, più da una logica di 'processualizzazione' delle fattispecie (con conseguente valorizzazione della logica dell'accertamento probatorio fattuale), piuttosto che da un approccio sistematico e acasistico.

Non si è registrata invece un'altrettanto corposa e vivace interlocuzione giudiziale rispetto alle innovazioni apportate alla disciplina in tema di corruzione.

Si è evidenziato come ciò sia dipeso verosimilmente dal fatto che mentre le modificazioni apportate alla disciplina in tema di concussione hanno determinato un assetto normativo nuovo e diverso, che, non avendo riferimenti preesistenti nel diritto vivente, ha posto una stringente esigenza di individuazione "ex novo" di nuovi criteri di interpretazione e di orientamento dell'interprete, viceversa, l'intervento di riforma in materia di corruzione ha operato in un ambito normativo che aveva già ricevuto rilevanti interventi conformativi da parte della giurisprudenza.

In tale contesto, il presente contributo si propone, da una parte, di esaminare la giurisprudenza della Corte di cassazione intervenuta in tema di concussione e di induzione indebita a dare o promettere utilità dopo la pronuncia delle Sezioni unite "Maldera" (Sez. un., n. 12228 del 24/10/2013, Rv. 258470- 471-472-473-474-475-476), e, dall'altra, di segnalare alcune rilevanti pronunce riguardanti le diverse forme di corruzione.

  • reato
  • pubblico ufficiale
  • pubblica amministrazione

PARTE PRIMA

I RAPPORTI TRA CONCUSSIONE E INDUZIONE INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITÁ.

Sommario

1 I rapporti tra concussione e induzione indebita a dare o promettere utilità. il punto di partenza: le Sezioni unite "Maldera" e i criteri discretivi enunciati. - 2 La giurisprudenza successiva. - 3 Le sentenze in tema di concussione: l'applicazione del criterio distintivo generale formulato dalle Sezioni Unite "Maldera". - 3.1 (segue). Le sentenze in cui si fa riferimento ai criteri casistico - processuali. La configurabilità del reato di concussione anche nel caso in cui il privato, pagando a seguito di minaccia, consegua un indebito vantaggio. - 3.2 (segue). Le sentenze in cui la Corte fa riferimento ai criteri casistico - processuali: il criterio del bilanciamento dei beni. - 3.3 (segue). Le sentenze in cui la Corte fa riferimento ai criteri casistico - processuali: la minaccia dell'esercizio di un potere discrezionale. - 3.4 (segue). Le sentenze in cui la Corte fa riferimento ai criteri casistico-processuali: l'abuso di qualità. - 4 La giurisprudenza tra concussione ed induzione indebita. - 5 La giurisprudenza in tema di induzione indebita. - 6 La struttura del delitto di induzione indebita a dare o promettere: la configurabilità del tentativo. - 7 I rapporti tra induzione indebita e violenza sessuale. - 8 I rapporti tra frode, induzione indebita e truffa.

1. I rapporti tra concussione e induzione indebita a dare o promettere utilità. il punto di partenza: le Sezioni unite "Maldera" e i criteri discretivi enunciati.

In estrema sintesi, la Corte di cassazione, prima dell'intervento delle Sezioni unite, aveva individuato tre criteri cui fare riferimento per distinguere la concussione "per costrizione" dalla "nuova" induzione.

Le Sezioni unite della Corte, chiamate a risolvere il contrasto giurisprudenziale, dopo aver esaminato i criteri distintivi in questione, affermarono che:

- sussiste continuità normativa fra la concussione per induzione di cui al previgente art. 317 cod. pen. ed il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all'art. 319-quater cod. pen., introdotto dalla 1. n. 190 del 2012, considerato che la pur prevista punibilità, in quest'ultimo, del soggetto indotto non ha mutato la struttura dell'abuso induttivo, fermo restando, per i fatti pregressi, l'applicazione del più favorevole trattamento sanzionatorio di cui alla nuova norma.

- la condotta di "costrizione" ex art. 317 non poneva significativi problemi interpretativi, in quanto "evoca una condotta di violenza e di minaccia ( . . . ). La minaccia, quindi, quale modalità dell'abuso costrittivo di cui all'art. 317 cod. pen., presuppone sempre un autore e una vittima, il che spiega il ruolo di vittima che assume il concusso";

- nell'ambito di un iter argomentativo articolato, il delitto di induzione indebita ex art. 319 quater è connotato, negativamente, dall'assenza di violenza-minaccia (da cui invece consegue nella concussione il successivo danno ingiusto per il privato) da parte dell'intraneus e, in positivo, dalla esistenza di un vantaggio indebito in capo all' extraneus.

Nell'ambito di tale generale criterio interpretativo di distinzione tra concussione e induzione indebita, le Sezioni unite, evidentemente consapevoli delle difficoltà di operatività di tale unico criterio discretivo, si preoccuparono di esaminare ipotesi - tutt'altro che rare e scolastiche - alle quali appariva non semplice applicare il principio di diritto generale da esse stesse enunciato.

Nel prosieguo della motivazione, la Corte, in ragione della difficoltà delle situazioni concrete, esplicita la consapevolezza che se la soluzione individuata era appagante rispetto ai casi più "facili", in cui risulta evidente la presenza o l'assenza di un effetto coartante o persuasivo del pubblico agente, non lo era allo stesso modo per tutta una serie di situazioni, già emerse nella prassi.

Proprio per questi più ambigui, complessi, non facilmente classificabili, quasi borderline, occorreva integrare o adattare il criterio generale del vantaggio o del danno.

Dunque, come è stato da più parti rilevato, un approccio non più sistematico, ma casistico, di tipo processuale in cui decisiva valenza non poteva che essere attribuito al profilo probatorio "il giudice dovrà procedere, innanzi tutto, all'esatta ricostruzione del fatto, co gliendone gli aspetti più qualificanti, e quindi al corretto inquadramento nella norma incriminatrice di riferimento, lasciandosi guidare, alla luce comunque dei parametri rivelatori dell'abuso costrittivo o di quello induttivo, verso la soluzione più applicativa più giusta" (cosi le Sezioni unite).

Si tratta di ipotesi sostanzialmente caratterizzate dalla co-esistenza, secondo differenti moduli di gradazione, del requisito del danno ingiusto e di quello del vantaggio indebito.

Ci si riferisce:

- alle situazioni cc. dd. miste, di minaccia-offerta o minaccia-promessa;

- ai casi non classificabili, in cui è necessario impiegare il criterio sussidiario del bilanciamento dei beni giuridici coinvolti nel conflitto decisionale;

- alle ipotesi fondate sulla minaccia dell'uso di un potere discrezionale;

- alla prospettazione di un danno generico, per mezzo di autosuggestione o per metus ab intrinseco;

- alla presenza del c.d. abuso di qualità, cioè quella forma di abuso che, secondo le stesse Sezioni unite "si presta ad una duplice plausibile lettura, in quanto può porre il privato in una condizione di pressoché totale soggezione, determinata dal timore di possibili ritorsioni antigiuridiche, per evitare le quali finisce con l'assecondare la richiesta; ovvero può indurre il privato a dare o promettere l'indebito, per acquisire la benevolenza del pubblico agente, foriera potenzialmente di futuri favori, posto che il vantaggio indebito, sotto il profilo contenutistico, può consistere, oltre che in un beneficio determinato e specificamente individuato, anche in una generica 'disponibilità clientelare' del pubblico agente."

2. La giurisprudenza successiva.

L'esame delle sentenze delle Sezioni semplici della Corte di cassazione successive alla sentenza "Maldera, e, in particolare, di quelle intervenute nel corso del 2016, consente di individuare:

1) un gruppo di pronunce in cui la Corte, rigettando i ricorsi, ha confermato la qualificazione giuridica del fatto, riconducendola alla fattispecie di concussione anche nella nuova formulazione normativa;

2) un gruppo di sentenze in cui la Corte ha annullato con rinvio la decisione impugnata perché in relazione alla condotta dell'imputato, originariamente contestata ai sensi del previgente art. 317 cod. pen., non poteva ritenersi raggiunta la prova necessaria per l'applicazione del criterio discretivo generale individuato dalle Sezioni unite;

3) un ulteriore gruppo di sentenze in cui la condotta, originariamente contestata ai sensi del previgente art. 317 cod. pen. nella modalità induttiva, è stata poi sussunta nel nuovo reato di induzione indebita ex art. 319-quater. (il riferimento generale anche per tali sentenze è costituto dai principi delle Sezioni unite, cioè sussistenza contemporanea ai fini della configurazione del reato di cui all'art. 319-quater cod. pen.: a) della pressione morale dell'intraneus (in termini di persuasione e suggestione, senza mai sconfinare nella minaccia stricto sensu) che comunque lasci al destinatario libertà di autodeterminazione; 2) del vantaggio indebito dell' extraneus.

3. Le sentenze in tema di concussione: l'applicazione del criterio distintivo generale formulato dalle Sezioni Unite "Maldera".

Sez. 6, n. 45468 del 3/11/2015, Macrì, Rv. 265453 ha affermato il principio così massimato "Il delitto di concussione rappresenta una fattispecie a duplice schema, nel senso che si perfeziona alternativamente con la promessa o con la dazione indebita per effetto dell'attività di costrizione o di induzione del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, sicché, se tali atti si susseguono, il momento consumativo si cristallizza nell'ultimo, venendo così a perdere di autonomia l'atto anteriore della promessa e concretizzandosi l'attività illecita con l'effettiva dazione, secondo un fenomeno assimilabile al reato progressivo". Nella specie un soggetto privato, collegato sentimentalmente al responsabile di un'asta giudiziaria, aveva "richiesto con minaccia" a coloro i quali avevano vinto gli incanti una retribuzione extra, al fine di non vedersi annullare ex post i passaggi di proprietà dei beni (all'imputata "è stato ascritto l'abuso costrittivo in quanto doppiamente coinvolta nella vicenda sia in relazione al previo concerto rispetto alla minaccia posta in essere dal convivente, sia in relazione alle minacce personalmente più volte rivolte ai coniugi . . . risultati assegnatari provvisori, in ordine ad ostacoli che avrebbe potuto opporre al buon esito della assegnazione definitiva con il trasferimento dell'immobile astato".

Si tratta di fattispecie in cui alcun indebito vantaggio era stato ricavato dall'extraneus.

Nessuna difficoltà, dunque, per la Corte nell'applicare il criterio discretivo generale fissato dalle Sezioni unite.

Nello stesso senso si pone, Sez. 6, n. 17684 del 7/4/2016, Spanò, non massimata, re- lativa ad una ipotesi di tentativo di concussione, in cui un funzionario ispettivo comu- nale, nell'ambito della propria attività di controllo, "consigliava" al privato, titolare di un'azienda di trasporti, di rivolgersi ad un proprio conoscente per un'attività di supporto informativo all'impresa, altrimenti minacciando una severa sanzione per indefinite irregolarità.

La Corte, rigettando il ricorso dell'imputato, ha sottolineato come nella specie non fosse individuabile alcun indebito vantaggio del privato, poiché nel corso del dibattimento non era stata provata in concreto alcuna irregolarità.

3.1. (segue). Le sentenze in cui si fa riferimento ai criteri casistico - processuali. La configurabilità del reato di concussione anche nel caso in cui il privato, pagando a seguito di minaccia, consegua un indebito vantaggio.

Resta sullo sfondo il tema, più generale, relativo al se anche quando il privato decida di retribuire l'imputato, egli possa o meno comunque essere considerato persona offesa del delitto di concussione anche nel caso in cui consegua un indebito vantaggio.

La questione, in particolare, attiene al se in presenza di una condotta minacciosa il privato possa o meno considerarsi parte offesa del delitto di concussione anche nel caso in cui, pagando, consegua un indebito vantaggio.

Rilevanti sono le considerazioni di Sez. 6, n. 37981 del 1/6/2016, Rondelli relativa ad una imputazione di concussione in cui era stato contestato al ricorrente di avere, abusando della sua qualità di comandante della locale Stazione di Carabinieri, costretto, per mezzo di minacce, i titolari di una officina a prestarsi all'operazione truffaldina ai danni dell'assicurazione per mezzo di minacce.

La Corte, nel ritenere corretta la qualificazione del fatto in termini di concussione, ha osservato come fossero infondate le osservazioni difensive, secondo cui nella specie non vi erano le condizioni per avviare, da parte dell'imputato, un procedimento amministrativo o giudiziario volto a inibire l'esercizio dell'impresa nel caso in cui non fossero state esaudite le proprie richieste; ha precisato la Corte che, se è vero che se vi fossero stati i presupposti in questione si sarebbe potuto ipotizzare il diverso e meno grave reato di induzione indebi ta, è altrettanto vero che la minaccia di un danno ingiusto del pubblico ufficiale, finalizzata a farsi dare o promettere una utilità, posta in essere con abuso della qualità o dei poteri, integra il delitto di concussione e non quello di induzione indebita pur quando la persona offesa, cedendo alle pretese dell'agente, consegua anche un vantaggio indebito, sempre che quest'ultimo resti marginale rispetto al danno ingiusto minacciato.

Nello stesso senso, Sez. 6, n. 52543 del 17/9/2016, Venetucci, in cui l'imputato, funzionario dell'Agenzia delle Entrate, secondo i giudici di merito, aveva tentato di costringere un contribuente, al quale era stato notificato un verbale di accertamento fiscale e che si era rivolto alla suddetta Agenzia, a consegnarli 30.000 euro, prospettandogli in caso contrario una indebita e sproporzionata lievitazione della sanzione fiscale (da 130.000 a 300.000 euro).

La Corte di appello, nell'evidenziare che la volontà della persona offesa era stata pesantemente coartata, con la minaccia di un male ingiusto, escludeva che il fatto potesse essere sussunto nella fattispecie del millantato credito, in quanto l'abuso aveva avuto una preminente importanza prevaricatrice: se era vero che dall'imputato non dipendevano in via esclusiva le decisioni in autotutela, lo stesso poteva influire sulle decisioni dell'ufficio di appartenenza attraverso i poteri conferitigli in via originaria e a lui appositamente delegati per l'istruzione.

La Corte di cassazione ritenendo corretta la qualificazione del fatto, ha aggiunto che nel caso in esame, la persona offesa, per effetto dell'abuso posto in essere dal pubblico agente, pur di fronte ad un apparente vantaggio, aveva subito comunque una coartazione costituita dal condizionamento psichico a causa del danno ingiusto prospettato, idoneo a porre il soggetto passivo in una condizione di sostanziale mancanza di alternativa, vale a dire con le "spalle al muro".

Sul tema era già intervenuta in maniera significativa Sez. 6, n. 6065 del 23/09/2014, Staffieri, Rv. 262332, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che correttamente il giudice di merito avesse ravvisato la sussistenza del delitto di concussione nella condotta di un carabiniere che aveva ottenuto il versamento di ingenti somme di denaro minacciando un imprenditore di far fallire l'impresa.

La Corte ha chiarito nella occasione che se il carattere indebito del vantaggio conseguito dal privato è fattore concorrente di identificazione del fatto induttivo, ciò non implica l'indifferenza delle modalità dell'interlocuzione tra i soggetti.

Secondo la sentenza in esame la rilevanza della distinzione tra i diversi livelli della pressione esercitata sulla libertà di determinazione del privato, pur talvolta ridimensionata nella giurisprudenza, (Sez. 6, n. 37475 del 21/01/2014, Rv. 260793; Sez. 6, n. 48034 del 06/02/2014, Rv. 261198; Sez. 7, n. 50482 del 12/11/2014, Castellani, Rv. 261200), è stata ribadita in molte occasioni (Sez. 6, Sentenza n. 5496 del 07/11/2013 (dep. 2014) Moretti, Rv. 259055; Sez. 6, n. 28978 del 01/04/2014, Albanesi, Rv. 259823; Sez. 6, n. 41110 del 10/04/2014, Banchetti, Rv. 260369; Sez. 6, n. 39089 del 21/05/2014, Theodoridis, Rv. 260794; Sez. 6, 37655 del 11/07/2014, Patrociello, Rv. 260183; Sez. 6, n. 47014 del 15/07/2014, Virgadamo, Rv. 261008; Sez. 2, n. 46401 del 09/10/2014, Destri, Rv. 261048 ).

Si è aggiunto che se la sollecitazione di promesse o benefici indebiti non vale per sè a qualificare come minaccia la prospettazione di conseguenze sfavorevoli conformi a diritto, è chiaro che la conformità alle norme procedurali ed al diritto sostanziale del male minacciato costituisce un presupposto in mancanza del quale il male stesso deve considerarsi ingiusto, e si determina un rapporto concussivo.

La Corte ha richiamato quanto le Sezioni unite "Maldera" avevano messo in evidenza e cioè la possibilità che, nei casi concreti della vita, l'indebita pressione sia occasionata da una posizione di debolezza accentuata dalla condizione "irregolare" del soggetto passivo, cioè dalla possibilità per il pubblico funzionario di causare legalmente conseguenze negative in suo danno.

Si tratta di fattispecie definite di minaccia-promessa o di minaccia-offerta, nelle quali, di fatto, la persona offesa deve evitare un danno ingiusto, e però, cedendo alle pretese dell'interlocutore, consegue anche un vantaggio indebito.

Si è chiarito, nella decisione ormai più volte citata, che la compresenza dei due fini non vale certamente, per se stessa, ad escludere la qualificazione del fatto ex art. 317 cod. pen.

Occorre piuttosto verificare, caso per caso, "se il vantaggio indebito annunciato abbia prevalso sull'aspetto intimidatorio, sino al punto da vanificarne l'efficacia, e se il privato si sia perciò convinto di scendere a patti, pur di assicurarsi, quale ragione principale e determinante della sua scelta, il lucroso contratto, lasciando così convergere il suo interesse con quello del soggetto pubblico. Ove la verifica dia esito positivo, è evidente che deve privilegiarsi la logica interpretativa del comune coinvolgimento dei protagonisti nell'illecito di cui all'art. 319-quater c.p.. In caso contrario, la marginalizzazione del vantaggio indebito rispetto al danno ingiusto minacciato, che finisce col sovrastare il primo, deve fare propendere per l'abuso concessivo".

Applicando tali principi la Corte ha ritenuto che nella specie il fatto dovesse essere qualificato in termini di concussione, non potendo affermarsi che la proporzione con i vantaggi indebiti concomitanti non si risolvesse, sul piano oggettivo e su quello soggettivo, in una netta prevalenza di questi ultimi.

Quanto alla c.d. minaccia - offerta, minaccia - promessa, Sez. 6, n. 49275 del 17/9/2015, D'Amico, relativa alla irregolare assegnazione di appalti commessi da alcuni militari; nella specie erano state rivolte dall'imputato richieste o pretese di denaro o altra utilità (solitamente il 10% del prezzo dell'appalto) a numerosi imprenditori, palesando ai medesimi in modo inequivocabile, in caso di rifiuto di versare la tangente, l'esclusione definitiva dagli appalti. Essendo a tal fine indispensabile il controllo della assegnazione dei singoli appalti all'impresa aprioristicamente designata, era stata posta in essere la alterazione sistematica delle varie gare per garantirne l'assegnazione all'impresa prescelta attraverso un sistema di "doppia busta" (ossia una busta contenente l'offerta iniziale dell'impresa e un'altra busta, su carta intestata e timbri con firma del titolare della stessa impresa, lasciata in bianco nella parte relativa all'offerta, in modo da poterla riempire, se necessario, con un'offerta più vantaggiosa rispetto a quella contenuta nella prima busta).

La Corte ha ritenuto che le condotte attuate dagli imputati fossero di costrizione e non di induzione, tenuto conto della alternativa, espressamente imposta alla persone offese, circa le conseguenze inevitabili di un loro rifiuto della richiesta di denaro, che avrebbe determinato l'esclusione da qualsiasi lavoro, con pregiudizio notevolissimo per gli imprenditori, che in alcuni casi rischiavano di dover chiudere la loro attività.

Era risultato provato il clima di sudditanza ed asservimento imposto agli imprenditori, che venivano manovrati ed utilizzati e non avevano alcuna libertà decisionale in ordine alla accettazione delle pretese di tangenti.

Nello stesso senso, Sez. 6, n. 25255 del 1/4/2014, R., Rv. 259973 in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata che aveva affermato la penale responsabilità di un insegnante di scuola il quale aveva prospettato ai propri alunni l'attribuzione di un voto negativo in occasione degli scrutini del trimestre, qualora essi non avessero acquistato un libro di poesie, indicato dallo stesso docente.

Nella specie la Corte ha escluso la sussumibilità delle condotte contestate nell'alveo di operatività della nuova, e meno grave, fattispecie prevista dall'art. 319-quater cod. pen., sol lecitata sul presupposto che difettassero gli estremi di una reale ed effettiva portata intimidatrice della condotta dell'insegnante tenuto conto del fatto che gli alunni, per quanto emerso nel giudizio, erano ben consapevoli del proprio scarso rendimento scolastico e che, con ogni probabilità, avrebbero riportato una valutazione negativa, con la conseguenza che non vi sarebbe stata alcuna condotta di prospettazione di un male contra ius, poiché la stessa osservanza della legge avrebbe imposto di giudicarli negativamente, per come essi meritavano.

Sul tema deve essere segnalata Sez. 6, n. 8963 del 12/2/2015, Maiorana, Rv. 262503 in cui la Corte ha evidenziato come, all'interno del binomio concussione e induzione indebita ex art. 319-quater cod. pen., la linea di sostanziale demarcazione tra le due ipotesi sia costituita dal contenuto del male prospettato tramite l'abuso prevaricante della funzione: solo la prospettazione di un male radicalmente ingiusto finisce per incidere effettivamente sulla autonomia di scelta del destinatario dell'azione illecita, risultando nella sostanza neutralizzata la possibilità di sottrarsi alla pretesa illecita nell'alternativa con un nocumento certamente ed esclusivamente contra ius.

Tale radicale assenza di scelta, si è affermato, viene meno ogni qualvolta l'abuso si accompagni alla prospettazione di un utile, di un vantaggio comunque ricavabile in capo al destinatario dell'azione illecita quale conseguenza della promessa o della dazione indebita.

In questo caso, seppur limitata, la volontà del soggetto che subisce l'abuso non è integralmente neutralizzata dalla prospettazione illecita.

Tanto in ragione di una autonomia di valutazione comunque garantita dalla prospettiva del vantaggio ricavabile dalla vicenda; vantaggio che finisce dunque per dar corpo ad una prevaricazione di minor portata così da giustificare al contempo la punibilità del destinatario dell'abuso, che concorre nell'illecito e risponde, anche se ovviamente in termini di minore intensità, in uno al pubblico ufficiale.

È poi evidente, ha sostenuto la Corte, che, quando al vantaggio comunque prospettato quale immediata conseguenza della promessa e della indebita dazione della utilità si accompagni anche la prospettazione di un male ingiusto, attuale o futuro (e, in questi casi, spesso indeterminato quanto ai confini del possibile pregiudizio), di portata assolutamente spropositata rispetto al primo, la presenza di un utile immediato e contingente per il destinatario della azione illecita finisce per risultare deprivata di rilievo nell'ottica finalizzata alla possibile distinzione tra costrizione da concussione e indizione indebita: tanto perché la situazione di vantaggio prospettata si rileva, in siffatte occasioni, integralmente assorbita dalla netta predominanza del rilievo ponderale da ascrivere al male ingiusto, comunque contestualmente e non di rado implicitamente paventato.

In senso simmetrico si pone Sez. 6, n. 37475 del 21/1/2014, Salvatori, Rv. 260793 in cui la Corte, in assenza di una prova chiara del conseguimento di un vantaggio da parte del privato, e valorizzando in senso estensivo la nozione di minaccia, ha ritenuto integrato il delitto di concussione in relazione a reiterati pagamenti di piccole somme effettuati in favore di vari appartenenti alla Polizia di Stato - pur in assenza di esplicite richieste da parte di questi ultimi - da un imprenditore operante nel settore del trasporto di materiali al fine di evitare controlli pretestuosi ed assillanti dei propri mezzi, dopo che uno degli operanti, nel corso di un incontro, gli aveva fatto capire che "pagando qualcosa" avrebbe potuto rendere i controlli "meno pressanti" (Nello stesso senso, Sez. 6, n. 48034 del 6/2/2014, Capriglia, Rv. 261198).

3.2. (segue). Le sentenze in cui la Corte fa riferimento ai criteri casistico - processuali: il criterio del bilanciamento dei beni.

Quanto al criterio del bilanciamento dei beni, Sez. 6, n. 53444 del 15/11/2016, Cocivera, in relazione alla pratica di aborti illegali eseguiti presso lo studio privato dell'imputato, dirigente in servizio presso il Reparto di ginecologia di un ospedale, che "speculava" sui tempi della procedura legale di i.v.g. per prospettare difficoltà e lungaggini, in modo da "spingere" donne gravide, che avevano necessità di abortire in tempi contenuti, ad un aborto illegale a pagamento presso il proprio studio.

La Corte ha ritenuto che la decisione impugnata si fosse posta all'interno del parametro di legittimità delineato dalle Sezioni unite in relazione ai casi c.d. dubbi, attesa la ricostruzione dei termini rilevanti di ciascuna delle vicende esaminate che, in virtù delle modalità dell'approccio, della mancanza di effettivi margini di trattativa sulla somma pretesa, della grave difficoltà psicologica nella quale si trovavano le pazienti, della situazione "necessitata" che le spingeva ad accedere alla richiesta indebita, facevano ritenere provata la radicale compressione della volontà negoziale della vittima, così correttamente giustificando l'abuso costrittivo. (Nello stesso senso, Sez. 6, n. 37839 del 5/2/2014, C., Rv. 261750 secondo cui integra il delitto di concussione, come modificato dall'art. 1, comma 75, L. n. 190 del 2012, la condotta di due militari che, dopo aver accompagnato di notte in caserma due prostitute "per controlli", ottengono dalle donne prestazioni sessuali in cambio dell'immediato rilascio, prospettando loro - in caso contrario - il trattenimento fino al giorno successivo per il foto segnalamento).

Sul tema pare collocarsi anche Sez. 3, n. 9442 del 8/3/2015 (dep. 2016), C., Rv. 266451, così massimata "Il reato di violenza sessuale commesso mediante abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto può concorrere con il delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità, trattandosi di reati diversi sia nei beni giuridici tutelati, sia nella struttura delle condotte costitutive, poichè mentre l'abuso insito nella induzione indebita va riferito al soggetto agente, quello insito nel delitto di violenza sessuale va correlato alla vittima, ferma restando quale elemento comune una condotta induttiva di tipo approfittatrice tale da condizionare - seppure al di fuori di condotte violente, minacciose o costrittive - la volontà del soggetto passivo. (In applicazione del principio, la S.C. ha ravvisato il concorso di reati in una fattispecie di induzione di cittadina extracomunitaria a prestazioni sessuali, perpetrata da Carabiniere mediante abuso della situazione di "metus" determinatasi anche per effetto della prospettazione della possibilità di rilevare l'irregolare posizione della vittima sul territorio nazionale).

3.3. (segue). Le sentenze in cui la Corte fa riferimento ai criteri casistico - processuali: la minaccia dell'esercizio di un potere discrezionale.

Sez. 6, 41110 del 10/04/2014, Banchetti, Rv. 260369 ha affermato che nel delitto di concussione di cui all'art. 317 cod. pen., come modificato dall'art. 1, comma 75, L. n. 190 del 2012, la costrizione consiste nel comportamento del pubblico ufficiale che, abusando delle sue funzioni o dei suoi poteri, agisce con modalità o con forme di pressione tali da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita il quale, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciato, e senza perseguire per sè alcun vantaggio indebito. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata laddove ha ravvisato gli estremi del reato di concussione con riferimento alla condotta di alcuni amministratori comunali, membri della commissione per l'assetto del territorio, che avevano chiesto ed ottenuto somme di danaro ed altre utilità da alcuni soggetti interessati alla definizione di pratiche urbanistiche, prospettando loro - in caso contrario - una valutazione sfavorevole o il rinvio dell'esame in commissione, in un contesto operativo di totale arbitrarietà, da essi instaurato e gestito, nel quale la fissazione e trattazione dei procedimenti avveniva senza il rispetto di alcun criterio logico né cronologico, e spesso anche senza alcuna preventiva istruttoria da parte degli uffici tecnici del comune).

La Corte ha precisato che la creazione di un potere divenuto del tutto discrezionale da parte dei pubblici agenti (autentici dominatori della Commissione, da loro voluta proprio allo scopo di gestirla in piena autonomia e con pieni poteri) e la prospettazione da parte dei prevenuti, in maniera assolutamente predeterminata e studiata, di un esercizio sfavorevole di tale potere discrezionale, al solo fine di costringere i privati alle prestazioni indebite, integrano certamente le minacce di danno ingiusto, in quanto non funzionali al perseguimento del pubblico interesse, ma chiaro indice di sviamento della attività amministrativa dalla causa tipica. Conseguentemente nelle fattispecie in esame i privati erano certamente vittime di concussione, in quanto si piegavano agli abusi, proprio per scongiurare effetti per loro ingiustamente dannosi.

Nello stesso senso, Sez. 6, n. 6056 del 23/9/2014, (dep. 2015), Staffieri, cit., in cui la Corte ha ripreso i principi fissati dalle Sezioni unite "Maldera" "il prospettare. . . , in maniera del tutto estemporanea e pretestuosa, l'esercizio sfavorevole del proprio potere discrezionale, al solo fine di costringere il privato alla prestazione indebita, integra certamente la minaccia di un danno ingiusto, in quanto non funzionale al perseguimento del pubblico interesse, ma chiaro indice di sviamento dell'attività amministrativa dalla causa tipica. In questa ipotesi, il privato è certamente vittima di concussione, in quanto si piega all'abuso, proprio per scongiurarne gli effetti per lui ingiustamente dannosi (si pensi al preannuncio di una verifica fiscale in carenza dei presupposti di legge ed a fini meramente persecutori ed illeciti). Diversamente, se l'atto discrezionale, pregiudizievole per il privato, è prospettato nell'ambito di una legittima attività amministrativa e si fa comprendere che, cedendo alla pressione abusiva, può conseguirsi un trattamento indebitamente favorevole, obiettivo questo condiviso e fatto proprio dal soggetto privato, è evidente che viene ad integrarsi il reato di induzione indebita".

Sulla base di tale premesse la Corte ha aggiunto che se la minaccia di usare dolosamente contra ius (o per interessi diversi da quelli per la cui assicurazione sono stati conferiti) i poteri discrezionali connessi ad una pubblica funzione si risolve in prospettazione di un male ingiusto, a maggior ragione diviene ingiusta la prospettazione che evochi anche comportamenti dannosi non regolati dalla legge, o addirittura vietati, ed idonei ad accrescere il danno per la persona offesa.

In tal caso, infatti, la condotta assume una franca connotazione estorsiva, e determinerebbe un vulnus di sistema ogni soluzione che attenui la responsabilità dell'agente (e generi una responsabilità della vittima) per il sol fatto che la minaccia è occasionata dall'abuso della pubblica funzione.

3.4. (segue). Le sentenze in cui la Corte fa riferimento ai criteri casistico-processuali: l'abuso di qualità.

Sez. 6, n. 25054 del 16/6/2016, Salzano è intervenuta in relazione ad una imputazione ascritta ad un maresciallo in servizio presso la Guardia di Finanza di aver abusato della sua qualità e dei suoi poteri, in tal modo facendosi consegnare, mediante larvate e tacite minacce, merce e altre utilità, senza pagare alcun corrispettivo da alcuni esercizi commerciali.

La Corte d'appello aveva condiviso la ricostruzione del primo giudice effettuata in base alle dichiarazioni dei soggetti i quali avevano riferito di avere dato quanto dall'imputato "preteso" senza ricevere alcun corrispettivo.

Entrambi i giudici di merito avevano escluso che le condotte potessero essere giuridicamente inquadrate nell'ambito del diverso delitto previsto dall'art. 319-quater cod. pen., poiché si era del tutto fuori da rapporti sinallagmatici e, comunque, diretti a reciproci vantaggi, essendo in presenza di condotte caratterizzate da atteggiamenti incontestabilmente intimidatori e volti a far valere la "posizione rivestita".

La difesa nella occasione aveva fatto notare: 1) l'assenza del requisito della minaccia, pur in presenza di un abuso di qualità; 2) che l'abuso fosse strumentale ad una gestione clientelare con conseguente vantaggio indebito per l'extraneus.

La Corte, ritenendo immune da vizi la sentenza impugnata, ha rilevato come, ai fini della configurabilità del delitto di concussione mediante abuso della qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, non è necessario che l'atto intimidatorio rifletta la specifica competenza del soggetto attivo, ma è sufficiente che la qualità soggettiva lo renda credibile e idoneo a costringere all'indebita promessa o dazione di denaro o di altra utilità.

Sul tema deve essere segnalata anche Sez. 6, n. 9424 del 2/3/2016 Gaeta e altro, Rv. 267277 in cui la Corte ha qualificato come concussione la condotta di un militare della Guardia di Finanza che aveva sistematicamente omesso di pagare consumazioni per sè e per familiari ed amici in alcuni esercizi commerciali, rimarcando la propria qualifica professionale ed alludendo a possibili controlli.

La Corte ha ritenuto ravvisabile nelle sistematiche condotte descritte l'abuso della qualità di pubblico ufficiale e la minaccia nelle frasi allusive, che, rimandando alla funzione ed alla convenienza di assecondare le richieste, lasciavano intendere che un atteggiamento non condiscendente avrebbe esposto le persone offese a ripercussioni negative, ingenerando uno stato di soggezione e di timore nelle stesse, costrette a subire le pretese dell'imputato, avvertite come veri e propri soprusi.

4. La giurisprudenza tra concussione ed induzione indebita.

Quanto al secondo gruppo di sentenza cui in precedenza si è fatto riferimento, devono essere segnalate alcune pronunce in cui la Corte, in applicazione dei principi indicati dalle Sezioni unite "Maldera", ha annullato la sentenza di merito; si tratta di sentenze in cui la Corte ha richiesto uno sforzo di accertamento e di motivazione al giudice di merito in relazione alla prova della costrizione ovvero del conseguimento del vantaggio indebito da parte del privato.

Sul punto può farsi riferimento a Sez. 6, n. 26500 del 19/6/2014, Bottillo, in fattispecie relativa ad un membro delle forze armate, cui era stata contestata la "vecchia" concussione per induzione, che si era fatto consegnare dal titolare di un'azienda di autotrasporti diverse utilità senza che, in concreto, fosse stato accertato il rapporto intercorrente tra i due soggetti.

Similmente, Sez. 6, n. 8936 del 27/2/2015, Leoni, condannato all'esito del giudizio di appello in relazione al reato di cui all'art. 317 cod. pen., per avere, in qualità di funzionario comunale dell'ufficio autorizzazioni paesaggistiche, costretto o quantomeno indotto un privato a consegnare denaro al fine di ottenere il parere favorevole al rilascio del permesso a costruire.

Nella specie la Corte ha evidenziato come "nei casi c.d. ambigui, quelli cioè che possono collocarsi al confine tra la concussione e l'induzione indebita . . . . i criteri di valutazione del danno antigiuridico e del vantaggio indebito, che rispettivamente contraddistinguono i detti illeciti, devono essere utilizzati nella loro operatività dinamica all'interno della vicenda concreta, individuando, all'esito di una approfondita ed equilibrata valutazione complessiva del fatto, i dati più qualificanti".

Dopo aver richiamato i principi delle Sezioni unite, si è chiarito come il giudice di merito avrebbe dovuto verificare, attraverso l'analisi della documentazione, se i rilievi mossi dal pubblico ufficiale imputato (deputato, quale responsabile del procedimento, a rilasciare un parere determinante ai fini della concessione del nullaosta) fossero legittimi, e non pretestuosi, e se, pertanto, la dazione di denaro da parte dell'extraneus fosse o meno correlata ad un preciso interesse ad "oliare" il corso della procedura di rilascio dell'autorizzazione amministrativa, che, giusta la normativa applicabile, non avrebbero potuto ottenere.

In altri termini, secondo la Corte, la prova in questione risultava fondamentale - almeno in astratto - a sciogliere il nodo ermeneutico circa il corretto inquadramento giuridico della fattispecie fra le due previsioni incriminatrici alternative di cui agli artt. 317 e 319-quater cod. pen., in quanto indispensabile al fine di acclarare se, sullo sfondo della condotta abusiva del pubblico ufficiale, fosse ravvisabile un indebito tornaconto personale della "persona offesa", che - in effetti - avrebbe potuto avere agito non tanto per evitare un danno contra ius, ma al fine di ottenere un trattamento di favore nella procedura amministrativa.

Proprio ciò avrebbe potuto consentire di sussumere il fatto, piuttosto che nella fattispecie originariamente contestata di cui all'art. 317 cod. pen. in quella di cui all'art. 319-quater cod. pen.

Sul piano sistematico si tratta di pronunce in cui la Corte sembra valorizzare, in ossequio alle Sezioni unite, il criterio casistico- processuale, imponendo al giudice del rinvio di indagare l'eventuale sussistenza del vantaggio indebito ottenuto dall' extraneus.

In tale contesto si pone la giurisprudenza che impiega una interpretazione letterale del criterio discretivo modellato dalla sentenza Maldera, giungendo quasi ad ipotizzare una zona intermedia tra la tipicità del delitto di concussione e quello di induzione indebita.

Il presupposto da cui la Corte sembra muovere è che se il presupposto del delitto di concussione è costituito dalla esistenza di una minaccia, mentre quello della induzione indebita è dato dal doppio requisito della assenza della minaccia e dal conseguimento di un indebito vantaggio, sarebbe ipotizzabile una zona intermedia di atipicità tra le due fattispecie in quei casi in cui l'intraneus, abusando delle sue funzioni, ottenga - con modalità non minacciose - dall' extraneus qualcosa che non gli è dovuto, senza che tuttavia il privato consegua un effettivo vantaggio indebito.

In tal caso, la condotta sarebbe penalmente irrilevante.

Assume rilievo Sez. 6, n. 22526 del 28/3/2015, P.G. in proc. B., Rv. 263769, così massimata "Ai fini della configurabilità del reato di concussione non è sufficiente lo stato di timore riverenziale o autoindotto del destinatario di una richiesta illegittima proveniente da un pubblico ufficiale, neppure quando quest'ultimo riveste una posizione sovraordinata e di supremazia rispetto al primo, poiché il delitto di cui all'art. 317 cod. pen. richiede che l'agente provvisto di qualifica pubblicistica, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, esteriorizzi concretamente un atteggiamento idoneo ad intimidire la vittima. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata che aveva escluso la configurabilità del reato in presenza di una richiesta formulata da un'Alta carica dello Stato nei confronti di un funzionario di Polizia che, pur se "impropria e scorretta", non risultava essere stata accompagnata da ulteriori comportamenti positivi orientati a suggestionare, persuadere o convincere l'interlocutore)".

In motivazione, si è escluso che la condotta dell'imputato avesse i connotati tipici della minaccia, sia che il destinatario della pressione avesse perseguito qualsiasi vantaggio indebito.

Il caso, com'è noto, riguarda la telefonata dell'allora Presidente del Consiglio al Capo di Gabinetto della Questura di Milano, finalizzata al rilascio di una prostituta minorenne frequentatrice dell'abitazione privata dell'ex premier.

La sentenza, nel ritenere la condotta non riconducibile a nessuna delle due fattispecie, è particolarmente fedele al criterio nomofilattico enunciato dalle Sezioni unite.

Resta sullo sfondo il tema della effettiva continuità normativa tra la "veccia" fattispecie di concussione e i "nuovi" artt. 317 e 319-quater cod. pen, affermata chiaramente dalle Sezioni unite e sostanzialmente rivisitata da sentenze come quella in esame.

Fattispecie come quelle appena indicate erano sussumibili illo tempore sotto il reato di concussione.

Ciò perché una delle due modalità di realizzazione del delitto - ossia quella per induzione - prescindeva dall'accertamento sia di una condotta minacciosa sia di un qualsivoglia vantaggio indebito in capo al privato.

Era sufficiente appurare la sussistenza di una induzione qualificata, ossia di una coazione psicologica esercitata dall'agente pubblico sul privato (a dare o promettere a lui o ad un terzo qualche utilità) prodottasi tramite l'abuso della qualità o dei poteri pubblici.

La fattispecie in esame -secondo quanto stabilito dalla Sesta sezione della Cassazione - non potrebbe oggi essere ricondotta né all'interno della nuova concussione per costrizione, né, tantomeno, nell'inedita incriminazione di induzione indebita: l'integrazione della prima previsione criminosa sarebbe preclusa dalla mancanza dell'elemento della costrizione (la minaccia di un male ingiusto); la seconda dall'assenza del requisito del vantaggio indebito in capo al soggetto indotto.

5. La giurisprudenza in tema di induzione indebita.

È utile segnalare un ulteriore gruppo di sentenze in cui la Corte, applicando il criterio normativo dettato dalle Sezioni unite, ha ricondotto il fatto, in presenza della prova del conseguimento di un vantaggio indebito da parte del privato, "automaticamente" alla "nuova" induzione ex art. 319-quater cod. pen.

Si tratta di pronunce in cui l'applicazione del criterio discretivo principale indicato dalle Sezioni unite induce a non fare riferimento al criterio statistico, pure esso indicato nella sentenza "Maldera".

In tal senso, Sez. 6, n. 28978 del 1/4/2014, Albanesi, Rv. 259823 in cui si è ritenuto integrare la fattispecie criminosa dell'induzione indebita la condotta dell'Ispettore Capo del Commissariato di P.S. che, esibendo il proprio tesserino di riconoscimento, induceva il titolare di un night club a non pretendere il pagamento di beni e servizi, realizzandosi un più tenue, seppur indebito, "condizionamento", in luogo della completa sopraffazione della altrui volontà.

Si tratta di una sentenza in cui la Corte in motivazione pare, da una parte, non soffermarsi sulla verifica della effettiva esistenza del vantaggio indebito da parte dell'extraneus - considerandolo provato in sé - e, dall'altra, non fare riferimento ai criteri statistici pure elaborati dalle Sezioni unite in tema di minaccia promessa- minaccia offerta e di abuso di qualità.

Sez. 6, n. 44587 del 27/10/2014, Cerritelli, in cui la Corte ha ricondotto all'art. 319-quater cod. pen. 1a condotta dell'imputato, dipendente comunale, addetto all'Ufficio Commercio e Attività Produttive, ritenuto in sede di merito colpevole di aver concorso con altri nell'indurre soggetti privati alla consegna di somme di denaro a fronte del rilascio di licenze commerciali, prospettando, in caso di mancato pagamento, difficoltà e rallentamenti nello svolgimento dei relativi procedimenti amministrativi.

Sembra rilevante la circostanza che in motivazione la Corte non abbia fatto riferimento al criterio, valorizzato dalle Sezioni unite, della minaccia- offerta, minaccia promessa. (diversamente, Sez. 6, n. 8963 del 27/2/2015, cit.).

Nello stesso senso si pone Sez. 6, n. 42607 del 22 ottobre 2015, Puleo, in una fattispecie in cui la Corte, sul presupposto della raggiunta prova del conseguimento di un vantaggio da parte dell'extraneus, ha riqualificato direttamente le originarie imputazione di concus sione in induzione indebita (non diversamente, Sez. 6., n. 39434 del 30/9/2015, Guadalupi ed altro; Sez. 6, n. 32594 del 24/7/ 2015, Nigro, Rv. 264425 in cui la Corte, sul presupposto del vantaggio indebito conseguito dal privato, ha qualificato come induzione indebita le condotte di un carabiniere che si era fatto consegnare delle somme di danaro, in un caso, dalla persona cui poche ore prima aveva contestato una violazione del codice della strada con sequestro amministrativo del veicolo, ed alla quale aveva prospettato l'opportunità di evitare, in tal modo, ulteriori controlli stradali nella zona; e, nell'altro caso, da un cittadino extracomunitario in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno, in cambio del rilascio di una formale dichiarazione di ospitalità sottoscritta da un terzo, al fine di non dare impulso all'attivazione della procedura di espulsione).

Emerge dall'esame della giurisprudenza, la tendenza - di fronte a classi di comportamenti sostanzialmente omogenei - ad utilizzare il criterio casistico per sussumere il fatto nel delitto di concussione e quello normativo per ricondurlo nell'induzione indebita.

6. La struttura del delitto di induzione indebita a dare o promettere: la configurabilità del tentativo.

Le Sezioni unite "Maldera" hanno affermato che il reato previsto dall'art. 319-quater cod. pen. ha natura di reato plurisoggettivo proprio o normativamente soggettivo.

"La correità necessaria insita nell'illecito di cui all'art. 319-quater cod. pen. ha certamente innovato, sotto il profilo normativo, lo schema della vecchia concussione per induzione, che tuttavia, con riferimento alla posizione del pubblico agente, trova continuità nel novum, venendo così scongiurata l'operatività della regola di cui all'art. 2, comma secondo, cod. pen. Molteplici ragioni militano per tale continuità: a) il volto strutturale dell'abuso induttivo è rimasto immutato; b) la prevista punibilità dell'indotto non investe direttamente la struttura tipica del reato, ma interviene, per così dire, solo "al suo esterno"; c) la vecchia descrizione tipica già contemplava, infatti, la dazione/promessa del privato e delineava un reato plurisoggettivo improprio naturalisticamente plurisoggettivo, inquadramento dogmatico quest'ultimo che\non incide sulla ricognizione logico-strutturale; d) finanche sotto il profilo assiologico, la nuova incriminazione è in linea con quella previgente, anche se ne restringe la portata offensiva alla sola dimensione pubblicistica del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione" (Così le Sezioni unite).

Prima della sentenza "Maldera", Sez. 6, n. 17285 del 11/1/2013, Vaccaro, Rv. 254620 aveva posto in dubbio la natura bilaterale del reato in questione, evidenziando come in tale ipotesi criminosa le due condotte del soggetto pubblico e di quello privato si perfezionino autonomamente, a differenza della corruzione. I due soggetti, cioè, si determinerebbero indipendentemente l'uno dall'altro e in tempi idealmente successivi; proprio la natura non bilaterale del reato, si è sostenuto, contribuirebbe a risolvere in senso positivo il problema della continuità normativa atteso che l'agente pubblico potrebbe continuare ad essere punito per la stessa condotta in precedenza considerata.

Successivamente alla pronuncia delle Sezioni unite, Sez. 6, n. 6056 del 23/9/2014, (dep. 2015), Staffieri, cit., si è pronunciata in senso conforme.

La Corte, dopo l'intervento delle Sezioni unte, è tornata tuttavia ad occuparsi del tema.

Sez. 6, n. 35271 del 22/6/2016, Mercadante ed altro, Rv. 267986 ha affermato il principio così massimato "Il delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui all'art. 319-quater cod. pen. non integra un reato bilaterale, in quanto le condotte del soggetto pubblico che induce e del privato indotto si perfezionano autonomamente ed in tempi diversi, sicchè il reato si configura in forma tentata nel caso in cui l'evento non si verifichi per la resistenza opposta dal privato alle illecite pressioni del pubblico agente. (Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto corretta la qualificazione in termini di tentativo l'ipotesi in cui il soggetto passivo aveva denunciato la richiesta di denaro formulata dal pubblico ufficiale, consentendo anche la registrazione del colloquio nel corso del quale la richiesta veniva reiterata).

Nella specie, la Corte distrettuale aveva ritenuto comunque integrata la fattispecie di tentata induzione indebita, pur in assenza di un correlativo interesse dei privati.

La Corte di cassazione ha osservato che:

- il tentativo di induzione indebita di cui all'art. 319-quater cod. pen. è configurabile anche quanto il privato non abbia perseguito un indebito vantaggio, poichè tale elemento rileva esclusivamente per la sussistenza della fattispecie consumata (Sez. 6, n. 32246 del 11/04/2014, Sorge, Rv. 262075);

- il requisito del perseguimento di un vantaggio indebito da parte del privato giustifica - in coerenza con i principi fondamentali del diritto penale e con i valori costituzionali in tema di colpevolezza - la pretesa punitiva dello Stato nei confronti dell'indotto che abbia dato o promesso l'utilità al pubblico ufficiale, secondo quanto sottolineato, dalle Sezioni unite, assurgendo tale elemento al rango di "criterio di essenza" della fattispecie induttiva;

- l'elemento in disamina si colloca dunque nell'ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata e funzionale alla salvaguardia dell'esigenza, imposta dall'art. 27 Cost., di giustificare la punibilità del privato, che cede alle richieste dell'agente pubblico non perché coartato e vittima del "metus", nella sua accezione più pregnante, ma perché attratto dalla prospettiva di conseguire un indebito vantaggio;

- tale requisito è necessario solo nell'ipotesi della consumazione del reato di cui all'art. 319-quater c.p., e non anche in quella del tentativo;

- il destinatario della condotta di abuso induttivo, infatti, ove si sia determinato a dare o a promettere l'utilità al pubblico ufficiale, pur disponendo, a differenza del concusso, di ampi margini discrezionali, è punibile per aver prestato acquiescenza alla richiesta di prestazione non dovuta in quanto motivato dalla prospettiva di conseguire un indebito tornaconto personale e ciò lo pone in una posizione di complicità con il pubblico agente e lo rende meritevole di sanzione;

- quando, invece, il privato non dia o non prometta denaro o altra utilità al pubblico ufficiale, resistendo alle illecite richieste di quest'ultimo, viene meno la "ratio" che si colloca a fondamento del requisito del perseguimento di un indebito vantaggio da parte del destinatario della condotta induttiva, che pertanto esula dal paradigma delineato dalla norma incriminatrice;

- qualora dunque l'agente pubblico, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, compia atti idonei diretti in modo non equivoco a indurre il privato a dare o a promettere indebitamente un'utilità, senza riuscire nel suo intento, perché, l'evento non si verifica per la resistenza del privato, il requisito del perseguimento, da parte di quest'ultimo, di un indebito vantaggio rimane estraneo alla struttura della norma incriminatrice di cui agli artt. 56 e 319-quater c.p.". (nello stesso senso, Sez. 6, n. 6846 del 12/1/2016, Farina ed altro, Rv. 265901; Sez. 6, n. 46071 del 22/7/2015, Scarcella ed altro, Rv. 265351).

7. I rapporti tra induzione indebita e violenza sessuale.

Secondo Sez. 3, n. 33049 del 17/5/2016, B., Rv. 267400, non è configurabile il concorso del reato di violenza sessuale commesso mediante costrizione della vittima, previsto dal comma primo dell'art. 609-bis cod. pen., con quello di induzione indebita, previsto dall'art. 319-quater cod. pen., essendo logicamente incompatibile la condotta di "costrizione", di cui alla prima fattispecie, con quella di "induzione", prevista nella seconda. (Fat tispecie di atti sessuali commessi dal cappellano del carcere con costrizione consistita in condotte repentine di toccamenti dei genitali e sfregamento del pene sul corpo dei detenuti e con abuso di autorità derivante dalla sua posizione).

Sul tema è intervenuta anche Sez. 3, n. 9442 del 18/3/2015, (dep. 2016), C., Rv. 266451 secondo cui il reato di violenza sessuale commesso mediante abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto può concorrere con il delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità, trattandosi di reati diversi sia nei beni giuridici tutelati, sia nella struttura delle condotte costitutive, poichè mentre l'abuso insito nella induzione indebita va riferito al soggetto agente, quello insito nel delitto di violenza sessuale va correlato alla vittima, ferma restando quale elemento comune una condotta induttiva di tipo approfittatrice tale da condizionare - seppure al di fuori di condotte violente, minacciose o costrittive - la volontà del soggetto passivo. (In applicazione del principio, la S.C. ha ravvisato il concorso di reati in una fattispecie di induzione di cittadina extracomunitaria a prestazioni sessuali, perpetrata da Carabiniere mediante abuso della situazione di "metus" determinatasi anche per effetto della prospettazione della possibilità di rilevare l'irregolare posizione della vittima sul territorio nazionale).

8. I rapporti tra frode, induzione indebita e truffa.

Quanto ai rapporti tra induzione indebita a dare o promettere utilità e truffa, secondo Sez. 6, n. 53436 del 6/10/2016, Vecchio, è consolidato nella giurisprudenza di legittimità l'orientamento secondo cui "le modalità della condotta induttiva . . . non possono che concretizzarsi nella persuasione, nella suggestione, nell'allusione, nel silenzio, nell'inganno (sempre che quest'ultimo non verta sulla doverosità della dazione o della promessa, del cui carattere indebito il privato resta perfettamente conscio; diversamente, si configurerebbe il reato di truffa), anche variamente e opportunamente collegati e combinati tra di loro, purché tali atteggiamenti non si risolvano nella minaccia implicita, da parte del pubblico agente, di un danno antigiuridico, senza alcun vantaggio indebito per l'extraneus" (così, per tutte, Sez. U., Maldera, cit., in motivazione, al § 14.5, ma anche nell'enunciazione del secondo principio di diritto, al § 25; nello stesso senso, più di recente, Sez. 6, n. 41317 del 15/07/2015, Rosatelli, Rv. 265005, e Sez. 6, n. 39089 del 21/05/2014, Theodoridis, Rv. 260794).

In altri termini, secondo questo generale indirizzo, l'inganno è sicuramente compatibile con l'induzione indebita quando non attenga alla doverosità della promessa o della dazione, ma all'esistenza di una situazione che costituisca il presupposto per convincere alla dazione o alla promessa (paradigmatico l'esempio offerto da Sez. 6, n. 2787 del 30/01/1995, Nicotera, Rv. 201357, che, nella vigenza della disciplina anteriore alla legge n. 190 del 2012, aveva ritenuto correttamente configurata la concussione e non la truffa aggravata con riferimento alla condotta di un maresciallo della Guardia di Finanza che aveva falsamente prospettato ai responsabili di un'impresa la possibilità di una verifica fiscale da parte del suo ufficio a seguito di una inesistente richiesta proveniente da un'autorità straniera e si era fatto dare una somma di denaro asseritamente destinata a impedire che la verifica fosse avviata).

Né questo orientamento, secondo la sentenza in esame, è contraddetto da Sez. 6, n. 17655 del 09/04/2015, Satta, Rv. 263657; tale decisione, invero, ha escluso la configurabilità dell'induzione indebita e riqualificato il fatto in termini di truffa aggravata, in quanto ha evidenziato l'assenza dello stato di soggezione dell'indotto al pubblico potere, e, in particolare, la mancata prospettazione di un indebito vantaggio o di un danno in correlazione all'esercizio della funzione pubblica per l'ipotesi che non venisse corrisposta la somma richiesta.

La creazione o l'approfittamento della falsa rappresentazione di una situazione di pregiudizio quale conseguenza dell'esercizio di pubbliche funzioni, si assume, rientra certamente nel catalogo dei possibili abusi della qualità o dei poteri di cui è titolare il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio) causalmente idonei a "convincere" il destinatario dell'esercizio di quelle funzioni a "venire a patti", dando o promettendo una utilità proprio per evitare quei paventati pregiudizi, pur nella piena consapevolezza della non debenza della prestazione data o promessa.

  • funzione pubblica
  • corruzione
  • pubblica amministrazione

PARTE SECONDA

LE FORME DI CORRUZIONE

Sommario

1 L'interpretazione della giurisprudenza del reato di corruzione propria: il passaggio dall'atto alla funzione. - 2 La "nuova" corruzione per l'esercizio della funzione prevista dall'art. 318 cod. pen. - 3 I rapporti tra corruzione per l'esercizio della funzione e corruzione propria. - 4 Sui rapporti tra concussione, corruzione e induzione indebita a dare o promettere. - 5 Sui rapporti tra corruzione e truffa. - 6 La Corruzione in atti giudiziari e i rapporti con il reato di intralcio alla giustizia (art. 377 cod. pen.). - 7 L'istigazione alla corruzione. - 8 Corruzione e confisca.

1. L'interpretazione della giurisprudenza del reato di corruzione propria: il passaggio dall'atto alla funzione.

La riforma del 2012 ha mutato l'assetto di disciplina dei reati di corruzione, trasformando la corruzione incentrata su un atto conforme ai doveri d'ufficio in corruzione incentrata sulla funzione.

È noto come l'impianto originario del codice, fondato sulla compravendita di atti, abbia mostrato nel tempo la sua inadeguatezza, in termini di effettività, davanti a contesti nei quali il mercimonio si collocava nell'ambito di rapporti e connessioni tra soggetti pubblici e privati sganciati dal compimento di specifici atti.

L'effetto che ne è conseguito è stato costituito dal sostanziale mutamento dell'oggetto dello scambio corruttivo, passato dall'atto alla funzione del pubblico agente.

Tale traslazione si è verificata attraverso:

a) la dematerializzazione dell'elemento di fattispecie di corruzione propria dell'atto di ufficio e dalla inclusione nella nozione di atto d'ufficio dei meri comportamenti ovvero dalla sufficienza della individuabilità nel genere;

b) il distacco della connessione tra la competenza specifica del pubblico ufficiale rispetto all'atto (in tal senso, da ultimo, anche dopo la legge n. 190 del 2012, Sez. 6, n. 23355 del 26/2/2016, Margiotta, Rv. 267060 "Ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria, non è determinante il fatto che l'atto d'ufficio o contrario ai doveri d'ufficio sia ricompreso nell'ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma è necessario e sufficiente che si tratti di un atto rientrante nelle competenze dell'ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto viziata la motivazione della sentenza che aveva ricondotto al reato di corruzione la condotta dell'imputato il quale, nella qualità di parlamentare della Repubblica e di leader di partito in sede locale, dietro la promessa di un compenso in denaro, aveva fornito informazioni privilegiate relative a tre gare di appalto, in relazione alle quali non svolgeva alcun ruolo, e si era impegnato ad esercitare pressioni al fine di assicurarne l'aggiudicazione alle società riconducibili al proprio dante causa; cfr. anche Sez. 6, n. 7731 del 12/2/2016, Pasini e altro, Rv. 266543 secondo cui in tema di corruzione, non configura "atto di ufficio" la condotta commessa "in occasione" dell'ufficio che non concreta l'uso di poteri funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell'agente. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato la sentenza di condanna emessa nei confronti di un amministratore comunale che aveva redatto ricorsi amministrativi, nell'interesse di privati, finalizzati all'annullamento di sanzioni irrogate da altri funzionari comunali, ritenendo tale attività del tutto estranea alle competenze funzionali del suo ufficio);

c) la interpretazione estensiva dello stesso concetto di atto contrario ai doveri d'ufficio, ravvisato anche: 1) nel rilascio di un parere non vincolante, allorché esso assuma rilevanza decisiva nella concatenazione degli atti che compongono la complessiva proce dura amministrativa e, quindi, incida sul contenuto dell'atto finale (Sez. 6, n. 21740 del 1/3/2016, Masciotta, Rv. 266923); 2) nei casi in cui l'atto, pur formalmente legittimo, persegua "finalità diverse" (sul tema, per il quale si rinvia a quanto si dirà sub d), cfr., dopo, la 1. n. 190 del 2012, Sez. 6, n. 6677 del 3/2/2016, Maggiore, Rv. 267187, che ha affermato che integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali spettantigli rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, "ex post", con l'interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l'elemento decisivo è costituito dalla "vendita" della discrezionalità accordata dalla legge. (Fattispecie in cui l'indagato, in qualità di Presidente della Commissione medica di verifica presso il Ministero dell'Economia e delle Finanze, aveva ricevuto somme di denaro da un medico legale per far ottenere benefici pensionistici ai suoi pazienti. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto irrilevante, per escludere il reato, la circostanza che, trattandosi di persone affette da gravi patologie, sarebbero stati comunque riconosciuti loro i benefici richiesti);

d) la consolidata affermazione nella giurisprudenza della Corte secondo cui il reato di corruzione propria può essere integrato anche mediante atti di natura discrezionale quando essi costituiscano concreto esercizio dei poteri inerenti l'ufficio e l'agente sia il soggetto deputato ad emetterli o abbia un'effettiva possibilità di incidere sul relativo contenuto o sulla loro emanazione. Si sostiene che l'atto di natura discrezionale o consultiva non abbia mai un contenuto pienamente "libero", essendo soggetto, per un verso, al rispetto delle procedure e dei requisiti di legge, e, per altro verso, alla necessità di assegnare comunque prevalenza all'interesse pubblico (Sez. 6, n. 8211 del 11/2/2016 Ferrante ed altri, Rv. 266510 in cui la Corte ha evidenziato come nulla osti alla possibilità di ravvisare la fattispecie incriminatrice ex art. 319 cod. pen. anche qualora si tratti di atti caratterizzati da discrezionalità, atteso che integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali spettantigli rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, ex post, con l'interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l'elemento decisivo è costituito dalla "vendita" della discrezionalità accordata dalla legge, precisando che il versamento di una somma consistente è un elemento fortemente sintomatico della necessità per il privato di incidere sulla formazione del provvedimento amministrativo (Sez. 6, n. 39542 del 22/3/2016, Fronti, non massimata sul punto; Sez. 6, n. 8935 del 13/01/2015, Giusti, Rv. 262497; Sez. 6, n. 23354 del 4/2/2014, Conte, Rv. 260538; Sez. 6, n. 36212 del 27/06/2013, De Cecco, Rv. 256095);

e) il principio secondo cui la corruzione propria è ravvisabile anche quando la promessa o la dazione siano riferiti nella previsione generica di eventuali, futuri, imprecisati atti, al fine di ottenere la benevolenza del soggetto corrotto;

f) la inevitabile sostanziale ridimensionamento della corruzione impropria, sussistente, prima delle modifiche apportate dalla 1. n. 190 del 2012, nei soli casi in cui il mercimonio riguardasse specifici atti conformi ai doveri d'ufficio;

g) la interpretazione del concetto di "altra utilità" (Sez. 6, n. 18707 del 9/2/2016, Balducci, Rv. 266991 secondo cui la nozione di "altra utilità", quale oggetto della dazione o promessa, ricomprende qualsiasi vantaggio materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, che abbia valore per il pubblico agente. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva ricondotto alla nozione di "altre utilità", la "raccomandazione" dell'imputato, data in cambio del sistematico asservimento della pubblica funzione ad interessi privati, ad un parlamentare - che, a sua volta, aveva interceduto presso un ministro - per il conferimento di un importante incarico di dirigenza pubblica, poi effettivamente conseguito).

2. La "nuova" corruzione per l'esercizio della funzione prevista dall'art. 318 cod. pen.

In tale contesto si colloca il "nuovo" art. 318 cod. pen. e la nuova figura della corruzione per l'esercizio della funzione.

Con la nuova fattispecie:

a) è scomparso il riferimento all'atto d'ufficio legittimo, adottato o da adottare da parte del pubblico agente (in tal senso, Sez. 6, n. 39008 del 6/5/2016, Biagi, Rv. 268089 secondo cui non integra il reato di corruzione impropria, secondo la previsione dell'art.318 cod. pen. antecedente alla entrata in vigore della legge 11 giugno 2012 n. 190, la condotta del pubblico ufficiale consistita in un generico asservimento agli interessi del privato, qualora non siano determinati o determinabili gli atti in concreto posti in essere a fronte della dazione indebita ricevuta);

b) il "pactum sceleris" ha per oggetto l'esercizio dei poteri o delle funzioni nel senso che il compenso che il pubblico agente riceve non retribuisce più soltanto l'atto non illegittimo del suo ufficio, ma, più in generale, rimunera la presa in considerazione degli interessi di cui è portatore il privato nello svolgimento delle funzioni o nell'esercizio dei poteri pubblici da parte dell'agente;

c) il consenso del funzionario pubblico alla pattuizione illecita deve essere accertato, atteso che l'accordo segna la linea di confina con la "nuova" istigazione alla corruzione (art. 322, comma 1, cod. pen.) in cui l'offerta e la promessa di denaro o altra utilità non è accettata dall'agente pubblico ovvero si resta allo stadio di sollecitazione se l'iniziativa proviene da quest'ultimo (art. 322, comma 3, cod. pen.).

d) è stato configurato un reato eventualmente permanente quando le dazioni indebite siano lurime e trovano una loro ragione giustificatrice nel fattore unificante dell'asservimento della funzione pubblica. (Sez. 6, n. 3043 del 27/12/2015 (dep. 2016) Esposito e altri, Rv. 265619, in cui la Corte ha qualificato in termini di corruzione per l'esercizio della funzione la condotta di un indagato che aveva stabilmente asservito le proprie funzioni di consigliere comunale, nonché di presidente e vicepresidente di commissioni comunali, agli scopi di società cooperative facenti capo ad altro coindagato; cfr., anche, Sez. 6, n. 49226 del 25/9/2014, Chisso, Rv. 261355).

3. I rapporti tra corruzione per l'esercizio della funzione e corruzione propria.

I rapporti tra il "nuovo" art. 318 cod. pen. e il reato di corruzione propria sono stati delineati tenendo ferma la precedente distinzione tra corruzione propria - corruzione impropria e trasferendo sul requisito più generale dell'esercizio della funzione la precedente distinzione tra atto conforme e atto contrario ai doveri d'ufficio.

L'ambito applicativo del nuovo art. 318 cod. pen. è stato infatti limitato ai soli casi in cui l'esercizio della funzione oggetto di mercimonio sia conforme ai doveri d'ufficio, facendo confluire nell'art. 319 cod. pen. tutti i casi di compravendita della funzione da esercitare in violazione ai doveri d'ufficio.

La Corte di cassazione si è mostrata molto cauta a ricondurre all'art. 318 cod. pen. tutti i casi di corruzione in ragione della funzione che, in precedenza, la giurisprudenza inquadrava nell'art. 319 cod. pen.

Secondo la Corte sarebbe discutibile che la fattispecie o categoria criminosa dell'asservimento dell'intera funzione (pubblico ufficiale corrotto posto a c.d. libro paga del privato corruttore), disegnata dall'evoluzione giurisprudenziale e pacificamente sussunta nell'ipotesi di corruzione propria (antecedente o successiva) ex art. 319 cod. pen. possa o debba essere oggi ricondotta nella previsione del novellato art. 318 cod. pen.(prima intestato alla corruzione per un atto di ufficio).

Secondo la Corte, pur volendo prescindere dalle discrasie logiche e concettuali che paiono opporsi alla configurabilità di un asservimento delle funzioni pubbliche volto al compimento di atti conformi alle funzioni e ai doveri del pubblico ufficiale (cioè atti di corruzione c.d. impropria antecedente), non sembrerebbe incongruo un semplice rilievo che offre la misura della problematica suscitata dalla novellata normativa.

In vero, assume la Corte, da un lato, il generico riferimento, anticipato dalla preposizione finalistica "per", all'esercizio delle funzioni e dei poteri del pubblico ufficiale espresso dal nuovo art. 318 cod. pen. non consente una immediata decifrabilità delle concrete forme o espressioni che il mercimonio di funzioni e poteri possa assumere in concreto; da un altro lato, appare singolare che una disciplina normativa (quella introdotta dalla L. n. 190 del 2012) tesa ad armonizzare le disposizioni sanzionatorie di sempre più diffusi fenomeni di corruzione e a renderne più agevole l'accertamento e la perseguibilità, offra il fianco a possibili rilievi in termini di graduazione dell'offensività, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.).

Rilievi non privi di spessore allorché si consideri, assume la Corte, che la condotta di un pubblico ufficiale che compia per denaro o altra utilità ("venda") un solo suo atto contrario all'ufficio è punito con una cospicua pena oscillante tra i quattro e gli otto anni di reclusione (come da novellato incremento delle pene dell'art. 319 cod. pen.) laddove un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga l'intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato, con contegni di infedeltà sistematici e in relazione ad atti contrari alla funzione non predefiniti o non specificamente individuabili ex post (in caso diverso si rifluirebbe, come è ovvio, nella previsione dell'art. 319 cod. pen.), si vedrebbe oggi iirrazionalmente punito con una pena assai più mite, quale quella prevista dal riformato art. 318 cod. pen., (da uno a cinque anni di reclusione).

A tale risultato irrazionale dovrebbe pervenirsi, secondo la giurisprudenza, malgrado appaiano in tutta evidenza indiscutibili la ben maggiore offensività e il più elevato disvalore giuridico e sociale della seconda condotta, integrata appunto dall'asservimento costante e metodico dell'intera funzione del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi privati (Sez. 6, n. 9883 del 15/10/2013, (dep. 2014), Terenghi, Rv.258521).

In tale quadro di riferimento, Sez. 6, n. 8211 del 11/2/2016, Ferrante ed altri, Rv. 266510 ha affermato che, ai fini della integrazione del delitto di cui all'art. 319 cod. pen. non è necessaria l'individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio per il quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto somme di denaro o altre utilità non dovute, a condizione che, dal suo comportamento, emerga comunque un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli e dunque a violare i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono (Sez. 6, n. 22301 del 24/05/2012, Saviolo, Rv. 254055; Sez. 6, n. 34417 del 15/05/2008, Leoni, Rv. 241081; Sez. 6, n. 20046 del 16/01/2008, Bevilacqua, Rv. 241184).

La corruzione propria è ravvisabile anche in caso di "vendita della funzione" connotata da uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio, i quali non costituiscono autonomi reati di corruzione, ma evidenziano soltanto il punto più alto della contrarietà ai doveri di correttezza che si impongono all'agente pubblico.

Come si è affermato in plurime pronunce, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili ex post, ovvero mediante l'omissione o il ritardo di atti dovuti, integra il reato di cui all'art. 319 cod. pen. e non il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 cod. pen., il quale ricorre, invece, quando l'oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti dell'ufficio, secondo un rapporto di progressione criminosa tra le due fattispecie incriminatrici (Sez. 6, n. 47271 del 25/09/2014, Casarin, Rv. 260732).

La fattispecie prevista dall'art. 318 avrebbe, pertanto, un ambito di operatività residuale, potendo ravvisarsi soltanto nella ipotesi in cui la vendita della funzione abbia ad oggetto il mercimonio di un atto dell'ufficio. (nello stesso senso, Sez. 6, n. 40237 del 7/7/2016, Giangreco, Rv. 267634; Sez. 6, n. 15959 del 23/2/2016, Caiazzo ed altri, Rv. 266735; Sez., 6, n. 47271 del 25/9/2014, Casarin, Rv. 260732; Sez. 6, n. 6056 del 23/9/2014, (dep. 2015), Stafferi, Rv. 262233; conforme è anche Sez. 6, n. 24535 del 10 aprile 2015, Mogliani ed altri, Rv. 264124 nel noto caso di "mafia capitale").

In senso non esattamente simmetrico si pone Sez. 6, n. 49226 del 23/9/2014, Chisso, Rv. 261352 che ha affermato il principio così massimato "In tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi realizzato attraverso l'impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all'art. 318 cod. pen. (nel testo introdotto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190), e non il più grave reato di corruzione propria di cui all'art. 319 cod. pen., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, poichè, in tal caso, si determina una progressione criminosa nel cui ambito le singole dazioni eventualmente effettuate si atteggiano a momenti esecutivi di un unico reato di corruzione propria a consumazione permanente."

La Corte ha affermato che:

- il nuovo testo dell'art. 318 cod. pen. non ha proceduto ad alcuna "abolitio criminis", neanche parziale, delle condotte previste dalla precedente formulazione e ha, invece, determinato un'estensione dell'area di punibilità, configurando una fattispecie di onnicomprensiva monetizzazione del munus pubblico, sganciata da una logica di formale sinallagma e idonea a superare i limiti applicativi che il vecchio testo, pur nel contesto di un'interpretazione ragionevolmente estensiva, presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di un qualche concreto comportamento pubblico oggetto di mercimonio" (Sez. 6, n. 19189 del 11.01.2013, Abbruzzese, Rv 255073);

- la riscrittura dell'art. 318 cod. pen. ha portato nell'assetto del delitto di corruzione un'importante novità: il baricentro del reato non è più l'atto di ufficio da compiere o già compiuto, ma l'esercizio della funzione pubblica, essendo dalla rubrica, nonché dal testo dell'art. 318, scomparso ogni riferimento all'atto dell'ufficio e alla sua retribuzione e, a seguire, ogni connotazione circa la conformità o meno dell'atto ai doveri d'ufficio e, ancora, alla relazione temporale tra l'atto e l'indebito pagamento;

- ciò significa che è stata abbandonata la tradizionale concezione che ravvisava la corruzione nella compravendita dell'atto che il pubblico ufficiale ha compiuto o deve compiere, per abbracciare un nuovo criterio di punibilità ancorato al mero "esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri", a prescindere dal fatto che tale esercizio assuma carattere legittimo o illegittimo e, quindi, senza che sia necessario accertare l'esistenza di un nesso tra la dazione indebita e uno specifico atto dell'ufficio;

- la riforma ha inteso adeguare il nostro ordinamento penale ai superiori livelli di tutela raggiunti da altri ordinamenti Europei (in particolare, quello tedesco) e al contempo colmare lo iato tra diritto positivo e diritto vivente formatosi per l'interpretazione estensiva data dalla giurisprudenza di legittimità al concetto di atto di ufficio, dilatato fino al punto di ritenere sufficiente, per la sua determinabilità, il solo riferimento alla sfera di competenza o alle funzioni del pubblico ufficiale che riceve il denaro;

- il comando contenuto nella nuova fattispecie è estremamente chiaro: il pubblico funzionario in ragione della funzione pubblica esercitata non deve ricevere denaro o altre utilità e, specularmente, il privato non deve corrisponderglieli;

- tali divieti, secondo la logica del pericolo presunto, mirano a prevenire la compravendita degli atti d'ufficio e fungono da garanzia del corretto funzionamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione;

- il nuovo reato di cui all'art. 318 cod. pen., quindi, in forza della novità del riferimento all'esercizio della funzione, ha esteso l'area di punibilità dall'originaria ipotesi della retribuzione del pubblico ufficiale per il compimento di un atto conforme ai doveri d'ufficio a tutte le forme di mercimonio delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale, salva l'ipotesi in cui sia accertato un nesso di strumentante tra dazione o promessa e il compimento di un determinato o ben determinabile atto contrario ai doveri d'ufficio, ipotesi, quest'ultima, espressamente contemplata dall'art. 319 cod. pen., modificato dalla novella soltanto nella parte attinente alla misura della pena;

- ne deriva che i fenomeni di corruzione sistemica conosciuti dall'esperienza giudiziaria come "messa a libro paga del pubblico funzionario" o "asservimento della funzione pubblica agli interessi privati" o "messa a disposizione del proprio ufficio", tutti caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, finora sussunti - alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale sopra richiamato - nella fattispecie prevista dall'art. 319 cod. pen., devono ora, dopo l'entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, essere ricondotti nella previsione del novellato art. 318 cod. pen., sempre che i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio;

- considerato che la nuova figura di reato prevista dall'art. 318, e quella di cui all'art. 319 cod. pen., sono caratterizzate l'una dall'assenza l'altra dalla presenza di un atto contrario ai doveri di ufficio, volendo individuare quale sia la norma penale applicabile, occorrerà previamente accertare se l'asservimento della funzione sia rimasto tale o sia sfociato nel compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio;

- nella prima ipotesi il fatto sarà sussunto nella nuova fattispecie di reato descritta dall'art. 318 cod. pen., che, elevando a fatto tipico uno dei tanti fenomeni di corruzione propria prima compresi nell'art. 319 cod. pen., ha assunto - rispetto ai fatti commessi ante riforma - il ruolo di norma speciale destinata a succedere nel tempo a quella generale, perché la pena comminata dall'art. 318, è, nel minimo edittale (un anno di reclusione, anziché due), più favorevole al reo;

- nell'ipotesi, invece, che l'asservimento della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio, il fatto resterà sotto il regime dell'art. 319 cod. pen, e sarà punito, ove commesso prima dell'entrata in vigore della novella, con la pena - più lieve - prevista ante riforma, in ossequio alla regola dell'art. 2 cod. pen., comma 4; - l'argomentazione contenuta nella sentenza "Terenghi, di cui si è detto in precedenza, non è condivisibile, perché non rispecchia la realtà normativa come sopra ricostruita, atteso che l'art. 318 cod.pen., in quanto punisce genericamente la vendita della funzione, si atteggia come reato di pericolo, mentre l'art. 319 cod. pen., perseguendo la compravendita di uno specifico atto d'ufficio, è reato di danno;

- nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà e imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell'altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa;

- nel nuovo regime, il rapporto tra art. 318 cod. pen. e art. 319 cod. pen., da alternativo che era (cioè fondato sulla distinzione tra atto conforme o atto contrario ai doveri d'ufficio), è ora divenuto da norma generale a norma speciale. Si tratta di specialità unilaterale per specificazione, perché, mentre l'art. 318 cod. pen., prevede e punisce la generica condotta di vendita della pubblica funzione, l'art. 319 cod. pen., enuclea un preciso atto, contrario ai doveri di ufficio, oggetto di illecito mercimonio.

4. Sui rapporti tra concussione, corruzione e induzione indebita a dare o promettere.

Nel 2016 la Corte è tornata ad occuparsi dei rapporti tra concussione, induzione indebita a dare o promettere e corruzione.

Secondo Sez. 6, n. 52321 del 13/10/2016 Beccaro, il requisito che contraddistingue, nel suo peculiare dinamismo, la induzione indebita e la differenzia dalle fattispecie corruttive è la condotta comunque prevaricatrice dell'intraneus, il quale, con l'abuso della sua qualità o dei suoi poteri, convince l'extraneus alla indebita dazione o promessa.

Secondo la Corte è vero che anche le condotte corruttive non sono svincolate dall'abuso della veste pubblica, ma tale abuso si atteggia come connotazione (di risultato) delle medesime e non svolge il ruolo, come accade nei reati di concussione e di induzione indebita, di strumento indefettibile per ottenere, con efficienza causale, la prestazione indebita.

La sentenza in esame ha richiamato quanto affermato dalle Sezioni unite "Maldera" che sul tema non hanno valorizzato il profilo dell'iniziativa, quanto, piuttosto, l'esigenza della prevaricazione: "il reato di concussione e quello di induzione indebita si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre l'extraneus, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l'accordo corruttivo presuppone la par condicio contractualis ed evidenzia l'incontro assolutamente libero e consapevole delle volontà delle parti".

In linea con questi principi, si è orientata anche la giurisprudenza successiva che ha valorizzato il profilo della posizione di preminenza in concreto esercitata dal pubblico ufficiale (cfr. Sez. 6, n. 50065 del 22/09/2015, De Napoli, Rv. 265750).

Una conferma che la "iniziativa" del pubblico ufficiale, pur potendo costituire un indice orientativo per l'interprete, non assume valenza decisiva ai fini dell'esclusione della sussistenza di una fattispecie di corruzione è desumibile, secondo la Corte, anche dal testo dell'art. 322 cod. pen.: questa disposizione, nel terzo e nel quarto comma, prevede la configurabilità del reato di istigazione alla corruzione anche quando sia il pubblico ufficiale a sollecitare una promessa o dazione di denaro o altra utilità, rispettivamente per l'esercizio delle sue funzioni o per il compimento di atti contrari ai doveri di ufficio.

Sul tema è intervenuta anche Sez. 6, n. 53436 del 6/10/2016, Vecchio.

La Corte, richiamando i principi enunciati dalle Sezioni unite, ha evidenziato come nella successiva elaborazione si sia affermata la configurabilità del reato di cui all'art. 319-quater cod. pen., e non di quello di corruzione, quando sia esclusa qualsiasi forma di parità nei rapporti intercorsi tra le parti del rapporto illecito, anche se l'erogatore delle somme "si sia determinato al pagamento per mero calciolo utilitaristico, anziché per timore" (cfr., in questi termini, in motivazione, Sez. 6, n. 50065 del 22/09/2015, De Napoli, Rv. 265750, relativa a condotte consumate nel contesto di una verifica fiscale).

Sulla base di tali premesse la Corte ha chiarito che, pur distinguendosi l'induzione indebita dalla corruzione per "la condotta comunque prevaricatrice dell'intraneus, il quale, con l'abuso della sua qualità o dei suoi poteri, convince l'extraneus alla indebita dazione o promessa" (v. Sez. U, Maldera, cit., § 24.2), tale prevaricazione, siccome diretta, appunto, a "convincere" e non a "costringere", può risolversi anche nello squilibrio di posizione tra il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio) e l'altro soggetto, quando il secondo acceda alla illecita pattuizione condizionato dal timore di subire, in caso contrario, gravi conseguenze per il proprio patrimonio e per la propria libertà personale dall'esercizio di poteri pubblicistici, ed il primo sia anche solo semplicemente consapevole di tali preoccupazioni (non necessariamente anche dell'erroneità della loro genesi).

D'altro canto, si aggiunge, se si optasse per una soluzione implicante la necessità di una più stringente prevaricazione ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all'art. 319-quater cod. pen., si determinerebbe una sostanziale assimilazione tra concussione ed induzione indebita, con il risultato di rendere non giustificabile, alla luce di principi costituzionali, la punibilità dell'autore della promessa o della minaccia.

5. Sui rapporti tra corruzione e truffa.

I reati di corruzione e di truffa aggravata commessi da pubblico ufficiale, pur avendo in comune la qualità del soggetto passivo e l'abuso da parte di questi della pubblica funzione al fine di conseguire un indebito profitto, si differenziano per il fatto che nella corruzione colui che dà o promette non è vittima di un errore ed agisce su di un piano di parità con il pubblico ufficiale nel concludere un negozio giuridico illecito in danno della P.A., laddove, invece, nella truffa il pubblico ufficiale si procura un ingiusto profitto sorprendendo la buona fede del soggetto passivo mediante artifici o raggiri ai quali la qualità di pubblico ufficiale conferisce maggiore efficacia. (Sez. 6, n. 19002 del 5/4/2016, Cozzilino, Rv. 266933).

Con la pronuncia in esame la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva qualificato come corruttiva la condotta dell'imputato che aveva accettato denaro per concorrere ad affidare un nascituro a terzi, facendo ricoverare la donna in una clinica convenzionata con la presenza della coppia destinataria del neonato; nella occasione il denaro era stato dato per il compimento di un atto (contrario ai doveri d'ufficio) rientrante fra quelli che l'imputato aveva la "concreta possibilità di compiere" e fu corrisposto consapevolmente "non per effetto di un consapevolmente errore indotto da raggiro". Nello stesso senso Sez. 6, n. 6357 del 02/02/1988, Simone, Rv. 178464; Sez. 6, n. 1375 del 11/11/1970, (dep. 1971), Italiano, Rv. 117449).

6. La Corruzione in atti giudiziari e i rapporti con il reato di intralcio alla giustizia (art. 377 cod. pen.).

La Corte di cassazione, riaffermati i consolidati principi in tema di corruzione in atti giudiziari, ha affrontato la questione del rapporto tra detto reato e quello di intralcio alla giustizia previsto dall'art. 377 cod. pen.

Sez. 6, n. 40759 del 23/6/2016, Fanfarillo, Rv. 268091 ha affermato il principio così massimato "Integra il reato di corruzione in atti giudiziari "ex" art. 319-ter cod.pen. 1a promessa o la dazione di denaro rivolta al teste, e da questi accettata, affinchè con la sua falsa testimonianza favorisca una parte del processo penale.

Nella occasione la Corte ha ribadito che:

- il reato previsto dall'art. 377 cod. pen. tutela il corretto svolgimento dell'attività processuale in relazione a condotte volte a pregiudicare - mediante offerta o promessa di danaro o altra utilità, ovvero violenza o minaccia - la serena acquisizione delle dichiarazioni di soggetti sui quali grava l'obbligo di rispondere (Sez. 6, n. 10129 del 20/01/2015, Lattanzi, Rv. 262906);

- l'intralcio alla giustizia presuppone che l'offerta o la promessa di denaro o di altra utilità, volta al condizionamento delle dichiarazioni dei testimoni o delle attività dei soggetti muniti di competenze tecniche da sentire nel processo, "non sia accettata" (comma 1), ovvero che, "qualora l'offerta o la promessa sia accettata", "la falsità non sia commessa" (comma 2) o ancora, in caso di violenza o minaccia, che "il fine" della subornazione "non sia conseguito" (comma 3);

- la condotta è punita quindi a condizione che l'attività di condizionamento - utilitaristico o coercitivo - non vada a buon fine: si tratta invero di un reato di pericolo teso a realizzare una tutela anticipata del bene giuridico dell'amministrazione della giustizia;

- "sotto la rubrica di "intralcio alla giustizia", l'art. 377 cod. pen. configura, al comma 1, come reato l'offerta o la promessa di denaro o di altra utilità, non accettata, per commettere taluni delitti contro l'amministrazione della giustizia: derogando, con ciò, al generale principio per cui l'istigazione non accolta a commettere un reato non è punibile (art. 115 cod. pen.)" (Sez. U, n. 51824 del 25/09/2014, Guidi, Rv. 261187);

- diversamente, ricorre l'ipotesi sanzionata dagli artt. 319-ter e 321 cod. pen. allorquando l'agente abbia consegnato o promesso denaro o altre utilità "per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo";

- tale fattispecie è ravvisabile nel caso in cui la dazione sia rivolta al teste affinchè questi renda una falsa testimonianza, in quanto il testimone, che partecipa alla formazione della volontà del giudice, riveste, sin dal momento della sua citazione, la qualità di pubblico ufficiale ex art. 357 cod. pen. (Sez. 1, n. 6274 del 23/01/2003, Chianese, Rv. 223566);

- la linea di demarcazione fra le due fattispecie in parola dipende, quindi, proprio dal fatto che la condotta induttiva sia andata o meno a buon fine e che il testimone o il tecnico siano stati in concreto condizionati nel loro operato.

7. L'istigazione alla corruzione.

A seguito delle modifiche apportate all'art. 322 cod. proc. pen. dalla legge. n. 190 del 2012, la Corte di cassazione aveva già ha chiarito che le fattispecie di istigazione alla corruzione, di cui ai commi 1 e 3 dell'art. 322 cod. pen., come sostituite dall'art. 1, comma 75, della legge n. 190 del 2012, si pongono in rapporto di continuità normativa con le previgenti disposizioni contenute nei medesimi commi, fatto salvo il divieto di applicazione retroattiva delle nuove norme nella parte in cui puniscono quei comportamenti che hanno assunto rilevanza penale a seguito dell'introduzione della fattispecie di corruzione per l'esercizio delle funzioni, di cui all'art. 318 cod. pen. (Sez. 6, n. 11792 del 11/2/2013, Castelluzzo, Rv. 254438).

Successivamente, la Corte ha affermato che la condotta di sollecitazione, punita dal comma quarto dell'art. 322 cod. pen., si distingue sia da quella di costrizione (cui fa riferimento l'art. 317 cod. pen., nel testo modificato dall'art. 1, comma 75 legge n. 190 del 2012) che da quella di induzione (che caratterizza la nuova ipotesi delittuosa dell'art. 319-quater cod. pen, introdotta dalla medesima 1. n. 190) in quanto si qualifica come una richiesta formulata dal pubblico agente senza esercitare pressioni o suggestioni che tendano a piegare ovvero a persuadere, sia pure allusivamente, il soggetto privato, alla cui libertà di scelta viene prospettato, su basi paritarie, un semplice scambio di favori, connotato dall'assenza sia di ogni tipo di minaccia diretta o indiretta sia, soprattutto, di ogni ulteriore abuso della qualità o dei poteri. (Sez. 6, n. 23004 del 4/2/2014, Pigozzo, Rv. 259951 in cui la Corte ha ritenuto che la sentenza impugnata avesse correttamente ravvisato la sussistenza del reato di cui al comma quarto dell'art. 322 cod. pen. con riferimento alla richiesta di danaro formulata tramite intermediario da un funzionario comunale ad un avvocato, la cui nomina era stata in precedenza caldeggiata dallo stesso funzionario al soggetto privato interessato ad una pratica cui l'agente era preposto quale responsabile del procedimento, e motivata anche con l'esigenza di percepire una retribuzione per la prestazione di una attività di supporto a quella svolta dal professionista in relazione all' "iter" amministrativo).

In tale senso, più di recente si è sostenuto che ai fini della configurabilità del delitto di istigazione alla corruzione, la promessa di un posto di consigliere di amministrazione effettuata nei confronti di un consigliere comunale per condizionarne il voto rientra nella nozione di "altra utilità", trattandosi di un'offerta volta ad incidere illecitamente sulla libertà di coscienza del destinatario, indotto ad orientare la propria scelta discrezionale alla luce dei propri interessi personali piuttosto che di quelli della collettività. (Sez. 6, n. 8203 del 27/1/2016, Tuzet, Rv. 266185).

L'offerta o la promessa di donativi di modesta entità integrano il delitto di istigazione alla corruzione solo qualora la condotta sia caratterizzata da un'adeguata serietà, da valutare alla stregua delle condizioni dell'offerente nonché delle circostanze di tempo e di luogo in cui l'episodio si colloca, e sia in grado di turbare psicologicamente il pubblico ufficiale. (Sez. 6, n. 1935 del 4/11/2015, (dep. 2016), Shirman, Rv. 266498 in cui la S.C. ha ritenuto non seria e potenzialmente corruttiva, e dunque inidonea a configurare il reato, l'offerta di 100 euro fatta dall'imputato, visibilmente ubriaco, ad un agente di polizia che lo aveva fermato alla guida di un'autovettura in stato di ebbrezza; nello stesso senso Sez. 6, n. 46255 del 18/10/2016, Zhou).

8. Corruzione e confisca.

Nel 2016 la Corte è tornata ad occuparsi del rapporto tra confisca e consumazione del delitto di corruzione, ribadendo che se il prezzo sia stato solo promesso ma non materialmente ricevuto dal pubblico agente, né sia altrimenti individuabile, non può essere disposta la confisca per equivalente, né il propedeutico sequestro preventivo, di altri beni nella disponibilità del soggetto pubblico. (Sez. 6, n. 39542 del 22/3/2016, Fronti, Rv. 268111¸ nello stesso senso, Sez. 6, n. 8044 del 21/1/2016, Cereda, Rv. 266117; Sez. 6, n. 9929 del 13/2/2014, Giancone, Rv. 259592).

Si tratta di un orientamento non simmetrico rispetto a quanto in precedenza sostenuto e cioè che in tema di corruzione, è assoggettabile a confisca, ex art. 322 ter secondo comma cod. pen., quale prezzo del reato l'utilità materialmente corrisposta al corrotto, se alla promessa segue la dazione, o, alternativamente, l'utilità promessa, se la dazione non ha luogo. (Sez. 6, n. 31691 del 5/6/1997, Bacagliu, Rv. 237623; Conf. Sez. 6, n. 31692 del 5/6/2007, n. 31692, Giannone, Rv. 237610).

  • abuso di potere
  • pubblico ufficiale
  • pubblica amministrazione

CAPITOLO III

TRAFFICO DI INFLUENZE E MILLANTATO CREDITO

(di Giuseppe Marra )

Sommario

1 La genesi della norma - 2 L'ambito applicativo dell'art. 346-bis cod. pen. - 3 Le prime pronunce della Cassazione.

1. La genesi della norma

Come è noto la legge 6 novembre 2012, n. 190 ha introdotto una normativa organica tesa ad implementare l'apparato preventivo e repressivo contro la corruzione e l'illegalità nella pubblica amministrazione. Invero l'intervento normativo, frutto di un lungo procedimento legislativo, ha provveduto alla necessità di adeguare l'Italia agli obblighi derivanti dalla Convenzione O.N.U. contro la corruzione del 31 ottobre 2003 (c.d. Convenzione di Merida) e dalla Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d'Europa del 27 gennaio 1999 (Convenzione di Strasburgo), sanando così alla mancata attuazione delle medesime da parte delle rispettive leggi di ratifica (l. 3 agosto 2009, n. 116 e 1. 28 giugno 2012, n. 110).

Con riferimento specifico alla figura di "trading in influence", si rammenta che l'art.18 della Convenzione O.n.u. di Merida prevedeva che " ciascuno Stato parte esamina l'adozione di misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando tali atti sono stati commessi intenzionalmente: a) al fatto di promettere, offrire o concedere a un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un'amministrazione o da un'autorità pubblica dello Stato parte un indebito vantaggio per l'istigatore iniziale di tale atto o per ogni altra persona; b) al fatto, per un pubblico ufficiale o per ogni altra persona, di sollecitare o di accettare, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio per sé o per un'altra persona al fine di abusare della sua influenza reale o supposta per ottenere un indebito vantaggio da un'amministrazione o da un'autorità pubblica dello Stato parte"; al pari l'art. 12 della Convenzione di Strasburgo del 27/01/1999, aveva previsto che " ciascuna Parte adotta i provvedimenti legislativi e di altro tipo che si rivelano necessari per configurare in quanto reato in conformità al proprio diritto interno quando l'atto e' stato commesso intenzionalmente, il fatto di proporre, offrire o dare, direttamente o indirettamente qualsiasi indebito vantaggio a titolo di rimunerazione a chiunque dichiari o confermi di essere in grado di esercitare un'influenza sulle decisioni delle persone indicate agli articoli 2, 4 a 6 e 9 ad 11, a prescindere che l'indebito vantaggio sia per se stesso o per altra persona, come pure il fatto di sollecitare, di ricevere, o di accettarne l'offerta o la promessa di rimunerazione per tale influenza, a prescindere che quest'ultima sia o meno esercitata o che produca o meno il risultato auspicato".

A tal fine la novella del 2012 ha introdotto all'art. 346-bis c.p. la nuova fattispecie, punita con la reclusione da uno a tre anni, di "Traffico di influenze illecite" consistente nel fatto di "chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio".

La stessa pena si applica, secondo quanto prevede il comma secondo dell'art. 346-bis cod. pen., "a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale", mentre la pena è, dal comma terzo, aumentata " se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio". Infine, rispettivamente in forza del comma quarto e quinto, le previste pene "sono altresì aumentate se i fatti sono commessi in relazione all'esercizio di attività giudiziarie", e sono invece diminuite "se i fatti sono di particolare tenuità".

2. L'ambito applicativo dell'art. 346-bis cod. pen.

La nuova fattispecie, che nelle intenzioni del legislatore - e, si ripete, in adempimento per l'appunto degli obblighi internazionali - appare volta a sanzionare condotte propedeutiche rispetto a successivi accordi corruttivi, presenta, a prima vista, nella sua prima parte, evidenti tratti del reato di millantato credito di cui al primo comma dell'art. 346 c.p., topograficamente posto subito prima e rimasto inalterato, ove l'utilità o la promessa appaiono collegate, nella rappresentazione dei fatti da parte dell'intermediario, alla necessità, per costui, di esercitare opera di "mediazione" verso il soggetto pubblico rispetto alle attese e richieste del privato. Essa quindi trova il suo ristretto ambito applicativo tra i reati che puniscono a vario titolo le condotte corruttive da un lato e la fattispecie del millantato credito dall'altro.

Con riguardo specifico al rapporto con il reato di millantato credito, la dottrina nettamente maggioritaria ritiene che il reato di traffico di influenze illecite si differenzierebbe essenzialmente per il fatto che le relazioni con il pubblico funzionario vantate dall'intermediario devono essere, come segnalato dall'aggettivo "esistenti", reali e non invece meramente vantate dall'agente, oltre ovviamente alla circostanza dell'estensione della punibilità per il "privato" compratore, non prevista dall'art. 346 cod. pen., in cui invece il privato è considerato vittima della millanteria.

Per quanto riguarda il primo profilo dovrebbe quindi anzitutto valutarsi la "tenuta" degli orientamenti giurisprudenziali formatesi nel tempo (ed ampliamente criticati dalla dottrina) che hanno ritenuto configurabile il reato di cui all'art. 346 cod. pen. anche laddove il credito vantato presso il pubblico ufficiale o impiegato effettivamente sussisteva, ma esso era stato artificiosamente magnificato e amplificato dall'agente in modo da far credere al soggetto passivo di essere in grado di influire sulle determinazioni di un pubblico funzionario, e correlativamente di poterlo favorire nel conseguimento di preferenze e di vantaggi illeciti in cambio di un prezzo per la propria mediazione (In tal senso: Sez. 6, n. 2645 del 27 gennaio 2000, Agrusti, Rv. 215651; Sez. 6, n. 16255 del 4 marzo 2003, Pirosu, Rv. 224872; Sez. 6, n. 13479 del 17 marzo 2010, D'Alesio, Rv. 246734; Sez. 6, n. 5071 del 4 febbraio 1991, Manuguerra, Rv. 187561).

Se pertanto il criterio discretivo è segnato dall'esistenza reale delle relazioni con il pubblico ufficiale, anche se vantate in maniera amplificata, si dovrebbe di conseguenza ritenere, come fa la dottrina maggioritaria, che tali condotte prima punite ai sensi dell'art. 346 cod. pen., ora rientrerebbero sotto la fattispecie del traffico di influenza, che, come sopra precisato, prevede una sanzione meno severa rispetto al millantato credito.

Tuttavia non manca chi evidenzia delle criticità a questa ricostruzione dei rapporti tra le due fattispecie, in particolare con riguardo al ruolo che assume il contraente che acquista la mediazione, ora punibile ai sensi del comma secondo dell'art. 346-bis cod.pen.

Si osserva a tal proposito che a volte, pur in presenza di una relazione effettivamente esistente con il pubblico agente, il mediatore non sia assolutamente in grado di orientarne le scelte, oppure in altri casi potrebbe decidere, una volta incassato il corrispettivo, di non attivarsi più per la mediazione illecita. In tali ipotesi non del tutto improbabili, il privato sarebbe comunque punibile malgrado la sua posizione sia molto prossima a quella della vittima del millantato credito.

Ed allora per superare tale profilo di irragionevolezza parte della dottrina ha ritenuto di affermare che per l'integrazione del delitto di cui all'art. 346-bis cod.pen., non ci si possa " . . . accontentare della mera esistenza delle relazioni tra mediatore e pubblico ufficiale, ma ( sia necessario n.d.r.) richiedere che queste siano realmente idonee ad influenzare l'attività amministrativa ed effettivamente attivate ".

Sotto altro profilo si evidenzia che nel millantato credito non è richiesto che il pubblico agente sia "avvicinabile", né che venga descritto come corrotto o corruttibile dal millantatore. Per converso l'art. 346-bis cod. pen. " . . . esige invece che la propinquità tra mediatore e p.u. esista ma non richiede affatto che il primo soggetto vanti, magnifichi o amplifichi all'interlocutore l'influenza di cui è o sarebbe capace . . . ".

3. Le prime pronunce della Cassazione.

Quanto alla differenza strutturale tra il reato di traffico di influenza e la più grave ipotesi di millantato credito appare di fondamentale importanza la sentenza Sez. 6, n. 51688 del 28 novembre 2014, Milanese, Rv. 267622, che risolve anche la questione relativa alla successione di leggi nel tempo, ai sensi dell'art. 2, comma 4, cod. pen.

Il caso riguardava un parlamentare, componente della Commissione Bilancio e Finanze della Camera dei deputati e consulente giuridico del Ministro dell'Economia, detenuto in custodia cautelare per il delitto di cui all'art. 319 cod. pen., che aveva accettato una somma di denaro al fine di esercitare pressioni sui funzionari del Ministero dell'Economia e del C.I.P.E. che dovevano deliberare un finanziamento pubblico per la realizzazione di una determinata opera pubblica. La Cassazione dopo aver riqualificato il fatto in un'ipotesi di millantato credito, ha affrontato il problema della sussunzione di esso sotto l'art. 346 cod. pen. ovvero sotto la nuova fattispecie di cui all'art. 346-bis cod. pen.

Nella puntuale motivazione si legge: " A questo proposito, risalendo nel tempo, occorre ricordare che il 'millantare credito' veniva inizialmente interpretato come vanteria di un'influenza inesistente, idonea a ingannare il c.d. compratore di fumo, il quale, credendo alle parole del millantatore, dà il denaro destinato a compensare la presunta mediazione; successivamente, considerato che il reato di cui all'art. 346 cod. pen. è stato concepito per tutelare il prestigio della pubblica amministrazione piuttosto che il patrimonio del solvens, si è focalizzata l'attenzione sulla condotta dell'agente, che si fa dare il denaro rappresentando i pubblici impiegati come persone venali, inclini ai favoritismi, cosicché si è consolidato l'indirizzo ermeneutico secondo cui, per integrare la millanteria, non è necessaria una condotta ingannatoria o raggirante, perché ciò che rileva è la vanteria dell'influenza sul pubblico ufficiale, che, da sola, a prescindere dai rapporti effettivamente intrattenuti, offende l'immagine della pubblica amministrazione. A questo punto si deve tener conto dell'entrata in vigore della legge n. 190/2012, che, senza toccare l'art. 346 cod. pen., ha aggiunto la nuova fattispecie di reato denominata 'traffico di influenze illecite', che fissa come presupposto della ricezione del denaro chiesto come prezzo della mediazione propria o come retribuzione per il pubblico ufficiale "lo sfruttamento delle relazioni esistenti" con quest'ultimo. Ai sensi dell'art. 346-bis cod. pen., autore del reato non è più chi millanta influenze non importa se vere o false, ma unicamente chi sfrutta influenze effettivamente esistenti (il che giustifica il diverso trattamento riservato a chi sborsa denaro ripromettendosi di trarne vantaggio: non punibile nel primo caso, che ha per protagonista un millantatore puro sedicente faccendiere, concorrente nel reato nel secondo caso, che vede all'opera un faccendiere vero realmente in contatto con il pubblico ufficiale). Ne deriva che i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 190/2012, nei quali il soggetto attivo ha ottenuto la promessa o dazione del denaro vantando un'influenza sul pubblico ufficiale effettivamente esistente, che pacificamente ricadevano sotto la previsione dell'art. 346 cod. pen., devono ora essere ricondotti nella nuova fattispecie descritta dall'art. 346-bis cod. pen., che, comminando una pena inferiore, ha realizzato un caso di successione di leggi penali regolato dall'art. 2, comma quarto, cod. pen., con applicazione della norma più favorevole al reo; col risultato paradossale che una riforma presentata all'insegna del rafforzamento della repressione dei reati contro la pubblica amministrazione ha prodotto, almeno in questo caso, l'esito contrario. Invero, mentre l'art. 346, comma primo, cod. pen. stabilisce la pena della reclusione da uno a cinque anni, l'art. 346-bis cod. pen. commina la reclusione da uno a tre anni, ossia una pena il cui massimo edittale, nel caso di affermazione della responsabilità penale, comporta l'irrogazione di una sanzione meno severa e, quanto agli effetti sulla disciplina cautelare, preclude l'applicazione di qualsivoglia misura coercitiva. Si può dunque affermare il seguente principio di diritto: le condotte di colui che, vantando un'influenza effettiva verso il pubblico ufficiale, si fa dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione o col pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale, condotte finora qualificate come reato di millantato credito ai sensi dell'art. 346, commi primo e secondo, cod. pen., devono, dopo l'entrata in vigore della legge n. 190/2012, in forza del rapporto di continuità tra norma generale e norma speciale, rifluire sotto la previsione dell'art. 346-bis cod. pen., che punisce il fatto con pena più mite ".

In estrema sintesi il tratto distintivo tra le due fattispecie starebbe nell'effettiva esistenza della possibilità di influenzare la condotta del pubblico ufficiale, che non sarebbe più una mera vanteria del "trafficante", ipotesi quest'ultima rimasta invece sussumibile sotto la fattispecie di cui all'art. 346 cod. pen.

Un caso del tutto analogo è stato deciso di recente dalla sentenza Sez. 6, 26 n. 23355 del febbraio 2016, Margiotta, Rv. 267060 (massimata sotto altro profilo).

Si trattava anche in quella vicenda di un parlamentare che aveva accettato una somma di denaro per fare pressioni nei confronti del Presidente di una Regione (del suo stesso partito) e dei vertici di un'impresa al fine di indirizzare le gare di un appalto pubblico riguardante quel territorio, sfruttando relazioni effettivamente esistenti con i soggetti predetti.

La Corte di cassazione, nell'assolvere l'imputato dal reato di corruzione per il quale era stato condannato in primo e secondo grado, ha affermato che le condotte potevano rientrare nel paradigma del nuovo art. 346-bis cod.pen., norma però non ancora entrata in vigore all'epoca dei fatti e quindi non applicabile all'imputato ai sensi dell'art. 2, comma 1, cod. pen.

A differenza della citata sentenza n. 51688/2014, la Corte non ha però ritenuto di considerare che quei fatti potevano essere comunque inquadrabili nella fattispecie del millantato credito, così come interpretata dalla giurisprudenza sopra citata prima dell'introduzione nell'ordinamento dell'art. 346-bis cod.pen., lasciando in tal modo un dubbio interpretativo in ordine al principio di continuità normativa tra le fattispecie affermato dalla sentenza del 2014.

Si segnala poi la sentenza Sez. 6, n. 17941 del 15 febbraio 2013, Anfuso, Rv. 254729, che differenzia gli articoli 346 e 346-bis cod. pen. sotto altro profilo, quello della descrizione del P.U. avvicinabile. La massima afferma che: "Per la sussistenza del delitto di millantato credito, di cui al comma secondo dell'art. 346 cod. pen. non è necessario - a differenza di quanto previsto per la nuova fattispecie di cui all'art. 346-bis cod. pen. - che il pubblico funzionario, avvicinabile dal millantatore, debba essere descritto come corrotto o pronto a rendersi partecipe di una corruzione passiva in senso proprio, essendo, invece, sufficiente anche che ne sia preannunciata la sua disponibilità remunerabile a svolgere interventi presso terzi, sia pubblici funzionari che privati". Nella fattispecie è stato ritenuto sussistente il delitto di cui al comma secondo dell'art. 346 cod. pen. nei confronti di un soggetto che si era fatta dare una somma di denaro con il pretesto di doverla consegnare ad un ufficiale giudiziario perché si adoperasse, tramite sue conoscenze, per ottenere un'assunzione presso una società privata (Conforme Sez. 6, n. 51049 del 7 luglio 2015, Volpe, Rv. 265706).

SEZIONE III DELITTI COLPOSI DI EVENTO CONTRO LA VITA E L'INCOLUMITÀ

  • omicidio
  • responsabilità penale
  • delitto contro la persona
  • sicurezza degli edifici
  • reato colposo

CAPITOLO I

OMICIDIO COLPOSO E LESIONI PERSONALI COLPOSE CONSEGUENTI AD EVENTO SISMICO

(di Francesca Costantini )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il crollo del Convitto nazionale dell'Aquila: la responsabilità del Dirigente scolastico e del Dirigente tecnico dell'edilizia scolastica della Provincia. - 3 La sentenza della Quarta Sezione della Corte di cassazione n. 12478 del 19 novembre 2015. - 4 Responsabilità colposa e causalità psichica. - 5 La valutazione della causalità psichica nei successivi arresti.

1. Premessa.

Nel corso dell'ultimo anno, diverse sentenze della Quarta sezione penale hanno affrontato la tematica relativa alla responsabilità per colpa con specifico riferimento ai decessi e alle lesioni personali conseguiti al grave terremoto che ha colpito la città dell'Aquila nell'aprile del 2009.

In tali arresti, la Corte ha esaminato fattispecie distinte, prendendo in considerazione le posizioni di diversi soggetti comunque coinvolti nell'attività di gestione del rischio sismico o titolari di posizioni di garanzia implicanti l'obbligo di provvedere alla messa in sicurezza degli edifici al fine di garantirne la resistenza sismica o di assumere iniziative idonee ad allontanare le persone coinvolte dalla fonte di pericolo. Pur a fronte della varietà delle questioni trattate, premessa comune alle valutazioni espresse e alle diverse conclusioni di volta in volta raggiunte, è la conferma dell'assunto, da tempo accolto dalla giurisprudenza di legittimità, per cui il terremoto non rappresenta un fatto eccezionale nel quadro della sismicità dell'area interessata. In tutte le pronunce in esame, infatti, la Corte ha ribadito il principio per cui i terremoti, anche di rilevante intensità, sono eventi rientranti tra le normali vicende del suolo, e non possono essere considerati come accadimenti eccezionali ed imprevedibili quando si verifichino in zone già qualificate ad elevato rischio sismico, o comunque formalmente classificate come sismiche, trattandosi, dunque, di fenomeni con i quali i professionisti competenti sono chiamati a confrontarsi (Sez. 4, n. 24732 del 27/01/2010, La Serra, Rv. 248115; Sez. 4, n. 2536 del 23/10/2015, Bearzi, Rv. 265794). Poste tali premesse sul carattere del rischio in rilievo e sul suo governo, la Corte ha ritenuto che l'adeguatezza del comportamento dell'agente chiamato a gestirlo debba essere valutata in relazione alle contingenze del caso concreto, verificando la sussistenza in capo ai soggetti coinvolti di una posizione di garanzia implicante l'obbligo di impedire l'evento.

In tali pronunce, pertanto, la Corte ha, di volta in volta, ricostruito le diverse fattispecie colpose, tenendo conto dei peculiari aspetti del caso concreto esaminato, in conformità con i fondamentali principi espressi in tema di colpa dalla giurisprudenza di legittimità.

Da ultimo, deve darsi, altresì, conto di un'importante recente arresto, che ha approfondito la specifica tematica della responsabilità colposa con riferimento all'attività informativa della Protezione civile, riconoscendo l'applicabilità, anche in tema di colpa della particolare figura della c.d. "causalità psichica".

2. Il crollo del Convitto nazionale dell'Aquila: la responsabilità del Dirigente scolastico e del Dirigente tecnico dell'edilizia scolastica della Provincia.

La Quarta Sezione, con la pronuncia n. 2536 del 21 ottobre 2015, (dep. 01/10/16) Bearzi, Rv. 265794-8 ha confermato la sentenza di condanna emessa nei confronti del Dirigente scolastico e del Dirigente tecnico dell'edilizia scolastica della Provincia, per il crollo del Convitto nazionale dell'Aquila, avvenuto in occasione della forte scossa sismica del 6 aprile 2009, in cui persero la vita e riportarono lesioni alcuni minori. La Corte di cassazione con tale pronuncia ha, dunque, approfondito la questione relativa agli obblighi gravanti su tali figure in relazione alla gestione del rischio sismico. Il Tribunale dell'Aquila, aveva affermato la responsabilità del Dirigente scolastico ed aveva invece assolto il Dirigente della Provincia, ritenendo che l'opera di ristrutturazione dell'edificio trascendesse il suo ruolo tecnico. In parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte di appello dell'Aquila aveva affermato anche la responsabilità del Dirigente della Provincia, ponendo in rilievo l'alternativo obbligo di intervenire per garantire la sicurezza delle persone, eventualmente anche attraverso l'inibizione dell'uso dell'edificio.

Per quanto riguarda in particolare la posizione del Dirigente scolastico, la condotta colposa a lui addebitata consisteva nel non aver valutato la totale inadeguatezza dell'edificio dal punto di vista statico e sismico, vetusto nelle strutture e mai sottoposto ad opere di ristrutturazione, privo di tutti i certificati di idoneità ed agibilità ed indicato in diversi documenti ingegneristici come edificio di media-elevata vulnerabilità sismica e di aver colposamente omesso, nella consapevolezza di tali gravi carenze strutturali, di adottare provvedimenti volti allo sgombero dell'edificio o comunque alla salvaguardia dell'incolumità degli studenti pur a seguito di numerose e rilevanti scosse sismiche verificatesi in precedenza. La Corte ha ritenuto esenti da censure la valutazioni dei giudici di merito, che avevano affermato la responsabilità dell'imputato, rilevando che è ravvisabile in capo al Dirigente scolastico una responsabilità di natura contrattuale nei confronti degli allievi che si caratterizza per l'esistenza di un obbligo di vigilanza e protezione connesso alla funzione educativa e all'affidamento dei minori all'istituto, al fine di evitare che gli stessi possano recare danno a terzi o a sé medesimi, o che possano essere esposti a prevedibili fonti di rischio o a situazioni di pericolo. La responsabilità dell'istituto scolastico e dell'insegnante non avrebbe, dunque, natura extracontrattuale ma contrattuale, determinandosi, con l'ammissione dell'allievo a scuola, l'instaurazione di un vincolo negoziale implicante, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza. Secondo i Giudici della Quarta Sezione, allora, pur non essendo esigibile da parte dell'imputato una condotta idonea a porre in essere gli enormi interventi strutturali che sarebbero stati necessari per mettere in sicurezza l'edificio, anche in considerazione dei limiti economici gravanti sugli enti interessati, gravava su di lui l'obbligo, a fronte del protrarsi delle scosse sismiche, di non consentire la prosecuzione dell'attività disponendo la chiusura della struttura le cui gravi condizioni di degrado gli erano ben note. La responsabilità dell'imputato derivava, dunque, oltre che dalla legge, proprio dal contratto con cui egli aveva assunto la carica di dirigente dell'istituzione con un ruolo che, quanto ai minori, sostituiva quello genitoriale. Poste tali considerazioni, la Corte, richiamando anche la precedente conforme giurisprudenza di legittimità sviluppatasi sul tema (Sez. 4, n. 17574 del 23/02/2010, Ciabatti, Rv. 247522), ha affermato il principio di diritto così massimato "In tema di reati colposi omissivi, è ravvisabile in capo al dirigente scolastico una responsabilità di natura contrattuale nei confronti degli allievi che si caratterizza per l'esistenza di un obbligo di vigilanza e protezione connesso alla funzione educativa e all'affidamento dei minori all'istituto, al fine di evitare che gli stessi possano recare danno a terzi o a sé medesimi, o che possano essere esposti a prevedibili fonti di rischio o a situazioni di pericolo".

A conclusioni non dissimili la Corte è giunta anche in relazione alla posizione del Dirigente tecnico dell'edilizia scolastica della Provincia di l'Aquila, chiamato a gestire la convenzione che regolava i rapporti tra i due Enti in ordine alla manutenzione ordinaria, straordinaria ed alla ristrutturazione dell'immobile, al quale anche era mosso l'addebito di non aver valutato la totale inadeguatezza dell'edificio e di non aver adottato provvedimenti per lo sgombero e la sicurezza o comunque per la salvaguardia degli ospiti. Ad avviso della Corte gravava, infatti, sull'imputato un ruolo di garanzia complementare rispetto a quello gravante in primo luogo sul Dirigente scolastico, essendo egli tenuto alla protezione degli occupanti dell'edificio. Egli, senza dubbio, non aveva alcuna possibilità di intervenire in merito agli imponenti interventi di ristrutturazione che avrebbero consentito di mettere in sicurezza il fabbricato, ma su di lui gravava l'alternativo obbligo di intervenire per garantire la sicurezza delle persone sia regolando diversamente l'utilizzazione del bene, sia eventualmente favorendo l'evacuazione dell'edificio. Sotto tale profilo la Corte ha, dunque, affermato il principio secondo cui "In tema di reati omissivi colposi, quando un obiettivo di sicurezza può essere soddisfatto con l'adozione di diverse strategie, la scelta dell'una o dell'altra da parte del soggetto titolare della posizione di garanzia è indifferente e l'obbligo può essere adempiuto anche con l'adozione di cautele diverse da quelle "specifiche", quando si adottino interventi evoluti dal punto di vista tecnico e scientifico ed efficienti almeno quanto quelli prescritti dalla regolamentazione ufficiale della materia".

L'imputato, invero, era titolare di una specifica posizione di garanzia atteso che, in considerazione delle ripetute ispezioni svolte nei giorni antecedenti al sinistro e delle intese intercorse con l'Ente scolastico per la gestione del rischio sismico connesso alla riscontrata fragilità dell'edificio, aveva assunto in concreto l'obbligo giuridico di fornire una qualificata cooperazione tecnico - scientifica, prendendo così in carico il bene protetto.

A fondamento di tali conclusioni nella pronuncia si richiamano gli insegnamenti della più recente giurisprudenza di legittimità, ribaditi da ultimo in Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261107, che, superando la storica concezione formale, ha chiarito che la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante, avendo in particolare riguardo alla concreta organizzazione della gestione del rischio. Ad avviso della Corte, tale elaborazione, "pur dovendosi integrare con l'approccio formale, presenta il pregio ampiamente riconosciuto di aderire allo specifico punto di vista dell'ordinamento penale, selezionando in senso restrittivo il dovere di agire nell'ambito della sterminata congerie di obblighi presenti nell'ordinamento. Essa consente inoltre di fronteggiare situazioni nelle quali, pur in presenza di un vizio della fonte contrattuale dell'obbligo, vi è stata l'effettiva assunzione del ruolo di garante, la cosiddetta presa in carico del bene protetto; nonché quelle nelle quali si riscontra una situazione di fatto assimilabile, analoga, rispetto a quella prevista dalla fonte legale dell'obbligazione". Su tali basi la Corte ha, pertanto, affermato il principio di diritto per cui "in tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante mediante un comportamento concludente dell'agente, consistente nella presa in carico del bene protetto".

3. La sentenza della Quarta Sezione della Corte di cassazione n. 12478 del 19 novembre 2015.

Con la sentenza n. 12478 del 19/11/2015 (dep. 24/03/2016), Barberi, Rv. 267811-15, la Quarta Sezione della Suprema corte ha esaminato, sempre con riferimento ai decessi e alle lesioni conseguiti al sisma del 2009, la posizione del Dirigente del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile e dei membri della Commissione Grandi Rischi intervenuti all'Aquila al fine di fornire alle popolazioni interessate informazioni sullo sciame sismico in corso. Nel merito, occorre sinteticamente premettere che il Tribunale dell'Aquila aveva condannato gli imputati a titolo di cooperazione colposa, ritenendoli responsabili per la scorretta valutazione e comunicazione dei rischi connessi all'attività sismica, alla quale erano ritenute eziologicamente riconducibili la morte e il ferimento di molte persone travolte dal crollo delle proprie abitazioni. In parziale riforma di tale sentenza, la Corte d'appello dell'Aquila aveva assolto quasi tutti gli imputati, confermando l'affermazione di responsabilità, limitatamente ad alcuni degli eventi lesivi contestati, nei confronti del Dirigente del Dipartimento della Protezione Civile per la imprudente propalazione pubblica di comunicazioni mediatiche dal contenuto avventatamente rassicurante che avevano, prevedibilmente, indotto la cittadinanza ad abbandonare le precauzioni fino ad allora costantemente osservate, così esercitando una sicura efficienza causale, di indole psicologica, sulla decisione di alcune delle vittime di permanere all'interno della propria abitazione anche dopo le prime due scosse che avevano preceduto quella distruttiva. L'imputato, in particolare, nel corso di una intervista televisiva, effettuata prima che avesse inizio la riunione della Commissione grandi rischi, nel corso della quale gli esperti avrebbero dovuto esprimere le proprie valutazioni in merito allo sciame sismico, aveva reso alla cittadinanza informazioni incomplete, imprecise e contraddittorie, esprimendo valutazioni rassicuranti sulla pericolosità e sui futuri sviluppi del fenomeno tellurico.

La Suprema corte, ha sostanzialmente confermato le valutazioni espresse nella sentenza di appello, rigettando tutti i ricorsi proposti ed affermando importanti principi in ordine alle più importanti tematiche in materia di accertamento della condotta colposa e nesso di causalità.

Per quanto riguarda, in primo luogo, la posizione dei membri della Commissione Grandi Rischi, la Corte ha innanzitutto e preliminarmente rimarcato la non sovrapponibilità dei compiti specifici, a tale organo attribuiti dalla legge, a quelli propri del Dipartimento della Protezione Civile. Nel sistema delineato dalla legge, invero, la Commissione svolge un'attività consultiva attraverso pareri e proposte, funzionali alle attività di previsione e prevenzione che competono, invece, a soggetti diversi. Conseguentemente, ad avviso della Corte, non essendo rinvenibili nelle disposizioni che disciplinano le competenze di tale organo specifiche prescrizioni sul quomodo dell'attività svolta e dunque specifiche regole cautelari e misure che la valutazione del rischio avrebbe consentito nella specie di adottare, deve escludersi ogni responsabilità dei suoi componenti, in applicazione del principio, nella pronuncia ribadito, per cui "in tema di reati colposi, la regola cautelare alla stregua della quale deve essere valutato il comportamento del garante, non può rinvenirsi in norme che attribuiscono compiti senza individuare le modalità di assolvimento degli stessi, dovendosi, invece, aver riguardo esclusivamente a norme che indicano con precisione le modalità e i mezzi necessari per evitare il verificarsi dell'evento". Non sarebbe, pertanto, ravvisabile alcun profilo di colpa specifica proprio in considerazione dell'assenza in tali previsioni di prescrizioni concernenti i comportamenti preventivi idonei a scongiurare gli eventi lesivi. Appare, dunque, corretta, per la Corte, la valutazione del giudice di appello circa la natura di tali disposizioni, da considerarsi norme di dovere e non regole cautelari, in quanto prive di indicazioni in merito al parametro di valutazione in base al quale possa parlarsi di una corretta opera di previsione, prevenzione ed analisi. Il Collegio considera, inoltre, come non possa non tenersi conto, ulteriormente, delle rispettive competenze dell'organo di consulenza tecnico scientifica e dell'organo tecnico operativo della Protezione civile al quale solo spettava in via esclusiva la competenza in materia di comunicazione alla popolazione, quale misura funzionale alla necessità di prevenzione dei rischi connessi all'emergenza provocata dal sisma. Viene così meno anche la possibilità di considerare una forma di cooperazione colposa, così come ipotizzata nella sentenza di primo grado, per non avere gli esperti corretto l'erronea attività comunicativa dell'organo operativo, in quanto "non vi può essere trasgressione cautelare penalmente rilevante in assenza di una competenza rispetto al rischio inveratosi nell'evento pregiudizievole".

Così definita la posizione dei membri della Commissione, la Corte ha, invece, ritenuto la responsabilità del Vice capo del settore operativo del Dipartimento proprio in considerazione della imprudente dichiarazione pubblica rilasciata agli organi di stampa in merito al rischio sismico. Il Collegio, dopo aver riconosciuto la prevedibilità degli eventi lesivi collegati alla condotta informativa contestata all'imputato, evidenziando la sussistenza della concreta possibilità, e non del mero sospetto, che l'imprudente informazione pubblica relativa al rischio sismico valesse a prefigurare la possibilità di una riduzione della soglia di attenzione della popolazione rispetto ai pericoli connessi ai rischi del terremoto, ha approfondito, in particolare, l'accertamento del nesso causale tra la condotta comunicativa e il condizionamento delle scelte delle vittime indotte a tralasciare ogni precauzione, dando applicazione, come rilevato in premessa ai peculiari meccanismi della c.d. "causalità psichica", proprio in considerazione della connotazione psichica dell'evento intermedio ricollegato alla condotta colposa dell'imputato.

4. Responsabilità colposa e causalità psichica.

Per quanto attiene al profilo relativo all'accertamento del nesso di causalità la Corte ha ritenuto corretto il percorso argomentativo sviluppato nella motivazione della sentenza di secondo grado, incentrato non tanto sulla ricostruzione del nesso eziologico in termini di collegamento causale tra la condotta dell'agente e l'evento inteso in senso naturalistico, quanto sulla verifica dell'esistenza di una derivazione causale tra la imprudente condotta comunicativa dell'imputato e la decisione delle persone offese di trattenersi nelle proprie abitazioni nonostante il ripetersi delle scosse sismiche.

Sul punto, in particolare, la difesa del ricorrente aveva eccepito che la natura psichica della causalità potrebbe assumere rilievo esclusivamente in relazione alle ipotesi di reato doloso o di concorso morale nel reato ma non in tema di responsabilità per colpa, osservando, con riferimento alla fattispecie concreta, che la decisione delle vittime di non allontanarsi dalle abitazioni doveva necessariamente ricondursi, sotto il profilo causale, alla libera esplicazione delle proprie facoltà di autodeterminazione.

Al riguardo, nella pronuncia la Corte richiama, in primo luogo, quegli orientamenti volti a ritenere che le ragioni dell'agire umano risiedono esclusivamente nel giudizio interiore del soggetto, conseguendo a ciò l'impossibilità di fare ricorso a leggi esplicative di carattere generale idonee a descrivere le ragioni di determinate azioni. Solo legislativamente allora potrebbero essere tipizzate condotte ritenute idonee sul piano prognostico ad assumere concreta idoneità o adeguatezza in relazione all'evento psichico determinante. Tuttavia, si rileva come, la trasposizione di siffatto modello in ambito penalistico "trascina con sé il rischio di una grave frattura con i principi connessi alla personalità della responsabilità penale, tutte le volte in cui l'accertamento ai fini della condanna si arresti alla verifica dell'adozione di condotte astrattamente idonee o adeguate, senza alcuna effettiva chiarificazione o spiegazione delle ragioni che in concreto giustifichino l'attribuzione dell'evento al suo autore". Per altro verso, non sarebbe compatibile con i principi costituzionali, un accertamento probatorio meramente individualizzante, non idoneo a fornire una adeguata spiegazione degli eventi in quanto fondato esclusivamente sulla esperienza personale dei soggetti coinvolti. Sulla scorta di tali considerazioni, il Collegio ritiene preferibile il diverso orientamento che riconosce la possibilità di ricorrere, ai fini dell'accertamento della c.d. causalità psichica, a schemi esplicativi generalizzanti non dissimili da quelli propri della causalità naturalistica, muovendo dal presupposto per cui "quando il fattore considerato sia una circostanza in presenza della quale gli uomini agiscono, essi generalmente si comportano in modo analogo al modo descritto nell'attribuzione, sì che l'individuo del quale si discute agì presumibilmente, egli pure, nel modo in cui agì, perché era presente quel dato fattore". Sarebbe, pertanto, possibile procedere alla individuazione di forme di generalizzazione astratta in grado di selezionare ex ante ipotesi di condotte socialmente o culturalmente accreditate come psicologicamente condizionanti, provvedendo comunque ex post ad una rigorosa verifica probatoria in relazione a ciascuna fattispecie concreta. Dovrebbe, in tal senso, farsi ricorso a massime di esperienza utilizzabili secondo il modello epistemologico delineato dalla giurisprudenza delle Sezioni unite (si richiamano Sez. un., n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138 e Sez. un., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261103). Secondo tale modello, infatti, anche il sapere scientifico di tipo probabilistico - caratterizzato cioè dal fatto di enunciare una relazione tra una categoria di condizioni e una categoria di eventi che non si concretizza in modo immancabile, ma solo in una determinata percentuale - può essere utilizzato in chiave congetturale quale base per la spiegazione di un evento concreto. E il tratto probabilistico consentirebbe di stabilire una relazione di somiglianza tra detto sapere scientifico e le massime di esperienza, che, colte anche esse in chiave congetturale, una volta inserite nel quadro del modello epistemologico che coniuga l'abduzione (che pone la spiegazione ricostruttiva in chiave ipotetica) e l'induzione, cui è affidato il compito di considerare le contingenze del caso concreto, al fine di pervenire a una ricostruzione corroborata del fatto, potrebbero essere parte del ragionamento esplicativo della causalità. Del resto, si osserva in proposito come la giurisprudenza, specie nei settori della medicina e della biologia, in assenza di leggi scientifiche, ha considerato validi e sufficienti ai fini dell'indagine causale anche le generalizzazioni del senso comune ed ha ravvisato il nesso di causalità anche in casi in cui il giudizio controfattuale, non basato su una legge scientifica universale o meramente statistica, si fondi sulla generalizzazione dell'esperienza e del senso comune, ritenendolo attendibile, secondo criteri di elevata credibilità razionale (Sez. 4, n. 11243 del 2/11/1987, Mancinelli, Rv. 176926; Sez. 4, n. 13690 del 5/12/1986, Ponte, Rv. 174512; Sez. 4, n. 7026 del 13/02/2003, Loi, Rv. 223749; Sez. 4, n. 29889 del 11/07/2013, De Florentis, Rv. 257073). Il ricorso costante della giurisprudenza alle regole di esperienza consente, allora, alla Corte di affermare che, in assenza di regole elaborate scientificamente è indispensabile avvalersi delle generalizzazioni del senso comune purché si tratti di regole chiare, generalmente riconosciute, accettate nonché concretamente e diffusamente utilizzate con successo nell'esperienza quotidiana. Conclusivamente, ad avviso del Collegio, la causalità psichica, seppur inerente a vicende del tutto peculiari in quanto svolgentisi si nella dimensione interiore dell'individuo, non sfugge ai fini del giudizio penale, alla necessità della preventiva ricerca di possibili generalizzazioni esplicative delle azioni individuali. Ciò sulla base, appunto, di "massime di esperienza che - al pari delle leggi scientifiche di tipo probabilistico (e dunque di ogni forma di sapere incerto) - possono essere utilizzate allo scopo di alimentare la concretezza di un'ipotesi causale, secondo il procedimento logico dell'abduzione. Alla posizione (in termini congetturali) di tali ipotesi deve peraltro necessariamente far seguito, ai fini dell'affermazione concreta della relazione causale, il rigoroso e puntuale riscontro critico fornito dalle evidenze probatorie e dalle contingenze del caso concreto (secondo il procedimento logico dell'induzione), suscettibili di convalidare o falsificare l'ipotesi originaria e, contestualmente, di escludere o meno la plausibilità di ogni altro decorso causale alternativo, al di là di ogni ragionevole dubbio".

In applicazione di tali principi la Corte ha, conseguentemente, ritenuto esente da censure la sentenza di appello che, dopo aver rilevato la generale efficacia condizionante che comunemente caratterizza l'attività informativa degli organi della Protezione civile, aveva ricostruito sulla base delle specifiche emergenze fattuali, in relazione a ciascuna delle vittime, lo specifico rapporto causale tra tale rassicurante comunicazione resa dall'imputato e la decisione delle stesse di abbandonare i comportamenti autoprottettivi in precedenza adottati - consistiti nell'allontanarsi dalle abitazioni al verificarsi delle prime scosse sismiche - e a trattenersi all'interno degli edifici, così rimanendo travolte dal crollo degli stessi a seguito della devastante scossa del 6 aprile 2009.

5. La valutazione della causalità psichica nei successivi arresti.

La tematica relativa alla possibilità di ricostruire il nesso eziologico in termini di causalità psichica è stata, in epoca successiva, affrontata anche in due ulteriori arresti della Quarta Sezione, aventi anche essi ad oggetto ipotesi di omicidio colposo plurimo e lesioni personali riconducibili al grave sisma del 2009. Si tratta di fattispecie comunque diverse da quella trattata nella pronuncia sopra esaminata ed aventi entrambe ad oggetto la responsabilità del progettista e direttore dei lavori realizzati su edifici poi crollati in occasione del terremoto. Appare pertanto utile analizzare le due fattispecie concrete che, seppure analoghe e per certi aspetti sovrapponibili, hanno avuto epiloghi decisori parzialmente divergenti.

Nel primo caso, considerato nella sentenza Sez. 4, n. 36285 del 10/05/2016, Cimino, l'imputato, incaricato nell'anno 2002 da un condominio di progettare e dirigere i lavori per opere di manutenzione straordinaria, consistenti nell'incamiciatura (rinforzo mediante rivestimento e aumento delle dimensioni) di sei pilastri in calcestruzzo armato, posti nel piano seminterrato, era stato ritenuto responsabile per i decessi e le lesioni occorse agli inquilini a seguito del crollo del palazzo, avendo egli sostanzialmente omesso di valutare correttamente l'adeguatezza statica e sismica delle strutture dell'intero edificio, caratterizzato fin dall'origine da gravi carenze progettuali esecutive e di calcolo. Nella pronuncia in esame la Corte si è dapprima soffermata sul tema relativo alla esistenza della posizione di garanzia in capo all'imputato, rilevando come, pur essendo egli chiamato ad occuparsi di lavori incidenti su una limitata porzione dell'edificio, in considerazione del carattere strutturale dell'intervento affidatogli egli aveva "l'obbligo giuridico di osservare la normativa antisismica all'epoca vigente, la quale implicava l'accertamento della consistenza dei pilastri sui quali eseguire l'intervento; dal che sarebbe derivata la conoscenza dei difetti strutturali che viziavano i sei pilastri". Non si trattava, dunque, di un obbligo di segnalazione di difetti inerenti diverse porzioni dell'edificio ma di un obbligo, direttamente connesso alla sua posizione, di ben eseguire il mandato conferito.

Per quanto attiene, tuttavia, al profilo relativo all'accertamento dell'esistenza della relazione causale tra la condotta omissiva contestata e l'evento verificatosi, la Corte ha ritenuto carente la motivazione della sentenza impugnata, non risultando in alcun modo descritta la sequenza che dall'omissione degli adempimenti connessi alla normativa antisismica avrebbe condotto, secondo un criterio di alta probabilità logica, all'adeguamento statico o ad altra misura che, a sua volta, avrebbe avuto l'effetto di evitare gli eventi lesivi. In particolare si osserva come, ad esempio, si sia omesso di indagare se vi fosse la concreta possibilità di un intervento dell'autorità pubblica, a fronte di una eventuale inattività dei condomini, ciò nonostante permanenti nelle rispettive abitazioni, o quali fossero i tempi di attuazione delle misure concretamente adottabili. Conseguentemente la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata essendosi risolto l'accertamento del nesso causale in un giudizio esclusivamente di tipo deduttivo, basato su massime di esperienza ma in assenza di una specifica verifica di tipo induttivo elaborata sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto a sostegno della deduzione.

Con la sentenza Sez. 4, n. 28571 del 01/06/2016, De Angelis, Rv. 266945, la Corte ha esaminato il diverso caso relativo alla condotta omissiva colposa addebitata all'ingegnere progettista e direttore dei lavori di realizzazione di un nuovo tetto di un fabbricato, consistita nella mancata effettuazione di una preliminare valutazione delle condizioni statiche dell'edificio, sia nello stato di fatto che in quello post-intervento, cui sarebbe conseguita la morte e le lesioni degli abitanti del palazzo. Entrambi i giudici di merito, valorizzando i profili di colpa omissiva, avevano affermato la penale responsabilità dell'imputato rispetto ai delitti di crollo e omicidio colposo plurimo, ritenendo che egli fosse venuto meno agli obblighi, di fonte contrattuale e legale su di lui gravanti, che avrebbero imposto di effettuare una preventiva verifica della situazione strutturale del fabbricato. Per quanto attiene poi al profilo relativo alla riconducibilità causale degli eventi lesivi ai richiamati comportamenti omissivi ascritti all'imputato, secondo la Corte di merito, assumendo come adempiuta la condotta doverosa, era possibile ritenere che gli eventi non si sarebbero verificati in quanto, a fronte delle denunciate carenze strutturali i condomini avrebbero deliberato i necessari interventi di consolidamento strutturale dell'edificio, evitandone con ragionevole probabilità il crollo. Nel diverso caso, poi, in cui l'assemblea condominiale avesse scelto di non effettuare alcun intervento strutturale, i singoli condomini avrebbero potuto abbandonare l'edificio ritenuto non sicuro, sulla scorta delle informazioni comunque ricevute, dinanzi al pericolo rappresentato dalle prime scosse verificatesi. Su tale specifica tematica, la Quarta Sezione ha preliminarmente evocato gli insegnamenti elaborati dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite che, nello sviluppare un modello dell'indagine causale capace di integrare l'ipotesi esplicativa delle serie causali degli accadimenti e la concreta caratterizzazione del fatto storico, hanno chiarito che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138 e Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261103). Conseguentemente la Corte, passando all'analisi del caso, ha evidenziato la carenza della motivazione della pronuncia impugnata proprio rispetto al percorso epistemologico delineato dalle Sezioni Unite, non avendo il giudice di merito offerto alcuna indicazione rispetto alla probabilità che, assumendo come adempiuta la condotta doverosa, l'assemblea avrebbe effettivamente deliberato l'effettuazione di non meglio specificate opere di consolidamento dell'intero edificio, tali da consentire, con "ragionevole probabilità", allo stesso edificio di resistere al sisma del 2009 o che in mancanza della realizzazione di tali interventi i condomini si sarebbero allontanati preventivamente dalle loro abitazioni. Ciò, anche alla luce degli arresti giurisprudenziali in tema di c.d. causalità psichica, che, come rilevato, non sfugge alla necessità della preventiva ricerca di possibili generalizzazioni esplicative delle azioni individuali, "sulla base di consolidate e riscontrabili massime di esperienza, che consentano di selezionare ex ante le condotte condizionanti, socialmente o culturalmente tipizzabili, cui deve necessariamente far seguito un rigoroso e puntuale riscontro critico fornito dalle evidenze probatorie e dalle contingenze del caso concreto, sì da escludere la plausibilità di ogni altro decorso causale alternativo, al di là di ogni ragionevole dubbio" (Sez. 4, n. 12478 del 19/11/2015, Barberi, Rv. 267812).

La Corte ha, pertanto, escluso il nesso causale tra la condotta omissiva e gli eventi lesivi occorsi agli abitanti dell'edificio interamente collassato in occasione del terremoto, avendo "il giudice di merito affermato, in termini congetturali, il condizionamento che sarebbe derivato dall'attività informativa dell'imputato, rispetto alle possibili deliberazioni dell'assemblea condominiale ed in ordine ai comportamenti auto protettivi dei singoli occupanti l'edificio, in assenza della necessaria verifica controfattuale, da svolgersi in termini particolarmente rigorosi e puntuali, proprio in considerazione della natura delle relazioni causali di cui si discute". Il giudice, dunque, non avrebbe chiarito le ragioni in base alle quali ritenere che, informata sullo stato di fragilità del fabbricato e sulla sua scarsa capacità di resistenza alle azioni sismiche, l'assemblea condominiale avrebbe sicuramente deliberato l'effettuazione di non meglio precisati interventi di consolidamento strutturale dell'intero edificio, ovvero che, in mancanza di tale delibera, i singoli condomini avrebbero certamente abbandonato per mesi lo stabile, allertati dalle prime scosse simiche. All'esito di tali valutazioni il Collegio, diversamente dalla conclusione raggiunta con la pronuncia precedentemente esaminata, ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata, non ricorrendo la possibilità di riconsiderazione alternativa del compendio fattuale, in sede di riedizione del giudizio di merito, rispetto alle ipotesi di reato in addebito.

  • responsabilità penale
  • medico
  • errore medico
  • reato colposo

CAPITOLO II

LA RESPONSABILITÀ PENALE NELL'ATTIVITÀ MEDICO CHIRURGICA

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 La parziale "abolitio criminis" determinata dalla c.d. legge Balduzzi. - 2 Le linee guida e la loro individuazione. - 3 L'ambito di operatività dell'esonero da responsabilità per colpa lieve. - 4 Questioni di legittimità costituzionale. - 5 Le prospettive di riforma.

1. La parziale "abolitio criminis" determinata dalla c.d. legge Balduzzi.

Nell'anno in rassegna è proseguita l'attività nomofilattica della Suprema Corte in tema di colpa medica. A distanza di più di tre anni dall'entrata in vigore della c.d. legge Balduzzi (d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modifiche dalla 1. 8 novembre 2012, n. 189), l'attività ermeneutica della Corte si è particolarmente incentrata sulla individuazione degli effetti e dell'ambito di operatività dell'art. 3 della legge. Tale norma, nel tentativo di porre un freno alla c.d. fenomeno della medicina difensiva, esclude la responsabilità penale per colpa lieve dell'esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.

Sin dai primi arresti in materia, la Corte ha affermato che la norma in esame ha determinato un effetto parzialmente abrogativo delle fattispecie ascrivibili agli esercenti le professioni sanitarie connotate, sotto il profilo oggettivo, da una condotta conforme alle linee guida o a virtuose pratiche mediche accreditate presso la comunità scientifica, e, sotto il profilo soggettivo, da colpa lieve (Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105). In particolare, Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016, Denegri, Rv. 266904 ha affermato che l'art. 3 della c.d. legge Balduzzi ha determinato una parziale abolitio criminis degli artt. 589 e 590 cod. pen., "avendo ristretto l'area penalmente rilevante individuata dalle predette norme incriminatrici, giacchè oggi vengono in rilievo unicamente le condotte qualificate da colpa grave". Il ragionamento sviluppato dalla Corte è in linea con la precedente giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di successione di leggi penali (Sez. U., n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv. 224607; Sez. U., n. 2451 del 27/09/2007, Magera, Rv. 238197; Sez. U., n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv. 243585): il parziale effetto abrogativo è stato, infatti, ricollegato al succedersi nel tempo di due norme incriminatrici in rapporto di genere a specie, di cui quella successiva restringe l'area del penalmente rilevante individuata da quella anteriore. Logica conseguenza di tale ragionamento è la necessaria applicazione dell'art. 2, comma 2, cod. pen. con riferimento ai processi pendenti in sede di merito alla data di entrata in vigore della novella e, quindi, l'efficacia retroattiva della più favorevole disciplina emergente dal combinato disposto di cui agli artt. 3 della c.d. legge Balduzzi, 589 e 590 cod. pen. In tal caso, ad avviso della Corte, il giudice deve procedere d'ufficio alla verifica della conformità della condotta del sanitario alle linee guida ed alle prassi terapeutiche accreditate presso la comunità scientifica, anche se non allegate dall'interessato, e, qualora tale verifica sia positiva, all'accertamento del grado della colpa.

Tale principio non si pone in contrasto con i precedenti arresti in tema di onere di allegazione delle linee guida. I giudici hanno, infatti, precisato che mentre l'onere di allegazione attiene ai criteri formali di redazione del ricorso per cassazione per vizio di motivazione ed al parametro di adeguata specificità cui deve conformarsi, l'accertamento in questione attiene alla doverosa applicazione da parte del giudice della cognizione delle disposizioni che regolano la successione nel tempo di norme incriminatrici, cosicché la relativa doglianza refluisce nella verifica di un eventuale vizio di violazione della legge penale.

2. Le linee guida e la loro individuazione.

Secondo l'indirizzo costante della Suprema Corte, le linee guida consistono in "raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, al fine di aiutare medici e pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche" (Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016, Denegri, Rv. 266904; Sez. 4, n. 24455 del 22/04/2015, Plataroti, Rv. 263732; Sez. 4, n.18430 del 05/11/2013, Loiotila, Rv. 261294).

Le linee guida, dunque, non offrono degli standard legali precostituiti e, pertanto, non sono riconducibili nel novero delle regole cautelari, secondo il classico modello della colpa specifica (Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016, Denegri, Rv. 266904). In particolare, nella sentenza Denegri, la Corte ha rilevato che dietro la generica e unitaria definizione di "linee-guida" si nasconde "un prodotto multiforme, originato da una pluralità di fonti, con diverso grado di affidabilità". Quanto alle fonti, infatti, alcuni documenti provengono da società scientifiche, altri da gruppi di esperti, altri da organismi ed istituzioni pubblici o da organizzazioni sanitarie di vario genere. La diversa fonte di provenienza si riflette anche sulla stessa impostazione delle linee guida, talune delle quali presentano un approccio maggiormente speculativo, mentre altre tendono a individuare un punto di equilibrio tra efficienza e sostenibilità ovvero sono espressione di diverse scuole di pensiero che propongono strategie diagnostiche e terapeutiche differenti (Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105). Il diverso grado di affidabilità delle linee guida, è stato considerato da Sez. 4, n. 18787 del 31/03/2016, Longobardo, non massimata, che, ribadendo un indirizzo ormai costante sul tema, ha escluso la rilevanza delle linee guida ispirate esclusivamente a logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese, poiché in contrasto con le esigenze di cura del paziente. Ciò in quanto, ad avviso della Corte, "l'efficienza di bilancio può e deve essere perseguita sempre garantendo il miglior livello di cura, con la conseguenza del dovere del sanitario di disattendere indicazioni stringenti dal punto di vista economico che si risolvano in un pregiudizio per il paziente" (in senso conforme, ex plurimis, Sez. 4, n. 7951 del 08/10/2013, Fiorito, Rv. 259334; Sez. 4, n. 35922 del 11/07/2012, Ingrassia, Rv. 254618).

3. L'ambito di operatività dell'esonero da responsabilità per colpa lieve.

Attraverso l'art. 3 d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (convertito con modifiche dalla 1. 8 novembre 2012, n. 189), il legislatore ha introdotto per la prima volta la distinzione tra colpa grave e colpa lieve, di regola rilevante ai soli fini della gradazione della pena, nella disciplina penale dell'imputazione soggettiva. In assenza di una specifica definizione normativa del concetto di colpa lieve, la Corte ha valorizzato la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della regola cautelare da osservare. Tale parametro valutativo è stato differentemente declinato in relazione alla rilevanza di ulteriori indicatori afferenti al caso concreto, quali: a) il quantum di esigibilità della condotta conforme alla regola cautelare, con riferimento al grado di specializzazione ed alle condizioni personali dell'agente; b) la motivazione della condotta; c) la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa; d) l'accuratezza del gesto clinico e) la situazione nella quale il terapeuta si trova ad operare, avuto riguardo alle ragioni di urgenza, all'oscurità del quadro patologico, al grado di atipicità o novità della situazione data e all'eventuale assenza di presidi adeguati (Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016, Denegri, Rv. 266904; Sez. 4, n. 22405 del 08/05/2015, Piccardo, Rv. 263736; Sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, Rv. 260739; Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105). Poiché, di regola, nella valutazione della colpa concorrono molteplici fattori tra quelli considerati, la Corte ha sottolineato la necessità che il giudice proceda ad una valutazione complessiva di tali parametri ed al loro bilanciamento, ove divergenti, secondo un criterio di prevalenza o di equivalenza analogo a quello adottato in tema di concorso di circostanze.

La metodologia individuata dalla Corte, dunque, pur considerando le linee guida di riferimento, non trascura le peculiarità del caso concreto in cui il sanitario si è trovato ad operare. In particolare, la sentenza Denegri ha affermato che può ragionevolmente ravvisarsi una colpa grave "solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all'agire appropriato, rispetto al parametro dato dal complesso delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento, quando cioè il gesto tecnico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle condizioni del paziente". Di contro, la Corte ha osservato che, "quanto più la vicenda risulti problematica, oscura, equivoca o segnata dall'impellenza, tanto maggiore dovrà essere la propensione a considerare lieve l'addebito nei confronti del professionista che, pur essendosi uniformato ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado di produrre un trattamento adeguato ed abbia determinato, anzi, la negativa evoluzione della patologia".

Sia per il terapeuta che per il giudice si pone, pertanto, il problema di individuare quali siano, nel caso concreto e con riferimento alla specifica condizione del paziente, le linee guida dotate di maggiore attendibilità in base alla fonte di produzione, al grado di indipendenza da interessi economici, al metodo in base al quale sono state prodotte e al grado di accreditamento presso la comunità scientifica. Per tale ragione, anche nell'anno in rassegna la Corte ha ribadito il proprio consolidato orientamento secondo cui il medico che invoca la causa di esonero da responsabilità per colpa lieve prevista dalla legge cd. Balduzzi, ha l'onere di allegare le linee guida al fine di consentire al giudice la duplice verifica sia della correttezza e dell'accreditamento delle linee guida presso la comunità scientifica che della effettiva conformità ad esse della condotta del medico (Sez. 4, n. 18787 del 31/03/2016, Longobardo, non massimata; Sez. 5, n. 18895 del 03/02/2016, Maurelli, non massimata; Sez. 4, n. 21243 del 18/12/2014, Pulcini, Rv. 263493; Sez. 4, n. 7951 del 08/10/2013, Fiorito, Rv. 259333; Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105).

Rimane, invece, aperto e particolarmente controverso, il problema relativo all'ambito di operatività della clausola di esonero da responsabilità prevista dall'art. 3 della cd. legge Balduzzi e, conseguentemente, all'esatta individuazione degli effetti parzialmente abrogativi ad essa connessi. Si registrano, infatti, due diversi orientamenti giurisprudenziali: secondo una prima opzione ermeneutica, la limitazione di responsabilità riguarda solo le condotte professionali connotate da imperizia e conformi alle linee guida, ma non si estende agli errori diagnostici determinati da negligenza o imprudenza (Sez. 5, n. 18895 del 03/02/2016, Maurelli, non massimata; Sez. 4, n. 26996 del 27/04/2015, Caldarazzo, Rv. 263826; Sez. 4, n. 16944 del 20/03/2015, Rota, Rv. 263389; Sez. 4, n. 7346 del 08/07/2014, Sozzi, Rv. 262243; Sez. 3, n. 5460 del 04/12/2013, Grassini, Rv. 258846; Sez. 4, n. 11493 del 24/01/2013, Pagano, Rv. 254756). Secondo tale orientamento, poiché le linee guida contengono esclusivamente delle regole di perizia, la clausola di esonero da responsabilità per colpa lieve non può trovare applicazione allorché al medico sia rimproverabile la violazione del dovere di diligenza o delle regole di prudenza. In tal caso, la lievità della colpa potrà rilevare ai fini della determinazione della pena, ma non quale causa di esonero da responsabilità.

Secondo altro orientamento, invece, sebbene il terreno di elezione della disciplina prevista dall'art. 3 della c.d. legge Balduzzi sia quello dell'imperizia, non può escludersi la sua operatività anche in caso di errore determinato da una condotta negligente o imprudente (Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016, Denegri, Rv. 266903; Sez. 4, n. 45527 del 01/07/2015, Cerracchio, Rv. 264897; Sez. 4, n. 2168 del 08/07/2014, Anelli, Rv. 261764; Sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, Rv. 260739). Tale interpretazione muove dalla considerazione che le linee guida possono porre delle regole che afferiscono anche al parametro della diligenza, come nel caso in cui siano richieste prestazioni professionali che riguardano la sfera dell'accuratezza dei compiti piuttosto che quella della adeguatezza professionale.

In particolare, la sentenza Denegri, soffermandosi sulla rubrica dell'art. 3, comma 1, d.l. n. 158 del 2012, che, sotto il profilo soggettivo, estende l'ambito di operatività della norma a tutti i "professionisti" del settore sanitario, ha rilevato che il contenuto delle linee guida non si limita a raccomandazioni relative all'attività medica, ma anche a quelle degli altri professionisti che operano nel settore della sanità. Ciò trova conferma, ad avviso della Corte, nelle numerose linee guida oggi disponibili, distinte in base alla tipologia di intervento, di carattere medico o infermieristico, da praticare nella cura del paziente (come ad esempio, le linee guida sulla gravidanza fisiologica che affidano la presa in carico della paziente alla ostetrica mentre riservano al medico specializzato l'intervento in caso di complicanze). Proprio nei casi in cui l'intervento richiede l'interazione tra differenti competenze professionali, "alle regole di perizia, contenute nelle linee guida, si affiancano raccomandazioni che attengono ai parametri della diligenza, ovvero dell'accuratezza operativa, nella prestazione delle cure".

Partendo da tale premessa, la Corte ha sviluppato il proprio ragionamento considerando le difficoltà della scienza penalistica di offrire indicazioni tassative che consentano di distinguere le diverse ipotesi di colpa generica contemplate dall'art. 43 cod. pen. In particolare, in tema di responsabilità sanitaria, alla labilità dei confini tra colpa per imprudenza e colpa per imperizia, si aggiunge l'indefinitezza delle regole di diligenza in cui nell'esperienza giudiziaria sono confluiti obblighi di diversa natura, da quello informativo posto a carico del capo dell'equipe chirurgica a quello relativo all'omessa richiesta di intervento di specialisti posto a carico del terapeuta. Dinanzi all'intrinseca opinabilità della distinzione tra i diversi profili di colpa ed alle esigenze di tassatività che afferiscono allo statuto della colpa generica, la sentenza Denegri propone, dunque, un più ampio paradigma valutativo che ancora l'ambito di operatività della scriminante prevista dalla c.d. legge Balduzzi alla valutazione del grado della colpa "secondo il parametro della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare che si doveva osservare". Tale paradigma valutativo, conclude la sentenza Denegri, risulta coerente con il dato normativo, che non contiene alcun richiamo al canone della perizia o alla difficoltà del caso clinico, e "rispondente alle istanze di tassatività che permeano lo statuto della colpa generica, posto che il giudice, nella graduazione della colpa, deve tenere conto del reale contenuto tecnico della condotta attesa, come delineato dalla raccomandazione professionale di riferimento".

Va, tuttavia, rilevato che lo "scudo" offerto dalle linee guida non è assoluto. Sin dai suoi primi arresti, la Corte si è premurata di precisare che la verifica della condotta del medico non può limitarsi alla valutazione della sua conformità alle linee guida che, contenendo delle raccomandazioni di carattere generale e astratto, non forniscono indicazioni di carattere assoluto cui possa assegnarsi un valore di primazia rispetto alla libertà di cura del terapeuta e, soprattutto, di adeguamento dell'intervento alle peculiari esigenze di trattamento del paziente e al rispetto della sua volontà. In talune situazioni, infatti, la pedissequa osservanza delle linee guida può non porre il sanitario al riparo dalla responsabilità penale qualora, ad esempio, le peculiarità del quadro clinico del paziente avrebbero dovuto indurre ad una diversa scelta terapeutica (Sez. 4, n. 2168 del 08/07/2014, Anelli, Rv, 261764). In particolare, Sez. 4, n. 18430 del 05/11/2013, Loiotila, Rv. 261294 ha affermato che occorre, comunque, verificare se, nonostante la conformità della condotta terapeutica alle linee guida, vi sia stato un qualche errore e se lo stesso sia rimarchevole o meno, valutando, altresì, secondo gli ordinari criteri di accertamento della colpa, "se la condotta terapeutica appropriata, avrebbe avuto qualche qualificata probabilità di evitare l'evento". La sentenza Anelli ha, inoltre, precisato che la verifica del rispetto delle linee guida non ha una valenza esaustiva del giudizio di imputazione soggettiva del fatto in quanto occorre valutare la peculiarità della situazione concreta in cui è intervenuto il terapeuta. Il giudice, pertanto, può non ritenere lieve la condotta del sanitario che, pur attenendosi scrupolosamente alle linee guida, abbia trascurato le specificità del quadro clinico, l'anamnesi o la storia clinica del paziente in relazione alle quali si imponga un percorso terapeutico diverso da quello codificato nelle linee guida (in senso conforme, si vedano anche Sez. 4, n. 26996 del 27/04/2015, Caldarazzo, Rv. 263826, non massimata sul punto; Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105; Sez. 4, n. 35922 del 11/07/2012, Ingrassia, Rv. 254618).

4. Questioni di legittimità costituzionale.

La disciplina introdotta dall'art. 3 d.l. 13 settembre 2012 n. 158 (conv. in 1. 8 novembre 2012, n. 189) è stata oggetto di una prima questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Milano con ordinanza del 21/03/2013 (in G.U. del 05/06/2013, n. 23) sotto il duplice profilo dell'indeterminatezza e dell'irragionevole ampiezza della sua sfera di applicazione. Tra le molteplici argomentazioni illustrate nell'ordinanza di rimessione, emerge la censura relativa al possibile vulnus del principio di tassatività conseguente sia alla omessa definizione normativa del concetto di colpa lieve che alla genericità del rinvio alle linee guida, di cui non vengono precisate le fonti, le modalità di produzione e le procedure di diffusione, rendendo, così, indeterminata l'area della non punibilità. Il Tribunale ha anche censurato l'eccessiva ampiezza dell'esonero dalla responsabilità penale previsto dalla norma in esame, sia sotto il profilo soggettivo, riguardando tutti gli esercenti le professioni sanitarie, anche se non chiamati ad effettuare delle scelte diagnostiche o terapeutiche (come veterinari, farmacisti, biologi o psicologi), che sul piano oggettivo, potendosi applicare a qualunque reato colposo, anche diverso dai reati contro la persona (quali, ad esempio, quelli in materia di sicurezza sul lavoro). È stata, inoltre, censurata la possibile disparità di trattamento che potrebbe emergere nel caso in cui la condotta di un soggetto privo della qualifica soggettiva cooperi con quella del sanitario nella produzione dell'evento, atteso che, a parità di grado di colpa, solo quest'ultimo potrebbe beneficiare della causa di esenzione dalla responsabilità prevista dall'art. 3 d.l. n. 158 del 2012.

Con ordinanza n. 295 del 2013 la Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione rilevando che il giudice a quo aveva omesso di descrivere la fattispecie concreta sottoposta al suo giudizio e, dunque, la rilevanza stessa della questione. Tale ordinanza sembra avallare, sia pure in via incidentale, l'orientamento giurisprudenziale che limita l'ambito di operatività della causa di esonero da responsabilità prevista dalla c.d. legge Balduzzi alla sola imperizia. La Corte ha, infatti, affermato che l'omessa descrizione del comportamento ascritto agli imputati e della regola cautelare che si assumeva violata, non consentiva di verificare l'applicabilità nella fattispecie concreta dalla norma sospetta di incostituzionalità che, secondo la giurisprudenza di legittimità, viene in rilievo solo in rapporto all'addebito per imperizia.

La conformità costituzionale dell'art. 3 d.l. n. 158 del 2012 è stata successivamente scrutinata da Sez. 4, n. 12478 del 19/11/2015 (dep. 24/03/2016), Barberi, Rv. 267814 in cui la Corte si è interrogata sulla possibile disparità di trattamento conseguente al suo limitato ambito soggettivo di applicazione. Nella fattispecie, infatti, il ricorrente, privo della qualifica soggettiva contemplata dall'art. 3 d.l. n. 158 del 2012, aveva censurato, sotto il profilo dell'erronea applicazione della legge penale, la sentenza del giudice d'appello che ne aveva confermato la penale responsabilità nonostante i profili di lievità della colpa che connotavano la sua condotta.

Il ragionamento sviluppato dalla Corte muove dalla considerazione della struttura ternaria del giudizio di irragionevolezza ex art. 3 Cost. che, nel caso esaminato, vede quale possibile termine di raffronto tra l'art. 3 d.l. n. 158 del 2012 ed il parametro costituzionale, la disciplina emergente dal combinato disposto degli art. 43 cod. pen. e 2236 cod. civ. Ciò in quanto, secondo un orientamento ermeneutico affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, l'art. 2236 cod. civ., pur non essendo direttamente applicabile in campo penale, può essere utilizzato dal giudice quale regola di esperienza cui attenersi nel valutare l'addebito per imperizia, anche in tema di colpa medica, quando il caso specifico imponga la soluzione di problemi di particolare difficoltà di carattere tecnico-scientifico o ricorra una situazione di emergenza (Sez. 4, n. 4391 del 22/11/2011, Di Lella, Rv. 251941; Sez. 4, n. 16328 del 05/04/2011, Montalto, Rv. 251960; Sez. 4, n. 39592 del 21/06/2007, Buggè, Rv. 237875).

Procedendo all'esame dell'art. 3 d.l. n. 158 del 2012, quale secondo termine di raffronto, i giudici hanno evidenziato che i dettami delle linee guida, offrendo delle indicazioni valevoli nella generalità dei casi, possono non essere valide in relazione alle particolarità del caso specifico. Sulla base di tale premessa, la Corte distingue la colpa per adesione, che potrà rilevare nel caso di errata preferenza accordata alle linee guida o di errore nella esecuzione dell'attività suggerita, dalla colpa per divergenza, configurabile allorquando il medico si è indebitamente allontanato dalle indicazioni proposte dalle linee guida e dalle best practices. Tale distinzione consente di individuare l'ambito di applicabilità dell'art. 3 d.l. n. 158 del 2012 con riferimento ai soli casi di "colpa per adesione" alle linee guida o alle best practices. In tal caso, osservano i giudici, la limitazione della responsabilità "non conosce la differenza tra compiti di ordinaria difficoltà e attività di speciale difficoltà".

Di contro, prosegue la sentenza Barberi, l'art. 2236 cod. civ., introduce una regola generale "valevole per gli altri operatori del rischio (e per i sanitari che non applichino il sapere consolidato in linee guida et similia), che si trovano a dover compiere attività in condizioni di speciale difficoltà; per essi la responsabilità penale per colpa risulta esclusa solo in caso di imperizia e da una regola di giudizio che ravvisa l'esigibilità del comportamento doveroso alla luce delle circostanze operative concrete, affermandola solo in caso di colpa grave". Tale giudizio, tuttavia, prescinde da ogni valutazione in merito alla conformità o meno della condotta a eventuali linee guida o best practices di riferimento.

Così delimitati gli ambiti di operatività delle due discipline, ad avviso della Corte, lo statuto della colpa professionale risulta connotato da un complesso equilibrio nel quale non è ravvisabile alcun indice concreto di irragionevolezza del differente trattamento riservato agli esercenti la professione sanitaria.

5. Le prospettive di riforma.

Dinanzi all'aumento esponenziale del contenzioso medico legale e del fenomeno della cd. medicina difensiva, connotato da prescrizioni di approfondimenti diagnostici non necessari e da un conseguente aumento della spesa sanitaria, il Ministro della Salute, con decreto del 26 marzo 2015, ha istituito una commissione consultiva di esperti i cui lavori sono confluiti nel disegno di legge n. 2224 recante "Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario", approvato dalla camera dei Deputati il 28 gennaio 2016. Il testo è stato successivamente approvato con modifiche dal Senato in data 11 gennaio 2017 e restituito nuovamente alla Camera dei Deputati, che lo ha approvato senza modifiche il 28 febbraio 2017 (legge 8 marzo 2017, n. 24, pubblicata in G.U. n. 64 del 17 marzo 2017).

Innanzitutto, nel corso dei lavori parlamentari è stato modificato il titolo del disegno di legge in "Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie". Secondo quanto si legge nel parere della Commissione giustizia del Senato, si è perseguito l'obiettivo di affrontare il tema del diritto alla salute sotto molteplici profili quali la sicurezza delle cure, il rischio sanitario, la connessa responsabilità del personale sanitario e delle strutture sia pubbliche che private, le caratteristiche dei procedimenti giudiziari e le necessarie coperture assicurative. Di particolare interesse, ai fini della presente trattazione, è l'abrogazione dell'art. 3, comma 1, della c.d. legge Balduzzi e la previsione di una più articolata disciplina della responsabilità penale degli esercenti le professioni sanitarie, limitatamente alle sole fattispecie di omicidio e lesioni colpose.

Pur rimanendo invariata l'importanza attribuita nella pratica sanitaria alle raccomandazioni previste nelle linee guida, il testo normativo ne circoscrive la rilevanza a quelle elaborate da enti, istituzioni pubbliche o private, società scientifiche ed associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in un apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute (art. 5). In risposta alle critiche che evidenziavano la molteplicità delle fonti di provenienza delle linee guida ed il loro diverso grado di affidabilità e di cogenza, viene, dunque, introdotta una disciplina volta a garantire la duplice finalità di controllo sulle fonti di produzione delle linee guida e di conoscibilità delle stesse da parte degli operatori sanitari. L'art. 5 prevede, infatti, una sorta di accreditamento delle società scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche presso il Ministero della salute attraverso l'iscrizione in un apposito elenco, subordinata a taluni requisiti quali la rappresentatività sul territorio nazionale, la costituzione mediante atto pubblico, l'accesso e la partecipazione alle decisioni dei professionisti aventi titolo, l'autonomia, l'indipendenza, l'assenza di uno scopo di lucro, la pubblicità dei bilanci preventivi, consuntivi e degli incarichi retribuiti. La conoscibilità delle linee guida e degli aggiornamenti, integrati nell'istituendo Sistema nazionale per le linee guida, viene attuata attraverso la loro pubblicazione nel sito internet dell'Istituto superiore di sanità. Tale pubblicazione, peraltro, è subordinata ad un'ulteriore verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto, nonché della rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni. L'art. 5, inoltre, tenta di attuare un bilanciamento tra l'esigenza di assicurare una certa uniformità della pratica sanitaria con l'autonomia terapeutica degli esercenti le professioni sanitarie, consentendo loro di discostarsi dalle linee guida quando non siano adeguate alle peculiarità del caso clinico da trattare. La norma prevede, infatti, che gli esercenti le professioni sanitarie "si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3". Viene, così, codificato l'orientamento giurisprudenziale che ha stigmatizzato la non esaustività delle linee guida, imponendo una valutazione della loro effettiva adeguatezza in relazione alle specificità del caso concreto.

Inoltre, nel caso in cui manchino le raccomandazioni contenute nelle linee guida, si prevede che gli esercenti le professioni sanitarie si attengano alle buone pratiche clinico-assistenziali che si configurano, dunque, quali regole cautelari di secondo livello, verosimilmente connotate da un inferiore livello di cogenza. Tali buone prassi, infatti, saranno sottoposte esclusivamente ad una sorta di monitoraggio affidato all'istituendo Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità (art. 3). Sembra, dunque, che l'accreditamento presso la comunità scientifica, richiesto anche per le buone pratiche dalla c.d. legge Balduzzi, sia destinato ad essere superato dall'attività dell'Osservatorio nazionale tra i cui compiti, come definiti dall'art. 3, non parrebbe rientrare anche il controllo sulla loro affidabilità.

Infine, la legge 8 marzo 2017, n. 24, ridefinisce i confini della responsabilità penale dell'esercente la professione sanitaria attraverso l'abrogazione dell'art. 3, comma 1, della c.d. legge Balduzzi e l'introduzione nel codice penale dell'art. 590-sexies la cui rubrica è così formulata: "Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario". Il primo comma di tale norma prevede, quale regola generale, l'applicabilità delle pene previste dagli artt. 589 e 590 cod. pen. se i fatti sono commessi nell'esercizio della professione sanitaria. Solo nel caso in cui l'evento si sia verificato a causa di imperizia, il secondo comma prevede una esclusione della punibilità nel caso in cui "sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida, come definite e pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previse dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto".

Tale norma, dunque, pur mantenendo fermo il profilo soggettivo previsto dall'art. 3 della c.d. legge Balduzzi con riferimento agli esercenti le professioni sanitarie, introduce una duplice limitazione dell'ambito di operatività della causa di non punibilità che viene circoscritto, da un punto di vista oggettivo, ai soli delitti colposi di omicidio e lesioni, e, con riferimento all'imputazione soggettiva, alle sole condotte colpose qualificate dall'imperizia. L'art. 590-sexies cod. pen., sembra, dunque, codificare l'orientamento della giurisprudenza di legittimità che interpreta l'esclusione da responsabilità per colpa lieve prevista dall'art. 3 della c.d. legge Balduzzi con riferimento alle sole condotte professionali connotate da imperizia e conformi alle linee guida. Tuttavia, dall'esame del parere della Commissione giustizia del Senato risulta che nel corso dei lavori si è preso atto del diverso orientamento ermeneutico che non esclude che la disciplina delle linee guida possa trovare applicazione anche con riferimento al parametro della diligenza. Sulla base di tale indirizzo della giurisprudenza di legittimità, la Commissione giustizia ha, pertanto, espresso delle perplessità in merito alla formulazione dell'art. 6, come licenziato dalla Camera dei Deputati (che limitava la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria per i reati di cui agli artt. 589 e 590 cod. pen. ai soli casi di colpa grave connotata da imperizia), sia per il mancato riferimento alle diverse forme di manifestazione della colpa, cioè l'imprudenza e la diligenza, che per l'esclusione incondizionata di qualsiasi rilevanza penale per tutti i fatti causati da imperizia che non integrino una colpa grave. Tali perplessità non sembrano, tuttavia, pienamente trasfuse nel testo dell'art. 590-sexies cod. pen. in cui la causa di esclusione della punibilità è ancora circoscritta alle solo condotte connotate da imperizia.

È stato, tuttavia, soppresso ogni riferimento alla gravità della colpa. Ciò potrebbe, dunque, indurre a interpretare la norma nel senso che, qualora l'evento si sia verificato per imperizia, la punibilità dell'esercente la professione sanitaria è esclusa se concorrono due condizioni: a) il rispetto delle raccomandazioni previste dalle linee guida o delle buone pratiche clinico-assistenziali; b) l'adeguatezza delle linee guida alle peculiarità del caso concreto. Di contro, dovrebbe ritenersi che, nel caso di inadeguatezza delle linee guida (nel testo attuale manca qualunque riferimento ad un'analoga verifica per le buone pratiche), l'esercente la professione sanitaria che cagioni la morte o la lesione personale della persona assistita risponda di tali eventi anche in caso di colpa lieve.

  • omicidio
  • circolazione stradale
  • delitto contro la persona
  • circostanza aggravante
  • concorso nel reato
  • reato colposo

CAPITOLO III

IL REATO DI OMICIDIO STRADALE: SPUNTI PROBLEMATICI

(di Paolo Bernazzani )

Sommario

1 La nuova disciplina in materia di circolazione stradale: i reati di omicidio e lesioni personali stradali. - 2 Qualificazione dogmatica delle nuove fattispecie di reato. - 3 L'omicidio stradale: opzioni legislative e struttura normativa. - 4 (segue) L'addebito di colpa generica. - 5 L'aggravante dell'alterazione da abuso di alcool e di stupefacenti. - 6 L'attenuante in caso di responsabilità non esclusiva. - 7 L'aggravante della fuga del conducente. - 8 La disciplina delle circostanze. - 9 Il concorso formale di reati: omicidio e lesioni plurime. - 10 Omicidio stradale e violazione degli artt. 186 e 187 c. str. nell'alternativa fra concorso di reati e reato complesso. - 11 Le principali modifiche di natura processuale. La questione dei prelievi ematici coattivi.

1. La nuova disciplina in materia di circolazione stradale: i reati di omicidio e lesioni personali stradali.

Con l'approvazione della legge 23 marzo 2016, n. 41, recante l'"introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di coordinamento al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 ed al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274"[1], il legislatore è intervenuto nel tessuto normativo del codice penale e, parallelamente, sul versante del codice processualpenalistico per fronteggiare quella che può essere a pieno titolo definita una vera e propria emergenza sociale, alimentata dalla costante proliferazione dei reati connessi alla circolazione stradale, che attualmente costituisce uno dei settori nei quali più intensamente è avvertito il bisogno di prevenzione e di sicurezza. In una simile prospettiva, variamente intrecciata con la propensione a stigmatizzare, in chiave prettamente simbolico-emotiva, il disvalore dei fatti oggetto di rinnovata previsione sanzionatoria, la novella legislativa ha introdotto nel codice penale nuove ipotesi di reato ed un cospicuo catalogo di circostanze aggravanti, non rinunziando, per altro verso, ad una generale rivisitazione "in aumento" delle sanzioni principali ed accessorie.

Si tratta di un intervento che, complessivamente valutato, si segnala essenzialmente per l'inasprimento sanzionatorio che ne rappresenta il nucleo contenutistico più pregnante e significativo, ispirato ad una logica di deterrenza in chiave eminentemente generalpreventiva; un obiettivo che, peraltro, come non si è mancato di rimarcare, sconta il problematico collegamento fra la funzione preventiva della pena e la categoria dei reati colposi[2], rischiando, nel contempo, di rendere più difficile e complesso individuare nelle cornici edittali di nuova introduzione, in un assetto sanzionatorio ispirato al modello della "tolleranza-zero", la fondamentale funzione di "esprimere una scala coerente di valutazioni di gravità, di meritevolezza e di bisogno di pena"[3].

Il nucleo essenziale della legge n. 41 del 2016 è costituito dall'introduzione nel codice penale degli artt. 589-bis e 590-bis, rubricati rispettivamente "omicidio stradale" e "lesioni personali stradali gravi o gravissime", cui corrisponde specularmente l'abrogazione delle previgenti disposizioni che, negli artt. 589 e 590 cod. pen., contemplavano specifiche aggravanti per fatti commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale (disposizioni che, attualmente, restano in vigore soltanto con riferimento alla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro).

Il primo comma dell'art. 589-bis, in particolare, contempla la fattispecie di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale, sanzionata con la pena della reclusione da due a sette anni.

Il secondo comma della norma punisce con la reclusione da otto a dodici anni l'ipotesi aggravata di omicidio stradale commesso dal conducente di un veicolo a motore che si trovi in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'art. 186, comma 2, lett. c), d.lgs. n. 285/1992 (codice della strada) o di alterazione psico-fisica conseguente all'assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope ex art. 187 c. strad. Identica pena viene comminata dal comma 3 al conducente di un veicolo a motore di cui all'art. 186-bis, comma 1, lett. b), c) e d), c. strad., che, in stato di ebbrezza alcolica ex art. 186, comma 2, lett. b), stesso codice (ossia con tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l, ma non superiore a 1,5 g/l), cagioni per colpa la morte di una persona. Tale aggravante è riferita al conducente di un veicolo a motore che appartenga a specifiche categorie: si tratta dei soggetti esercenti professionalmente l'attività di trasporto di persone e di cose; dei conducenti di autoveicoli, anche con rimorchio, di massa complessiva a pieno carico superiore a 3,5 t; dei conducenti di autobus e di altri autoveicoli destinati al trasporto di persone, il cui numero di posti a sedere, escluso quello del conducente, è superiore ad otto; dei conducenti di autoarticolati e di autosnodati.

Un'ulteriore aggravante speciale, sanzionata con la reclusione da cinque a dieci anni ("salvo quanto previsto dal terzo comma") è prevista dal comma 4 con riferimento al fatto commesso dal conducente di un veicolo a motore che si trovi in stato di ebbrezza ex art. 186, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 285/1992. Nel successivo comma 5, la medesima pena (reclusione da cinque a dieci anni) è prevista per ulteriori fattispecie aggravate, il cui comune denominatore è rappresentato dalla ricorrenza di specifiche e gravi violazioni del codice della strada da parte del soggetto attivo: vengono qui in considerazione le ipotesi del conducente che proceda "in un centro urbano ad una velocità pari o superiore al doppio di quella consentita e comunque non inferiore a 70 Km/h, ovvero su strade extraurbane ad una velocità superiore di almeno 50 Km/h rispetto a quella massima consentita" (comma 5, n. 1); del conducente di un veicolo a motore che cagioni per colpa la morte di una persona "attraversando un'intersezione con il semaforo disposto al rosso ovvero circolando contromano" (comma 5, n. 2), ovvero effettuando una "manovra di inversione del senso di marcia in prossimità o in corrispondenza di intersezioni, curve o dossi o a seguito di sorpasso di un altro mezzo in corrispondenza di un attraversamento pedonale o di linea continua" (comma 5, n. 3). Infine, il sesto comma della disposizione in esame stabilisce un aumento delle pene previste sia per l'ipotesi base di omicidio stradale, sia per quelle già aggravate ai sensi dei commi precedenti, nel caso in cui l'autore del reato non abbia conseguito la patente di guida o la stessa sia stata revocata o sospesa, ovvero ancora abbia circolato sprovvisto di assicurazione obbligatoria nel caso in cui il veicolo a motore sia di proprietà dell'autore del fatto (è da evidenziarsi come all'aumento di pena per i fatti di omicidio e lesioni stradali commessi da chi non è in possesso di una patente di guida, faccia da contraltare, con singolare perdita di coerenza sistematica, la depenalizzazione della "fattispecie base" di guida senza patente ex art. 116, comma 15, cod. str. - sia pure limitatamente al caso in cui il fatto non costituisca reiterazione di una precedente violazione dello stesso tipo -, disposta dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8).

In calce al descritto catalogo di circostanze aggravanti, il comma 7 contempla una circostanza attenuante che comporta una diminuzione della pena fino alla metà quando l'omicidio stradale, pur cagionato dalle condotte imprudenti in precedenza descritte, non sia esclusiva conseguenza dell'azione o dell'omissione del colpevole. Infine, la norma stabilisce un aumento di pena nel caso in cui il conducente provochi la morte di più persone ovvero la morte di una o più persone e le lesioni di una o più persone: in questo caso, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo; il limite massimo di pena viene, peraltro, stabilito in diciotto anni (art. 589-bis, comma 8).

Per completezza espositiva, va aggiunto, in relazione all'introduzione nel codice penale del reato di "lesioni personali stradali gravi o gravissime" (art. 590-bis), che, da un lato, rimangono inalterate le sanzioni detentive previste dal previgente testo dell'art. 590, comma 3, cod. pen., ad esclusione dell'applicabilità in via alternativa della multa, e, dall'altro che un trattamento sanzionatorio di maggior rigore è, invece, riservato alle lesioni personali stradali cagionate per colpa da categorie soggettive analoghe a quelle contemplate dalle corrispondenti aggravanti previste per l'omicidio stradale.

Va, altresì, segnalata l'introduzione degli artt. 589-ter e 590-ter, che prevedono un'ulteriore circostanza aggravante, sanzionata con un aumento di pena da un terzo a due terzi, per colui che si dia alla fuga dopo aver commesso i reati di cui, rispettivamente, agli artt. 589bis e 590-bis.

L'art. 590-quater, infine, in ordine al giudizio di bilanciamento fra circostanze di segno opposto, stabilisce che le attuanti, diverse da quelle previste dagli art. 98 e 114 c. p., non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto alle aggravanti ex artt. 589-bis, c. 2, 3, 4, 5, 6, 589-ter, 590-bis, c. 2, 3, 4, 5, e 6, 590-ter cod. pen., e le diminuzioni si operano sulla quantità di pena determinata ai sensi delle predette circostanze aggravanti[4].

Fra le più significative modifiche introdotte sul versante processuale, va ricordata la previsione dell'arresto obbligatorio per il delitto di omicidio colposo stradale, previsto cui al l'art. 589-bis, commi 2 e 3, cod. pen. e dell'arresto facoltativo nel caso di lesioni colpose stradali gravi o gravissime previsto dall'art. 590-bis, c. 2, 3, 4 e 5, nonché la possibilità di effettuare il prelievo coattivo di campioni biologici, ai sensi degli artt.224-bis e 359-bis cod. proc. pen., nei casi di omicidio e lesioni stradali, qualora il conducente rifiuti di sottoporsi agli accertamenti circa lo stato di ebbrezza alcolica ovvero di alterazione correlata all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope.

2. Qualificazione dogmatica delle nuove fattispecie di reato.

Sotto il profilo della qualificazione sul piano dogmatico e della collocazione sistematica, il testo di legge definitivamente approvato si caratterizza, da un lato, per la considerazione delle ipotesi delittuose di omicidio e lesioni stradali gravi o gravissime quali fattispecie autonome di reato rispetto alle ipotesi di omicidio colposo e di lesioni colpose contemplate dagli artt. 589 e 590 cod. pen.; dall'altro, per il mantenimento delle figure criminose di nuovo conio nell'ambito dell'area della colpa, come esplicitamente evidenziato dal riferimento tipizzante, contenuto nelle norme di recente introduzione, alle condotte commesse "per colpa".

In tal senso, si è rimarcato[5] che l'omicidio colposo stradale e le lesioni colpose stradali gravi o gravissime, nella formulazione sostanzialmente "simmetrica" che caratterizza i due reati, presentano ipotesi-base qualificate da parametri edittali sostanzialmente identici a quelli sinora stabiliti per le analoghe fattispecie, fatta eccezione per la previsione della pena pecuniaria, in via alternativa rispetto a quella detentiva, per le lesioni colpose.

Sotto il primo profilo, relativo alla qualificabilità delle fattispecie di omicidio colposo stradale e di lesioni colpose stradali come ipotesi autonome di reato e non come circostanze aggravanti rispetto ai reati di cui agli artt. 589 e 590 cod. pen., si è osservato come, pur non essendo decisivo a tal fine l'argomento sistematico, fondato sulla collocazione delle ipotesi in esame in altrettante disposizioni a sé stanti rispetto alle corrispondenti ipotesi di cui agli artt. 589 e 590, "non vi sarebbe stata ragione di "espungere" le condotte colpose poste in essere alla guida, dedicando a ciascuna di esse un apposito articolo, se non con l'intenzione di trasformarle in reati autonomi a tutti gli effetti "[6]. Il dato, in ogni caso, è destinato a coniugarsi con significative indicazioni provenienti nel medesimo senso dai lavori preparatori.

Resta, peraltro, da notare che, nell'ambito del delitto di lesioni stradali, la creazione di autonome fattispecie colpose commesse con violazione delle norme sulla circolazione stradale è stata circoscritta alle ipotesi di lesioni "gravi" e "gravissime", restando disciplinate dall'art. 590, comma 1, cod. pen. 1e ipotesi che non attingono tale soglia di offensività, con conseguente differenziazione anche del regime di procedibilità (a querela in tale ultima ipotesi, d'ufficio nei casi di lesioni colpose stradali gravi o gravissime).

In sede di prima analisi della novella legislativa, pur senza voler affrontare funditus l'argomento, è interessante notare come elementi confermativi, a livello interpretativo, del carattere di autonomia strutturale della disposizione incriminatrice di cui all'art. 590-bis cod. pen. rispetto alla fattispecie di lesioni colpose di cui all'art. 590 cod. pen. sono stati desunti dal nuovo testo dell'art. 189, comma 8, c. strad., come modificato dalla nuova legge. La norma in parola sottrae all'arresto in flagranza il conducente che, pur avendo cagionato un incidente stradale, si fermi e, occorrendo, presti assistenza a coloro che hanno subìto danni alla persona, mettendosi immediatamente a disposizione degli organi di polizia giudiziaria. Secondo l'interpretazione in esame, il tenore letterale della norma sembrerebbe circoscriverne l'ambito applicativo all'area delle lesioni colpose semplici ("quando dall'incidente derivi il delitto di lesioni personali colpose"), con esclusione delle lesioni colpose stradali gravi o gravissime, in tal senso confermando la natura di ipotesi autonome delle predette fattispecie.

Peraltro, va osservato in senso critico come una tale interpretazione del novellato art. 189, comma 8, cod. strad. finirebbe per non assegnare a tale norma alcun concreto ambito applicativo, sino a rendere arduo apprezzarne la stessa ratio, dal momento che essa si risolverebbe nel sottrarre all'arresto in flagranza il responsabile di un'ipotesi di reato, quella di lesioni colpose ex art. 590 cod. pen., per le quali una simile misura non è prevista a priori, posto che l'arresto (facoltativo) in flagranza è stato introdotto esclusivamente per le ipotesi di lesioni stradali gravi o gravissime (art. 590-bis, commi da 2 a 5, cod. pen.). Pur con riserva di ritornare sul punto nel prosieguo della trattazione, va qui segnalato che, all'apprezzabile fine di evitare un'interpretatio abrogans della norma in esame, si è sostenuto che l'arresto cui il conducente verrebbe sottratto sarebbe quello previsto dal terzo periodo dell'art. 189, comma 6, c. strad. (delitto di fuga); tuttavia, anche in questa eventualità, la disposizione finirebbe con l'interferire con l'ambito di operatività della norma di cui all'art. 189, comma 8-bis, c. strad., che già prevede l'esclusione dall'arresto del conducente che, entro le 24 ore successive al fatto di cui al comma 6, si metta a disposizione degli organi di polizia giudiziaria.

3. L'omicidio stradale: opzioni legislative e struttura normativa.

Il reato di omicidio colposo stradale è ora contemplato dall'articolo 589-bis cod. pen., che, al comma 1, prevede la condotta di colui che, per colpa, cagioni la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, sanzionandola con la medesima pena edittale già prevista dall'art. 589 comma 2 cod. pen. (reclusione da due a sette anni).

È di immediata evidenza come l'opzione accolta del legislatore, resa manifesta dal dato testuale, sia intesa a costruire la nuova fattispecie incriminatrice secondo lo schema dell'imputazione colposa: in tale prospettiva, si può cogliere nella scelta normativa adottata una esplicita presa di posizione rispetto alla dibattuta questione in ordine all'elemento psicologico qualificante i reati in esame, con particolare riferimento all'orientamento, sviluppatosi nella recente giurisprudenza di legittimità, tendente a far ricorso alla categoria del dolo eventuale nella qualificazione dell'elemento soggettivo che caratterizza i reati aggravati dalla violazione delle regale della circolazione stradale[7].

Il testo definitivo della nuova legge si discosta, in questo senso, da alcune delle prime e provvisorie stesure della norma, che si proponevano di punire l'omicidio stradale a titolo di dolo eventuale, superando il tradizionale approccio del legislatore che, sino all'intervento del 2008, aveva preferito operare sulla leva dell'inasprimento della risposta sanzionatoria piuttosto che incidere sulla struttura della fattispecie incriminatrice a livello di coefficiente di imputazione soggettiva del fatto reato.

Prova ne sia che la proposta di legge n. 859 prevedeva l'inserimento dell'omicidio stradale nel codice penale subito dopo la norma incriminatrice relativa all'omicidio doloso, disponendo (art. 575-bis) la punizione del conducente che si fosse posto alla guida con la consapevolezza del proprio stato di ebbrezza o di alterazione psicofisica derivante dall'assunzione di stupefacenti, secondo un criterio di imputazione soggettiva certamente qualificabile sub specie di dolo eventuale, come esplicitato nella relazione al predetto articolato, riferita al conducente che "consapevole della pericolosità della propria condotta ne accetta il rischio in totale dispregio delle pressoché inevitabili conseguenze della stessa".

In modo non troppo dissimile, la relazione di accompagnamento ad altro articolato (cfr. la proposta n. 1553) proponeva l'introduzione, all'art. 577-bis cod. pen., di una fattispecie autonoma e specifica, che sanzionasse il disvalore della condotta di chi, ponendosi alla guida sotto l'effetto delle predette sostanze, "accetta il rischio" di provocare un sinistro stradale mortale; dunque, si afferma espressamente, "il comportamento descritto è qualificato nel disegno di legge come omicidio stradale e rientra nel novero dei reati sorretti da dolo eventuale e, come tale, viene caratterizzato da un trattamento sanzionatorio intermedio tra quello previsto dall'omicidio colposo e l'omicidio volontario".

La definitiva esclusione, dal perimetro tratteggiato dalle disposizioni di nuovo conio, di ipotesi di reato caratterizzate dal dolo quale coefficiente di colpevolezza, in special modo nella forma eventuale, è destinata a valere, anche e particolarmente, per le ipotesi aggravate commesse tenendo un comportamento caratterizzato da un rilevante grado di sconsideratezza nella conduzione di veicoli a motore, secondo un ventaglio di ipotesi che trascorre dalla guida in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di stupefacenti alla commissione del fatto con specifiche e gravi violazioni di norme del codice della strada, quali il superamento dei limiti di velocità oltre determinate soglie, la violazione del segnale semaforico, la circolazione contromano, l'inversione di marcia effettuata in corrispondenza di intersezioni, curve o dossi, i sorpassi azzardati.

Si tratta, è agevole rilevarlo, proprio delle ipotesi che costituivano il terreno di elezione sul quale parte della giurisprudenza fondava una ricostruzione del parametro di imputazione subiettiva in termini di accettazione del rischio, secondo quello che è stato definito, in termini critici, un vero e proprio processo di normativizzazione del dolo, in cui la volontà di cagionare l'evento, da coefficiente psichico reale, viene a trasformarsi e quasi ad identificarsi con un giudizio - squisitamente normativo - di rimproverabilità per la violazione di regole cautelari tendenti a prevenire elevati livelli di rischio; con la conseguenza che, quanto maggiore è il numero e l'entità di siffatte violazioni (icastico è il caso in cui il conducente cagioni l'evento letale conducendo il proprio mezzo sotto l'effetto di sostanze alcoliche o stupefacenti, ad altissima velocità e commettendo altre gravi e reiterate violazioni delle regole della circolazione stradale), tanto più è agevole ravvisare l'accettazione della concreta verificabilità dell'evento offensivo che sostanzia il dolo nella sua forma eventuale[8].

In effetti, nel settore della circolazione stradale esistono casi paradigmatici nei quali lo schema del dolo eventuale sembra avere maggiori chances applicative, come quelli costituiti dal sinistro cagionato da un conducente intento a sottrarsi all'inseguimento od al controllo della polizia o quello della circolazione contromano: in proposito, Sez. 1, n. 10411 del 1 febbraio 2011, Ignatiuc, Rv. 258021, in applicazione del principio secondo cui "in tema di elemento soggettivo del reato, ricorre il dolo eventuale quando si accerti che l'agente, pur essendosi rappresentato la concreta possibilità di verificazione di un fatto costituente reato come conseguenza della propria condotta, avrebbe agito anche se avesse avuto certezza del suo verificarsi, accettandone la realizzazione a seguito della consapevole subordinazione di un determinato bene ad un altro; si versa invece nella colpa con previsione allorquando la rappresentazione come certa del determinarsi del fatto avrebbe trattenuto l'agente dall'agire", ha censurato la qualificazione come colposa della condotta del conducente di un grosso furgone, da lui rubato, che, per sottrarsi all'arresto, dopo aver superato ad elevata velocità una serie di semafori proiettanti luce rossa, aveva travolto un'autovettura provocando la morte di uno dei passeggeri e il ferimento degli altri. Analogamente, Sez. 2, n. 43348/2014 del 30 settembre 2014, Mistri, Rv. 260858, nell'enunciare lo stesso principio, in un caso di lesioni da sinistro stradale ha individuato la sussistenza di taluni indicatori del dolo eventuale, anziché della colpa cosciente, quali l'essere il fatto avvenuto subito dopo una rapina, compiuta mentre l'imputato, gravato da numerosi precedenti, si trovava in regime di semilibertà, nonché l'elevata velocità tenuta e l'inosservanza di segnalazioni semaforiche. Ancora, la S.C. ha ritenuto immune da censure la sentenza di condanna per omicidio doloso pronunciata in relazione alla condotta del conducente di autovettura che, deliberatamente, aveva effettuato una manovra di impegno della corsia di sorpasso al fine di ostruire la marcia e di impedire il sorpasso a due motociclisti i quali provenivano da tergo a velocità elevata, provocando così la collisione della sua autovettura con le motociclette, strette tra il veicolo e la barriera spartitraffico (Sez. 1, n. 8561 del 11 febbraio 2015, De Luca, Rv. 262881).

In un simile quadro di riferimento, la portata dell'intervento normativo in esame, secondo alcuni commentatori, sarebbe stata così drastica da aver prodotto una sorta di eterogenesi dei fini: la novella, infatti, da un lato avrebbe inasprito le cornici sanzionatorie edittali con obiettivi di tipo dissuasivo-responsabilizzante, ma, dall'altro, avrebbe "legato le mani al giudice", impedendogli di fare ricorso alla categoria del dolo, certamente la più pregnante proprio in un'ottica di stigmatizzazione simbolica del disvalore del fatto.

Tuttavia, se appare difficilmente contestabile che la direzione intrapresa dal legislatore del 2016 è quella di configurare un addebito prettamente colposo, pur a fronte di un trattamento sanzionatorio oltremodo elevato, anche nei confronti di coloro che cagionino l'evento lesivo tipico attraverso le condotte-presupposto previste dalla norma quali circostanze aggravanti - ed in particolar modo l'essersi posto alla guida in condizioni psicofisiche fortemente alterate - non pare che debba del tutto escludersi la sopravvivenza di un'area contigua di persistente operatività di una differente qualificazione dell'elemento soggettivo, con conseguente possibilità di riproposizione degli stessi itinerari interpretativi intrapresi da quella giurisprudenza che, in passato, aveva ricondotto alla categoria del dolo eventuale il coefficiente di ascrizione soggettiva del fatto nei casi di incidenti stradali con esiti mortali causati da conducenti risultati in condizioni psico-fisiche alterate, per l'abuso di alcol o di sostanze stupefacenti.

In tale prospettiva, l'efficacia precettiva della disposizione di nuovo conio serve, senza dubbio, a ribadire che non è consentito contestare un addebito doloso per la sola e semplice sussistenza di condizioni psico-fisiche alterate[9], occorrendo, invece, per formulare un'imputazione a titolo di omicidio doloso, il rigoroso rispetto dei canoni esegetici dettati dalle Sezioni unite nella nota sentenza Thyssenkrupp (Sez. U, n. 38343 del 24 aprile 2014, Espenhahn ed altri, Rv. 261104-261105).

In proposito, le S.U. hanno fissato il principio secondo cui "il dolo eventuale ricorre quando l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre, invece, la colpa cosciente quando la volontà dell'agente non è diretta verso l'evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l'evento illecito, si astiene dall'agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo".

Nello sforzo di concretizzare gli indici sintomatici per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, la Corte, nella citata decisione, ha precisato che "a tal fine l'indagine giudiziaria, volta a ricostruire l' "iter" e l'esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente; c) la durata e la ripetizione dell'azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell'evento; g) le conseguenze negative anche per l'autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (cosiddetta prima formula di Frank)".

Pertanto, il ricorso allo schema dell'imputazione dolosa non appare precluso nelle ipotesi caratterizzate non solo dal fatto che l'agente ponga in essere una o più delle condotte particolarmente azzardate che sono oggi catalogate fra le aggravanti speciali, ma, altresì, dall'esistenza di "condizioni di particolare antidoverosità dell'azione"[10] tali da far intravvedere, sulla scorta dei criteri giurisprudenziali indicati, l'accettazione del rischio dell'evento lesivo in funzione di un determinato scopo ulteriore e, quindi, l'adesione psicologica all'evento stesso: paradigmatica è l'ipotesi di chi fugge a bordo di un'auto dopo averla rubata o dopo aver commesso una rapina, procedendo ad alta velocità per sottrarsi alla cattura e, in tale contesto, provochi la morte di una o più persone.

4. (segue) L'addebito di colpa generica.

La formulazione della norma ("chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale") evidenzia come il reato sia punito a titolo di colpa c.d. specifica, in quanto presuppone ed implica la violazione delle norme positive a contenuto cautelare dettate in tema di circolazione stradale; resterebbe, pertanto, apparentemente estranea al suo ambito precettivo l'ipotesi della colpa c.d. generica, insita nella condotta del conducente di un veicolo che cagiona la morte di una persona per imprudenza, imperizia o negligenza.

Il problema, chiaramente, si pone non solo e non tanto nelle ipotesi in cui siano individuabili profili di colpa generica unitamente ad aspetti integranti colpa specifica, quanto piuttosto nell'ipotesi in cui il conducente, pur rispettando le norme del codice della strada, abbia tenuto una condotta comunque connotata da colpa, in quanto i canoni generali di prevedibilità ed evitabilità dell'evento, calati nella situazione concreta, avrebbero imposto l'osservanza di livelli di diligenza e prudenza diversi ed ulteriori rispetto a quelli cristallizzati in disposizioni positive a contenuto cautelare[11].

Sul punto, è interessante rilevare come, all'indomani dell'entrata in vigore della novella, si siano registrati differenti orientamenti interpretativi da parte di alcuni uffici di Procura della Repubblica in ordine all'applicabilità, in via residuale, dell'ipotesi di cui all'art. 589, comma 1, cod. pen. nell'ipotesi di eventuale contestazione (anche) di profili di colpa generica[12].

La soluzione affermativa, contemplando la contestazione del reato di cui all'articolo 589, comma 1, cod. pen. in concorso formale ex articolo 81, comma 1, cod. pen. con la fattispecie di cui all'articolo 589-bis cod. pen. è stata, non a torto, ritenuta «ingiustificatamente penalizzante" dal punto di vista sanzionatorio, tanto da ritenere che, nonostante "l'infelice formulazione della norma, i profili di colpa generica possano ricomprendersi nel riferimento ampio all'avere il soggetto cagionato la morte "per colpa"»[13]; conclusione che si armonizzerebbe, fra l'altro, con l'orientamento giurisprudenziale secondo cui nei procedimenti per reati colposi, quando nel capo d'imputazione siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa, la sostituzione o l'aggiunta di un profilo di colpa, sia pure specifico, rispetto ai profili originariamente contestati non vale a realizzare una diversità o immutazione del fatto, con sostanziale ampliamento o modifica della contestazione. Il riferimento alla colpa generica evidenzia, infatti, che la contestazione riguarda la condotta dell'imputato globalmente considerata in riferimento all'evento verificatosi, sicché questi è posto in grado di difendersi riguardo a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione di tale evento, di cui è chiamato a rispondere, indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata (in tal senso, cfr. Sez. 4, n. 38818/2015 del 4 maggio 2005, De Bona, Rv. 232427; Sez. 4, n. 31968/2009 del 19 maggio 2009, Raso, Rv. 245313).

In effetti, per quanto la formulazione testuale della norma avrebbe potuto esplicitare meglio il punto in questione, va detto che l'orientamento giurisprudenziale sviluppatosi nella vigenza del precedente art. 589, secondo e terzo comma, cod. pen., aveva già avuto modo di affermare come non sia affatto necessaria la violazione di una o più disposizioni del codice della strada contenenti specifiche previsioni cautelari, risultando per converso sufficiente l'inosservanza di regole di generica prudenza, perizia e diligenza, in quanto tali regole devono ritenersi far parte integrante della disciplina della circolazione stradale (Sez. 4, n. 35665 del 19 giugno 2007, Di Toro, Rv. 237453).

Nel medesimo senso, un argomento di tangibile rilievo ai fini di una corretta impostazione della questione interpretativa può desumersi dalla previsione di principio contenuta nell'art. 140 cod. str., secondo cui "gli utenti della strada devono comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione ed in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale". Tale disposizione, invero, nel contemplare astrattamente ogni tipologia di condotta caratterizzata da colpa generica non riconducibile ad una specifica violazione delle altre norme di condotta nella circolazione, è implicitamente richiamata in ogni contestazione di colpa generica e rende, di fatto, perseguibile ogni condotta colposa, in tal modo consentendo di superare i dubbi interpretativi manifestati (cfr. Sez. 4, n. 18204 del 15 marzo 2016, Bianchini, Rv. 266641).

5. L'aggravante dell'alterazione da abuso di alcool e di stupefacenti.

Uno dei profili più significativi della riforma riguarda proprio l'inasprimento della risposta sanzionatoria prevista per l'omicidio colposo commesso da conducenti in condizioni psicofisiche alterate derivanti dall'abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti. È stata a tal fine introdotta, nel nuovo comma 2 dell'articolo 589-bis cod. pen., la previsione di una circostanza aggravante speciale che stabilisce la pena della reclusione da otto a dodici anni nell'ipotesi in cui l'omicidio stradale sia commesso da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), cod. str. (ossia da soggetto che presenti un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l), ovvero da soggetto sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope. L'ipotesi, che pure si riallaccia a quella in precedenza già prevista e sanzionata meno gravemente (reclusione da tre a dieci anni) dal comma 3 dell'articolo 589 cod. pen., non ne costituisce, peraltro, una mera reiterazione o riproduzione testuale.

Va rilevato, in particolare, che, mentre nel regime previgente l'aggravante era applicabile a "chiunque" avesse provocato la morte di una persona con violazione delle norme sulla circolazione stradale, attualmente il suo ambito di operatività è circoscritto ai conducenti di un "veicolo a motore": ne consegue che, nei confronti degli altri utenti della strada, diversi dal conducente di un veicolo a motore, che abbiano cagionato un sinistro mortale in stato di grave alterazione derivante dall'abuso delle predette sostanze, potrà unicamente contestarsi l'ipotesi "base" di cui al primo comma dell'articolo 589-bis cod. pen.

Altra tangibile differenza risiede nel fatto che l'aggravante previgente faceva riferimento alla condotta di chi, nelle predette condizioni di alterazione, avesse causato la morte di una persona "con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale", mentre la disposizione di nuovo conio prevede la condotta di chi cagiona "per colpa" l'evento mortale.

Diviene, allora, inevitabile porsi il problema del rapporto che deve o meno sussistere fra lo stato di ebbrezza o di alterazione psicofisica conseguente all'assunzione di stupefacenti e l'evento morte. Il tenore testuale della norma, infatti, sembra lasciare ampi spazi interpretativi nei quali trova cittadinanza l'alternativa fra il richiedere un stretto collegamento di tipo eziologico fra evento e stato di alterazione del conducente ovvero il ritenere integrata l'aggravante anche se lo stato di ebbrezza o di stupefazione non abbia influito sulla verificazione dell'evento morte, ascrivibile ad altri e differenti profili di colpa.

La questione è destinata a collocarsi nell'ambito del tema della c.d. causalità della colpa, essendo necessario verificare, una volta positivamente accertata la rilevanza eziologica della materiale condotta di guida del conducente nella produzione dell'evento, se anche la violazione della regola cautelare obiettiva abbia contribuito a cagionare l'evento stesso, il quale deve appartenere proprio a quel tipo di eventi che la norma cautelare mira a scongiurare.

Secondo una tesi, la formulazione testuale dell'aggravante sarebbe tale da ricomprendere espressamente anche la condotta qualificata da colpa generica. In tale prospettiva, non si ritiene indispensabile che la violazione della regola cautelare rappresentata dall'essersi posto alla guida in condizioni pregiudicate abbia avuto una efficacia di tipo causale rispetto all'evento mortale, "nel senso che l'ipotesi incriminatrice pare configurabile anche allorquando l'incidente non risulti essersi verificato in ragione dell'alterazione del conducente, cui questo, quindi, risulti addebitabile per altri e diversi profili di colpa"[14], ferma restando la necessità di verificare la sussistenza del nesso causale fra la condotta e l'evento dannoso derivatone (nesso da escludere quando sia dimostrato che l'incidente si sarebbe ugualmente verificato senza quella condotta o quando risulti, parimenti, provato che esso è stato, comunque, determinato esclusivamente da una causa diversa al conducente non imputabile (Sez. 4, n. 17000 del 5 aprile 2016, Scalise, Rv. 266645; Sez. 4, n. 24898 del 24 maggio 2007, Venticinque, Rv. 236854).

Il rigore delle conseguenze che scaturiscono da una simile impostazione potrebbe, invero, non apparire dissonante rispetto agli obiettivi di stigmatizzazione del disvalore del fatto sottesi all'intervento legislativo, quantomeno ove si riconosca che l'inasprimento sanzionatorio previsto per l'ipotesi in esame si pone in una logica di pericolo astratto.

Tuttavia, secondo un diverso e più convincente orientamento, l'evento morte deve sempre essere eziologicamente riconducibile allo stato di ebbrezza o di alterazione psicofisica, e deve costituire, altresì, la concretizzazione dello specifico rischio che la norma cautelare mira a prevenire, posto che l'opposta soluzione finirebbe per sanzionare il mero versari in re illicita: in ipotesi consimili, lo stato di alterazione psicofisica non rivestirebbe alcuna influenza causale sulla verificazione dell'evento, costituendo, piuttosto, una mera occasione del sinistro, e non potrebbe in alcun modo giustificare il maggior disvalore che dev'essere necessariamente sotteso al più severo trattamento sanzionatorio (potendo, pur sempre, configurarsi la contravvenzione di cui all'art. 186/187 c. str.)[15].

Sul punto, va rammentato che, con riferimento ad ipotesi significativamente affini a quella in esame, come quelle previste dai reati circostanziati di cui all'art. 186 comma 2-bis ed all'art. 187, comma 1-bis, c. str., la giurisprudenza della Suprema Corte richiede che sia accertato che il conducente in stato di ebbrezza o di alterazione psicofisica determinata dall'assunzione di sostanze stupefacenti abbia provocato un incidente e che, quindi, sia dimostrata la rilevanza causale della sua condotta rispetto al sinistro, non essendo sufficiente il mero suo coinvolgimento nello stesso (Sez. 4, n. 37743 del 28 maggio 2013, Callegaro, Rv. 256209). In tale prospettiva, infatti, assimilare il "coinvolgimento" in un incidente con la condotta di chi "provoca" il sinistro, costituirebbe, senza dubbio alcuno, un'inammissibile ipotesi di analogia in malam partem.

Nel medesimo senso, la Corte (cfr. Sez. 4, n. 31360 del 4 luglio 2013, Curti, Rv. 256836) ha ribadito che, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante dell'aver provocato un incidente, prevista dall'art. 186, comma 2-bis, cod. str., "è necessaria l'individuazione di un obiettivo nesso di strumentalità-occasionalità tra lo stato di ebbrezza del reo e l'incidente dallo stesso provocato", "non potendo" (così in motivazione) "certamente giustificarsi l'inflizione di un deteriore trattamento sanzionatorio a carico del guidatore che, pur procedendo illecitamente in stato di ebbrezza, sia stato coinvolto in un incidente stradale di per sé oggettivamente imprevedibile ed inevitabile, ed in ogni caso privo di alcuna connessione con lo stato di ebbrezza del soggetto (nel senso che la nozione di incidente stradale rilevante ai fini della norma de qua debba assumersi quale elemento 'sintomatico' di uno stato di alterazione psicofisica del conducente coinvolto v. Cass, Sez. 4, n. 10605/2012)".

Tale itinerario argomentativo, al di là della differente formulazione testuale della legge, che nell'aggravante prevista dal codice della strada impiega il verbo provocare ("Se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale . . . ") pare possa estendersi, ricorrendo la stessa ratio sostanziale, alla nuova disciplina portata dall'art. 589-bis cod. pen., risultando, così, necessario l'accertamento dell'incidenza causale dello stato di ebbrezza o di alterazione psicofisica sulla produzione dell'evento morte.

Altro profilo problematico, evocato dalla nuova fattispecie incriminatrice soprattutto in relazione all'ipotesi di omicidio stradale aggravato dallo stato di ebbrezza o di alterazione psicofisica derivante dall'assunzione di stupefacenti, attiene al rispetto del principio di colpevolezza e dei suoi presupposti.

In tale contesto, si è rimarcato come, nelle ipotesi di ubriachezza o di stupefazione non accidentali il giudizio di rimproverabilità non potrebbe fondarsi sul presupposto essenziale di una reale imputabilità, intesa quale capacita di colpevolezza, ed in particolare sulla presenza di una reale e concreta capacità di intendere e di volere al momento della commissione del fatto (che costituisce il presupposto essenziale per poter muovere un rimprovero per l'atteggiamento antidoveroso della volontà che integra il nucleo essenziale della colpevolezza), essendo affidato all'impiego di una fictio iuris, in virtù della quale l'apprezzamento dell'elemento in questione viene anticipato al momento in cui il soggetto attivo assume alcolici o stupefacenti, che è precedente a quello di causazione dell'evento tipico, in cui la capacita di intendere e di volere è presunta.

In tal senso, il punto di criticità del sistema è stato individuato nel fatto che non sarebbe possibile muovere un rimprovero ad un soggetto che non sia in grado di autodeterminarsi conformandosi ai valori espressi dalle norme giuridiche, in quanto non in grado, al momento del fatto, di comprendere il significato offensivo del proprio comportamento, beninteso valutato nella sua dimensione fattuale concreta, con esclusione della coscienza della vera e propria antigiuridicità del fatto. Per chi segue tale linea ricostruttiva, la disciplina prevista dal legislatore per le ipotesi di ubriachezza e di assunzione di sostanze stupefacenti non accidentali finirebbe per sfociare nella previsione di forme di responsabilità oggettiva, se non di vere e proprie ipotesi di colpa d'autore, in cui il giudizio di disvalore si appunta non tanto su di un comportamento materiale offensivo per il bene giuridico tutelato, quanto sull'atteggiamento interiore ed il "modo di essere" della persona. Una disciplina che presenterebbe, dunque, vari punti di frizione con il principio di personalità della responsabilità penale, e con la stessa funzione della pena, in specie ove riguardata sotto il profilo del suo finalismo rieducativo.

6. L'attenuante in caso di responsabilità non esclusiva.

La disciplina di nuovo conio prevede, altresì, al comma 7 dell'art. 589-bis (cui corrisponde specularmente, nel campo delle lesioni colpose stradali, l'art. 590-bis, comma 7, cod. pen.), una circostanza attenuante che comporta la diminuzione della pena fino alla metà "qualora l'evento non sia esclusiva conseguenza dell'azione o dell'omissione del colpevole". L'estensione semantica della formula utilizzata dal legislatore lascia ritenere che l'attenuante possa ricorrere non soltanto nelle ipotesi di contributo della vittima nella causazione del sinistro, ma anche nelle diverse ipotesi in cui l'incidente sia riconducibile alla condotta di più conducenti, vale a dire, essenzialmente, nei casi di cooperazione colposa o di concorso di cause colpose indipendenti.

A tale proposito, merita di essere ricordato che le due disposizioni in questione erano state formulate, nelle prime stesure, con riferimento al solo contributo colposo della vittima: soluzione che, peraltro, si esponeva a rilievi critici alla stregua della ratio di fondo che doveva ispirare la previsione di una simile attenuante, intesa a valorizzare il fatto che un'interferenza causale si fosse comunque verificata, indipendentemente dall'individuazione del soggetto al quale attribuire la stessa e dal coefficiente psicologico caratterizzante la condotta concausale; anzi, a rigore, il principio ispiratore della disposizione non richiede neppure la necessità che il fattore eziologico concorrente sia costituito da un comportamento umano: si pensi all'ipotesi in cui le precarie condizioni meteorologiche ed ambientali abbiano inciso sulla concreta verificazione dell'evento, comunque riconducibile alla condotta colposa del conducente.

Il contesto di riferimento della formula prescelta dal legislatore è, pertanto, quello delimitato dagli artt. 40 e 41 cod. pen., ed in tal senso occorre concordare con quegli autori che non hanno nascosto le proprie perplessità di fronte al riferimento, in sé equivoco, ad "un evento che non sia esclusiva conseguenza della condotta del colpevole", poiché lo schema causale condizionalistico della condicio sine qua non si fonda proprio sulla imprescindibile premessa che il comportamento dell'agente è sempre una delle molteplici condizioni necessarie per il verificarsi dell'evento: è in tale prospettiva, del resto, che l'art. 41, comma 1, cod. pen. affermando che il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento non è escluso quando, insieme alla condotta del soggetto, concorrono cause preesistenti, simultanee e sopravvenute (ivi compreso il fatto illecito altrui, ai sensi del terzo comma dell'art. 41), stabilisce il c.d. principio dell'equivalenza delle condizioni.

In tale contesto, scartata a priori l'ipotesi di interferenze di serie causali meramente occasionali (in quanto tali da escludere la stessa imputazione obiettiva dell'evento ex art. 41, comma 2, cod. pen.), l'attenuante in esame sembra riferirsi a tutti quei fattori che, da un lato, non siano in rapporto di derivazione eziologica rispetto alla condotta dell'agente, e che, dall'altro, si inseriscano nel medesimo decorso causale in cui si colloca quest'ultima, in modo tale che tanto i primi quanto la seconda costituiscano altrettante condizioni senza le quali l'evento hic et nunc non si sarebbe verificato.

Con la previsione in esame, dunque, il legislatore viene ad arricchire il panorama sistematico offerto dall'art. 41 cod. pen., inserendo, fra gli opposti poli costituiti dal principio di equivalenza delle condizioni - con conseguente irrilevanza delle concause nell'accertamento del nesso di derivazione eziologica fra singola condotta ed evento - e dell'esclusione del nesso di causalità - o, più propriamente, dell'imputazione obiettiva dell'evento - da parte di fattori eccezionali sopravvenuti, una sorta di "figura intermedia" grazie alla quale, rispetto a talune fattispecie di reato, alcune concause, pur non introducendo restrizioni del nesso di condizionamento obiettivo, esercitano un effetto attenuante sulla responsabilità e sulla relativa sanzione.

In tal senso, vengono in considerazione le ipotesi costituite dal contributo concorrente fornito della vittima nella determinazione del sinistro e le diverse ipotesi in cui quest'ultimo sia riconducibile alla condotta di più conducenti diversi dalla persona offesa.

Sotto il primo profilo, il fatto che la norma non operi alcun riferimento all'eventuale coefficiente soggettivo che assiste il contributo della vittima (dato significativo, soprattutto alla luce dell'evoluzione del testo della norma sino alla sua definitiva approvazione), non ostacola, in linea di principio, la configurabilità di un condotta anche dolosa della vittima che concorra con quella colposa del soggetto attivo.

Tale ipotesi pone, di conseguenza, la questione del coordinamento con l'attenuante di cui all'art. 62, n. 5 cod. pen., consistente nel concorso del "fatto doloso" della persona offesa nella determinazione dell'evento, inteso quale fatto volontario che converge nella commissione del reato: questione risolta nel senso di ritenere sussistente un rapporto di specialità c.d. reciproca fra le fattispecie a raffronto, dal momento che, da un lato, l'art. 62, n. 5 cod. pen. fa riferimento unicamente al "fatto doloso" della vittima, mentre gli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen. ricomprendono il contributo tanto doloso quanto colposo della stessa; dall'altro, le disposizioni di recente introduzione sarebbero a loro volta speciali in quanto riferibili esclusivamente agli eventi morte e lesioni derivanti da violazione delle norme sulla circolazione stradale, a fronte dell'assenza di indicazioni tipologiche relative all'evento da parte dell'art. 62, n. 5 cod. pen.[16].

Mette conto, peraltro, rilevare come la prevalente giurisprudenza della Suprema Corte segua un'impostazione ermeneutica che finisce per circoscrivere l'ambito di concreta operatività dell'attenuante di cui all'art. 62 n.5 cod. pen. al settore dei reati dolosi. Essa, infatti, richiede, ai fini dell'integrazione dell'aggravante da ultimo citata, che la condotta della persona offesa non soltanto si inserisca nella serie causale di produzione dell'evento, ma, altresì, si colleghi sul piano della causalità psicologica a quella del soggetto attivo, "nel senso della necessità che la persona offesa abbia voluto lo stesso evento avuto di mira dal soggetto attivo" (Sez. 1, n. 13764 del 11 marzo 2008, Sorrentino, Rv. 239798; diversamente orientata appare, peraltro, C. 4, n. 3741 del 30 gennaio 1989, Occhinegro, Rv. 180762, secondo cui " L'art. 62, n. 5, cod. pen., nel prevedere il fatto doloso della persona offesa come causa concorrente, con l'azione o l'omissione del colpevole, a determinare l'evento, non precisa che la persona offesa debba volere lo stesso evento voluto dal colpevole, ma indica, come indice di minore gravità del reato e della responsabilità del colpevole, un comportamento doloso (anche se non costituente di per se stesso reato) della persona offesa, che sia tale da costituire una concausa efficiente del reato, secondo il dettato di cui all'art. 41 codice penale (e, pertanto, anteriore, contemporaneo o susseguente all'azione o all'omissione del colpevole). Ne consegue che l'attenuante in questione trova applicazione ogni qualvolta il fatto doloso dell'offeso è tale che, se non vi fosse stato, non si sarebbe verificato l'evento nella sua forma e gravità, indipendentemente dall'indirizzo della volontà della persona offesa e, quindi, dall'evento (risultato) avuto di mira dal dolo dello stesso".

Maggiori spazi applicativi appaiono, senza dubbio, riconoscibili al contributo colposo della vittima, qualora lo stesso non assurga al grado di causa di esclusione del nesso eziologico ex art. 41, comma 2, cod. pen.; ipotesi, quest'ultima, configurabile "quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e del tutto eccentrico rispetto a quello originario attivato dalla prima condotta" (con riferimento al settore dell'attività medico chirurgica, cfr. Sez. 4, n. 15493 del 10 marzo 2016, Pietramala, Rv. 266786). Per restare alla materia della circolazione stradale, la Suprema Corte ha escluso la ricorrenza di una simile ipotesi nel caso dell'automobilista che colposamente ostruisca la carreggiata, determinando così l'arresto del traffico: questi, infatti, "è responsabile delle successive collisioni, sempre che non sia ravvisabile l'intervento di fattori anomali, eccezionali ed atipici che interrompono il legame di imputazione del fatto alla sua condotta, quale non può considerarsi l'eccessiva velocità dei guidatori dei veicoli sopraggiunti. (Nella fattispecie la S.C. ha confermato la sentenza di condanna per omicidio colposo a carico del guidatore, contro la cui autovettura, impegnata in una manovra di inversione di marcia, aveva urtato un motociclista, il quale, cadendo rovinosamente, aveva perso la vita)". (Sez. 4, n. 26295 del 4 giugno 2015, Partinico, Rv. 263877).

Quanto al contributo causale proveniente dalla condotta di uno o più terzi, va parimenti osservato che lo stesso potrà essere di natura tanto colposa quanto dolosa (ma anche, si osserva, né doloso né colposo[17]) ed indifferentemente a titolo di cooperazione nel delitto colposo ovvero di concorso di cause colpose indipendenti. A tal proposito, va richiamato il consolidato orientamento di legittimità secondo il quale "per aversi cooperazione nel delitto colposo, non è necessaria la consapevolezza della natura colposa dell'altrui condotta, né la conoscenza dell'identità delle persone che cooperano, essendo sufficiente la coscienza dell'altrui partecipazione nello stesso reato, intesa come consapevolezza, da parte dell'agente, del fatto che altri soggetti - in virtù di un obbligo di legge, di esigenze organizzative correlate alla gestione del rischio, o anche solo in virtù di una contingenza oggettiva e pienamente condivisa - sono investiti di una determinata attività, con una conseguente interazione rilevante anche sul piano cautelare, nel senso che ciascuno è tenuto a rapportare prudentemente la propria condotta a quella degli altri soggetti coinvolti. (Fattispecie relativa ad omicidio colposo conseguente allo scontro frontale tra due autovetture, causato dall'invasione dell'opposta corsia da parte di una di esse, il cui conducente era impegnato in una serie di sorpassi reciproci ed altre manovre gravemente imprudenti con altra vettura che procedeva nella sua stessa direzione. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto configurabile la responsabilità, a titolo di cooperazione colposa, anche del conducente di tale ulteriore veicolo, che con la propria condotta aveva consapevolmente indotto e stimolato quella del soggetto direttamente coinvolto nel sinistro)" (Sez. 4, n. 15324 del 4 febbraio 2016, Sansonetti, Rv. 266665).

Globalmente valutata, l'opzione legislativa diretta ad introdurre una consimile attenuante, verosimilmente per la preoccupazione di recuperare, almeno in parte, i necessari spazi valutativi richiesti dall'esigenza di personalizzazione ed individualizzazione del trattamento sanzionatorio, e la stessa scelta di costruire l'elemento accidentale del reato in esame in termini puramente causali innesca non lievi perplessità in merito al rispetto dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza, attesa la scelta di intervenire soltanto ed unicamente nello specifico settore dei reati stradali, anziché attraverso disposizioni destinate ad una generale applicabilità, quantomeno per tutti i delitti di omicidio e lesioni colposi. Appare evidente che, in tal modo, si viene a creare uno "statuto differenziato" le cui ragioni specializzanti sono obiettivamente difficili da cogliere, soprattutto avuto riguardo ai settori storicamente contigui, come quello della sicurezza sui luoghi di lavoro, nel quale il contributo colposo della vittima, tutt'altro che infrequente, non può influenzare in pari misura l'entità della sanzione applicabile.

7. L'aggravante della fuga del conducente.

La 1. n. 41 del 2016 ha previsto, agli artt. 589-ter e 590-ter cod. pen., due specifiche circostanze aggravanti, fra loro omogenee, destinate a scattare nel caso in cui il soggetto attivo del delitto di omicidio stradale o di lesioni stradali si dia alla fuga. In tale evenienza, la pena è aumentata da un terzo a due terzi e, comunque, non può essere inferiore a cinque anni nel caso di omicidio stradale ed a tre anni nel caso di lesioni stradali.

Le norme in esame impongono un'esigenza di coordinamento sistematico con le disposizioni di cui all'art. 189, comma sesto e settimo, cod. str., che prevedono i reati di fuga e di omissione di soccorso; si tratta di fattispecie che, come chiarito dall'elaborazione giurisprudenziale di legittimità, presidiano interessi giuridici distinti e possono concorrere fra loro: l'una, essendo rivolta a garantire la possibilità di identificazione dei soggetti coinvolti in un incidente stradale e l'esatta ricostruzione delle sue modalità di verificazione; l'altra, essendo diretta a far sì che le persone rimaste ferite a causa dell'incidente ricevano immediato soccorso.

In tale contesto ricostruttivo, non appare configurabile il concorso fra il reato di fuga di cui all'art. 189 c. 6 cod. str. e le ipotesi di omicidio e lesioni stradali aggravate, rispettivamente ex artt. 589-ter e 590-ter cod. pen., sussistendo, piuttosto, un rapporto di specialità fra queste ultime e la fattispecie generale disciplinata dal codice della strada, posto che non è ipotizzabile - a differenza di quanto avviene nelle ipotesi contravvenzionali di cui agli artt.186, 186-bis e 187 cod. str. - una condotta autonoma rispetto a quella che integra i reati circostanziati previsti dal codice penale.

Beninteso, il reato di fuga ex art.189 c. 6 cod. str., risulterà ancora configurabile in concorso con le ipotesi, tuttora disciplinate dall'art. 590 cod. pen., di lesioni colpose stradali lievi e lievissime.

Non sembra, invece, che il principio di specialità possa operare anche rispetto alla fattispecie di omessa assistenza di cui all'art. 189, comma 7, cod. str. in relazione ai delitti aggravati ex artt. 589-bis e ter; 590-bis e ter cod. pen., non sussistendo il presupposto strutturale che caratterizza il rapporto da genus a species, dal momento che la condotta che la sostanzia non è contemporaneamente contemplata quale circostanza aggravante dei delitti di omicidio e di lesioni stradali.

In margine a tali considerazioni, va ricordato che la legge n. 41 del 2016 è intervenuta anche apportando una significativa riduzione dell'area di operatività dell'art. 189, comma 8, cod. str. (a tenore del quale il conducente che si fermi e, occorrendo, presti assistenza a coloro che hanno subito danni alla persona, mettendosi immediatamente a disposizione degli organi di polizia giudiziaria, non è soggetto all'arresto stabilito per il caso di flagranza di reato), ora applicabile al solo caso in cui dall'incidente derivi il delitto di lesioni personali colpose, con esclusione, dunque, delle fattispecie di omicidio, ivi compresa quella di cui all'art. 589-bis cod. pen.

Si è già dato atto dell'orientamento interpretativo secondo cui la lettera della norma sembrerebbe delimitare il suo ambito applicativo all'area delle lesioni colpose lievi e lievissime di cui all'art. 590 cod. pen. ("quando dall'incidente derivi il delitto di lesioni personali colpose"), con esclusione delle lesioni colpose stradali gravi o gravissime, ove si ritengano configurare autonome ipotesi delittuose. Una simile conclusione, tuttavia, finirebbe per deprivare il novellato art. 189, comma 8, cod. str. di ogni concreto spazio di operatività, finendo con il frustrare la sua stessa ratio, dal momento che essa si risolverebbe nel sottrarre all'arresto in flagranza il responsabile di un'ipotesi di reato, quella di lesioni colpose ex art. 590 cod. pen., che già di per sé non consente l'arresto stesso, introdotto (nella forma facoltativa) esclusivamente per le ipotesi di lesioni stradali gravi o gravissime (art. 590-bis, commi da 2 a 5, cod. pen.).

Né sembra che miglior sorte, nel comunque apprezzabile tentativo di reperire un autonomo spazio precettivo alla norma per in esame, arrida alla tesi secondo cui l'arresto al quale il conducente viene sottratto sarebbe quello previsto dal terzo periodo dell'art. 189, comma 6, c. str. (delitto di fuga); invero, già l'art. 189, comma 8-bis, c. str. prevede l'esclusione dall'arresto del conducente che, entro le 24 ore successive al fatto di cui al comma 6, si metta a disposizione degli organi di polizia: anche in questa eventualità, pertanto, la disposizione di nuovo conio finirebbe con il sovrapporsi all'ambito di operatività di una norma già esistente.

In tale prospettiva, appare ragionevole ritenere che il riferimento al genus "lesioni personali colpose", in assenza di indicazioni normative vincolanti di tipo restrittivo, sia tale da comprendere in sé anche le ipotesi di lesioni personali colpose "stradali" di cui all'art. 590bis cod. pen., indipendentemente dal fatto che questa costituisca una fattispecie strutturalmente autonoma rispetto a quella di cui all'art. 590 cod. pen., in quanto pur sempre riconducibile sul piano logico-esegetico alla locuzione impiegata dal legislatore.

Nell'analizzare, nei limiti consentiti dalla trattazione, l'aggravante in parola, non possono non evidenziarsi, infine, alcuni profili di irrazionalità in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio che già i primi commentatori della nuova disciplina non hanno trascurato di rimarcare[18]. In particolare, va osservato che nei casi di minore gravità previsti dal primo comma dell'art. 589-bis, puniti con la reclusione da due a sette anni, l'applicazione dell'aggravante può portare a risultati irragionevoli: invero, la prima parte dell'art. 589-ter prevede che la pena sia aumentata da un terzo a due terzi, mentre nella parte conclusiva stabilisce che la pena non possa comunque essere inferiore a cinque anni di reclusione.

Ebbene, nel caso in cui la pena-base che il giudice decida di applicare, in quanto ritenuta congrua e proporzionata al disvalore della fattispecie concreta oggetto di giudizio, sia quella (minima) di due anni di reclusione, la stessa potrebbe essere aumentata, secondo la prima parte del predetto art. 589-ter, soltanto fino a due terzi, con l'effetto di risultare sempre necessariamente inferiore al limite minimo di cinque anni indicato dalla seconda parte dell'aggravante. Nell'ipotesi in cui, invece, l'aggravante in parola concorra con le altre aggravanti speciali previste dall'art. 589-bis (analogo discorso vale per l'art. 590-bis), il cospicuo aumento della pena edittale risulta, comunque, soggetto al temperamento di cui all'art. 63, comma 4, cod. pen.

8. La disciplina delle circostanze.

L'art. 590-quater cod. pen. sancisce il divieto di equivalenza o di prevalenza di eventuali circostanze attenuanti (diverse da quelle di cui agli artt. 98 e 114 cod. pen.) rispetto alle circostanze aggravanti di cui ai commi 2, 3, 4, 5 e 6 dell'art. 589-bis cod. pen. e di cui all'art. 589-ter cod. pen., onde le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa determinata ai sensi delle predette circostanze aggravanti. Analoga disciplina viene adottata in relazione alle lesioni stradali, rispetto alle circostanze aggravanti di cui ai commi 2, 3, 4, 5 e 6 dell'art. 590-bis cod. pen. ed all'art.590-ter cod. pen.

Tale regime sanzionatorio si pone nel segno di una sostanziale continuità con l'assetto antecedente alla novella in commento, posto che l'art. 590-bis cod. pen., inserito dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni nella legge 24 luglio 2008, n. 125, prevedeva un analogo divieto di equivalenza o prevalenza di eventuali circostanze attenuanti nel giudizio di bilanciamento con l'aggravante della violazione delle norme della circolazione stradale, e costituisce un rilevante limite alla discrezionalità valutativa del giudice nella comparazione di elementi circostanziali, che finisce oggettivamente per incidere sulla funzione di individualizzazione del trattamento sanzionatorio.

9. Il concorso formale di reati: omicidio e lesioni plurime.

Il comma 8 dell'articolo 589-bis cod. pen. affronta l'ipotesi di omicidio o lesioni personali colpose plurime, ricorrente nel caso in cui il conducente, nel medesimo contesto, provochi la morte di più persone ovvero la morte di una o più persone e le lesioni di una o più persone.

L'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sul punto individua, nell'ipotesi di una pluralità di eventi riconducibili alle previsioni incriminatrici in esame, cagionati con colpa nello stesso contesto fattuale, un'ipotesi di concorso formale di reati, riconducibile allo schema normativo dell'articolo 81, comma 1, cod. pen., che la norma di parte speciale integra con una previsione unicamente quoad poenam.

In particolare, la novella stabilisce, in deroga alla disciplina di cui all'art. 589, comma 3, cod. pen., che resta applicabile a tutte le ipotesi non rientranti nel paradigma dell'omicidio stradale, che il limite massimo di pena è di diciotto anni di reclusione.

In merito, va rilevato che la formula legislativa in esame non contiene alcun riferimento all'ulteriore limite di cui all'art. 81, comma 3, cod. pen., costituito dalla pena che sarebbe applicabile in base al regime del cumulo materiale; tuttavia, la riconducibilità del meccanismo espresso dalla norma alla figura del concorso formale di reati implica in modo evidente, al di là del mancato richiamo espresso, anche l'applicabilità del limite introdotto dalla disposizione di parte generale[19].

10. Omicidio stradale e violazione degli artt. 186 e 187 c. str. nell'alternativa fra concorso di reati e reato complesso.

Una questione interpretativa destinata a ricevere rinnovata linfa dall'entrata in vigore della riforma legislativa in tema di reati stradali è quella concernente l'eventuale concorso dei reati contravvenzionali previsti dal codice della strada con le ipotesi aggravate dei delitti di omicidio stradale e di lesioni personali stradali gravi o gravissime.

L'alternativa fra concorso apparente di norme e concorso di reati nei rapporti tra l'omicidio e le contravvenzioni in materia di circolazione stradale costituisce una tematica certamente non inedita, essendo stata affrontata addirittura già prima che la legge 11 maggio 1966, n. 296 introducesse nell'ordinamento il secondo comma dell'art. 589 cod. pen. L'orientamento della giurisprudenza di legittimità, maturato sotto l'impero della previgente disciplina e rimasto sostanzialmente inalterato anche dopo la riformulazione del terzo comma dell'art. 589 cod. pen. intervenuta nel 2008, è consolidato nel ritenere che i delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose aggravati dalla violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale concorrono con le contravvenzioni contemplate dal codice della strada (cfr., da ultimo, Sez. 4, n. 46441 del 3 ottobre 2012, Cioni, Rv. 253839 e Sez. 4, n. 3559 del 29 ottobre 2009, dep. 2010, Corridori, Rv. 246300) ed, in particolare, con quelle di guida in stato di alterazione alcoolica o da stupefacenti (per tale ultima ipotesi, cfr. Sez. 4, n. 1880 del 19 novembre 2015, dep. 2016, Greco, non massimata sul punto).

In tale ottica, la S.C. ha negato la configurabilità della figura del reato complesso e, conseguentemente, l'applicabilità dell'art. 84 cod. pen., "non verificandosi una totale perdita di autonomia dei reati contravvenzionali stradali ed una fusione con l'omicidio colposo aggravato" (così, in motivazione, Sez. 4, n. 3559 del 29 ottobre 2009, dep. 2010, già citata).

Inoltre, quanto allo specifico rapporto fra l'art. 589 cod. pen. e gli artt. 186 e 187 cod. str., la Corte ha rilevato che, affinché possano ricorrere i presupposti per l'applicazione dell'art. 84 cod. pen., è necessario che il reato assorbito abbia con quello in cui si fonde un legame causale con carattere di immediatezza. Nei casi in esame, invece, la consumazione delle contravvenzioni di guida in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di stupefacenti di norma può dirsi iniziata ben prima della consumazione del delitto di omicidio o di lesioni colpose; anche sotto tale profilo, pertanto, in assenza di un'immediata coincidenza causale fra le due violazioni, la Suprema Corte ha escluso la configurabilità della figura del reato complesso di cui all'art. 84.

A ciò si aggiungano altri profili convergenti nel suffragare l'opzione interpretativa così accolta: in primo luogo, le ipotesi contravvenzionali in esame, in quanto finalizzate a tutelare l'incolumità pubblica, presentano oggettività giuridica diversa da quella che caratterizza le ipotesi delittuose aggravate di cui agli artt.589-bis e 590-bis cod. pen., concorrendo, pertanto, con esse; inoltre, proprio con riferimento al sistema di aggravanti introdotto dalla 1. n. 92 del 2008, si è rimarcato che il destinatario della nuova previsione poteva essere individuato non soltanto in "chi guida", ma anche in altri soggetti quali il pedone, l'istruttore di guida o il soggetto tenuto alla predisposizione delle misure di protezione e delle adeguate segnalazioni per la presenza di un cantiere sulla strada, onde l'ambito applicativo dei reati previsti dal d.lgs. n. 285 del 1992 risultava più circoscritto rispetto a quello delle aggravanti introdotte nel codice penale (Sez. 4, n. 46441 del 3 ottobre 2012, Cioni, Rv. 253839; secondo Sez. 4, n. 44811 del 3 ottobre 2014, Salvadori, Rv. 260643, "la circostanza aggravante della violazione della normativa sulla circolazione stradale è ravvisabile non solo quando la violazione della normativa di riferimento sia commessa da utenti della strada alla guida di veicoli ma anche nel caso di violazione di qualsiasi norma che preveda a carico di un soggetto, pur non impegnato in concreto nella fase della circolazione, un obbligo di garanzia finalizzato alla tutela della sicurezza degli utenti della strada. (Fattispecie in cui è stata ritenuta configurabile l'aggravante nei confronti del caposquadra incaricato di dirigere i lavori di manutenzione della strada, il quale, omettendo di apporre idonea segnaletica temporanea, determinava l'insorgenza di una situazione di pericolo, costituita dalla presenza di un dosso non visibile, a causa del quale si verificava il sinistro stradale in cui perdeva la vita un motociclista)"[20].

Non possono, peraltro, sottacersi le perplessità nutrite nei confronti di tale impostazione da quella dottrina che, paventando la violazione del principio del ne bis in idem sostanziale, ritiene invece applicabile la disciplina del reato complesso di cui all'art. 84 cod. pen., in virtù del c.d. criterio di assorbimento, fondato non su un rapporto di tipo logico-strutturale tra norme, ma su un rapporto di valore, di talché si esclude il concorso di reati in tutte le ipotesi nelle quali la realizzazione di un reato comporta, secondo l'id quod plerumque accidit, la commissione di un secondo reato, il quale dunque, in base ad una valutazione normativo-sociale, deve ritenersi assorbito dal primo[21].

Pur in un quadro così composito, non è certamente agevole preconizzare, all'indomani della nuova formulazione del reato di omicidio stradale (analogo discorso vale, peraltro, anche per le lesioni stradali), una rimeditazione del cennato orientamento giurisprudenziale tendente a ravvisare un concorso di reati fra le fattispecie previste dal codice penale e quelle contemplate dal codice della strada, per quanto risulti pertinente l'osservazione secondo la quale, muovendo dal rilievo che nell'assetto delineato dalla legge n. 41 del 2016 è il codice penale ad operare "una selezione più restrittiva dei soggetti responsabili" (posto che il riferimento, contenuto nelle nuove circostanze aggravanti, a "chi guida un veicolo a motore" è più circoscritto del richiamo a "chi guida", posto che in quest'ultima categoria ben potrebbe, ad esempio, rientrare il conducente di un velocipede ex art. 50 cod. strada), intravede una "inversione di prospettiva" affatto marginale, nel senso che, attualmente, le aggravanti introdotte nell'art. 589-bis cod. pen. tipicizzano sempre un fatto penalmente rilevante (anche) sulla base delle citate fattispecie contravvenzionali, non essendo ipotizzabile l'applicazione delle ipotesi circostanziate in riferimento a soggetti diversi dal conducente di un veicolo. La "più evidente (anche se non perfetta) coincidenza" fra le ipotesi poste in correlazione fra loro consentirebbe, secondo tale tesi, di delineare con maggiore chiarezza i presupposti per l'applicabilità dello schema del reato complesso (conclusione che viene estesa, fra l'altro, anche all'ipotesi di guida senza patente in caso di "recidiva nel biennio", trattandosi di ipotesi non depenalizzata)[22].

11. Le principali modifiche di natura processuale. La questione dei prelievi ematici coattivi.

Fra le più importanti e significative modifiche di natura processuale va annoverate la previsione dell'arresto obbligatorio in flagranza limitatamente alle ipotesi di omicidio stradale aggravate ai sensi dei commi 2 e 3 dell'art. 589-bis cod. pen.; l'ipotesi base, invece, è suscettibile di arresto facoltativo, in ragione della pena edittale, che raggiunge sette anni di reclusione nel massimo; analogo discorso vale per le ipotesi aggravate ai sensi del comma 4 e seguenti della stessa norma (l'arresto facoltativo in flagranza è, altresì, espressamente previsto nei casi di lesioni colpose stradali gravi o gravissime).

Altra rilevante modifica concerne la citazione diretta a giudizio innanzi al tribunale in composizione monocratica e la sottrazione alla competenza del giudice di pace delle lesioni personali stradali gravi o gravissime. Tanto per la fattispecie di omicidio quanto per quella di lesioni colpose stradali la nuova disciplina non consente più di una proroga dei termini di durata delle indagini preliminari (art. 406, comma 2-ter cod. proc. pen.). Una disciplina di tipo sollecitatorio è, altresì, contenuta nell'art. 416, comma 2-bis cod. proc. pen., in forza del quale la richiesta di rinvio a giudizio del p.m. per il reato di omicidio colposo stradale deve essere depositata entro trenta giorni dalla chiusura delle indagini preliminari, e nell'art. 429, comma 3-bis cod. proc. pen., secondo il quale fra la data del decreto di rinvio a giudizio e la data fissata per il giudizio non può intercorrere un termine superiore a sessanta giorni (disposizioni ispirate ad analoga ratio sono previste anche per il reato di lesioni personali stradali gravi e gravissime).

Ma è, soprattutto, in ordine all'attività di accertamento dell'effettivo tasso alcolemico e del superamento delle soglie di rilevanza normativamente previste, ovvero dello stato di alterazione derivante dall'uso di sostanze stupefacenti in relazione sia all'omicidio stradale sia alle lesioni stradali gravi e gravissime (artt. 589-bis c. 2, 3 e 4 e 590-bis c. 2, 3 e 4 cod. pen.), che la riforma non ha trascurato di intervenire anche sul piano della disciplina processuale, particolarmente in tema di operazioni peritali e di prelievi di campioni biologici.

A tal fine, va premesso che, come riconosciuto da un consolidato orientamento giurisprudenziale della cui persistente attualità non v'è ragione di dubitare, i prelievi ematici e tutti gli accertamenti clinici effettuati dalle strutture sanitarie per finalità diagnostico-terapeutiche (ad es., in seguito al ricovero dopo un sinistro stradale), sono sempre utilizzabili, senza necessità di previo consenso dell'interessato.

In tal senso, la Suprema Corte (Sez. 4,n. 10605 del 15 novembre 2012, dep. 2013, Bazzotti, Rv. 254933) ha affermato che "i risultati del prelievo ematico, effettuato a seguito di incidente stradale durante il successivo ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica su richiesta della polizia giudiziaria, sono utilizzabili nei confronti dell'imputato per l'accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza, trattandosi di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica e restando irrilevante, ai fini dell'utilizzabilità processuale, la mancanza del consenso. (Nella specie la S.C. ha, tuttavia, chiarito che il prelievo non sarebbe effettuabile laddove il paziente rifiutasse espressamente di essere sottoposto a qualsiasi trattamento sanitario)".

In motivazione, la Corte ha precisato che "il riferimento alla natura di documento dell'atto che riporta l'esito dell'accertamento è pertinente ove questo non sia stato eseguito su richiesta della polizia stradale. In questo secondo caso, infatti, l'atto rappresenta vera e propria attività di p.g. compiuta a mezzo di persone dotate delle necessarie competenze tecniche (art. 348, co. 4 cod. proc. pen.) e, quanto alla sua acquisizione ed utilizzabilità ai fini del giudizio, soggiace alla disciplina degli atti irripetibili (art. 431 cod. proc. pen.)". In tale dimensione interpretativa, la Corte ha, altresì, osservato che, "ai fini dell'applicazione dell'art. 186, comma 5 cod. str., la richiesta della p.g. di accertamento del tasso alcolemico di conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche può legittimamente essere l'unica causa di tale accertamento e non richiede uno specifico consenso dell'interessato, oltre a quello eventualmente richiesto dalla natura delle operazioni sanitarie strumentali a detto accertamento".

Al di fuori di tali ipotesi, occorre distinguere il caso in cui l'indagato abbia prestato il proprio consenso rispetto a quello in cui lo stesso sia stato negato: nella prima ipotesi, la polizia giudiziaria potrà procedere ai necessari accertamenti (ad esempio attraverso l'esame etilometrico, oppure mediante prelievo ematico e di altri liquidi biologici) previo avviso all'indagato, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia ex artt. 356 cod. proc. pen. e 114 disp. att.

È con riferimento, invece, al diverso caso di rifiuto di sottoporsi all'accertamento del tasso alcolemico od alle analisi dirette ad accertare l'avvenuta assunzione di sostanze stupefacenti che - al di là della rilevanza penale del rifiuto ingiustificato ex artt. 186, comma 7, e 187, comma 8, cod. str. - si registra l'intervento del legislatore del 2016, che ha integrato gli artt. 224bis e 359-bis cod. proc. pen. in modo da estendere anche ai delitti di omicidio stradale e di lesioni personali stradali gravi o gravissime la possibilità per l'autorità giudiziaria di sottoporre il soggetto "coattivamente" al prelievo di liquidi biologici o ad accertamenti medici.

Ciò vale, innanzitutto, nell'ipotesi di prelievo ai fini dello svolgimento di operazioni peritali ex art. 224-bis cod. proc. pen., anche a seguito di incidente probatorio (cfr. l'art. 392, comma 2, cod. proc. pen., che richiama l'articolo 224-bis stesso codice), per quanto non si sia mancato di rilevare che i tempi normalmente richiesti per l'espletamento di tale attività procedimentale risultano difficilmente compatibile con le esigenze di urgenza insite nei casi in esame.

In tale evenienza, se per l'esecuzione della perizia sia necessario compiere atti idonei ad incidere sulla libertà personale, quali il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA ovvero accertamenti medici, e non vi sia il consenso della persona da sottoporre all'esame del perito, il giudice, anche d'ufficio, può disporne con ordinanza motivata l'esecuzione coattiva, se essa risulta assolutamente indispensabile per la prova dei fatti.

Discorso non dissimile vale per l'ipotesi di prelievo coattivo attribuita all'iniziativa del pubblico ministero dall'articolo 359-bis cod. proc. pen. (c.d. prelievo a fini investigativi): la citata normativa prevede, al comma 2, che il p.m., ove vi sia fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave o irreparabile pregiudizio alle indagini, possa disporre lo svolgimento delle operazioni con decreto motivato contenente i medesimi elementi previsti dal comma 2 dell'articolo 224-bis, disponendo, altresì, l'accompagnamento coattivo, qualora la persona da sottoporre alle operazioni non si presenti senza addurre un legittimo impedimento, ovvero l'esecuzione coattiva delle operazioni, se la persona comparsa rifiuta di sottoporvisi. La norma prevede, inoltre, che del decreto e delle operazioni da compiersi sia data tempestivamente notizia al difensore dell'interessato, che ha facoltà di assistervi, senza che ciò possa comportare pregiudizio nel compimento delle operazioni. In tali casi, il p.m. è, comunque, onerato dal richiedere al g.i.p., entro le quarantotto ore successive, la convalida del decreto e dell'eventuale provvedimento di accompagnamento coattivo.

Il nuovo comma 3-bis dell'articolo 359-bis attribuisce, infine, al p.m. la facoltà di disporre anche "oralmente", sempre in caso di rifiuto da parte del conducente indagato di sottoporsi all'accertamento dello stato di ebbrezza alcolica o di alterazione da stupefacenti ed ove vi sia fondato motivo che dal ritardo possa derivare grave o irreparabile pregiudizio alle indagini, l'accompagnamento coattivo dell'interessato presso il presidio ospedaliero più vicino e/o l'esecuzione delle operazioni di prelievo, con obbligo di darne successiva conferma per iscritto.

È evidente come la ratio ispiratrice dell'intervento additivo operato del legislatore vada ricercata nell'esigenza di assicurare l'acquisizione di elementi probatori utili ai fini dell'accertamento dei fatti che siano intrinsecamente suscettibili di venir meno con il trascorrere del tempo.

L'espresso richiamo operato ai commi 1 e 2 dell'art. 365 cod. proc. pen. con riferimento all'obbligo di richiedere alla persona indagata se sia assistito da un difensore di fiducia e, qualora la stessa ne sia priva, di designare un difensore di ufficio, nonché alla facoltà per il difensore di assistere al compimento dell'atto avvalora la natura di atti irripetibili ex lege del prelievo e degli accertamenti in esame [23] .

L'art. 359-bis, comma 3-bis cod. proc. pen. stabilisce, inoltre, che entro le quarantotto ore successive allo svolgimento delle operazioni (termine che appare ragionevole far decorrere dal momento di effettiva esecuzione del prelievo coattivo), il p.m. richieda la convalida del decreto e degli eventuali ulteriori provvedimenti adottati al giudice per le indagini preliminari, che provvede al più presto e comunque entro le quarantotto ore successive.

Le operazioni devono svolgersi nel rispetto dei commi 4 e 5 dell'art. 224-bis: sono, pertanto, vietate le operazioni che contrastano con espressi divieti posti dalla legge o che possono mettere in pericolo la vita, l'integrità fisica o la salute della persona o del nascituro, ovvero che, secondo la scienza medica, possono provocare sofferenze di non lieve entità; sotto il profilo modale, inoltre, le operazioni devono comunque essere eseguite nel rispetto della dignità e del pudore di chi vi è sottoposto, con preferenza, a parità di risultato, per le tecniche meno invasive.

Tali prescrizioni non risultano presidiate da alcuna espressa sanzione processuale; si ritiene, peraltro, che si tratti di veri e propri divieti probatori, la cui violazione determina l'inutilizzabilità degli elementi eventualmente acquisiti, ai sensi dell'art. 191 cod. proc. pen.[24] A differenza del precedente comma 3 dell'art. 359-bis cod. proc. pen., il nuovo comma 3-bis non opera alcun richiamo all'art. 224-bis, comma 2, cod. proc. pen. in ordine ai requisiti contenutistici previsti a pena di nullità del provvedimento. Tale profilo di apparente discrasia sembra, peraltro, superabile in forza del richiamo, operato dal comma 3-bis, al "decreto di cui al comma 2 della medesima norma, posto che, a sua volta, l'art. 359-bis, comma 2, cod. proc. pen. richiama espressamente l'art. 224-bis, comma 2 stesso codice ed i relativi contenuti, stabiliti a pena di nullità. In tal senso, dunque, sembra potersi dire che la fattispecie delineata dal comma 3-bis dell'art. 359-bis cod. proc. pen. costituisca una species dell'accertamento tecnico coattivo disciplinato dai commi precedenti, da ciò conseguendo l'applicazione anche delle altre disposizioni ivi richiamate.

La principale questione interpretativa, sul piano della disciplina processuale come sopra illustrata, concerne, peraltro, l'individuazione delle attività suscettibili di essere compiute "coattivamente", con particolare riferimento all'ammissibilità del prelievo ematico effettuato senza il consenso ed, altresì, al di fuori degli ordinari protocolli di pronto soccorso, nei confronti di un soggetto coinvolto in un incidente stradale e poi ricoverato.

In tal senso, non può che muoversi dal presupposto che la disciplina dei prelievi coattivi di materiale biologico, implicando una oggettiva restrizione della libertà personale, incide su un bene costituzionalmente tutelato dall'articolo 13 Cost., tanto da imporre la necessità di una tipizzazione legislativa dei casi e dei modi in cui la libertà personale può essere compressa.

Nell'analisi della materia, un fondamentale punto di riferimento è senza dubbio costituito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 238 del 9 luglio 1996, la quale, nel dichiarare l'illegittimità dell'art. 224, comma 2 cod. proc. pen., "nella parte in cui consente che il giudice, nell'ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell'indagato o dell'imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei "casi" e nei "modi" dalla legge", ha affermato che il prelievo ematico comporta certamente una restrizione della libertà personale, quando se ne renda necessaria l'esecuzione coattiva, perché la persona sottoposta all'esame peritale non acconsente spontaneamente al prelievo; tale restrizione "non solo interessa la sfera della libertà personale, ma la travalica perché, seppur in minima misura, invade la sfera corporale della persona, pur senza di norma comprometterne, di per sé, l'integrità fisica o la salute (anche psichica), né la sua dignità, in quanto pratica medica di ordinaria amministrazione (cfr. sentenza n. 194 del 1996) - e di quella sfera sottrae, per fini di acquisizione probatoria nel processo penale, una parte che è, sì, pressoché insignificante, ma non certo nulla". "È quindi operante nel caso la garanzia della riserva - assoluta - di legge, che implica l'esigenza di tipizzazione dei "casi e modi", in cui la libertà personale può essere legittimamente compressa e ristretta. Né tale rinvio alla legge può tradursi in un ulteriore rinvio da parte della legge stessa alla piena discrezionalità del giudice che l'applica, richiedendosi invece una previsione normativa idonea ad ancorare a criteri obiettivamente riconoscibili la restrizione della libertà personale".

Come osservato, in motivazione, da Sez. 4, n. 8041 del 21 dicembre 2011, dep. 2012, Pasolini, Rv. 252031, (cui si conforma anche Sez. 4, n. 1522 del 10 dicembre 2013, dep. 2014, Lo Faro, Rv. 258490), la sentenza della Corte Costituzionale n. 238 del 1996 "è giunta alla pronuncia di illegittimità per arginare l'utilizzo di provvedimenti coercitivi atipici, astrattamente riconducibili alla nozione di "provvedimenti . . .necessari per l'esecuzione delle operazioni peritali", senza che fosse prevista alcuna distinzione tra quelli incidenti e quelli non incidenti sulla libertà personale, così cumulandoli in una disciplina, connotata da assoluta genericità di formulazione e totale carenza di ogni specificazione dei casi e dei modi in presenza dei quali soltanto poteva ritenersi legittima l'esecuzione coattiva di accertamenti peritali mediante l'adozione, a discrezione del giudice, di misure restrittive della libertà personale. Carenza normativa a cui, peraltro, di recente il legislatore ha posto riparo con l'introduzione dell'art. 224-bis cod. proc. pen.".

In effetti, la citata decisione della Corte Costituzionale, nel censurare la genericità della disciplina del rito penale, ha riconosciuto come, ".... in un diverso contesto, che è quello del nuovo codice della strada (artt. 186 e 187), il legislatore - operando specificamente il bilanciamento tra l'esigenza probatoria di accertamento del reato e la garanzia costituzionale della libertà personale - abbia dettato una disciplina specifica (e settoriale) dell'accertamento (sulla persona del conducente in apparente stato di ebbrezza alcoolica o di assunzione di sostanze stupefacenti) della concentrazione di alcool nell'aria alveolare espirata e del prelievo di campioni di liquidi biologici, (prevedendo bensì in entrambi i casi la possibilità del rifiuto dell'accertamento, ma con la comminatoria di una sanzione penale per tale indisponibilità dei conducente ad offrirsi e cooperare all'acquisizione probatoria); disciplina - questa - la cui illegittimità costituzionale è stata recentemente esclusa da questa Corte (sentenza n. 194 del 1996, citata) proprio denegando, tra l'altro, la denunziata violazione dell'art. 13 Cost., comma 2, atteso che la dettagliata normativa di tale accertamento non consente neppure di ipotizzare la violazione della riserva di legge".

Lo stesso giudice delle leggi, dunque, ha riconosciuto, nella richiamata pronuncia (così come anche nella sentenza n. 194 del 1996), la legittimità di una disciplina del tipo di quella dettata dal codice della strada, che, nell'indicare le modalità degli accertamenti tecnici per rilevare lo stato di ebbrezza, non esige alcun preventivo consenso dell'interessato al prelievo dei campioni. Ciò che può essere opposto è il rifiuto al controllo; ma (come osserva C. Sez. 4, n. 8041/2012, già citata) "la stessa sanzione penale che accompagna tale condotta, sancendone il disvalore, risulta incompatibile con la pretesa di un esplicito consenso al prelievo dei campioni".

Tale è il quadro di riferimento nel quale la 1. n. 85 del 2009 (che fa seguito storicamente alle modifiche apportate dal d.l. n. 144 del 2005, convertito in 1. n. 155 del 2005, all'art. 349 cod. proc. pen., il cui comma 2-bis prevede lo strumento del prelievo coattivo di capelli o saliva ai fini identificativi dell'indagato: accertamento che, in caso di mancanza di consenso da parte di quest'ultimo, può essere esperito direttamente dalla polizia giudiziaria previa autorizzazione del p.m.) ha inteso ricondurre la materia del prelievo coattivo di materiale biologico nell'alveo segnato del rispetto dei parametri di legittimità costituzionale, dando attuazione alle indicazioni contenute nella citata sentenza n. 238/1996 della Corte Costituzionale attraverso una articolata disciplina, destinata a trovare applicazione sia nella fase dibattimentale sia in quella delle indagini preliminari.

In questa prospettiva, l'intervento operato con la 1. n. 41 del 2016, nell'estendere le disposizioni processuali in esame ai delitti colposi di cui agli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen. è destinato a riproporre anche nell'area dei predetti reati stradali le medesime problematiche interpretative già emerse all'indomani dell'entrata in vigore della 1. n. 85 del 2009.

In particolare, nell'affrontare il già descritto e fondamentale profilo critico nell'esegesi delle disposizioni in esame, occorre osservare che il richiamo vincolante, contemplato dal precetto costituzionale, ai "soli casi e modi" di restrizione della libertà personale previsti dalla legge importerebbe, secondo una tesi[25], il riconoscimento che l'espressa individuazione, effettuata dall'art. 224-bis cod. proc. pen. delle specifiche modalità con cui può procedersi al prelievo coattivo ("prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale") non sia suscettibile di estensione, trattandosi di individuazione non meramente esemplificativa, ma tassativa.

Da tale impostazione discende che, non essendo espressamente ricompreso fra le tipologie di prelievo consentite, il "prelievo ematico", pur costituendo indubbiamente lo strumento principe per affidabilità e attendibilità al fine di accertare la sussistenza dello stato di alterazione psicofisica derivante dall'assunzione di alcool o di sostanze stupefacenti, non sarebbe suscettibile di esecuzione coattiva, neppure attraverso il meccanismo disciplinato dagli artt. 224-bis e 359-bis cod. proc. pen.

Vi è da osservare, in proposito, che il dato testuale della norma codicistica non è tale da dissolvere ogni dubbio in ordine al carattere, tassativo o meno, delle tipologie di prelievo ivi contemplate, pur se va registrato come in dottrina la tesi prevalente sia orientata nel senso della tassatività, ritenendosi che, ove l'elencazione di cui all'art. 224-bis, comma 1, cit. avesse natura meramente esemplificativa, verrebbe inevitabilmente vulnerata la riserva di legge prevista dall'art. 13, comma 2, Cost. con riguardo ai casi e modi di limitazione della liberta personale[26].

Sembra difficilmente denegabile, peraltro, che il profilo di maggiore criticità che incontra ogni tentativo di delimitare il perimetro degli atti idonei ad incidere sulla libertà personale consentiti anche senza consenso è costituito dal riferimento, unitamente al prelievo di campioni biologici, alla categoria degli "accertamenti medici": una formula ispirata all'esigenza di rendere il tessuto normativo più agevolmente adattabile alla continua evoluzione degli strumenti e delle metodologie accertative proprie della scienza medica, insuscettibili di essere racchiusi in rigidi schemi definitori; nondimeno, una formula di cui è stata stigmatizzato il tasso di indeterminatezza, vieppiù accresciuto dall'assenza di indicazioni in ordine ai profili finalistici che dovrebbero orientare l'indagine di tipo medico (la tipizzazione del profilo del DNA si riferisce, infatti, esclusivamente ai prelievi contemplati dalla norma, onde l'esecuzione degli accertamenti medici è legittima anche al di fuori da tale finalità).

Muovendo da tali premesse, non si è mancato di paventare che nel capiente crogiolo degli "accertamenti medici" possa essere riversato, accanto alle più varie metodologie diagnostiche ("dalle tecniche di percezione visiva alla somministrazione di sostanze fino all'introduzione di strumenti all'interno del corpo dell'individuo[27]), anche la stessa ipotesi del prelievo ematico[28].

Va notato che proprio in questo senso sembrano dirigersi le indicazioni operative di alcuni uffici di Procura della Repubblica[29] in cui si afferma esplicitamente che i prelievi ematici o di altri liquidi biologici devono ritenersi consentiti, sulla base del rilievo - additivo rispetto alle considerazioni illustrate - che in relazione ad essi non appare ostativa, quantomeno in linea generale e fatte salve specifiche indicazioni contrarie riferite allo stato di salute personale del singolo indagato, neppure la disposizione dell'art. 224-bis c. 4 cod. proc. pen., in base alla quale "non possono, in alcun caso essere disposte operazioni che contrastano con espressi divieti, posti dalla legge o che possano mettere in pericolo la vita, l'integrità fisica o la salute della persona o del nascituro, ovvero che, secondo la scienza medica possono provocare sofferenze di non lieve entità".

"L'eventuale esclusione di tale intervento, invero", si osserva, "vanificherebbe la portata innovativa delle citate norme, che sono state appositamente modificate dal legislatore al fine di consentire l'accertamento dei reati in esame, altrimenti non esperibile. Peraltro, la previsione di un potere coercitivo in capo all'autorità giudiziaria non avrebbe attuazione pratica, giacche non sarebbe possibile accertare, contro la volontà dell'indagato, la sussistenza delle circostanze aggravanti dei reati da lui commessi"[30].

SEZIONE IV LEGISLAZIONE COMPLEMENTARE

  • madre portatrice
  • responsabilità penale
  • maternità
  • falsità in atti

CAPITOLO I

LA RILEVANZA PENALE DELLA SURROGAZIONE DI MATERNITÀ EFFETTUATA ALL'ESTERO

(di Giuseppe Marra )

Sommario

1 Le vicende esaminate. - 2 I reati contestati. - 3 Le prime pronunce della Cassazione.

1. Le vicende esaminate.

I casi giudiziari affrontati dai giudici di merito e solo di recente dalla Corte di cassazione presentano numerosi elementi in comune, ragione per la quale i fatti possono essere indistintamente riassunti nei seguenti termini: una coppia di coniugi italiani si reca in un Paese estero, molto spesso in Ucraina, per ivi procedere a fecondazione eterologa (con ovodonazione da parte di una terza donna) e successiva gravidanza con la cosiddetta maternità surrogata, perché in quel Paese tale pratica non risulta vietata a certe condizioni (che il 50% del patrimonio genetico del nascituro provenga dalla coppia committente), a differenza di quanto è invece stabilito dalla legge italiana, precisamente dall'art. 12, comma sesto, della L. 19 febbraio 2004, n. 40 (fattispecie che fa espresso divieto della surrogazione di maternità). A seguito della nascita del minore grazie alla suddetta procedura, la madre naturale, cittadina del Paese estero, rilascia, in base alla lex loci, una dichiarazione con la quale acconsente che i due coniugi italiani siano registrati come genitori per poi procedere ad iscrivere in quei termini la nascita del bambino presso il locale ufficio dello Stato civile. Il certificato di nascita rilasciato successivamente ai coniugi italiani indica, alla stregua della normativa vigente nel Paese estero, come genitori la coppia di italiani, senza alcuna indicazione circa l'utilizzo della pratica di surrogazione di maternità.

Successivamente i coniugi si presentano presso l'ambasciata o il consolato italiano producendo il certificato di nascita del figlio, quello dal quale essi risultano i genitori del minore registrato presso l'ufficio dello stato civile del luogo di nascita, e ciò al fine dell'inoltro del predetto certificato all'ufficiale dello stato civile in Italia per la successiva trascrizione nei relativi registri del Comune di residenza di uno o di entrambi i genitori, ai sensi degli art. 15 e 17 del D.P.R. n. 396/2000. In quel contesto le coppie richiedenti la trascrizione tacciono circa l'utilizzo delle pratiche di surrogazione di maternità; il funzionario diplomatico, quando ritiene esserci dei dubbi sulla reale genitorialità dei richiedenti, è solito porre delle domande circa l'eventuale surrogazione di maternità, a fronte delle quali i genitori c.d. "sociali" di regola omettono di rispondere o rispondono in maniera non veritiera.

2. I reati contestati.

Per questi fatti la coppia italiana viene imputata in concorso di tutti o solo di alcuni dei seguenti reati: del delitto di cui all'art. 12, comma sesto, della L. n. 40 del 2004 (fattispecie che fa divieto della surrogazione di maternità); di quello previsto dall'art. 567, comma secondo, c.p. (alterazione di stato)[1]; nonché di quelli di cui agli artt. 495 c.p. (false dichiarazioni a P.U. sullo stato proprio o altrui) ovvero 48, 476 c.p. (induzione in errore del P.U. per commettere un falso materiale).

Le condotte contestate sono perciò quelle avvenute all'estero, ossia l'essersi avvalsi della procedura di surrogazione di maternità, nonché quella successiva consistita nell'essersi recati presso l'ambasciata o il consolato italiano muniti del certificato di nascita del minore, che li vede entrambi genitori in base alla legge straniera che consente quella pratica, al fine di chiedere l'inoltro all'ufficiale dello Stato civile italiano per la trascrizione nei registri del comune di residenza. Da qui la rilevanza dell'art. 9 cod. pen. che detta la disciplina dei delitti comuni del cittadino italiano compiuti all'estero.

Va però evidenziato che il alcuni casi il P.M. procedente ha ritenuto che tali condotte potessero essere inquadrate nella disciplina di cui all'art. 6, comma 2, cod. pen., in quanto i reati erano stati programmati e concordati in Italia, e quindi in parte commessi nel territorio italiano. Sotto altro profilo è stato inoltre osservato, con riguardo in particolare all'art. 567, comma 2, cod. pen. che la sua consumazione avverrebbe comunque in Italia, al momento della trascrizione dell'atto di nascita nel registro dello Stato civile del comune di residenza, rimanendo invece irrilevante la conformità dell'atto di nascita formato all'estero con la lex loci, qualora risulti pacificamente la non corrispondenza di quell'atto alla realtà naturale della procreazione.

Per comprendere appieno il contorno ordinamentale anche sovranazionale che può incidere sulla rilevanza penale di determinate condotte, va evidenziato che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione civile, un certificato di nascita, seppure rilasciato all'estero secondo la legge dello Stato di nascita del minore, ma riportante un'attestazione sullo status del minore oggettivamente non rispondente al vero non potrebbe mai essere trascritto dall'ufficiale dello Stato civile italiano per l'ipotesi di nascita tramite il c.d. "utero in affitto", e ciò per la contrarietà all'ordine pubblico interno derivante dal divieto, tuttora vigente, di tale pratica ai sensi dell' art. 12, L. 19 febbraio 2004, n. 40, divieto presidiato da una sanzione penale (si veda Cass.. civ., Sez. 1, 11 novembre 2014, n. 24001, P.D. ed altro c/o M.R. in qualità di tutore di P.C., Rv. 633634).

Sul tema si è anche pronunciata la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo con due sentenze "gemelle" rese il 26 giugno 2014 nei confronti della Francia, sui ricorsi n. 65192/2011 (Menneson c/o Francia) e n. 65941/2011 (Labassee c/o Francia) in casi riguardanti il rifiuto di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile francese degli atti di nascita formatisi all'estero a seguito di procreazione con maternità surrogata. La Corte E.D.U. ha riconosciuto un ampio margine di apprezzamento discrezionale ai singoli Stati sul tema della liceità della maternità surrogata, viste le implicazioni di ordine etico della materia.

Tuttavia la Corte ha rinvenuto una violazione dell'art. 8 CEDU con riguardo alla posizione dei minori stessi, in quanto ".. . .gli effetti del mancato riconoscimento nel diritto francese del legame di filiazione tra i minori così concepiti e i genitori intenzionali non si limitano alla situazione di questi ultimi, che sono gli unici ad avere scelto le modalità di procreazione contestate loro dalle autorità francesi: tali effetti riguardano anche la situazione dei minori stessi, il cui diritto al rispetto della vita privata, che implica che ciascuno possa stabilire in sostanza la propria identità, ivi compresa la sua filiazione, risulta significativamente compromesso. Si pone dunque una questione grave di compatibilità di tale situazione con l'interesse superiore dei minori, il cui rispetto deve guidare ogni decisione che li riguarda. Questa analisi assume un'importanza particolare quando, come nel caso di specie, uno dei genitori intenzionali è anche genitore del minore ".

3. Le prime pronunce della Cassazione.

La prima decisione su un caso di maternità surrogata in Ucraina è stata pronunciata dalla sentenza Sez. 6, n. 8060 del 11 novembre 2015, dep. 2016, P.M. in proc. L. e altro, Rv. 266167, con la quale la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Bologna avverso una sentenza di assoluzione emessa nei confronti di due coniugi italiani imputati ex art. 567, comma 2, cod. pen., i quali, dopo essersi presentati come genitori biologici di un minore nato mediante maternità surrogata all'estero, a seguito di appositi avvertimenti da parte dell'autorità consolare circa le eventuali conseguenze penali, avevano in un secondo momento convertito la propria richiesta di trascrizione dell'atto di nascita in un'istanza diversa, preordinata a far figurare come genitore del minore il solo marito, l'unico provvisto effettivamente di un legame genetico con il nato. A fronte di ciò, l'ufficiale di stato civile, pur reso edotto di tali circostanze, aveva autonomamente proceduto a trascrivere l'atto che qualificava il neonato come figlio di entrambi i coniugi.

La sentenza di cui sopra ha in primo luogo esaminato la struttura e il bene giuridico tutelato dal reato previsto dall'art. 567, co. 2, c.p., il quale "si concreta in un falso ideologico funzionale ad una alterazione dello status di filiazione ascrivibile al neonato. Alterazione che viene a realizzarsi in esito ad una registrazione anagrafica resa, grazie al falso, in termini distonici rispetto al naturale rapporto di procreazione . . .", affermando di conseguenza che "per dare luogo alla alterazione di stato, dunque, occorre che la condotta di falso si muova all'interno della formazione dell'atto di nascita, concretandosi il reato con la registrazione dell'atto stesso. La registrazione anagrafica costituisce dunque lo spartiacque essenziale tra le possibili valutazioni interpretative inerenti la medesima condotta di falso. . .", mentre, ad avviso della Corte si poteva ritenere " . . . l'irrilevanza della coerenza dell'atto di nascita formato in Ucraina alla disposizioni normative vigenti nel detto Stato, laddove, come è pacifico nella specie, quanto emerge dalla relativa iscrizione anagrafica non coincida con la verità in fatto della procreazione."

Il passaggio che più rileva in termini giuridici è quello in cui la Cassazione ha affermato che: " . . .la valutazione legata al giudizio sulla responsabilità penale, prende le mosse dall'idea in forza alla quale lo stato di filiazione nell'ordinamento italiano presuppone a monte la coincidenza tra discendenza naturale ed emergenza documentale sottesa alla formazione dell'atto di nascita sì che, ogni qual volta quest'ultima risulti sfalsata in fatto da effetti distonici anche legittimi in forza di quanto previsto dall'ordinamento straniero, resta ferma la violazione del precetto penale che mira, come si è detto, a tutelare non solo le situazioni giuridiche consequenziali alla iscrizione anagrafica ma anche quelle in fatto legate alla verità naturale della procreazione.".

In sostanza secondo la sentenza n. 8060/2016, era corretto ipotizzare in astratto l'integrazione del delitto di cui all'art. 567, comma 2, cod. pen. da parte dei coniugi italiani i quali, in un primo momento, avevano chiesto all'ufficiale consolare di trasmettere all'ufficiale dello stato civile italiano per la trascrizione il certificato di nascita formatosi in Ucraina, da cui essi risultavano entrambi i genitori naturali del minore. Tuttavia nel caso di specie, essi dovevano essere assolti, perché, in un secondo momento, dopo gli ammonimenti dell'ufficiale consolare, avevano dichiarato al predetto funzionario il vero, facendo così emergere che il legame biologico era solo con il padre. Era perciò venuta meno la capacità ingannatoria dell'atto di nascita formatosi all'estero nei confronti dell'ufficiale dello stato civile nazionale, che aveva comunque ritenuto di trascrivere l'atto di nascita falso in forza di una sua personale valutazione del dato normativo di riferimento, ragion per cui era corretta l'assoluzione perché il fatto non costituiva reato.

La sentenza Sez. 5, n. 13525 del 10 marzo 2016, P.M. in proc. E. e altro, Rv. 266672, ha invece respinto il ricorso del P.M. avverso l'assoluzione di una coppia italiana recatasi sempre in Ucraina per avvalersi della procedura della maternità surrogata, e poi imputata dei delitti di cui agli artt. 12, comma sesto, L. 19 febbraio 2004, n. 40 e 567, comma secondo, 495, comma 2, n. 1, 48, 476 cod. pen., partendo da presupposti giuridici del tutto diversi da quelli sopra evidenziati.

In particolare: con riguardo al delitto di cui all'art. 12, legge n. 40/2004, la Suprema Corte ha escluso la punibilità dei coniugi italiani ravvisando un errore inevitabile sulla legge penale, in particolare sull'art. 9 cod. pen., in quanto la coppia avrebbe agito all'estero nella convinzione che, per la loro punibilità per il delitto di cui all'art. 12, commi 6, L. n. 40/2004, sarebbe stata necessaria la previsione come reato della surrogazione di maternità anche nel locus commissi delicti, ossia in Ucraina. Detta convinzione costituirebbe, nel caso in esame, un tipico esempio di errore inevitabile sul precetto secondo la nota sentenza Corte Cost. n. 364/1988, in quanto il cittadino non è in grado di comprendere il significato della disposizione penale a causa di incertezze di interpretazione giurisprudenziale. Va evidenziato che nella fattispecie la Cassazione ha applicato la scusante dell'inevitabilità dell'ignoranza ad un errore su una disposizione penale non incriminatrice (l'art. 9 cod. pen.), che disciplina, in generale, la punibilità di un reato comune commesso all'estero dal cittadino, e non invece sulla qualificazione come illecito penale di una determinata condotta.

Quanto all'imputazione per il delitto di alterazione di stato, la Suprema Corte ha ritenuto che il comportamento dei coniugi italiani sopra descritto non poteva essere considerato "una falsa dichiarazione", in quanto le dichiarazioni di nascita relative a cittadini italiani (e tale era il minore interessato, in quanto figlio di padre italiano: art. 1, comma 1, lett. a) della 1. n. 91 del 1992) nati all'estero sono rese all'autorità consolare (comma 1) e devono farsi secondo le norme stabilite dalla legge del luogo alle autorità locali competenti, se ciò è imposto dalla legge stessa.

Per questi motivi, la Quinta sezione pur osservando quanto al delitto di alterazione di stato di cui 567, comma secondo, c.p., che, ai fini della configurabilità di tale fattispecie, è necessaria un'attività di alterazione di stato che si caratterizzi per l'idoneità a creare una falsa attestazione, con attribuzione al figlio di una diversa discendenza in conseguenza dell'indicazione di un genitore diverso da quello naturale, hanno poi ritenuto che il reato del quale si discute non era configurabile in relazione alle false dichiarazioni incidenti sullo stato civile di una persona, rese quando l'atto di nascita era già formato. Ciò perché " . . . alla stregua della incontroversa ricostruzione dei fatti operata dalla sentenza impugnata, non è dato cogliere alcuna alterazione dello stato civile del minore nell'atto di nascita del quale si discute, che, al contrario, risulta perfettamente legittimo alla stregua della normativa nella quale doverosamente è stato redatto ".

La Corte ha poi ritenuto che nella specie non ricorreva neppure il reato di cui agli artt. 48 e 476 c.p., giacchè l'ufficiale dello stato civile italiano non aveva formato alcun atto falso, ma si era limitato a procedere alla trascrizione dell'atto di nascita, riguardante un cittadino italiano, formato all'estero in osservanza della lex loci. Al pari non risultava integrato neppure l'art. 495 c.p. che presuppone una falsa dichiarazione al P.U., ad avviso della Corte in realtà mai intervenuta, dato che i coniugi si erano limitati a non rispondere alla domanda circa l'essersi avvalsi della procedura della maternità surrogata.

Su questa linea interpretativa si muove anche la sentenza Sez. 6, n. 48696 del 11 ottobre 2016, P.M. in proc. M. e altro, che analogamente ai due precedenti sopra citati ha affrontato il caso di una coppia di italiani recatisi in Ucraina per procedere alla fecondazione eterologa (con ovodonazione) e successiva gravidanza tramite maternità surrogata. I coniugi erano stati incolpati del reato di cui all'art. 567, comma 2, cod. pen. (eventualmente da riqualificare nell'art. 495, comma 2, n. 1, cod. pen.), ritenendo, ad avviso del P.M., che sussistesse la giurisdizione nazionale ai sensi dell'art. 6 cod. pen., in quanto l'attività decettiva non si era esaurita all'estero, ma si era sviluppata e conclusa sul territorio italiano, nel momento in cui l'atto di nascita ucraino era stato spedito in Italia per la successiva trascrizione nei registri dello stato civile nazionale.

I giudici di merito avevano assolto la coppia sull'assunto che non risultava provato il dolo del delitto di cui all'art. 567, comma 2, cod. pen., ritenendo che gli imputati avessero agito nella convinzione che la certificazione di nascita rilasciata in Ucraina e presentata all'Ambasciata italiana per l'inoltro fosse del tutto regolare, e dunque si poteva ragionevolmente dubitare circa la consapevolezza di commettere un'alterazione di stato.

La Suprema Corte, pur condividendo le valutazioni in ordine alla mancanza di dolo, ha però ritenuto di precisare che in ogni caso difettava pure l'elemento oggettivo del reato contestato, anche tenuto conto dell'evolversi nel tempo del concetto di stato di filiazione, " . . . non più legato ad una relazione necessariamente biologica, ma sempre più considerato quale legame giuridico ". Infatti il certificato di nascita formatosi legittimamente in Ucraina secondo la lex loci non poteva per questa ragione considerarsi ideologicamente falso, e non integrava perciò "una falsa certificazione o falsa attestazione" prevista dall'art. 567, comma 2, cod. pen., impregiudicata ogni valutazione delle competenti autorità amministrative circa la sua trascrivibilità o meno nei registri dello stato civile nazionale.

Dall'analisi delle tre sentenze che hanno affrontato il problema della rilevanza penale della c.d. maternità surrogata compiuta all'estero, emerge l'esistenza di un inconsapevole contrasto tra la sentenza n. 4060/2016 e le successive, che hanno invece escluso in radice ogni rilevanza penale alle condotte poste in essere (più o meno uguali tra loro), dando rilievo da un lato al dubbio sull'esistenza del dolo, in ragione delle incertezze normative, e dall'altro al profilo formale della regolare formazione dell'atto di nascita all'estero secondo la lex loci.

  • immigrazione
  • migrazione familiare
  • procedura penale
  • traduzione
  • unione civile
  • espulsione

CAPITOLO II

LA DISCIPLINA PENALE E PROCESSUALE IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE

(di Assunta Cocomello )

Sommario

1 Premessa. - 2 La giurisprudenza sul soccorso dei migranti in acque internazionali: a) la giurisdizione dello Stato italiano. - 3 Espulsione e ricongiungimento familiare alla luce delle nuove diposizioni della legge n. 76 del 2016 sul "contratto di convivenza". - 3.1 La precedente giurisprudenza della Corte di cassazione. - 3.2 La giurisprudenza successiva alla legge n. 76 del 2016 in materia di unioni civili. - 4 La posizione processuale dell'imputato alloglotta: l'abnormità dei provvedimenti fondati "sul mero dubbio sulla conoscenza della lingua italiana" e le ultime pronunce di legittimità su traduzione degli atti e diritto all'interprete.

1. Premessa.

La disciplina penalistica dell'immigrazione è da sempre caratterizzata da una continua evoluzione normativa, finalizzata a fornire adeguate risposte alle pressanti esigenze di controllo del fenomeno della immigrazione irregolare ed alle sue molteplici conseguenze. Data la portata del fenomeno - che esorbita i confini nazionali e involge aspetti riguardanti diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti - a tali frequenti modifiche legislative si accompagnano numerosi ed inevitabili interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia. In tale panorama, alla giurisprudenza di legittimità è affidato il compito, non solo di fornire un'interpretazione delle disposizioni in materia di immigrazione, sostanziali e processuali, conforme ai principi fondamentali, costituzionali ed europei, ma anche, come vedremo nei paragrafi che seguono, di offrire soluzioni che garantiscano un equilibrio e un contemperamento tra le esigenze di ordine pubblico, cui risultano ispirati alcuni interventi normativi, e la tutela dei diritti dei cittadini stranieri alla permanenza nel territorio dello Stato, ove ricorrano esigenze umanitarie, come ad esempio lo status di rifugiato, o la necessità di salvaguardare la conservazione dei legami familiari.

2. La giurisprudenza sul soccorso dei migranti in acque internazionali: a) la giurisdizione dello Stato italiano.

Il naufragio, a largo delle nostre coste, di imbarcazioni che trasportano stranieri e la conseguente perdita di un numero impressionante di vite umane, è un fenomeno di triste attualità, dinanzi al quale il nostro Stato tenta di intervenire con ogni strumento possibile, non da ultimo, quello della repressione dei reati configurabili in tale contesto, mediante l'individuazione e la punizione dei responsabili.

Anche la giurisprudenza di legittimità ha dato il suo prezioso contributo affrontando alcune interessanti questioni giuridiche in materia, prima fra tutte quella relativa alla sussistenza della giurisdizione dello Stato italiano in relazione al reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, nella particolare ipotesi in cui, a seguito di naufragio o di abbandono dei migranti su imbarcazioni inadeguate a raggiungere le coste, gli stessi siano stati soccorsi in acque internazionali e tradotti sulla terraferma. La giurisdizione del giudice italiano, infatti, è stata sovente messa in dubbio, anche nella fase cautelare dei relativi processi a carico dei c.d. scafisti, sul presupposto che, essendo il soccorso ed il conseguente ingresso coordinato da militari italiani, la condotta illecita posta in essere dai trafficanti si esaurirebbe in acque internazionali, e "neanche un segmento di essa può dirsi consumato nello Stato".

La Suprema Corte, superando un pregresso e diverso orientamento sul punto, con argomentazioni giuridiche differenti da quelle fino ad ora adottate, giunge, invece, all'affermazione della giurisdizione dello Stato italiano, sia in relazione al reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, sia in relazione a quello associativo, finalizzato al favoreggiamento medesimo (Sez. 1, 8 aprile 2015, n. 20503, Iben Massaoud ed altri, Rv. 263670; Sez. 1, 28 febbraio 2014, n. 14510, Haji Hassan, n.m.).

Il percorso ermeneutico seguito dalla Corte muove dalla premessa che la condotta della "nave madre" che salpa dalle coste del continente africano e si esaurisce con l'abbandono dei clandestini in acque extraterritoriali, facendo sì che le condotte terminali di sbarco siano apparentemente riconducibili all'attività lecita delle navi dei soccorritori, deve essere ricostruita come una "pianificazione complessiva", unitaria ed organica "frutto di un preciso disegno" del quale, continua la Corte, fa parte anche l'azione di soccorso, prevista e voluta dai trafficanti, che al fine di provocarlo, pongono volontariamente a rischio la vita delle persone trasportate .

Sotto un profilo più strettamente giuridico, pertanto, l'azione di soccorso che consente di fatto l'ingresso dei migranti nel nostro territorio, deve essere imputata a chi abbia organizzato ed attuato il viaggio, secondo il principio "causa causae est causa causati", dovendosi ritenere, ai sensi dell'art. 54, comma 3, cod. pen. "azione dell'autore mediato", operante, in ossequio alle leggi del mare, in uno stato di necessità provocato e strumentalizzato, dinanzi al quale l'intervento è doveroso ai sensi della Convenzione di Amburgo e della convenzione di Montego Bay, nonostante la consapevolezza dell'illegalità dell'ingresso.

Deve ritenersi, pertanto che, ai sensi dell'art. 6 cod. pen., un rilevante segmento della condotta tipica del reato sia, in tal senso, avvenuto sotto la giurisdizione italiana che risulta, pertanto, sussistente.

La Suprema Corte, inoltre, consapevole della rilevanza pratica dell'affermazione di tale principio di diritto- sulla base del quale si cancella ogni dubbio sulla possibilità per il nostro Stato di perseguire uno dei più importanti fenomeni criminali dell'ultimo ventennio- coglie l'occasione per fare chiarezza su un proprio precedente (Sez. 1, 28 ottobre 2003, n. 5583/04, P.G. in proc. Efstathiadis, Rv. 226953) nel quale veniva negata la giurisdizione per il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina in ipotesi analoga a quella del caso in esame, precisando che tale ultima pronuncia riguardava fattispecie diversa, in cui lo sbarco era stato ordinato dal comandante della nave ignaro della presenza a bordo di clandestini e, pertanto, in tal caso, l'azione di sbarco non era da ricondurre ad uno "stratagemma preordinato del trasportatore", ma alla volontà del comandante del mercantile nel quale, a sua insaputa, erano stati nascosti dei migranti irregolari, talchè "si era innestata nel decorso causale della condotta di favoreggiamento un'interruzione/deviazione del programma criminoso con conseguente impossibilità di imputare lo sbarco agli organizzatori dell'immigrazione clandestina".

Come sopra evidenziato, la giurisprudenza di legittimità ha affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano anche in relazione alle ipotesi associative finalizzate alla commissione di reati in violazione delle norme sull'immigrazione clandestina, anche se ha fondato tali decisioni su un diverso profilo argomentativo.

In particolare, per quanto concerne il reato di cui all'art. 416 cod. pen., nella ipotesi di associazione per delinquere organizzata all'estero e finalizzata all'ingresso illegale nel territorio dello Stato di cittadini extracomunitari, la Suprema Corte fonda la sussistenza della giurisdizione italiana sull'assunto che trattasi di reato transnazionale, secondo la definizione di esso offerta dall'art. 3 della legge 16 marzo 2006, n. 146, in materia di Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall'Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001, in quanto riconducibile "a gruppo criminale organizzato in altro Stato, ma che dispiega i suoi effetti in Italia" e che, pertanto, in relazione ad esso trova applicazione l'art. 7, n. 5 cod. pen., in forza dell'art. 15, comma 2, lett. c) della Convenzione delle Nazioni Unite di Palermo in materia di criminalità organizzata transnazionale, ratificata dallo Stato italiano con la suddetta legge n. 146 del 2006 (Sez. 1, n. 18354 del 11 marzo 2014, P.M. in proc. Hamada, Rv. 262543; Sez. 1, n. 20503 del 8 aprile 2015, Iben Massaoud ed altri, Rv. 263671).

b) prova del reato di favoreggiamento: utilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali dei migranti soccorsi.

La peculiarità della situazione di fatto nella quale quasi quotidianamente si consumano i delitti di omicidio colposo di centinaia di migranti, naufragio colposo, sequestro di persona di cittadini extracomunitari (molti di questi minori degli anni quattordici) e di favoreggiamento della illegale immigrazione, rende estremamente difficoltoso raccogliere elementi probatori idonei a sostenere l'accusa nei confronti dei responsabili di tali reati e, nella maggior parte dei casi, l'attività investigativa, almeno in una prima fase, si fonda quasi esclusivamente sulle sommarie informazioni rese dai naufraghi/immigrati, sopravvissuti, tramite le quali vengono identificati i comandanti delle imbarcazioni e gli altri concorrenti, a vario titolo, nella realizzazione dei suddetti reati.

Proprio sotto tale profilo, la giurisprudenza di legittimità è intervenuta affermando la piena utilizzabilità, ai fini della prova del delitto di favoreggiamento di cui all'art. 12.., delle sommarie informazioni e delle deposizioni,in sede d'incidente probatorio, rese dai naufraghi/immigrati, escludendo che questi ultimi possano ritenersi soggetti imputati di un reato collegato, nella specie quello di ingresso illegale di cui all'art. 10-bis del D.lgs. n. 286 del 1998 (Sez. 1, n. 39719 del 1 ottobre 2015, dep. 2016, Mohammed, Rv. 267809).

A tali rilevanti conclusioni la Corte giunge tramite un duplice percorso argomentativo.

Preliminarmente, esclude che il naufrago/immigrato, che, abbandonato dallo scafista in acque internazionali, raggiunge le coste dello Stato italiano a seguito di soccorso, possa essere imputato del reato di cui all'art. 10-bis d.lgs. n. 286 del 1998, in quanto, il suo ingresso nel territorio dello Stato è avvenuto nell'ambito delle attività di soccorso immediatamente apprestate dai mercantili che hanno effettuato il recupero in mare e poi dalle forze militari intervenute e, pertanto, tale ingresso non può ritenersi consumato volontariamente, ma deve ritenersi coatto. Inoltre, la condotta tenuta dai migranti sino all'intervento dei soccorsi, seppure certamente ispirata dall'intenzione di fare ingresso nel territorio italiano, non ha raggiunto la soglia minima di imputabilità in relazione al reato di cui all'art. 10-bis d.lgs n. 286 del 1998, per il quale, trattandosi di fattispecie contravvenzionale, non è configurabile il tentativo.

Analoghe argomentazioni la Corte utilizza nella fattispecie di ingresso di migranti avvenuto nell'ambito dell'attività di polizia giudiziaria, ovvero nei casi in cui la polizia marittima insegua, nelle acque antistanti la costa, un'imbarcazione non italiana con numerosi cittadini stranieri a bordo, e la scorti, per i necessari accertamenti, in un porto italiano.

Posta, quindi, la premessa giuridica in base alla quale, sia il migrante - naufrago, che quello condotto dalle forze militari per accertamenti sulla sicurezza e la regolarità delle imbarcazioni, non siano imputabili del reato di ingresso illegale nel territorio italiano, la giurisprudenza di legittimità sostiene che le sommarie informazioni rese da tali soggetti siano pienamente utilizzabili nei processi di favoreggiamento o di associazione per delinquere finalizzata all'ingresso illegale di stranieri nel territorio dello Stato, in quanto non violano il disposto dell'art. 63, comma 2, cod. proc. pen poiché non possono considerarsi rese da imputati di procedimento connesso.

Per quanto riguarda, inoltre, la prova del reato associativo in materia di immigrazione, la giurisprudenza di legittimità recupera, alcuni principi già affermati in relazione ai reati associativi in genere, come ad esempio quello che dalla consumazione di taluno dei reati fine può essere desunta la prova della partecipazione al reato associativo. In particolare la Corte precisa che la partecipazione ad un'associazione a delinquere finalizzata a procurare l'ingresso irregolare di stranieri nel territorio dello Stato, può essere ritenuta anche in base alla commissione di un'unica ipotesi di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, purché essa sia dimostrativa, con portata concludente, della sussistenza del vincolo associativo. Inoltre, in subiecta materia, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito che la condotta partecipativa nel reato associativo si concretizza nella prestazione, da parte del soggetto intraneo, di un effettivo contributo, che può essere anche minimo e di qualsiasi forma e contenuto, purchè destinato a fornire efficacia al perseguimento degli scopi dell'associazione e, in base ha tale principio, ha ritenuto integrata la condotta associativa nei confronti di coloro che provvedevano al "mero controllo" dei clandestini trasportati sulle imbarcazioni, ed alla distribuzione, in favore di questi ultimi, dei generi di prima necessità, durante la navigazione (Sez. 1, n. 44016 del 21 settembre 2011, Abouuelaid Ahmed, n.m.)

3. Espulsione e ricongiungimento familiare alla luce delle nuove diposizioni della legge n. 76 del 2016 sul "contratto di convivenza".

Un peculiare aspetto della disciplina penalistica in materia di immigrazione è quello della necessità di un proficuo coordinamento tra il procedimento penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 286 del 1998 ed il parallelo procedimento amministrativo di espulsione dell'immigrato irregolare. Tale caratteristica, tuttavia, si traduce in una continua "contaminazione" tra la dimensione amministrativa del procedimento e quella processual- penalistica, dimensione che determina molteplici problemi di equilibrio tra la necessità dello Stato di assicurare, tramite l'espulsione, il controllo della immigrazione irregolare ed il diritto di difesa dello straniero, per la cui tutela è necessario assicurare a quest'ultimo, la possibilità di essere presente sul territorio nazionale durante le varie fasi del procedimento. La disciplina in esame, inoltre, involgendo temi concernenti diritti fondamentali, è costellata da numerosi interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia, con i quali il diritto interno deve continuamente confrontarsi.

In tale panorama si colloca la disciplina in materia di espulsione a titolo di sanzione alternativa o sostitutiva alla detenzione, disciplinata dall' art. 16 del d.lgs. n. 286 del 1998, il quale sancisce, in relazione a taluni reati del Testo Unico, l'obbligatorietà del provvedimento di espulsione, da applicarsi nell'ultimo biennio di pena ai condannati privi di titolo di soggiorno, salva la presenza di cause ostative, tra le quali figura, all'art. 19, comma 2, lett. c) del medesimo decreto, quella dello straniero convivente con parenti entro il quarto grado e "con il coniuge di nazionalità italiana".

Ed è proprio in relazione all'interpretazione dell'ampiezza di tale ultima disposizione che si colloca la pronuncia della Corte di cassazione, Sez. 1, n. 44182 del 27 giugno 2016, Zagoudi, Rv. 268038, che, anche in ragione della riforma in materia di unioni civili di cui alla legge n. 76 del 2016, ribaltando il precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità, afferma che anche la convivenza "more uxorio" dello straniero con un cittadino dello Stato, è condizione ostativa all'espulsione a titolo di misura alternativa alla detenzione, alla luce dei principi di cui alla legge 20 maggio 2016 n. 76.

3.1. La precedente giurisprudenza della Corte di cassazione.

Alla vigilia della pronuncia della Sezione Prima n. 44182/16, il tema della rilevanza della mera convivenza di fatto ai fini della applicabilità del provvedimento di espulsione ai sensi dell'art. 16 del T.U. sull'immigrazione, era stato più volte lambito da interventi della Corte costituzionale, nonché affrontato dalla giurisprudenza di legittimità. Il Giudice delle Leggi, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della disciplina in esame ha evidenziato, con la sentenza del 20 luglio 2000, n. 313, come la limitazione del divieto di espulsione solo allo "straniero coniugato" con cittadino italiano, riguardi persone che si trovano in una situazione di certezza di rapporti giuridici, assente nella convivenza more uxorio, essendo necessario, per il legislatore, assicurare l'esclusione di facili elusioni della disciplina stabilita per il controllo dei flussi migratori. La Corte Costituzionale, inoltre, aveva evidenziato la necessità, insita in tale disciplina, di contemperare le esigenze di ordine pubblico con quelle di salvaguardia dell'unità familiare. Analogamente la Corte di Strasburgo, nella sentenza El Boujaidi c. Francia, 26 settembre 1997, nonché nelle successive 30 giugno 2005, Bove c. Italia; 7 aprile 2009, Cherif ed altri c. Italia; 12 gennaio 2010 Khan A.W c. Regno Unito), ha precisato che, nel garantire l'ordine pubblico e nell'esercitare il controllo dei flussi in ingresso ed il soggiorno degli stranieri, gli Stati hanno diritto di espellere coloro, tra questi, che delinquono, dovendo rispettare, quando tale misura incida su diritto protetto dall'art. 8 CEDU, il principio di proporzione con lo scopo che intendono perseguire e valutare comparativamente i contrapposti interessi, quello collettivo e quello personale dello straniero, bilanciamento che, per quanto già esposto, è riscontrabile nelle disposizioni di legge del T.U. sull'immigrazione. Sulla scia di tali principi si è mossa la giurisprudenza di legittimità il cui orientamento maggioritario, affermava che la convivenza "more uxorio" non era ostativa all'esplusione ai sensi dell'art. 19, comma 2 lett. c) del decreto, in quanto, in ragione della sua natura eccezionale, la norma non era estendibile in via analogica a fattispecie similari a quella dello straniero unito in matrimonio a cittadino italiano (da ultimo Sez. 1, n. 48684 del 29 settembre 2015, Bachtragga, Rv. 265387; Sez. 1, n. 45601 del 14/12/2010, Turtulli, Rv. 249175; Sez. 1, n. 17255 del 17/03/2008, Lagji, Rv. 239623; Sez. 1, n. 16446 del 16/03/2010, Noua, Rv. 247452).

In particolare la recente pronuncia della Sez. Prima, n. 48684/2015, pone in evidenza come tale tipologia di espulsione costituisce "un'atipica misura alternativa o sostitutiva della detenzione", introdotta dal legislatore per contenere il sovraffollamento carcerario, da adottarsi, quindi, solo in presenza delle rigorose condizioni fissate dalla legge, le quali non possono essere "interpretate" sulla base di altri parametri, dettati in materia di immigrazione a differenti fini, quali, ad esempio, quelli stabiliti dall'art. 5, comma 5, o dall'art. 13, comma 2-bis del Testo Unico. Tali ultime disposizioni, evidenzia la sentenza concernono, infatti, le ipotesi di espulsione amministrativa (e non a titolo di sanzione), nonché quelle di rifiuto, revoca o diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, nei confronti di cittadini stranieri che siano presenti nel territorio dello stato per ragioni di ricongiungimento familiare e non, invece, la diversa situazione dello straniero condannato e, per ciò, destinatario del provvedimento di espulsione di cui all'art. 16 del Testo Unico, dovendosi interpretare la disciplina in esame come il frutto di un contemperamento di contrapposte esigenze, da un lato, certamente, l'interesse dello straniero a conservare i legami familiari e personali", ma dall'altro, quella dello stato all'allontanamento del condannato straniero per ragioni di ordine pubblico, esigenza, quest'ultima, che impone un'interpretazione volta a scongiurare facili scappatoie che renderebbero il regime di regolamentazione dell'immigrazione facilmente aggirabile.

La giurisprudenza di legittimità, invece era divisa riguardo al momento in cui la convivenza dello straniero con un cittadino italiano dovesse configurarsi; in merito l'orientamento maggioritario, in linea con un'interpretazione restrittiva della disciplina, affermava la necessità che la convivenza con il coniuge di nazionalità italiana, per costituire un presupposto ostativo all'espulsione, dovesse sussistere al momento del fatto reato, mentre, dimostrando una leggera apertura, altra giurisprudenza sosteneva che il requisito suddetto potesse sussistere anche soltanto al momento della decisione (Sez. 1, n. 26753 del 27 maggio 2009, Boshi, Rv. 244715).

3.2. La giurisprudenza successiva alla legge n. 76 del 2016 in materia di unioni civili.

La Corte di cassazione con la pronuncia Sez. 1, n. 44182 del 27 giugno 2016, Zagoudi, Rv. 268038, segna una svolta nella soluzione della quaestio iuris in esame, affermando di non poter ignorare, in proposito, la sopravvenuta riforma normativa contenuta nella legge 20 maggio 2016 n. 76, "disciplina accolta dall'opinione pubblica, dagli operatori e dai teorici del diritto, come disciplina epocale", concernente le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le unioni di fatto formalizzate tra eterosessuali.

I giudici della prima Sezione evidenziano, infatti, come intento della riforma sia quello di parificare la nozione di coniuge con quella di persona unita civilmente, "attraverso l'introduzione, a fianco del matrimonio regolamentato dall'art. 82 cod. civ. e ss. del c.d. "contratto di convivenza", e come la stessa stabilisca il principio generale che, "ove nelle leggi dello Stato, compaia il termine "coniuge", questo deve intendersi riferito anche alla persona civilmente unita ad un'altra con il contratto di convivenza". Inoltre, evidenzia la pronuncia,per quanto di specifico interesse nella materia in esame, la legge n. 76 del 2016, dispone, all'art. 1 comma 38, la parificazione del convivente al coniuge, ai fini delle facoltà riconosciute a quest'ultimo dall'ordinamento penitenziario.

Il collegio, inoltre, precisano che il requisito della convivenza, ai fini ostativi del provvedimento di espulsione, deve sussistere, non al momento della commissione del fatto reato, così come affermato da precedente giurisprudenza, ma al momento della decisione.

Sulla base di tali principi di diritto, pertanto, i giudici della Sezione Prima, hanno annullato con rinvio, il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza che rigettava l'opposizione proposta dal condannato straniero avverso l'ordinanza con la quale il magistrato di sorveglianza aveva decretato la sua espulsione dal territorio nazionale ai sensi dell'art. 16 del D.lgs. n. 286 del 1998, benché il ricorrente avesse documentato di vivere da tempo in Italia con il suo nucleo familiare ed in particolare con la convivente "more uxorio", cittadina italiana.

Il collegio, pertanto, riteneva fondato il ricorso "non potendosi negare al ricorrente la possibilità, alla luce della nuova normativa, di acquisire lo status familiare riconosciuto dalla legge ai fini in discorso", considerazione in base alla quale, disponeva l'annullamento dell'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di sorveglianza, affinchè rivaluti l'opposizione proposta alla luce dei principi di diritto illustrati.

È innegabile che lo spunto fornito dalla pronuncia de qua, riveste senz'altro un carattere fortemente innovativo, con significativi risvolti pratici nell'applicazione della normativa in materia, rispetto alla quale, tuttavia, permangono alcune incertezze interpretative, prima tra tutte se, ai fini della valutazione della reale esistenza dello stato di fatto della convivenza, sia o meno necessaria una consacrazione dello stesso nel c.d. "contratto di convivenza" di cui alla legge n.76 del 2016.

4. La posizione processuale dell'imputato alloglotta: l'abnormità dei provvedimenti fondati "sul mero dubbio sulla conoscenza della lingua italiana" e le ultime pronunce di legittimità su traduzione degli atti e diritto all'interprete.

Un'altra peculiare caratteristica della materia concernente i reati di immigrazione clandestina riguarda gli aspetti processuali della stessa, in particolare la condizione nel processo penale dell'indagato/imputato alloglotta. In merito, come noto, l'art. 1, par. 1, della direttiva 2010/64/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 20 ottobre 2010, ha stabilito norme minime comuni da applicare in materia di interpretazione e traduzione nei procedimenti penali, ed il legislatore interno, è intervenuto con il Decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 32, che ha dato attuazione alla suddetta direttiva, intervenendo sulla regolamentazione codicistica vigente in materia.

Tuttavia, l'intervento legislativo non è stato, ad oggi, sufficiente a colmare tutti i dubbi interpretativi nella delicata materia, e prezioso in tal senso deve ritenersi il contributo della giurisprudenza di legittimità, intervenuta a comporre il rispetto delle regole processuali con gli interessi, ispiratori della riforma, di coloro che non conoscono e non parlano la lingua italiana, al fine di garantire loro il più ampio diritto ad un processo equo, previsto sia dall'art. 6, n. 3, lett. a) della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo, sia dagli artt. 47 e 48 comma 2, della Carta dei Diritti fondamentali.

A quasi tre anni dalla riforma in materia di diritto alla traduzione degli atti processuali, nel corso del 2016, la Corte di cassazione ha consolidato i principi espressi in materia subito dopo l'entrata in vigore della novella, in particolare resta fermo il principio che, in assenza di indicazioni legislative circa le modalità di accertamento della conoscenza della lingua italiana da parte dell'imputato, questo costituisce una valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità, se motivata in termini corretti ed esaustivi (già affermato nel corso degli anni precedenti, tra le altre si veda Sez. 2, 28 ottobre 2015, n. 46139, Rv. 265213), che certamente non può discendere automaticamente dal mero "status" di straniero o apolide dell'imputato, ma che deve essere di volta in volta verificata. In merito tuttavia non vi è ancora piena chiarezza sulla necessità o meno che l'ignoranza della lingua italiana da parte dell'imputato straniero debba essere fondata su un pieno accertamento e se invece, al fine di mettere in moto la macchina delle garanzie processuali riservate al soggetto alloglotta, sia sufficiente il " mero dubbio" della stessa.

La giurisprudenza di legittimità appare divisa, in relazione alle conseguenze derivanti dall'adozione da parte del giudice di un provvedimento sulla base della mancanza o dell'erroneo accertamento della conoscenza della lingua del processo da parte dello straniero alloglotta. In particolare, Sez. 5, n. 1136 del 26 ottobre 2015, dep. 2016, P.M. in proc. Hassan, Rv. 266069 - ricalcando le conclusioni di un precedente orientamento espresso da Sez. 4, n. 45944 del 11 novembre 2009, Baiaram, Rv. 245994 - in relazione alla ipotesi di verbale di elezione di domicilio redatto, nei confronti di imputato alloglotta, esclusivamente in lingua italiana, ha ritenuto abnorme l'ordinanza del Giudice dell'udienza preliminare che ebbe a dichiarare la nullità del suddetto verbale e di tutte le notifiche successive, sebbene sussistesse un dubbio sulla effettiva mancanza di conoscenza da parte dell'indagato della lingua italiana, affermando che la traduzione degli atti processuali nella lingua madre dell'imputato o in altra da lui conosciuta, è dovuta solo nel caso di "comprovato e dichiarato difetto di conoscenza della lingua italiana" mentre, al contrario, il mero dubbio su tale circostanza non sarebbe sufficiente ad imporre la detta traduzione. Analogamente si è espressa Sez. 5, n. 11658 del 26 ottobre 2015, dep. 2016, P.M. in proc. Habdi Hussen, Rv. 266550, nel ritenere l'abnormità dell'ordinanza con cui il giudice per l'udienza preliminare dichiarava la nullità della notificazione dell'avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen. in relazione alla circostanza che "non risultava se l'imputato parlasse o capisse l'italiano", ribadendo, in merito, che la traduzione degli atti processuali nella lingua madre dell'imputato o in altra da lui conosciuta è dovuta solo nel caso di comprovato e dichiarato difetto di conoscenza. Entrambe le pronunce ritengono il provvedimento affetto da abnormità, in quanto, precisano, per atto abnorme deve intendersi "non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto risulti avulso dall'intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite".

Sul punto, tuttavia, giungono a conclusioni diverse le pronunce della Sez. 2, n. 26241 del 11 giugno 2015, Rv. 264012; Sez. 5, n. 38109 del 18 settembre 2015, Bezusco, Rv. 265007 e Sez. 5, n. 11429 del 15 dicembre 2015, dep. 2016, P.M. in proc. Intriago, Rv. 266339. Quest'ultima e più recente pronuncia, afferma che non è abnorme il provvedimento del Tribunale che, "in mancanza di prova della conoscenza della lingua italiana da parte dell'imputato", dichiara la nullità degli atti, in base ai quali si è instaurato il rapporto processuale, per l'omessa loro traduzione e ne dispone la restituzione al P.M., in quanto tale provvedimento costituisce l'esplicazione di un potere riconosciuto dall'ordinamento, anche quando fondato su un presupposto erroneamente ritenuto sussistente e non determina una stasi indebita del procedimento, potendo il pubblico ministero esercitare nuovamente l'azione penale. Sulla base delle medesime considerazioni la Corte, con la citata pronuncia n. 38109/15, aveva escluso l'abnormità del provvedimento del giudice che dichiari l'inefficacia dell'elezione di domicilio dell'imputato e la conseguente nullità della notifica dell'avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen. e degli atti successivi per essere stato il verbale di elezione di domicilio redatto esclusivamente in italiano "nonostante il dubbio che l'imputato non avesse compreso di essere sottoposto a procedimento penale". In merito, precisa la Corte, l'eventuale errore del giudice sul punto, darebbe luogo ad un provvedimento non conforme al disposto dell'art. 143 cod. proc. pen., ma non per questo abnorme alla luce dei consolidati principi affermati in materia dalle Sezioni Unite. In relazione a tale sentenza, in particolare, va posto in evidenza come, anche se incidentalmente rispetto alla questione della abnormità, la Corte ribadisca che, "in effetti, la traduzione degli atti è" dovuta solo in caso di comprovato e dichiarato difetto di conoscenza della lingua italiana".

Nel corso del 2016, inoltre, si sono consolidati alcuni orientamenti in materia di traduzione ed interpretazione degli atti; così Sez. 2, n. 26078 del 9 giugno 2016, Ka., Rv. 267157, ha ribadito che anche dopo l'attuazione della direttiva 2010/64/UE ad opera del D.Lgs. 4 marzo 2014 n. 32, la mancata nomina di un interprete all'imputato che non conosce la lingua italiana dà luogo ad una nullità a regime intermedio, che deve essere eccepita dalla parte prima del compimento dell'atto ovvero, qualora ciò non sia possibile, immediatamente dopo e, comunque, non può più essere rilevata nè dedotta dopo la deliberazione della sentenza di primo grado o, se si sia verificata nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo. La Suprema Corte inoltre, ha proseguito nella sua linea interpretativa volta alla individuazione degli atti che, alla luce della giurisprudenza europea e della novella normativa, necessitano di traduzione. In particolare Sez. 2, n. 25673 del 4 maggio 2016, Sha e altri, Rv. 267120, ha ritenuto che l'omessa traduzione dell'avviso di fissazione dell'udienza di riesame in lingua comprensibile all'indagato alloglotta, anche a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 32, non integra alcuna nullità, né con riferimento a tale atto, né con riferimento a quelli da questo dipendenti, poiché l'avviso in questione non è incluso nell'elenco degli atti per i quali l'art. 143, comma secondo, cod. proc. pen., come modificato da citato D.Lgs., prevede l'obbligo di traduzione, né, in linea generale, esplica una funzione informativa in ordine alle "accuse" mosse al destinatario della misura cautelare. Sulla base del medesimo percorso ermeneutico Sez. 2, n. 13697 del 11 marzo 2016, Zhou, Rv. 266444, ha affermato che non integra un'ipotesi di nullità la mancata traduzione della sentenza nella lingua nota all'imputato alloglotta ma, se vi è stata specifica richiesta di traduzione, i termini per impugnare decorrono dal momento in cui la motivazione della decisione sia stata messa a disposizione dell'imputato nella lingua a lui comprensibile.

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CAPITOLO III

IL REATO DI COLTIVAZIONE DI PIANTE DA STUPEFACENTI

(di Matilde Brancaccio )

Sommario

1 Principio di offensività e reato di coltivazione non autorizzata di piante da stupefacenti. - 2 Principio di offensività e giurisprudenza costituzionale. - 3 La giurisprudenza di legittimità: percorsi interpretativi. - 3.1 La giurisprudenza che adotta il criterio della potenziale idoneità della coltivazione a produrre sostanze stupefacenti. - 3.2 La giurisprudenza che valorizza maggiormente il principio di offensività in concreto. - 3.3 Le pronunce su inoffensività ed inefficacia drogante della sostanza. - 4 Alcune considerazioni finali. - 5 La proposta di legge per la legalizzazione della coltivazione di cannabis.

1. Principio di offensività e reato di coltivazione non autorizzata di piante da stupefacenti.

La coltivazione non autorizzata di piante da stupefacenti è punita, secondo l'ordinamento italiano, dall'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 (Testo Unico sugli Stupefacenti), là dove prevede, tra le altre condotte di reato elencate, anche quella di chiunque coltiva senza autorizzazione piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope.

La peculiarità di tale previsione, nella galassia normativa costituita dalla disciplina degli stupefacenti, è rappresentata anzitutto dalla circostanza che, alla luce del mancato richiamo di cui alla disposizione dell'art. 75 del medesimo D.P.R. n. 309/1990 (disciplinante un illecito solo amministrativo per le condotte di cui all'art. 73 cit.), essa stabilisce, per le condotte di coltivazione e fabbricazione, la rilevanza penale della destinazione anche ad uso solo personale della sostanza stupefacente.

Un altro aspetto peculiare della fattispecie di reato in esame consegue, poi, alla fenomenologia fisica della condotta e, in particolare, alla sua dimensione "naturalistica", da cui dipende lo stesso atteggiarsi della punibilità; il riferimento è al momento dal quale può ritenersi punibile il fatto, al principio di offensività in concreto ed alla "mediazione necessaria" del giudice, chiamato eventualmente a verificare l'effettiva idoneità della sostanza ricavata dalla coltivazione a produrre un effetto drogante rilevabile.

E difatti, secondo le Sez. U, n. 28605 del 24/4/2008, Di Salvia, Rv. 239920-239921, ai fini della punibilità della condotta di coltivazione di piante stupefacenti, da un lato, è irrilevante la destinazione o meno ad uso personale, dall'altro, tuttavia, è indispensabile la verifica da parte del giudice sulla offensività in concreto della condotta, riferita all'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.

Le Sezioni Unite erano state chiamate a comporre un contrasto molto risalente.

Da una parte, l'orientamento che, anche dopo le modifiche normative intervenute con la legge cd. "Fini-Giovanardi" (d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, conv. con modifiche in legge 21 febbraio 2006, n. 49), individuava una nozione di "coltivazione domestica" per uso personale (distinta da quella penalmente rilevante della "coltivazione in senso tecnico-agrario"), ritenendo comunque la condotta di coltivazione non estranea all'ambito concettuale della "detenzione", quindi anch'essa sottoposta al canone di rilevanza penale della "destinazione ad uso non personale"; dall'altra, l'orientamento che, invece, riteneva comunque sussistente il reato, anche nel caso in cui la coltivazione mirasse a soddisfare esigenze di approvvigionamento personale, in ragione, soprattutto, della idoneità della condotta ad accrescere il pericolo di circolazione e diffusione delle sostanze stupefacenti e ad attentare al bene della salute con incremento delle occasioni di spaccio.

Aderendo a tale ultima opzione, le Sezioni Unite vollero, però, affiancare un opportuno e più ampio ragionamento sulla stessa punibilità della coltivazione, sulla scia dell'interpretazione costituzionalmente orientata che negli anni il giudice delle leggi ha proposto con riferimento alla fattispecie di coltivazione di piante stupefacenti, più volte oggetto di dubbi di costituzionalità, sottoposti al suo vaglio.

Richiamando in particolare, tra le altre, le sentenze n. 360 del 1995, n. 296 del 1996 e n. 265 del 2005 della Corte costituzionale, le Sezioni Unite, partendo dal concetto che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa astratta (sentenza n. 360 del 1995), hanno aderito all'opzione del giudice delle leggi secondo cui il principio di offensività - in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa ("nullum crimen sine iniuria") - opera su due piani.

Da un lato, tale principio si declina rispetto alla previsione normativa: il legislatore deve dar luogo a fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto); dall'altro, il principio di offensività deve sovrintendere l'applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato (così si esprime in particolare Corte Cost. n. 265 del 2005; in senso conforme le decisioni nn. 360 del 1995, 263 del 2000, 519 del 2000, 354 del 2002).

Da tali premesse Sez. U, Di Salvia, in ossequio al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, ha stabilito, come detto, che spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva. Inoltre, le Sezioni Unite mettono in luce un ulteriore atteggiamento interpretativo, di non poche conseguenze pratiche quanto alle ricadute sulla punibilità effettiva delle singole fattispecie: secondo la citata sentenza, infatti, la condotta è "inoffensiva", soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante è a tal fine il grado dell'offesa), sicché, con riferimento allo specifico caso della coltivazione di piante, la "offensività" non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.

2. Principio di offensività e giurisprudenza costituzionale.

La giurisprudenza della Corte costituzionale ha più volte respinto, dichiarandone l'inammissibilità, le questioni nel tempo sollevate, in ordine alla legittimità del reato di coltivazione di sostanze stupefacenti, sotto differenti profili, primo fra tutti, quello della carenza di offensività della fattispecie.

D'altra parte, non soltanto in tale materia, i giudici costituzionali si sono pronunciati definendo nozione e caratteri del principio di necessaria offensività che deve caratterizzare il diritto penale dal punto di vista della costruzione della norma incriminatrice.

Si è detto che non è concepibile un reato senza offesa ("nullum crimen sine iniuria") e si è affermata l'avvenuta costituzionalizzazione di detto principio ad opera degli artt. 25 e 27 Cost. Facendo poi riferimento alle previsioni di legge ordinaria, si è messa in luce la funzione dell'art. 49 cod. pen. e la categoria del reato impossibile, letta come disposizione che ribadirebbe l'opzione legislativa per il principio di necessaria offensività del reato, non potendosi punire fatti che si caratterizzino per l'impossibilità di verificazione dell'evento dannoso o pericoloso a causa dell'inidoneità dell'azione a produrlo o dell'inesistenza dell'oggetto dell'azione medesima (cfr. tra le altre sentenze n. 62 del 1986 e n. 333 del 1991 C. Cost.).

Tralasciando la questione dogmatica relativa all'inserimento della categoria dell'offensività all'interno del novero degli elementi del reato, ovvero non, deve ribadirsi quanto già anticipato circa la doppia declinazione del principio di offensività da parte della giurisprudenza costituzionale, secondo le due direttrici dell'offensività in astratto e dell'offensività in concreto, operanti su piani distinti. La prima su quello della previsione normativa affidata al legislatore, la seconda su quello dell'applicazione giurisprudenziale che spetta al giudice (cfr. il paragrafo precedente).

Sul piano dell'offensività in astratto si è detto che una lettura sistematica dell'art. 25 Cost., cui fanno da sfondo l'insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula un "ininterrotto operare del principio di offensività" dal momento dell'astratta predisposizione normativa a quello dell'applicazione concreta da parte del giudice (in tali termini si esprimono le sentenze nn. 263 del 2000 e 225 del 2008), consapevoli dell'esigenza - anch'essa coerente con il piano costituzionale - che il legislatore configuri il sistema penale come extrema ratio di tutela della società, circoscritta, per quanto possibile, ai soli beni di rilievo costituzionale (in un'accezione "allargata" ai beni riferibili anche alla cd. Costituzione "materiale", che segue i bisogni sociali): in tal senso cfr. le 263 del 2000 e 225 del 2008), L'offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità legislativa che spetta alla Corte di rilevare è stata affermata anche da C. cost. nn. 360 del 1995, 263 del 2000 e n. 354 del 2002, sebbene debba sottolinearsi come i giudici costituzionali abbiano tradizionalmente esercitato il vaglio di legittimità nell'ambito della potestà legislativa con grande attenzione alle prerogative dello stesso legislatore, traducendo solo raramente tali affermazioni di principio in tema di offensività in decisioni di illegittimità[1].

Anche con riferimento ai profili strutturali della fattispecie penale la Corte costituzionale ha riservato, sostanzialmente, alla discrezionalità del legislatore il livello e il modulo di anticipazione della tutela, optando per il non sindacare le scelte tecniche di costruzione dell'illecito penale secondo lo schema dei reati di danno o di pericolo, anche presunto o astratto (cfr. ad esempio le sentenze n. 225 del 2008, 360 del 1995, 333 del 1991), purchè le determinazioni legislative non siano irrazionali o arbitrarie, ciò che si verifica quando esse non siano ricollegabili all'id quod plerumque accidit.

L'unico ambito in cui il principio di offensività ha manifestato in modo più forte le proprie potenzialità critiche dal punto di vista dell'offensività astratta e della tecnica di costruzione normativa dell'illecito, spingendo la Corte a decisioni di accoglimento della questione di illegittimità proposta, è stato quello delle norme penali costruite su modelli fondamentalmente (o esclusivamente) soggettivistici, o su veri e propri "tipi d'autore" (presunzioni di pericolo irragionevolmente fondate solo su condizioni o qualità soggettive che stridono con il principio di offensività)[2].

Sul piano dell'offensività in concreto, il principio, declinato come criterio ermeneutico rivolto al giudice, permette una rilettura sostanzialistica delle fattispecie di pericolo astratto o presunto ed opera come "canone interpretativo universalmente accettato", tale da imporre al giudice il compito di accertare volta per volta che il comportamento "soltanto astrattamente pericoloso" abbia raggiunto un grado minimo di offensività nella fattispecie oggetto di giudizio (cfr. sentenza n. 225 del 2008). Dalla metà degli anni '80 la Corte ha valorizzato l'offensività come criterio ermeneutico, talvolta richiamando espressamente l'art. 49 c.p., che, a livello codicistico, è la norma che ha offerto sponda concettuale alla stessa concezione realistica del reato; si è evidenziato, pertanto, che spetta al giudice, dopo aver analizzato la disposizione specifica da interpretare ed il sistema in cui si inscrive, determinare in concreto ciò che, non raggiungendo la soglia dell'offensività dei beni tutelati attraverso la norma incriminatrice, è fuori dal penalmente rilevante"(così la sentenza n. 62 del 1986 in materia di armi ed esplosivi).

Tale canone, secondo l'interpretazione della Corte costituzionale, aiuta il principio di necessaria offensività ad emergere comunque nelle fattispecie concrete, "salvando" la costituzionalità della disposizione astratta (cfr. tra le tante le sentenze 333 del 1991, n. 133 del 1992, n. 360 del 1995, n. 296 del 1996, n. 24, proprio in materia di stupefacenti[3]).

Recentemente si segnala la sentenza n. 172 del 2014, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità dell'art. 612-bis c.p. (atti persecutori), sollevata in riferimento all'art. 25, comma 2, Cost., sottolineando sia alcuni caratteri normativi che concretizzano la fattispecie, sia ancora una volta il decisivo compito del giudice di "ricostruire e circoscrivere l'area di tipicità della condotta penalmente rilevante sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensività che, per giurisprudenza costante di questa Corte, costituisce canone interpretativo unanimemente accettato (ex plurimis, sentenze n. 139 del 2014 e n. 62 del 1986)".

Con riferimento specifico alla coltivazione di piante dalle quali si possano ricavare sostanze stupefacenti, la Corte costituzionale si è trovata ad intervenire più volte in passato, concludendo sempre nel senso dell'inammissibilità del giudizio di costituzionalità, in sostanza ribadendo la ragionevolezza della scelta legislativa in relazione ai parametri della necessaria offensività ed agli altri valori costituzionali in gioco.

Le sentenze riferite espressamente a questioni attinenti al vaglio di costituzionalità della disciplina normativa relativa alla coltivazione di piante stupefacenti sono: la n. 360 del 1995[4], anzitutto, con la chiara enunciazione del doppio profilo del principio di offensività penale e, in precedenza, le sent. nn. 133/1992, 333/1991 e 62/1986, nonché, successivamente, le ordinanze nn. 150 del 1996 e 414 del 1996, le quali tutte si sono espresse nel senso della infondatezza delle questioni sollevate. Ancora, deve ricordarsi la sentenza n. 296 del 1996 che sottolinea come l'art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990 estrapoli solo tre delle condotte di cui al precedente art. 73 per attrarle alla sfera dell'irrilevanza penale qualora rivelino la finalizzazione della condotta dell'agente all'uso personale delle sostanze stupefacenti.

A queste si aggiunge oggi la decisione del 9 marzo 2016, pubblicata nella motivazione il 23 maggio 2016, che ha nuovamente dichiarato la legittimità della tecnica di costruzione normativa riferita al reato di coltivazione di stupefacenti.

La questione era stata sollevata dalla Corte d'Appello di Brescia[5] con riferimento all'art. 75 D.P.R. n. 309/90, nella parte in cui esclude, secondo un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità da ritenersi "diritto vivente" (si citano le Sezioni Unite con la sentenza Di Salvia), che, tra le condotte suscettibili di sola sanzione amministrativa, perché finalizzate al solo uso personale dello stupefacente, vi sia quella di coltivazione di piante stupefacenti, in relazione ai principi di ragionevolezza, uguaglianza e di offensività (artt. 3, 13, comma secondo, 25, comma secondo e 27, comma terzo, Cost.). Il giudice rimettente chiarisce nell'ordinanza che non è possibile, a suo giudizio, alcuna interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione di cui all'art. 75 d.P.R. n. 309 del 1990, alla luce del dettato normativo e del diritto vivente. Ad avviso della Corte rimettente, risulterebbe in tal modo violato il principio di eguaglianza (art. 3 della Costituzione), sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento fra chi detiene per uso personale sostanza stupefacente ricavata da piante da lui stesso precedentemente coltivate - assoggettabile soltanto a sanzioni amministrative, in forza della disposizione denunciata - e chi è sorpreso mentre ha in corso l'attività di coltivazione, finalizzata sempre al consumo personale: condotta che assume, invece, rilevanza penale. La norma censurata violerebbe, altresì, in parte qua, il principio di necessaria offensività del reato, desumibile dalla disposizione combinata degli artt. 13, secondo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., in quanto la condotta di coltivazione per uso personale non sarebbe diretta ad alimentare il mercato della droga, sicchè risulterebbe inidonea a ledere i beni giuridici protetti dalla disposizione di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, costituiti - alla luce delle indicazioni della giurisprudenza di legittimità - non già dalla salute individuale dell'agente, ma dalla salute pubblica, dalla sicurezza e dall'ordine pubblico, nonché dal "normale sviluppo delle giovani generazioni".

Ebbene, la Corte, ribadita la sua possibilità di emettere sentenze additive in bonam partem in materia penale, quale quella invocata dal giudice rimettente, nel merito ritiene nuovamente infondata la questione.

Gli argomenti utilizzati per dichiarare l'infondatezza ripropongono sostanzialmente quanto già può dirsi patrimonio interpretativo del giudice costituzionale.

La differente disciplina prevista per il consumo personale di colui che coltiva, fabbrica o produce sostanze stupefacenti - rispetto a colui il quale, invece, acquista, detiene, importa, esporta o riceve a qualsiasi titolo - è frutto, secondo la Corte costituzionale, della complessiva "strategia" del legislatore, volta, da un lato, a distinguere la posizione del mero assuntore (ritenuta una forma di disadattamento sociale cui far fronte con misure prevalentemente terapeutiche) da quella del fabbricante, del produttore e del venditore, che, invece, effettivamente mettono in pericolo i numerosi beni protetti alla base delle ragioni di incriminazione; dall'altro, ad evitare che tale strategia differenziata si traduca in un fattore agevolativo della diffusione della droga tra la popolazione, fenomeno che - in assonanza con le indicazioni provenienti dalla normativa sovranazionale - è ritenuto meritevole di contrasto a salvaguardia della salute pubblica, della sicurezza e dell'ordine pubblico, nonché a fini di tutela delle giovani generazioni" (sentenza n. 333 del 1991 e n. 360 del 1995).

Da qui, nascono, dunque, secondo la Corte costituzionale la ragionevole previsione legislativa di condizioni e limiti di operatività del regime differenziato.

Il legislatore ha negato rilievo alla finalità dell'uso personale sia alle condotte con essa logicamente incompatibili, perché implicanti la "circolazione" della droga ("vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo") sia a quelle condotte apparentemente cd. "neutre" che hanno, tuttavia, la capacità di accrescere la quantità di stupefacente esistente e circolante, agevolandone così indirettamente la diffusione ("coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina").

Ed è questo, secondo la Corte costituzionale, il tratto saliente che, nella visione del legislatore, vale a diversificare la coltivazione - come pure la produzione, la fabbricazione, l'estrazione e la raffinazione della droga - dalla semplice detenzione (e dalle altre condotte "neutre" a carattere "non produttivo"), conferendo ad essa una maggiore pericolosità, che giustifica la sancita irrilevanza della finalità di consumo personale.

In tal senso, l'argomento di incostituzionalità sollevato circa l'inoffensività della condotta di coltivazione ad uso personale cade.

Anche l'altro profilo di illegittimità - riferito alla ingiustificata disparità di trattamento fra chi detiene per uso personale sostanza stupefacente ricavata da piante da lui stesso in precedenza coltivate (condotta inquadrabile nella formula "comunque detiene", presente nella norma censurata, e, dunque, sanzionata solo in via amministrativa) e chi è invece sorpreso mentre ha ancora in corso l'attività di coltivazione, finalizzata sempre all'uso personale, trovandosi con ciò esposto (secondo il "diritto vivente") alle sanzioni penali previste dall'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 - viene disatteso, poichè ritenuto fondato su una premessa inesatta, ossia, che la detenzione per uso personale dello stupefacente "autoprodotto" renda non punibile la condotta di coltivazione, rimanendo il precedente illecito penale "assorbito" dal successivo illecito amministrativo. Secondo la Corte costituzionale tale assorbimento non si verifica affatto, se non nel senso che a rimanere "assorbito", semmai, è l'illecito amministrativo.

Infine, la Corte costituzionale riafferma la validità del consolidato canone ermeneutico, fondato sul duplice piano di operatività del principio di offensività - quello astratto e quello concreto - al fine di decidere della rilevanza penale di una determinata condotta, con il monito al giudice comune di "allineare" la figura criminosa della coltivazione di piante produttive di sostanze stupefacenti al canone dell'offensività in concreto, nel momento interpretativo ed applicativo; si rammenti, peraltro, che tale monito risulta sostanzialmente analogo alle affermazioni della pronuncia n. 360 del 1995 C. cost. ed a quelle, pacifiche in tal senso, della giurisprudenza di legittimità.

La ricerca del parametro di inoffensività, intesa come inidoneità a ledere il bene giuridico protetto, potrà poi essere attuata sia - secondo l'impostazione della sentenza n. 360 del 1995 - facendo leva sulla figura del reato impossibile (art. 49 del codice penale); sia - secondo altra prospettiva - tramite il riconoscimento del difetto di tipicità del comportamento oggetto di giudizio.

3. La giurisprudenza di legittimità: percorsi interpretativi.

Nella giurisprudenza di legittimità si sono registrate decisioni nel corso degli ultimi anni che, pur nel solco della pronuncia delle Sezioni Unite Di Salvia, hanno via via manifestato esigenze ulteriori e diverse di adeguare la tipicità penale al principio di offensività attraverso la "mediazione" del giudice.

Anche nel 2016 sono state emesse alcune, importanti sentenze che provano a configurare il rapporto tra offensività in concreto e tipicità secondo criteri affidabili.

Sul piano generale, si è detto che sia le Sezioni Unite Di Salvia, sia la giurisprudenza successiva ad essa, hanno accentuato la differenza di valutazioni posta alla base della distinzione tra offensività in astratto e offensività in concreto, puntando l'accento sul fatto che spetta al giudice verificare, di volta in volta, se la condotta contestata risulti in concreto inoffensiva (tale dovendo ritenersi solo quella che non leda o metta in pericolo, anche in minimo grado, il bene tutelato).

È proprio sul fronte della declinazione concreta da parte del giudice del criterio di offensività che si gioca la partita, dunque, della rilevanza penale della fattispecie.

Può essere utile, pertanto, tracciare alcuni filoni interpretativi della giurisprudenza di legittimità, leggibili dal 2008 in avanti e che hanno trovato arresti significativi anche nel 2016, caratterizzati soprattutto per la ricerca di canoni di orientamento aderenti al rispetto del criterio dell'offensività in concreto.

3.1. La giurisprudenza che adotta il criterio della potenziale idoneità della coltivazione a produrre sostanze stupefacenti.

Uno degli orientamenti di legittimità che si sono rivelati tra quelli di maggior seguito ha elaborato "indicatori" dimostrativi della concreta offensività della condotta di coltivazione non autorizzata, facendo leva sul concetto di potenziale idoneità della coltivazione-produzione di piante di natura stupefacente a produrre in futuro tali sostanze.

Già la sentenza Sez. 3, n. 23082 del 9/5/2013, De Vita, Rv. 256174 aveva enucleato una serie di "indicatori" dimostrativi della concreta offensività della condotta di coltivazione non autorizzata di piante di natura stupefacente, individuando tra questi: il quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante in relazione al loro grado di maturazione, l'estensione e la struttura organizzata della piantagione. Da tali indici concreti è possibile, secondo tale impostazione, desumere che dalla coltivazione possa derivare una produzione di sostanze potenzialmente idonea ad incrementare il mercato. Nella fattispecie, il reato è stato ritenuto configurabile per un quantitativo di 43 piantine di "cannabis", dalle quali, all'atto di accertamento, si sarebbe ricavato un quantitativo di sostanza stupefacente pari sia al valore della dose singola che della dose - soglia, per la presenza di semi e di impianti di innaffiamento e riscaldamento dei locali, finalizzati a favorire la crescita e lo sviluppo della coltivazione.

Ulteriori pronunce hanno affrontato la questione egualmente con riferimento agli indicatori e caratteri specifici attinenti alla piantagione, affermando, ai fini della punibilità della coltivazione, l'irrilevanza della quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, e la rilevanza, invece, della conformità della pianta al tipo botanico previsto, nonchè della sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente. Si è affermato in altre pronunce l'irrilevanza del fatto che, al momento dell'accertamento del reato, le piante non siano ancora giunte a maturazione, poichè la coltivazione ha inizio con la posa dei semi, dovendosi invece valutare l'idoneità anche solo potenziale delle piante stesse a produrre una germinazione ad effetti stupefacenti (Sez. 4, n. 44287 del 8/10/2008, Taormina, Rv. 241991).

In tale linea di tendenza, proprio nel corso dell'ultimo anno, Sez. 6, n. 25057 del 10/5/2016, Iaffaldano, Rv. 266974 e Sez. 6, n. 10169 del 10/2/2016, Tamburini, Rv. 266513 hanno riaffermato il principio secondo cui, ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l'offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l'assenza di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all'esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, in quanto il "coltivare" è attività che si riferisce all'intero ciclo evolutivo dell'organismo biologico. Un'ulteriore pronuncia del 2016 si segnala in tale direzione interpretativa: Sez. 3, n. 23881 del 23/2/2016, Damioli, Rv. 367382 ha affermato che l'offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, cosicchè l'offensività deve essere esclusa soltanto quando la sostanza ricavabile risulti priva della capacità ad esercitare, anche in misura minima, effetto psicotropo. Si tratta di un orientamento fortemente rappresentato, come confermano i numerosi precedenti conformi (tra le molte, e limitandosi solo a quelle massimate, si citano: Sez. 6, n. 6753 del 9/1/2014, M., Rv. 258998 e Sez. 4, n. 44136 del 27/10/2015, Cinus, Rv. 264910, sentenza quest'ultima che aveva ribadito, anch'essa come il dato ponderale può assumere rilevanza, al fine di fornire indicazioni sull'offensività in concreto della condotta, soltanto quando la sostanza ricavabile risulti priva della concreta attitudine ad esercitare, anche in misura minima, l'effetto psicotropo (sul punto della "capacità drogante" cfr. infra par. 3.3.).

Si richiamano ai medesimi principi, tra le altre, Sez. 6, n. 49476 del 4/12/2015, Radice, n.m. e Sez. 6, n. 3037 del 8/9/2015, dep. 2016, Fazzi, n.m., che, tuttavia, intervengono in ipotesi di sequestri di piante e quantitativi di stupefacente di una certa consistenza per l'intervenuta essiccazione o comunque ricavabili dal materiale in sequestro.

3.2. La giurisprudenza che valorizza maggiormente il principio di offensività in concreto.

Si può ritrovare nella giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni una linea di tendenza, comune a molte pronunce, rivolta a leggere il principio di offensività nella sua massima espansione, valorizzando i percorsi argomentativi della Corte costituzionale sul tema e, in particolare, il potere-dovere di verifica da parte del giudice della effettiva corrispondenza della fattispecie sottoposta al suo esame con il fatto tipico, declinato nella prospettiva dell'art. 49 cod. pen. quale fatto tipico "offensivo".

Si iscrivono in questa linea, pur con diversi atteggiamenti motivazionali, collegati anche alle differenze tra i casi esaminati, numerose sentenze che, di seguito, si proverà ad esaminare per gruppi omogenei, sulla base delle argomentazioni utilizzate per decidere se, nel caso concreto, vi sia stato o meno il rispetto del canone, necessario ai fini della punibilità, di offensività in concreto.

Alcune pronunce incentrano la motivazione di inoffensività sulla esiguità del principio attivo e la modalità palesemente minima di coltivazione.

In tal senso, già Sez. 4, n. 25674 del 17/2/2011, Marino Rv. 250721, che riprende il concetto di coltivazione "domestica", pure superato dalle Sezioni Unite nella sentenza Di Salvia (là dove indicativo di esclusione della punibilità delle condotte di coltivazione per l'uso personale della destinazione dello stupefacente), ed afferma la non punibilità del fatto con riferimento ad una piantina di canapa indiana contenente principio attivo pari a mg. 16, posta in un piccolo vaso sul terrazzo di casa, in quanto condotta inoffensiva "ex" art. 49 cod. pen., che non integra il reato di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990.

Più di recente, si segnala Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015, dep. 2016, Pezzato, Rv. 265641 che ha ritenuto l'inoffensività in concreto della condotta, in un'ipotesi in cui essa era di tale minima entità da rendere sostanzialmente irrilevante l'aumento di disponibilità di droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa; nella fattispecie la S.C. ha escluso il reato per la coltivazione di due piante di canapa indiana e la detenzione di 20 foglie della medesima pianta, in presenza di una produzione che, pur raggiungendo la soglia drogante, è stata definita "assolutamente minima". La sentenza Pezzato presenta profili di estremo interesse anche perché pone in modo chiaro la distinzione tra inoffensività tout court di una condotta di coltivazione di piante stupefacenti e irrilevanza penale del fatto per "tenuità" ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen., declinando la differenza secondo paradigmi interpretativi di ordine generale. Ed infatti si afferma: l'art. 131-bis cod. pen. ed il principio di inoffensività in concreto operano su piani distinti, presupponendo, il primo, un reato perfezionato in tutti i suoi elementi, compresa l'offensività, benché di consistenza talmente minima da ritenersi "irrilevante" ai fini della punibilità, ed attenendo, il secondo, al caso in cui l'offesa manchi del tutto, escludendo la tipicità normativa e la stessa sussistenza del reato (cfr. Rv. 265642).

Del resto sulla applicabilità della condizione di non punibilità della tenuità del fatto anche alle condotte di coltivazione, sussistendone i presupposti, si era già pronunciata Sez. 3, n. 38364 del 7/7/2015, Di Salvia, n.m. ed in tal senso deve leggersi, in generale, la pronuncia delle Sezioni Unite n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. Rv. 266589- 266593, che ha ricostruito natura ed ambito operativo della disposizione di cui all'art. 131-bis cod. pen.

Infine, Sez. 4, n. 3787 del 19/1/2016, Festi, Rv. 265740 ha escluso l'offensività in concreto quando la condotta sia così trascurabile da rendere sostanzialmente irrilevante l'aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa. Analogamente, in precedenza, Sez. 6, n. 33835 del 8/4/2014, Piredda, Rv. 260170; Sez. 6, n. 22110 del 2/5/2013, Capuano, Rv. 255753.

Tuttavia, deve sottolinearsi, proprio con riferimento alle affermazioni che hanno evocato la distinzione tra coltivazione domestica e coltivazione tecnico-agraria, come tale criterio non sia pacifico nella giurisprudenza di legittimità; ed infatti, recentemente, Sez. 6, n. 51497 del 4/12/2013, Zilli, Rv. 258503 ha invece affermato che la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti è penalmente rilevante a norma degli artt. 26 e 28 del d.P.R. n. 309 del 1990, a prescindere dalla distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica, posto che l'attività in sé, in difetto delle prescritte autorizzazioni, è da ritenere potenzialmente diffusiva della droga (la fattispecie era relativa alla coltivazione di una pluralità di piantine di cannabis indica all'interno di una serra rudimentale).

Sul concetto di coltivazione "domestica", peraltro, torna anche la recente e già citata pronuncia Sez. 6, n. 10169 del 10/2/2016, Tamburini, Rv. 266513, che, espressione di un orientamento parzialmente difforme da quello in esame, ha ritenuto sussistere il reato di coltivazione in un'ipotesi di coltivazione "domestica" di nove piantine di marijuana, in parte già produttive di sostanza (per 60 mg individuati, corrispondenti a più di due dosi medie singole), segnalandone la diversità rispetto all'ipotesi esaminata nella già citata sentenza Sez. 6, Piredda, in cui la condotta era condivisibilmente inoffensiva perché riferita a sole due piantine di marijuana contenenti 18 mg di principio attivo, inferiore alla dose media singola individuata dal relativo decreto ministeriale nella misura di 25 mg.

Un altro gruppo di sentenze, ricollegando la verifica della necessaria offensività in concreto al momento dell'accertamento della condotta, pone l'accento sulla necessità che, ai fini della punibilità, sussista comunque una effettiva ed attuale capacità drogante del prodotto della coltivazione rilevabile nell'immediatezza, contestando la proiezione nel futuro della verifica di offensività sulla base di un giudizio prognostico di idoneità della coltivazione a giungere a maturazione, secondo il tipo botanico (orientamento quest'ultimo sostenuto nella citata sentenza Cangemi).

Sono espressione di tale opzione anzitutto Sez. 6, n. 2618 del 21/10/2015, dep. 2016, Marongiu, Rv. 265640, che ripercorre le ragioni costituzionali della propria opzione, annullando con rinvio la pronuncia di merito, che non aveva verificato la quantità di principio attivo ricavabile da nove piantine di "cannabis indica" non giunte a maturazione. La sentenza sottolinea il pericolo di un'applicazione eccessivamente anticipata della tutela penale, che operi di fatto una totale svalutazione dell'elemento costituito dalla necessaria offensività in concreto della condotta, cioè dalla capacità della stessa di ledere effettivamente i beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice; si richiama, a tal fine, il nucleo di garanzia della stessa sentenza delle Sezioni unite Di Salvia là dove essa ritrova il paradigma di compatibilità tra i reati a pericolo presunto, come quello di coltivazione, ed il principio di offensività, proprio nella verifica concreta del giudice sulla effettiva messa in pericolo dei beni oggetto di tutela, sottraendoli dall'alveo di reati di "mera disobbedienza".

Successivamente, Sez. 6, n. 8058 del 17/2/2016, Pasta, Rv. 266168, negli stessi termini della sentenza Marongiu, ha affermato l'insufficienza dell'accertamento della conformità al tipo botanico vietato, dovendosi invece accertare l'offensività in concreto della condotta, intesa come effettiva ed attuale capacità della sostanza ricavata o ricavabile a produrre un effetto drogante e come concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso, nella specie annullando senza rinvio la pronuncia di condanna relativa alla coltivazione di una pianta di cannabis indica, da cui sono risultati ricavabili gr. 0,345 di principio attivo (cfr. anche Sez. 6, n. 12612 del 10/12/2012, Floriano, Rv. 254891). Egualmente, già Sez. 4, n. 1222 del 28/10/2008, dep. 2009, Nicoletti, Rv. 242371 aveva escluso la punibilità nel caso di piante che non avevano ancora completato il ciclo di maturazione né prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del concreto accertamento della presenza del principio attivo della sostanza stupefacente. Sez. 3, n. 21120 del 31/1/2013, Colamartino, Rv. 255427, in senso contrario, ha affermato l'irrilevanza del mancato completamento del ciclo di maturazione e la punibilità della coltivazione di 24 piante di canapa indiana "non ancora giunte a maturazione", constatandone le dimensioni. La sentenza, peraltro, espressamente ribadisce che non è configurabile il reato di coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti nel caso in cui la condotta sia assolutamente inidonea (irrilevante essendo il grado dell'offesa) a ledere i beni giuridici tutelati[6] dalla norma incriminatrice e, pertanto, risulti inoffensiva secondo i canoni previsti dall'art. 49 cod. pen., precisando, però, che tale assoluta inidoneità della condotta non può dipendere da circostanze occasionali e contingenti quali la mancata produzione di sostanza stupefacente a causa della non maturazione della piantagione, magari per l'intervento tempestivo da parte della polizia giudiziaria.

La giurisprudenza di legittimità aveva affrontato negli ultimi anni anche il tema della mera detenzione di semi di pianta dalla quale siano ricavabili sostanze stupefacenti: la pronuncia Sez. 6, n. 41607 del 19/6/2013, Lorusso, Rv. 256802, esclude la rilevanza penale di tale semplice detenzione, trattandosi di atto preparatorio non punibile, da cui non può desumersi l'effettiva destinazione dei semi, secondo quanto affermato anche da Sez. U, n. 47604 del 18/10/2012, Bargelli, Rv. 253552, per l'ipotesi di offerta in vendita di semi e la configurabilità del reato di cui all'art. 414 cod. pen. (la sentenza delle Sezioni Unite ancora una volta fa leva sull'interpretazione costituzionalmente orientata del principio di offensività).

3.3. Le pronunce su inoffensività ed inefficacia drogante della sostanza.

Deve, inoltre, segnalarsi, per completezza, una parte di pronunce che sembrano lasciar emergere un paradigma di inoffensività collegato all'inefficacia drogante o psicotropa, declinato non solo in tema di coltivazione di sostanze stupefacenti, ma anche in generale, per qualsiasi illecito avente ad oggetto detenzione o cessione di stupefacenti.

E difatti, già Sez. 6, n. 564 del 12/11/2001, dep. 2002, Caserta, Rv. 220448, aveva affermato che, in tema di stupefacenti, la valutazione dell'efficacia psicotropa delle sostanze, demandata al giudice nell'ambito della verifica dell'offensività specifica della condotta accertata, è la sola che consente la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta e va compiuta prendendo in considerazione il quantitativo complessivo di sostanze detenute ai fini di spaccio o cedute, senza arbitrarie parcellizzazioni legate ai singoli episodi di vendita.

Sul tema Sez. 6, n. 6928 del 13/12/2011, dep. 2012, Choukrallah, Rv. 252036 ha affermato, in generale, che, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 73 del d. P.R. n. 309 del 1990, è necessario dimostrare, con assoluta certezza, che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, sia di entità tale da poter produrre in concreto un effetto drogante. La motivazione della sentenza in esame ha ben posto in luce come le affermazioni sulla necessaria valutazione dell'offensività in concreto della condotta, svolte dalle Sezioni Unite Di Salvia e mutuate dalla giurisprudenza costituzionale, attengono a principi che, seppure pronunciati in materia di coltivazione non autorizzata, "si proiettano necessariamente sull'intera disciplina degli stupefacenti, investendo, in particolare, la fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, tipico esempio di reato di pericolo (rispetto al quale la Corte costituzionale ha avuto modo di precisare che non è incompatibile con il principio di offensività: sent. n. 133/1992 e n. 333/1991). Ne consegue che per i reati in materia di stupefacenti, che pongono in pericolo - in forme più o meno incisive - la salute degli assuntori, è essenziale la dimostrazione della probabilità di un evento lesivo, attraverso la dimostrazione dell'efficacia drogante della sostanza. Sicché, nel caso in cui l'offensività in concreto accertata dal giudice si riveli inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta "perché la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest'ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile. (Corte cost. n. 360/1995)."

In tale impostazione generale si riconosce, tra l'altro, una pronuncia del 2016, Sez. 4, n. 4324 del 27/10/2015, Mele, dep. 2016, Rv. 265976, Sez. 6, n. 8393 del 22/1/2013, Cecconi, Rv. 254857; nonché Sez. 4, n. 6207 del 19/11/2008, dep. 2009, Stefanelli, Rv. 242860.

Parallelamente, Sez. 3, n. 47670 del 9/10/2014, Aiman, Rv. 261160 e Sez. 4, n. 21814 del 12/5/2010, Renna, Rv. 247478[7] hanno affermato, ancora in tema di inoffensività, che il reato di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 è configurabile anche in relazione a dosi inferiori a quella media singola di cui al D.M. 11 aprile 2006, con esclusione soltanto di quelle condotte afferenti a quantitativi di sostanze stupefacenti talmente minimi da non poter modificare, neppure in maniera trascurabile, l'assetto neuropsichico dell'utilizzatore. Tuttavia, deve darsi atto che tale orientamento ha conosciuto opzioni difformi, per quanto non di recente affermazione; così, Sez. 5, n. 5130 del 4/11/2010, dep. 2011, Moltoni, Rv. 249702 riteneva l'irrilevanza del mancato superamento della soglia quantitativa drogante, stante la natura legale della nozione di sostanza stupefacente; nello stesso senso: Sez. 4, n. 32317 del 3/7/2009, Di Settimio, Rv. 245201 e numerose conformi precedenti, emesse sulla scia di Sez. U, n. 9973 del 24/6/1998, Kremi, Rv. 211073, che, stabilendo la nozione legale di stupefacente, aveva ritenuto (in una fattispecie di illecita detenzione e vendita di sostanza stupefacente contenente mg. 13,4 di eroina-base) che l'inidoneità dell'azione, relativamente alle fattispecie previste dall'art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990, vada valutata unicamente avuto riguardo ai beni oggetto della tutela penale, individuabili in quelli della salute pubblica, della sicurezza e dell'ordine pubblico e della salvaguardia delle giovani generazioni, beni che sono messi in pericolo anche dallo spaccio di dosi contenenti un principio attivo al di sotto della soglia drogante.

4. Alcune considerazioni finali.

Non è in dubbio che le diversità interpretative riscontrate nella giurisprudenza di legittimità sono frutto, principalmente, della difficoltà conseguente all'adattamento della fattispecie tipica di pericolo, a tutela anticipata, del reato di coltivazione di piante stupefacenti alle molteplicità della realtà fattuale e delle situazioni concrete prospettabili, spesso tra loro molto distanti per grado di offesa portato ai beni protetti e modalità di commissione della condotta.

La distanza evidente che separa una coltivazione cd. agraria di piante stupefacenti da quella di una o più piantine nel proprio domicilio - spesso queste ultime destinate in modo evidente all'uso personale - rende difficile l'adeguamento dei canoni interpretativi fissati dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza Di Salvia alle ragioni preminenti del principio di offensività in concreto, che la Corte costituzionale indica al giudice come criterio guida del suo operare in materia di reati di pericolo astratto.

È possibile, altresì, ritrovare, nei filoni giurisprudenziali esaminati, differenti opzioni interpretative di partenza.

A volte ad essere privilegiata è l'istanza di tutela anticipata della salute pubblica e degli altri beni tutelati, nonchè la proiezione anche "naturalistica" della pericolosità della condotta. Così accade, ad esempio, nella prospettiva della tesi che ritiene sufficiente alla punibilità la potenziale attitudine a produrre sostanza stupefacente di piante botanicamente idonee.

Altre volte - soprattutto in presenza di una fattispecie concreta di modesta o minima manifestazione di pericolosità - si privilegia il criterio di offensività, espandendolo massimamente nella sua prospettiva "realistica": è il caso della tesi della soglia drogante "assolutamente minima", rilevata per coltivazioni domestiche dalle quali non è possibile ricavare nell'immediatezza altro che una quantità di principio attivo insufficiente a porre alcun pericolo di diffusione della droga o di aumento della sua disponibilità sul mercato illegale.

Infine, secondo altra prospettiva interpretativa, il momento dell'accertamento del reato è quello in cui è dovuta la verifica della offensività concreta, al di là di prognosi sull'idoneità della coltivazione a giungere a maturazione, sicchè, laddove non sia rilevabile né sia stata rilevata (anche in chiave, dunque, di difetto probatorio) la ricavabilità di sostanza stupefacente dalle piante, non è possibile ritenere la punibilità, a meno di non volere immaginare un'ipotesi di reato costruito come di mera disobbedienza e non di pericolo.

Se queste sembrano essere le principali "correnti" di pensiero che percorrono, nel fondo, l'approccio interpretativo della Corte di cassazione sul tema, devono proporsi alcune considerazioni ulteriori.

Si è già sottolineato che, nella materia della coltivazione di piante stupefacenti come in poche altre, la fattispecie concreta influenza significativamente quella tipica di raffronto.

Non è un caso, infatti, che le tesi di maggior espansione del principio di offensività in concreto o quelle che indicano la necessità di una "immediata" rilevabilità e rilevanza della capacità stupefacente della sostanza estraibile siano state enunciate rispetto a condotte concrete di scarso impatto fattuale, per la modesta quantità di piante facenti parte della "coltivazione" o per le modalità evidentemente "domestiche" di essa, pur senza respingere, in quest'ultimo caso, l'assunto di punibilità della condotta anche se lo stupefacente era di uso personale. In tali ipotesi di evidente offensività "assolutamente minima", la Cassazione si dimostra sensibile ad evitare l'intervento penale rispetto a condotte di rilievo offensivo sostanzialmente valutato inesistente.

Quello che la Suprema Corte pare ritenere, infatti, è un giudizio complessivo sulla condotta per come essa si è manifestata: non soltanto quantità minima di principio attivo ricavabile, ma anche condizioni di coltivazione trascurabili, di tipo domestico, non proiettabili in una seria prognosi futura verso l'incremento del mercato di droga e, dunque, verso la messa in pericolo dei beni oggetto di tutela.

Diverso l'atteggiamento, e il discorso concretamente svolto, dalle pronunce di legittimità che fanno, invece, riferimento a coltivazioni agricole-imprenditoriali vere e proprie o, comunque, di consistenti dimensioni, quand'anche da esse non sia possibile ricavare un quantitativo significativo nell'immediatezza dell'accertamento.

5. La proposta di legge per la legalizzazione della coltivazione di cannabis.

Deve darsi atto, in chiusura, della proposta di legge attinente alla legalizzazione della cannabis - AC 3235 della Camera dei Deputati, attualmente all'esame di nuovo delle Commissioni referenti, dopo un rinvio dalla discussione in Aula, in cui sono state inserite, tra l'altro, anche alcune modifiche dell'art. 73, comma 5, T.U. Stup. (dall'art. 3, comma 1, lett. b) del testo normativo all'esame del Parlamento).

Le disposizioni alla lettura della Camera dei Deputati prevedono, come noto, una molteplicità di modifiche al corpo normativo del D.P.R. n. 309 del 1990, dirette a rendere "legale" la coltivazione (anche in forma associata), la detenzione (sia a scopo "ricreativo" che ad uso terapeutico) e la cessione gratuita - per il consumo personale e determinandone, per ciascuna ipotesi, le condizioni di liceità - della cannabis e dei suoi derivati, con monopolio di Stato per la coltivazione non ad uso personale e la produzione di sostanza destinata al mercato.

Allo stato, tuttavia, non è facile fare previsioni sulla reale possibilità che la normativa venga approvata, assecondando così le ragioni dei sostenitori dell'opzione antiproibizionista[8] per il consumo di cannabis, viste le resistenze politiche e culturali che si sono sin da subito manifestate e delle quali costituisce una espressione simbolica la discussione alla Camera dei Deputati sulla proposta di legge Giachetti, AC 3235[9].

  • urbanistica e edilizia
  • abusivismo edilizio

CAPITOLO IV

SANATORIA EDILIZIA E SOSPENSIONE DELLA PRESCRIZIONE

(di Pietro Molino )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le ipotesi di "sanatoria" edilizia e i termini del contrasto sulla durata della sospensione del termine di prescrizione. - 3 La decisione delle Sezioni Unite. - 4 Sospensione e rinvio del processo: onori e oneri della difesa.

1. Premessa.

Nel 2016 le Sezioni Unite - n. 15427/16, u.p. 31 marzo 2016 (dep. 13 aprile 2016), Cavallo - si sono pronunciate sul rapporto fra sanatoria edilizia e termine di prescrizione dei reati edilizi, affermando i seguenti principi:

1) "Il periodo di sospensione del processo, previsto nel caso di presentazione di istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13 della legge n. 47 del 1985), deve essere considerato ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio" (Rv. 267041);

2) "In caso di sospensione del processo su richiesta dell'imputato o del suo difensore, disposta oltre il termine previsto per la formazione del silenzio-rifiuto ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, opera la sospensione del corso della prescrizione a norma dell'art. 159, comma primo, n. 3, cod. proc. pen." (Rv. 267042).

La terza sezione aveva richiesto al supremo collegio di chiarire due questioni di diritto, strettamente connesse tra loro: se il periodo di sospensione del dibattimento disposto dal giudice nelle ipotesi di presentazione di istanza di accertamento in sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13 della L. 47/85) debba, o meno, essere considerato in tutto o in parte ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio, e se, in caso di successive istanze di rinvio del processo dinnanzi al giudice penale ed all'esito negativo della domanda amministrativa di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, si applichino, o meno, le disposizioni previste dall'art. 159 n. 3 del codice penale per effetto di richieste di rinvio su istanze del privato.

2. Le ipotesi di "sanatoria" edilizia e i termini del contrasto sulla durata della sospensione del termine di prescrizione.

1. La questione preliminarmente rilevata dalla Sezione rimettente riguarda l'estensibilità, alla disciplina prevista dal combinato disposto degli artt. 13 e 22 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (oggi sostituiti dagli artt. 36 e 45 del d.P.R. 10 giugno 2001, n. 380), delle regole riguardanti gli effetti sulla prescrizione derivanti dalla sospensione del processo disposta nelle ipotesi disciplinate dagli artt. 44 e 38 della legge 47/1985, ovvero dall'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, ovvero ancora dall'art. 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito (con modificazioni) in legge 24 novembre 2003, n. 326.

In termini più agevoli di comprensione, si discute se ai casi di sanatoria di cd. (doppia) conformità si applichi, o meno, la regola generale, individuata per le diverse situazioni di cd. condono edilizio, secondo cui in caso di non accoglibilità della domanda di sanatoria non può ritenersi legittima la sospensione del procedimento penale, con quanto ne consegue sul calcolo del termine di prescrizione dei reati previsti dal D.P.R. n. 380/01 (cd. Testo Unico dell'Edilizia); e ciò indipendentemente dal fatto che il giudice abbia disposto o negato tale sospensione, dovendosi nel primo caso ritenere la sospensione inesistente.

Al riguardo, il collegio remittente aveva richiamato il principio di diritto, sancito dalle Sezioni Unite, n. 22 del 24 novembre 1999, Sadini, Rv. 214792, secondo cui, qualora non ricorrano i presupposti temporali per il condono edilizio - si trattava, in quella fattispecie, del cd. "mini condono" riferito ai reati edilizi indicati negli artt. 38, comma 2, della L. 47/85 e 39, comma 7, della L. 724/94 - non è possibile tenere conto delle sospensioni del processo, ed in particolare della sospensione c.d. "automatica" prevista dall'art. 44 della legge 47/85 nonché della ulteriore sospensione c.d. "obbligatoria", prevista dall'art. 38 stessa legge, in relazione all'art. 39 della L. 724/94: nella circostanza, le Sezioni Unite, affermando che la sospensione non è in alcun caso applicabile ai procedimenti concernenti interventi edilizi abusivi che, dalla contestazione o dagli atti, risultino proseguiti dopo il 1.12.1993, specificavano che la sospensione del procedimento penale è norma di "favore", unicamente finalizzata a consentire all'imputato di provvedere a tutti gli adempimenti necessari per ottenere la sanatoria amministrativa e l'estinzione dei reati per oblazione, "benefici" come detto categoricamente esclusi per le costruzioni ultimate dopo il 31.12.1993.

L'orientamento espresso dalle Sezioni Unite Sadini - in forza del quale, dunque, una eventuale sospensione del processo concessa in difetto delle condizioni per l'ottenimento del condono edilizio (nelle diverse reiterazioni legislative) deve considerarsi tamquam non esset, con conseguente maturazione del termine prescrizionale dopo la scadenza del termine massimo quinquennale ex art. 157 cod. pen. (salve eventuali sospensioni disposte per altra causa) - ha trovato nella giurisprudenza della Corte costante riscontro (per ultimo, Sez. 3, n. 9670 del 26/01/11, Rizzo, Rv. 249606), essendosi a più riprese affermato - ad esempio - che la sospensione per reati edilizi prevista dall'art. 44 della L. 47/85, in relazione alla domanda di condono edilizio presentata ai sensi dell'ultimo condono contemplato dall'art. 32 del D.L. 260/03 (convertito nella L. 326/03), non può essere disposta con riferimento ad opere non condonabili, di modo che l'eventuale sospensione erroneamente disposta dal giudice deve considerarsi inesistente, con le ovvie ricadute in tema di computo dei termini di prescrizione del reato.

Il contrasto interpretativo denunciato dal collegio remittente deriva dal fatto che, secondo un indirizzo giurisprudenziale, la regola consacrata dalle Sezioni Unite Sadini deve essere estesa anche al cd. accertamento di conformità: un istituto - previsto originariamente dall'art. 13 della legge n. 47 del 1985 ed oggi disciplinato dall'art. 36 del Testo Unico dell'Edilizia - che differisce nettamente dal condono edilizio, nella misura in cui consente di sanare un intervento di edificazione solo formalmente abusivo, perché privo o divergente dal titolo abilitativo, ma sostanzialmente assentibile in quanto conforme alla previsioni urbanistiche vigenti tanto all'epoca della condotta quanto al momento del rilascio della sanatoria (cd. "doppia conformità").

In Sez. Fer., n. 34938 del 09/08/2013, Bombaci, Rv. 256714, la Corte aveva infatti affermato che il differimento del procedimento penale determinato esclusivamente dalla pendenza di un procedimento di sanatoria cd. di conformità è illegittimo se eccede il tempo fissato dalla legge per la definizione di quest'ultimo, con la conseguente illegittimità dell'ordinanza di sospensione dei termini di prescrizione per un tempo superiore alla durata della procedura amministrativa: ciò sul presupposto che la sospensione del procedimento penale per violazioni edilizie, già prevista dagli artt. 13 e 22 della Legge fondamentale urbanistica n. 47/85 (come detto, oggi sostituiti dagli artt. 36 e 45 del D.P.R. n. 380/2001), è limitata al termine di sessanta giorni dalla data del deposito della domanda di concessione in sanatoria, in quanto riguarda i tempi necessari per la definizione della procedura amministrativa, la quale, consumato detto termine senza che la domanda sia stata accolta, si intende esaurita per silenzio rifiuto.

Più in dettaglio, pur considerando la diversità esistente tra, da un lato, l'istituto della sospensione del corso della prescrizione conseguente, ai sensi dell'art. 159, comma 1, n. 3) cod. pen., all'accoglimento della richiesta di mero rinvio dell'imputato o del suo difensore e, dall'altro, la sospensione dell'azione penale fino all'esaurimento del procedimento amministrativo di sanatoria edilizia, l'orientamento espresso nella sentenza Bombaci postula che, qualora il differimento dell'udienza disposto dal giudice penale venga giustificato con esclusivo riguardo alla pendenza del procedimento amministrativo di sanatoria, esso non può prescindere dal termine massimo di sessanta giorni per la definizione di quest'ultimo.

Nella giurisprudenza della Cassazione si è però successivamente manifestato un diverso indirizzo, per il quale le ipotesi di sospensione del processo determinata da una istanza di parte che, adducendo l'intervenuta presentazione di domanda di sanatoria ai sensi degli artt. 13 e 22 della L. 47/85 (oggi artt. 36 e 45 del D.P.R. 380/01), solleciti al giudice un rinvio per attenderne l'esito, ricadono sotto l'operatività dell'art. 159 n. 3 cod. pen.: disposizione che, alla operata sospensione del processo su istanza di parte o del difensore, fa conseguire la parallela sospensione del termine prescrizionale.

Principale testimonianza di tale posizione è Sez. 3, n. 41349 del 28/05/2014, Zappalorti, Rv. 260753, pronuncia fortemente ispirata a quanto già sottolineato, con riferimento alla disciplina della prescrizione, dalle Sezioni Unite n. 1021/2002 del 28/11/2001, Cremonese, Rv. 220509, laddove il supremo collegio - con argomentazione "perpicuamente capace di anticipare l'assetto successivamente dato all'art. 159 dal legislatore del 2005 attraverso l'enucleazione delle specifiche ipotesi ivi collocate" - afferma che il processo penale "vive prevalentemente delle iniziative non solo istruttorie delle parti anche private, che hanno il potere di contribuire autonomamente a determinare tempi, modalità e contenuti delle attività processuali": di modo che le parti non hanno più solo poteri limitativi dell'autorità del giudice, ma condividono con questi la responsabilità dell'andamento del processo e debbono conseguentemente assumersi gli oneri connessi all'esercizio dei poteri loro riconosciuti.

Sulla scorta di tale approccio interpretativo, la sentenza Zappalorti aveva denunciato l'incongruità di una lettura della norma che consente alla stessa parte che ha chiesto ed ottenuto il rinvio della udienza, pur in mancanza dei presupposti legittimanti, di lamentare la correlata considerazione della sospensione della prescrizione derivante da tale rinvio: e ciò, in particolare, proprio laddove la sospensione sia adottata in vista delle esigenze della parte instante.

3. La decisione delle Sezioni Unite.

Nel risolvere il contrasto, la Corte nella sua più autorevole composizione ricorda, in premessa, la fondamentale differenza strutturale fra gli istituti del condono edilizio e della sanatoria di conformità: il primo finalizzato alla regolarizzazione, anche in contrasto con gli strumenti urbanistici, di determinati abusi edilizi realizzati entro un limite temporale, dietro pagamento di un'oblazione; il secondo destinato al recupero, in via generale, dei manufatti abusivi previo accertamento della conformità degli stessi alle previsioni urbanistiche vigenti sia all'epoca della realizzazione che al momento del rilascio.

Osservano poi le Sezioni Unite che diversi sono anche, per i due istituti a confronto, i periodi di "stasi" processuale.

Il condono edilizio è infatti soggetto a due distinte cause di sospensione: una prima "automatica", quantificata in 223 giorni dalle Sezioni Unite n. 1283/97 del 03/12/1996, Sellitto, Rv. 206849 per effetto del calcolo dei termini complessivi in conseguenza della mancata conversione di vari decreti legge, succedutesi nel tempo prima della approvazione della legge n. 72471994; una seconda sospensione "obbligatoria", che non può superare i due anni, subordinata all'accertamento di determinati presupposti, quali la presentazione di una domanda di condono relativa all'immobile abusivo oggetto del processo realizzato nei limiti temporali stabiliti ed il versamento della prima rata di oblazione autodeterminata.

Come già più volte evidenziato, con la sentenza Sadini le Sezioni Unite abbracciavano l'indirizzo che esclude l'applicabilità della sospensione "obbligatoria" ai reati la cui consumazione risulti proseguita dopo il termine ultimo per il completamento delle opere, individuato dalla legge ai fini di consentirne la condonabilità.

Più in generale, dalla Sadini emerge il principio della inefficacia della sospensione del processo, ai fini della conseguente sospensione dei termini di prescrizione, in tutti i casi di sospensione disposta in difetto dei presupposti normativi per l'accesso alla procedura di condono (concernenti, in sintesi: la data di esecuzione delle opere; lo stato di ultimazione delle stesse secondo la nozione fornita dall'art. 31 della legge n. 47/1985; il rispetto dei limiti volumetrici; le eventuali esclusioni oggettive della tipologia d'intervento dalla sanatoria; la tempestività della presentazione, da parte di soggetti legittimati, di una domanda di sanatoria riferita alle opere abusive contestate nel capo di imputazione), accertabili preliminarmente e oggettivamente dal giudice sulla base della contestazione e degli atti del procedimento; con la conseguenza che l'inesistenza di detti presupposti normativi impedisce non soltanto il condono delle opere abusive, ma anche la sospensione del procedimento penale, indipendentemente dal fatto che il giudice l'abbia disposta o negata, dovendosi, nel primo caso, ritenere la sospensione inesistente per assenza, appunto, del suo fondamentale presupposto; ma con l'indispensabile precisazione che il successivo accertamento dell'inesistenza dei presupposti per l'applicazione del condono, non determina inevitabilmente l'inesistenza della sospensione, perché, a tal fine, deve ovviamente prendersi in considerazione la situazione prospettatasi al giudice nel momento in cui ha pronunciato la relativa ordinanza, nel senso che l'inesistenza di una valida causa di sospensione deve risultare dagli atti processuali o dalla stessa contestazione del reato e sia, conseguentemente, immediatamente rilevabile dal giudice, poiché, altrimenti, il successivo accertamento della inesistenza dei requisiti per l'applicazione della causa estintiva della contravvenzione non farebbe venir meno la correttezza dell'iniziale ordinanza sospensiva (e, quindi, gli effetti, ad essa connessi, della conseguente sospensione della prescrizione), avendo il giudice proceduto nella esatta osservanza di quanto previsto dalla legge.

Per quanto concerne invece il diverso istituto della sanatoria conseguente ad accertamento di conformità, le Sezioni Unite Cavallo (n. 15427/16) ribadiscono preliminarmente la correttezza del presupposto per il quale la sospensione ex lege del procedimento, in pendenza della domanda di sanatoria di conformità, è limitata a sessanta giorni, decorso il quale si configura una ipotesi di silenzio-rifiuto (così anche, recentissimamente, Sez. 3, n. 22254 del 28/04/2016, Salerno, non massimata) al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego.

Nell'annualità in rassegna, il principio è stato ribadito in Sez. 3, n. 17341 del 18/03/2016, Lascari, non massimata, in una fattispecie dove è stata confermata la legittimità della decisione, adottata dal giudice di merito, di escludere l'esistenza di un silenzio-assenso per effetto ed in conseguenza dell'inerzia dell'autorità amministrativa richiesta, cui la disciplina fa conseguire al contrario il descritto silenzio-rifiuto.

Le Sezioni Unite Cavallo osservano tuttavia che, se dopo la scadenza del termine viene meno l'obbligo del giudice penale di sospendere il procedimento, non può tuttavia reputarsi ingiustificato ogni ulteriore rinvio (e ogni conseguente ulteriore sospensione dei termini di prescrizione) espressamente richiesto al giudice, in quanto l'amministrazione non perde comunque il potere di rilasciare, in presenza dei presupposti di legge, il permesso di costruire in sanatoria: cosicché una eventuale richiesta di rinvio in previsione dell'accoglimento della domanda già presentata risulta pienamente legittima (e pienamente legittimo è il provvedimento che l'accoglie), considerati anche i vantaggiosi effetti per l'imputato che conseguono al rilascio del titolo abilitativo postumo.

È dunque del tutto irragionevole una diversa lettura della normativa che considerasse non superabile, in qualunque caso, il termine di sospensione di sessanta giorni, in quanto si verrebbe a creare una situazione nella quale, al fine di evitare il decorso dei termini di prescrizione, il giudice si vedrebbe costretto a proseguire comunque nella trattazione del processo, anche in presenza di una espressa richiesta della parte.

Il massimo consesso nomofilattico chiarisce che deve tenersi ben distinta l'ipotesi della sospensione ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/01 da quella della sospensione conseguente al rinvio su istanza di parte:

- nel primo caso, la sospensione presuppone comunque, ai fini della legittimità, la previa verifica, da parte del giudice, della oggettiva sussistenza dei presupposti di legge, con la conseguenza che a fronte di una situazione che evidenzi - pacificamente e senza necessità di specifici accertamenti - l'assenza dei requisiti per l'accoglimento della domanda di sanatoria, la sospensione, sia per il periodo ex lege di sessanta giorni che per quello eventualmente superiore, non può operare, e ove disposta dal giudice autonomamente e senza richiesta di parte non produce effetti sospensivi della prescrizione;

- nell'ipotesi in cui la sospensione sia disposta in accoglimento di una richiesta dell'imputato o del suo difensore, la disciplina applicabile è sempre quella di cui all'art. 159, comma primo, n. 3, cod. pen. (nel testo novellato dalla legge n. 251/2005), secondo cui il corso della prescrizione rimane legittimamente sospeso per tutta la durata della sospensione: e ciò in quanto la previsione di rinvio del dibattimento su richiesta di parte è finalizzata al soddisfacimento di esigenze diverse da quelle costituenti legittimo impedimento e tiene conto della libera scelta del difensore di chiedere il rinvio, per cui è logico in tal caso contemperare l'aggravio per l'ufficio giudiziario derivante dall'accoglimento di tale richiesta, rimettendo al giudice la determinazione della durata del rinvio e del conseguente blocco del termine prescrizionale, non indicato dal legislatore in un limite massimo (sul punto, confermando l'insegnamento già espresso in Sez. 3, n. 45968 del 27/10/2011, Diso, Rv. 251629).

Ne deriva - tirando le fila del percorso motivazionale delle Sezioni Unite Cavallo - che nel caso di rinvio su istanza dell'imputato o del suo difensore operano, ai fini della sospensione dei termini di prescrizione, i principi generali stabiliti dal codice di rito, i quali avranno effetto, a differenza di quanto avviene con riguardo alla sospensione ex artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001, anche con riferimento ai reati eventualmente concorrenti con il reato edilizio.

In conseguenza di quanto sancito dalle Sezioni Unite Cavallo, dunque, la prescrizione per i reati edilizi, pur rimanendo attestata nel termine di cinque anni, non risente più - proprio in ragione del "congelamento" conseguente alla riconosciuta legittimità delle sospensioni disposte dal giudice su istanza dell'imputato o del suo difensore - degli effetti di strategie processuali, finalizzate a chiedere lunghe sospensioni dei processi pur nella interna consapevolezza della assenza, non immediatamente rilevabile dal giudice, dei presupposti normativi per l'ottenimento dell'accertamento di conformità, ed ad invocare poi - una volta registrato il rifiuto da parte dell'amministrazione competente o una volta cessato il periodo di sospensione - il computo del tempo trascorso nel calcolo del termine prescrizionale, così da lucrare una sostanziale impunità.

4. Sospensione e rinvio del processo: onori e oneri della difesa.

Allargando l'angolo di visuale, la conclusione raggiunta dalle Sezioni Unite Cavallo appare dar seguito, pur nella specificità dell'ambito dei reati edilizi, ad una posizione già espressa, abbastanza di recente, in Sezioni Unite, n. 4909/15 del 18 dicembre 2014, Torchio, Rv. 262914, laddove è stato affermato che "qualora il giudice, su richiesta del difensore, accordi un rinvio della udienza, pur in mancanza delle condizioni che integrano un legittimo impedimento per concorrente impegno professionale del difensore, il corso della prescrizione è sospeso per tutta la durata del differimento, discrezionalmente determinato dal giudice avuto riguardo alle esigenze organizzative dell'ufficio giudiziario, ai diritti e alle facoltà delle parti coinvolte nel processo e ai principi costituzionali di ragionevole durata del processo e di efficienza della giurisdizione".

Nell'affrontare la questione della natura dell'impedimento derivante dal concomitante impegno processuale del difensore, la Corte aveva ivi infatti argomentato che "ove l'onere di documentazione dell'impedimento non sia osservato dal difensore, non può dunque ritenersi sussistente il legittimo impedimento e quindi neppure un "diritto al rinvio" della causa; tuttavia, può eventualmente il giudice, contemperando comunque le esigenze della difesa con quelle della giurisdizione, concedere il rinvio secondo il suo prudente apprezzamento - tenendo conto delle esigenze organizzative dell'ufficio giudiziario, dei diritti e delle facoltà per le altre parti coinvolte nel processo, dei principi costituzionali di ragionevole durata ed efficienza della giurisdizione - così qualificando la richiesta di differimento non come legittimo impedimento ma come "mera richiesta di rinvio" per assicurare all'imputato di essere assistito dal difensore che meglio conosce la vicenda processuale: ciò comportando, conseguentemente, la sospensione del decorso della prescrizione per tutto il periodo del differimento".

Nello stesso solco interpretativo - nel senso cioè di ricondurre ad una causa di sospensione del processo, con conseguente sospensione del termine prescrizionale per tutto il tempo di essa, ogni rinvio del dibattimento motivato da specifica istanza dell'imputato, con la sola eccezione in cui la dilazione sia richiesta per esigenze probatorie o propriamente difensive (nel qual caso il termine prescrizionale non è sospeso) ovvero in cui la sospensione sia connessa ad una situazione di impedimento dell'imputato o del difensore (nel qual caso la prescrizione è sospesa per un massimo di sessanta giorni) - paiono collocarsi anche Sez. 5, n. 25444 del 23 maggio 2014, Zandomenighi, Rv. 260414 e Sez. 2, n. 28081 del 12 giugno 2015, Corvo, Rv. 264288: arresti che tra loro differiscono solo nella valutazione dell'effetto dell'istanza di sospensione/rinvio proveniente dall'imputato qualora sia accompagnata anche dalla concorde richiesta in tal senso formulata dalle altre parti del processo, ritenendo la seconda pronuncia che la previsione di cui all'art. 159 cod. pen., comma 1, n. 3, nel contemplare come ipotesi di sospensione solo quella che provenga "dall'imputato o dal suo difensore", debba essere interpretata in senso restrittivo, con esclusione dunque delle situazioni nelle quali la richiesta sia formulata congiuntamente alla parte civile ovvero al pubblico ministero.

Qualche anno prima la Corte - con la già menzionata Sez. 3, n. 45968 del 27 ottobre 2011, Diso, Rv. 251629 - aveva rigettato, ritenendola manifestamente infondata, la richiesta di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 159 cod. pen. in relazione alla omessa previsione di un termine massimo di sospensione della prescrizione, nel caso in cui il differimento dell'udienza sia disposto su richiesta di parte, affermando che " . . .la previsione di rinvii del dibattimento su richiesta di parte è finalizzata al soddisfacimento di esigenze diverse da quelle costituenti legittimo impedimento e, quindi, tiene conto della libera scelta del difensore di chiedere il rinvio, sicché è stato ritenuto logico, in tal caso, contemperare l'aggravio per l'ufficio giudiziario derivante dal soddisfacimento di esigenze di parte, rimettendo alla sua determinazione la durata del rinvio in modo da tener conto delle esigenze dell'ufficio medesimo . . . ".

Nell'anno in rassegna, nel solco della impostazione condivisa dalle pronunce ricordate può ragionevolmente iscriversi Sez. 3, n. 26429 del 01/03/2016, Bellia, Rv. 267101, sentenza che, nell'affermare che il rinvio del dibattimento riferibile ad esigenze di acquisizione della prova non determina la sospensione nel corso della prescrizione, ha invece ritenuto legittimo - nella fattispecie esaminata - il computo, nel calcolo della sospensione, del periodo corrispondente al differimento concesso dal giudice su richiesta di "tutte le parti processuali" per un incombente, quale la discussione, differito unicamente perché in tal senso avevano appunto instato anche le difese.

  • carcerazione
  • prescrizione dell'azione
  • responsabilità amministrativa
  • reato colposo
  • ente pubblico

CAPITOLO V

LA RESPONSABILITÀ DA REATO DEGLI ENTI

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 Premesse. - 2 La prescrizione dell'illecito amministrativo. - 3 Autonomia della responsabilità dell'ente. - 4 Le vicende modificative dell'ente. - 4.1 Vicende modificative e personalità della responsabilità dell'ente. - 5 L'interesse ed il vantaggio con riferimento ai reati colposi di evento. - 6 I presupposti applicativi delle misure cautelari interdittive. - 7 Dinamiche cautelari e condotte riparatorie. - 8 Modelli organizzativi post factum e modifiche della governance. - 9 Interesse e vantaggio nei rapporti tra holding e società partecipate.

1. Premesse.

Nel corso dell'anno oggetto della presente rassegna non sono intervenute sentenze delle Sezioni unite aventi ad oggetto la responsabilità da reato degli enti, tuttavia, sono meritevoli di segnalazione plurime sentenze rese dalle sezioni semplici che hanno affrontato problematiche variegate. La pregressa giurisprudenza in tema di d.lgs. 8 giugno 2001, n.231 si era incentrata essenzialmente sui profili cautelari, in particolar modo quelli concernenti il sequestro e la confisca del profitto derivante all'ente dalla commissione dell'illecito; su alcune questioni prettamente processuali e concernenti la partecipazione dell'ente al procedimento; nonché sull'adeguamento dei criteri di imputazione oggettiva - fondati sull'interesse ed il vantaggio conseguito dall'ente - rispetto all'estensione della responsabilità da reato anche a fattispecie di reato colpose.

Con riferimento a tali tematiche, le Sezioni unite sono intervenute negli anni precedenti fornendo soluzioni che hanno trovato conferma nella successiva elaborazione giurisprudenziale.

Con i più recenti orientamenti, le sezioni semplici non si sono limitate a ribadire tali arresti giurisprudenziali, essendo stata chiamata ad affrontare tematiche in precedenza non giunte all'attenzione della Corte.

L'ampliamento delle questioni in tema di d.lgs. n. 231 del 2001 e, soprattutto, il superamento dell'angusta visuale circoscritta alle tematiche cautelari, costituisce di per sé un elemento degno di essere sottolineato, in quanto dimostrativo del progressivo diffondersi di una disciplina che, soprattutto nei primi anni conseguenti alla sua introduzione, ha avuto un'obiettiva difficoltà nell'affermarsi quale uno dei principali cardini del sistema penale. A tal proposito è utile fin da subito richiamare l'attenzione su quelle pronunce che hanno affrontato questioni sostanziali di primario interesse, quali il regime della prescrizione, l'autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella della persona fisica, nonché il peculiare regime delle vicende modificative, problematiche che si ricollegano tutte ad aspetti sostanziali del sistema delineato dal d.lgs. n. 231 del 2001.

Accanto a tali pronunce, se ne segnalano altre che hanno nuovamente affrontato le tematiche cautelari, nonché la problematica dell'individuazione dell'interesse e vantaggio dell'ente, ribadendo i principi affermati da precedenti pronunce delle Sezioni unite, tuttavia ampliando e meglio esplicando le tematiche in questione, fornendo essenziali parametri per la futura applicazione della normativa delineata dal d.lgs. n. 231 del 2001.

2. La prescrizione dell'illecito amministrativo.

La disciplina della prescrizione disegnata dall'art. 22 d.lgs. n. 231 del 2001 si discosta da quella concernente il reato, essendo previsto un termine unico di cinque anni che prescinde, quindi, dall'entità della pena astrattamente prevista per ciascuna fattispecie di illecito, inoltre, il regime degli effetti interruttivi è modulato sulla falsariga della disciplina civilistica, posto che l'esercizio dell'azione penale determina l'interruzione del corso della prescrizione per l'intera durata del giudizio.

La diversità di disciplina dell'istituto della prescrizione applicabile all'ente rispetto a quanto previsto per l'imputato, ha fatto dubitare della legittimità costituzionale dell'art.22 cit., essendo stata prospettata la contrarietà agli artt. 3, 24 e 111 Cost., anche per quanto concerne gli effetti che l'interruzione della prescrizione produrrebbe in riferimento alla durata del processo.

La questione è stata ritenuta manifestamente infondata da Sez. 6, n. 28299 del 7 luglio 2016, Bonomelli, Rv. 267047, che ha analiticamente esaminato la problematica raffrontandola alla natura della responsabilità da reato degli enti. Il dubbio di incostituzionalità era stato proposto con riferimento all'art. 3 Cost. assumendosi l'ingiustificata previsione di un regime autonomo per la prescrizione riferita all'illecito dell'ente, ritenendosi che tale causa estintiva si sarebbe dovuta articolare in termini analoghi a quanto previsto per l'imputato, in quanto identica è la ragione che la legittima la prescrizione per entrambi i soggetti - ente e persona fisica - sottoposti al procedimento penale.

La tesi è stata respinta dalla Corte che ha preso le mosse dalla diversa natura giuridica della responsabilità introdotta dal d.lgs. n. 231 del 2001, richiamando l'approdo cui è giunta Sez. U, n. 38343 del 18 settembre 2014, Espenhahn, Rv. 261112, la quale ha chiarito come il sistema di responsabilità ex delicto configurabile nei confronti dell'ente, pur presupponendo la commissione di un reato ed essendo oggetto di accertamento nell'ambito del procedimento penale, si connota non già come una forma di responsabilità penale, bensì va qualificata come un tertium genus configurando un illecito amministrativo, pur se strettamente collegato ad una fattispecie penale. Né appare dirimente il richiamo contenuto all'art. 35 d.lgs. n. 231 del 2001 che consente l'applicazione all'ente delle disposizioni relative all'imputato, posto che la norma contiene una clausola di compatibilità che di per sé sottolinea l'impossibilità di una completa parificazione tra l'ente e la persona fisica, come dimostrato anche dalle plurime disposizioni derogatorie previste con riferimento al modello di responsabilità delle persone giuridiche.

Partendo dal presupposto che la responsabilità degli enti non ha natura penale e che la disciplina dell'illecito amministrativo è suscettibile di una disciplina diversificata rispetto a quella prevista per il reato, viene meno l'argomento che ravvisa una indebita diversità di trattamento dell'istituto della prescrizione.

Tanto più ove si consideri che la durata della prescrizione ed il regime delle cause di interruzione, sono conseguenti ad un'espressa indicazione contenuta all'art. 11, lett. r) della delega di cui alla 1. 29 settembre 2000, n. 300, lì dove si richiedeva che l'interruzione della prescrizione dovesse essere regolata dalle norme del codice civile, in tal modo uniformando la disciplina a quanto previsto dall'art. 28 1. 24 novembre 1981, n. 689, che in materia di illecito amministrativo richiama la disciplina della prescrizione di matrice civilistica. In motivazione, la Corte ha sottolineato come "il legislatore ha attuato una differenziazione del regime di prescrizione avendo ben presente le ragioni, consistenti nella diversità tra illecito amministrativo, fondante la responsabilità delle persone giuridiche, e reato e, conseguentemente, adeguando la disciplina della prescrizione riferita all'ente al regime già previsto dalla legge generale sulla depenalizzazione del 1981, per l'illecito punitivo amministrativo".

In conclusione, se il d.lgs. n. 231 del 2001 delinea una forma di responsabilità di natura amministrativa e non penale, viene meno l'argomento secondo cui una diversa disciplina della prescrizione contrasterebbe con l'art. 3 Cost.

Un ulteriore profilo di incostituzionalità della disciplina della prescrizione era stato ipotizzato con riferimento al principio di ragionevole durata del processo, previsto dall'art. 111 Cost., ma desumibile anche dall'art. 24 Cost., nell'accezione di canone di ragionevole durata in termini di garanzia soggettiva.

La Corte, ha sottolineato che il principio della ragionevole durata del processo è essenzialmente declinato in senso oggettivo e come indicazione rivolta al legislatore affinchè predisponga un sistema giudiziario efficiente, riconoscendo che il principio esprime anche l'esigenza di un razionale contemperamento dell'efficienza con le garanzie spettanti all'imputato; pur in quest'ottica, tuttavia, il regime della prescrizione previsto dall'art. 22 d.lgs. n. 231 del 2001 non è stato giudicato in contrasto con gli invocati parametri costituzionali.

L'istituto si fonda su una peculiare articolazione della durata breve del termine di prescrizione, cui fa da contraltare l'ampiezza dell'effetto interruttivo. Infatti, a fronte della previsione di un termine di prescrizione oggettivamente breve, di cinque anni dalla consumazione dell'illecito, ritenuto necessario al fine di non lasciare uno spazio temporale eccessivamente ampio per l'accertamento dell'illecito nel corso delle indagini e per favorire le esigenze di certezza di cui necessita l'attività delle imprese, si prevede che, una volta contestato l'illecito amministrativo, la prescrizione non corre fino al passaggio in giudicato della sentenza. In tal modo si è realizzato un bilanciamento tra le opposte esigenze, conseguendo l'effetto di una "tendenziale riduzione del rischio di prescrizione una volta che, esercitata l'azione penale, si instauri il giudizio, con il contrappeso rappresentato dalla ridotta durata del termine di prescrizione, fissato per tutti gli illeciti in cinque anni, termine sensibilmente più breve rispetto a quanto previsto dal codice penale. Una volta contestato l'illecito nel termine di cinque anni risulta difficile che si verifichi la prescrizione nel corso del giudizio, a differenza di quanto accade per i reati, ma ciò avviene sulla base di una scelta del legislatore che vuole evitare che, in presenza dell'interesse dell'autorità procedente a far valere la potestà punitiva dello Stato, manifestata attraverso l'esercizio dell'azione penale, si corra il rischio di dover dichiarare l'estinzione dell'illecito per il sopraggiungere della prescrizione".

Aggiunge la Corte che un'ulteriore correttivo rispetto alla diversità di disciplina della prescrizione tra illecito dell'ente e reato commesso dall'imputato è da individuarsi nella previsione dell'art. 60 d.lgs. n. 231 del 2001, in virtù del quale non può procedersi alla contestazione dell'illecito amministrativo nel caso in cui il reato presupposto sia estinto per prescrizione, comportante la decadenza della potestà sanzionatoria nei confronti dell'ente non vendo più attribuita alcuna attitudine interruttiva alla contestazione dell'illecito dipendente da reato. In tal modo si realizza un sostanziale ricongiungimento degli effetti della prescrizione previsti per l'imputato e la persona fisica, limitando le conseguenze dell'autonomia delle due forme di responsabilità derivanti al reato.

3. Autonomia della responsabilità dell'ente.

Oltre a dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale concernente il regime della prescrizione, Sez. 6, n. 28299 del 7 luglio 2016, Bonomelli, ha affrontato anche un altro aspetto nodale del d.lgs. n. 231 del 2001, concernente il principio di autonomia della responsabilità dell'ente sancito dall'art. 8. La suddetta norma prevede che l'ente risponde dell'illecito dipendente dal reato anche nell'ipotesi in cui l'autore di quest'ultimo non sia stato individuato, ovvero nel caso di estinzione del reato (il principio era stato in precedenza affermato da Sez. 6, n. 21129 del 25 gennaio 2013, Barla, Rv. 255369 e da Sez. 5, n. 20060 del 4 aprile 2013, Citibank N.A., Rv. 255414).

Per comprendere la decisione assunta dalla Corte, è opportuno sinteticamente indicare la fattispecie esaminata, concernente una complessa vicenda processuale, nella quale si contestavano a plurimi imputati - persone fisiche e giuridiche - episodi di corruzioni posti in essere con riferimento a contratti di appalto nel settore energetico. In tale contesto, per alcune delle società coinvolte si accertava l'esistenza di rapporti di natura corruttiva, pur senza giungere all'esatta individuazione dei soggetti che avevano materialmente partecipato all'accordo illecito. In motivazione, infatti, la Cassazione precisava che il giudice di merito non aveva fornito un'adeguata motivazione circa l'individuazione del soggetto che, nell'interesse della società che si era aggiudicata l'appalto, aveva materialmente raggiunto l'accordo e provveduto al pagamento della tangente.

A fronte dell'obiettiva incertezza in merito all'individuazione dell'autore del reato, nei motivi di ricorso si prospettava un'interpretazione del principio di autonomia della responsabilità dell'ente che non consentisse una totale scissione tra la responsabilità amministrativa e l'accertamento delle responsabilità individuali.

La Corte, nell'affrontare i motivi di ricorso, prendeva le mosse dall'esame della ratio sottesa all'introduzione del principio di autonomia, sottolineando come tra i motivi che avevano indotto alla previsione di un'autonoma responsabilità degli enti vi fosse proprio la necessità di ovviare alle difficoltà di accertare le responsabilità individuabili nell'ambito di strutture complesse, connotate da una pluralità di centri decisionali e dalla concorrente partecipazione di più soggetti. La difficoltà nell'identificazione dell'autore del reato, pertanto, lungi dall'impedire la prosecuzione del procedimento nei confronti della società indagata, costituisce una delle principali ragioni che hanno giustificato l'introduzione della responsabilità degli enti, al punto da ritenere che l'omessa previsione del principio di autonomia avrebbe indebolito l'intera ratio del d.lgs. n. 231 del 2001.

Fatta tale premessa di ordine generale, la Corte ha chiarito che l'art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001 non consente una totale autonomia tra la responsabilità della persona fisica e quella dell'ente, posto che quest'ultima richiede in ogni caso, quale presupposto indefettibile, l'accertamento della commissione di uno dei reati presupposto, inteso come sussistenza di un fatto tipico, con l'esclusione della sola dimensione psicologica. Ne consegue che ove pure la mancata identificazione dell'autore del reato non consenta un adeguato vaglio dell'elemento soggettivo del reato, non viene meno la possibilità di configurare l'autonoma responsabilità dell'ente, proprio perché un fatto di reato è comunque individuabile.

La sussistenza del reato presupposto non costituisce, tuttavia, l'unica condizione sufficiente a poter dar luogo alla fattispecie complessa che determina la responsabilità dell'ente, atteso che i criteri di imputazione soggettiva - delineati dagli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231 del 2001 - variano a seconda della categoria di appartenenza dell'autore del reato, essendo maggiormente rigorosi nel caso di soggetto in posizione apicale che, in quanto tale, è espressione della volontà dell'ente, rispetto al caso in cui il reato venga realizzato da un sottoposto all'altrui direzione.

Inoltre, pur in assenza dell'individuazione della persona fisica che ha commesso il fatto, si dovrà comunque escludere che questi abbia agito nel suo esclusivo interesse, ipotesi nella quale verrebbe meno l'imputazione oggettiva del fatto in capo all'ente ex art. 5, comma 2, d.lgs. n. 231 del 2001. Il principio di autonomia previsto dall'art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001 non ha una valenza incondizionata, potendo operare solo qualora sia quantomeno individuabile a quale categoria, tra quelle indicate dagli artt. 6 e 7 del medesimo decreto, appartenga l'autore del fatto, e sia, altresì, possibile escludere che questi abbia agito nel suo esclusivo interesse (Sez. 6, n. 28299 del 7 luglio 2016, Bonomelli, Rv. 267048).

4. Le vicende modificative dell'ente.

Il d.lgs. n. 231 del 2001 ha compiutamente disciplinato i fenomeni modificativi che possono riguardare gli enti responsabili dell'illecito amministrativo, prevedendo norme idonee ad escludere condotte elusive del trattamento sanzionatorio volte a garantire che il soggetto scaturente dalla fusione, scissione o trasformazione possa ricevere l'utilitas conseguente al reato andando esente da responsabilità.

Il complesso normativo delineato agli artt. 28, 29 e 30 d.lgs. n. 231 del 2001 ha dato luogo a dubbi di costituzionalità, fondati essenzialmente su due diversi approcci: in primo luogo si è assunto il difetto di delega, evidenziando come la 1. n. 300 del 2000 non forniva alcuna espressa indicazione circa la disciplina da introdurre con riferimento alle vicende modificative, inoltre, si è eccepito che il trasferimento della responsabilità in capo ad un soggetto giuridicamente diverso dall'autore dell'illecito avrebbe comportato una responsabilità per fatto altrui.

I dubbi di costituzionalità sono stati fugati da Sez. 6, n. 11442 del 17 marzo 2016, Saipem s.p.a., Rv. 266361, secondo cui " In tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione all'art. 76 Cost., degli articoli da 28 a 33 del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231- che prevedono, in caso di trasformazione o fusione dell'ente, la responsabilità del nuovo soggetto per i reati commessi anteriormente - atteso che tali disposizioni, in quanto volte ad evitare che le operazioni di trasformazione dell'ente si risolvano in agevoli modalità di elusione della responsabilità, risultano coerenti con i criteri direttivi della delega tra cui vi è quello di prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive".

La Corte è giunta a tale conclusione richiamando la giurisprudenza costituzionale formatasi in materia di individuazione del rapporto tra principi espressi nella legge delega e loro attuazione. Si è affermato che il vizio di eccesso di delega non si configura per il semplice fatto che la previsione di dettaglio non sia contenuta nella previsione della legge-delega, in quanto la stessa può trovare giustificazione nel naturale rapporto di "riempimento" che lega la norma delegata a quella delegante; se così non fosse, del resto, le funzioni del legislatore delegato si ridurrebbero ad una mera riformulazione delle previsioni dettate dal delegante, andando ad alterare la funzione stessa prevista dall'art.76 Cost. (Corte cost., sent. n. 4 del 1992; Corte cost., sent. n. 229 del 2014).

Viceversa, la Consulta ha affermato che la determinazione dei principi e criteri direttivi, se vale a circoscrivere il campo della delega, non impedisce l'emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo ed un completamento delle scelte espresse dal legislatore (Corte cost., sent. n. 199 del 2003; Corte cost., sent. n. 308 del 2002, e Corte cost., sent. n. 213 del 2005). Pertanto, deve riconoscersi un ambito di discrezionalità al legislatore delegato che risulterà più o meno ampio a seconda del grado di specificità dei principi e criteri direttivi fissati nella legge delega; sicché, per valutare di volta in volta se il legislatore delegato abbia ecceduto i margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia ad essa rispondente (Corte cost., sent. n. 163 del 2000 e Corte cost., sent. n. 199 del 2003). Sulla base di queste premesse, la Corte costituzionale ha costantemente affermato che il giudizio di conformità della norma delegata alla norma delegante è esplicato attraverso il confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, tenendo conto delle finalità che, attraverso i principi ed i criteri enunciati, la legge delega si prefigge con il complessivo contesto delle norme da essa poste e tenendo altresì conto che le norme delegate vanno interpretate nel significato compatibile con quei principi e criteri (Corte cost., sent. n. 425 del 2000).

Alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in materia di eccesso di delega, la Cassazione ha proceduto alla verifica della compatibilità della disciplina dettata in ordine alle vicende modificative dell'ente rispetto alla legge delega che, pur non disciplinando la materia, prevedeva quale elemento basilare l'introduzione di "sanzioni amministrative effettive proporzionate e dissuasive" come richiesto dall'art. 11 lett. f) della 1. n. 300 del 2000.

Rispetto a tale contesto normativo, le previsioni inserite dal legislatore delegato in tema di vicende modificative dell'ente non solo non esulano dal contesto complessivo di riferimento nell'ambito del quale è maturata l'introduzione della responsabilità degli enti, ma costituiscono un elemento essenziale per garantire l'effettività delle sanzioni e la loro capacità dissuasiva. Afferma la Corte che ove il legislatore non avesse introdotto l'attuale disciplina contenuta agli artt. 28, 29 e 30 d.lgs. n. 231 del 2001, consentendo il prodursi di un effetto estintivo a seguito della trasformazione dell'ente conseguente a libere iniziative dei diretti interessati, ne sarebbe scaturito un sistema connotato da una evidente inadeguatezza, nella misura in cui le operazioni di trasformazione, fusione e scissione avrebbero costituito agevoli modalità di elusione della responsabilità.

Inoltre, la disciplina in esame è stata ritenuta diretta attuazione di un ulteriore ed altrettanto fondamentale principio desumibile dalla legge delega, in base al quale le sanzioni devono colpire il soggetto che ha effettivamente tratto beneficio dall'illecito, con la conseguenza che nel caso di trasferimento del patrimonio dell'ente responsabile, le sanzioni dovranno gravare sul soggetto subentrante, secondo la regola della "continuità economica" desumibile anche dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria.

La Corte ha premesso, infatti, un'ampia disamina della giurisprudenza della Corte di giustizia, evidenziando come sia assolutamente consolidato il principio per cui l'effettività del sistema sanzionatorio debba necessariamente prevedere che le modiche strutturali, riorganizzazioni, cessioni di rami d'azienda, non possano influire sull'applicazione delle sanzioni. Si sono richiamate, in particolare, alcune recenti decisioni emesse dalla Corte di Giustizia in relazione alla normativa in tema di tutela della concorrenza. In particolare, con la sentenza, 11 dicembre 2007, C-280/06, relativa alla normativa italiana contenuta nella legge 10 ottobre 1990, n. 287, la Grande Sezione della Corte ha affermato che qualora un ente violi le regole della concorrenza incombe ad esso, secondo il principio della responsabilità personale, di rispondere di tale infrazione; tuttavia, qualora tale ente sia oggetto di una modifica di natura giuridica o organizzativa, tale modifica non ha necessariamente l'effetto di creare una nuova impresa esente dalla responsabilità per i comportamenti anticoncorrenziali del precedente ente se, sotto l'aspetto economico, vi è identità fra i due enti.

Tale decisione è stata ritenuta di particolare rilievo, in quanto riferita ad una normativa - quella prevista dalla legge 10 ottobre 1990, n. 287 - alla quale la CEDU (sent. 7/09/2011, Menarini Diagnostics s.r.l. contro Italia) ha attribuito natura sostanzialmente penale e, quindi, i principi in essa espressa sono sicuramente estensibili anche alla responsabilità da reato prevista dal d.lgs. n. 231 del 2001, avente natura amministrativa quantunque fondata sulla commissione di un illecito penale.

Peraltro, anche con riferimento a forme di responsabilità aventi natura tipicamente amministrativa, la Corte di Giustizia (Sez. 5, sent. 5 marzo 2015, C- 343/13) ha osservato che il trasferimento della responsabilità amministrativa alla società incorporante discende dalla normativa contenuta nella direttiva comunitaria 78/855 relativa alle fusioni delle società per azioni, alla quale i sistemi nazionali devono uniformarsi: in assenza di detto trasferimento l'interesse dello Stato alla repressione non sarebbe protetto e la fusione costituirebbe il mezzo per agevolmente eludere le conseguenze delle infrazioni eventualmente commesse a danno dello Stato membro interessato.

In conclusione, dal raffronto tra la legge delega e l'attuazione che se ne è data con il d.lgs. n. 231 del 2001, letta alla luce della giurisprudenza comunitaria e delle fonti internazioni che imponevano l'introduzione di una disciplina della responsabilità da reato degli enti dotata dei requisiti dell'effettività sanzionatoria, la Cassazione ha desunto l'assoluta conformità alla delega conferita con la 1. n. 300 del 2000 del sistema normativo disciplinante la vicende modificative dell'ente.

4.1. Vicende modificative e personalità della responsabilità dell'ente.

L'ulteriore profilo in relazione al quale era stata prospettata l'incostituzionalità concerneva il fatto che, a seguito della trasformazione dell'ente, il trasferimento della responsabilità da reato avrebbe comportato l'irrogazione delle sanzioni nei confronti di un soggetto giuridico diverso dall'autore dell'illecito.

Secondo la prospettazione dei ricorrenti, infatti, la disciplina contenuta all'art. 29 d.lgs. n. 231 del 2001 violerebbe l'art. 27 Cost., anche con riferimento all'art. 7 CEDU, consentendo l'applicazione delle sanzioni nei confronti della società incorporante, giuridicamente diversa da quella incorporata ed autrice dell'illecito. Inoltre, la norma in questione risulterebbe anche contrastante con l'art. 3 Cost., stante il diverso trattamento previsto dall'art. 7 1. n. 681 del 1981 in tema di sanzioni amministrative.

La Cassazione ha ritenuto manifestamente infondate entrambe le censure di illegittimità costituzionale partendo dall'esame degli effetti giuridici determinati dalle vicende modificative della persona giuridica, nell'ottica di verificare la fondatezza dell'assunto di partenza, secondo il quale, per effetto della trasformazione o fusione, l'ente autore del fatto illecito perderebbe la propria individualità. La questione è stata risolta osservando come la disciplina della fusione tra società, prima delle modifiche apportate con la riforma del diritto societario dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, aveva dato luogo a contrasti in dottrina e giurisprudenza, posto che a fronte della tesi secondo cui la vicenda modificativa aveva effetti estintivi dell'ente incorporato, con conseguente applicabilità dei principi valevoli per la successione mortis causa, si era anche sostenuto che la fusione determinava un'operazione di ristrutturazione, non comportante l'estinzione del soggetto incorporato, ma solo la perdita della sua individualità.

Il problema è stato definitivamente superato a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 6 del 2003, a seguito del quale l'art. 2504-bis cod.civ. depone chiaramente a favore della prosecuzione dei pregressi rapporti giuridici da parte dell'ente incorporante o della società scaturente dalla fusione. A fugare qualsivoglia residuo dubbio, è intervenuta la decisione delle Sez. U, civ., n. 19698 del 17 settembre 2010, Rv. 614542, affermando che "In tema di fusione, l'art. 2504-bis cod. civ. introdotto dalla riforma del diritto societario (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) ha natura innovativa e non interpretativa e, pertanto, il principio, da esso desumibile, per cui la fusione tra società si risolve in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, non vale per le fusioni (per unione od incorporazione) anteriori all'entrata in vigore della nuova disciplina (1 gennaio 2004), le quali tuttavia pur dando luogo ad un fenomeno successorio, si diversificano dalla successione "mortis causa" perché la modificazione dell'organizzazione societaria dipende esclusivamente dalla volontà delle società partecipanti, con la conseguenza che quella che viene meno non è pregiudicata dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza, così come nessun pregiudizio subisce la incorporante (o risultante dalla fusione), che può intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole. Ad esse, di conseguenza non si applica la disciplina dell'interruzione di cui agli artt. 299 e seguenti del codice di procedura civile".

Alla luce delle conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza civile in relazione al contesto normativo emergente dalla modifica del diritto societario, la Corte ha agevolmente ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale fondata sulla asserita violazione del principio di personalità della responsabilità. Una volta acclarato che la fusione per incorporazione determina la "continuità" della società incorporata nell'incorporante, ne consegue che quest'ultima non possa definirsi un soggetto terzo, estraneo alle responsabilità dell'incorporata. Tale passaggio motivazionale è stato completato con la condivisibile osservazione secondo cui la fusione, essendo un'operazione rimessa alla libera determinazione dei soggetti, ben può essere preceduta da una attenta due diligence volta a consentire alla società incorporante di essere pienamente consapevole dei rischi insiti nell'acquisire una società che potrebbe essere chiamata a rispondere di illeciti dipendenti da reato.

In conclusione, si può affermare che le vicende modificative, proprio perché determinano la prosecuzione dei rapporti giuridici - ivi compresi quelli conseguenti ad eventuali illeciti commessi in precedenza - non determinano la lesione del principio di personalità nel caso in cui l'accertamento dell'illecito e la conseguente irrogazione delle sanzioni avvenga nei confronti dell'ente incorporante.

Ancor più agevole è risultato il giudizio di manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale proposta per la ritenuta disparità di trattamento, assumendo come elemento di raffronto la disciplina contenuta nel sistema sanzionatorio amministrativo delineato dalla 1. n. 681 del 1989. Sottolinea la Corte, infatti, come la disciplina in questione concerne una responsabilità diretta della persona fisica, rispetto alla quale l'art. 7 1. n. 681 del 1989 prevede l'intrasmissibilità agli eredi dell'obbligazione nascente dall'illecito; in tale contesto normativo l'ente non è in alcun modo gravato di responsabilità diretta, essendo prevista esclusivamente la sua obbligazione solidale nel caso di violazione commessa dal rappresentante o dal dipendente dell'ente nell'esercizio delle proprie funzioni.

Ben diverso è il sistema delineato dal d.lgs. n. 231 del 2001, nel quale sull'ente incombe una responsabilità per fatto proprio, né si pone un problema di trasmissibilità nel caso di vicende modificative, proprio in virtù delle conclusioni cui la Corte è giunta in merito alla continuità giuridica esistente tra l'ente incorporante e quello incorporato.

I due sistemi normativi - quello ex 1. n. 681 del 1981 ed il d.lgs. n. 231 del 2001 - si fondano su presupposti di imputazione dell'illecito del tutto diversi e non sovrapponibili, con la conseguenza che la disciplina introdotta in tema di depenalizzazione non può fungere da tertium comparationis rispetto alla responsabilità da reato prevista a carico degli enti.

5. L'interesse ed il vantaggio con riferimento ai reati colposi di evento.

L'estensione della responsabilità degli enti anche a rilevanti fattispecie colpose, specie quelle in tema di infortuni sul lavoro, ha notoriamente posto difficoltà di coordinamento della disciplina dei criteri di imputazione - oggettivi e soggettivi - originariamente previsti con riferimento a fattispecie esclusivamente dolose, rispetto alle quali maggiormente si attagliava la necessità di individuare in capo all'ente un interesse o vantaggio rispetto alla commissione del reato.

Il tema è stato già oggetto di una fondamentale pronuncia delle Sezioni unite che, risolvendo i dubbi emersi principalmente in dottrina, ha chiarito come con riferimento alla responsabilità da reato degli enti derivante da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva consistenti nell'interesse o vantaggio dell'ente, devono essere riferiti alla condotta e non all'evento (Sez. U, n. 38343 del 24 aprile 2014, Espenhahn, Rv. 261115).

Partendo da tale affermazione di principio, la giurisprudenza intervenuta nel corrente anno ha ribadito l'orientamento delle Sezioni unite, al contempo specificando il contenuto che i criteri di imputazione oggettiva assumono con riferimento ai reati colposi.

A tal proposito va richiamata la sentenza resa da Sez. 4, n. 2544 del 21 gennaio 2016, Gastoldi, Rv. 268065, nella quale si è fornita una chiara interpretazione del criterio oggettivo fondato sull'interesse od il vantaggio dell'ente nei reati colposi, sottolineando come tali concetti, proprio in quanto riferiti alla condotta anziché all'evento, assumono una connotazione peculiare ed idonea a fungere da criterio di imputazione della responsabilità dell'ente, evitando che questa di traduca in una sorta di responsabilità oggettiva conseguente al verificarsi del reato colposo.

La Corte parte dal presupposto secondo il quale il finalismo della condotta prevista dall'art. 5 d.lgs. 231 del 2001 è compatibile con la non volontarietà dell'evento lesivo, sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest'ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all'interesse dell'ente o sia stata finalizzata all'ottenimento di un vantaggio per l'ente medesimo. Ne consegue che "ricorre il requisito dell'interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un'utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l'esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma) di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d'impresa: pur non volendo il verificarsi dell'infortunio a danno del lavoratore, l'autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell'ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell'ente, pur non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d'impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto; il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l'ente e l'illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi" (così in motivazione Sez. 4, n. 2544 del 21 gennaio 2016, Gastoldi; negli stessi termini anche Sez. 4, n. 31210 del 20 luglio 2016, Eureco s.r.l.).

L'impostazione recepita dalla Corte appare meritevole di essere sottolineata nella parte in cui, a fronte di un reato presupposto di natura colposa, ritiene configurabile la responsabilità dell'ente solo ove risulti provata una consapevole violazione della normativa cautelare. Se ne può desumere, pertanto, che mentre la persona fisica risponde anche per una mera condotta imperita o negligente, essendo configurabile la colpa anche e soprattutto nel caso di una inconsapevole violazione della normativa antinfortunistica, altrettanto non è sufficiente a fondare la responsabilità dell'ente, lì dove il criterio basato sull'interesse richiede che vi sia stata una volontaria disapplicazione delle cautele in materia di infortuni sul lavoro.

In alternativa, la responsabilità dell'ente potrà conseguire alla ricorrenza del mero vantaggio congiurabile per effetto di una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto.

Con riferimento a tale profilo, peraltro, va segnalata un'ulteriore pronuncia con la quale la Corte ha chiarito che uno degli elementi costitutivi del vantaggio può essere costituito non solo dalla riduzione dei costi derivante dalla violazione della normativa antinfortunistica, ma anche da un aumento della produttività che sia diretta conseguenza della mancata osservanza della normativa cautelare che, ove attuata, avrebbe rallentato i tempi di esecuzione della fase della lavorazione nell'ambito della quale si è verificato l'infortunio (Sez. 4, n. 24697 del 14 giugno 2016, Mazzotti; conforme Sez. 4, n. 31003 del 16 luglio 2015, Italnastri s.r.l.).

Alla luce di tali affermazioni, il vantaggio per l'ente rappresenta evidentemente il criterio di imputazione oggettiva preferenziale relativamente ai reati colposi, pur dovendosi considerare che la sussistenza del vantaggio andrà attentamente valutata in concreto, dovendosi stabilire se ed in che limiti un risparmio di spesa, sia pur assolutamente minimale, possa costituire ugualmente un "vantaggio" rilevante ai fini dell'imputazione dell'illecito.

Una prima risposta a tale interrogativo è rintracciabile nella decisione assunta da Sez. 4, n. 24697 del 14 giugno 2016, Mazzotti, Rv. 268066, lì dove ha affermato che "In tema di responsabilità amministrativa degli enti derivante dal reato di lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica, sussiste l'interesse dell'ente nel caso in cui l'omessa predisposizione dei sistemi di sicurezza determini un risparmio di spesa, mentre si configura il requisito del vantaggio qualora la mancata osservanza della normativa cautelare consenta un aumento della produttività. (In motivazione, la Corte ha affermato che la responsabilità dell'ente, non può essere esclusa in considerazione dell'esiguità del vantaggio o della scarsa consistenza dell'interesse perseguito, in quanto anche la mancata adozione di cautele comportanti limitati risparmi di spesa può essere causa di lesioni personali gravi). (Conf. n. 31003 del 2015 e n. 31210 del 2016 N.M.)".

Il principio sopra richiamato fornisce una prima indicazione circa l'entità del vantaggio idoneo a fungere da criterio oggettivo di imputazione, tuttavia è presumibile ipotizzare che la questione richiederà un ulteriore approfondimento giurisprudenziale, dovendosi stabilire se ed in che misura si possa ipotizzare la sussistenza di un "vantaggio" anche in presenza di utilità economiche che, rispetto al volume d'affari dell'ente od anche alla mera redditività della singola fase lavorativa, risultino prive di una effettiva rilevanza patrimoniale, tale da poter fungere da parametro per desumere un'adesione dell'ente alla violazione antinfortunistica.

Nell'ambito delle ipotesi di responsabilità della persona giuridica per reati connessi alla violazione della disciplina antinfortunistica, andrebbe approfondita, pertanto, la problematica concernente la rilevanza dell'interesse o del vantaggio per l'ente nel caso in cui la rilevanza economica della spesa non sopportata sia di tale modestia da non modificare in alcun modo le sorti e la consistenza patrimoniale della persona giuridica interessata, il che potrebbe condurre ad escluderne la responsabilità.

6. I presupposti applicativi delle misure cautelari interdittive.

Il sistema cautelare previsto dal d.lgs. n. 231 del 2001 si fonda sull'applicazione, in via temporanea, delle sanzioni interdittive, ove sussistano, oltre ai tradizionali requisiti del fumus commissi delicti e del periculum in mora, anche i presupposti tipici delle sanzioni interdittive delineati dall'art. 13 lett. a) e b). In via alternativa, infatti, la norma citata richiede che l'ente abbia tratto dall'illecito un profitto di rilevante entità, ovvero che vi sia stata una reiterazione degli illeciti dipendenti da reato.

Tali aspetti sono stati compiutamente esaminati da Sez. 2, n. 11209 del 9 febbraio 2016, Rosi, Rv. 266427, intervenuta su una vicenda cautelare che era stata già oggetto di vaglio in sede di legittimità (Sez. 2, n. 51151 del 3 dicembre 2013, Rosi Leopoldo s.p.a., e Sez. 2, n. 18634 del 5 maggio 2015, Rosi Leopoldo s.p.a.), sicchè tornava al giudizio della Corte essenzialmente sul presupposto che il giudice di rinvio non si fosse uniformato ai principi di diritto espressi nel giudizio rescindente.

La questione nello specifico devoluta all'esame della Corte concerneva la nozione di profitto di rilevante entità, valutabile in ambito cautelare ed ai fini dell'applicazione della misura interdittiva del divieto di contrarre con la pubblica amministrazione, disposta nei confronti di una società il cui amministratore era imputato del reato di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati contro la pubblica amministrazione, volti all'aggiudicazione di appalti pubblici.. Nel precedente giudizio (Sez. 2, n. 51151 del 3 dicembre 2013, Rosi Leopoldo s.p.a.), la Corte aveva già affermato che la nozione di profitto di rilevante entità non poteva essere desunta dalla mera entità dei corrispettivi previsti dai contratti di appalto ottenuti per effetto della commissione del reato; la rilevanza del profitto, infatti, ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto in tale concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell'illecito (in tal senso richiamando Sez. 6, n. 32627 del 23 giugno 2006, La Fiorita Soc.coop. a.r.l., Rv. 235636).

La Corte, pertanto, ha ritenuto che l'interpretazione della nozione di "profitto di rilevante entità" vada compiuta operando una valutazione comprensiva di tutte le utilità economiche ed i vantaggi direttamente conseguenti alla commissione dell'illecito, non limitando il giudizio a criteri strettamente economico-aziendalistici, bensì valorizzando tutti gli elementi che connotano in termini economicamente apprezzabili l'operazione negoziale frutto dell'illecita condotta penale.

A supporto di tale lettura è stato richiamato anche un argomento già recepito dalle Sezioni unite, secondo cui il profitto di rilevante entità richiamato nell'art. 13 d.lgs. n. 231 del 2001 evoca un concetto di profitto "dinamico", rapportato alla natura ed al volume dell'attività di impresa, ma comprendente anche vantaggi economici non immediati, derivanti dalla posizione di privilegio che l'ente può acquistare sul mercato in conseguenza delle condotte illecite poste in essere nel suo interesse (Sez. U, n. 26654 del 27 marzo 2008, Fisia Italimpianti s.p.a., Rv. 239924).

Partendo da tale prospettiva, volta a considerare la rilevanza del profitto in considerazione delle molteplici forme di manifestazione - immediata e futura - che l'utilitas derivante dalla commissione dell'illecito può assumere, la sentenza in commento ha fornito un vero e proprio catalogo di elementi suscettibili di valutazione nell'ambito del giudizio sull'entità del profitto quale presupposto legittimante l'applicazione delle sanzioni interdittive e, quindi, delle correlate misure cautelari.

Si è, pertanto, affermato che accanto al profitto desumibile dall'importo del corrispettivo dell'appalto illecitamente conferito all'ente, andranno valutati tutta una serie di aspetti ulteriori quali:

a) gli ulteriori lavori direttamente acquisiti dall'impresa in occasione della pregressa aggiudicazione illecita (ad es. a seguito di una variante in corso d'opera o quali addizioni al progetto approvato);

b) l'assunzione dei requisiti per la qualificazione dell'impresa ai fini della partecipazione a gare di affidamento di lavori pubblici (c.d attestazione SOA, essendo a tal fine rilevante il volume d'affari gestito dall'impresa);

c) l'incremento del merito di credito dell'impresa presso gli istituti bancari con conseguente possibilità di accedere a maggiori finanziamenti ed a condizioni favorevoli;

d) l'aumento del potere contrattuale nei confronti dei fornitori e subappaltatori;

e) l'ottimizzazione dell'utilizzo delle risorse aziendali;

f) un maggiore accesso ad altri appalti, concorrendo in proprio, o acquisendo, in virtù delle aggiudicazioni illecite, una specializzazione di settore o attestazioni di lavori eseguiti anche ai fini di ipotesi consorziali.

A fronte dell'individuazione di una molteplicità di possibili vantaggi economici derivanti in via diretta o mediata dall'illecito commesso dall'ente, l'entità del profitto ai fini dell'applicazione delle misure cautelari interdittive va compiuta sulla base di una valutazione globale dei fatti, considerando tutti gli elementi che, nel caso concreto, possono determinare la sussistenza di vantaggi economici causalmente collegati all'illecito commesso dall'ente ed al reato presupposto.

L'applicazione in sede cautelare di una delle misure interdittive è subordinata, in alternativa alla sussistenza di un profitto di rilevante entità, alla reiterazione degli illeciti, come previsto dall'art. 13, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 231 del 2001, elemento che va tenuto distinto dal presupposto del periculum in mora richiesto dall'art. 45 d.lgs. n. 231 del 2001. Infatti, la reiterazione degli illeciti, quale presupposto per l'applicazione delle misure cautelari interdittive, è riferita alla condotta pregressa e funge da parametro di valutazione della gravità al pari di quello relativo all'entità del profitto realizzato. Il rischio di reiterazione di illeciti della stessa indole, cui fa riferimento l'art. 45 cit., invece, consiste in una tipica prognosi circa il pericolo - specifico e concreto - della futura commissione di illeciti in mancanza dell'adozione di adeguate misure cautelari. A tal proposito la Corte ha opportunamente precisato che il giudizio sul periculum, non dissimilmente da quanto avviene nei confronti delle persone fisiche, va compiuto considerando la "personalità" dell'ente, esaminandone la politica di impresa attuata negli anni e gli eventuali illeciti commessi in precedenza, in tal modo valorizzando la propensione soggettiva all'illecito.

7. Dinamiche cautelari e condotte riparatorie.

Altra questione esaminata da Sez. 2, n. 11209 del 9 febbraio 2016, Rosi, concerne i criteri da applicare alla verifica delle attività riparatorie poste in essere dall'ente a seguito della sospensione della misura cautelare disposta ex art. 49 d.lgs. n. 231 del 2001 al fine di consentire gli adempimenti di cui all'art. 17, consistenti nell'integrale risarcimento del danno ed eliminazione delle conseguenze del reato, nell'adozione di idonei modelli organizzativi e nella messa a disposizione del profitto del reato ai fini della confisca. L'attenzione della Corte si è incentrata essenzialmente sull'esame dell'efficacia del modello di organizzazione, valutato anche alla luce dell'intervenuta sostituzione degli organi rappresentativi dell'ente, nonché nell'idoneità della condotta risarcitoria.

Per quanto concerne quest'ultimo aspetto, la fattispecie esaminata si caratterizzava per il fatto che l'ente aveva ritenuto di assolvere all'obbligo risarcitorio prevedendo in bilancio un fondo di accantonamento parametrato all'entità del danno unilateralmente stimato, nonché mediante la costituzione di un trust.

La Corte ha negato che tali modalità potessero integrare quell'effettivo risarcimento del danno cui il combinato disposto degli artt.17 e 49 d.lgs. n. 231 del 2001 subordina la revoca delle misure cautelari interdittive, affermando il principio così massimato: "In tema di responsabilità da reato degli enti, il risarcimento del danno cui si riferisce l'art. 17, lett. a), del D.Lgs. 8 giugno 2001 n. 231 ai fini della revoca delle misure cautelari interdittive, presuppone l'effettivo versamento agli enti danneggiati delle somme dovute a tale titolo, determinate attraverso preventivi contatti tra le parti contrapposte, ovvero l'attuazione di condotte che garantiscano la presa materiale di tali somme su iniziativa del danneggiato, senza la necessità di una ulteriore collaborazione per la traditio dell'ente. (Nella specie la Corte ha escluso che tale requisito sia integrato dalla costituzione di un trust, dalla previsione in bilancio di un fondo di accantonamento, per importi unilateralmente determinati dalla società senza alcun contatto con gli enti pubblici danneggiati dalle attività di corruzione, e dalla successiva comunicazione di tali adempimenti agli enti medesimi, trattandosi di un meccanismo che posticipa il risarcimento del danno all'esito del giudizio penale)" (Sez. 2, n. 11209 del 9 febbraio 2016, Rosi, Rv. 266427).

La Corte ha sottolineato come l'effettività del risarcimento sia desumibile dal raffronto tra la previsione di cui alla lett.a) dell'art. 17 e quella contenuta alla lett. b) che, con riferimento al profitto suscettibile di confisca, richiede unicamente che l'ente abbia "messo a disposizione" il profitto, non occorrendo che vi sia stata l'effettiva acquisizione da parte dell'erario. Al contrario, nel caso del risarcimento del danno, la lett. a) prescrive che l'ente abbia "risarcito integralmente" il danno, evidentemente facendo riferimento ad una condotta riparativa che deve essere definitivamente divenuta efficace, non richiedendo più alcuna ulteriore attività di collaborazione dell'ente con il danneggiato.

Poiché la condotta risarcitoria in funzione della revoca della misura cautelare va, di norma, ad inserirsi in una fase procedimentale nella quale manca la determinazione del danno in sede giudiziale, potendo essere incerto il quantum, nonché l'esatta individuazione dei soggetti danneggiati, si è posta la questione delle modalità cui l'ente dovrà attenersi per evitare che tale incertezza possa frustrare l'effettiva volontà riparatoria, impedendogli di beneficiare della revoca della misura. Su tale aspetto, la Corte ha affermato che ove il risarcimento del danno non sia desumibile sulla base di parametri certi, si richiede all'ente una condotta comunicativa con il danneggiato, il quale potrebbe aderire all'offerta oppure rifiutarla allegando motivazioni non pretestuose, ma oggettive e meritevoli di ogni seria considerazione. L'effettività del risarcimento, infatti, presuppone che questo non sia frutto di una determinazione unilaterale, bensì consegua ad una collaborazione o, quanto meno, ad un confronto con le richieste del danneggiato, di modo da dimostrare una effettiva volontà dell'ente di provvedere al risarcimento (in motivazione, la Corte richiama le analoghe osservazioni già svolte da Sez. 2, n. 327 del 8 gennaio 2014, Vescovi s.p.a.).

Per completezza, è opportuno segnalare anche un'altra pronuncia intervenuta in tema di rapporti tra il sequestro finalizzato alla confisca e gli effetti delle restituzioni effettuate nei confronti dei danneggiati, affermando principi del tutto in linea con quelli in precedenza esaminati. La sentenza in questione, infatti, ha stabilito il principio di diritto così massimato: "In tema di responsabilità da reato degli enti, ai fini della confisca prevista dall'art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001, secondo cui nei confronti dell'ente è disposta la confisca del prezzo o del profitto del reato salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato, deve aversi riguardo, quanto alla possibilità di restituzione, non alla esistenza di una generica garanzia patrimoniale prestata nell'interesse dell'ente responsabile a vantaggio del danneggiato, ma alla possibilità di distaccare concretamente una porzione - specificamente individuata - del patrimonio dell'ente, spettante come tale al danneggiato. (Fattispecie in cui la Corte, in relazione al reato di malversazione ai danni dello Stato, ha escluso che, ai fini della confisca di valore, dovesse essere sottratta dall'entità del profitto, costituito dall'importo erogato e distratto, la somma corrispondente alla polizza fideiussoria costituita in favore dell'ente erogante)" (Sez. 6, n. 12653 del 9 febbraio 2016, Sidoti, Rv. 267206).

8. Modelli organizzativi post factum e modifiche della governance.

Altra questione esaminata da Sez. 2, n. 11209 del 9 febbraio 2016, Rosi, è quella concernente i parametri di valutazione dell'adeguatezza delle modifiche apportate dall'ente sul piano organizzativo e dei controlli interni, al fine di soddisfare il parametro indicato dall'art. 17, lett. b), d.lgs. n. 231 del 2001, quale presupposto sia della revoca delle misure cautelari interdittive che della limitazione del trattamento sanzionatorio alle sole sanzioni pecuniarie.

La sentenza è intervenuta in una fattispecie caratterizzata dal fatto che, nel predisporre il modello organizzativo, l'ente aveva previsto la sostituzione del legale rappresentante indagato per il reato presupposto, mediante la nomina di un soggetto apparentemente estraneo alla compagine sociale, ma in realtà la discontinuità con la precedente gestione risulta essere essenzialmente di forma ma non di sostanza. Sottolinea la Corte come la decisione impugnata risultava carente nella misura in cui non era stata verificata la tenuta del modello organizzativo predisposto in funzione riparatoria con la presenza di un nuovo organismo di amministrazione composto da soggetti comunque strettamente legati alla vecchia compagine sociale in assenza, peraltro, di contromisure idonee a depotenziare le cointeressenze tra la vecchia e la nuova gestione, con conseguente inidoneità del modello a garantire una gestione improntata all'effettiva prevenzione di reati della stessa specie di quelli già commessi.

La Corte, inoltre, ha ritenuto del tutto ininfluente anche la donazione di quote sociali da parte del principale indagato in favore di uno stretto congiunto, essendo quest'ultimo a sua volta indagato a titolo di concorso nelle medesime fattispecie di reati di corruzione e turbata libertà degli incanti, sottolineando l'insufficiente valutazione della possibile natura strumentale del trasferimento delle quote.

In conclusione, la Corte fornisce delle indicazioni di massima valide per tutte le ipotesi in cui il reato presupposto sia stato commesso da soggetti aventi posizione apicale nell'organigramma dell'ente, nel qual caso l'efficacia del modello organizzativo adottato post factum va necessariamente valutata tenendo conto dell'imprescindibile esigenza di garantire un'effettiva cesura tra il gruppo dirigente responsabile dei reati presupposti ed il nuovo assetto di rappresentanza ed amministrazione di cui l'ente si è dotato. A tal fine è opportuno segnalare che, pur in difetto di un'indicazione normativa a favore della sostituzione dell'organo di vertice dell'ente in sede di predisposizione dei modelli post factum, tale esigenza è strettamente connaturata alla verifica dell'efficacia del modello (in tal senso si era già espressa Sez. 2, n. 327 del 8 gennaio 2014, Vescovi s.p.a.).

9. Interesse e vantaggio nei rapporti tra holding e società partecipate.

La tematica dei criteri oggettivi e soggettivi di imputazione della responsabilità da reato degli enti è stata al centro di una sentenza intervenuta sul finire dell'anno oggetto della presente rassegna. Con la pronuncia resa da Sez. 2, n. 52316 del 9 dicembre 2016, Riva, è stata esaminata una complessa vicenda avente ad oggetto la contestazione dei reati di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di truffe ai danni dello Stato, poste in essere mediante la costituzione di una società estera che fungeva da mero intermediario fittizio per consentire alla società madre italiana il conseguimento di erogazioni pubbliche.

Secondo la prospettazione difensiva articolata nei motivi di ricorsi, la fattispecie in esame riguardava l'ipotesi di una holding non operativa, rispetto alla quale non sarebbe stato possibile ancorare l'esistenza di un interesse o vantaggio idonei a fondare la responsabilità da reato a fronte di illeciti maturati nell'ambito di alcune delle società controllate; a supporto di tale affermazione, si sosteneva che il provento del reato - consistente nelle somme erogate dallo Stato - sarebbe rimasto nell'ambito del sottogruppo societario costituito dalla società operativa italiana e la sua estensione fittizia costituita all'estero, senza transitare in capo alla holdig che controllava entrambe le predette persone giuridiche dotate di piena autonomia.

La Corte, sulla base dei motivi di impugnazione, ha individuato la questione giuridica oggetto di approfondimento nella possibilità o meno di configurare la responsabilità ex d.lgs. n. 231 del 2001 nei confronti della capogruppo in riferimento ad un reato commesso nell'interesse od a vantaggio di una società controllata.

La complessità della questione ha indotto la Corte a fare il punto sul rilievo normativo e giurisprudenziale che viene riconosciuto al concetto di "interesse di gruppo", sottolineandosi come solo in tema di reati fallimentari la giurisprudenza tende ad escludere la possibilità di far prevalere l'interesse del gruppo rispetto a quello della singola società, con riguardo alle ipotesi distrattive che risultino essere prive di un concreto vantaggio compensativo per la società depauperata. Al di fuori di questo specifico ambito, invece, la normativa sia civile che penale è incline a dar rilievo all'interesse riferito al gruppo societario, tant'è che l'art. 2497 cod. civ. prevede un espresso limite alla responsabilità degli amministratori della capogruppo per i danni arrecati alla società controllata, qualora sussista un interesse compensativo; parimenti, l'art. 2497-ter cod.civ. ammette la possibilità che le decisioni assunte dalle società del gruppo vengano influenzate dall'attività di direzione e coordinamento della capogruppo e che dunque siano funzionali alla realizzazione di un interesse esterno alla controllata.

Sotto il profilo prettamente penalistico, il concetto di gruppo è chiaramente preso in considerazione in sede di definizione delle fattispecie di false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 cod. civ.), e nell'art. 2634 cod. civ., lì dove si esclude l'ingiustizia del profitto, che integra il dolo specifico di quel reato, quando lo svantaggio per la società, cui appartiene l'amministratore infedele, venga compensato da un vantaggio che gli provenga dalle dinamiche di gruppo.

Individuati i parametri normativi di riferimento sulla cui base fondare la possibilità di individuare un "interesse di gruppo", la Corte ha richiamato la giurisprudenza formatasi con specifico riferimento al sistema disegnato dal d.lgs. n. 231 del 2001. In particolare, si è ritenuto di condividere e ribadire l'affermazione di principio secondo cui "In tema di responsabilità da reato degli enti, la società capogruppo può essere chiamata a rispondere, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, per il reato commesso nell'ambito dell'attività di una controllata, purché nella consumazione concorra una persona fisica che agisca per conto della holding, perseguendo anche l'interesse di quest'ultima" (Sez. 5, n. 24583 del 18 gennaio 2011, Tosinvest, Rv. 249820; si veda anche Sez. 5, n. 4324 del 29 gennaio 2013, D'Aglio).

Partendo da tale principio, la sentenza in commento ha precisato che, per potersi configurare la responsabilità da reato della capogruppo, non può presumersi l'astratta sussistenza di un interesse condiviso tra controllante e controllata, dovendosi verificare in concreto le effettive ricadute della commissione del reato realizzato nell'ambito della controllata, occorrendo la concreta individuazione dell'interesse o del vantaggio che si è determinato in favore della controllante. In buona sostanza, l'interesse di gruppo non consente di per sé di estendere l'ambito applicativo della responsabilità degli enti, occorrendo la verifica in concreto di un interesse o vantaggio condiviso.

Al contempo - e questa appare essere l'affermazione di maggior rilievo - la Corte ha chiarito che "l'orientamento accolto non restringe (alle sole imprese facenti formalmente parte del gruppo, in presenza di un "interesse di gruppo"), bensì amplia (anche fuori dai casi in cui sia formalmente configurabile la sussistenza del fenomeno del gruppo di imprese, civilisticamente inteso) l'ambito della responsabilità da reato alle società anche solo sostanzialmente collegate, in tutti i casi nei quali - in concreto - all'interesse o vantaggio di una società si accompagni anche quello concorrente di altra (od altre) società, ed il soggetto-persona fisica autore del reato presupposto sia in possesso della qualifica soggettiva necessaria, ex art. 5 D. Lgs. n. 231/2001, ai fini della comune imputazione dell'illecito amministrativo da reato de quo" (così in motivazione Sez. 2, n. 52316 del 9 dicembre 2016, Riva).

In buona sostanza, la Corte ritiene che lì dove vi sia una "aggregazione di imprese", a prescindere che le stesse siano parte di uno stesso gruppo societario ovvero siano legate da un collegamento meramente fattuale e temporaneo, è in astratto configurabile la commissione di un reato nell'interesse od a vantaggio non solo della società nella cui attività l'illecito è maturato, potendo le conseguenze del reato ripercuotersi anche in favore di altri soggetti giuridici che siano collegati tra di loro.

In conclusione, la sentenza si connota per aver chiaramente affermato l'assenza di automatismi applicativi, con le conseguenti semplificazioni probatorie, sulla base delle quali desumere dalla commissione del reato nell'ambito di una delle società del gruppo un conseguente interesse della controllante, dovendosi sempre procedere ad una verifica in concreto dell'interesse o del vantaggio in capo alla capogruppo. La responsabilità della holding, inoltre, presupporrà anche che il reato presupposto sia imputabile ad un soggetto - in posizione apicale o subordinata - che abbia agito per conto della capogruppo. Ne consegue che l'autore del reato presupposto deve aver agito non solo volendo perseguire l'interesse di "gruppo", ma che lo abbia fatto quale soggetto qualificato in nome e per conto anche della capogruppo, non potendosi altrimenti configurare - in base ai criteri di imputazione previsti dagli artt. 5 e 6 d.lgs. n. 231 del 2001- una responsabilità di quest'ultima società. Tale ipotesi risulterà configurabile soprattutto in presenza del cumulo in capo alla medesima persona fisica di una pluralità di cariche sociali - all'interno della holding e delle partecipate - con conseguente possibilità di ritenere l'autore del reato quale soggetto la cui condotta è posta in essere in rappresentanza di una pluralità di persone giuridiche, avvinte dall'interesse di gruppo.

SEZIONE V CRIMINALITÀ ORGANIZZATA

  • procedura penale
  • associazione
  • mafia
  • concorso nel reato

CAPITOLO I

IL REATO DI ASSOCIAZIONE MAFIOSA

(di Luigi Barone )

Sommario

1 Introduzione - 2 Il concorso esterno nel reato associativo. - 3 La giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza della Corte edu "Contrada c. Italia". - 4 La questione di legittimità costituzionale della fattispecie incriminatrice. - 5 Gli effetti della "Contrada" sui procedimenti definiti con sentenza irrevocabile. - 5.1 (Segue). L'inammissibilità del ricorso straordinario ex art. 625-bis, cod. proc. pen. - 5.2 L'inammissibilità dell'incidente di esecuzione. - 6 Concorrente esterno e partecipe dell'associazione. - 7 L'elemento psicologico del concorrente esterno. - 8 L'espansione delle mafie storiche (il fenomeno delle cd. "locali"). - 8.1 L'inquadramento della problematica nella più recente giurisprudenza della Suprema Corte. - 8.2 Il profilo strutturale della fattispecie associativa. - 8.3 (Segue). La cd. "mafia silente". - 8.4 Il profilo probatorio. - 8.5 L'autonomia della organizzazione dislocata rispetto alla casa madre. - 8.6 Il sistema federato delle locali operanti in zone limitrofe. - 8.7 (Segue). Gli elementi rivelatori della identità mafiosa della "locale". - 8.8 L'esteriorizzazione della metodologia mafiosa. - 8.9 L'atteggiarsi della aggravante dell'associazione armata nel sistema federato delle locali. - 8.10 Conclusione.

1. Introduzione

In materia di criminalità organizzata, l'anno in commento è stato caratterizzato da una serie di arresti, che hanno dato seguito, consolidandoli, ai più recenti orientamenti della Suprema Corte su problematiche, oltre che complesse, divenute negli ultimi tempi, di estrema attualità.

Il riferimento è al tema del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa, da sempre oggetto di dibattito tra gli operatori e i commentatori del diritto, ripropostosi, in epoca recente, per effetto della sentenza della Corte edu "Contrada", che ha fornito una chiave di lettura della genesi del reato in parola, rispetto alla quale la Corte di cassazione ha manifestato le proprie riserve, fornendo una propria ricostruzione non collimante con il pensiero del Giudice di Strasburgo.

Nello specifico, per effetto della richiamata pronuncia del giudice sovranazionale, la Cassazione è stata chiamata ad affrontare un duplice ordine di questioni:

La prima afferente la legittimità costituzionale del "concorso esterno nel reato associativo", tipizzato nello schema normativo di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen., per asserito contrasto con l'art. 25 Cost., comma 2 e art. 117 Cost., quest'ultimo in riferimento all'art. 7 della Convenzione EDU, per violazione del principio di legalità;

La seconda concernente la possibile estensione dei principi affermati dal giudice della Convenzione a tutti quei procedimenti definiti con sentenza irrevocabile ed aventi ad oggetto fatti di "concorso esterno" commessi in data anteriore al 1994.

Altro tema, sottoposto all'attenzione della Corte, ha riguardato l'inquadramento nella fattispecie tipizzata dall'art. 416-bis, cit. di quelle affiliazioni delle mafie storiche sorte in zone, nazionali ed estere, diverse da quelle di origine di queste ultime.

Anche in questo caso, la Corte, nell'arresto su cui ci si soffermerà più avanti, si è posta nel solco dell'orientamento, in via di progressivo consolidamento, che fissa i canoni ermeneutici, attraverso cui stabilire "se" e "quando" queste nuove formazioni criminali assumono i connotati della associazione mafiosa.

Nell'ambito della presente rassegna, appare, infine, opportuno richiamare una serie di arresti in tema di distinzione tra concorrente esterno e partecipe dell'associazione mafiosa e di accertamento dell'elemento psicologico del concorrente esterno.

Si tratta di pronunce, che, pur non discostandosi dai principi ormai consolidati su dette questioni, ne hanno ribadito la validità, facendone applicazione nelle specifiche fattispecie, di volta in volta, all'esame della Corte.

2. Il concorso esterno nel reato associativo.

Come anticipato in premessa, il dibattito sul tema del concorso esterno nel reato associativo è tornato di prepotente attualità a seguito della sentenza del 14 aprile 2015, "Contrada c. Italia", con la quale la Corte edu ha condannato l'Italia per violazione dell'art. 7 della Convenzione. I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che, all'epoca cui si riferivano i fatti per i quali il ricorrente era stato condannato (1979-1988), il reato ascritto all'imputato non fosse per quest'ultimo sufficientemente chiaro e prevedibile e, pertanto, non gli consentiva di conoscere, in relazione a tale fattispecie, la pena cui sarebbe incorso per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti (§ 75).

Profili, questi, che la Corte, richiamandosi alla propria giurisprudenza (Del Rio Prada [GC], §§ 79 e 111-118, a contrario, Ashlarba c. Georgia, n. 45554/08, §§ 35-41, 15 luglio 2014, a contrario, Rohlena, § 50, e, mutatis mutandis, Alimuçaj c. Albania, n. 20134/05, §§ 154-162, 7 febbraio 2012), reputava idonei ad integrare la violazione dell'articolo 7 della Convenzione.

All'indomani della "Contrada", la Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulle possibili ricadute della sentenza della Corte edu nell'ordinamento interno, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 110 e 416-bis cod. pen. (nella parte in cui, secondo l'interpretazione giurisprudenziale dominante, incriminano il concorso esterno in associazioni di tipo mafioso) per contrasto con l'art. 25, comma 2, Cost. e con gli artt. 117 Cost. e 7 CEDU, per violazione del principio di legalità (Sez. 2, n. 34147, del 30/04/2015, Agostino e altri, Rv. 264624).

La Corte, chiamata a verificare gli effetti nella giurisdizione interna delle affermazioni di principio espresse dal giudice della Convenzione, ha disatteso di queste ultime la premessa fondante (ritenuta giuridicamente inesatta), vale a dire la matrice giurisprudenziale del reato di concorso esterno in associazione, ribattendo che la figura criminosa in questione è data dalla combinazione della singola norma penale incriminatrice speciale con l'art 110 cod. pen., nel pieno rispetto, pertanto, del principio di legalità, sancito dall'art. 1 cod. pen. e dall'art. 25, comma 2, Cost.[1].

3. La giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza della Corte edu "Contrada c. Italia".

La pronuncia ha trovato nel 2016 seguito in più arresti di legittimità, nei quali la Suprema Corte è stata investita del tema sotto due diverse angolazioni prospettiche:

a) Legittimità costituzionale del reato di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen. per violazione del principio di legalità.

b) Estensibilità dei principi affermati dalla "Contrada" a tutti quei procedimenti, definiti con sentenza irrevocabile, aventi avuto ad oggetto fatti di "concorso esterno" commessi in data anteriore al 1994.

4. La questione di legittimità costituzionale della fattispecie incriminatrice.

Con riferimento alla prima problematica, già affrontata come si è visto nel 2015 dalla Corte nella sentenza "Agostino" (n. 34147 del 2015), Sez. 2, n. 18132 del 13/04/2016, Trematerra, Rv. 266908, perfettamente in linea con il richiamato precedente, ha dichiarato la questione manifestamente infondata, ribadendo che la contestata fattispecie concorsuale non costituisce un istituto di creazione giurisprudenziale, bensì conse- guenza della generale funzione incriminatrice dell'art. 110 cod. pen. e che la sua configurabilità trova conferma testuale nella disposizione di cui all'art. 418, comma 1, cod. pen..

Per altro verso, afferma ancora la Corte, non è neppure ipotizzabile la violazione del principio di determinatezza e di ragionevolezza della pena, in quanto, per il concorrente esterno, sotto il primo profilo, la pena è quella prevista dall'art. 416-bis cod. pen., e, sotto il secondo profilo, il giudice, applicando norme generali (attenuanti nonché artt. 132-133 cod. pen.), può comminare una pena adeguata al concreto disvalore della condotta tenuta dall'agente.

In senso conforme, Sez. 5,n. 2653 del 13/10/2015, dep. 2016, Paron, Rv. 265926 ha escluso la riconducibilità del "concorso esterno in associazione di tipo mafioso" alle fattispecie di creazione giurisprudenziale, trattandosi, piuttosto, di un reato, conseguenza della generale funzione incriminatrice dell'art. 110 cod. pen. applicata al predetto reato associativo, che si configura quando un soggetto, pur non stabilmente inserito nella struttura organizzativa del sodalizio (ed essendo quindi privo dell'"affectio societatis"), fornisce alla stessa un contributo volontario, consapevole concreto e specifico che si configura come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231671).

5. Gli effetti della "Contrada" sui procedimenti definiti con sentenza irrevocabile.

Con riferimento alla seconda delle questioni anticipate in premessa, si registrano due arresti della Suprema Corte, che, pur riconducibili a Sezioni diverse, si pongono idealmente in sequenza tra loro, riguardando il medesimo soggetto, che, dopo aver subito condanna irrevocabile per il reato di cui agli artt. 110, 416-bis. cod. pen., esperiva contestualmente ricorso straordinario, ai sensi dell'art. 625-bis cod. proc. pen., avverso la sentenza della Cassazione che aveva definito il procedimento di cognizione, nonché incidente di esecuzione, impugnando per cassazione il relativo provvedimento di inammissibilità del ricorso.

Ambedue le strade intraprese si sono, però, sia pure per ragioni diverse, rivelate infruttuose.

5.1. (Segue). L'inammissibilità del ricorso straordinario ex art. 625-bis, cod. proc. pen.

Nel primo caso, Sez. 5, n. 28676 del 14/03/2016, Dell'Utri, Rv. 267240, in linea al consolidato insegnamento in materia di ricorso straordinario ex art. 625-bis cit.[2], ha affermato che questo è inammissibile se proposto al fine di ottenere la revoca della condanna inflitta per fatti di associazione mafiosa commessi antecedentemente al 1994, rientranti nell'orientamento espresso dalla sentenza Corte edu, 14 aprile 2015, Contrada c. Italia. In motivazione, la S.C. ha chiarito che, nella specie, si era al di fuori dell'orizzonte applicativo del rimedio previsto dall'art. 625-bis, cit., non essendo stato riscontrato e neppure addotto alcun errore di fatto relativo alla sentenza di legittimità impugnata.

Nel percorso argomentativo seguito la Corte ha ritenuto non necessario prendere posizione sulla questione relativa al potere del giudice di disapplicare (per effetto delle sentenze della Corte edu che dichiarano l'intervenuta violazione delle disposizioni della Convenzione) le norme di legge ordinaria, che reputi non conformi alle predette previsioni convenzionali[3] Ciò in quanto ai giudici è apparso evidente prima facie l'inadeguatezza dell'istituto del ricorso straordinario rispetto alla fattispecie esaminata, non essendosi, in questa, affatto verificata una fuorviata rappresentazione percettiva nella sentenza impugnata e non avendo neanche i ricorsi in esame evidenziato alcun errore di fatto in cui sarebbero incorsi i giudici di legittimità.

A giudizio della Corte il rimedio esperibile doveva essere quello dell'incidente di esecuzione, che, non a caso, il ricorrente aveva contestualmente esperito innanzi la Corte di Appello, quale Giudice dell'esecuzione.

5.2. L'inammissibilità dell'incidente di esecuzione.

Anche questo tentativo si rivelava tuttavia infruttuoso per l'interessato, la cui azione veniva dichiarata inammissibile dalla corte territoriale e il successivo ricorso per cassazione rigettato da Sez. 1, n. 44193 dell'11/10/2016, Dell'Utri, Rv. 267861.

La decisione, espressamente in linea con le affermazioni contenute nella sentenza della Corte cost. n. 210 del 2013, recentemente ribadite da Corte cost. n. 57 del 2016, ha offerto ai giudici l'occasione per soffermarsi sul rapporto tra giudicato "convenzionale" e giudicato "interno", operando le seguenti distinzioni:

a) lì dove il giudicato convenzionale evidenzi un problema strutturale dell'ordinamento interno, derivante dall'applicazione di una norma di legge, il tema assume rilievo anche nei casi diversi da quello deciso dalla Corte edu, purché identici, in virtù di quanto previsto dall'art. 46 Conv. Eur.. Ciò deriva o dalla espressa indicazione contenuta nella decisione della Corte edu circa la natura generale della fonte della violazione e la necessaria adozione di misure riparatorie collettive (si tratti o meno di "sentenza pilota", dato che l'applicazione dell'art. 61 del Regolamento della Corte adottato il 1.9.2012 deriva, come evidenziato dalla difesa del ricorrente, dalla necessità di congelare la trattazione di ricorsi seriali o prevenire il flusso di tali ricorsi e non può dirsi dunque indispensabile), o da una interpretazione del contenuto della sentenza che evidenzi - pur nel silenzio del giudice convenzionale - con assoluta chiarezza la natura generale della violazione del diritto riconosciuto dalla Convenzione; b) l'esecuzione del giudicato convenzionale emesso nei confronti dello Stato italiano - ed invocato da soggetti diversi dal destinatario diretto della pronunzia favorevole - richiede, lì dove la causa della violazione sia riconducibile all'avvenuta applicazione di una norma di legge, l'attivazione preliminare dell'incidente di legittimità costituzionale della norma in questione per violazione potenziale dell'art. 117 Cost., comma 1;

c)qualora sia intervenuta pronunzia di illegittimità costituzionale, la modifica del giudicato andrà realizzata tramite l'apertura di un procedimento di revisione (Corte Cost. n.113 del 2011) se il tema posto in sede sovranazionale rende necessaria la riapertura del giudizio di cognizione; in alternativa va utilizzato lo strumento dell'incidente di esecuzione ove l'intervento richiesto risulti predeterminato da altre norme giuridiche applicabili al caso (come nella vicenda Scoppola, caratterizzata dalla incidenza della decisione della Corte edu non sull'an della responsabilità ma sulla misura della sanzione).

Seguendo l'argomentare della Corte, l'incidente di esecuzione rappresenta, dunque, in linea teorica - stante la perdurante inerzia del legislatore - solo uno dei possibili strumenti di adeguamento dell'ordinamento interno alle decisioni definitive emesse dalla Corte edu, postergato rispetto alla revisione, cui può farsi ricorso solo nei casi in cui: a) la decisione, sia o meno stata adottata nelle forme della "sentenza pilota", abbia effettiva e obiettiva portata generale; b) le situazioni in comparazione (caso deciso dal giudice sovranazionale/ caso soggettivamente diverso sottoposto a scrutinio) siano identiche; c) non sia necessaria la previa declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma e l'intervento di rimozione o modifica del giudicato non presenti nessun contenuto discrezionale, risolvendosi nell'applicazione di altro e ben identificato precetto.

Ebbene, nel caso in esame, i giudici hanno ritenuto difettare tutti e tre i ricordati presupposti, per cui si è concluso escludendo in radice che l'incidente di esecuzione, esclusivamente correlato all'ipotesi di totale irrilevanza penale del fatto, come sostenuto dal ricorrente, potesse ritenersi sede "idonea" per la ridiscussione della legalità convenzionale della decisione definitiva di condanna emessa a carico del ricorrente medesimo.

Non vi è infatti alcuna conclusione obbligata di tale verifica nel senso della rimozione della affermazione di penale responsabilità - così come richiesto - e tanto basta per ritenere la verifica de qua del tutto estranea ai poteri del giudice della esecuzione.

6. Concorrente esterno e partecipe dell'associazione.

Al di là delle questioni richiamate nel paragrafo precedente, non sono mancate nell'anno in corso pronunzie, che hanno affrontato ulteriori profili problematici in materia di concorso esterno in associazione mafiosa.

Il riferimento è a taluni arresti, nei quali la Corte si è soffermata sulle figure del concorrente esterno e del partecipe all'associazione, evidenziandone i tratti comuni e le differenze.

Tra queste si segnala Sez. 1, n. 21642 dell'08/01/2016, Caravello, Rv. 266886, nella quale si premette, come ormai incontroversa, la configurabilità del concorso "eventuale" di persone nel reato necessariamente plurisoggettivo proprio, quale è quello di associazione mafiosa.

Cionondimeno, nell'occasione la Corte ha evidenziato la perdurante difficoltà di tracciare una chiara linea di demarcazione tra la figura del partecipe e quella del concorrente esterno, nonché tra quest'ultima e altre situazioni riferibili a condotte meramente agevolatrici.

I giudici hanno, perciò, ritenuto necessario ribadire che la nozione di "partecipazione" ha una valenza "dinamico-funzionale" che non solo implica un organico e stabile inserimento nella struttura organizzativa dell'associazione mafiosa, ma comporta anche, all'interno di essa, l'assunzione di un ruolo effettivo e, in attuazione dei vincoli assunti, l'adempimento dei compiti funzionali al raggiungimento dei scopi perseguiti dal sodalizio e la disponibilità per le attività organizzate dal medesimo. Ne consegue che, sul piano della dimensione probatoria della partecipazione, rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio[4].

Assume, invece, le vesti di concorrente esterno il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e privo dell'affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che esplichi un'effettiva rilevanza causale per la conservazione e il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione o, quanto meno, di un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminosa della medesima.

La rilevanza e la tipicità della condotte del soggetto "esterno", dotate delle caratteristiche ora indicate, sono delimitate dalla funzione incriminatrice dell'art. 110 cod. pen. che combina la clausola generale in essa contenuta con le disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato. Ciò postula che sussistano tutti i requisiti strutturali che caratterizzano il nucleo centrale significativo del concorso di persone nel reato. È necessario, quindi, per un verso, che siano realizzati, nella forma consumata o tentata, tutti gli elementi del fatto tipico di reato descritto dalla norma incriminatrice di parte speciale e che la condotta di concorso sia oggettivamente e soggettivamente collegata con quegli elementi.

Per altro verso occorre che il contributo atipico del concorrente esterno (sia esso di natura materiale o morale), diverso ma operante in sinergia con quello dei partecipi interni, abbia avuto una reale efficienza causale per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell'evento lesivo del bene giuridico protetto, costituito, nella specie, dall'integrità dell'ordine pubblico, violata dall'esistenza e dall'operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei delitti-scopo del programma criminoso.

Con riferimento, infine, ai confini tra la condotta concorsuale ed eventuali altre integranti una diversa figura criminosa, è stato affermato che risponde del reato di concorso esterno nel reato associativo e non di procurata inosservanza di pena, colui che, esterno al sodalizio, agisce con la finalità di fornire non un aiuto episodico al singolo associato per sottrarsi all'esecuzione della pena, ma un contributo causalmente diretto alla conservazione o al rafforzamento del sodalizio.

Sulla base di tali premesse la Corte ha ritenuto che configuri il delitto di cui agli artt. 110, 416-bis cod. pen. 1a condotta dell'imputato, che mette a disposizione dell'associazione mafiosa la propria abitazione, affinché ivi possano trovare rifugio latitanti di spicco e svolgersi riunioni di vertice dell'organizzazione, finalizzate ad elaborare le strategie criminali e a gestire gli affari illeciti della consorteria.

Poco tempo prima della pronunzia appena richiamata, Sez. 2, n. 49093 dell'1/12/2015, Cangiano, Rv. 265286, si era occupata del tema con riferimento in una fattispecie di connubio tra imprenditoria e criminalità organizzata. Situazione, questa, che più di frequente pone un problema di qualificazione giuridica della condotta.

Nell'occasione, la Corte, sulla base di affermazioni non dissimili da quelle espresse nella citata sentenza n. 21642/16, ha ritenuto che esula dallo schema operativo del concorso esterno dell'imprenditore colluso ed integra, invece, il delitto di partecipazione ad associazione criminosa di stampo mafioso, la condotta dell'imprenditore che progetti e predisponga meccanismi fraudolenti tesi ad ottenere, in violazione del divieto di frazionamento degli acquisti, l'aggiudicazione di appalti di prestazioni e servizi sempre al medesimo gruppo, così consentendo al sodalizio criminoso di esercitare il controllo sulle procedure di gara e di accrescere la propria capacità economica, consolidando la propria presenza criminale sul territorio. Per converso, è da escludere che siffatta condotta possa essere ricondotta allo schema operativo dell'imprenditore colluso, che instaura con la cosca un rapporto di reciproci vantaggi, consistenti, per il primo, nell'imporsi sul territorio in posizione dominante e, per la seconda, di ottenere risorse, servizi, utilità.

7. L'elemento psicologico del concorrente esterno.

Sul tema dell'accertamento del dolo, Sez. 5, n. 2653 del 13/10/2015, dep. 2016, Paron, Rv. 265926 ha chiarito che, ai fini della configurabilità, sul piano soggettivo, del concorso esterno nel delitto associativo, non si richiede, in capo al concorrente, il dolo specifico proprio del partecipe, che consiste nella consapevolezza di far parte dell'associazione e nella volontà di contribuire a tenerla in vita e a farle raggiungere gli obiettivi che si è prefissa, bensì quello generico, consistente nella coscienza e volontà di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell'associazione. In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto pienamente consapevole di operare, oltre che, ovviamente, nel suo interesse, anche nell'interesse della organizzazione mafiosa, un maresciallo del ROS dei Carabinieri, il quale - in cambio di informazioni riservate - percepiva uno "stipendio fisso" da parte della consorteria.

In termini non dissimili, Sez. 2, n. 18132 del 13/04/2016, Trematerra, Rv. 266908 ha aggiunto che ai fini della sussistenza del dolo diretto del delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso occorre che l'agente, pur sprovvisto dell'affectio societatis e cioè della volontà di fare parte dell'associazione, sia consapevole dei metodi e dei fini della stessa, rendendosi conto dell'efficacia causale della sua attività di sostegno per la conservazione o il rafforzamento della struttura organizzativa, all'interno della quale i membri effettivi devono poter contare sull'apporto vantaggioso del concorrente esterno. A tal fine è sufficiente che l'agente abbia previsto, accettato e perseguito il suddetto risultato non solo come possibile o probabile, bensì certo o comunque altamente probabile della propria condotta. Nella valutazione degli indizi sulla sussistenza del dolo, si deve tener conto anche delle massime d'esperienza desumibili, ad es.: a) dai rapporti che, in concreto, l'indagato abbia intrattenuto con i membri del sodalizio criminoso a fini elettorali; b) dalla conoscenza che egli aveva del ruolo che i suddetti membri ricoprivano nell'ambito della cosca; c) dalla natura (sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo) della sua attività ove, in concreto, abbia favorito i singoli sodali o la cosca.

Nel medesimo solco ermeneutico, preme segnalare nell'anno in commento anche Sez. 1, n. 21642 dell'08/01/2016, Caravello, Rv. 266886, secondo cui la particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta, quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell'evento lesivo del "medesimo reato". Pertanto il concorrente esterno, pur sprovvisto dell'affectio societatis e, cioè, della volontà di far parte dell'associazione, deve essere consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno) e rendersi compiutamente conto dell'efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell'associazione.

Peculiare, infine, l'ipotesi di cui si è occupata Sez. 1, n. 8316 del 14/01/2016, Di Salvo e altri, Rv. 266146, afferente la condizione del soggetto, che con la propria condotta procuri vantaggio, oltre che alla consorteria di appartenenza, anche ad un seconda organizzazione. Nello specifico si trattava di due sodalizi operanti in territori confinanti e il soggetto associato ad uno di essi, avente compiti di regolamentazione degli interessi reciproci per il coordinamento delle attività estorsive, svolgeva tale ruolo in rappresentanza e nell'interesse esclusivo del gruppo criminale di appartenenza, procurando indirettamente beneficio anche all'altra organizzazione criminale.

La Corte ha affermato il principio, secondo cui non può ritenersi sussistente il dolo diretto di conservazione e rafforzamento del sodalizio criminale, necessario ad integrare la fattispecie, nella condotta di colui il quale, partecipe di altra organizzazione mafiosa, agisca con l'unica finalità di recare vantaggio a quest'ultima, anche se dalla sua attività possano derivare vantaggi comuni ai due organismi criminali.

8. L'espansione delle mafie storiche (il fenomeno delle cd. "locali").

Anche nell'anno in commento, la Corte è stata chiamata a confrontarsi con le problematiche giuridiche correlate al fenomeno dell'estensione delle mafie "storiche" dal territorio di origine ad altre zone del Paese.

Il tema è ormai da anni oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza di legittimità, per lo più, con riferimento a quelle filiazioni della 'ndrangheta calabrese che vanno sotto il nome di "locali".

Il profilo problematico scaturisce dal fatto che le neo formazioni decentrate (pur mutuando, della tradizionale associazione mafiosa, la struttura verticistica e familistica, i riti di affiliazione, l'omertà interna e gli obiettivi) risultano talvolta utilizzare una metodologia prevaricatrice non corrispondente a quella tipica della organizzazione "madre".

Ciò può dipendere dal fatto che, in ipotesi, pur senza veri e propri atti di intimidazione, dette strutture dislocate riescono ad inquinare nei nuovi territori di elezione la realtà economica e quella politico-amministrativa, che su di essa incide attraverso appalti di opere e/o servizi pubblici.

L'analisi coinvolge inevitabilmente profili di carattere storico e sociologico in relazione al manifestarsi dell'azione illecita della organizzazione "madre" e al grado di penetrazione di essa nel tessuto sociale del territorio di origine.

Sul piano giuridico, la domanda è se - e al ricorrere di quali presupposti - anche le filiazioni della associazione di origine siano inquadrabili nella fattispecie tipizzata all'art. 416bis cod. pen.

L'interrogativo si snoda in due sottoquestioni: la prima di carattere sostanziale relativa ai criteri attraverso cui determinare quando l'entità dislocata, benché ancora collegata alla casa madre, cessi di essere mera propaggine di quest'ultima, assurgendo a sodalizio autonomo; la seconda di natura processuale attinente ai profili probatori e di individuazione della competenza territoriale a procedere.

Partendo proprio da quest'ultima tematica, preme rilevare la difficile individuazione della competenza territoriale qualora ci si trovi in presenza di un'organizzazione criminale composta da vari gruppi operanti su di un vasto territorio nazionale ed estero, i cui raccordi per il conseguimento dei fini dell'associazione prescindono dall'area geografica di origine, né sono collegati a questa per la realizzazione dei suddetti fini. In tal caso, la competenza per territorio a conoscere del reato associativo va determinata con riferimento al luogo di programmazione e di ideazione dell'attività riferibile all'associazione, salvo che la diramazione del sodalizio non abbia assunto da questo una autonomia tale da costituire essa stessa, sul piano giuridico, una nuova e diversa consorteria.

L'affermazione, in sé scontata, risolve il problema soltanto sul piano teorico, in quanto rimane aperta la questione dei parametri attraverso cui stabilire quando nella dinamica relazionale con la casa madre possa dirsi avverato il taglio del cordone ombelicale e la nascita del nuovo sodalizio.

Snodo fondamentale per addivenire alla soluzione dell'interrogativo è comprendere se, ai fini della configurazione del reato di cui all'art. 416-bis, sia necessario o meno riscontrare, oltre la capacità intimidatrice dell'organizzazione criminale, anche un conseguente alone di intimidazione diffuso nel territorio.

8.1. L'inquadramento della problematica nella più recente giurisprudenza della Suprema Corte.

Numerosi gli arresti giurisprudenziali, che, specie negli ultimi anni, si sono occupati del tema, con specifico riferimento alle cd. locali, cioè quelle filiazioni della 'ndrangheta, operanti in varie regioni del nord Italia e all'estero, ma rimaste, nella gran parte dei casi, collegate alla originaria consorteria calabrese. In tali pronunce non sempre è dato cogliere una linea interpretativa lineare e coerente, al punto da far apparire la materia più controversa di quanto effettivamente lo sia.

Ad una prima lettura delle motivazioni delle varie sentenze sorge, invero, il dubbio se per qualificare una "locale" come associazione autonoma sia sufficiente l'adesione di questa a moduli organizzativi che riecheggino, per rituali di affiliazione, ripartizione di ruoli e relative qualificazioni nominalistiche, organizzazioni criminali di storica fama criminale, ovvero sia necessaria l'esteriorizzazione od esternalizzazione del metodo mafioso, ossia la proiezione all'esterno di siffatta metodica criminale, con i consequenziali riflessi nella realtà ambientale, in termini di assoggettamento ed omertà[5].

In realtà, il panorama giurisprudenziale complessivamente considerato, piuttosto che controverso[6], sembra convergere (lo si vedrà nei paragrafi seguenti) nella affermazione del principio secondo cui l'integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti.

La problematica in esame sembra, allora, necessitare più che altro di un riordino interno, che distingua e consideri autonomamente le singole questioni.

In questa direzione, nel 2015 si è chiaramente mossa Sez. 6, n. 39112 del 20/05/2015, Catalano e altri[7], la quale, senza discostarsi da alcuna delle affermazioni di principio espresse nei richiamati arresti della Corte e cercando, piuttosto, di ricondurle ad unità, aveva evidenziato che il problema delle "locali" sottende un dubbio interpretativo in realtà privo di effettiva apprezzabilità se visto nell'ottica della astratta configurabilità del reato associativo in disamina, dalla quale deve essere tenuto distinto il differente ed ulteriore profilo della prova dell'esistenza degli elementi costitutivi della fattispecie e in particolare della metodologia che connatura l'associazione mafiosa.

Nel solco dell'approccio ermeneutico appena richiamato, nel 2016 la Cassazione (Sez. 6, n. 44667 del 12/05/2016, Napoli e altri) è tornata ad occuparsi del tema ribadendo che per la soluzione delle relative questioni il dato probatorio rappresentativo di quello fenomenico assume un ruolo essenziale.

Nei paragrafi seguenti si riportano, della richiamata pronuncia, i fondamentali passaggi argomentativi, attraverso cui si è svolto il ragionamento dei giudici, illuminanti ai fini dell'inquadramento della tematica e la soluzione delle relative problematiche giuridiche.

8.2. Il profilo strutturale della fattispecie associativa.

La Corte ha ritenuto prendere avvio dal dato strutturale del reato di associazione di stampo mafioso, evidenziandone la caratterizzazione per l'assetto organizzativo, per la peculiare finalizzazione del suo operare e per l'utilizzo del metodo mafioso.

Quest'ultimo deve trovare concreto riscontro nella progettualità e nell'azione del sodalizio, quale suo elemento intrinseco e costitutivo.

La circostanza che i reati associativi siano, in via generale, concepiti come reati di pericolo in rapporto alla concreta potenzialità criminale del sodalizio non vale a minare il rilievo che l'associazione di stampo mafioso postula l'utilizzo del metodo (di cui "si avvale")[8].

Al tempo stesso va considerato che le associazioni storicamente riconosciute sono state sussunte nella fattispecie come dato presupposto, essendo noto il loro operare in progress.

Ed allora risulta sotto tale profilo comprensibile l'affermazione, secondo cui quando si parla di 'ndrangheta non vi è bisogno di ulteriori verifiche circa la concreta utilizzazione del metodo mafioso in rapporto alla riconoscibilità dello stesso, proveniente da una storicamente vissuta esperienza.

Peraltro non si deve trascurare la circostanza che ogni associazione costituente centro di imputazione di scelte e di attività deve essere specificamente considerata, onde riscontrarvi in concreto gli elementi necessari e sufficienti ai fini dell'integrazione della fattispecie di cui all'art. 416-bis cod. pen.

Ne consegue, secondo i giudici, che ai fini della configurazione del reato associativo non è sufficiente la mera potenzialità del metodo mafioso, occorrendo che questo trovi concreta manifestazione, ne consegue che quella che da più parti viene denominata come mafia cd. "silente" costituirebbe, si afferma testualmente in sentenza, non più che una mera figura retorica.

8.3. (Segue). La cd. "mafia silente".

A chiarimento di quest'ultima affermazione, la Corte ha aggiunto che sarebbe opportuno ridefinire la nozione di "mafia silente" non già come associazione criminale aliena dal cd. metodo mafioso o solo potenzialmente disposta a farvi ricorso, bensì come sodalizio che tale metodo adopera in modo silente, cioé senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico), ma avvalendosi di quella forma di intimidazione - per aspetti ancora più temibile - che deriva dal non detto, dall'accennato, dal sussurrato, dall'evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere.

In motivazione si rievoca un episodio, quanto mai esemplificativo della accezione che i giudici hanno inteso attribuire alla espressione in commento.

In un colloquio intercettato uno dei sodali si sofferma sulle modalità operative che consentono alla consorteria di perseguire i propri scopi e in tale quadro segnala al suo interlocutore che in caso di rapporto con soggetti che non hanno contezza di trovarsi al cospetto della forza criminale della 'ndrangheta ("che non ci conoscono") é meglio evitare fastidi (ad esempio il rischio di denunce), usando dapprincipio modi volti a convincere senza l'uso dell'intimidazione, dopo di che, in caso di insuccesso, deve comunque farsi ricorso alla sopraffazione ("e allora vaffanculo").

Si tratta a ben guardare, si legge in sentenza, della plastica rappresentazione del metodo mafioso, nel senso che esso non implica il ricorso ad eclatanti e sistematiche forme di intimidazione, ma postula invece che la consorteria debba poter realizzare i propri interessi, facendo leva sul fatto di essere riconoscibile dal proprio interlocutore ovvero su comportamenti destinati comunque a porlo in condizione di soggezione.

Il portato probatorio del colloquio è di tale chiarezza che la Corte giunge ad affermare che esso sarebbe da solo idoneo a rendere riconoscibile l'utilizzo del metodo mafioso, postulando l'esistenza di soggetti già "educati" alla sopraffazione, per il solo fatto di aver contezza della forza della consorteria e del suo programmatico uso, e dunque la comprovata esistenza di un'associazione in grado di fare leva sul relativo stato di assoggettamento.

Nella conversazione, proseguono i giudici, si coglie l'unico senso da attribuire all'idea di "mafia silente", che non può essere riferita ad una mafia che non utilizzi il metodo mafioso ma ben diversamente ad una mafia che non ha bisogno di dimostrare ulteriormente alcunché, perché essa è già riconosciuta.

8.4. Il profilo probatorio.

Il problema di cui si discute si sposta, dunque, secondo il pensiero della Corte, alla prova dell'esistenza di un autonomo sodalizio mafioso.

Prova, che nelle ipotesi in cui la neo formazione si richiama, mutuandoli, ai canoni operativi di associazioni storicamente conosciute, come la 'ndrangheta, risulta semplificata, essendo necessario e sufficiente verificare la effettiva riconoscibilità nella nuova struttura degli elementi richiamati, ciò alla condizione che l'operatività del sodalizio si sia comunque - e non solo potenzialmente - manifestata con la capacità di evocare in qualsiasi forma nel contesto di riferimento la forza intimidatrice del modello, quale suo elemento costitutivo.

Parallelamente è necessario verificare se l'organismo dislocato sia o meno centro di imputazione di scelte criminali.

In caso di risposta negativa l'appartenenza del soggetto andrà riferita - anche sotto il profilo della competenza territoriale - alla consorteria di base.

Nel caso, invece, di risposta positiva dovrà verificarsi che l'esperienza criminale si inveri nel nuovo contesto - a prescindere dalla refrattarietà o meno del tessuto sociale, che può reagire in modo diverso alla prospettiva di una penetrazione della consorteria in profondità -, considerando le modalità di concreta manifestazione di quella realtà criminale, che non postula azioni eclatanti ma deve consistere nell'attuazione di un sistema incentrato sull'assoggettamento, derivante dalla forza dell'elemento associativo.

8.5. L'autonomia della organizzazione dislocata rispetto alla casa madre.

Applicando quanto affermato alla fattispecie sottoposta al suo esame, la Corte ha rilevato che la casa-madre risultava avere esercitato decisiva influenza, ad essa spettando di autorizzare l'apertura o la riattivazione di locali, nonché l'indicazione del numero di "doti" che le locali avrebbero potuto assegnare ai propri appartenenti.

Cionondimeno, il sistema delle locali nell'area di insediamento si era ormai emancipato dalla casa-madre nelle concrete dinamiche operative e nelle scelte, anche di tipo criminale, facenti capo alle stesse, il che valeva a conferire alla neoformazione il crisma dell'autonomia.

8.6. Il sistema federato delle locali operanti in zone limitrofe.

Più che il profilo appena evidenziato (peraltro incontestato nella fattispecie all'attenzione della Corte) il tema cruciale, sul quale i giudici si sono soffermati, ha riguardato la verifica dell'autonomia di ciascuna locale dalle altre operanti nei territori limitrofi.

Si è posta, in particolare, la questione se configurare ciascuna locale come associazione autonoma ovvero come parte di un'unica più estesa associazione federata comprendente tutte le locali della zona.

Si comprende agevolmente l'importanza di una soluzione anziché l'altra.

Ove, invero, risulti sussistente un unico apparato organizzativo, capace di proiettarsi all'esterno, non occorre che ogni lembo della "federazione" sia in pari misura interessato dalla proiezione dell'operatività criminale, ove la stessa sia riscontrabile e imputabile alla consorteria nel suo complesso.

Al tempo stesso non occorre verificare che ogni membro della consorteria sia parte attiva dell'utilizzo del metodo, essendo invece necessario che esso sia effettivamente parte del sodalizio condividendone l'organizzazione, l'assetto e le finalità ed adoperandosi per l'esistenza e lo sviluppo dell'associazione.

Ne consegue che, escludendo in fatto l'esistenza della federazione di cui si è detto, al fine di inverare la riconoscibilità in loco della consorteria di riferimento, sarebbe necessario accertare che ciascuna locale, quale centro di imputazione di scelte criminali, abbia dato luogo alla manifestazione del metodo mafioso.

Ciò è quanto accaduto nella fattispecie oggetto della sentenza "Catalano", ove la Corte, giudicando gli elementi acquisiti non idonei a rappresentare un'associazione unitaria, si era attenuta ad una valutazione atomistica, che imponeva di verificare, per ciascuna locale, l'utilizzo del metodo mafioso.

Nell'occasione ora in esame, invece, il Supremo collegio, conferendo espressamente seguito ai principi della "Catalano", ma riscontrando una diversa situazione in fatto, ha ritenuto immune da censure la valutazione della Corte territoriale di sussistenza di un'associazione unitaria e operativamente autonoma, radicata nel territorio, costituita in federazione, comprendente le varie "locali" di 'ndrangheta operanti nella zona.

Benché strettamente pertinenti alla fattispecie nel concreto esaminata, appare opportuno evidenziare gli elementi che in questa occasione i giudici hanno ritenuto idonei a dimostrare l'esistenza della struttura federata di cui si è detto.

a) Tutti gli adepti si riconoscevano parte di un'unica complessiva entità, coinvolgente le strutture piemontesi, anche in rapporto con quelle esistenti presso la casa-madre.

b) Tutti i membri avvertivano di essere tenuti all'osservanza di doveri di rispetto e di informativa nonché di finanziamento a vantaggio all'autorità reggina.

c) Ciascuna locale disponeva di un numero consistente di partecipi (almeno 40) e riconosceva l'esistenza delle altre, con le quali si rapportava per determinazioni strategiche e per la partecipazione mediante propri rappresentanti a cerimonie di conferimento delle doti a soggetti delle varie locali.

d) Ciascuna locale operava in un proprio ambito, delimitato sulla base di regole comuni concordate, ma partecipava all'assunzione di decisioni di interesse collettivo, che avrebbero potuto comportare assetti diversi nella gestione di vari tipi di affari.

e) Le varie locali nominavano il rappresentante che avrebbe dovuto partecipare alla riunione annuale del 3 settembre a Polsi, per l'elezione del "Capo Crimine".

f) Il capo della locale di Siderno a Torino aveva il ruolo di punto di riferimento della "Provincia", di coordinatore delle locali piemontesi, tanto da aver avuto plurime occasioni per perorare presso la casa-madre istanze provenienti da quelle locali, come avvenuto in occasione della dibattuta richiesta di riapertura della locale di Rivoli e di quella di apertura di una nuova locale nel Chivassese.

Riscontrata sul piano strutturale l'esistenza di una federazione unitaria, restavano ancora da verificare l'identità mafiosa di quest'ultima e l'utilizzo della relativa metodologia.

Anche su questi punti, il risultato dell'analisi è stato positivo, avendo il Collegio di legittimità giudicato coerente e immune da censure la motivazione dei giudici del merito.

8.7. (Segue). Gli elementi rivelatori della identità mafiosa della "locale".

Era stato, invero, riscontrato che il programma operativo della federazione mutuava quello della 'ndrangheta calabrese e veniva definito e realizzato in un quadro di rapporti e relazioni, che potevano giungere ad accordi e forme di condivisione, che ricalcavano complessivamente il paradigma di cui al terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen., avendo ad oggetto l'inserimento monopolistico nel settore dell'edilizia e in quello del gioco d'azzardo, la collateralità ad esponenti politici, il ricorso sistematico a condotte estorsive, la manifestazione della posizione di forza, lo sfruttamento dell'omertà.

Ancor più nello specifico, gli indici rivelatori dell'identità mafiosa della neo formazione sono stati individuati nelle seguenti circostanze:

a) Pedissequa omologazione alla 'ndrangheta calabrese, di cui conservava le stimmate, sia sul piano organizzativo sia sul piano dei rapporti tra locali, sotto il controllo, dal punto di vista strutturale, del c.d. Crimine di Polsi, l'autorità massima della 'ndrangheta calabrese.

b) Rispetto delle regole tipiche della consorteria calabrese, per cui ciascuna locale era ripartita in una "società maggiore" e in una "minore, cui appartenevano sodali che possedevano "doti" e tra i quali venivano ripartite le principali cariche.

c) Rispetto delle regole di segretezza e di rispetto della supremazia gerarchica, essendo i soggetti esposti a sanzioni per il caso di "trascuranze".

8.8. L'esteriorizzazione della metodologia mafiosa.

Passando al profilo della esteriorizzazione della metodologia mafiosa, risultava dalle emergenze istruttorie che la neo formazione unitaria, nata dal depotenziamento del clan dei "gioiosani" (storicamente radicato nel territorio piemontese) per effetto dell'azione di contrasto dello Stato, si era avvalsa della forza intimidatrice che la 'ndrangheta aveva ormai assunto nella zona, con le corrispondenti manifestazioni di assoggettamento e reticenza di molte persone, che in varie occasioni avevano preferito non denunciare i fatti o li avevano raccontati in modo compiacente.

La Corte ha rimarcato come del metodo mafioso dovessero essere valorizzati, oltre che l'utilizzo all'esterno, anche le manifestazioni all'interno del sodalizio, a partire dai rituali del giuramento, che ciascun sodale avrebbe dovuto leggere al momento dell'affiliazione, e dell'attribuzione di doti.

Parimenti, dovevano essere tenuti in debita considerazione taluni gravi fatti di sangue che avevano trovato la propria causa esclusivamente nelle logiche e nelle regole tipicamente afferenti quel tipo di associazione mafiosa.

8.9. L'atteggiarsi della aggravante dell'associazione armata nel sistema federato delle locali.

L'inquadramento della costellazione di locali in una struttura associativa dispiegava, infine, i suoi effetti sull'applicazione dell'aggravante dell'associazione armata, contestata ai partecipi di tutte le locali federate.

Occorre premettere, in diritto, che, secondo quanto stabilito dall'art. 416-bis cod. pen., si considera armata l'associazione quando i partecipanti hanno la disponibilità per il conseguimento delle finalità dell'associazione di armi o esplosivi anche se occultati o tenuti in luogo di deposito.

Si aggiunga che il criterio di imputazione soggettiva delle aggravanti, disciplinato dall'art. 59, comma 2, cod. pen., fa leva sulla consapevolezza del fatto o sulla sua ignoranza per colpa. Ma a tal fine è sufficiente il fatto notorio della stabile detenzione di strumenti di offesa da parte di un sodalizio mafioso (Sez. 1, n. 44704 del 5/5/2015, Lana, Rv. 265254).

Da tali premesse, i giudici ne hanno tratto la conseguenza che l'inquadramento di tutte le locali in modo unitario, quale federazione espressiva del peculiare fenomeno associativo costituito dalla 'ndrangheta, implicava che ai fini della ravvisabilità dell'aggravante in parola dovesse farsi riferimento al sistema nel suo complesso a prescindere da quale specifico soggetto o da quale specifica locale avesse avuto la concreta disponibilità di armi.

8.10. Conclusione.

Il percorso argomentativo seguito dalla Corte si è, dunque, snodato in una sequela di verifiche probatorie: così riassumibile: a) configurazione del sistema delle locali in un'unica associazione di tipo federale; b) autonomia di detta struttura rispetto alla casa madre; c) identità mafiosa della neo formazione; d) utilizzo della metodologia mafiosa.

L'esito positivo di ciascuna di queste valutazioni ha condotto i giudici alla conclusione che il sistema delle locali, così come ne era stato accertato l'atteggiarsi, fosse espressione in tutto e per tutto alla 'ndrangheta calabrese, benché radicato in ambito territoriale diverso da quello di origine.

Ciascuna locale, in tanto era operativa nella propria sfera, in quanto si riconosceva nel sistema federale.

E proprio questo riconoscersi come componenti di un unico sistema ha consentito di affermare che, al di là dell'azione di ciascuna locale, il sistema stesso nel suo complesso costituiva vero centro di imputazione delle scelte criminali e dunque era da intendere come rappresentativo dell'assetto associativo idoneo ad integrare il paradigma normativo dettato dall'art. 416-bis cod. pen.

  • terrorismo
  • circostanza aggravante
  • circostanza attenuante
  • concorso nel reato

CAPITOLO II

I REATI COMMESSI CON FINALITÀ DI TERRORISMO

(di Piero Silvestri )

Sommario

1 La nozione di terrorismo prima dell'entrata in vigore del d.l. 27 luglio 2005, n. 144. - 2 La nuova nozione di terrorismo: il profilo oggettivo. - 3 segue). Il profilo soggettivo delle condotte terroristiche. - 4 L'associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico (art. 270-bis cod. pen.). - 4.1 (segue). La condotta. - 4.2 (segue). Le finalità dell'associazione. - 4.3 (segue). Le ulteriori pronunce della Corte di cassazione. - 4.4 Circostanze: a) aggravanti. - B) Attenuanti. - 4.5 (segue). Concorso di persone nel reato associativo. - 4.6 (segue). Rapporti con altri reati. - 5 L'arruolamento con finalità di terrorismo (art. 270-quater cod. pen.). - 5.1 La condotta di arruolamento. - 6 L'addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270- quinquies cod. pen.). - 6.1 (segue). Elemento soggettivo. - 6.2 Rapporti con altri reati. - 7 L'attività di propaganda. - 8 L'attività di apologia.

1. La nozione di terrorismo prima dell'entrata in vigore del d.l. 27 luglio 2005, n. 144.

L'art. 270-sexies cod. pen. è stato introdotto dall'art. 15 del d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modifiche, nella legge 31 luglio 2005, n. 155 (recante " Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale "), con la finalità di dare una definizione legislativa del concetto di terrorismo, in ordine alla cui delimitazione vi erano state incertezze interpretative ed applicative.

In precedenza, le attenzioni degli interpreti si erano concentrate sulla distinzione tra terrorismo ed eversione, concetti cui vi è richiamo negli artt. 270-bis, 280 e 289-bis cod. pen.

Mentre della formula "eversione dell'ordine democratico" il legislatore aveva dato una interpretazione autentica con l'art. 11 della 1. 29 maggio 1982, n. 304 (per cui doveva intendersi come " eversione dell'ordinamento costituzionale"), il problema ermeneutico si era posto quando, con la modifica dell'art. 270-bis cod. pen., si era voluti intervenire per sanzionare condotte criminose dirette a colpire Stati stranieri, soprattutto nei casi in cui le iniziative delittuose si fossero inserite in un contesto di guerra o di guerriglia.

Le locuzioni "terrorismo" e "finalità terroristiche" non erano affatto estranee all'ordinamento interno, che ad esse faceva esplicito riferimento in più disposizioni del codice penale: nello stesso art. 270-bis cod. pen., ("associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico"), nell'art. 280, introdotto dall'art. 2 della legge 6 febbraio 1980, n. 15, ("attentato per finalità terroristiche o di eversione"), nell'art. 289-bis, inserito dall'art. 2 della legge 21 marzo 1978, n. 191 ("sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione"), nell'art. 1 della legge n. 15 del 1980, art. 1 concernente la circostanza aggravante ad effetto speciale applicabile ai reati qualificati dalla finalità di terrorismo.

In tale specifico contesto, è stato fatto principalmente riferimento al valore semantico dell'espressione, secondo il patrimonio culturale comune, ed è stata coniata una formula descrittiva del terrorismo interno nella quale è stata ricompresa qualsiasi azione qualificata dal fine di porre in essere atti idonei a destare panico nella popolazione (cfr. Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, (dep. 1996), Fachini ed altri, Rv. 203769, relativa all'aggravante della finalità di terrorismo), nel senso che è posibile parlare di finalità terroristica se si è in presenza di condotte violente dirette ad ingenerare paura e panico, nonché ad incutere terrore nella collettività con azioni criminose indiscriminate, dirette, cioè, non contro le singole persone ma contro quello che esse rappresentano, ovvero se dirette contro la persona indipendentemente dalla sua funzione nella società, miranti a incutere terrore per scuotere la fiducia nell'ordinamento costituito e indebolirne le strutture.

Estesa la portata della norma incriminatrice prevista dall'art. 270-bis cod. pen. a seguito dell'art. 1 del 18 ottobre 2001, n. 374, convertito nella 1. 15 dicembre 2001, n. 438, è stata immediatamente avvertita l'inadeguatezza di tale nozione per descrivere i connotati specifici del terrorismo internazionale ed è stata sentita l'esigenza di individuare una definizione giuridica nella quale si riflettessero i peculiari caratteri transnazionali delle condotte criminose, attraverso l'analisi delle plurime fonti internazionali dirette a reprimere attività terroristiche.

In tale contesto, il testo della Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, stipulata a New York il 9 dicembre 1999, resa esecutiva con L. 27 gennaio 2003, n. 7, ha una portata qualificatoria così ampia da assumere il valore di una definizione generale, applicabile in tempo di pace che di guerra, e comprensiva di qualsiasi condotta diretta contro la vita o l'incolumità di civili o, in contesti bellici, contro "ogni altra persona che non prenda parte attiva alle ostilità in una situazione di conflitto armato", al fine di diffondere il terrore fra la popolazione o di costringere uno Stato o un'organizzazione internazionale a compiere o ad omettere un atto.

Oltre ad essere connotata da tali elementi oggettivi e soggettivi, nonché dalla identità delle vittime (civili o persone non impegnate nelle operazioni belliche), è opinione comune, - conformemente ad una norma consuetudinaria internazionale accolta in varie risoluzioni dell'Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, nonché nella Convenzione del 1997 contro gli attentati terroristici commessi con l'uso di esplosivi - che per essere qualificata terroristica la condotta deve presentare, sul piano psicologico, l'ulteriore requisito della motivazione politica, religiosa o ideologica.

La definizione degli atti terroristici contenuta nell'art. 1 della Decisione quadro 2002/475/ GAI del Consiglio dell'Unione europea è basata, invece, sull'elencazione di una serie determinata di reati, considerati tali dal diritto nazionale, che possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un'organizzazione internazionale e sono commessi al fine di intimidire gravemente la popolazione o di costringere indebitamente i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, ovvero di destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale.

La formula definitoria tracciata dalla Decisione quadro del 2002 si differenzia da quella della Convenzione ONU del 1999, della quale pure ricalca in gran parte le linee, per due aspetti.

Da una parte, l'area applicativa dei reati terroristici risulta più limitata, riguardando soltanto fatti commessi in tempo di pace, come risulta esplicitamente dall'undicesimo "considerando" introduttivo, che esclude dalla disciplina "le attività delle forze armate in tempo di conflitto armato", secondo le definizioni date a questi termini dal diritto internazionale umanitario: di talché la definizione in esame fa salve le attività poste in essere in tempo di guerra, regolate dal diritto internazionale umanitario e, in primo luogo, dalle Convenzioni di Ginevra e dai relativi Protocolli aggiuntivi.

Per altro verso, la Decisione quadro amplia la nozione delle attività terroristiche prevedendo che queste siano connotate anche dalla finalità eversiva, vale a dire dallo scopo di "destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale", assente nel testo della Convenzione del 1999.

In entrambe le definizioni è comunque presente la connotazione tipica degli atti di terrorismo, individuata comunemente nella "depersonalizzazione della vittima", in ragione del normale anonimato delle persone colpite dalle azioni violente, il cui vero obiettivo è costituito dal fine di seminare indiscriminata paura nella collettività e di costringere un governo o un'organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un determinato atto.

Seguendo tale impostazione esegetica, si era altresì puntualizzato che l'atto terroristico era compatibile - alla luce della normativa internazionale ed in particolare dell'art. 2 della Convenzione di New York del 1999, recepita dalla 1. n. 7 del 2003 - con un contesto bellico, considerato che riveste natura terroristica anche l'atto diretto contro un obiettivo militare, quando le peculiari e concrete situazioni di fatto facessero apparire certe ed inevitabili le gravi conseguenze per la vita e l'incolumità fisica della popolazione civile, contribuendo a diffondere paura e panico nella collettività.

Ne derivava in giurisprudenza l'affermazione secondo cui, ai fini dell'individuazione della natura dell'atto incriminato, l'elemento discretivo, in un contesto bellico o di occupazione militare, non era tanto lo strumento adoperato, quanto, piuttosto, l'obiettivo avuto di mira, atteso che costituiva atto terroristico quello che, sia in tempo di pace, sia nel corso di un conflitto armato, si dirigeva contro un civile o una persona che non partecipasse - o non partecipasse più attivamente - alle ostilità.

Tale principio fu enunciato nei confronti di alcuni appartenenti all'organizzazione Ansar al Islam, che nel quadro della jihad islamica, avevano provveduto al proselitismo, al reclutamento e alla raccolta di finanziamenti preordinati a preparare e ad eseguire azioni terroristiche contro governi cosiddetti 'infedelì, ritenendo la natura terroristica degli attentati dinamitardi e delle azioni dei cosiddetti " kamikaze " compiuti in luoghi affollati dalla popolazione civile, pur se indirizzati contro obiettivi militari, nel corso di un conflitto armato.

In particolare, Sez. 1, n. 1072 dell'11/10/2006, (dep. 2007), Bouyahia Maher, Rv. 235288 affermò, seppur con riferimento a condotte compiute prima della entrata in vigore dell'art. 270-sexies cod. pen., che detta norma rinvia, quanto alla definizione delle condotte terroristiche o commesse con finalità di terrorismo, agli strumenti internazionali vincolanti per l'Italia, e, in tal modo, introduce un meccanismo idoneo ad assicurare automaticamente l'armonizzazione degli ordinamenti degli Stati facenti parte della comunità internazionale in vista di una comune azione di repressione del fenomeno del terrorismo transnazionale.

La Corte nella occasione aggiunse che sono atti terroristici anche quelli di violenza compiuti nel contesto di conflitti armati e rivolti contro un obiettivo militare, quando le peculiari e concrete situazioni fattuali facciano apparire certe ed inevitabili le gravi conseguenze in danno della vita e dell'incolumità fisica della popolazione civile, contribuendo a diffondere nella collettività paura e panico (nello stesso senso, Sez. 5, n. 39545 del 4/7/2008, Ciise Maxamad, Rv. 241730; Sez. 5, n. 31389 del 11/6/2008, Bouyahia, Rv. 241174, secondo cui riveste natura di atto terroristico l'atto di violenza che, ancorché rivolto contro il nemico armato, abbia come conseguenza "collaterale" inevitabile e prevista la morte o la causazione di gravi lesioni a civili, terzi rispetto ai soggetti attivi e non identificabili come avversari di questi; in mancanza di reati - fine effettivamente portati ad esecuzione o non ancora portati ad esecuzione, la natura terroristica dell'associazione deve essere dedotta dalle condotte preparatorie e dalla concreta predisposizione dei mezzi utilizzati per metterle in atto).

2. La nuova nozione di terrorismo: il profilo oggettivo.

In adempimento dell'obbligo di modificare l'ordinamento interno in modo da renderlo conforme all'atto normativo comunitario, con il D.L. 27 luglio 2005, n. 144, art. 15, comma 1, convertito nella L. 31 luglio 2005, n. 155, è stato inserito l'art. 270-sexies cod. pen. con cui sono state definite "condotte con finalità di terrorismo" quelle "che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un'organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l'Italia".

L'esplicito richiamo, in funzione integrativa, al vincolo derivante dalle fonti internazionali fa sì che quella adottata dall'art. 270-sexies cod. pen. costituisca una definizione aperta, destinata, cioè, ad estendersi o a restringersi per effetto non solo delle convenzioni internazionali già ratificate, ma anche di quelle future alle quali sarà prestata adesione.

In tal modo, come detto, è stato normativamente predisposto un meccanismo, fondato su un rinvio dinamico o formale, idoneo ad assicurare automaticamente l'armonizzazione degli ordinamenti degli Stati che compongono la collettività internazionale al fine di predisporre gli strumenti occorrenti per la comune azione di repressione della criminalità terroristica transnazionale.

Dalla precedente considerazione deve inferirsi che la definizione prevista dall'art. 270 sexies cod. pen. deve essere coordinata con quella della Convenzione del 1999, resa esecutiva con la L. n. 7 del 2003, e che, di riflesso, gli elementi costitutivi delle condotte con finalità di terrorismo - indicati dalla norma nazionale sulla scia della Decisione quadro dell'Unione Europea - devono essere integrati facendo riferimento anche alle previsioni della predetta convenzione.

Dall'integrazione della normativa interna con l'anzidetta fonte internazionale discende che la finalità di terrorismo è altresì configurabile quando le condotte siano compiute nel contesto di conflitti armati - qualificati tali dal diritto internazionale anche se consistenti in guerre civili interne - e siano rivolte, oltre che contro civili, anche contro persone non attivamente impegnate nelle ostilità, con l'esclusione, perciò, delle sole azioni dirette contro i combattenti, che restano soggette alla disciplina del diritto internazionale umanitario.

In generale, si è stabilito che sono terroristiche quelle condotte che, per la loro "natura o contesto", sono idonee ad arrecare "grave danno ad un Paese o ad un'organizzazione internazionale"; come si dirà in prosieguo, i comportamenti terroristici sono qualificati da tre possibili finalità, alternative tra loro.

Si è evidenziato come il legislatore non chiarisca quale bene giuridico debba essere posto in pericolo dalla condotta; da ciò si deduce l'indifferenza che il pericolo del grave danno ricada su un bene di natura patrimoniale, personale o collettiva.

Si assume che questa scelta sarebbe coerente, da un lato, con la presenza nell'ordinamento di norme in materia di terrorismo poste a tutela tanto di beni personali (ad es. l'art. 280), quanto di beni patrimoniali (ad es. l'art. 280-bis) e collettivi (ancora, cfr. l'art. 280-bis comma 3), dall'altro, con la scelta del legislatore comunitario - vincolante per il legislatore nazionale - che nella decisione quadro 2002/475/Gai ha espressamente posto a base della definizione di atto terroristico una serie di condotte che vanno dall'attentato alla vita e all'integrità fisica delle persone, alle distruzioni di vasta portata di strutture governative o di infrastrutture.

Se, però, l'indifferenza della natura del bene posto in pericolo dalla condotta non rappresenta di per sé un problema per l'interprete, si evidenzia la obiettiva difficoltà di riferire il "grave danno" derivante da un atto che ricada su un bene parrimoniale ad un "Paese o ad un'organizzazione internazionale".

Se nel caso dell'omicidio di un importante uomo politico (es. un ministro) il requisito del "grave danno" per il Paese sarebbe facilmente riscontrabile, in ragione dell'immediata ricaduta del fatto sul governo dell'intero Stato, con conseguente grave danno per lo stesso, si assume che sarebbe più arduo sostenere che la distruzione di un edificio pubblico possa di per sé costituire quello stesso grave danno per il Paese, tenuto conto delle possibilità economiche di cui dispone lo Stato, oltre che della possibilità di utilizzare strutture sostitutive al posto di quella distrutta.

Anche rispetto alla lesione dell'integrità fisica o, addirittura, alla morte di comuni cittadini potrebbero sorgere dubbi in tal senso: si fa notare infatti che, pur accogliendosi una nozione di Paese comprensiva non solo delle istituzioni e del territorio, ma anche della popolazione, sarebbe altrettanto sostenibile la posizione di chi ritenesse che la morte (o il ferimento) di un uomo, in quanto lesione del bene fondamentale della vita (o dell'integrità fisica), rappresenti sempre e comunque un grave danno per il Paese, quanto la posizione di chi affermasse che la morte (o il ferimento) di un singolo cittadino non sia in grado di incidere sensibilmente sulla vita di un intero Paese.

La Corte di Cassazione - esaminando una vicenda cautelare relativa ad episodi di attentati con ordigni micidiali ed esplosivi commessi da alcuni soggetti che si erano opposti alla realizzazione di opere concernenti la linea ad alta velocità tra Torino e Lione - ha definito i contorni applicativi della norma in esame, sostenendo che, per ritenere integrata la finalità di terrorismo di cui all'art. 270-sexies cod. pen., non è sufficiente la direzione dell'atteggiamento psicologico dell'agente, ma è necessario che la condotta sia concretamente idonea a realizzare uno degli scopi indicati nel predetto articolo (intimidire la popolazione, costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali ecc. di un Paese o di un'organizzazione internazionale), determinando un evento di pericolo di portata tale da incidere sugli interessi dell'intero Paese.

La Corte ha precisato che il riferimento al "contesto", contenuto nel citato art. 270-sexies cod. pen., sulla base del quale deve essere valutato il significato della condotta, impone di dar rilievo al pericolo del "grave danno" anche quando questo non dipenda solo dall'azione individuale considerata, ma sia piuttosto il frutto dell'innesto di essa in una più ampia serie causale non necessariamente controllata dall'agente, fermo restando che questi deve rappresentarsi e volere tale interazione. (Sez. 6, n. 28009 del 15/5/2014, Alberto, Rv. 260076).

La Corte ha chiarito la valenza del riferimento alla "natura o contesto" della condotta, quali elementi indefettibili della valutazione in punto di pericolosità.

La previsione svolge, secondo la Corte, un ruolo di "allargamento", atteso che quando la caratteristica di alcuni fatti risiede proprio (ed anche) nella "macrodimensione dell'evento temuto, è consentito al legislatore il ricorso esplicito a segnali che valorizzino il contributo individuale alla produzione, effettiva o potenziale, dell'evento medesimo, per evitare che tale contributo resti annullato dalla serie coordinata di forze che, nei fatti, è necessaria per esplicare concretamente l'effetto".

Si tratterebbe di una applicazione delle regole comuni in materia di causalità e concorso di persone (artt. 41 e 110 cod. pen.), e, in particolare, del principio dell'equivalenza, anche tra condizioni riferibili a comportamenti umani, con il limite esclusivo delle cause "da sole" sufficienti a produrre l'evento.

Si è precisato, tuttavia, che l'interazione tra condotta individuale e contesto deve segnare il momento rappresentativo e quello volitivo nella determinazione dell'agente: se la possibilità dell'evento dannoso grave dipende da tale interazione, è necessario che l'agente si rappresenti gli elementi della congerie causale che conferiscono alla sua personale condotta l'efficienza peculiare sanzionata dalla norma e dovrà volerne l'influsso sulla serie nella quale il suo comportamento confluisce.

Una implicazione del principio è che il "contesto" non può essere ricostruito tenendo conto di condotte ed avvenimenti successivi al comportamento del reo, non potendo questi farne oggetto di rappresentazione e di pianificazione, salva l'ipotesi in cui si riscontri la pertinenza del fatto ad una programmazione che comprenda dall'origine futuri elementi di contesto utili ad interagire con l'azione commessa.

Si tratterebbe, a questo punto, d'una mera questione di prova e motivazione.

Sul tema è intervenuta anche Sez. 1, n. 47479 del 16/7/2015, Alberti e altro, Rv. 265405 così massimata "Per ritenere integrata la finalità di terrorismo di cui all'art. 270 sexies cod. pen., non è sufficiente che l'agente abbia intenzione di arrecare un grave danno al Paese, ma è necessario che la sua condotta crei la possibilità concreta - per la natura ed il contesto obiettivo dell'azione, nonché degli strumenti di aggressione in concreto utilizzati - che esso si verifichi, nei termini di un reale impatto intimidatorio sulla popolazione, tale da ripercuotersi sulle condizioni di vita e sulla sicurezza dell'intera collettività, posto che solo in presenza di tali condizioni lo Stato potrebbe sentirsi effettivamente coartato nelle sue decisioni. (Nella specie la Suprema Corte ha escluso la sussistenza della finalità di terrorismo negli episodi di danneggiamento ai cantieri TAV, ritenendo che le condotte delittuose non fossero concretamente idonee a costringere le pubbliche autorità a rinunciare alla realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità, né avessero la capacità di produrre un grave danno al Paese)".

La Corte ha precisato, quanto alla finalità di terrorismo, che essa deve ulteriormente connotare la condotta di attentato ai beni materiali, che non è sufficiente a integrare detta finalità la sola direzione dell'atteggiamento psicologico dell'agente, ma è necessario che la condotta posta in essere sia concretamente idonea a realizzare uno degli scopi indicati nell'art. 270-sexies cod. pen. (intimidire la popolazione, destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale, ovvero, come contestato nel caso di specie, costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto), determinando un evento di pericolo di portata tale da incidere sugli interessi dell'intero Paese colpito dagli atti terroristici.

Allo scopo di individuare il discrimen proprio della finalità di terrorismo rispetto ad altre attività illecite e, in particolare, a quelle di natura sovversiva, incriminate sul piano associativo dall'art. 270 cod. pen., la Corte aveva già precisato che il terrorismo costituisce, più che un obiettivo, un mezzo o una strategia che si caratterizza per l'uso indiscriminato della violenza, non solo perché accetta gli effetti collaterali della violenza diretta, ma anche perché essa può essere rivolta in incertam personam, allo scopo di generare panico, terrore, insicurezza, e costringere chi ha il potere di prendere decisioni a fare o tollerare soluzioni che non avrebbe accettato in condizioni normali (Sez. 5, n. 46340 del 4/07/2013, Stefani, Rv. 257547).

L'art. 270-sexies cod. pen. avrebbe, secondo la Corte, una struttura complessa, nella quale, accanto alla descrizione delle finalità, sono compresi anche elementi di carattere obiettivo, misuratori della specifica offensività dei fatti contemplati.

Non sarebbe sufficiente pertanto che l'agente abbia l'intenzione di arrecare il (grave) danno, ma occorre che la sua condotta crei la possibilità concreta - sul piano oggettivo - che esso si verifichi, secondo lo schema di un evento di pericolo concreto, da valutarsi alla stregua del criterio della prognosi postuma tenendo conto della natura della condotta e del contesto in cui essa si colloca: il finalismo terroristico postulato dall'art. 270-sexies cod. pen., in definitiva, non può limitarsi a un fenomeno esclusivamente psicologico, ma deve materializzarsi in un'azione seriamente capace di realizzare i fini tipici descritti nella norma.

Nella occasione la Corte ha riconosciuto in sede cautelare l'esistenza di gravi indizi in ordine alla riconducibilità di una associazione sovversiva di matrice anarco-insurrezionalista alla previsione di cui all'art. 270-bis cod. pen., rilevando all'interno della compagine criminosa - ancorché non gerarchizzata - una chiara suddivisione di ruoli fra ideologi e militanti operativi, disponibilità di forme di finanziamento e di un simbolo nonché il proposito, desumibile dai suoi progetti e risultante dalle azioni commesse in esecuzione del programma associativo, di intimidire indiscriminatamente la popolazione, suscitando terrore e panico e non già di indirizzarsi esclusivamente ad obiettivi di elezione allo scopo di ottenere un effetto paradigmatico (sul tema, cfr., par. 4) .

3. segue). Il profilo soggettivo delle condotte terroristiche.

Accanto all'aspetto oggettivo, di cui si è appena detto, l'art. 270-sexies richiede, per poterle qualificare come terroristiche, che le condotte perseguano una delle tre finalità ivi elencate, e cioè che siano state " compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale ".

Si tratta di una formula che ripropone quasi pedissequamente quella contenuta nella decisione quadro 2002/475/Gai dell'Unione europea, più volte richiamata.

Secondo la Corte di cassazione l'accostamento dei tre eventi e la loro parificazione a fini di trattamento sanzionatorio costituisce un fattore irrinunciabile per l'esatta ricostruzione delle rispettive fisionomie. (Sez. 6, n. 28009 del 2014, cit.) Quanto allo scopo di "intimidire la popolazione", si è evidenziato che esso avrebbe il significato di "portare nella società un turbamento profondo e perdurante, tale che la collettività, nel suo complesso, senta menomata la propria aspettativa di vita in condizioni di libertà e sicurezza".

In tal senso è stata configurata una continuità tra la nozione di "spargimento del panico tra la popolazione" individuata dalla giurisprudenza più risalente (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, (dep. 1996), Fachini, Rv. 203770) e quella di grave intimidazione nei confronti della popolazione, fissata nell'art. 1, comma 1, della Decisione quadro n. 2002/475/GAI, sostanzialmente ripresa con il D.L. n. 144 del 2005, art. 15 e, dunque, con l'art. 270-sexies cod. pen.: " . . .è comunque presente la connotazione tipica degli atti di terrorismo individuata dalla più autorevole dottrina nella "depersonalizzazione della vittima" in ragione del normale anonimato delle persone colpite dalle azioni violente, il cui vero obiettivo è costituito dal fine di seminare indiscriminata paura nella collettività e di costringere un governo o un'organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un determinato atto" (Sez. 1, n. 1072 del 11/10/2006, cit.).

In secondo luogo, si è attribuita rilevanza alla destabilizzazione od alla distruzione delle strutture istituzionali fondamentali di un Paese o di una organizzazione internazionale: una finalità più prossima allo scopo tradizionale dell'eversione dell'ordine costituzionale e democratico, spinta fino alla "destabilizzazione" delle istituzioni più essenziali dal punto di vista politico, costituzionale, economico o sociale.

Quanto alla identificazione dell'evento "costrizione", si è sottolineato che il mero fine di condizionamento politico sarebbe del tutto inidoneo a selezionare le condotte con finalità terroristiche; rilevante, ai fini della configurazione della finalità costrittiva, sarebbe innanzitutto la "scala" della decisione potenzialmente imposta al potere pubblico: dovrà trattarsi, secondo la Corte, di "un affare particolarmente rilevante, capace di influenzare le condizioni della vita associata, per il suo oggetto o per l'implicazione che ne deriva in punto di "tenuta" delle attribuzioni costituzionali".

Sotto altro profilo, secondo la sentenza in esame, la finalità di costrizione deve essere perseguita utilizzando un metodo illecito.

Sotto ulteriore profilo, si assume, il fine di "costrizione" non potrebbe assumere una dimensione terroristica per il solo fatto che la condotta strumentale contrasti con un precetto penalmente sanzionato.

Secondo la giurisprudenza una funzione chiarificatrice nella interpretazione della finalità costrittiva è assolta proprio dal requisito del rischio di "grave danno" per il Paese.

Si evidenza come il soggetto passivo del "danno" venga dalla legge indicato nel Paese, lasciando intendere l'irrilevanza dei patrimoni privati in quanto tali, e, nel contempo, come lo stesso venga definito "grave", assumendo quindi una dimensione di scala, la quale, per un verso, non potrebbe che essere "enorme" (finendo paradossalmente per restringere l'ambito della tutela), e, per altro, verso sembrerebbe incompatibile con la fisionomia patrimoniale dell'offesa, per la sua entità e per la stessa sua natura.

Sarebbe dunque il collegamento con il carattere politico - istituzionale del finalismo terroristico a qualificare e rendere accettabilmente determinato il "grave danno per il Paese" che la condotta di volta in volta considerata deve rendere possibile (un collegamento siffatto sembra implicitamente evocato anche dalla decisione che ha escluso l'integrazione dell'art. 270- sexies per gravi fatti di devastazione commessi dai tifosi di una squadra calcistica: Sez. 1, n. 25949 del 27/05/2008, Minotti ed altro, Rv. 240465, in cui la Corte, in sede cautelare, ha escluso la configurabilità della circostanza aggravante della finalità di terrorismo prevista dall'art. 270-sexies cod. pen. nei fatti di devastazione commessi, in occasione della morte di un tifoso di calcio, da un gruppo di altri tifosi e concretatisi in aggressioni violente alle forze di polizia, lancio di bombe carta, assalto a caserme e incendio di autobus della stessa polizia, danneggiamento indiscriminato di auto e moto in sosta, in quanto in tali condotte, quantunque gravi, non sarebbe stata ravvisabile, in assenza di elementi di più adeguata strutturazione, la prospettiva teleologica ineludibile nella finalità medesima).

4. L'associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico (art. 270-bis cod. pen.).

Si è già detto di come il quadro normativo di riferimento sia stato profondamente modificato dal d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito nella 1. 15 dicembre 2001, n. 438, che - come si è già anticipato - non solamente ha ampliato la portata operativa dell'art. 270-bis stabilendone l'applicazione anche alle associazioni con finalità di terrorismo internazionale, ma ha pure espressamente previsto che, ai fini in generale della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione e un organismo internazionale.

La Cassazione ha, tuttavia, affermato che, anche a seguito della novella del d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, l'art. 270-bis non è applicabile alle associazioni con finalità di eversione dell'ordine democratico di uno Stato estero, in considerazione - oltre che del tenore testuale della norma, che al comma 3 estende la punibilità alle sole associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale - della ratio legis da individuare nell'escludere che il giudice italiano si esprima sul sistema politico-istituzionale di uno Stato estero (Sez. 6, n. 36776 del 1 luglio 2003, Nerozzi, Rv. 226049).

In tal senso si è affermato che il reato di associazione eversiva con finalità di terrorismo non ha natura plurioffensiva atteso che il bene giuridico tutelato dall'art. 270-bis cod. pen è esclusivamente la personalità internazionale dello Stato (Sez. 5, n. 12252 del 23/2/2012, Bortolato, Rv. 251920; in senso difforme, tuttavia, Sez. 5, n. 75 del 18/7/2008, Laagoub ed altri, Rv. 242355).

Come già detto, nella giurisprudenza di legittimità, si è sostenuto che, ai fini della configurabilità del reato di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale e con riguardo a condotte anteriori all'introduzione dell'art. 270-sexies cod pen., rivestono natura terroristica, pur se indirizzati contro obiettivi militari nel corso di un conflitto armato, gli attentati dinamitardi e le azioni dei " kamikaze " compiuti in luoghi affollati dalla popolazione civile, risultando estranea alla normativa vigente la distinzione tra terrorismo e guerriglia.

Tale principio è stato enunciato con riferimento ad una fattispecie relativa all'organizzazione transnazionale "Ansar Al Islam"; in motivazione, la Suprema Corte ha richiamato la Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, fatta a New York l'8 dicembre 1999 e ratificata dall'Italia con 1. 14 gennaio 2003, n. 7 (Sez. 5, n. 75 del 2008, cit.).

In precedenza, la Cassazione, con due pronunce coeve, aveva asserito che "l'art. 270bis cod. pen. ha esteso la tutela penale anche agli atti di violenza rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione o un organismo internazionale senza precisare i casi nei quali un atto di violenza dovesse ritenersi eseguito per finalità di terrorismo": lacuna eliminata dall'art. 270-sexies cod. pen., per cui " le condotte con finalità di terrorismo mutuandone la definizione dalla decisione quadro n. 2002/475/GAI elaborata dal Consiglio dell'Unione europea nel quadro delle attività di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, con un'unica differenza terminologica consistente nell'eliminazione nella disposizione italiana dell'avverbio "gravemente" con riferimento sia all'intimidazione della popolazione sia allo scopo di "costringere i poteri pubblici a compiere qualsiasi atto" [ . . . ] il delitto in esame è di pericolo presunto, per la cui configurabilità occorre l'esistenza di una struttura organizzata, con programma comune fra i partecipanti, finalizzato sovvertire violentemente l'ordinamento dello Stato e accompagnato da progetti - anche se non specificati nei particolari - concreti ed attuali di consumazione di atti di violenza [ . . . ] in presenza di una struttura organizzata, per se in modo rudimentale, cui l'indagato partecipi, è sufficiente per configurare il delitto in esame, che l'adesione ideologica si sostanza in seri propositi criminali volti a realizzare una delle indicate finalità, per senza la loro materiale iniziale esecuzione, che supererebbe il limite tipico del pericolo presunto [ . . . ] l'ideazione o la partecipazione ad un progetto terroristico, pur se formulato non nei suoi dettagli ma in modo ancora generico e di ampia realizzazione, ma dimostrato anche dalla dichiarata piena disponibilità alla futura esecuzione e fondato sulla menzionata organizzazione di persone, che ne condividono le finalità ed apprestano gli strumenti indispensabili preliminari per compiere le azioni violente o eversive, già in sé integra gli estremi del delitto in oggetto [ . . . ] "; la nuova normativa " ha anticipato la punibilità al momento prodromico, proprio per impedire che queste ultime attività siano poste in essere nella realtà effettuale " (Sez. 6, n. 25863 del 8/5/2009, Scherillo, Rv. 244367).

4.1. (segue). La condotta.

La condotta oggetto della norma incriminatrice consiste, alternativamente, nel promuovere, costituire, organizzare o dirigere associazioni che si propongono di realizzare con la violenza i fini descritti nella norma, ovvero nel partecipare ad un'associazione già costituita.

Il Supremo collegio ha puntualizzato che per la configurabilità dei reati di cui agli artt. 270 e 270-bis è sufficiente la costituzione di una associazione che aggiunga agli schemi normativi suoi propri, quelli contenuti in detti articoli, che si sostanziano unitariamente, a parte le specificazioni, in comportamenti finalizzati a sovvertire violentemente l'ordinamento dello Stato nelle sue varie articolazioni e a travolgere, in definitiva, il suo assetto democratico e pluralistico.

La norma appresta tutela, quindi, contro il programma di violenza e non contro l'idea, anche se questa è collocata in un'area ideologica in contrasto con lo assetto costituzionale dello Stato.

L'idea, infatti, anche se di natura eversiva, se non accompagnata da programmi e comportamenti violenti, riceve tutela proprio dall'assetto costituzionale, che ha consacrato il metodo democratico e pluralistico e che essa, contraddittoriamente, mira a travolgere (Sez. 1, n. 8952 del 7/4/1987, Angelini, Rv. 176516).

Tale principio è stato riaffermato più recentemente dalla Corte secondo cui il reato previsto dall'art. 270-bis è un reato di pericolo presunto, per la cui configurabilità occorre, tuttavia, l'esistenza di una struttura organizzata, con un programma - comune fra i partecipanti - finalizzato a sovvertire violentemente l'ordinamento dello Stato e accompagnato da progetti concreti e attuali di consumazione di atti di violenza: con la conseguenza che la semplice idea eversiva, non accompagnata da propositi concreti e attuali di violenza, non vale a realizzare il reato, ricevendo tutela proprio dall'assetto costituzionale dello Stato che essa, contraddittoriamente, mira a travolgere (Sez. 1, n. 22719 del 22/3/2013, Lo Turco, Rv. 256489; Sez. 1, n. 30824 del 15/6/2006, Tartag, Rv. 234182; Sez. 1, n. 1072 del 11/10/2006, Bouyahia Maher, Rv. 235289).

Non è necessaria la realizzazione dei reati oggetto del programma criminoso, ma occorre l'esistenza di una struttura organizzata, anche elementare, che presenti un grado di effettività tale da rendere almeno possibile l'attuazione del programma criminoso, mentre non richiede anche la predisposizione di un programma di azioni terroristiche (Sez. 5, n. 2651 del 8/10/2015, (dep. 2016), Nasr Osama, Rv. 265924; nello stesso senso, Sez. 6, n. 46308 del 12/7/2012, Chahchoub e altri, Rv. 253943).

La necessità di una organizzazione rudimentale non significa, ovviamente, assenza di organizzazione laddove, al contrario, l'esecuzione delle numerose azioni poste in essere dal gruppo nell'arco di breve tempo dimostra l'organizzazione e la capacità della stessa di operare funzionalmente ai fini prefissati nonché la stabilità organizzativa della struttura della associazione eversiva (Sez.1, n. 22673 del 22/4/2008, Di Nucci, Rv. 240085).

In tale contesto si colloca Sez. 2, n. 28753 del 1/4/2016, Iacovacci ed altro, Rv. 267512, così massimata: "Il compimento di atti di violenza di matrice anarchica non consente di ritenere integrato il reato associativo di cui all'art. 270-bis cod. pen., qualora sia supportato da una mera adesione individuale al programma di un'associazione ispirata a tale ideologia, essendo invece necessario che i soggetti agenti abbiano costituito una "cellula" della predetta associazione, o un "gruppo di affinità" alla stessa, alla quale risultino riconducibili le azioni delittuose poste in essere".

Oggetto del giudizio della Corte di Assise Appello erano una serie di attentati ed episodi di danneggiamento di matrice anarchica ricondotti dagli inquirenti all'attività della FAI, Federazione Anarchica Informale, ed alla sua successiva evoluzione in FAI/FRI, Fronte Rivoluzionario Internazionale, vasta e ramificata associazione di matrice anarchica internazionale.

Il procedimento, in particolare, riguardava, undici attentati commessi nella zona dei Castelli romani dal 9/11/2010 all'11/12/2012, oggetto di rivendicazioni, a partire dal 22/11/2011, con la sigla FAI - Individualità Anarchiche Anticivilizzazione, FAI/FRI Individualità Sovversive Anticivilizzazione, - con scritte murali apparse in occasione di singoli episodi criminosi, con striscioni o con comunicati apparsi sui siti Internet di area anarchica.

La sentenza di primo grado aveva ritenuto che i due imputati non si fossero limitati ad aderire al programma criminoso della predetta federazione anarchica, ma avessero anche costituito una "cellula" (o "gruppo di affinità"), denominata "Individualità Sovversive Anticivilizzazione" o "Individualità Anarchiche Anticivilizzazione", così ponendo in essere i fatti specifici loro addebitati come atti qualificanti l'adesione al progetto sovversivo della FAI.

La Corte di Assise di Appello non aveva condiviso tale ricostruzione negando che gli imputati avessero costituito un "gruppo di affinità" o una cellula aderente alla FAI.

La Corte territoriale aveva osservato che soltanto gli attentati realizzati da una data fossero stati oggetto di rivendicazione "FAI" ed aveva ritenuto significativo che le azioni comuni fossero state concluse e condotte a termine al di fuori di qualsiasi riferimento, esplicito o implicito, alle teorizzazioni della FAI, in coerenza, del resto, con il comportamento processuale di uno dei prevenuti, proclamatosi anarchico individualista; da ciò era stata tratta la logica conseguenza che non potesse riconoscersi la prova di alcun legame tra lo stesso imputato e la macro-associazione FAI.

In tale quadro di riferimento la Corte di cassazione ha evidenziato come già in passato la giurisprudenza di legittimità avesse avuto modo di riconoscere in più occasioni la configurabilità del reato di cui all'art. 270-bis cod. pen. con riferimento a soggetti stabilmente dediti al compimento di atti di violenza secondo il predetto manifesto programmatico (Sez. 1, n. 21686 del 22/4/2008, Fabiano, Rv. 240075; Sez. 5, n. 46340 del 4/7/2013, Stefani, Rv. 257547), ma si era sempre trattato di soggetti che non si erano limitati ad aderire singolarmente ed individualmente a tale programma, e si erano invece associati in "gruppi di affinità" ispirati a tale programma, gruppi nei quali sono stati riconosciuti gli estremi dell'associazione ex art. 270-bis cod. pen.

Ha aggiunto la Corte che l'organismo "fluido" al quale si ispira la FAI, dì per sé mal si concilia con lo schema dell'art. 270-bis cit., mentre, invece, le finalità di tale organismo avevano indotto più volte la stessa Corte di cassazione a riconoscere la natura dì associazione sovversiva ai "gruppi di affinità" che alla FAI si ispirano, ben potendo tali gruppi o cellule presentare i requisiti richiesti dalla norma incriminatrice.

Così, con riferimento ad un gruppo di affinità costituito tra anarchici ed ecologisti che, adendo alla FAI - "Federazione Anarchica Informale", - avevano posto in essere anche atti di violenza, la Cassazione aveva rilevato che "in presenza di un gruppo che aveva fatto dell'eversione il proprio scopo, attraverso la deliberazione di un programma e il compimento concreto di atti di violenza secondo il piano teorizzato dall'ideologo Bonanno, e che aveva inoltre realizzato in parte il suo programma, non vi è dubbio che si trattasse di un'associazione sovversiva" (Cass. Sez. 1, n. 21686 del 22/4/2008, Fabiani, Rv. 240075).

In tal senso si pone anche altra recente pronunzia (Sez. 5, n. 46340 del 4/7/2013, Stefani, Rv. 257547), che ha riconosciuto l'esistenza di gravi indizi in ordine al reato di cui all'art. 270-bis cod. pen. con riferimento ad aderenti alla FAI costituitisi in un gruppo di affinità, rilevando in quel caso all'interno di tale compagine criminosa - ancorché non gerarchizzata - una chiara suddivisione di ruoli fra ideologi e militanti operativi, la disponibilità di forme di finanziamento e di un simbolo nonché il proposito, desumibile dai suoi progetti e risultante dalle azioni commesse in esecuzione del programma associativo, di intimidire indiscriminatamente la popolazione, suscitando terrore e panico e non già di indirizzarsi esclusivamente ad obiettivi di elezione allo scopo di ottenere un effetto paradigmatico.

Anche in tale circostanza, però, la Corte aveva riconosciuto tali caratteristiche in un "gruppo di affinità" aderente alla FAI, e non già nel mero compimento di azioni individuali ispirate al programma ed aveva conseguentemente configurato tale cellula o gruppo come un'associazione sovversiva ex art. 270-bis cod. pen.

Sotto altro profilo, si è affermato che per la configurabilità della condotta associativa è irrilevante sia la durata dell'impegno assunto dai sodali, che eventuali limitazioni territoriali alla sua operatività (Sez. 6, n. 3241 del 10/2/1998, Cadinu, Rv. 210680).

Si è già detto di come il delitto di associazione con finalità di terrorismo internazionale o di eversione dell'ordine democratico è integrato in presenza di una struttura organizzativa con grado di effettività tale da rendere possibile l'attuazione del programma criminoso, mentre non richiede anche la predisposizione di un programma di azioni terroristiche.

Ne deriva che tali caratteri sussistono anche con riferimento alle strutture "cellulari", proprie delle associazioni di matrice islamica, caratterizzate da estrema flessibilità interna, in grado di rimodularsi secondo le pratiche esigenze che, di volta in volta, si presentano, in condizioni di operare anche contemporaneamente in più Stati, ovvero anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici o comunque a distanza tra gli adepti anche connotati da marcata sporadicità, considerato che i soggetti possono essere arruolati anche di volta in volta, con una sorta di adesione progressiva ed entrano, comunque, a far parte di una struttura associativa saldamente costituita.

In tal caso, l'organizzazione terroristica transnazionale assume le connotazioni, più che di una struttura statica, di una " rete " in grado di mettere in relazione soggetti assimilati da un comune progetto politico-militare, che funge da catalizzatore dell'affectio societatis e costituisce lo scopo sociale del sodalizio. (In applicazione di questo principio la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la decisione del giudice di merito che, in riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto integrato il delitto di cui all'art. 270-bis cod. pen., essendo emersi i collegamenti degli imputati con una associazione di natura terroristica, che aveva posto in essere azioni di chiaro stampo terroristico nel Kurdistan, ed il dolo specifico della finalità terroristica dal materiale documentale sequestrato agli imputati e dal contenuto delle intercettazioni telefoniche. (Sez. 5, n. 31389 del 11/6/2008, Bouyahia e altri, Rv. 241175).

In senso sostanzialmente conforme si pone Sez. 5, n. 13088 del 7/12/2007, (dep. 2008), Boccacini, Rv. 240010, in cui si è precisato che la responsabilità del partecipe di un gruppo criminale terroristico in ordine al reato fine che qualifica il programma criminoso dell'intera associazione può essere desunta dalle connotazioni strutturali dell'associazione, in particolare dall'articolazione in " cellule " territoriali dalla assai ridotta composizione numerica, dalla forte caratterizzazione ideologica dei militanti da cui deriva la consapevole ed incondizionata adesione al programma, dall'esasperata selettività degli obiettivi prescelti, elementi tali da implicare una partecipazione totalizzante ed il necessario conseguente coinvolgimento di tutti i componenti della cellula nell'impresa criminosa da essa pianificata).

Con riferimento ai più recenti fenomeni di terrorismo legati a forme di "fanatismo" religioso, si è ribadito che integra il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale la formazione di un sodalizio, connotato da strutture organizzative "cellulari" o "a rete", in grado di operare contemporaneamente in più Paesi, anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici ovvero informatici anche discontinui o sporadici tra i vari gruppi in rete, che realizzi anche una delle condotte di supporto funzionale all'attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali quelle volte al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda, all'assistenza agli associati, al finanziamento, alla predisposizione o acquisizione di armi o di documenti falsi, all'arruolamento, all'addestramento.

Tale principio è stato enunciato con riferimento ad una fattispecie in cui è stata ritenuta sussistente la prova dell'operatività di una cellula e della sua funzionalità al perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base dell'attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio di nuovi adepti, da inviare all'occorrenza nelle zone teatro di guerra, e della raccolta di denaro destinato al sostegno economico dei combattenti del "Jihad" all'estero (Sez. 6, n. 46308 del 12/7/2012, Chahchoub e altri, Rv. 253944).

Non diversamente, si è affermato che il delitto di partecipazione ad un'associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico, di cui all'art. 270-bis cod. pen., è integrato dalla condotta di chi, offrendo ospitalità ai "fratelli" ritenuti pericolosi, preparando documenti d'identità falsi e propagandando all'interno dei luoghi di culto la raccolta di fondi per i "mujaeddin" ed i familiari dei cd. "martiri", esprime, in tal modo, il sostegno alle finalità della stessa associazione terroristica ed assicura un concreto intervento in favore degli adepti, in adesione al perseguimento del progetto "jiadista". (Sez. 5, n. 2651 del 8/10/2015 (dep. 2016), Nasr Osama, Rv. 265925 in cui la Corte ha precisato che lo svolgimento di tali condotte in via continuativa consente di attribuire all'agente il ruolo di organizzatore).

In tale contesto deve essere segnalata la recente Sez. 5, n.48001 del 14/7/2016, Hosni, Rv. 268164, che ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna per il reato previsto dall'art. 270-bis cod. proc. pen.

La decisione assume rilievo soprattutto in tema di prova della esistenza del vincolo associativo (per le tematiche affrontate dalla sentenza si fa comunque rinvio a quanto si dirà nei paragrafi relativi all'attività di arruolamento, addestramento e apologia).

In punto di fatto dalla sentenza emerge che agli imputati era stato contestato il coinvolgimento in un programma criminoso avente ad oggetto l'avviamento di soggetti islamici verso una radicalizzazione tendente a renderli dei combattenti disponibili al martirio, inteso come esaltazione e ricerca della morte insieme al maggior numero possibile di infedeli.

Dal contenuto di conversazioni intecettetate sarebbero stati desumibili i riferimenti ad un "gruppo"; la destinazione all'indottrinamento, nei termini indicati, di luoghi nella disponibilità di uno dei ricorrenti, segnatamente la moschea di un paese in Puglia, ove questi svolgeva la propria predicazione ed il call center dello stesso gestito; l'utilizzazione dei computers installati in quest'ultimo esercizio commerciale, allorché nello stesso si trovavano i componenti del gruppo, per la connessione con siti riconducibili all'area jihadista e lo scaricamento dagli stessi di filmati su attentati e scene di guerra e documenti illustrativi della preparazione di armi ed esplosivi e delle modalità per raggiungere luoghi di combattimento e trasmettere in rete messaggi criptati; la disponibilità di documenti falsi destinati a consentire la permanenza illegale di immigrati clandestini in Italia; la manifestazione di odio verso la popolazione ebraica, l'ambiente di vita in Italia e l'attività ivi svolta dagli immigrati di fede islamica; e le cautele manifestate dall'Hosni nell'invio ad un conoscente milanese di documentazione di apparente natura religiosa.

Sulla base di tale quadro di riferimento fattuale, la Corte ha ritenuta non esistente la prova della esistenza della struttura e del vincolo associativo, annullando senza rinvio la condanna.

Ha affermato la Corte che l'attività di indottrinamento, finalizzata ad indurre nei destinatari una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa, non consente di ravvisare quegli atti di violenza terroristica o eversiva il cui compimento, per quanto detto, deve costituire specifico oggetto dell'associazione in esame.

Si è notato come in passato la stessa giurisprudenza di legittimità abbia sì attribuito significatività, ai fini della ravvisabilità del reato, alla vocazione al martirio ma ciò, tuttavia, ai limitati fini della valutazione sulla sussistenza di gravi indizi per l'adozione di misure cautelari nei confronti del singolo partecipante ad una cellula terroristica, della quale sia stata "aliunde" riconosciuta l'effettiva operatività (Sez. 2, n. 669 del 21/12/2004, (dep. 2005), Ragoubi ed altri, Rv. 230431), e, comunque, nel caso in cui "alle attività di indottrinamento e reclutamento fosse affiancata quella di addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento (Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, cit.), che attribuisca all'esaltazione della morte, in nome della guerra santa contro gli infedeli, caratteristiche di materialità che realizzino la condizione per la quale possa dirsi che l'associazione, secondo il dettato normativo già ricordato, «si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo"».

Esclusa la decisiva valenza degli elementi fattuali in questione, la Corte ha aggiunto che nella specie neppure poteva attribuirsi rilievo agli ulteriori riferimenti contenuti nella sentenza impugnata: "essendo il procacciamento e la visione di filmati e documenti propagandistici attività strumentali all'indottrinamento, e non diversamente potendo concludersi in ordine alle accennate condotte di falsificazione di documenti. In secondo luogo, e comunque, non emerge dalle conversazioni riportate nella sentenza impugnata, né è peraltro evidenziato nella stessa alcun elemento indicativo della effettiva capacità del gruppo di realizzare atti anche astrattamente definibili come terroristici secondo la previsione dell'art. 270- sexies cod. pen.; atti, cioè, che creino la concreta possibilità di un grave danno per uno Stato, nei termini di un reale impatto intimidatorio sulla popolazione dello stesso, tale da ripercuotersi sulle condizioni di vita e sulla sicurezza dell'intera collettività (Sez. 1, n. 47479 del 16/07/2015, Rv. 265405), ovvero di un determinante esito costrittivo o destabilizzante nei confronti dei pubblici poteri (Sez. 6, n. 28009 del 15/05/2014, Alberto, Rv. 260076)".

Si è evidenziato, viceversa, come la Corte territoriale non potesse che dare atto della circostanza di segno evidentemente contrario, costituita dal decorso del tempo dall'epoca delle intercettazioni, risalenti al 2009, senza che risultasse il compimento di alcun atto terroristico attribuibile all'associazione, anche nella forma minima, e forse neppure sufficiente, della partenza di taluno degli adepti per le zone interessate da combattimenti riferibili alla guerra santa di matrice islamica.

Non propriamente coincidente appare sul punto il prinicpio già affremato dalla Corte secondo cui dal punto di vista probatorio, la finalità eversiva bene può essere desunta dalla convergenza di vari elementi, quali la personalità degli associati con la loro accertata qualificazione ideologica, la disponibilità di appartamenti destinati alle riunioni clandestine, il possesso di armi, occultate in detti appartamenti, il rinvenimento di documenti falsi o di altri arnesi o strumenti sintomatici di attività illegali, la detenzione di carte e stampati e scritti vari, a contenuto chiaramente sovversivo, destinati all'utilizzo ed alla diffusione, la disponibilità di somme non giustificate e da qualunque altro elemento logicamente utilizzabile, per una diagnosi tecnico-giuridica del tipo indicato (Sez. 2, n. 5831 del 14/2/1985, Agresti, Rv. 169747).

Non diversamente, ai fini della configurabilità del reato previsto e punito dall'art. 270-bis è necessario che gli associati si propongano il compito di realizzare atti di violenza con finalità di eversione dell'ordine democratico, di modo che, nella concretezza e nella attualità del programma di violenza, vanno ricercati gli elementi rivelatori del proposito eversivo, proprio perché questo è diretto alla consumazione di atti di violenza; ne consegue che costituiscono indizi sufficienti in ordine al delitto di cui all'articolo in esame il semplice ritrovamento, in possesso di una sola persona, di opuscoli propagandistici che suggeriscano scelte ideologiche in radicale contrasto, perché fondate sulla legittimazione della violenza, con l'assetto istituzionale dello Stato, che vive sul metodo democratico e pluralistico (Sez. 1, n. 2090, del 8/10/1984, Alvisini, Rv. 166734).

4.2. (segue). Le finalità dell'associazione.

Gli scopi perseguiti dalle associazioni descritte nell'art. 270-bis cod. pen. devono essere il compimento di atti di violenza, con l'ulteriore fine di eversione dell'ordine democratico.

La giurisprudenza della Cassazione propende per la tesi secondo cui la finalità di terrorismo e quella di eversione dell'ordinamento costituzionale sono concettualmente distinte; costituisce finalità di terrorismo quella di incutere terrore nella collettività con azioni criminose indiscriminate, dirette cioè non contro le singole persone ma contro quello che esse rappresentano o, se dirette contro la persona indipendentemente dalla sua funzione nella società, miranti a incutere terrore per scuotere la fiducia nell'ordinamento costituito e indebolirne le strutture; la finalità di eversione si identifica, invece, nel fine più diretto di sovvertire l'ordinamento costituzionale e di travolgere l'assetto pluralistico e democratico dello Stato disarticolandone le strutture, impedendone il funzionamento o deviandolo dai principi fondamentali che costituiscono l'essenza dell'ordinamento costituzionale (Sez. 1, n. 11382 del 11/7/1987, Benacchio, Rv. 176946).

È stato ribadito che ciò che punisce l'art. 270-bis è l'associazione che si ponga in modo diretto la finalità di eversione del nostro ordinamento e la mancanza di detta finalità si risolve in una mancanza della qualità dell'associazione e, quindi, dell'elemento costitutivo del reato (Sez. 6, n. 973 del 1/3/1996, Ferdjani, Rv. 204785).

4.3. (segue). Le ulteriori pronunce della Corte di cassazione.

Si è sostenuto che per la sussistenza del reato di cui all'art. 270-bis non occorre che "l'associazione " abbia delle dimensioni particolari, essendo sufficiente, anche nel silenzio della legge, il concorso di due sole persone e che l'oggetto dell'attività associativa si rinvenga nella determinazione e nelle specifiche finalità dei suoi componenti e non si concreti, invece, in un compimento effettivo di un progetto di violenza terroristica o eversiva (Sez. 1, n. 5599 del 17/4/1985, Cappelluti, Rv. 169650; si tratta di una pronuncia che recepisce un indirizzo formatosi anche in tema di associazione sovversiva).

Una volta accertato il carattere penalmente illecito di un determinato organismo associativo, la spendita di una qualsiasi attività in favore di esso, con il "beneplacito" di coloro che nel medesimo organismo operano già a livello dirigenziale, non può che essere ragionevolmente interpretata come prova dell'avvenuto inserimento, per facta concludentia, del soggetto resosi autore di detta condotta nel sodalizio criminoso, nulla rilevando che, secondo le regole interne di quest'ultimo, la medesima attività non implichi, invece, di per sé, il titolo di sodale (nella specie, il principio è stato applicato con riguardo all'organizzazione terroristica " brigate rosse ", in relazione alle ipotesi di reato di cui agli artt. 270-bis e 306 cod. pen.) (Sez. 1, n. 11344 del 10/5/1993, Algranati, Rv. 195762).

Configura il reato di cui all'art. 270-bis l'azione posta in essere da un gruppo anarchico volta al compimento di atti di violenza contro luoghi di detenzione, centri di permanenza per immigrati, banche e società multinazionali in quanto simboli della politica estera dello Stato in campo economico e sociale. Tali azioni violente, essendo dirette al turbamento dell'ordine pubblico, condizionano il funzionamento degli organi statali centrali e periferici e sono idonee a perseguire la finalità dell'eversione dell'ordine democratico (Sez. 1, n. 42282 del 2/11/2005, Paladini, Rv. 232402).

4.4. Circostanze: a) aggravanti.

È stato affermato che l'aggravante del fine di terrorismo, prevista dall'art. 1 1. 6 febbraio 1980, n. 15, è compatibile con il delitto previsto dall'art. 270-bis posto che la formulazione di questo fa riferimento ad " atti di violenza con fini di eversione ", e non menziona affatto il fine di terrorismo, che non è perciò elemento costitutivo del reato ma circostanza aggravante (Sez. 6, n. 3241 del 10/2/1998, Cadinu, Rv. 210681).

In senso contrario, più di recente, si è invece detto che l'aggravante di terrorismo di cui all'art. 1 1. n. 15 del 1980 è incompatibile con il delitto di cui all'art. 270-bis c.p., in quanto la finalità terroristica è divenuta a seguito delle modifiche apportate dalla 1. n. 438 del 2001 elemento costitutivo della fattispecie, ma altresì con quello di cui all'art. 270 dello stesso codice, atteso che, qualora la violenza caratterizzante l'intento sovversivo del sodalizio assuma connotazione terroristica, il fatto sarebbe inevitabilmente sussumibile nella prima norma incriminatrice menzionata (Sez. 5, n. 12252 del 23/2/2012, Bortolato ed altri, Rv. 251921).

B) Attenuanti..

L'art. 4, comma 1, del d.l. n. 625 del 1979, come modificato in sede di conversione, prevede una circostanza attenuante speciale " per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico [ . . . ] nei confronti del concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuta concretamente l'autorità di polizia e l'autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l'individuazione e la cattura dei concorrenti [ . . . ] ". La circostanza ha carattere generale e si riferisce a tutti i delitti, comuni e politici, purché commessi per le suddette finalità.

La Cassazione ha rilevato che la 1. 29 maggio 1982, n. 304, regolando compiutamente ex novo la materia dei benefici da riconoscere a chi si dissociasse dalle organizzazioni terroristico-eversive e prestasse, in varie forme e misure, attività collaborativa con le autorità inquirenti, ha implicitamente abrogato, in virtù del principio di ordine generale stabilito dall'art. 15, ultima parte, delle preleggi, l'art. 4 del d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito, con modificazioni, dalla 1. 6 febbraio 1980, n. 15, che riguardava identica materia; in motivazione la Corte ha anche rilevato che il principio anzidetto non è scalfito dal disposto di cui all'art. 8, comma 2, 1. 18 febbraio 1987, n. 34, recante nuove misure a favore dei dissociati dal terrorismo, secondo cui le disposizioni di detta legge " non si applicano nei confronti di chi ha usufruito o può usufruire dei benefici previsti dall'art. 4 d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito, con modificazioni, dalla 1. 6 febbraio 1980, n. 15, e dagli artt. 2 e 3 1. 29 maggio 1982, n. 304 ", giacché l'espressione " può usufruire " è da intendersi riferita soltanto a detta ultima legge (Sez. 1, 10/5/1993, Algranati, cit.).

4.5. (segue). Concorso di persone nel reato associativo.

Anche in relazione alla fattispecie associativa di cui all'art. 270-bis è configurabile il concorso esterno, con la conseguenza che possono essere ricondotte al reato suddetto anche le condotte realizzate da soggetti che, pur restando estranei alla struttura organizzativa, apportino un concreto apporto eziologicamente rilevante alla conservazione, al rafforzamento e sul conseguimento degli scopi dell'organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali, nella consapevolezza delle finalità perseguite dalla associazione a vantaggio della quale è prestato il contributo (Sez. 1, n. 1072 del 11/10/2006, Bouyahia Maher, Rv. 235290; Sez. 1, n. 16549 del 14/3/2010, Papini, Rv. 246937).

4.6. (segue). Rapporti con altri reati.

La Corte di cassazione ha sottolineato che la differenza tra le ipotesi criminose di cui agli artt. 270 e 270-bis non attiene al requisito della violenza, che ricorre come elemento costitutivo in entrambe le ipotesi criminose, ma nel fatto che la prima fattispecie è a forma specifica, mentre la seconda è a forma generica, e che elemento costitutivo della prima, al pari di quella disciplinata dagli artt. 271, 272, 273, 274 cod. pen., è la commissione del fatto nel territorio dello Stato, elemento che non figura, invece, nella seconda.

Più di recente questo concetto è stato sviluppato, avendo la Cassazione evidenziato che, ai fini del "discrimen" tra la fattispecie di cui all'art. 270-bis e quella di cui all'art. 270 è necessario avere riguardo alla natura della violenza utilizzata per perseguire il fine per il quale l'associazione sia costituita, sussistendo la violenza generica nell'associazione ex art. 270 cod pen. e la violenza terroristica in quella ex art. 270-bis cod. pen., considerato che il terrorismo, ancorché qualificato come finalità dall'art. 270-bis cod. pen., non costituisce, in genere, un obiettivo ma un mezzo o una strategia che si caratterizza per l'uso indiscriminato della violenza, non solo perché accetta gli effetti collaterali della violenza diretta, ma anche perché essa può essere rivolta in "incertam personam" allo scopo di generare panico, terrore, insicurezza e costringere chi ha il potere di prendere decisioni a fare o tollerare soluzioni che non avrebbe accettato in condizioni normali.

Tale principio è stato enunciato con riferimento ad una fattispecie in cui si è ritenuta l'esistenza di gravi indizi in ordine alla riconducibilità di una associazione sovversiva di matrice anarco-insurrezionalista alla previsione di cui all'art. 270-bis cod. pen., rilevando all'interno della compagine criminosa - ancorché non gerarchizzata - una chiara suddivisione di ruoli fra ideologi e militanti operativi, disponibilità di forme di finanziamento e di un simbolo nonché il proposito, desumibile dai suoi progetti e risultante dalle azioni commesse in esecuzione del programma associativo, di intimidire indiscriminatamente la popolazione, suscitando terrore e panico e non già di indirizzarsi esclusivamente ad obiettivi di elezione allo scopo di ottenere un effetto paradigmatico (Sez. 5, n. 46340 del 4/7/2013, Stefani, Rv. 257547; Sez. 5, n. 12252 del 23/2/2012, Bortolato ed altri, Rv. 251919).

In ordine alla possibilità di configurare un concorso tra i reati di cui agli artt. 270 e 270bis, e quello di cui all'art. 306 cod pen., è consolidato l'indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo il quale esiste un rapporto di mezzo a fine e non di specie a genere in quanto il delitto di costituzione di banda armata è caratterizzato dalla finalità di commettere uno dei delitti contro la personalità internazionale o interna dello Stato, tra i quali rientrano quelli contemplati dagli artt. 270 e 270-bis cod. pen.; ne consegue che per la configurabilità del primo delitto è sufficiente l'accennata finalità, anche se essa non venga raggiunta; quando ciò si verifichi, peraltro, il reato-fine non può che concorrere con quello di cui all'art. 306 cod. pen.

Il raggiungimento del fine porta quale conseguenza che reato-mezzo, cioè quello di cui all'art. 306, e reati-fine, cioè quelli di cui all'art. 302, concorrano tra di loro e, poiché tra i delitti non colposi indicati nell'art. 302 ci sono anche quelli di cui agli artt. 270 e 270-bis, è configurabile il concorso fra essi e il reato di banda armata, essendo solo da definire se tale concorso di reati sia un concorso materiale o un concorso formale: quando vi sia coincidenza in senso naturalistico, di tali reati fra di loro strumentalmente collegati, così che il fine specifico che qualifica il reato di banda armata rimane esterno all'azione solo in senso normativo, sussiste, secondo la Corte, concorso formale, ai sensi dell'art. 81, comma 1, cod. pen., fra detti reati (Sez. 1, n. 1150 del 30/6/1981, Servello, Rv. 150404; Sez. 1, n. 37119 del 27/6/2007, Lioce ed altri, Rv. 237768; Sez. 1, n. 4086 del 9/12/2009 (dep. 2010), Bellomonte, Rv. 245985).

Quanto ai rapporti con le nuove fattispecie incriminatrici previste dagli artt. 270-quater e 270-quinquies cod pen., concernenti l'attività di associazioni sovversive con finalità di terrorismo internazionale, nella giurisprudenza di legittimità si è chiarito che la condizione dell'arruolato (che, in quanto tale, non rispondeva, come meglio si dirà, del reato di cui all'art. 270-quater) o dell'addestrato (punibile, invece, ai sensi dell'art. 270-quinquies) non preclude la responsabilità di questi ultimi in ordine al reato associativo di cui all'art. 270-bis cod. pen., qualora essi non siano solo tali ma entrino a far parte dell'organizzazione terroristica in nome e per conto della quale l'arruolamento o l'addestramento siano effettuati, considerato che con l'introduzione delle previsioni di cui agli artt. 270-quater e 270-quinquies, il legislatore ha inteso estendere e non restringere l'area delle condotte penalmente sanzionabili (Sez. 5, n. 39430 del 2/10/2008, Rabei, Rv. 241742).

5. L'arruolamento con finalità di terrorismo (art. 270-quater cod. pen.).

Il reato di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale è previsto dall'art. 270-quater, introdotto dall'art. 15 del d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modifiche, nella legge 31 luglio 2005, n. 155 (recante " Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale "), con la finalità di contrastare il fenomeno del terrorismo, soprattutto di natura internazionale e di origine fondamentalista islamica.

Con tale norma incriminatrice si è inteso sanzionare coloro che, operando nel territorio dello Stato italiano, arruolano persone destinate a svolgere le attività delittuose ivi elencate: condotte che, non essendo finalizzate ad esporre lo Stato italiano al pericolo di guerra, non potevano integrare gli estremi dei reati in materia di «arruolamento» previsti dagli artt. 244 e 288, ovvero di «reclutamento» di cui all'art. 4 della 1. 12 maggio 1995, n. 210.

5.1. La condotta di arruolamento.

La condotta sanzionata si concretizza nell'arruolamento, che, seguendo l'indirizzo esegetico formatosi nella lettura dell'art. 244 cod. pen., consiste "nell'ingaggio di soggetti armati", e, cioè, nell'inserimento di uno o più soggetti in una struttura militare, regolare o irregolare, che implichi un rapporto gerarchico fra comandanti e subordinati.

Secondo la Corte di cassazione, in tema di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale, la nozione di "arruolamento" è equiparabile a quella di "ingaggio", per esso intendendosi il raggiungimento di un serio accordo tra soggetto che propone il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo e soggetto che aderisce.

Ciò che rileva, cioè, è che l'accordo di arruolamento abbia non solo il carattere della serietà - intesa da un lato come autorevolezza della proposta (il proponente deve avere la concreta possibilità di inserire l'aspirante nella struttura operativa una volta concluso l'ingaggio) e dall'altro come fermezza della volontà di adesione al progetto - ma soprattutto sia caratterizzato in modo evidente dalla doppia finalizzazione prevista dalla norma (con relativa pienezza dell'elemento psicologico) il che giustifica la sua incriminazione.

Una volta raggiunto tale assetto - relativo alla consumazione del reato - non è escluso in via generalizzante e dogmatica l'ipotesi del tentative punibile in rapporto a condotte poste in essere dal soggetto proponente e tese, con i caratteri di cui all'art. 56 cod.pen. (Sez. 1, n. 40699 del 9/9/2015, Elezi ed altro, Rv. 264719- 264720).

Integra il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale la formazione di un sodalizio, connotato da strutture organizzative "cellulari" o "a rete", in grado di operare contemporaneamente in più Paesi, anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici ovvero informatici anche discontinui o sporadici tra i vari gruppi in rete, che realizzi anche una delle condotte di supporto funzionale all'attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali quelle volte al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda, all'assistenza agli associati, al finanziamento, alla predisposizione o acquisizione di armi o di documenti falsi, all'arruolamento, all'addestramento. (Sez. 6, n. 46308 del 12/7/2012, cit., in fattispecie in cui è stata ritenuta sussistente la prova dell'operatività di una cellula e della sua funzionalità al perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base dell'attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio di nuovi adepti, da inviare all'occorrenza nelle zone teatro di guerra, e della raccolta di denaro destinato al sostegno economico dei combattenti del "Jihad" all'estero).

Il quadro normativo è mutato in quanto l'art. 1, comma 1, del d.l. 18 febbraio 2015, n. 7 (recante "Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonche' proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione"), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 2015, n. 43, in attuazione di quanto stabilito dalla Risoluzione ONU n. 2178 (2014), ha introdotto nell'art. 270-quater un comma 2 che stabilisce che, fuori dei casi di cui all'art. 270-bis (e cioè che l'interessato risulti partecipe dell'associazione con finalità di terrirismo), e salvo il caso di addestramento, anche la persona arruolata è punita con la pena della reclusione da cinque a otto anni.

Si è evidenziato come per la punibilità del reclutato sarebbe necessario che questi non si limiti a prestare un generico consenso al compimento di atti con finalità terroristiche, essendo questa condotta rilevante al più per l'applicazione di una misura di sicurezza a norma dell'art. 115 cod. pen., bensì che l'agente si sia messo concretamente a disposizione, nel rispetto di vincoli gerarchici, per il compimento di atti di quella natura: di talché il reclutamento non dovrebbe considerarsi provato per il sol fatto che un soggetto si sia messo in viaggio o stia per mettersi in viaggio all'estero.

I primi commentatori (Leo; Colaiocco) hanno evidenziato come, a seguito dei vari interventi normativi, sia configurabile una fitta rete di intrecci tra le fattispecie incrmitarici, considerato che il nuovo art. 270-quater.1 cod pen. (Organizzazione di trasferimento per finalità di terrorismo), esclude dal suo ambito operativo i casi regolati dall'art. 270-bis (associazione) e quelli indicati all'art. 270-quater (arruolamento) facendo riferimento a chiunque organizzi o faccia propaganda in favore di viaggi in territorio estero, quando finalizzati al compimento di attività terroristiche.

6. L'addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270- quinquies cod. pen.).

La condotta sanzionata può concretizzarsi nell'addestramento o nel fornire istruzioni per la preparazione o l'uso di esplosivi e vari tipi di armi e sostanze chimiche o batteriologiche, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali.

L'esatta delimitazione tra i due concetti assume rilievo anche per stabilire la punibilità o meno del soggetto nei cui riguardi l'attività si indirizza.

Mentre, infatti, l'art. 270-quinquies prevede espressamente che la pena si applichi anche al soggetto addestrato, nulla è invece detto per colui che riceva le istruzioni: persona, questa, che sarebbe punibile a condizione di ritenere l'attività di chi fornisce istruzioni come una sottospecie di quella più generale riguardante l'addestramento.

La fattispecie delittuosa di cui all'art. 270 quinquies cod. pen. ha quali soggetti attivi l'"addestratore", ossia colui che non si limita a trasferire informazioni ma agisce somministrando specifiche nozioni, in tal guisa formando i destinatari e rendendoli idonei ad una funzione determinata o ad un comportamento specifico, l'"informatore", ossia colui che raccoglie e comunica dati utili nell'ambito di un'attività e che, quindi, agisce quale veicolo di trasmissione e diffusione di tali dati, e, infine, l'"addestrato", ossia colui che, al di là dell'attitudine soggettiva di esso discente o dell'efficacia soggettiva del docente, si rende pienamente disponibile alla ricezione non episodica di quelle specifiche nozioni alle quali si è fatto sopra riferimento.

La Corte ha precisato che resta esclusa dalla previsione punitiva la figura del mero "informato", individuabile in colui che rimane mero occasionale percettore di informazioni al di fuori di un rapporto, sia pure informale, di apprendimento e che non agisce a sua volta quale informatore/addestratore (Sez. 1, n. 38220, del 12/07/2011, Korchi, Rv. 251363).

È stato chiarito quale sia l'ambito di applicazione della norma incriminatrice in esame, puntualizzando che non integra il delitto di addestramento ad attività con finalità di terrorismo, la mera attività di informazione e di proselitismo che non costituisce in chi riceve il messaggio un bagaglio tecnico sufficiente a preparare o usare armi, esplosivi o sostanze nocive o pericolose, o a compiere atti di violenza o di sabotaggio, poichè si tratta di condotta non qualificabile come insegnamento, ma come mera divulgazione o proposta ideologica (Sez. I, n. 4433 del 6/11/2013 (dep. 2014), El Abboubi, Rv. 259020).

Secondo la Corte la norma in esame, punendo condotte di addestramento o istruzione di tipo militare (sulla preparazione o uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali) con finalità di terrorismo (il comma 2 della norma estendendo la punizione delle condotte vietate alle persone addestrate e quindi anche al soggetto che si auto addestri), impone la distinzione tra formazione e informazione (ovvero tra insegnamento e divulgazione), senza potersi anticipare la soglia di punibilità a uno stadio della condotta che non sia ancora insegnamento ma mera divulgazione ovvero (laddove la finalità sia di terrorismo) di proposta ideologica.

Si assume che per il principio di legalità, di cui all'art. 1 cod. pen., non si possono promuovere manifestazioni di pericolosità sociale (sia pur grave e qualificata) a condotte penalmente rilevanti: le nozioni fornite (od acquisite) di tipo militare devono essere, appunto, idonee a costituire in chi le riceve (o le acquisisce) un bagaglio tecnico sufficiente a preparare o ad usare armi e quant'altro, non solo a suscitare o ad aumentare il proprio o altrui interesse in tale settore.

L'oggettiva assenza della condotta materiale rende ininfluente la specificità soggettiva del fine (nella specie, la partecipazione, fino al martirio, alla jihad islamica).

La disposizione in esame è stata modificata dall'art. 1, comma 3, del d.l. 18 febbraio 2015, n. 7 (recante "Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione"), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 2015, n. 43, che:

a) integrando il comma 1, ha stabilito la punibilità pure del c.d. 'combattente isolato' (anche detti "lupi solitari") ovvero del soggetto che si è "auto-addestrato", e cioè "della persona che avendo acquisito, anche autonomamente, le istruzioni per il compimento degli atti di cui al primo periodo, pone in essere comportamenti univocamente finalizzati alla commissione delle condotte di cui all'art. 270-sexies";

b) inserendo nell'art. 270-quinquies un comma 2, ha previsto l'aggravante per il caso in cui il reato "di chi addestra o istruisce" sia commesso "attraverso strumenti informatici o telematici".

"Quello che pare emergere nella lettura delle disposizioni in commento e nei successivi interventi ortopedici della giurisprudenza è uno sforzo per trovare un difficile equilibrio tra esigenze di tutela, volte ad estendere l'area della punibilità a condotte prodromiche rispetto a gravi fatti di reato, e la salvaguardia di quei principi fondamentali caratterizzanti una società libera e che vincolano il ricorso allo strumento penale a un reale disvalore del fatto" (Cosi, Wenin, l'addestramento per finalità di terrorismo alla luce delle novità introdotte dal d.l. 7/2015, in www.penalecontemporaneo, 3 aprile 2015, p. 18).

6.1. (segue). Elemento soggettivo.

Per la configurabilità del reato (anche in relazione alla nuova figura dell'auto-addestrato) è richiesto il dolo specifico, consistente nella coscienza e volontà di addestrare o di fornire istruzioni per la preparazione o l'uso di esplosivi e vari tipi di armi e sostanze chimiche o batteriologiche, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo.

Sul punto la Cassazione ha precisato che, ai fini della configurabilità del delitto di addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale, l'art. 270-quinquies cod. pen., richiede un duplice dolo specifico, caratterizzato non solo dalla realizzazione di una condotta in concreto idonea al compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, ma anche dalla presenza della finalità di terrorismo descritta dall'art. 270-sexies c.p. (Sez. 5, n. 29670 del 2/7/2011, Garouan, Rv. 250517).

6.2. Rapporti con altri reati.

Il reato previsto dall'art. 270-quinquies ha un carattere di sussidiarietà, in quanto - come si evince dalla clausola contenuta nel comma 1 - la relativa norma incriminatrice è applicabile solamente a condizione che la condotta dell'agente non integri una ipotesi di concorso nel reato associativo.

Quanto ai rapporti con la fattispecie incriminatrice prevista dall'art. 270-bis si è chiarito che la condizione dell'arruolato (che, in quanto tale, non risponde del reato di cui all'art. 270-quater) o dell'addestrato (punibile, invece, ai sensi dell'art. 270-quinquies) non preclude la responsabilità di questi ultimi in ordine al reato associativo di cui all'art. 270-bis c.p., qualora essi non siano solo tali ma entrino a far parte dell'organizzazione terroristica in nome e per conto della quale l'arruolamento o l'addestramento siano effettuati, considerato che con l'introduzione delle previsioni di cui agli art. 270-quater e 270-quinquies, il legislatore ha inteso estendere e non restringere l'area delle condotte penalmente sanzionabili (Sez. 5, n. 39430 del 2/10/2008, cit.).

7. L'attività di propaganda.

Rinviando a quanto già in precedenza detto, in giurisprudenza si è afferato che il delitto di partecipazione ad un'associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico, di cui all'art. 270-bis cod. pen., è integrato dalla condotta di chi, offrendo ospitalità ai "fratelli" ritenuti pericolosi, preparando documenti d'identità falsi e propagandando all'interno dei luoghi di culto la raccolta di fondi per i "mujaeddin" ed i familiari dei cd. "martiri", esprime, in tal modo, il sostegno alle finalità della stessa associazione terroristica ed assicura un concreto intervento in favore degli adepti, in adesione al perseguimento del progetto "jiadista". (Sez. 5, n. 2651 del 8/10/2015 (dep. 2016), Nasr Osama, Rv. 265925 in cui in motivazione, la Corte ha precisato che lo svolgimento di tali condotte in via continuativa consente di attribuire all'agente il ruolo di organizzatore).

8. L'attività di apologia.

La Corte ha ripetutamente affermato che, ai fini dell'integrazione del delitto di cui all'articolo 414 cod. pen. non basta l'esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, per quanto odioso e riprovevole esso possa apparire alla generalità delle persone dotate di sensibilità umana, ma occorre che il comportamento dell'agente sia tale per il suo contenuto intrinseco, per la condizione personale dell'autore e per le circostanze di fatto in cui si esplica, da determinare il rischio, non teorico, ma effettivo, della consumazione di altri reati e, specificamente, di reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato (Sez. 1, n. 8779 del 05/05/1999, Oste, Rv. 214645; nello stesso senso, Sez. 1, n. 11578, del 17/11/1997, Gizzo, Rv. 209140 secondo cui l''elemento oggettivo dell'apologia di uno o più reati punibile ai sensi dell'art. 414, comma terzo, cod. pen., non si identifica nella mera manifestazione del pensiero, diretta a criticare la legislazione o la giurisprudenza o a promuovere l'abolizione della norma incriminatrice o a dare un giudizio favorevole sul movente dell'autore della condotta illecita, ma consiste nella rievocazione pubblica di un episodio criminoso diretta e idonea a provocare la violazione delle norme penali, nel senso che l'azione deve avere la concreta capacità di provocare l'immediata esecuzione di delitti o, quanto meno, la probabilità che essi vengano commessi in un futuro più o meno prossimo. (Fattispecie relativa alla pubblicazione, in un periodico di ispirazione anarchica, di tre articoli dedicati alla descrizione di altrettanti attentati a impianti di pubblica utilità, nonché a stabilimenti industriali, e connotati da una forte esaltazione dei fatti, capace di far sorgere il pericolo di ulteriori reati e di turbare l'ordine pubblico).

Si è, peraltro, ripetutamente ricordato che l'accertamento del pericolo concreto di commissione di delitti in conseguenza dell'istigazione o dell'apologia è riservato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato (Sez. 1, n. 25833 del 23/04/2012, Testi, Rv. 253101).

È incontestato che l'apologia possa avere ad oggetto anche un reato associativo e, quindi, anche il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale di cui all'art. 270-bis cod. pen., cosicché il pericolo concreto può concernere non solo la commissione di atti di terrorismo, ma anche la partecipazione di taluno ad un'associazione di questo tipo (art. 270-bis, comma 2 cod. pen.).

In tale contesto è stato affrontato il tema della apologia dello Stato Islamico anche mediante la diffusione su siti internet di documenti di propaganda del c.d. "Stato islamico" e dell'associazione terroristica dell'Isis.

Sez. 1, n. 265264 del 6/10/2015, Halili, Rv. 265264 ha affermato il principio così massimato "In tema di reato di apologia riguardante delitti di terrorismo, previsto dall'art. 414, comma quarto, cod.pen., il pericolo concreto, derivante dalla condotta dell'agente di consumazione di altri reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal reato esaltato, può concernere non solo la commissione di specifici atti di terrorismo ma anche la adesione di taluno ad un'associazione terroristica".

La Corte ha rigettato il ricorso avverso la decisione che aveva ritenuto la sussistenza del reato di apologia di cui all'art. 414, comma quarto, cod. pen. nella condotta di diffusione su internet di un documento che sollecitava l'adesione dei potenziali lettori allo "Stato islamico", esaltandone la natura combattente e la sua diffusione ed espansione, anche con l'uso delle armi.

Nonostante il ricorrente avesse sostenuto la tesi secondo cui il documento diffuso su internet sollecitava solo un'adesione "ideologica" dei potenziali lettori allo "Stato islamico" e alle sue caratteristiche di "stato sociale", attento al benessere dei suoi "cittadini", è stato valorizzato il fatto che, invece, lo scritto presupponesse e accettasse la natura combattente e di conquista violenta da parte dell'organizzazione (cioè l'esecuzione di atti di terrorismo), esaltasse la sua diffusione ed espansione, anche con l'uso delle armi, distingueva l'umanità tra "un campo di Iman esente da ipocrisia e un campo di miscredenza esente da Iman" e valorizzasse "la mappa della futura espansione del Califfato, che in poche parole è l'intero pianeta Terra".

Il documento faceva esplicito riferimento alle "molteplici fazioni militari Islamiche" alleate con il Califfo, riportava una frase del Portavoce ufficiale evocativa della conquista ("Vi promettiamo che, con il permesso di Allah, questa sarà la ultima vostra campagna. Verrà annientata e sconfitta come successe con tutte le vostre ultime campagne. Eccetto per cui questa volta saremo noi ad assaltarvi e non ci assalterete mai più. Se non saremo noi a raggiungervi saranno i nostri figli o i nostri nipoti"), e presentava personaggi ufficialmente classificati come terroristi nei documenti internazionali e conteneva diversi link a siti internet facenti capo all'organizzazione terroristica.

Nella specie era stato eccepito anche che, poiché il delitto di cui all'art. 414, comma 3, cod. proc. pen. è reato contro l'ordine pubblico, esso sarebbe riferibile esclusivamente allo Stato e al suo territorio; l'adesione allo Stato Islamico sarebbe stata, nella specie, finalizzata invece ad esplicare i propri effetti turbativi all'estero: si sarebbe trattato di associazione costituita ed operante all'estero e non punibile in Italia ai sensi degli artt. 7, 8 e 10 cod. pen.

Il corollario che se ne faceva discendere è che non vi fosse la lesione all'interesse giuridico tutelato dalla norma in relazione ad un concetto di "Stato islamico" diverso da quello recepito nel nostro ordinamento e in quello internazionale, vale a dire da quello di un'organizzazione terroristica internazionale.

La Corte ha osservato in primo luogo che l'apologia di reato oggetto della contestazione era stata posta in essere in Italia ed era diretta a soggetti residenti nel nostro Paese (tanto che il documento era stato scritto in italiano); in secondo luogo, ha negato che l'associazione denominata ISIS sia operante esclusivamente all'estero.

"In effetti, il ricorrente si spinge a sostenere che non vi sarebbe punibilità di tale associazione nel nostro Paese ai sensi degli artt. 7, 8 e 10 cod. pen.: ma la giurisprudenza di questa Corte, applicando il principio generale secondo cui, in relazione a reati commessi in parte anche all'estero, ai fini dell'affermazione della giurisdizione italiana è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato l'evento o sia stata compiuta, in tutto o in parte, l'azione, con la conseguenza che, in ipotesi di concorso di persone, perché possa ritenersi estesa la potestà punitiva dello Stato a tutti i compartecipi e a tutta l'attività criminosa, ovunque realizzata, è sufficiente che in Italia sia stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione ad opera di uno qualsiasi dei concorrenti (Sez. 1, n. 41093 del 06/05/2014, Rv. 260703), ha già ritenuto integrante il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale la formazione di un sodalizio, connotato da strutture organizzative "cellulari" o "a rete", in grado di operare contemporaneamente in più Paesi, anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici ovvero informatici anche discontinui o sporadici tra i vari gruppi in rete, che realizzi anche una delle condotte di supporto funzionale all'attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali quelle volte al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda, all'assistenza agli associati, al finanziamento, alla predisposizione o acquisizione di armi o di documenti falsi, all'arruolamento, all'addestramento, con l'affermazione della giurisdizione italiana in caso di cellula operante in Italia per il perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base dell'attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio di nuovi adepti, da inviare all'occorrenza nelle zone teatro di guerra, e della raccolta di denaro destinato al sostegno economico dei combattenti del "Jihad" all'estero (Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, Rv. 253944; cfr. anche Sez. 5, n. 31389 del 11/06/2008, Rv. 241175 di conferma della condanna per il delitto di cui all'art. 270-bis cod. pen. per imputati che avevano collegamenti con una associazione di natura terroristica, che aveva posto in essere azioni di chiaro stampo terroristico nel Kurdistan)".

Sotto ulteriore profilo, era stato sostenuto che le modalità di diffusione del documento - presente su due siti web - non potessero integrare la natura pubblica dell'apologia: la Corte, condividendo la valutazione del giudice di merito, ha evidenziato invece come l'accesso ai siti fosse libero, senza che esistesse alcun filtro di accesso e che, per di più, lo stesso indagato era consapevole della potenzialità diffusiva della pubblicazione sui siti internet, tanto da sollecitarla su un altro sito chiedendo di "aiutarlo ad espandere (questo lavoro) e farlo leggere ad altri fratelli o sorelle".

  • posta elettronica
  • criminalità
  • criminalità organizzata
  • prova informatica

CAPITOLO III

L'USO DI CAPTATORI INFORMATICI NELLE INDAGINI DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA

(di Luigi Giordano )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 I profili tecnologici del tema e la qualificazione del mezzo di ricerca della prova posta in essere. - 3 L'inutilizzabilità del mezzo in esame nei procedimenti per reati di criminalità cd. comune. - 3.1 segue: la diversa disciplina per i reati di criminalità organizzata. - 3.2 segue: le conclusioni cui perviene la sentenza in esame. - 4 Un tema che si ripropone: la nozione di reati di criminalità organizzata. - 5 Qualche riflesso della sentenza anche sulla giurisprudenza successiva. - 5.1 segue: La captazione delle e-mail bozza e di quelle (già) pervenute o inviate.

1. La questione controversa.

Con la sentenza n. 26889 del 28 aprile 2016, Scurato, Rv. 266905, le Sezioni unite della Corte hanno affrontato il tema dell'impiego, per lo svolgimento di intercettazioni, di programmi informatici inseriti a distanza in apparecchi elettronici come smartphone, computer o tablet.

I punti salienti della vicenda che ha dato luogo alla decisione possono essere ricostruiti sinteticamente. Nel corso di un procedimento che aveva ad oggetto i reati di partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso e di tentata estorsione aggravata, il tribunale del riesame riteneva sussistenti gravi indizi di colpevolezza a carico dell'indagato sulla base, tra l'altro, di diverse intercettazioni, tra cui alcune realizzate "tra presenti" per mezzo di un "virus informatico auto-istallante" attivato in un dispositivo portatile. L'imputato proponeva ricorso per cassazione, deducendo l'inutilizzabilità dei risultati di tali captazioni in quanto il meccanismo adoperato, permettendo di carpire dialoghi in ogni luogo in cui il mezzo si fosse spostato e, dunque, anche in un domicilio, eludeva il divieto, previsto dall'art. 266, comma 2, cod. proc. pen., di effettuare intercettazioni all'interno di abitazioni private, a meno che ivi non si stesse svolgendo un'attività criminosa. Il medesimo vizio era prospettato per la mancata preventiva indicazione dei luoghi in cui le intercettazioni dovevano essere effettuate. Sul punto, si sosteneva che detta specificazione integrasse un presupposto per la legittimità del mezzo di ricerca della prova e, segnatamente, una condizione necessaria per il rispetto dei limiti fissati dalla norma dapprima citata.

La Sesta sezione della Corte di cassazione, con ordinanza n. 359 del 10 marzo 2016, depositata il 6 aprile 2016, rilevava che la tesi sostenuta dal ricorrente trovava riscontro in una recente sentenza della Suprema Corte, relativa proprio a un'intercettazione eseguita tramite un "programma spia" installato su un apparecchio elettronico portatile. Secondo questa decisione, in forza di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 266, comma 2, cod. proc. pen., l'operazione descritta è da ritenersi legittima solo se il decreto autorizzativo individua con precisione i luoghi in cui tale attività captativa va eseguita (Sez. 6, n. 27100 del 26 maggio 2015, Musumeci, Rv. 265654). Non condividendo queste conclusioni, in particolare nel caso in cui l'intercettazione fosse disposta nell'ambito di un procedimento di criminalità organizzata, rimetteva la questione alle Sezioni unite, per evitare potenziali contrasti di giurisprudenza su un tema delicato per le implicazioni sui diritti fondamentali e rilevante per la diffusa utilizzazione delle tecniche di intercettazione con il predetto software.

La questione sollevata è stata così sintetizzata dalle Sezioni unite: "Se - anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 cod. pen., pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l'attività criminosa - sia consentita l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti, mediante l'installazione di un "captatore informatico" in dispositivi elettronici portati (ad esempio, personal computer, tablet, smartphone, ecc.)".

2. I profili tecnologici del tema e la qualificazione del mezzo di ricerca della prova posta in essere.

L'analisi del tema ha imposto anzitutto la precisazione delle caratteristiche tecniche dell'attività investigativa in esame. Le intercettazioni sono compiute per mezzo di un software - in gergo un "malware", cioè un programma creato con il solo scopo di causare danni più o meno gravi ad un sistema informatico - del tipo definito simbolicamente "trojan horse", che è stato chiamato, nelle prime sentenze che si sono confrontate con esso, "captatore informatico"[1] o "agente intrusore"[2]. Il programma è introdotto in un dispositivo bersaglio o "target" (computer, tablet o smartphone), di norma da remoto e in modo occulto, per mezzo del suo invio con una e-mail, un sms o un'applicazione di aggiornamento di un programma già installato. Questo strumento tecnologico consente lo svolgimento di varie attività e in particolare di captare il traffico dati in arrivo o in partenza dal dispositivo "infettato", di attivare il microfono (e, dunque, di apprendere i colloqui che si svolgono nello spazio che circonda il soggetto che ha la disponibilità materiale del dispositivo), di mettere in funzione la web-camera (permettendo di carpire le immagini), di perquisire l'hard disk e, infine, di decifrare tutto ciò che viene digitato sulla tastiera collegata al sistema (keylogger) e di visualizzare ciò che appare sullo schermo del dispositivo bersaglio (screenshot).

Tra le diverse azioni astrattamente realizzabili con un software che presenta le potenzialità descritte, la decisione si sofferma solo sul suo impiego allo scopo di ascoltare dialoghi tra presenti. Questa, infatti, è la sola attività investigativa che è stata posta in essere nella vicenda al vaglio della Suprema Corte e che, di conseguenza, è stata oggetto dell'eccezione di inutilizzabilità.

Orbene, secondo la decisione, anche se eseguite con un mezzo informatico, le intercettazioni compiute per mezzo dell'agente intrusore vanno ricondotte a quelle di natura ambientale disciplinate dall'art. 266, comma 2, cod. proc. pen. Esse, però, presentano una caratteristica peculiare: se il programma è installato in un dispositivo portatile, possono avvenire in qualsiasi luogo sia condotto detto mezzo, dunque anche in un domicilio. Proprio tale potenzialità operativa comporta la necessità di realizzare un difficile bilanciamento delle esigenze investigative con la garanzia dei diritti individuali alla riservatezza, all'inviolabilità del domicilio e alla segretezza delle comunicazioni.

3. L'inutilizzabilità del mezzo in esame nei procedimenti per reati di criminalità cd. comune.

Dopo aver delineato le caratteristiche dello strumento investigativo in esame, le Sezioni unite hanno individuato la disciplina applicabile alle intercettazioni "ambientali", richiamando gli artt. 266, 267 e 271 cod. proc. pen. ai quali si deve aggiungere, tenuto conto che all'indagato è stato contestato un reato di criminalità organizzata, l'art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991, convertito dalla legge n. 252 del 1991. Queste disposizioni vanno interpretate alla luce delle norme di rango costituzionale (in particolare con gli artt. 2, 14 e 15 Cost.) e sovranazionale (art. 8 CEDU) che tutelano i predetti diritti fondamentali della persona.

Secondo la Corte, anche in forza di una lettura orientata dalle disposizioni costituzionali e convenzionali citate, l'art. 266, comma 2, cod. proc. pen., non impone come condizione di legittimità di un provvedimento di intercettazione "ambientale" la precisazione dello specifico luogo in cui deve essere svolta l'attività investigativa. In questo senso, pertanto, le Sezioni unite manifestano di non condividere l'orientamento dalla citata sentenza Sez. 6, 26 maggio 2015, n. 27100, Musumeci, Rv. 265654, secondo cui, come è stato indicato dapprima, l'intercettazione delle conversazioni tra presenti è da ritenersi legittima solo se il relativo decreto autorizzativo individua con precisione i luoghi in cui eseguire tale attività captativa.

La specificazione del luogo nel provvedimento autorizzativo, invece, è necessaria soltanto quando la captazione deve intervenire nei luoghi indicati nell'art. 614 cod. pen. Esclusivamente in questo caso, infatti, l'art. 266, comma 2, cod. proc. pen. prevede come condizione di legittimità delle intercettazioni da realizzarsi in luoghi di privata dimora il "fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa". Ne deriva che, in detta ipotesi, è indispensabile la puntualizzazione del domicilio in cui si deve svolgere l'intercettazione perché bisogna che nel posto individuato sia in corso l'attività criminale.

Al riguardo, la Corte ha precisato che l'espressione "intercettazioni ambientali" è invalsa nella prassi in un'epoca in cui questo genere di captazioni aveva bisogno dell'apposizione di una "micro-spia" in un preciso ambiente. Il codice di rito, invece, utilizza la più precisa locuzione di intercettazioni "tra presenti", a riprova che, di regola, la determinazione del luogo in cui avvengono le rilevazioni non è un presupposto di legittimità del provvedimento.

Così ricostruita la disciplina delle intercettazioni "tra presenti", la decisione ha tratto le dirette conseguenze sull'impiego del cd. captatore informatico installato su di un apparecchio portatile: nel momento in cui autorizza un'intercettazione da effettuarsi in tale modo, "il giudice non può prevedere e predeterminare i luoghi di privata dimora nei quali il dispositivo elettronico verrà introdotto". Ciò comporta che non può compiere un adeguato controllo circa l'effettivo rispetto del presupposto di legittimità previsto dall'art. 266, comma 2, cod. proc. pen., non potendo appurare che nel domicilio in cui potrebbe essere condotto l'apparecchio "infettato" sia in corso un'attività criminosa. Ne consegue che deve escludersi l'impiego del mezzo informatico illustrato per eseguire intercettazioni, essendo notevole il rischio di compiere registrazioni nei luoghi indicati dall'art. 614 cod. pen. in difetto del presupposto di legge dapprima illustrato e, comunque, senza poterne valutare la sussistenza.

Anzi, la Corte ha specificato che, anche se fosse possibile seguire gli spostamenti dell'utilizzatore del dispositivo elettronico, sospendendo la captazione nel caso di ingresso in un luogo di privata dimora, "sarebbe comunque impedito il controllo del giudice al momento dell'autorizzazione, che verrebbe disposta "al buio"", cioè senza aver valutato preventivamente che in detto posto sia in atto un'attività criminosa.

Per consentire la realizzazione di captazioni con lo strumento informatico illustrato, inoltre, neppure potrebbe invocarsi la sanzione dell'inutilizzabilità che colpirebbe "a posteriori" le sole intercettazioni eventualmente avvenute in luoghi di privata dimora al di fuori dei presupposti di cui all'art. 266, comma 2, cod. proc. pen., perché essa non segue all'adozione di provvedimenti che sono contra legem o non preventivamente controllabili nella loro conformità alla legge.

3.1. segue: la diversa disciplina per i reati di criminalità organizzata.

Le Sezioni unite, tuttavia, hanno precisato che è nettamente diversa la disciplina che deve trovare applicazione nel caso di reati di criminalità organizzata. Ai sensi dell'art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991 (convertito dalla legge n. 203 del 1991), infatti, l'intercettazione domiciliare, in deroga al limite di cui all'art. 266, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen., è consentita "anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l'attività criminosa". Sono permesse, quindi, intercettazioni domiciliari pur in mancanza della gravità indiziaria dello svolgimento di attività criminosa nell'ambiente interessato, nel momento in cui sono disposte le captazioni. Ne consegue che, in relazione alle intercettazioni relative a procedimenti di criminalità organizzata, la precisazione del luogo nel provvedimento applicativo è del tutto irrilevante. Pertanto, si può impiegare anche la tecnica del virus informatico, potendo intervenire una captazione anche in un domicilio e non dovendo trovare applicazione la condizione di legittimità indicata.

3.2. segue: le conclusioni cui perviene la sentenza in esame.

Rimarcata la netta distinzione della disciplina applicabile nel caso di reati di criminalità cd. organizzata, la decisione in esame, dunque, è giunta alle conclusioni che possono così essere schematizzate:

a) il decreto autorizzativo delle intercettazioni "tra presenti" deve contenere la specifica indicazione dell'ambiente nel quale la captazione deve avvenire solo quando il mezzo di ricerca della prova deve essere attivato in un luogo di privata dimora, perché, in detti posti, le captazioni possono essere effettuate, in base alla disciplina codicistica, soltanto se vi è fondato motivo di ritenere che in essi si stia svolgendo l'attività criminosa;

b) per le intercettazioni "tra presenti" da espletarsi in luoghi diversi da quelli indicati dall'art. 614 cod. pen., quindi, deve ritenersi sufficiente che il decreto autorizzativo indichi il destinatario della captazione e la generica tipologia di ambienti dove essa va eseguita;

c) la necessità di indicare il luogo in cui deve intervenire l'intercettazione "tra presenti" nei casi in cui occorre procedere ad intercettazioni in un domicilio non permette l'impiego del cd. captatore informatico per le indagini che riguardano reati comuni. Per le sue caratteristiche operative, ove il programma fosse inoculato in un dispositivo elettronico itinerante, non sarebbe possibile prevedere in quale domicilio potrebbe essere introdotto e, dunque, non potrebbe essere valutata preventivamente la sussistenza del presupposto di legittimità richiesto dall'art. 266, comma 2, cod. proc. pen.;

d) quando il reato per il quale si svolge l'atto investigativo è di "criminalità organizzata", tuttavia, in forza dell'art. 13 del decreto legge citato può essere derogato il presupposto per lo svolgimento di intercettazioni nei luoghi di privata dimora. Ne consegue che, in questi casi, ben può essere utilizzato lo strumento investigativo in esame.

La Corte, al riguardo, ha sottolineato che, per le intercettazioni tra presenti in luoghi di privata dimora disposte in procedimenti relativi a reati di criminalità organizzata, il legislatore ha compiuto una precisa scelta, escludendo espressamente il requisito previsto dall'art. 266, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen. per tutte le altre captazioni. In tal modo "ha operato evidentemente uno specifico bilanciamento di interessi, optando per una più pregnante limitazione della segretezza delle comunicazioni e della tutela del domicilio tenendo conto dell'eccezionale gravità e pericolosità, per l'intera collettività, dei (particolari) reati oggetto di attività investigativa per l'acquisizione delle prove".

Deve dunque ritenersi che, in relazione a procedimenti di criminalità organizzata, una volta venuta meno la limitazione di cui all'art. 266, comma 2, cod. proc. pen. per quel che riguarda i luoghi di privata dimora, l'installazione del captatore informatico in un dispositivo "itinerante" costituisce una delle naturali modalità di attuazione delle intercettazioni, al pari della collocazione di microspie all'interno di un luogo di privata dimora.

Conclusivamente, le Sezioni unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: "Limitatamente ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata, è consentita l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti - mediante l'installazione di un "captatore informatico" in dispositivi elettronici portatili (ad es., personal computer, tablet, smartphone, ecc.) - anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 cod. pen., pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l'attività criminosa".

4. Un tema che si ripropone: la nozione di reati di criminalità organizzata.

Una volta delineata l'area operativa del mezzo investigativo in esame, le Sezioni unite hanno avvertito che il tema si sposta sul piano dell'individuazione dei delitti di "criminalità organizzata". Fornire una definizione di tale categoria di reati non costituisce un mero esercizio teorico, perché da essa dipende l'applicazione di diverse norme processuali, tra le quali proprio il citato art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991.

La sentenza, sul punto, ha compiuto una ricognizione delle disposizioni che si riferiscono a tale genere di reati, individuando due tipologie di norme: nella prima si annoverano le disposizioni che richiamano espressamente la locuzione "criminalità organizzata"; la seconda è costituita da norme che contengono un catalogo di disposizioni penali sostanziali per le quali opera un regime processuale differenziato. Si allude, in modo specifico, all'elencazione contenuta nell'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., ed a quella di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen.: queste disposizioni non recano in modo testuale la locuzione "delitti di criminalità organizzata", ma sono volte a prevedere un trattamento processuale differenziato che riguarda proprio crimini in forma organizzata.

In questo contesto, le Sezioni unite hanno rilevato che la giurisprudenza, almeno inizialmente, è sembrata propendere per l'indirizzo che riconduceva la locuzione "criminalità organizzata" all'analitica individuazione delle fattispecie dell'art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen., o dell'art. 372, comma 1-bis, cod. proc. pen., ovvero dell'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.

Ben presto, però, si è orientata per una diversa opzione interpretativa, che si è affermata come prevalente e che adotta un approccio "teleologico" o "finalistico", secondo il quale il significato dell'espressione "criminalità organizzata" deve essere individuato avendo riguardo alle finalità specifiche della singola disciplina che deroga alle regole processuali generali.

È stata accolta, dunque, una nozione ampia di "delitti di criminalità organizzata", che valorizza le finalità perseguite dalla norma, le quali mirano a riconoscere uno strumento efficace di repressione di reati più gravi. Sono ricomprese in detta categoria, pertanto, attività criminose eterogenee, purché realizzate da una pluralità di soggetti, i quali, per la commissione del reato, abbiano costituito un apposito apparato organizzativo, con esclusione del mero concorso di persone nel reato. Ad essa non sono riconducibili solo i reati di criminalità mafiosa, ma tutte le fattispecie criminose di tipo associativo. È sufficiente la costituzione di un apparato organizzativo, la cui struttura assume un ruolo preminente rispetto ai singoli partecipanti.

Esula dall'area dei delitti di criminalità organizzata il mero concorso di persone nel reato, pur se caratterizzato da un'attività di organizzazione di risorse materiali ed umane, con rilievo predominante rispetto all'apporto dei singoli concorrenti.

La sentenza in esame ha ritenuto di dover confermare la validità di questo indirizzo giurisprudenziale, "perché consente di cogliere l'essenza del delitto di criminalità organizzata e nel contempo di ricomprendere tutti i suoi molteplici aspetti, nell'ottica riconducibile alla ratio che ha ispirato gli interventi del legislatore in materia, tesi a contrastare nel modo più efficace quei reati che - per la struttura organizzativa che presuppongono e per le finalità perseguite - costituiscono fenomeni di elevata pericolosità sociale".

Le Sezioni unite, pertanto, hanno affermato il principio di diritto che è stato così massimato: "In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, ai fini dell'applicazione della disciplina derogatoria delle norme codicistiche prevista dall'art. 13 del D.L. n. 152 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, per procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata devono intendersi quelli elencati nell'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. nonché quelli comunque facenti capo ad un'associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato".

5. Qualche riflesso della sentenza anche sulla giurisprudenza successiva.

Le prime valutazioni della decisione illustrata sono state molto differenziate. Secondo un'opinione, nonostante le condizioni poste dalla sentenza all'impiego dello strumento investigativo, va manifestato un giudizio negativo rispetto alle conclusioni della sentenza perché né il codice di procedura penale, né altre leggi autorizzano l'uso di un mezzo tanto invasivo. Gli artt. 14 e 15 Cost. e l'art. 8 CEDU richiedono la specifica previsione di legge per ogni violazione dell'intimità domiciliare e della segretezza delle comunicazioni nonché per ogni ingerenza dell'autorità pubblica nella vita privata e familiare degli individui. La necessità di contrastare la criminalità, in particolare quella organizzata e terroristica, con i più sofisticati strumenti di indagine, dunque, non è sufficiente per superare la preoccupazione che ingenera l'uso di tali mezzi di intrusione informatica in mancanza di specifiche disposizioni normative che regolino la materia nell'adeguato bilanciamento dei principi costituzionali e convenzionali coinvolti.

In senso contrario, invece, è stato rilevato che, proprio come evidenziato della sentenza della Suprema Corte, l'uso della tecnica in esame per effettuare intercettazioni "tra presenti" trova una base legale negli artt. 266 e 266-bis cod. proc. pen. e nell'art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991. L'impiego per altre finalità come la perquisizione a distanza degli archivi di computer, tablet, smartphone, invece, è privo di un fondamento giuridico, uscendo addirittura fuori dal raggio d'azione degli artt. 14 e 15 Cost. L'intervento del legislatore, pertanto, è necessario e auspicabile, ma solo in relazione allo specifico profilo delle cd. perquisizioni on-line (che, comunque, esulava dall'ambito del giudizio di cui erano investite le Sezioni unite). Rispetto a questo aspetto si invoca l'affermazione di un nuovo (ed inedito) diritto fondamentale all'uso libero e riservato delle tecnologie informatiche.

Dopo decisione illustrata, peraltro, il tema in esame è stato affrontato solo da poche pronunce. Alcune sentenze della Sezione sesta, tutte nondimeno concernenti la medesima vicenda cautelare che ha dato l'occasione per l'intervento delle Sezioni unite, hanno ribadito che è ammissibile l'utilizzo del captatore informatico limitatamente ai procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica, a norma dell'art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991, intendendosi per tali quelli elencati nell'art. 51, comma 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 27404 del 3 maggio 2016, Marino; Sez. 6, n. 26054 del 3 maggio 2016, Di Cara; Sez. 6, n. 26055 del 3 maggio 2016, Bronte; Sez. 6, n. 26058 del 3 maggio 2016, Lo Iacono).

L'eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni compiute per mezzo del software, inoltre, è stata formulata in un giudizio avente ad oggetto reati di corruzione, falso, turbativa d'asta, truffa ed altro (Sez. 5, n. 26817 del 4 marzo 2016, Iodice ed altri). In questo caso, la Corte, pur dando atto in motivazione dell'intervenuto pronunciamento delle Sezioni unite che limita la possibilità di impiegare il cd. captatore informatico ai reati di criminalità organizzata, ha ribadito l'orientamento consolidato secondo cui è onere della parte che lamenti l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni indicare con precisione l'atto asseritamente affetto dal vizio denunciato e curare e che lo stesso sia acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità, anche provvedimento a produrlo in copia nel giudizio di cassazione (cfr. Sez. 2, 11 aprile 2013, n. 24925, Rv. 256540, Cavaliere ed altri). Il mancato adempimento di tale onere ha determinato il rigetto dell'eccezione.

5.1. segue: La captazione delle e-mail bozza e di quelle (già) pervenute o inviate.

Il riferimento alla legittimità dell'uso del "trojan" nel corso delle investigazione, peraltro, si rinviene anche in una recente decisione che risulta particolarmente interessante perché tocca alcune delicate questioni che scaturiscono dall'impiego dello strumento tecnologico in esame (Sez. 4, n. 40903 del 28 giugno 2016, Grassi ed altri). Nel corso di un'indagine relativa ad un'organizzazione che importava ingenti quantitativi di cocaina dal Sud-America, in particolare, è stata captata la corrispondenza elettronica di taluni imputati. Quest'attività è stata estesa anche alle e-mail (già) spedite o ricevute dalle persone intercettate, contenute nella casella di posta elettronica, e a quelle "parcheggiate" nella cartella "bozze" del medesimo account di posta.

Le e-mail sono state oggetto di un provvedimento d'intercettazione di flussi telematici in entrata e in uscita dai computer ai sensi dell'art. 266-bis cod. proc. pen. Per apprendere i messaggi lasciati in "bozza", invece, gli investigatori si sono procurati le credenziali di accesso controllando a distanza gli imputati tramite virus informatici del tipo trojan che, inoculati nei computer, hanno permesso di registrare quanto veniva digitato sulla tastiera; quindi, una volta conosciute username e password, sono entrati direttamente nelle caselle di posta elettronica. In questo modo, hanno preso visione delle predette "bozze" e delle e-mail che erano state inviate o ricevute in precedenza, ma che giacevano nelle cartelle. La Suprema Corte ha rigettato l'eccezione di inutilizzabilità delle captazioni affermando che le e-mail (già) pervenute o inviate al destinatario e archiviate nelle apposite cartelle possono essere oggetto di intercettazione, nonostante si tratti di un flusso di dati non attuale, essendo irrilevante la mancanza del presupposto della loro apprensione contestualmente alla comunicazione (cfr., per la stessa conclusione, di recente, Sez. 3, n. 17193 del 9 marzo 2016, Calabrò, in tema di acquisizione della messaggistica, in gergo "chat", effettuata con sistema Blackberry). Esulano, invece, dal materiale intercettabile, secondo la decisione, le e-mail "bozza" non inviate al destinatario", le quali, non costituendo una corrispondenza, possono al più essere acquisite per mezzo di un sequestro di dati informatici.

Per quello che qui interessa, secondo la sentenza in esame, il captatore informatico è stato usato solo per l'acquisizione delle password di accesso agli account di posta elettronica; pertanto, "si è usato il programma informatico, . . . , così come si è da sempre usata la microspia per le intercettazioni telefoniche o ambientali", mentre "normalmente, . . . , il trojan viene inserito al fine di visualizzare in tempo reale l'attività che veniva svolta su un determinato schermo, ivi compresa la spedizione e la ricezione di messaggi di posta elettronica". Trattandosi di indagini in tema di reati di criminalità organizzata, dunque, l'uso del trojan sarebbe avvenuto in modo del tutto conforme all'orientamento espresso dalle Sezioni unite.

La vicenda illustrata, invero, rende ulteriormente manifesta la complessità del tema. In una prospettiva critica, potrebbe sostenersi che nel caso concreto il mezzo investigativo non sia stato adoperato per cogliere comunicazioni, non rientrando in tale concetto lo scambio che interviene tra l'utente e la tastiera del suo personal computer, ma per realizzare un'ispezione o una perquisizione, a distanza e di tipo elettronico, cioè proprio quelle attività per le quali si reputa indispensabile una disciplina legislativa. In senso favorevole all'impiego dello strumento nelle indagini, invece, potrebbe rilevarsi che la descritta intrusione per via informatica nel dispositivo bersaglio, in un'ultima istanza, trova la sua giustificazione nello stesso provvedimento del G.i.p. che ha disposto l'intercettazione ex art. 266-bis cod. proc. pen. all'esito di una ponderazione dei diritti in conflitto tra di loro, consistendo, in ultima istanza, in una modalità attuativa del mezzo di ricerca della prova.

SECONDA PARTE - QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE I LE PARTI - I DIFENSORI

  • avvocato

CAPITOLO I

IMPEDIMENTO DEL DIFENSORE PER MOTIVI DI SALUTE E NOMINA DI UN SOSTITUTO

(di Maria Meloni )

Sommario

1 Premessa: la fattispecie e la questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite. - 2 L'impedimento del difensore per serie ragioni di salute: l'orientamento dominante. - 3 Il contrasto. - 4 La decisione delle Sezioni Unite in tema di impedimento del difensore per serie ragioni di salute o causa di forza maggiore. - 5 Il revirement delle Sezioni Unite in tema di applicabilità della disciplina del legittimo impedimento per imprevedibili ragioni di salute ai riti camerali.

1. Premessa: la fattispecie e la questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, con sentenza pronunciata all'udienza del 21 luglio 2016, Nifo Sarrapochiello e altri, dep. il 3 ottobre 2016, n. 41432, Rv. 267747 e 267748, hanno ridefinito i confini dell'istituto del legittimo impedimento del difensore per serie ragioni di salute, affrancandolo dalla disciplina dell'impedimento per concomitante impegno professionale. E, nel contempo, hanno sottolineato il ruolo centrale del difensore nella dinamica processuale, quale garante del contraddittorio e dell'effettività del diritto di difesa, proclamato diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento dall'art. 24, comma 2, Cost. Più specificamente, la questione, rimessa dalla V sezione penale alle S.U, era la seguente:

Se l'obbligo di nominare un sostituto processuale, ovvero di fornire specifica ragione dell'impossibilità di nominarlo, sussista per il difensore anche quando il proprio impedimento legittimo, che può giustificare la richiesta di rinvio dell'udienza, sia costituito da serie ragioni di salute, tempestivamente comunicate al giudice.

Le S.U. hanno affermato i seguenti principi di diritto, così massimati da questo Ufficio:

L'impedimento del difensore a comparire in udienza dovuto a serie, imprevedibili e attuali ragioni di salute, debitamente documentate e tempestivamente comunicate, non comporta l'obbligo di nominare un sostituto processuale o di indicare le ragioni della mancata nomina. (Fattispecie in cui la S.C. ha censurato il provvedimento con cui il giudice di merito ha rigettato l'istanza di rinvio dell'udienza motivandola esclusivamente sulla mancata designazione, da parte del difensore impedito, del sostituto processuale).

Nel giudizio camerale di appello, a seguito di processo di primo grado celebrato con rito abbreviato, è applicabile l'art. 420 ter, comma quinto, cod. proc. pen. ed è, pertanto, rilevante l'impedimento del difensore determinato da serie, imprevedibili e attuali ragioni di salute, debitamente documentate e tempestivamente comunicate.

Occorre rilevare che, nella fattispecie in esame, il giudizio di appello era stato instaurato a seguito dell'impugnazione di sentenza emessa all'esito del giudizio abbreviato. E che, pertanto, la Corte di appello aveva proceduto, ex art. 443, comma 4, cod. proc. pen. - che rinvia, per le forme dell'appello relativo a giudizio abbreviato, all'art. 599, cod. proc. pen., il quale a sua volta rinvia a quelle previste dall'art. 127 cod. proc. pen. - in udienza camerale. Alle Sezioni Unite, si è posta, pertanto, anche la questione relativa all'applicabilità del legittimo impedimento di cui all'art. 420-ter cod. proc. pen. nei procedimenti camerali disciplinati dall'art. 127 cod. proc. pen.. Ancorché, come vedremo, la giurisprudenza assolutamente dominante affermasse l'irrilevanza dell'impedimento dedotto dal difensore nel giudizio camerale di appello. Con riguardo all'impedimento del difensore, dovuto a serie ragioni di salute, vi era, invece, un contrasto costituito da due opposti orientamenti.

2. L'impedimento del difensore per serie ragioni di salute: l'orientamento dominante.

La giurisprudenza assolutamente dominante, in tema di impedimento del difensore (art. 420-ter, comma quinto, cod. proc. pen.), ha costantemente affermato che "l'onere di fornire specifica ragione dell'impossibilità di nominare un sostituto, ex art. 102, cod. proc. pen., - che ricade sul difensore qualora questi deduca impedimento per la concomitanza di altro impegno professionale - non sussiste quando l'impedimento dedotto sia costituito da serie ragioni di salute dello stesso difensore, comunicato al giudice e debitamente documentato, a meno che si tratti di impedimento, ancorché non evitabile, prevedibile" (Sez. 5, 1 luglio 2008, Trubia, dep. 17 luglio 2008, n. 29914, Rv. 240453). Conformi: Sez. 4, 24 gennaio 2013, T.A.N., dep. 11 febbraio 2013, n. 6779, NM; Sez. 1, 9 dicembre 2008, Fettah, dep. 23 dicembre 2008, n. 47753, Rv. 242489; Sez. 6, 11 aprile 2014, R, dep. 23 luglio 2014, n. 32699, Rv. 262074; Sez. 6, 17 giugno 2014, Seck, dep. 23 febbraio 2015, n. 7997, Rv. 262389; Sez. 3, 17 dicembre 2002, Rigatuso, dep. 22 gennaio 2003, n. 3072, Rv. 223943; Sez. 6, 14 luglio 1994, Bigoni, dep. 10 novembre 1994, n. 11382, Rv. 199374. Nonché, in tema di gravi ragioni di altra natura (aventi la medesima ratio), Sez. 5, 20 settembre 2006, Gallo, dep. 19 ottobre 2006, n. 35011, Rv. 235224 (nella specie il difensore degli imputati aveva chiesto il rinvio della udienza per un grave lutto familiare, consistito nel decesso della consorte, allegando il certificato medico della ASL. Il giudice di appello aveva rigettato l'istanza perché il difensore non aveva specificato le ragioni dell'impossibilità della nomina di un sostituto processuale decesso del coniuge); Sez. 6, 7 giugno 2012, Brachino, dep. 22 agosto 2012, n. 32949, Rv. 253220 (decesso della sorella del difensore).

In tutti i casi citati il giudice di merito aveva rigettato l'istanza di differimento dell'udienza esclusivamente perché il difensore non aveva motivato in ordine all'impossibilità di farsi sostituire. La censura del giudice di legittimità si fonda su un duplice ordine di argomentazioni. Anzitutto, non è previsto dalla legge processuale alcun obbligo per il difensore di fiducia, impedito per malattia, di nominare un sostituto processuale o di indicare le ragioni per l'omessa nomina"; di più, di un tale obbligo non esiste traccia nell'ordinamento positivo, il quale conferisce al difensore una mera facoltà ma non gli impone alcun dovere di nominare un sostituto, in coerenza alla natura fiduciaria del rapporto di mandato corrente fra l'imputato e il difensore. Si tratta, pertanto, di un onere contra legem. Con la conseguenza che è illegittimo il diniego del rinvio - al difensore impedito per serie ragioni di salute - fondato sull'inadempimento di un tale onere.

In secondo luogo, detto onere non può essere fondato nemmeno sul diritto vivente, che ha dovuto supplire al vuoto legislativo derivante dalla mancata individuazione, nel quadro normativo di riferimento (art. 420 ter, comma 5, cod. proc. pen.), delle cause costitutive del legittimo impedimento. Infatti, l'onere di fornire specifica ragione della impossibilità di nominare un sostituto, ai sensidell'art. 102 cod. proc. pen., è stato affermato dal giudice di legittimità, anche nel suo più alto Consesso, esclusivamente con riguardo alle ipotesi di impedimento per la concomitanza di altro impegno professionale. Ipotesi che, secondo l'orientamento dominante, è del tutto distinta e, come tale, non sovrapponibile a quella dell' impedimento dovuto a serie ragioni di salute, a un lutto familiare o ad altri gravi eventi equivalenti, con la conseguenza che il relativo principio non può essere chiamato ad operare e, pertanto, non è estensibile a questi ultimi casi. Il discrimen tra i due casi è costituito dall'imprevedibilità che caratterizza l'impedimento dovuto a serie ragioni di salute al quale si contrappone la prevedibilità dell'impedimento dovuto al concomitante impegno professionale di cui il difensore riceve notizia con congruo anticipo, con la conseguente possibilità di organizzarsi, anche avvalendosi di sostituti processuali. La prevedibilità dell'impedimento comporta la ragionevolezza dell'onere di nomina del sostituto che grava sul difensore impedito, da cui è logico attendersi un comportamento diligente. Non così nell'opposto caso dell'impedimento imprevedibile dovuto a serie ragioni di salute in cui si finirebbe per addossare al difensore un onere inesigibile.

Conclusivamente: solo nel caso di concomitante impegno professionale si rende necessaria l'indicazione della impossibilità, assoluta o relativa, di una surrogatoria nomina di eventuali sostituti processuali o codifensori. Viceversa, detto onere informativo non può gravare sul difensore che comunichi e documenti il proprio impedimento, causato da infermità contingente e soprattutto non prevedibile.

In tal senso anche la più risalente giurisprudenza formatasi sotto il vigente codice di rito: Sez. 3, 17 dicembre 2002, Rigatuso, dep. 22 gennaio 2003, n. 3072, Rv. 223943; Bigoni (Sez. 6, 14 luglio 1994, Bigoni, dep. 10 novembre 1994, n. 11382, Rv. 199374).

Pertanto, a sostegno dell'istanza di rinvio per legittimo impedimento dovuto a malattia, il difensore deve semplicemente provare, con idonea documentazione, la sussistenza dell'impedimento, indicandone la patologia ed i profili ostativi alla personale comparizione e null'altro; mentre non deve provare l'impossibilità di farsi sostituire. Di conseguenza, nel caso di mancata designazione del sostituto processuale, ex art. 102, cod. proc. pen., il giudice deve disporre il rinvio.

3. Il contrasto.

Il contrasto (segnalato da questo Ufficio con rel. n. 65 del 2014), è sorto recentemente con la sentenza Gaggiano, la quale, in tema di impedimento del difensore, afferma che "l'obbligo di nominare un sostituto, ex art. 102, cod. proc. pen., sussiste anche quando l'impedimento dedotto sia costituito da serie ragioni di salute dello stesso difensore (Sez. F, 22 luglio 2014, Gaggiano, dep. 8 agosto 2014, Rv. 260152). Nello stesso senso, sia pure con varie peculiarità: Sez. 4, 13 novembre 2014, Pezzetta, dep. 28 novembre 2014, n. 49733, Rv. 261182; Sez. 6, 15 ottobre 2014, M. G., dep. 18 novembre 2014, n. 47584, Rv. 261251, questi ultimi espressi in sede di obiter.

Il percorso argomentativo dell'orientamento dissenziente si snoda attraverso i punti salienti elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, in particolare dalle Sezioni Unite Marino (n. 29529 del 2009), in tema di legittimo impedimento per concomitante impegno professionale, di cui ripercorriamo brevemente i passaggi salienti: a) la disposizione di cui all'art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen., stabilisce che il giudice provvede al rinvio, a norma del comma 1, nel caso in cui l'assenza del difensore sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, purché prontamente comunicato; b) il giudice compie una valutazione discrezionale, la quale deve essere sorretta da congrua e puntuale motivazione, contemperando le esigenze della difesa e quelle della giurisdizione; c) la richiesta di rinvio deve essere corredata dalla indicazione degli elementi giustificativi della assoluta impossibilità a comparire e della impossibilità di avvalersi di un sostituto, ai sensi dell'art. 102 cod. proc. pen., fornendo adeguata giustificazione di tale evenienza, quali la difficoltà, delicatezza o complicazione del processo, l'esplicita richiesta dell'assistito, l'assenza di altri avvocati nello studio del difensore, l'indisponibilità di colleghi esperti nella medesima materia, ecc.; d) essa deve essere, inoltre, tempestiva. L'orientamento in esame assimila l'impedimento per concomitante impegno professionale a quello per malattia, estendendo correlativamente la disciplina del primo al secondo, senza ulteriori specificazioni o passaggi argomentativi, ma semplicemente affermando che si tratti di principi "estensibili anche al diverso caso dell'impedimento per malattia". Di conseguenza, rigetta l'istanza di rinvio del difensore di fiducia per ragioni di salute che non giustifichi l'impossibilità di nominare sostituti processuali.

Si pone, pertanto, in contrasto con l'orientamento dominante che esclude, come si è visto, l'applicazione di detti principi nel caso in cui l'impedimento sia costituito da serie ragioni di salute dello stesso difensore, comunicato al giudice e debitamente documentato, a meno che si tratti di impedimento, ancorché non evitabile, prevedibile.

Le ragioni del dissenso sono affidate ad una duplice argomentazione. Primo. "La diversa soluzione interpretativa risulta fondata, in via prevalente, su affermazioni che non trovano . . .sufficiente riscontro nel testo normativo, mancando nell'art. 420-ter c.p.p., qualsivoglia distinzione sulle ragioni dell'impedimento, facendosi esclusivo riferimento, riguardo al difensore (comma 5), alla assoluta 'impossibilità di comparire per legittimo impedimento', senza ulteriore specificazione". Secondo. "La necessità per il difensore di giustificare anche la mancata nomina di un sostituto è chiaramente desumibile, oltre che da ragioni di ordine sistematico, dall'ultimo periodo dell'art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen.. A sostegno di quest'ultima affermazione si richiamano le seguenti sentenze: Sez. 3, n. 26408 del 2013; Sez. 5, n. 44299 del 2008; Sez. 5, n. 44883 del 2007, non massimata, le quali, tuttavia, riguardano tutte il concomitante impegno professionale. Conclusivamente: l'indirizzo in esame afferma che il legittimo impedimento, come disciplinato dall'art. 420-ter del codice di rito, non reca in sé alcuna specificazione o differenziazione, che dir si voglia, in relazione al tipo, alla natura o alle ragioni dell'impedimento. Ne evince che i criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, con riguardo al concomitante impegno professionale, siano applicabili, quali che siano le "ragioni dell'impedimento", e, quindi per qualsivoglia impedimento, anche per quello dovuto a serie ragioni di salute.

In definitiva, entrambi gli orientamenti suesposti richiamano, sia pure con opposti intendimenti - gli uni per escluderne, gli altri per affermarne l'applicabilità - i principi posti dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di concomitante impegno professionale. Principi affermati dalle S.U. De Marino (Sez. U, 25 giugno 2009, dep. 17 luglio 2009, n. 29529, Rv. 244109) e più recentemente ribaditi dalle Sezioni Unite Torchio, le quali affermano che "l'impegno professionale del difensore in altro procedimento costituisce legittimo impedimento che dà luogo ad assoluta impossibilità a comparire, ai sensi dell'art. 420 ter, comma quinto, cod. proc. pen., a condizione che il difensore: a) prospetti l'impedimento non appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni; b) indichi specificamente le ragioni che rendono essenziale l'espletamento della sua funzione nel diverso processo; c) rappresenti l'assenza in detto procedimento di altro codifensore che possa validamente difendere l'imputato; d) rappresenti l'impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell'art. 102 cod. proc. pen. sia nel processo a cui intende partecipare sia in quello di cui chiede il rinvio (Sez. U, n. 4909 del 18 dicembre 2014, dep. 2 febbraio 2015, Torchio Rv. 262912). Principi che si pongono in stretta continuità anche con le Sezioni Unite Fogliani (Sez. U, n. 4708 del 27 marzo 1992, dep. 24 aprile 1992, Rv. 190828), ancorché espressi in relazione alla previgente disciplina, (art. 486, comma 5, cod. proc. pen.). Si tratta di pronunce relative ed esclusivamente circoscritte all'impedimento per concomitante impegno professionale, la cui disciplina viene estesa all'impedimento costituito da serie ragioni di salute, nonostante la natura imprevedibile di quest'ultimo e nonostante la giurisprudenza di legittimità abbia costantemente adottato nella sua valutazione delle ragioni di salute criteri improntati al massimo rigore. In tal senso si è affermato che "l'assoluto impedimento a comparire . . .del difensore, conseguente a patologia, deve risolversi in una situazione tale da impedire all'interessato di partecipare all'udienza se non a prezzo di un grave e non evitabile rischio per la propria salute, ben potendo fare il giudice ricorso, per la valutazione di tali requisiti, anche a nozioni di comune esperienza, indipendentemente da una verifica medico - fiscale" (Sez. 5, n. 44485 del 24 settembre 2013, dep. 6 novembre 2013, Hrvic, Rv. 257133). Conformi anche la sentenza G, dep. 29 gennaio 2013, n. 4284, Rv. 254896; Sez. 5, n. 3558 del 19 novembre 2014, dep. 26 gennaio 2015, Margherita, Rv. 262846; Sez. 5, n. 5540 del 14 dicembre 2007, Spanu, dep. 5 febbraio 2008, Rv. 239100. In altri termini, l'esame della giurisprudenza in tema di impedimento dovuto a ragioni di salute evidenzia un quadro caratterizzato dalla estrema prudenza e dal rigore - esigente, nell'attestazione e documentazione dell'impedimento, un alto tasso di specificità, con la sistematica censura di attestazioni non sufficientemente circostanziate, ritenute pertanto generiche - che bilancia, con l'ausilio della ragionevolezza, gli interessi in gioco (diritto del difensore alla salute tutelato, ex art. 32 Cost., e diritto dell'imputato di essere assistito dal proprio difensore di fiducia, da un lato, interesse alla speditezza processuale, dall'altro), senza necessità di ricorrere ad ulteriori oneri aggiuntivi, quali la designazione di sostituti; oneri che appaiono inesigibili a fronte di eventi imprevedibili che si sostanzino in serie ragioni di salute e, comunque, privi di riscontro normativo.

Vero è che nella giurisprudenza di merito cassata dall'orientamento dominante appare poco approfondita la valutazione dell'impedimento assoluto - di non sempre evidente sussistenza - per approdare sui lidi più sicuri della mancata designazione del sostituto, assicurando la preminenza dell'interesse alla speditezza del procedimento rispetto a quello della effettività della difesa. E così consegnandoci, in definitiva, una lettura riduttiva della disciplina dell'art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen. e della tutela da essa accordata all'effettività della difesa tecnica, con ricadute di rilievo sul piano della compatibilità con l'art. 24 Cost.

4. La decisione delle Sezioni Unite in tema di impedimento del difensore per serie ragioni di salute o causa di forza maggiore.

Il contrasto viene composto dalle S.U, le quali preliminarmente ordinano in sequenza logica e cronologica le questioni da affrontare. Anzitutto, la questione relativa all'onere del difensore - che abbia dedotto impedimento costituito da serie ragioni di salute o di altre cause di forza maggiore, tempestivamente comunicato e debitamente documentato al giudice - di nominare un sostituto; in secondo luogo, la questione dell'applicabilità della disposizione di cui all'art. 420-ter, comma 5, del codice di rito, ai procedimenti camerali.

Sulla prima questione le S.U. condividono il tessuto argomentativo e le conclusioni raggiunte dall'orientamento dominante. Evidenziano che le cause costitutive del legittimo impedimento, in difetto di una norma che le indichi espressamente, sono frutto di elaborazione giurisprudenziale, sostenuta e guidata dai parametri costituzionali, e segnatamente dall'art. 24, comma 2, Cost. Il punto di partenza ed insieme il criterio guida della lettura delle S.U. Nifo è, appunto, il diritto di difesa che si specifica nel principio di parità delle parti (accusa e difesa) nella partecipazione al processo. A sua volta la partecipazione, che non è mera assistenza, si specifica nella ricerca, individuazione, proposizione e valutazione di tutti gli elementi probatori e nell'analisi della fattispecie legale. Si specifica cioè nell'effettività del diritto di difesa che, in quanto tale, non può ridursi "ad una mera formale presenza di un tecnico del diritto che, per mancanza di significativi rapporti con le parti e per il ridotto tempo a disposizione, non sia in grado di padroneggiare adeguatamente il materiale di causa". In altri termini, le S.U. Nifo disegnano il ruolo chiave del difensore nella dinamica processuale e nell'espletamento dell'ufficio difensivo, che lo pone quale garante del contraddittorio e dell'effettività del diritto di difesa. E pervengono al punto centrale del problema: una difesa efficace ed effettiva postula, non solo la profonda competenza tecnica del difensore, ma anche la padronanza dei fatti, possibile solo ove sussista un rapporto di diretta collaborazione con l'imputato. In sostanza, stante la centralità della figura del difensore rispetto ai principi del contraddittorio e della parità delle armi, l'imputato non ha più il mero diritto ad un difensore, ma a quel difensore che, sulla base del rapporto con il proprio assistito, è anche colui che è in grado di conoscere gli atti e lo stato del procedimento meglio di un qualsiasi altro legale, occasionalmente reperito. Di qui l'esigenza di tutelare la posizione del difensore. Di conseguenza la centralità e l'inviolabilità del diritto di difesa nonché la garanzia dell'effettivo contraddittorio portano ad escludere opzioni ermeneutiche preordinate ad estendere oneri aggiuntivi, segnatamente l'onere di nominare un sostituto processuale - che va limitato al solo caso del concomitante impegno professionale - nel "diverso ambito di impedimento per malattia, salvo che lo stato patologico sia prevedibile". Peraltro, la garanzia relativa al legittimo impedimento, dovuto a serie ragioni di salute, non è immune da verifiche, essendo, anzi, "sottoposta a rigorosi criteri di controllo affinché la tutela del diritto alla salute del difensore non venga strumentalizzata per finalità dilatorie". Infatti, il difensore deve, comunque, provare con idonea documentazione la sussistenza dell'impedimento e le caratteristiche ostative alla personale comparizione. In particolare, deve trattarsi di impedimento "giustificato da circostanze improvvise e assolutamente imprevedibili, tali da impedire anche la tempestiva nomina di un sostituto che possa essere sufficientemente edotto circa la vicenda in questione". Non senza aggiungere che la valutazione in ordine alla serietà, imprevedibilità e attualità dell'impedimento è riservato al giudice di merito e deve essere fondata su una motivazione adeguata.

Pertanto è illegittimo il provvedimento di rigetto dell'istanza di differimento dell'udienza, proposta dal difensore di fiducia impedito per grave malattia o altro impedimento non prevedibile, dovuto a forza maggiore, se motivato con esclusivo riguardo alla mancata nomina del sostituto processuale o dell'impossibilità di nominarlo.

5. Il revirement delle Sezioni Unite in tema di applicabilità della disciplina del legittimo impedimento per imprevedibili ragioni di salute ai riti camerali.

Sgombrato il campo dalla prima questione, residua la seconda e cioè l'applicabilità o meno del legittimo impedimento per imprevedibili ragioni di salute, di cui all'art. 420-ter cod. proc. pen., nei procedimenti camerali disciplinati dall'art. 127 cod. proc. pen.., ivi compresi quelli per i quali la presenza del difensore è prevista come necessaria.

Come anticipato, su questa questione, la giurisprudenza di legittimità, espressa anche nel suo più alto Consesso, aveva univocamente risposto in senso negativo, ribadendo costantemente l'inapplicabilità della disposizione di cui all'art. 420-ter, comma 5, del codice di rito, ai procedimenti camerali - che si svolgono con le forme previste dall'art. 127 cod. proc. pen. - ivi compresi quelli per i quali la presenza del difensore è prevista come necessaria. In tal senso, già le Sezioni Unite Cerroni - per le quali il disposto di cui all'art. 486, comma 5, cod. proc. pen. (attualmente sostituito dall'art. 420-ter, comma 5, del codice di rito) - ai sensi del quale il giudice provvede alla sospensione o al rinvio in caso di legittimo impedimento del difensore - non si applica ai procedimenti in camera di consiglio (Sez. U, n. 7551 del 8 aprile 1998, dep. 27 giugno 1998, Cerroni, Rv. 210796). Affermazione ribadita anche per i procedimenti a partecipazione necessaria, secondo il dictum delle Sezioni Unite Passamani, per le quali, in tali ipotesi, soccorre la regola di cui all'art. 97, comma 4, cod. proc. pen. (S.U, Passamani, n. 31461 del 2006, Rv. 234145); e costantemente riaffermata, tranne che per i procedimenti camerali concernenti l'udienza preliminare, alla quale il legislatore ha esteso la disciplina del legittimo impedimento del difensore, secondo quanto disposto nell'art. 420-ter, comma 1, del codice di rito, in virtù delle profonde modifiche normative che ne hanno comportato un vero e proprio mutamento di natura.

In altri termini, era assolutamente consolidato il principio per il quale nel procedimento di appello, seguito a giudizio di primo grado svoltosi nelle forme del rito abbreviato, rilevava esclusivamente il legittimo impedimento dell'imputato e non anche quello del difensore, il quale veniva sentito soltanto se compariva. A sostegno di questa conclusione si richiamava l'art. 443, comma 4 cod. proc. pen., il quale dispone che il giudizio di appello si svolge con le forme previste dall'art. 599 cod. proc. pen., rubricato "decisioni in camera di consiglio", che richiama l'art. 127 cod. proc. pen. disciplinante il procedimento in camera di consiglio, per il quale il P.M., gli altri destinatari dell'avviso di udienza nonché il difensore sono sentiti solo se compaiono (art. 127, comma 3 cod. proc. pen.). In tal senso, sono anche le più recenti decisioni (v. Sez. 5, 15 ottobre 2014, Motta, dep. 3 marzo 2015, n. 9249, Rv. 263029; Sez. 1, 24 novembre 2011, Ganceanu, dep. 22 febbraio 2012, n. 6907, Rv. 252401; Sez. 5, 12 maggio 2015, Corona, dep. 17 giugno 2015, n. 25501, Rv. 264066 nonché Sez. 4, 18 dicembre 2014, Piperi, dep. 16 giugno 2015, n. 25143, Rv. 263852).

La giurisprudenza dominante sul punto affermava in buona sostanza che, una volta espletate le rituali comunicazioni e notifiche, non è prevista, per ragioni di speditezza e concentrazione intrinseche alla natura del procedimento, la partecipazione necessaria del P.M. e del difensore, con la conseguenza che l'eventuale impedimento di quest'ultimo non costituisce motivo di rinvio, sempre che non si debba procedere a rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. In altri termini, il contraddittorio nei confronti del difensore è assicurato dalla notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza, con la conseguenza che l'assenza del difensore, ancorché dovuta a legittimo impedimento, è irrilevante e che la nullità del procedimento, per la mancata comparizione del difensore, consegue esclusivamente al difetto di notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza.

Conclusivamente, la giurisprudenza dominante affermava l'irrilevanza dell'impedimento dedotto dal difensore nel giudizio camerale di appello. Con una sola eccezione costituita da una recentissima e isolata sentenza della Sezione 6 penale (21 ottobre 2015, Caramia, dep. 11 marzo 2016, n. 10157, Rv. 266531), la quale afferma, in contrasto con l'orientamento dominante, l'operatività dell'istituto del legittimo impedimento del difensore, di cui all'art. 420 ter cod. proc. pen., anche nei procedimenti in camera di consiglio ed in particolare, nel giudizio camerale di appello ex art. 599 cod. proc. pen., a seguito di rito abbreviato svoltosi in primo grado, pena il vulnus del diritto di difesa.

Si tratta di un contrasto consapevole, la sentenza dissenziente si discosta dal diritto vivente sulla questione in esame sulla base di un percorso argomentativo riconducibile alle seguenti linee essenziali: a) la possibilità di un esercizio adeguato del diritto di difesa costituisce condizione indefettibile che deve essere comunque assicurata, in qualunque modulo procedimentale e in qualunque fase processuale e, a maggior ragione, ove si tratti di fase decisoria in cui si discuta della fondatezza dell'imputazione, come nel giudizio abbreviato, che attribuisce al giudice, sia in primo grado che in appello, la piena cognizione del merito dell'accusa, con conseguente necessità di esaminare approfonditamente, sottoponendole ad adeguato vaglio dialettico, nel contraddittorio tra le parti, le risultanze acquisite; b) l'irrilevanza del legittimo impedimento del difensore vulnera, in tali situazioni, il contraddittorio; c) essa determina, inoltre, una contraddizione insuperabile con la disciplina prevista per l'udienza preliminare, la quale, pur avendo natura camerale, ed essendo preordinata ad una decisione in rito è garantita con la partecipazione necessaria del difensore (ex art. 420, comma 1, cod. proc. pen.). Partecipazione, invece, esclusa nel giudizio camerale di appello, ex art. 599 cod. proc. pen., a seguito di rito abbreviato svoltosi in primo grado, in cui, a maggior ragione, essa dovrebbe trovare attuazione, trattandosi di fase decisoria in cui si discute della fondatezza dell'imputazione. Di qui la necessità, secondo la sentenza dissenziente, di un'interpretazione costituzionalmente orientata che estenda la disciplina del legittimo impedimento - già estesa dal legislatore all'udienza preliminare - anche al procedimento camerale, ex art. 599, a seguito di rito abbreviato, svoltosi in primo grado, sussistendo identità di ratio. Necessità che sarebbe sollecitata anche dalle recenti S.U. Tibo (S.U, 30 ottobre 2014, Tibo, dep. 14 aprile 2015, n. 15232, Rv. 263021), in tema di astensione del difensore dalle udienze.

Occorre, inoltre, aggiungere che la questione dell'estensione della disciplina del legittimo impedimento ai procedimenti camerali è stata più volte oggetto di esame da parte della giurisprudenza dominante - anche sub specie di censure volte a sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale - la quale le aveva invariabilmente respinte. In tal senso, la recente sentenza Motta (Sez. 5, 15 ottobre 2014, dep. 3 marzo 2015, n. 9249, Rv. 263029), la quale ha affermato la manifesta infondatezza, in riferimento agli art. 3, 24 e 77 Cost., della questione di legittimità costituzionale degli artt. 443 e 599 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono, nel giudizio di appello instaurato a seguito dell'impugnazione della sentenza emessa nel giudizio abbreviato, il rinvio dell'udienza camerale nel caso di impedimento a comparire del difensore dell'imputato, dovuto a ragioni di salute, considerato, quanto agli artt. 3 e 24 Cost., che le concrete modalità del diritto di difesa possono essere variamente modulate dal legislatore ordinario in relazione alla diversità dei riti con modalità improntate a criteri di economia processuale e di massima speditezza, che tengano conto della struttura e della finalità dei riti alternativi, senza che sussista alcuna violazione dei principi costituzionali di uguaglianza e di difesa; e che nemmeno sussiste la violazione dell'art. 77 Cost., sub specie di eccesso di delega, in quanto l'art. 2 n. 53 della legge n. 81 del 1987 prevede, in via generale, solo limiti all'appellabilità della sentenza emessa nel merito, allo stato degli atti, da intendersi come riferiti alla natura della decisione adottata o ai soggetti legittimati, ma non anche alle modalità del contraddittorio, rimesso alla libera determinazione del legislatore delegato, in relazione alle esigenze del procedimento". E, meno recentemente, in conformità la sentenza Verbi (Sez. 5, 6 aprile 2006, dep. 16 maggio 2006, n. 16555, Rv. 234451), la quale affermava, richiamando la giurisprudenza costituzionale, che la scelta del legislatore di disciplinare diversamente l'esercizio del diritto di difesa in relazione alla diversità dei riti, con modalità improntate a criteri di economia processuale e di massima speditezza, non lede i principi costituzionali di eguaglianza, difesa e giusto processo. Escludeva recisamente che "un contraddittorio che in sede di gravame si svolga, in ipotesi, in forma meramente cartolare vanifichi l'esercizio del diritto di difesa o leda il principio di uguaglianza allorché tale possibilità consegua all'opzione, liberamente privilegiata dallo stesso imputato, di consentire l'accelerazione del procedimento in cambio di consistenti benefici sostanziali". Concludeva, affermando che "al di là del tenore testuale e della chiara volontà del legislatore di lasciare inalterata la procedura camerale d'appello, nonostante le modifiche recate all'udienza preliminare e, per il tramite dell'art. 441, comma 1, c.p.p., al giudizio abbreviato, una diversa interpretazione non appariva necessaria a garantire il diritto di difesa e non risultava perciò costituzionalmente imposta".

Le Sezioni Unite Nifo, per contro, non condividono le conclusioni della giurisprudenza dominante in subiecta materia e mutano il proprio orientamento, consacrato nelle S.U. Cerroni, aderendo alle argomentazioni della sentenza Caramia. Affermano, pertanto, la rilevanza - nel giudizio camerale di appello conseguente a processo di primo grado celebrato con rito abbreviato - dell'impedimento del difensore determinato da imprevedibili ragioni di salute. A queste conclusioni pervengono sulla base di un percorso ermeneutico il cui nucleo argomentativo è interamente intrecciato con l'inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, proclamata dall'art. 24, comma 2, Cost.. I passaggi più significativi disegnati dalle S.U. con l'ausilio dell'interpretazione sistematica sono i seguenti. Primo. L'esclusione della disciplina del legittimo impedimento dai riti camerali e, specificamente, del procedimento camerale, ex art. 599 cod. proc. pen., a seguito di giudizio di primo grado svoltosi con il rito abbreviato - trattandosi di fase decisoria in cui si discute del merito e della fondatezza dell'imputazione - comporta la "concreta ed effettiva lesione del diritto di difesa". Secondo. L'art. 420, comma 1, cod. proc. pen. prevede per l'udienza preliminare, pur avendo quest'ultima natura camerale ed essendo preordinata ad una decisione in rito, la garanzia della partecipazione necessaria del difensore. Ergo: si impone, è necessaria un'interpretazione costituzionalmente orientata che estenda la disciplina del legittimo impedimento, già prevista per l'udienza preliminare, anche al procedimento camerale di appello. Pena l'incoerenza del sistema processuale, in quanto "sarebbe altrimenti palese la contraddizione con la disciplina prevista per l'udienza preliminare". Conclusioni costituzionalmente e convenzionalmente conformi. Esse, infatti, si saldano pienamente anche con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale, sottolineano le S.U., in relazione all'art. 6 CEDU, ha costantemente ribadito "la necessità di assicurare all'imputato . . .un processo equo e di garantire il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, indipendentemente dal modulo procedimentale prescelto e dalla fase processuale, e, in particolare, nella fase del giudizio in cui si discute della fondatezza dell'imputazione". Principio che si impone anche nel giudizio abbreviato "nel quale si attribuisce al giudice, sia in primo grado che in appello, la piena cognizione del merito dell'accusa, con conseguente necessità di esaminare approfonditamente, sottoponendole ad adeguato vaglio dialettico, nel contraddittorio tra le parti, le risultanze acquisite". In buona sostanza, la necessità del contraddittorio non può essere elusa quando la decisione abbia per oggetto la responsabilità dell'imputato e, comunque, le questioni di merito. Giacché, in tal caso, l'irrilevanza del legittimo impedimento a comparire del difensore vulnera il contraddittorio, che costituisce specificazione del diritto inviolabile di difesa. Infine, le S.U. fanno giustizia delle argomentazioni utilizzate dalla giurisprudenza dominante a sostegno dell'opposta opzione ermeneutica, fondata sull'art. 599 cod. proc. pen. che richiama l'art. 127, comma 3, cod. proc. pen., a norma del quale i difensori sono sentiti se compaiono. In realtà, precisano, le S.U. nessun argomento dirimente può derivare da tale previsione, la quale si limita a riconoscere "il diritto del difensore di perseguire la propria strategia difensiva" e, quindi, ancorché si tratti di partecipazione facoltativa, di scegliere se comparire o non. Qualora, tuttavia, il difensore, in adesione ad una specifica linea difensiva, opti per la comparizione all'udienza camerale, detta scelta deve, secondo le S.U., essere tutelata e "non può essere vanificata da un evento imprevisto e imprevedibile o da forza maggiore che gli impedisca concretamente di partecipare all'udienza". Pena la "limitazione del diritto di difesa e delle garanzie fondamentali dell'imputato, del tutto indipendenti dalla strategia processuale per seguita, non giustificabile con riferimento alle sub valenti esigenze di celerità e snellezza proprie del rito camerale".

Conclusivamente: le garanzie fondamentali dell'imputato, ineludibili, qualunque sia il modulo processuale prescelto, prevalgono anche nel bilanciamento con le esigenze di speditezza e semplificazione del rito camerale.

Occorre, infine, rilevare che la sentenza delle S.U. Nifo in esame ha provveduto ad armonizzare la linea ermeneutica delle S.U. Tibo (S.U. 30 ottobre 2014, dep. 14 aprile 2015, n. 15232, Rv. 263021), in seno al diritto processuale vivente. Le S.U. Tibo hanno affermato il principio per il quale anche nelle udienze camerali a partecipazione non necessaria del difensore, il giudice è tenuto a disporre il rinvio del procedimento in presenza di una rituale dichiarazione di adesione del difensore ad un'astensione di categoria. Indipendentemente dalla peculiarità della fattispecie, costitutiva dell'astensione del difensore non riconducibile al legittimo impedimento, non possono ignorarsi le ricadute in punto di tutela della difesa nei riti camerali. Nel senso che con le S.U. Tibo viene tutelato il diritto al contraddittorio del difensore che, in adesione all'astensione di categoria, sceglie di non comparire all'udienza camerale, pur potendolo fare. Ebbene, con le S.U. Nifo viene tutelato il diritto al contraddittorio del difensore che, pur volendo comparire in udienza camerale, non può farlo per legittimo impedimento, costituito da serie ragioni di salute. Non tutelare quest'ultimo e, comunque, tutelare, nei riti camerali, l'astensione del difensore in misura maggiore rispetto al legittimo impedimento per serie ragioni di salute avrebbe aperto una contraddizione di sistema che le S.U. Nifo hanno lucidamente evitato o, almeno, sanato.

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CAPITOLO II

RINUNCIA ALL'IMPUGNAZIONE ED ASSENZA DI PROCURA SPECIALE

(di Pietro Molino )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il nuovo ruolo del difensore nel processo e l'ampiezza dei poteri dispositivi. - 3 La decisione delle Sezioni Unite. - 4 La rinuncia "parziale".

1. Premessa.

Le Sezioni Unite - n. 12603/2016 - u.p. 24/11/2015 (dep. 25/03/2016), Celso - si sono pronunciate sul tema della rinuncia all'impugnazione da parte di difensore non munito di procura speciale, affermando che:

1) Il difensore, di fiducia o d'ufficio, dell'indagato o dell'imputato, non munito di procura speciale non può effettuare una valida rinuncia, totale o parziale, all'impugnazione, anche se da lui autonomamente proposta, a meno che il rappresentato sia presente alla dichiarazione di rinuncia fatta in udienza e non vi si opponga (Rv. 266244);

2) La rinuncia all'impugnazione cd. parziale, che riguardi cioè quelle parti dell'impugnazione con cui si contesti e si chieda la riforma o l'annullamento di uno o più capi o punti del provvedimento impugnato, costituisce atto abdicativo di diritti e facoltà processuali già acquisiti, sia pure con effetti più limitati rispetto a quella totale; ne consegue che essa non può essere effettuata dal difensore, di fiducia o di ufficio, privo di procura speciale, in quanto non ricompresa nella discrezionalità tecnica del difensore, a differenza della mera rinuncia ad una o più argomentazioni o motivazioni su cui si fondano le diverse parti dell'impugnazione relative ai diversi capi impugnati (Rv. 266245).

La prima sezione aveva chiesto alle Sezioni Unite di stabilire se il difensore dell'indagato o imputato non munito di procura speciale possa validamente rinunciare all'impugnazione da lui autonomamente proposta, evidenziando l'esistenza di un contrasto interpretativo derivante dalla contrapposizione, rispetto ad un orientamento maggioritario già maturato nell'assetto del codice di rito previgente e propenso a dare una risposta negativa al quesito, di un indirizzo invece favorevole a riconoscere il potere di rinuncia al difensore che abbia promosso autonomamente l'impugnazione, anche se non munito di procura all'uopo rilasciata.

2. Il nuovo ruolo del difensore nel processo e l'ampiezza dei poteri dispositivi.

I termini del contrasto denunciato affondano le proprie radici nel più volte affermato diverso ruolo, partecipativo e non di mera difesa tecnica, attribuito al difensore dal nuovo codice di procedura penale, per come desumibile principalmente, ma non soltanto, dall'art. 99, comma primo, e più in generale dalla inclusione del difensore fra i "soggetti" del procedimento.

Il collegio remittente segnalava infatti che un'antica ma isolata tesi (Sez. 6, n. 2115 del 08/06/1992, De Vito, Rv. 192850) - secondo cui il difensore di fiducia è legittimato a rinunciare validamente, ai sensi dell'art. 589, comma secondo, cod. proc. pen., all'impugnazione da lui autonomamente proposta nell'interesse del condannato o dell'imputato, senza necessità di munirsi di apposita procura speciale rilasciata dal suo assistito - fosse stata ripresa in Sez. 1, 18 giugno 2014, n. 48289, Tiberia, Rv. 261151, pronuncia nella quale la Corte sottoponeva a serrata critica il predominante opposto orientamento.

Secondo la sentenza Tiberia, infatti, l'indirizzo maggioritario non si confronterebbe ade guatamente con il diritto autonomo di impugnazione riconosciuto espressamente al difensore dell'imputato dall'art. 571 comma 3 cod. proc. pen., nell'ambito del ruolo partecipativo, e non di mera assistenza, attribuito alla difesa tecnica nel processo penale: un diritto autonomo di impugnazione che implica l'esercizio di un potere dispositivo sulle sorti del processo in grado di produrre effetti sostanziali potenzialmente anche pregiudizievoli per il rappresentato (come, ad esempio, l'insorgenza, in capo al Pubblico Ministero, del diritto di proporre appello incidentale, quale conseguenza dell'appello principale autonomamente proposto dal difensore dell'imputato); ne discenderebbe dunque che, così come l'ordinamento riconosce il potere del difensore di determinare gli effetti anche negativi a carico del proprio assistito mediante il libero esercizio di tale autonomo diritto di impugnazione, allo stesso modo non può non riconoscere un parallelo autonomo potere di caducarne gli effetti mediante la dichiarazione di rinuncia al gravame proposto.

Ad un tale approdo non osterebbe inoltre la previsione di cui al comma 2 dell'art. 589, da leggere come riferita all'iniziativa personale dell'imputato di rinunciare alla impugnazione proposta da lui stesso ovvero a quella proposta dal difensore, ma senza che con ciò la norma intenda inibire a quest'ultimo la rinuncia all'impugnazione da lui autonomamente proposta; non residuerebbero, infine, preoccupazioni per le vicende dell'imputato, atteso da un parte il dovere deontologico del difensore di curare sempre gli interessi del proprio assistito e di informarlo di tutto ciò che rilevi per la sua difesa e, dall'altra, la facoltà dell'imputato, prevista in via generale dall'art. 99 comma 2 del codice di rito, di togliere effetto, con propria espressa dichiarazione contraria, all'atto compiuto dal difensore sino a quando non intervenga il provvedimento del giudice.

La posizione contraria - volta ad escludere invece la legittimazione del difensore a rinunciare all'impugnazione, anche ove da lui stesso proposta, a meno che non agisca quale procuratore speciale - già anticamente espresso in Sezioni Unite, n. 6 del 31/05/1991, Catalano, Rv. 188163 - ha trovato rispondenza nella giurisprudenza della Corte in plurimi arresti: tra i più recenti, Sez. 1, n. 2952/14 del 23/10/2013, Tripodi, Rv. 258268, nonché Sez. 1, n. 29202 del 23/05/2013, Maida, Rv. 256792, secondo cui "la rinuncia all'impugnazione è un atto processuale a carattere formale, che consiste in una dichiarazione abdicativa, irrevocabile e recettizia, da cui discende l'effetto della inammissibilità dell'impugnazione, una volta che l'atto sia pervenuto alla cancelleria dell'ufficio giudiziario. L'atto, non costituendo l'espressione dell'esercizio del diritto di difesa, richiede la manifestazione inequivoca della volontà dell'interessato, espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale".

Il collegio rimettente aveva peraltro sottoposto alle Sezioni Unite un'ulteriore tema di esplorazione, relativo alla possibilità di duplice impugnazione della sentenza contumaciale intervenuta dopo la riforma dell'art. 175, comma 2, cod. proc. pen. ad opera del d.l. n. 17 del 21/2/2005, convertito (con modificazioni) nella legge 22 aprile 2005, n. 60.

Nel motivare l'attinenza al quesito, si osservava che con la sentenza n. 6026 del 31/01/2008, Huzuneanu, Rv. 238472 - secondo cui "l'impugnazione proposta dal difensore, di fiducia o di ufficio, nell'interesse dell'imputato contumace (nella specie latitante), preclude a quest'ultimo, una volta che sia intervenuta la relativa decisione, la possibilità di ottenere la restituzione nel termine per proporre a sua volta impugnazione" - le Sezioni Unite hanno (ri-)affermato l'intangibilità del principio di unicità del diritto di impugnazione, da cui consegue che, anche se proposta dal difensore, l'impugnazione continua ad essere l'impugnazione "dell'imputato", che resta dunque l'unico soggetto a poter togliere effetto alla impugnazione proposta dal difensore, nei modi previsti per la rinuncia (e non viceversa).

Il collegio rimettente evidenziava però che, per effetto della successiva dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 175 comma 2 cod. proc. pen. (Corte Cost., sentenza n. 317 del 4/12/2009) - nella parte in cui non consente la restituzione dell'imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dell'imputato - il principio dell'unicità dell'impugnazione, strenuamente difeso dalle Sezioni Unite Huzuneanu, non può dirsi così indiscusso perché intaccato da plurime pronunce di legittimità, tra le quali:

- Sez. 5, n. 44863 del 07/10/2014, Prudentino, Rv. 261314, arresto in cui la Corte ha affermato che l'omessa notifica all'imputato dell'avviso di deposito, ex art. 548, comma secondo, cod. proc. pen., della sentenza di primo grado comporta una nullità a regime intermedio, la quale, ove ritualmente eccepita, non è sanata dalla proposizione dell'appello da parte del difensore dell'imputato;

- Sez. 1, n. 52538 del 20/06/2014, Gabrielli, Rv. 262110, secondo cui, in caso di irrituale notifica all'imputato dell'estratto contumaciale della sentenza emessa all'esito del giudizio di appello, il ricorso per cassazione proposto dal difensore di fiducia nominato prima del giudizio di secondo grado non consuma la potestà di impugnare dell'imputato;

- Sez. F, n. 3144/15 del 04/09/2014, Tripodo, Rv. 262040, per la quale l'omessa notifica all'imputato dell'avviso di deposito della sentenza impugnata, sia essa conseguente alla tardività del deposito o all'avvenuta celebrazione del giudizio in contumacia, non può essere eccepita dal difensore, unitamente ai motivi attinenti al merito, nell'impugnazione proposta nell'interesse dell'imputato, evidenziando la Corte che tale soluzione si impone sia se si ritiene che il principio di unicità dell'impugnazione è stato superato solo con riferimento ad imputato contumace assistito da difensore di ufficio, sia se si accede alla ipotesi più radicale di totale superamento del principio, poiché, in questo caso, l'imputato pretermesso può comunque proporre, unitamente ad incidente di esecuzione, impugnazione apparentemente tardiva e l'eventuale contrasto di giudicati che venisse a prodursi sarebbe risolto sulla base della disciplina dettata dall'art. 669 cod. proc. pen.

Il collegio remittente si domandava, dunque, se l'oggettiva messa in discussione del principio di unicità dell'impugnazione - temuta dalle Sezioni Unite Huzuneanu come uno "sconvolgimento del sistema delle impugnazioni" - non incida, alla luce della modifica del quadro derivante dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 317 del 2009, anche sulla quesito sottoposto all'attenzione del supremo consesso.

3. La decisione delle Sezioni Unite.

Nel rispondere al quesito, le Sezioni Unite ricordano come l'orientamento dominante anche dopo l'entrata in vigore del codice "Vassalli" - indirizzo pressoché univoco nell'affermare che al difensore non munito di procura speciale non è consentito rinunciare all'impugnazione (o a qualche motivo di essa), anche quando da egli stesso autonomamente proposta - abbia subito eccezioni, in via generale, solo per l'ipotesi che la rinuncia fatta in udienza dal difensore privo di procura speciale sia stata accettata o almeno non ricusata dal suo assistito; richiedendosi però espressamente la presenza in udienza dell'interessato e la mancanza di opposizione da parte sua, così da rendere inoperante la rinuncia nel caso di processo contumaciale; idem dicasi per la rinuncia cd. parziale all'impugnazione da parte del difensore non munito di procura speciale, la cui efficacia è stata prevalentemente esclusa anche dalla giurisprudenza successiva al nuovo rito.

Tanto premesso, le Sezioni Unite dichiarano di non condividere la posizione espressa dal le sentenze De Vito e Tiberia in ordine all'esistenza di una autonomo potere di rinuncia del difensore, affermando al contrario che la rinuncia, totale o parziale, all'impugnazione non è solo espressione di una attività concernente l'aspetto strettamente tecnico del diritto di difesa, e come tale rientrante nella discrezionalità professionale del difensore, ma costituisce un atto abdicativo di un diritto ormai già automaticamente sorto in capo al soggetto (imputato, indagato o altra parte privata) che ne è l'unico titolare, anche se l'impugnazione venne proposta non da lui personalmente ma, sempre però per suo conto e nel suo esclusivo interesse, dal difensore: la rinuncia, in quanto dichiarazione estintiva dell'efficacia dell'atto di impugnazione già proposto, implica una legittimazione attuale a disporre dei diritti e facoltà che con esso sono venuti in essere, sicché, ordinariamente, il legittimato all'esercizio del potere abdicativo non può identificarsi in una persona diversa dal soggetto attivo del diritto stesso.

Particolarmente serrata è la confutazione delle singole ragioni indicate nell'indirizzo minoritario.

In primo luogo, la pronuncia Celso nega radicalmente che l'espressione "parte privata" - che ai sensi dell'art. 589 può rinunciare all'impugnazione - possa essere letta come comprensiva sia dell'interessato sia del suo difensore, osservando invece come proprio nella specifica materia delle impugnazioni il legislatore ha avuto cura di distinguere le "parti private" dai difensori, sia con riguardo alla "presentazione dell'impugnazione" (art. 582, comma 2) sia con riguardo alla "spedizione dell'atto di impugnazione" (art. 583, comma 3), il che costituisce un rilevante elemento esegetico per ritenere che quando, nello specifico caso dell'art. 589, comma 2, ha indicato le sole "parti private" e non anche il difensore, abbia voluto riferirsi unicamente all'imputato, all'indagato e alle altre parti private, e non anche ai loro difensori.

Secondariamente, le Sezioni Unite osservano che, pur riconoscendo il ruolo partecipativo e non di mera assistenza attribuito alla difesa tecnica dal vigente codice di procedura, la rappresentanza del difensore non può estendersi all'esercizio di poteri processuali dispositivi, i quali propriamente non costituiscano esplicazione di tutela difensiva e come tali possano ricondursi solo alla volontà dell'imputato, richiedendo perciò una manifestazione personale o per mezzo di procuratore speciale; in tale prospettiva, richiamano l'insegnamento delle Sezioni Unite n. 18/95 del 05/10/1994, Battaggia, Rv. 199805 che, come esempio di atto "personalissimo" non rientrante nel normale esercizio della attività difensiva, indicavano espressamente (oltre alla richiesta di giudizio abbreviato ed a quella di applicazione della pena) proprio il caso di rinuncia all'impugnazione di cui all'art. 589, comma 2, codice di procedura. È del tutto logico - in definitiva - che il sistema adottato dal codice, correlativamente all'attribuzione al difensore di un autonomo potere di impugnazione in conseguenza del riconoscimento di un ruolo partecipativo, non gli abbia anche esplicitamente attribuito un autonomo potere di rinunciarvi, mentre abbia espressamente previsto, in due distinte disposizioni, che la parte privata può rinunciare all'impugnazione (art. 589, comma 2) e che l'imputato, nei modi previsti per la rinuncia, può togliere effetto all'impugnazione proposta dal suo difensore (art. 571, comma 4), riconoscendo la prevalenza della volontà del titolare dell'interesse coinvolto.

Ancora, pur senza prendere espressa posizione sul tema dello scardinamento del principio di unicità dell'impugnazione, le Sezioni Unite Celso osservano che "quand'anche si ritenesse che il principio di unicità del diritto di impugnazione sia stato totalmente travolto e scardinato per essere sostituito dal diverso principio dell'autonomia delle impugnazioni dell'imputato e del difensore (di ufficio o anche di fiducia), non è stata indicata la ragione per cui l'introduzione di questo diverso principio dovrebbe necessariamente comportare anche la sostanziale modifica o abrogazione tacita delle specifiche norme (dianzi indicate) che attribuiscono al solo interessato o a un suo procuratore speciale il potere di rinunciare ad una impugnazione già proposta dal difensore (di fiducia o d'ufficio) per suo conto e nel suo interesse (non ravvisandosi invero la presenza di un puntuale contrasto con impossibilità di applicazione di queste ultime) e correlativamente la nascita di nuove norme che attribuirebbero al difensore di fiducia di compiere atti abdicativi di diritti personalissimi già sorti in capo all'assistito"; una cosa è insomma il potere di impugnazione, declinabile al plurale, altro è invece è il potere di rinunziarvi, riconoscibile - in assenza di diversa espressa previsione normativa - al solo titolare della posizione sui cui ricadono gli effetti della impugnazione esercitata.

4. La rinuncia "parziale".

Ma è con riferimento alla corretta individuazione della differenza fra rinuncia "parziale" all'impugnazione e rinuncia "ad uno o più motivi" della stessa - e alla conseguente definizione dei poteri difensivi - che la sentenza Celso delle Sezioni Unite assume un ulteriore, particolarissimo, interesse.

Col dichiarato intento di fare chiarezza sull'argomento, la Corte nella sua più autorevole composizione spiega che nei casi in cui il difensore, per le ragioni più varie, rinunci ai motivi relativi alla responsabilità dell'imputato insistendo in quelli relativi alla determinazione della pena, o al giudizio di comparazione fra circostanze, o alla applicazione di benefici, e così via, occorre parlare non di rinuncia ad uno o più motivi, bensì, più propriamente, di rinuncia parziale all'impugnazione, perché la rinuncia ha ad oggetto una parte della impugnazione proposta, relativa ad uno o più capi o punti del provvedimento impugnato.

Ne deriva - per le ragioni sopra sinteticamente riassunte - che il difensore non munito di procura speciale non ha un autonomo potere di effettuare una tale rinuncia "parziale": se la rinuncia è un atto dispositivo del rapporto processuale e non riconducibile al semplice esercizio della difesa tecnica, la medesima natura di atto dispositivo ha la rinuncia parziale, con la quale si abdica alla possibilità, già esercitata per conto dell'imputato, di ottenere la riforma o la caducazione di un capo o punto del provvedimento impugnato.

Diversa è invece - secondo le Sezioni Unite Celso - l'ipotesi della rinuncia ad una o più argomentazioni o motivazioni su cui si fondano le diverse parti della impugnazione relative ai diversi capi impugnati, da qualificare come rinuncia a uno o più motivi e che, concernendo effettivamente l'aspetto esclusivamente tecnico dell'attività difensiva e rientrando nella sua discrezionalità professionale, appartiene all'autonoma valutazione del difensore, legittimato ad effettuarla senza necessità di ottenere dal suo assistito il rilascio di una procura speciale; ipotesi cui è accomunata anche quella di mancato svolgimento orale delle ragioni già esposte nei motivi di impugnazione (che non esonera il giudice dall'obbligo di giudicare e motivare su tutti i motivi di gravame); allo stesso modo, nessuna necessità di preventiva procura speciale nel caso in cui il difensore si limiti a prospettare - adeguatamente argomentandole e dandone prova - ragioni oggettive di sopravvenuta carenza di interesse della parte a coltivare l'impugnazione, valendo infatti il principio che il giudice deve rilevare d'ufficio l'inammissibilità dell'impugnazione per carenza di interesse, che, qualora sia sopravvenuta, comporta che non possa pronunciarsi condanna alle spese e alla sanzione pecuniaria (cfr. Sezioni Unite, n. 7del 25/06/1997, Chiappetta, Rv. 208166; più di recente, Sez. 6, n. 19209 del 31/01/2013, Scariciottoli, Rv. 256225).

Nell'anno in rassegna, l'insegnamento delle Sezioni Unite - ha trovato rispondenza in Sez. 6, n. 24385 del 24/05/2016, Quaglia, non massimata, occasione nella quale la Corte, espressamente richiamando il principio della sentenza Celso, ha negato validità alla rinuncia del difensore, privo di procura speciale, alla impugnazione da lui stesso proposta.

  • procedura civile
  • avvocato

CAPITOLO III

L'AMMISSIBILITÀ DEL RICORSO IN CASSAZIONE PROPOSTO DAL SOSTITUTO PROCESSUALE DEL DIFENSORE NON CASSAZIONISTA

(di Alessandro D'Andrea )

Sommario

1 La questione originariamente rimessa al vaglio delle Sezioni Unite. - 2 Il non convincente approccio della Sezione rimettente: le ragioni di ammissibilità del ricorso in cassazione proposto dal sostituto processuale del difensore dell'imputato non cassazionista. - 3 L'irrilevanza dello stato di latitanza dell'imputato.

1. La questione originariamente rimessa al vaglio delle Sezioni Unite.

Con le ordinanze Sez. I, n. 6326 del 18 dicembre 2015, dep. 2016, Taysir, n.m., e Sez. I, n. 6328 del 18 dicembre 2015, dep. 2016, Ahmed, n.m., la Prima Sezione ha rimesso alle Sezioni Unite la soluzione delle controversa questione «Se alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso per cassazione, in quanto proposto da difensore cassazionista nominato quale sostituto processuale dal difensore, di fiducia o di ufficio, non cassazionista, consegua, ed eventualmente a carico di chi, la condanna al pagamento delle spese del procedimento».

La problematica era stata sollevata sul presupposto che, apparendo inammissibile il ricorso in cassazione in quanto proposto da soggetto non legittimato - e cioè da difensore cassazionista nominato quale sostituto processuale dal difensore, di fiducia (procedimento Ahmed) o di ufficio (procedimento Taysir), non cassazionista dell'imputato -, doveva assumere specifico rilievo la questione, oggetto di peculiare contrasto interpretativo, concernente il dubbio se, in una simile ipotesi, alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso per cassazione dovesse conseguire, ed eventualmente a carico di chi, la condanna al pagamento delle spese del procedimento.

La designazione di un altro legale iscritto nell'apposito albo professionale, effettuata al fine di superare l'ostacolo esistente alla proposizione dell'impugnazione, era, infatti, per la Prima Sezione in contrasto con le norme degli artt. 97 e 102 cod. proc. pen., considerato che la prevista possibilità per il difensore, sia di fiducia che di ufficio, di nominare un sostituto processuale, che esercita i suoi diritti ed assume gli stessi doveri, non modifica la titolarità dell'ufficio defensionale, che rimane pur sempre in capo all'originario difensore. Tale ultimo, infatti, cessata la situazione che ha dato causa alla sostituzione, riprende immediatamente il suo ruolo e ricomincia a svolgere le sue funzioni. Il sostituto, in sostanza, interviene nel processo in forma estemporanea ed episodica in surroga del difensore assente, senza, però, mai esautorare in maniera definitiva e permanente il sostituito, che rimane il "dominus" della difesa.

La facoltà per il difensore impedito di avvalersi della sostituzione di altro patrocinatore deve, comunque, avvenire nel rispetto delle disposizioni che regolano i singoli istituti processuali, e quindi, nel caso di specie, ai sensi dell'art. 613 cod. proc. pen., che ammette alla proposizione del ricorso per cassazione soltanto la parte che vi provveda personalmente ovvero il suo difensore iscritto nell'albo speciale della Corte di cassazione, altresì specificando, al secondo periodo del comma 2, che il difensore può essere nominato appositamente per proporre il ricorso o in un momento successivo e che, in mancanza di nomina, il difensore è quello che ha assistito la parte nell'ultimo giudizio, a condizione che sia in possesso dei requisiti di abilitazione indicati al primo comma.

Il difetto di abilitazione professionale, tuttavia, impedirebbe al difensore di proporre ricorso e di esercitare tutte le facoltà che siano comunque riconducibili all'esplicazione del mandato difensivo nel giudizio di legittimità, inclusa quella di nominare un proprio sostituto processuale per attività che non è abilitato a svolgere in proprio. La stessa limitazione dei poteri processuali, poi, si estenderebbe al sostituto del difensore, in applicazione del disposto dell'art. 102, comma 2, cod. proc. pen.

In ragione degli indicati aspetti, pertanto, la Sezione rimettente ha ritenuto di configurare l'inammissibilità dei proposti ricorsi, in quanto provenienti da patrocinatori sforniti dei necessari poteri di legittimazione, quindi affrontando la conseguente problematica - per cui ha investito il Supremo Collegio - relativa alle statuizioni accessorie riguardanti l'onere delle spese processuali, con particolare riferimento alla questione concernente la possibilità di condannare alle spese il difensore, e non le parti da costui rappresentate, in alcune situazioni, come quella in esame, in cui il mandato sia "ab origine" inidoneo a produrre effetti nel giudizio di legittimità, per carenza dei necessari requisiti soggettivi da parte del professionista prescelto.

2. Il non convincente approccio della Sezione rimettente: le ragioni di ammissibilità del ricorso in cassazione proposto dal sostituto processuale del difensore dell'imputato non cassazionista.

Il Supremo Collegio, con le sentenze Sez. U, n. 40517 del 28 aprile 2016, Taysir, Rv. 267627 e Sez. U, n. 40518 del 28 aprile 2016, Ahmed, n.m., ha disatteso, in esito ad un articolato percorso argomentativo, il fondamentale presupposto dell'esegesi resa nell'ordinanza di rimessione, affermando espressamente che "È ammissibile il ricorso in cassazione proposto da avvocato iscritto nell'albo speciale della Corte di cassazione, nominato quale sostituto dal difensore dell'imputato, di fiducia o di ufficio, non cassazionista", così rendendo irrilevante la questione rimessa al vaglio delle Sezioni Unite. Per tali ultime, infatti, nel caso di specie non rileva una situazione tale per cui il difetto di abilitazione professionale dell'originario difensore estende i suoi negativi effetti sul sostituto processuale, ai sensi dell'art. 102, comma 2, cod. proc. pen., conseguentemente rendendo inammissibile il proposto ricorso in cassazione.

Per il Supremo Collegio, infatti, le argomentazioni rese dalla Sezione rimettente non tengono adeguatamente conto della rimodulazione della disciplina della sostituzione difensiva operata dalla legge 6 marzo 2001, n. 60, con cui é stata estesa anche al difensore di ufficio la possibilità di procedere alla nomina dei sostituti processuali. Significativamente, l'art. 4 di tale novella ha modificato l'originario testo dell'art. 102 cod. proc. pen., non condizionando più la possibilità della sostituzione all'esistenza di un impedimento del difensore titolare e per la durata di esso, ma consentendo la libera nomina del sostituto processuale, senza alcun vincolo normativamente fissato ed addirittura senza che il sostituito sia tenuto a fornire giustificazione alcuna in ordine alle ragioni di effettuazione di tale nomina. Conseguentemente, la designazione del sostituto processuale é oggi possibile per tutti i difensori, sia di fiducia che di ufficio, con un'estensione applicativa che si pone in termini di assoluta coerenza con il principio di immutabilità del patrocinio ufficioso.

Inoltre, tenuto conto che la nomina del sostituto processuale può avvenire anche in via preventiva e che l'incarico a lui conferito può protrarsi per un lungo periodo, e finanche per l'intera durata del procedimento (di fatto surrogando la posizione del difensore), risulta accentuato il carattere di strategia difensiva nell'istituto, con la conseguenza che la figura del sostituto si é tramutata in una sorta di collaboratore del sostituito, destinato a lavorare anche a fianco del titolare della difesa. Tale evenienza, invero fisiologica nella difesa fiduciaria, può ritenersi ipotizzabile anche con riguardo alla difesa di ufficio.

La rimodulazione della sostituzione difensiva attuata dal legislatore, pertanto, rende superate le argomentazioni contenute nell'ordinanza di rimessione aventi ad oggetto la maniera episodica ed estemporanea con cui il sostituto si surroga al difensore sostituito e la permanenza della titolarità dell'ufficio defensionale in capo a quest'ultimo.

Allo stesso modo, non appare neanche decisiva la considerazione, pure utilizzata dalla Prima Sezione, per cui il sostituto processuale esercita i diritti ed assume i doveri del difensore sostituito, ai sensi dell'art. 102, comma 2, cod. proc. pen. Per come osservato dalle Sezioni Unite, infatti, "la giurisprudenza di questa Corte si é soffermata sulla problematica relativa ai poteri spettanti al sostituto del difensore e ha affermato che, siccome l'art. 102 non riconosce rilevanza ad eventuali limitazioni apposte dal difensore di fiducia alla designazione del sostituto, ne discende che quest'ultimo può esercitare tutti i diritti assumendo i doveri del titolare (Sez. 5, n. 14115 del 10 novembre 1999, Di Prenda, Rv. 216105; Sez. 3, n. 7458 del 15 gennaio 2008, Barranca, Rv. 239010; Sez. 6, n. 19677 del 31 marzo 2004, Foltran, Rv. 228229; Sez. 6, n. 20398 del 9 maggio 2014, Russi, Rv. 261478), ad eccezione dei poteri derivanti da una procura speciale, che pertengono, in maniera esclusiva, al difensore originariamente nominato [ . . . ] Deve però rilevarsi che (come puntualizzato da Sez. U, n. 24486 del 11 luglio 2006, Lepido, Rv. 233919), nella disciplina generale delle impugnazioni dell'imputato dettata dall'art. 571 cod proc. pen., é riconosciuto, oltre che all'imputato personalmente o a mezzo di procuratore speciale, anche al difensore dell'imputato il potere di proporre impugnazione indipendentemente da uno specifico mandato del suo assistito". Si ritiene, cioè, che il difensore, quando propone l'impugnazione, esercita un potere proprio, in qualche misura autonomo da quello dell'imputato, tanto che il suo potere si aggiunge a quello del difensore eventualmente nominato dall'imputato allo specifico fine dell'impugnazione.

Il potere del difensore di proporre impugnazione in favore dell'imputato, infatti, trova nell'art. 571, comma 3, cod. proc. pen. una fonte di legittimazione ben più forte, e comunque autonoma, rispetto a quella che gli potrebbe derivare dalle norme degli artt. art. 99, comma 1, e 165, comma 3, cod. proc. pen.

Ne discende che il difensore dell'imputato ha, in proprio, un autonomo diritto di impugnazione ed é privo della legittimazione a proporre ricorso per cassazione se non iscritto nell'albo speciale.

Pertanto, se è vero che il mancato titolo abilitativo rende il difensore privo di legittimazione a proporre ricorso in cassazione, è anche vero che «la sussistenza in capo al difensore (pur privo della legittimazione a ricorrere in cassazione per il mancato titolo abilitativo) di un autonomo diritto di impugnazione rende ammissibile il ricorso per cassazione proposto da avvocato iscritto nell'albo speciale, nominato quale sostituto dal difensore di ufficio dell'imputato non cassazionista. E ciò proprio in applicazione delle regole stabilite dall'art. 102 cod. proc. pen., là dove si prevede che il difensore di fiducia e il difensore di ufficio possono nominare un sostituto (comma 1) e che il sostituto esercita i diritti e assume i doveri del difensore (comma 2)».

Con riguardo, infine, all'ultima argomentazione espressa nell'ordinanza di rimessione, per la quale la sostituzione del difensore con altro patrocinatore deve avvenire nel rispetto delle disposizioni che regolano i singoli istituti processuali, e quindi, nella specie, della norma dell'art. 613 cod. proc. pen., il Supremo Collegio si è limitato a rilevare come, nel caso in esame, l'atto di ricorso e le successive memorie siano state sottoscritte da un difensore iscritto nell'albo speciale della Corte di cassazione, nel pieno rispetto, quindi, di quanto stabilito dalla previsione normativa di riferimento.

3. L'irrilevanza dello stato di latitanza dell'imputato.

Le conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite, in ordine alla ritenuta ammissibilità del ricorso in cassazione proposto da un avvocato cassazionista nominato sostituto dal difensore dell'imputato, di fiducia o di ufficio, non cassazionista, non subiscono modificazioni per il fatto che, nei procedimenti in esame, gli indagati, subita l'espulsione dal territorio nazionale, siano divenuti irreperibili, restando estranei all'evoluzione del rapporto processuale.

Ciò vale, in primo luogo, con riferimento all'ipotesi in cui la nomina del difensore cassazionista in qualità di sostituto processuale è stata effettuata dal difensore di fiducia non cassazionista dell'imputato (procedimento Ahmed).

In tale ipotesi, infatti, alle argomentazioni espresse dalla Sezione rimettente - per la quale era possibile ottenere un'adeguata assistenza legale ed essere esercitata la facoltà di impugnazione in modo conforme alle prescrizioni normative, imponendo al difensore di fiducia non abilitato di mantenere contatti con il suo assistito, suggerendogli di scegliere altro legale in grado di assisterlo adeguatamente nel giudizio di legittimità, anziché effettuare di propria iniziativa la nomina di un sostituto processuale - è stato inequivocamente obiettato dal Supremo Collegio che esse «non sembrano considerare le evidenti difficoltà in cui versa il latitante per la necessità di nascondersi con conseguente impossibilità materiale di provvedere adeguatamente alla sua difesa, difficoltà che, di contro, risultano convenientemente valorizzate nella giurisprudenza di questa Corte (si pensi, ad esempio, alla applicazione estensiva dell'art. 96, comma 3, cod. proc. pen. con il riconoscimento anche per il latitante della possibilità di nomina di un difensore di fiducia da parte di un prossimo congiunto: Sez. 4, n. 7962 del 27 aprile 1999, Tuliozzi, Rv. 214594; Sez. 2, n. 19619 del 13 febbraio 2014, Bruno, Rv. 259930)».

Allo stesso modo, le Sezioni Unite hanno ritenuto inidoneo lo stato di latitanza dell'imputato ad inficiare l'affermazione di ammissibilità del ricorso in cassazione proposto da un avvocato cassazionista nominato quale sostituto processuale dal difensore di ufficio non cassazionista dello stesso imputato (procedimento Taysir).

In proposito le Sezioni Unite hanno ribadito quanto già affermato nella pronuncia Sez. U, n. 24486 del 11 luglio 2006, Lepido, Rv. 233919, osservando che se è vero che è inammissibile il ricorso per cassazione proposto nell'interesse dell'imputato latitante dal difensore di ufficio non iscritto nell'albo speciale, per difetto di legittimazione, è pure vero che tale difensore ha sempre la facoltà di chiedere di essere sostituito a norma degli artt. 97, comma 5, cod. proc. pen. - che è norma derogatoria alla generale regola della immanenza della difesa di ufficio - e 30 disp. att. cod. proc. pen.

La disciplina vigente, infatti, prevede espressamente, come primo rimedio per il difensore di ufficio impossibilitato ad adempiere all'incarico, la nomina di un sostituto per superare l'ostacolo. Solo per il difensore impossibilitato ad adempiere all'incarico che non abbia provveduto a nominare un sostituto é stabilita la possibilità di azionare la procedura prevista dagli artt. 97, comma 5, cod. proc. pen. e 30 disp. att. cod. proc. pen., avvertendo immediatamente l'autorità giudiziaria, indicando le ragioni della impossibilità alla difesa (il giustificato motivo) e chiedendo la sostituzione.

Ne discende che la possibilità per il difensore di ufficio impossibilitato ad adempiere all'incarico di nominare un sostituto per ovviare alla situazione deve ritenersi legislativamente prevista come primo strumento per superare l'ostacolo.

Qualora non si ritenga di avvalersi di tale rimedio, si potrà pur sempre richiedere la sostituzione del difensore con altro idoneo all'autorità giudiziaria, trattandosi di giustificato motivo.

Conclusivamente, pertanto, «una volta ritenuto che il caso in esame va ricompreso tra quelli in cui è possibile azionare la procedura di sostituzione ex art. 97, comma 5, cod. proc. pen., non può non rilevarsi che il nuovo testo dell'art. 30, comma 3, disp. att. cod. proc. pen. attribuisce espressamente in prima battuta al difensore di ufficio impossibilitato ad adempiere all'incarico la facoltà di nominare un sostituto idoneo al superamento del- l'ostacolo».

SEZIONE II ATTI

  • procedura penale
  • posta elettronica
  • domicilio
  • delitto contro la persona
  • udienza giudiziaria
  • servizio postale
  • vittima
  • avvocato

CAPITOLO I

QUESTIONI IN TEMA DI NOTIFICAZIONI

(di Andrea Antonio Salemme )

Sommario

Parte prima: profili generali - 1 Le notificazioni tra conoscenza presunta e conoscenza effettiva. - 2 La rilevanza della conoscenza effettiva in giurisprudenza: le notificazioni a mezzo del servizio postale. - 3 Esigenza dell'avviso di ricevimento della lettera raccomandata che informa il destinatario dell'avvenuto recapito dell'atto al terzo estraneo. - 4 Contestazione della relazione di notificazione, effettuata segnatamente a mezzo del servizio postale. - 5 Notificazione vs. avviso. - 5.1 Le varie declinazioni dell'avviso nel codice: l'avviso come monito. - 5.2 L'avviso come attività di avvisare, in relazione all'indagato o imputato. - 5.2.a L'avviso come attività di avvisare, in relazione al difensore. - 5.3 L'avviso come oggetto della messa a conoscenza, sub specie di autentica notificazione o di mera partecipazione. La differenza nel codice. - 5.3.a La differenza nella giurisprudenza. - 6 Casistica: l'udienza di convalida dell'arresto o del fermo. - 6.1 Le impugnazioni cautelari. - 6.2 La notificazione alla persona offesa della richiesta di archiviazione. - 6.3 La notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari. - 6.4 L'udienza preliminare. - 6.5 La notificazione dell'avviso di deposito delle motivazioni della sentenza in generale. - 6.5.a La notificazione dell'avviso di deposito delle motivazioni della sentenza con riferimento all'imputato contumace. - 6.5.b (Segue) con riferimento all'auto-assegnazione da parte del giudice di pace di un termine superiore a quello quindicinale. - Parte seconda: l'imputato - 1 L'utilizzo di mezzi tecnici idonei, con particolare riguardo al fax. - 1.1 L'impiego del fax ad opera delle parti. - 2 La posta elettronica certificata. - 3 La notificazione all'imputato mediante consegna al difensore di fiducia ex art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen. - 3.1 (Segue) Prevalenza o meno rispetto al domicilio dichiarato od eletto. - 3.2 Operatività nelle impugnazioni. - 4 La notificazione all'imputato mediante consegna al difensore ex art. 161, comma 4, cod. proc. pen. - 5 Questioni "operative" sull'art. 161 cod. proc. pen. - 6 Violazione dell'art. 161 cod. proc. pen. in rapporto alla restituzione nel termine ed alla rescissione del giudicato. - 7 Elezione o dichiarazione di domicilio contenute in un verbale di p.g. non sottoscritto. - 8 Aggiornamento ufficioso della dichiarazione di domicilio. - 9 L'elezione di domicilio dell'imputato detenuto. - 10 Vicende soggettive del difensore domiciliatario. - Parte terza: la persona offesa - 1 Introduzione. - 2 Previsioni generali applicabili alla persona offesa di per se stessa considerata. - 3 Previsioni speciali applicabili alla persona offesa da delitti commessi con violenza alla persona. - 3.1 Snodi problematici sui delitti commessi con violenza alla persona. - 3.2.a Notificazione alla persona offesa della richiesta di revoca o sostituzione di misura cautelare ex art. 299, commi 3 e 4-bis, cod. proc. pen.: presupposti. - 3.2.b Necessità a fronte di presentazione in udienza. - 4 Casistica sull'omissione di avvisi e notificazioni alla persona offesa in relazione a talune fasi del procedimento.

Parte prima: profili generali.

1. Le notificazioni tra conoscenza presunta e conoscenza effettiva.

La definizione comunemente accettata secondo cui la notificazione è lo strumento per il tramite del quale gli atti recettizi sono portati a conoscenza dei destinatari consente di coglierne l'essenzialità in definitiva come veicolo legale di conoscenza. In tal guisa, ne emerge la rilevanza come presupposto del diritto di azione, da intendersi, quanto alla persona raggiunta da un procedimento penale, nella declinazione tipicamente difensiva. Pertanto la notificazione, ai sensi di una rigida lezione degli artt. 24 e 111 Cost., esigerebbe di essere strutturata in modo da assicurare una conoscenza effettiva dell'atto veicolato.

Così tuttavia non può sempre accadere, perché il destinatario contro-interessato avrebbe buon gioco a sottrarsi alla consegna. Se ne dimostra avvertito l'art. 157, comma primo, cod. proc. pen., che - con salvezza di quanto previsto dai successivi artt. 161 e 162, recte, di quanto previsto in particolare dall'art. 161, comma 1, circa l'invito di giudice, pubblico ministero o polizia giudiziaria, in sede di iniziale "intervento della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato non detenuto né internato", a dichiarare un luogo od eleggere domicilio per le notificazioni - statuisce bensì che "la prima notificazione all'imputato non detenuto è eseguita mediante consegna di copia alla persona", ma subito in appresso si occupa anche del caso in cui non sia "possibile consegnare personalmente la copia".

Pertanto il sistema (finanche in relazione all'indagato o imputato) è tarato sulla possibilità fisiologica di uno scostamento tra conoscenza effettiva e conoscenza presunta. Quest'ultima, consistendo nella conoscenza assicurata dall'osservanza della ritualità della notificazione, è di per sé sufficiente a far progredire il procedimento, nel rispetto dei canoni di efficienza e di ragionevole durata (artt. 111 Cost. e 6 CEDU). Essa, in quanto legale, conserva ancora oggi valenza euristica all'opinione espressa da Sez. 6, n. 5505 del 14/04/1999, Gagliano Giorgi M., Rv. 213684, a termini della quale, "sia nel codice processuale vigente sia in quello abrogato", il compimento della notificazione, "sempre che siano compiute le formalità prescritte e la legge sia rispettata, non permette che possa essere fornita la prova di mancata conoscenza dell'atto o di mancata conoscenza entro un determinato termine utile".

Eppure non può pretermettersi come sia stato proprio il codice di procedura penale del 1988 ad aprire un varco a quel fenomeno icasticamente definito in dottrina di erosione dell'equiparazione tra conoscenza presunta e conoscenza effettiva, attribuendo rilievo anche solo alla "probabilità" di non "effettiva conoscenza". Ne offrono testimonianza l'immutato art. 157, comma quinto; l'art. 175, comma secondo, vecchio testo[1], peraltro dichiarato costituzionalmente illegittimo da C. Cost., 04/12/2009, n. 317, nella parte in cui non consentiva la restituzione dell'imputato, che non avesse avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, qualora analoga impugnazione fosse stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato; l'art. 420-bis, vecchio testo[2]; l'art. 420-quater, comma quarto, vecchio testo[3].

Oggi la legge 28 aprile 2014, n. 67, dovrebbe risolvere i problemi di difettevole consistenza della conoscenza effettiva rispetto alla conoscenza presunta. Sostituita la contumacia, che aveva come presupposti la regolarità della notificazione della fissazione dell'udienza preliminare o dibattimentale e la mancata comparizione dell'imputato per causa non dovuta a legittimo impedimento, con l'assenza, che non blocca la progressione del procedimento se v'è la prova che l'imputato ne ha conoscenza o si è volontariamente sottratto alla conoscenza dello stesso o di suoi atti (art. 420-bis, commi primo e secondo, cod. proc. pen.), egli in tanto è legittimamente assente in quanto, consapevole della pendenza del procedimento, sceglie di non parteciparvi o comunque di disinteressarsene.

In linea teorica, frizioni potrebbero seguitare a ravvisarsi nel caso di notificazioni della fissazione dell'udienza effettuate ex art. 161, comma quarto, cod. proc. pen.; tuttavia esse non hanno ragione d'esistere, dal momento che, alla stregua di Sez. 2, n. 2291 del 27/10/2015 (dep. 20/01/2016), P.M. in proc. Harca, Rv. 265775, una volta effettuata una valida notificazione dell'atto di esercizio dell'azione penale pur ex art. 161, comma quarto, cod. proc. pen., il giudizio è altrettanto validamente instaurato, con la conseguenza che detta notificazione vota addirittura all'abnormità funzionale la sospensione effettuata in seguito all'infruttuoso espletamento di nuove ricerche (dovendosi nella fattispecie concludere che il comportamento dell'imputato il quale, dopo essere stato fermato dalla polizia ed aver subito il sequestro di una carta di credito di provenienza furtiva, si era rifiutato di dichiarare o eleggere domicilio costituisse prova della conoscenza dell'esistenza procedimento).

2. La rilevanza della conoscenza effettiva in giurisprudenza: le notificazioni a mezzo del servizio postale.

La valorizzazione della rilevanza della mancata effettiva conoscenza ha trovato conforto in C. Cost., 23/09/1998, n. 346, la quale, quantunque sgorgata da una pregiudizialità insorta in sede civile, che assumeva come tertium comparationis l'art. 140 cod. proc. civ., nell'affermare l'illegittimità costituzionale dell'allora vigente art. 8, commi secondo e terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890, sulla "notificazione di atti a mezzo [della] posta [recte, del servizio postale] e di comunicazioni a mezzo [della] posta [recte, del servizio postale] connesse con la notificazione di atti giudiziari"[4], era tuttavia destinata a spiegare evidenti riverberi altresì in sede penale, soprattutto relativamente all'assenza di persone abilitate a ricevere l'atto o al rifiuto di queste di riceverlo (art. 157, commi settimo ed ottavo, cod. proc. pen.).

L'adeguamento costituzionale del comma secondo è sopravvenuto, attraverso la previsione dall'ulteriore avviso al destinatario, dapprima con le modifiche introdotte dall'art. 174 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, dappoi con la sostituzione compiuta dall'art. 2, comma quarto, lettera c), del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, conv., con mod., in legge 14 maggio 2005, n. 80, il quale ultimo ha riscritto anche il resto dell'art. 8 1. n. 890 del 1982. Completa il quadro la constatazione che la cautela accessoria che ne occupa è stata infine estesa alla fattispecie di cui all'art. 7 1. n. 890 del 1982 dall'art. 2-quater del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, conv., con mod., in legge 28 febbraio 2008, n. 31.

3. Esigenza dell'avviso di ricevimento della lettera raccomandata che informa il destinatario dell'avvenuto recapito dell'atto al terzo estraneo.

La diatriba tra conoscenza presunta e conoscenza effettiva è ancora oggi accesa proprio nel settore delle notificazioni a mezzo del servizio postale.

Sez. 2, n. 13900 del 05/02/2016, Firenze, Rv. 266718, sostiene che, dopo la 1. n. 31 del 2008, la notificazione a mezzo della posta eseguita mediante consegna a persona diversa dal destinatario, pur se al domicilio dichiarato, non può considerarsi perfezionata con la sola spedizione della lettera raccomandata che informa il destinatario dell'avvenuto recapito dell'atto al terzo estraneo, poiché è necessaria - notasi - la prova certa anche della ricezione della predetta raccomandata da parte del medesimo.

L'insegnamento della S.C. - la quale in motivazione osserva che "ogni adempimento finalizzato alla corretta instaurazione del contraddittorio deve essere portato a buon fine, e di ciò deve esistere prova certa in atti, poiché, in caso contrario, averlo disposto senza portarlo a compimento equivarrebbe a non averlo disposto (del che è testimonianza, a contrariis, il principio generale del raggiungimento dello scopo, cui l'art. 183 cod. proc. pen. riconosce efficacia sanante di eventuali nullità)" - si pone in dichiarato contrasto con Sez. 6, n. 3827 del 17/11/2010, Parolini, Rv. 249370, secondo cui (come vuole la massima) la notificazione non può certamente considerarsi perfezionata senza l'ulteriore adempimento della spedizione al destinatario della lettera raccomandata che lo informa dell'avvenuto recapito dell'atto al terzo estraneo, epperò (come puntualizza la motivazione) non occorre che sussista in atti la prova che quegli abbia ricevuto la raccomandata.

4. Contestazione della relazione di notificazione, effettuata segnatamente a mezzo del servizio postale.

Il procedimento di notificazione per posta ha offerto l'occasione alla S.C. di affrontare il tema della certezza anche da un differente punto di vista, concernente la contestazione delle risultanze attestate dalle formalità.

Sez. 3, n. 7865 del 12/01/2016, Vecchi, Rv. 266279, proclama che, al fine di escludere che la firma apposta per il ritiro del piego sia riconducibile al destinatario, è necessario proporre querela di falso, "in quanto istituto elettivamente predisposto a privare l'atto falso della sua attitudine probatoria, mentre non è sufficiente che l'interessato presenti una denuncia penale di falso nei confronti del pubblico ufficiale". La ragione di tanto rigore è espressa in motivazione, laddove si dice che la querela di falso appare l'unico strumento capace di assurgere ad una capacità contestativa adeguata, sia perché, sul piano funzionale, finalizzato ad accertare se un documento, in quanto falso, deve essere eliminato dal circuito delle prove legali, sia perché, sul piano dimostrativo, aggrava coerentemente il querelante dell'introduzione di allegazioni e prove più stringenti sulla falsità in sé del documento rispetto all'atto di avvio di un'indagine incentrata, piuttosto, sulla responsabilità dell'autore dell'immutatio veri. La pronuncia rimanda a Sez. 6, n. 47164 del 05/11/2013, Kandji, Rv. 257267, ma assume una dimensione generalizzante che quest'ultima non ha, precisando, sì, che solo la querela di falso, e non anche l'allegazione dell'illegittimità della sottoscrizione, vale ad escludere la riconducibilità al destinatario della firma apposta per il ritiro del piego raccomandato presso l'ufficio postale a seguito del rilascio di avviso di deposito presso l'abitazione, tuttavia in difetto di allegazione della mancata ritualità degli adempimenti dell'addetto al servizio.

Più in generale, la contestabilità della relazione di notificazione trova soluzioni non univoche in giurisprudenza, ferma, sul punto, a qualche anno fa.

Un primo orientamento (espresso funditus da Sez., 2, n. 12622 del 19/10/1999, Fazio, Rv. 214411) ammette la libera valutazione del giudice in ordine alle attestazioni contenute nella relazione di notificazione, giacché l'art. 168 cod. proc. pen. non contiene la statuizione dell'art. 176 cod. abr., secondo cui detta relazione "fa fede fino ad impugnazione di falso, per quanto l'ufficiale che eseguì la notificazione attesta aver fatto o essere avvenuto in sua presenza" (ulteriormente, a livello pratico, Sez. 5, n. 26650 del 07/05/2004, Canins e al., Rv. 229879, ne trae la conseguenza che integra un mero errore materiale, pertanto emendabile, l'attestazione nella relazione della consegna di un atto diverso da quello in effetti consegnato).

Un secondo orientamento sostiene, invece, in linea con i due precedenti relativi alla notificazione per posta testé evocati, che, ove si contesti il contenuto della relazione per difformità dal vero, "l'unico rimedio possibile è la querela di falso, trattandosi di una attestazione operata dal pubblico ufficiale, all'esito di quanto da lui in merito compiuto agli effetti della ritualità della notifica di un provvedimento" (Sez. 6, n. 26066 del 26/04/2004, Cecchetelli, Rv. 229460).

Ma vi è anche un terzo orientamento, proiettato oltre il segno del secondo, giacché reclama la prova che il pubblico ufficiale notificatore abbia commesso un vero e proprio delitto di falso (Sez. 2, n. 13748 del 10703/2009, Scintu, Rv. 244056, stigmatizzante l'essersi il ricorrente limitato ad allegare al ricorso una copia del verbale di ricezione di querela di falso da parte della p.g. senza alcun'altra dimostrazione dell'instaurazione di un procedimento penale).

Ancora, una variante del terzo orientamento tenta una spiegazione dogmatica, facendo derivare la conseguenza per cui "la parte che vuole addurre la falsità delle modalità di notificazione attestate dall'ufficiale notificatore non può provarla se non dimostrando rigorosamente che il pubblico ufficiale è incorso nel reato di cui all'art. 479 cod. pen." dalla premessa per cui, "nonostante la mancata previsione che la relazione di notifica fa fede sino a querela di falso, il giudice non può liberamente valutare tale atto, il quale conserva la qualità di atto pubblico con carattere fidefaciente" (Sez. 3, n. 44687 del 07/10/2004, Delle Coste, Rv. 230315).

5. Notificazione vs. avviso.

Dalla notificazione va tenuto distinto l'avviso, nonostante che la piattaforma di significato dei due lemmi appaia prima facie sovrapponibile, in quanto entrambi indicano, al fondo, una compartecipazione di conoscenza. Proceduralmente, però, l'avviso è altro dalla notificazione, perché può indicare sia il contenuto di un monito sia l'attività in sé di avvisare e quindi di informare sia infine l'atto o il documento o la situazione che costituisce oggetto della partecipazione e che, in tal guisa, può diventare il punto di riferimento - anche, ma non solo - della notificazione.

5.1. Le varie declinazioni dell'avviso nel codice: l'avviso come monito.

A rilevare agli effetti del presente scritto sono soprattutto la seconda e la terza accezione dell'avviso, poiché la prima allude - peraltro più secondo il linguaggio della prassi che non del codice, impostato con precisione tecnica sull'area semantica degli "avvertimenti" - all'ammonizione quale anticipata ed individualizzata esplicitazione di determinate conseguenze.

Il caso di scuola è quello degli avvertimenti da somministrarsi all'interrogando ex art. 64, comma terzo, cod. proc. pen., comunemente intesi a mo' di avvisi. Così, per esempio, Sez. 1, n. 25613 del 17/03/2016, Almagasbi, Rv. 267121, ribadisce che le dichiarazioni etero-accusatorie rese dall'indagato che abbia ricevuto solo gli avvisi previsti dall'art. 64, comma terzo, lettere b) e c), cod. proc. pen., e non anche quello di cui alla lettera a), sono utilizzabili nei confronti dei soggetti indagati di reato connesso ma non anche del dichiarante.

Vi sono però anche altri casi. Uno eclatante è quello dell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. circa l'avvertimento del diritto all'assistenza del difensore da somministrarsi alla persona sottoposta alle indagini presente al compimento degli atti indicati dall'art. 356 cod. proc. pen.: Sez. U, n. 15453 del 29/01/2016, Giudici, Rv. 266335, ne esclude la dovutezza quando la p.g. procede d'iniziativa ad un sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321, comma terzo-bis, cod. proc. pen., la lettera dell'art. 114 cit. riferendosi soltanto agli atti di cui all'art. 356 cod. proc. pen., in considerazione della vocazione probatoria di questi ultimi e della conseguente necessità di controllo della regolarità dell'operato della polizia giudiziaria.

Tenuta presente tale giustificazione, una certa similitudine con l'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. ricorre a proposito di quello che è però un vero e proprio avviso da darsi all'interessato, anche oralmente, a cura dell'organo che, nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da legge o decreti, procede ad analisi di campioni per le quali non è prevista la revisione. In particolare, una vocazione ibrida probatorio-difensiva traspare dall'ultimo periodo del comma primo dell'art. 223 disp. att. cod. proc. pen., che abilita l'interessato a partecipare alle operazioni, eventualmente con l'assistenza di un consulente tecnico. Ciò nonostante, Sez. 3, n. 17419 del 03/03/2016, Bezzi, Rv. 266835, intervenuta in una comunissima vicenda di misurazione dell'inquinamento delle acque, ripropone la conclusione tralaticia per cui "l'avviso per l'espletamento delle analisi non deve essere necessariamente consegnato al titolare dello scarico, essendo sufficiente che venga dato a persona operante nell'insediamento e presente sul posto". La ragione, come illustrato in motivazione, risiede in ciò che, imponendo la deteriorabilità dei campioni di procedere in tempi brevi, rientra nella capacità organizzativa del titolare predisporre ogni accorgimento utile affinché le informazioni necessarie gli siano comunicate in sua precaria assenza. D'altronde, allargando l'orizzonte speculativo, le attività ispettive o di vigilanza di cui si ragiona hanno natura amministrativa, in quanto, nel momento in cui ha luogo la verifica, nessuna notizia di reato è ancora acquisita al fascicolo, potendo al più scaturire dagli esiti della verifica stessa; sicché consona appare un'attenuazione della rigidità delle garanzie partecipative applicabili in seno al procedimento penale.

Si indugia ancora sull'avviso-avvertimento per ricordare che identica accezione contenutistica dell'avviso rileva in un costrutto, di fonte però esclusivamente giurisprudenziale, relativo ad un ambito pur tuttavia affatto diverso, qual è quello della remissione tacita (o implicita) di querela, destinato auspicabilmente a sedimentare dopo Sez. U, n. 31668 del 23/06/2016, P.G. in proc. Pastore, Rv. 267239, la quale, con lodevole intento pragmatico, statuisce che va intesa come remissione tacita "la mancata comparizione alla udienza dibattimentale (nella specie davanti al giudice di pace) del querelante" purché "previamente ed espressamente avvertito dal giudice che l'eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela". A rendere ragione del travaglio retrostante a detta conclusione valga ricordare che essa va in senso contrario rispetto ad altra sentenza delle Sez. U, n. 46088 del 30/10/2008, P.M. in proc. Viele, Rv. 241357, secondo cui, viceversa, nel procedimento davanti al giudice di pace instaurato a seguito di citazione disposta dal P.M., la mancata comparizione del querelante - pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata ritenuta concludente nel senso della remissione tacita della querela - non costituisce fatto incompatibile con la volontà di persistere nella stessa, sì da integrare la remissione tacita.

5.2. L'avviso come attività di avvisare, in relazione all'indagato o imputato.

Il luogo di estrinsecazione dell'avviso come paradigma dell'attività di avvisare emerge nella celebrazione dell'udienza, governata dalla regola dell'art. 148, comma quinto, cod. proc. pen., per cui "la lettura dei provvedimenti alle persone presenti e gli avvisi che sono dati dal giudice verbalmente agli interessati in loro presenza sostituiscono le notificazioni, purché ne sia fatta menzione nel verbale".

A venire in linea di conto è quanto indicato nel verbale, e non l'annotazione, ad esempio, della data di rinvio dell'udienza sul c.d. modello 16, poiché i registri di cancelleria, che per l'art. 2, comma terzo, del decreto ministeriale 30 settembre 1989, n. 334, sono "tenuti in luogo non accessibile al pubblico" e "possono essere consultati solo dal personale autorizzato", non sono atti pubblici fidefacienti del loro contenuto (Sez. 3, n. 35864 del 31/05/2016, Ponticorvo, Rv. 267642; ma, all'opposto, Sez. 2, n. 35616 del 13/07/2007, Acampora e al., Rv. 237167, opina che il registro utilizzato dalle cancellerie giudiziarie per l'annotazione del deposito delle minute delle sentenze, benché sussidiario e non obbligatorio, sia atto pubblico fidefaciente, con conseguente valore di prova documentale).

Chiarito l'aspetto documentativo, lo snodo dell'argomento riguarda la presenza fisicamente intesa e di converso la rilevanza, in funzione dell'attivazione degli oneri di messa a conoscenza, dell'assenza.

In generale, il detenuto è onerato di avanzare tempestiva richiesta di eventuale rinvio per legittimo impedimento e comunque di traduzione. Lo afferma Sez. 2, n. 26263 del 03/06/2016, Aiello, Rv. 267156, che, a proposito di un imputato detenuto a Milano il quale, dopo aver formalizzato rinuncia a comparire all'udienza d'appello da celebrarsi a Palermo, l'aveva revocata mediante dichiarazione resa all'autorità carceraria solo nella tarda mattinata del giorno precedente l'udienza in cui motivava detta rinuncia con ragioni di salute e deduceva l'impossibilità di viaggiare, sottolinea la necessità che l'istanza di rinvio pervenga in tempo utile, tenuto conto della lontananza, onde consentire di disporre se del caso la traduzione (avendo con motivazione incensurabile la corte territoriale ritenuto che l'assoluto impedimento a comparire non fosse dimostrato). La rilevanza del tempo utile per disporre - ed effettuare - la traduzione ricorre anche in Sez. 2, n. 28780 del 22/06/2016, Milojevic, Rv. 267481, che, rispetto all'udienza camerale d'appello, dopo aver adesivamente richiamato Sez. U, n. 35399 del 24/06/2010, F., Rv. 247836, secondo cui la mancata traduzione non disposta o non eseguita dell'imputato detenuto che ha tempestivamente manifestato in qualsiasi modo la volontà di comparire determina la nullità assoluta ed insanabile del giudizio camerale e della relativa sentenza, esclude tuttavia la tempestività di una richiesta di presenziare avanzata il pomeriggio del giorno precedente l'udienza, in orario di chiusura della cancelleria, così rendendo impossibile la traduzione.

Con riferimento all'imputato non detenuto in procedimenti ancora soggetti alla disciplina della contumacia, Sez. 6, n. 30705 del 24/06/2016, K., Rv. 267684, riafferma che, in caso di rinvio del dibattimento ad udienza fissa prima del compimento degli atti introduttivi, se non è stata ancora dichiarata la contumacia, va disposta la rinnovazione della citazione all'imputato (evidentemente in quanto non rappresentato dal difensore ex art. 420-quater, comma secondo, cod. proc. pen.) per la nuova udienza, rinnovazione che però può essere eseguita anche attraverso la notificazione della sola ordinanza che dispone il rinvio. Sia consentito di richiamare l'attenzione sull'evocazione della notificazione, giacché, circa le conseguenze dell'omessa partecipazione del rinvio, Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015 (dep. 07/07/2016), Bonomelli e al., Rv. 267046, spostando il registro linguistico sull'avviso anziché sulla notificazione, ripropone la tesi recentemente consolidatasi per cui "l'omesso avviso del rinvio dell'udienza" all'imputato non impedito a comparire e non ancora dichiarato contumace comporta, sì, una nullità, ma "di ordine generale a regime intermedio che deve essere eccepita dal difensore nella prima occasione utile, ai sensi dell'art. 182, comma secondo, cod. proc. pen., e non, invece, una nullità assoluta", non ricorrendo la figura dell'omessa citazione. Detta pronuncia riprende pressoché alla lettera Sez. 1, n. 18147 del 02/04/2014, Messina, Rv. 261995, e Sez. 5, n. 13283 del 17/01/2013, Bucca, Rv. 255188, che tuttavia contrastano rispetto ad altro orientamento - espresso da ultimo da Sez. 5, n. 45127 del 28/05/2013, De Vecchi, Rv. 257557, e da Sez. 4, n. 47791 del 22/11/2011, Cravana e al., Rv. 252461 - il quale, dalla comune premessa dell'impossibilità di ritenere perfezionata la rappresentanza in capo al difensore ex art. 420-quater cod. proc. pen., fa però discendere la conseguenza radicale della nullità assoluta della citazione, insanabile e rilevabile in ogni stato e grado del procedimento.

Rispetto all'imputato contumace, Sez. 6, n. 33261 del 03/06/2016, Lombardo, Rv. 267669, rammenta l'ovvio, ossia che non è necessaria la "comunicazione" personale al medesimo - "né a quello oggi dichiarato assente" - dell'"avviso del trasferimento del luogo di celebrazione del processo dalla sede distaccata soppressa ad altra sede distaccata, essendo egli rappresentato dal difensore ed essendo previsto solo in specifiche ipotesi che egli debba essere avvisato personalmente di un fatto processuale".

5.2.a. L'avviso come attività di avvisare, in relazione al difensore.

Meramente assente può essere anche il difensore.

La testé evocata Sez. 6, n. 33261 del 2016, Rv. 267670, si è occupata della dedotta omissione di pronuncia su un'istanza di rinvio dell'udienza per legittimo impedimento del difensore di fiducia, escludendo che ne fosse derivata alcuna nullità dell'udienza non rinviata e di una seguente, atteso che, nelle ridette udienze, non si era svolta alcuna attività processuale, mentre il difensore medesimo aveva regolarmente preso parte alle successive con il pieno esercizio del suo ruolo. Il principio di diritto è enunciato dalla massima in termini sganciati dalla fattispecie: "Quando una violazione processuale non determina, in concreto, alcun pregiudizio ai diritti di difesa, deve escludersi che la eventuale nullità possa estendersi anche agli atti successivi, ai sensi dell'art. 185 cod. proc. pen., in quanto tale effetto si produce solo quando sia stato effettivamente condizionato il compimento degli atti che sono conseguenza necessaria ed imprescindibile di quello nullo e non degli atti che si pongono semplicemente in obbligata sequenza temporale con quest'ultimo".

Detto principio può dirsi ormai acquisito al patrimonio procedurale, essendo ripetutamente affermato [da Sez. 1, n. 479 del 17/11/2015 (dep. 08/01/2016), Iero, Rv. 265854, e da Sez. 3, n. 30466 del 13/05/2015, Calvaruso, Rv. 264158, quanto medesimamente al legittimo impedimento del difensore; da Sez. 5, n. 8365 del 26/09/2013, Piscioneri, Rv. 259033, e da Sez. 2, n. 15417 del 12/03/2008, Cattaneo, Rv. 239792, quanto all'erronea dichiarazione di contumacia; nonché da Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, Battistella e al., Rv. 234353, quanto al legittimo impedimento dell'imputato ante legge Carotti].

5.3. L'avviso come oggetto della messa a conoscenza, sub specie di autentica notificazione o di mera partecipazione. La differenza nel codice.

Il concetto di avviso come punto di riferimento dell'attività di partecipazione può consistere in un atto oggetto o meno di notificazione.

Invero in taluni casi il legislatore prevede che l'avviso venga notificato: i più ricorrenti sono quelli degli artt. 127, comma primo; 128; 296, comma secondo; 309, commi terzo e ottavo; 311, comma primo; 324, commi secondo e sesto; 366, comma primo; 398, comma terzo; 406, comma quinto; 408, commi secondo e terzo-bis [inserito e poi modificato in sede di conversione dall'art. 2, comma 2, lettera g), del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, conv., con mod., in legge 15 ottobre 2013, n. 119]; 410, comma terzo; 415-bis, comma primo; 419, commi primo e secondo, 548, commi secondo e, nel v.t., terzo[5], cod. proc. pen.; mentre in altri che l'avviso venga semplicemente dato: i più ricorrenti sono quelli degli artt. 268, comma sesto; 294, comma quarto; 350, comma terzo; 351, comma primo-bis; 360, comma primo; 388, comma primo; 390, comma secondo; 467, comma secondo, cod. proc. pen.

5.3.a. La differenza nella giurisprudenza.

La distinzione tra le due categorie, ben lungi dall'essere dottrinaria, ha un eminente risvolto pratico. Non è mai stata revocata in dubbio, infatti, né nella giurisprudenza di legittimità né in quella di merito né nella prassi quotidianamente seguita negli uffici giudiziari, la dottrina di Sez. U, n. 23 del 12/10/1993, Morteo, Rv. 195624, che, nel giudicare legittimo ex art. 294, comma quarto, cod. proc. pen. 1'avviso di fissazione dell'interrogatorio di persona in stato di custodia cautelare dato personalmente al difensore a mezzo del telefono seppur non fatto seguire dalla conferma mediante telegramma, scolpisce il dictum per cui, ove, "ricorrendo una situazione di urgenza, la legge, in luogo di prevedere la 'notifica' dell'avviso, si limiti a stabilire che lo stesso [è] 'dato' al difensore, deve ritenersi sufficiente procurare al destinatario dell'avviso l'effettiva conoscenza della notizia, anche se questa è comunicata con forme diverse da quelle prescritte per le notificazioni"; ma, se è impossibile "procurare tale conoscenza 'effettiva', è solo la conoscenza 'legale' che può far ritenere osservata la norma che prescrive l'avviso, sicché in tal caso occorre usare le forme stabilite per le notificazioni, che costituiscono il mezzo normalmente previsto dal legislatore per portare a conoscenza delle persone atti del procedimento da compiere o già compiuti".

6. Casistica: l'udienza di convalida dell'arresto o del fermo.

Sulla richiesta di convalida dell'arresto o del fermo proveniente dal P.M., l'avviso dell'udienza, fissata dal G.I.P. "al più presto e comunque entro le quarantotto ore", è "dato", e non notificato, "senza ritardo, al pubblico ministero e al difensore".

Quid iuris se è omesso l'avviso in specie al difensore?

Sez. 1, n. 16587 del 18/12/2015 (dep. 21/04/2016), Stiranets e al., Rv. 267366, intervenuta in relazione ad un fermo, sposa il massimo grado di garantismo ed innovativamente conclude che l'omesso avviso al difensore - notasi - di ufficio "integra una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178, comma primo, lettera c), e 179, comma primo, cod. proc. pen., a nulla rilevando che in udienza sia stato presente un sostituto nominato ex art. 97, comma quarto, cod. proc. pen." (nondimeno aggiunge che "la mancata impugnazione dell'ordinanza di convalida preclude la rilevabilità del vizio relativo alla costituzione delle parti ed alla invalidità derivata degli atti in essa compiuti", compresa la lettura dell'ordinanza applicativa di misura cautelare, giacché l'interessato è prioritariamente tenuto ad impugnare l'ordinanza di convalida per vizio di costituzione delle parti all'udienza e, solo dopo aver ottenuto il riconoscimento della pertinente nullità, ha titolo per eccepire l'invalidità dell'interrogatorio e la conseguente inefficacia della misura cautelare applicata).

I due precedenti ufficialmente segnalati come conformi, perché egualmente propendono per la nullità assoluta in relazione all'omesso avviso al difensore dell'udienza per la convalida dell'arresto ed il contestuale giudizio direttissimo, sono in realtà diversi, riguardando il difensore di fiducia, liberamente scelto dall'interessato, e non quello di ufficio, meramente designato in applicazione di criteri automatici (trattasi di Sez. 3, n. 46714 del 11/10/2012, Ermonsele, Rv. 253873, e di Sez. 5, n. 1760 del 13/12/2004, Cerenza, Rv. 231291, secondo la quale ultima, in particolare, non importa che in sede di udienza l'interessato abbia revocato la nomina del difensore di fiducia e sia stato assistito da un difensore d'ufficio, ma solo perché la nullità già si è verificata prima della revoca).

Alla luce della differenza tra difensore di fiducia e difensore di ufficio, inconferente potrebbe rivelarsi altresì il richiamo a Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Maritan, Rv. 263598, che generalizza, sì, la sanzione della nullità assoluta, tuttavia per l'omesso avviso dell'udienza al difensore di fiducia - la cui nomina (leggesi, non a caso, in motivazione) rientra nel diritto di scelta assicurato dall'art. 6, comma terzo, lettera c), CEDU - quando è obbligatoria la presenza del difensore, a nulla rilevando (ovviamente, vien fatto di dire, in tal caso) che la notifica sia stata effettuata al difensore d'ufficio e che in udienza sia stato presente un sostituto nominato ex art. 97, comma quarto, cod. proc. pen.

Anche le sentenze che vanno in contrario avviso rispetto a Sez. 1, n. 16587 del 2016, ravvisando (tuttavia in difformità dalla sopravvenuta Sez. U, n. 24630 del 2015) un'ipotesi di semplice nullità d'ordine generale a regime intermedio, sanabile se non tempestivamente eccepita, concernono sempre l'omessa notificazione al difensore di fiducia (Sez. 6, n. 11817 del 13/02/2014, Medda, Rv. 262738; Sez. 5, n. 10637 del 12/02/2009, Caushi, Rv. 243164; Sez. 3, n. 42074 del 16/10/2008, Pusceddu, Rv. 241499; Sez. 2, n. 36 del 23/11/2004, Medile, Rv. 230225).

Ne deriva che Sez. 1, n. 16587 del 2016, siccome incentrata sul difensore d'ufficio, merita una riflessione a parte.

6.1. Le impugnazioni cautelari.

Svariate pronunce involgono il procedimento cautelare nella fase delle impugnazioni, viepiù inserendosi, in ben due frangenti, in contrasti di spessore.

Di ampio e discusso respiro è il tema della possibilità di dichiarare de plano l'inammissibilità dell'impugnazione cautelare, di cui si occupa Sez. 2, n. 18333 del 22/04/2016, Moccardi, Rv. 267083, propendendo per la soluzione positiva. Essa infatti recita che detta inammissibilità - siccome "sanzione specifica delle sole irregolarità attinenti al rapporto di impugnazione" (quanto all'impugnabilità oggettiva e soggettiva del provvedimento, al titolare del diritto di gravame, all'atto di impugnazione nelle sue forme e termini ed all'interesse ad impugnare) - "va dichiarata de plano, senza necessità di fissare l'udienza camerale e di avvisare i difensori", atteso che trova applicazione l'art. 127, comma nono, cod. proc. pen., prescrivente che l'inammissibilità dell'atto introduttivo del procedimento è dichiarata dal giudice con ordinanza, anche senza formalità di procedura, salvo che sia diversamente stabilito.

Siffatta soluzione è comune ad una nutrita serie di precedenti, che risalgono a Sez. 1, n. 18957 del 23/02/2001, Spagnoli, Rv. 218924, affatto precisa nel rimarcare come l'art. 127 cod. proc. pen., anche con riferimento al suo nono comma, sia richiamato in entrambi gli artt. 309, comma ottavo, e 310, comma secondo, cod. proc. pen., rispettivamente per il riesame e per l'appello. In seguito, Sez. 2, n. 22165 del 08/03/2013, Etzi, Rv. 255935, giudica legittima la declaratoria de plano di inammissibilità dell'istanza di riesame; Sez. 6, n. 8956 del 04/12/2006, Imperi, Rv. 235914, quella di inammissibilità dell'opposizione proposta a norma dell'art. 263, comma quinto, cod. proc. pen.; Sez. 3, n. 6993 del 11/01/2006, Romeo, Rv. 234050, quella di inammissibilità della richiesta di riesame del decreto di convalida del sequestro eseguito dalla polizia giudiziaria (art. 354 cod. proc. pen.). V'è poi Sez. 6, n. 5447 del 12/12/2001, Castellucci, Rv. 220872, che addirittura allarga le maglie temporali della declaratoria nel procedimento di riesame di misure cautelari reali, giacché, a suo dire, rispetto ad esso, non implicando la fissazione dell'udienza di cui all'art. 324, comma sesto, cod. proc. pen. "un vaglio positivo dell'ammissibilità dell'istanza", "il provvedimento de plano con il quale, a norma dell'art. 127, comma nono, cod. proc. pen., va dichiarata l'inammissibilità dell'atto introduttivo può essere adottato anche dopo la fissazione dell'udienza qualora i relativi presupposti legali vengono rilevati solo dopo tale momento e pur se a detta fissazione non abbia fatto seguito la spedizione dei rituali avvisi".

In senso difforme si collocano quelle pronunce che, valorizzando la garanzia del contraddittorio ex art. 111 Cost. "nell'ambito di ogni procedimento penale principale o incidentale, sia di merito che di legittimità", esigono l'adozione del provvedimento all'esito di un'udienza camerale (classicamente) partecipata (tra le altre, Sez. 3, n. 11690 del 03/03/2015, Antonov Roman, Rv. 262982; Sez. 2, n. 4260 del 17/12/2014, Caramellino e al., Rv. 263172; Sez. 6, n. 14560 del 02/12/2010, Liguori, Rv. 250023, tutte a proposito dell'inammissibilità dell'istanza di riesame avverso un decreto di sequestro probatorio; cui adde Sez. 3, n. 2021 del 25/11/2003, Simeone, Rv. 228603, a proposito dell'inammissibilità dell'istanza di riesame avverso un decreto di sequestro preventivo).

In disparte l'inammissibilità, un'ulteriore ardua questione riguarda l'ipotesi - non infrequente soprattutto nel segmento del riesame, che, però, come presto si vedrà, segue un binario parallelo a quello dell'appello, attesa la trasversalità del rito camerale - di omessa notificazione all'indagato dell'avviso di fissazione dell'udienza.

Nel contrasto che da tempo agita la giurisprudenza, Sez. 2, n. 3694 del 15/12/2015 (dep. 27/01/2016), Spinella, Rv. 265785, prende posizione per la tesi secondo cui la ridetta omissione genera (solo) una nullità di ordine generale a regime intermedio, soggetta ai limiti di deducibilità di cui all'art. 182 cod. proc. pen. ed alla sanatoria di cui all'art. 184 cod. proc. pen.

Detta sentenza segue le orme di Sez. 2, n. 16781 del 08/04/2015, Ragaglia, Rv. 263762, e di Sez. 1, n. 1930 del 30/04/1993, Rapisarda, Rv. 194249, intente ad evidenziare che la soggezione alla disciplina degli artt. da 180 a 182 cod. proc. pen. si spiega alla luce della duplice considerazione per cui la nullità né è definita assoluta dall'art. 127, comma quinto, cod. proc. pen. né attiene ad un'ipotesi in cui è obbligatoria la presenza del difensore.

La tesi contraria, che trova origine nell'ormai lontana Sez. 1, n. 2020 del 28/03/1996, Di Ciccio, Rv. 204536, argomenta la ricorrenza di una nullità assoluta, insanabile e rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, prevista dagli artt. 178, comma primo, lettera c), e 179, comma primo, cod. proc. pen. per il caso di omessa citazione dell'imputato, costituendo l'omesso avviso una "palese violazione del diritto dell'indagato di partecipazione al procedimento"; peraltro le esigenze di tenuta dell'efficacia del titolo sono salvaguardate, poiché "tale nullità non determina, tuttavia, la perdita di efficacia della misura cautelare, che ha luogo nella sola ipotesi di decisione non intervenuta nel termine perentorio di dieci giorni dalla ricezione degli atti da parte del giudice del riesame".

A sottolineare la profondità del contrasto, la cui soluzione con tutta probabilità esige una riflessione più ampia sulla portata della deformalizzazione propria del rito camerale, soccorre la constatazione che la tesi di massimo rigore - ripresa in passato, sempre per il riesame, da Sez. 2, n. 47841 del 05/11/2003, D'Ascia, Rv. 227737 - è tornata ultimamente alla ribalta con una sentenza pressoché coeva a Sez. 2, n. 3694 del 2016, ancorché concernente l'appello cautelare. Sez. 3, n. 9233 del 19/11/2015 (dep. 07/03/2016), M., Rv. 266455, infatti, proclama che l'omesso avviso di fissazione dell'udienza, nella specie d'appello, in quanto correlato alla mancata citazione dell'indagato, determina una nullità assoluta ed insanabile. L'aspetto di maggior interesse sta in ciò che detta sentenza si dà peso di esplicitare una nuova prospettiva di approfondimento, rappresentata dalla premessa a termini della quale la notificazione al difensore "non può essere considerata equipollente alla notifica all'indagato espressamente prevista dall'art. 127 cod. proc. pen.". Dunque la non equipollenza autonomizza, sicuramente in stretta osservanza della littera legis, la posizione dell'indagato, impedendo travasi recuperatori verso il medesimo attinti da garanzie relative al difensore.

Da diverso angolo di visuale, il riesame è chiamato a confrontarsi con la mutata sensibilità attuale in ordine alla traduzione degli atti. Tuttavia Sez. 2, n. 25673 del 04/05/2016, Sha e al., Rv. 267120, aderendo alla lettera a Sez. 6, n. 48647 del 22/10/2014, Carbonaro Gonzalo, Rv. 261139, spiega i due motivi per cui "l'omessa traduzione dell'avviso di fissazione dell'udienza di riesame in lingua comprensibile all'indagato alloglotta, anche a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 32, non integra alcuna nullità, né con riferimento a tale atto, né con riferimento a quelli da questo dipendenti": sia perché "l'avviso in questione non è incluso nell'elenco degli atti per i quali l'art. 143, comma secondo, cod. proc. pen., come modificato da citato D.Lgs., prevede l'obbligo di traduzione"; sia anche, ed anzi soprattutto, perché esso non "esplica una funzione informativa in ordine alle 'accuse' mosse al destinatario della misura cautelare".

6.2. La notificazione alla persona offesa della richiesta di archiviazione.

A termini dell'art. 408, comma secondo, cod. proc. pen., ordinariamente la notificazione dell'avviso alla persona offesa della richiesta di archiviazione - che deve avvenire a cura del P.M. prima della trasmissione del fascicolo al G.I.P. - presuppone che la medesima, nella notizia di reato o dopo la sua presentazione, abbia formulato istanza di essere informata. Se si procede per un reato plurioffensivo, persona offesa avente diritto all'avviso è "anche la persona fisica sulla quale cade l'azione del colpevole, pur se l'incriminazione sia prevista a tutela di un interesse pubblico generale" (così - nella scia di Sez. U, n. 46982 del 25/05/2007, Pasquini, Rv. 237855 - Sez. 1, n. 26801 del 04/05/2016, P.O. in proc. Calò e al., Rv. 267112, relativamente alla contravvenzione di disturbo e molestia alle persone p. e p. dall'art. 660 cod. pen.).

A detta situazione ordinaria il comma terzo-bis affianca l'ipotesi che si proceda per "delitti commessi con violenza alla persona", nel qual caso "l'avviso della richiesta di archiviazione è in ogni caso notificato" - sempre "a cura del pubblico ministero" - "alla persona offesa", ma il termine di giorni dieci per presentare opposizione ex comma terzo è raddoppiato.

Qualche puntualizzazione è fatta dalla S.C. sul termine di giorni dieci, con argomentazioni che impongono un confronto di sostenibilità anche rispetto a quello di giorni venti.

Dicevasi che il P.M., quando trasmette il fascicolo al G.I.P., deve trasmetterglielo completo. Sez. 05, 04/02/2016, n. 28662, P.O. in proc. Landi, Rv. 267327, ne ricava a contrario che il P.M. è tenuto bensì ad osservare il termine dilatorio di dieci giorni per la trasmissione degli atti al G.I.P., ma solo se la persona offesa ha chiesto di essere avvisata. Se la persona offesa non l'ha chiesto, l'attesa sarebbe fine a se stessa. Par di potersi dire però che l'attesa, oltretutto protratta a giorni venti, non è fine a se stessa se si procede per delitti commessi con violenza alla persona (da intendersi, giusta Sez. U, n. 10959 del 29/01/2016, P.O. in proc. C., Rv. 265893, come reati caratterizzati da "violenza di genere" nel senso "risultante dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario" e quindi comprensivi degli atti persecutori e dei maltrattamenti in famiglia ex artt. 612-bis e 572 cod. pen.), giacché rispetto ad essi l'obbligo della notificazione dell'avviso della richiesta di archiviazione alla p.o. sussiste sempre, in quanto prescinde da alcuna istanza della medesima, con la conseguenza che la sua omissione, determinando la violazione del contraddittorio, è causa di nullità ex art. 127, comma quinto, cod. proc. pen. del decreto di archiviazione emesso de plano, per l'effetto impugnabile con ricorso per cassazione (Rv. 265894)[6].

Tornando ai casi ordinari del comma secondo, per costante giurisprudenza (ossequiata da Sez. 4, n. 18828 del 30/03/2016, P.O. in proc. Martelli, Rv. 266844), l'opposizione alla richiesta di archiviazione proposta oltre il termine di dieci giorni dalla notificazione dell'avviso della richiesta non ne determina eo ipso l'inammissibilità e quindi non esonera il G.I.P., che nel frattempo non abbia già provveduto, dal valutarla.

Infine, rilevato che, come già visto a proposito dei delitti commessi con violenza alla persona, l'omesso avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa che ha dichiarato di voler essere informata determina la violazione del contraddittorio e la conseguente nullità ex art. 127, comma quinto, cod. proc. pen. del decreto di archiviazione, diversi orientamenti si affastellano sul terreno dell'impugnazione.

Due pronunce ravvicinate - Sez. 3, n. 38745 del 19/05/2016, P.O. in proc. Pavia, Rv. 267579, e Sez. 4, n. 22227 del 21/04/2016, P.O. in proc. c. ignoti, Rv. 267279 - si accodano ad una nutrita schiera di precedenti nel sostenere che il decreto di archiviazione "può essere impugnato con ricorso per cassazione nel termine di impugnazione ordinario di quindici giorni, che decorre dal momento in cui la persona offesa ha avuto notizia del provvedimento". Precedenti più antichi propendono per l'insanabilità della nullità, che dunque potrebbe essere fatta valere, è vero, con ricorso per cassazione, senza però l'osservanza dei termini di cui all'art. 585 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 1508 del 13/12/2010, P.O. in proc. Giammona e al., Rv. 249085; Sez. 1, n. 18666 del 01/04/2008, P.O. in proc. Brughetto, Rv. 240331; Sez. 2, n. 46274 del 04/07/2003, Prochilo, Rv. 226975).

Un'isolata pronuncia ritiene che il termine per ricorrere per cassazione sia di giorni dieci (Sez. 3, n. 24063 del 13/05/2010, P.O. in proc. L., Rv. 247795).

6.3. La notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari.

Sez. 5, n. 11658 del 26/10/2015 (dep. 18/03/2016), P.M. in proc. Abdi Hussen, Rv. 266550, affronta la questione della traduzione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, giudicando abnorme l'ordinanza del G.U.P. dichiarativa della nullità dello stesso in presenza di un "legittimo dubbio" circa la conoscenza o meno della lingua italiana da parte dell'indagato (dubbio "non sorretto da alcuna indicazione del suo fondamento ed anzi smentito da atti che rilevavano una consapevole interlocuzione dell'imputato nel corso del procedimento"), atteso che la traduzione degli atti processuali nella lingua madre dell'indagato o imputato o in altra da lui conosciuta è dovuta solo nel caso di comprovato e dichiarato difetto di conoscenza.

Il tema del dubbio sulla conoscenza dell'italiano è di scottante attualità, in specie dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 32, perché agita un contrasto verosimilmente destinato a comporsi solo con l'intervento delle Sezioni Unite.

La sentenza testé citata ripete le cadenze in diverso contesto espresse da Sez. 5, n. 1136 del 26/10/2015 (dep. 13/01/2016), P.M. in proc. Hassan, Rv. 266069, la quale taccia sempre di abnormità l'ordinanza con cui il G.U.P., fondandosi sul mero dubbio circa la sconoscenza della lingua italiana da parte dell'imputato pur a fronte di verbale di elezione di domicilio redatto esclusivamente in italiano, aveva dichiarato la nullità - propagatasi a cascata - di tutte le notificazioni successive. Identicamente di abnormità ragionano due sentenze più risalenti: Sez. 4, n. 45944 del 11/11/2009, P.M. in proc. Baiaram e al., Rv. 245994, per cui "è abnorme l'ordinanza con la quale il tribunale, acquisito il verbale di elezione di domicilio dell'imputato, dichiari la nullità del decreto di citazione e di tutti gli atti di causa in relazione al fatto che non risultava se l'imputato - identificato a mezzo di carta di identità rilasciata in Romania - parlasse o capisse l'italiano"; e Sez. 5, n. 72 del 22/11/2005, P.M. in proc. Petrovic, e al., Rv. 232532, per cui è "abnorme . . .il provvedimento con il quale il giudice del dibattimento dichiari la nullità dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari e degli atti conseguenti, facendola derivare dalla mancata traduzione di detto avviso nella lingua dell'imputato straniero, quando questi sia rimasto sempre irreperibile e non risulti comunque dagli atti la mancata conoscenza, da parte sua, della lingua italiana".

Il contrasto sorge con due pronunce recentissime che, all'opposto, attribuiscono rilevanza al dubbio. Si tratta di Sez. 5, n. 11429 del 15/12/2015 (dep. 17/03/2016), P.M. in proc. Intriago, Rv. 266339, la quale esclude l'abnormità del provvedimento con cui il tribunale, in mancanza di prova della conoscenza della lingua italiana da parte dell'imputato, aveva dichiarato la nullità dell'instaurazione del rapporto processuale per l'omessa traduzione degli atti, disponendone la restituzione al P.M., "in quanto tale provvedimento costituisce l'esplicazione di un potere riconosciuto dall'ordinamento, anche quando fondato su un presupposto erroneamente ritenuto sussistente, e non determina una stasi indebita del procedimento, potendo il pubblico ministero esercitare nuovamente l'azione penale"; e di Sez. 5, n. 38109 del 08/07/2015, P.M. in proc. Bezusco, Rv. 265007, la quale esclude l'abnormità dell'ordinanza con cui il G.I.P. aveva dichiarato l'inefficacia dell'elezione di domicilio dell'imputato e la conseguente nullità della notificazione dell'avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen. e degli atti successivi per essere stato il verbale di elezione di domicilio redatto esclusivamente in italiano nonostante il dubbio che l'imputato non avesse compreso di essere sottoposto a procedimento penale.

Su un versante più propriamente procedimentale, in due occasioni, nel corso di quest'anno, la S.C. si è soffermata sulla rinnovazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari:

- con Sez. 5, n. 32780 del 10/05/2016, Iaria e al., Rv. 267397, per reputare non dovuta detta rinnovazione in favore dell'indagato a seguito di restituzione degli atti al P.M. scaturente da dichiarazione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio per omessa notificazione dell'avviso di cui all'art. 415-bis cod. proc. pen. al difensore, in quanto l'indagato medesimo è già legalmente informato dell'esistenza del procedimento, del contenuto dell'accusa e dell'intenzione del P.M. di promuovere l'azione penale;

- con Sez. 6, n. 12656 del 26/02/2016, Parlascino, Rv. 266870 (confermativa di Sez. 1, n. 32942 del 03/07/2008, Lafranceschina e al., Rv. 240675), per reputare parimenti non dovuta, ma questa volta tout court, detta rinnovazione qualora il P.M. svolga le indagini sollecitate dalla difesa, per quanto solo quelle, dopo la notificazione ai sensi dell'art. 415-bis, comma quarto, cod. proc. pen., con l'avvertenza, a contrario, che essa ridiventa dovuta qualora il P.M. compia investigazioni distinte ed autonome rispetto ai temi indicati con le richieste difensive.

6.4. L'udienza preliminare.

Uno snodo giurisprudenziale di sicuro interesse concerne la notificazione dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare.

La notificazione - o la prova della notificazione - può mancare con riferimento all'imputato o al difensore. I problemi sorgono quando più sono gli imputati o due i difensori.

Sotto il primo profilo, addirittura di abnormità (traendo ispirazione dalla nota Sez. U, n. 5307 del 20/12/2007, P.M. in proc. Battistella, Rv. 238240) ragiona Sez. 1, n. 20011 del 02/02/2016, Confl. comp. in proc. Zilio, Rv. 266895, in relazione al provvedimento di un giudice dibattimentale che, rilevata la nullità dell'udienza preliminare per l'omessa notificazione dell'avviso ad un imputato, disponeva la regressione del procedimento alla fase antecedente anche per gli altri, concorrenti nel medesimo reato, ancorché regolarmente citati.

Sotto il secondo profilo, secondo Sez. 2, n. 13465 del 22/03/2016, Candita, Rv. 266748, l'omessa notificazione dell'avviso ad uno dei due difensori dell'imputato determina, sì, una nullità di ordine generale a regime intermedio, che deve, però, ritenersi sanata, ai sensi dell'art. 183 cod. proc. pen., qualora l'imputato formuli una richiesta di rito abbreviato (la qual cosa nella specie è stata possibile perché il G.U.P. non si era immediatamente pronunciato sull'eccezione tempestivamente formulata dal co-difensore nel corso dell'udienza preliminare e l'imputato nell'udienza successiva aveva chiesto ed ottenuto di essere giudicato in abbreviato).

Passando ad un argomento più generale, qual è quello della regressione del procedimento all'udienza preliminare, merita di essere menzionata Sez. 4, n. 7785 del 11/02/2016, Nobile e al., Rv. 266357, in quanto afferma che, "in ipotesi di nullità del decreto che dispone il giudizio per indicazione di un reato diverso da quello per cui era stato chiesto il rinvio a giudizio e per il quale si era celebrata l'udienza preliminare, il procedimento regredisce allo stato ed al grado in cui è stato compiuto l'atto nullo e il giudice per le indagini preliminari è tenuto a procedere alla fissazione della nuova udienza preliminare a norma degli artt. 418 e seguenti cod. proc. pen., non potendosi limitare a rinnovare de plano il decreto in questione senza dare avviso alle parti".

Essa recupera una linea di conformità rispetto alla risalente Sez. U, n. 17 del 10/12/1997, Fraticelli M., Rv. 209605, a sua volta scrupolosamente osservante dell'art. 185, comma terzo, cod. proc. pen. in punto di regressione allo stato ed al grado di venuta ad esistenza dell'atto nullo, ma si pone in contrasto rispetto ad un avviso più pragmatico recentemente fatto proprio da Sez. 6, n. 36382 del 04/07/2003, Dell'Anna e al., Rv. 227143, la quale propone un intendimento puntuale dello stato e del grado, chiosando che, a fronte della dichiarazione di nullità del decreto che dispone il giudizio conseguente all'indicazione di un reato diverso da quello per cui era stato chiesto il rinvio a giudizio e si era celebrata l'udienza preliminare, "il giudice può limitarsi a riemettere il nuovo decreto senza fissare la udienza preliminare in quanto le parti avevano già ritualmente concluso sulle imputazioni contestate ab origine e pertanto non poteva determinarsi alcuna lesione del contraddittorio e del diritto di difesa".

Da ultimo, sul fronte del rito minorile, Sez. 3, n. 45441 del 20/09/2016, M. e al., Rv. 267836, recuperando Sez. 5, n. 35189 del 22/06/2011, M., Rv. 251200, rammenta che la previsione contenuta nell'art. 26 del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, secondo la quale la sentenza di non luogo a procedere può essere adottata "anche d'ufficio", non esclude l'applicazione del successivo art. 31, che impone l'instaurazione del contraddittorio: donde, ai fini della pronunzia della sentenza di non luogo a procedere, per difetto di imputabilità del minore infraquattordicenne, il giudice deve fissare l'udienza preliminare e farne dare avviso all'esercente la potestà genitoriale.

Identità di materia suggerisce di ricordare che, per Sez. 2, n. 30958 del 14/07/2016, B., Rv. 267574, ripetitiva di Sez. 2, n. 6472 del 13/01/2011, I., Rv. 249379, l'omessa notificazione (nella specie del decreto di citazione a giudizio) ai genitori esercenti la potestà sul minore imputato e l'omesso avviso al responsabile dei servizi sociali generano una nullità, pur non assoluta ed insanabile, comunque di ordine generale a regime intermedio. L'affermazione in parola si pone agli antipodi di quell'indirizzo che invece esclude la ricorrenza di alcuna nullità in virtù del principio di tassatività (Sez. 2, n. 23662 del 15/05/2008, M., Rv. 240614; Sez. 5, n. 203 del 13/12/2005, Romano, Rv. 233052; Sez. 2, n. 9571 del 19/01/2004, Cappiello, Rv. 228383).

6.5. La notificazione dell'avviso di deposito delle motivazioni della sentenza in generale.

L'avviso di deposito delle motivazioni della sentenza è notificato alle parti private cui spetta il diritto di impugnazione solo quando il deposito avviene oltre il trentesimo giorno o il diverso termine che il giudice si è dato ai sensi dell'art. 544, comma terzo, cod. proc. pen. (art. 548, comma secondo, cod. proc. pen.). Il motivo della limitazione temporale è ovvio: se il giudice si contiene nel termine ordinario ovvero nel termine datosi, le parti, onerate del controllo in cancelleria, accedono alle motivazioni al più entro l'ultimo giorno utile per il loro deposito. Pertanto la disciplina che ne occupa scaturisce dall'inosservanza del termine di deposito ad opera del giudice; termine che, per sollevare la cancelleria dall'incombente della notificazione dell'avviso di deposito, già nella sua fissazione non deve eccedere quello massimo di giorni novanta ex art. 544, comma terzo, cod. proc. pen., salvo il raddoppio consentito ai sensi del comma terzo-bis (ma non anche salva la proroga, ammessa dall'art. 154, comma quarto-bis, disp. att. cod. proc. pen., che, intervenendo necessariamente a decorso del termine già iniziato, fa scattare sempre l'esigenza dell'avviso).

Alla luce delle precisazioni testé fatte va letta Sez. 6, n. 3914 del 12/01/2016, Marinelli F., Rv. 265596, pronunciata in una causa curiosa in cui il giudice, in dispositivo, aveva fissato in "tre mesi" (corrispondenti a novantadue giorni) il termine di deposito delle motivazioni. La massima fa due affermazioni, di cui la seconda più importante della prima: invero essa non si limita a chiarire che, "qualora il giudice abbia indicato in dispositivo, per il deposito della sentenza, un termine superiore a novanta giorni . . . , il termine per impugnare decorre dalla data di notificazione dell'avviso di deposito della sentenza", in effetti dovuto per il sol fatto del superamento ab origine del limite massimo stabilito dalla legge, ma si spinge oltre, dicendo che, "in mancanza di tale adempimento, l'impugnazione proposta deve considerarsi senz'altro tempestiva".

6.5.a. La notificazione dell'avviso di deposito delle motivazioni della sentenza con riferimento all'imputato contumace.

La seconda affermazione di Sez. 6, n. 3914 del 2016, è astrattamente suscettiva di trovare applicazione quando comunque si verifica il superamento del termine o tout court legale ovvero stabilito dal giudice.

Senza alcuna pretesa di approfondimento, il pensiero corre a Sez. 5, n. 44863 del 07/07/2014, Prudentino, Rv. 261314, che sostiene che "l'omessa notifica all'imputato dell'avviso di deposito, ex art. 548, comma secondo, cod. proc. pen., della sentenza di primo grado comporta una nullità a regime intermedio, la quale, ove ritualmente eccepita, non è sanata dalla proposizione dell'appello da parte del difensore dell'imputato; in tal caso, infatti - alla luce del dictum della sentenza della Corte Costituzionale n. 317 del 2009 - non decorrono nei confronti dell'imputato i termini per la proposizione dell'impugnazione, con conseguente nullità, ex art. 178, comma primo, lettera c), cod. proc. pen., del decreto di citazione in appello e della sentenza emessa all'esito del relativo giudizio". Rammentasi che C. Cost., n. 317 del 2009, di cui si tratta, ha dichiarato

costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 24, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., l'[allora vigente] art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non consent[iva] la restituzione dell'imputato, che non [avesse] avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato. [Infatti,] premesso che il bilanciamento tra il diritto di difesa e il principio di ragionevole durata del processo deve tener conto dell'intero sistema delle garanzie processuali, per cui rileva esclusivamente la durata del 'giusto' processo, quale complessivamente delineato in Costituzione, mentre un processo non 'giusto', perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata; e che un incremento di tutela indotto dal dispiegarsi degli effetti della normativa CEDU e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo certamente non lede gli articoli della Costituzione posti a garanzia degli stessi diritti, ma ne esplicita ed arricchisce il contenuto, innalzando il livello di sviluppo dell'ordinamento nazionale nel settore dei diritti fondamentali; [tanto premesso,] la censurata disposizione viola il diritto alla difesa e al contraddittorio dell'imputato contumace inconsapevole. Infatti, la misura ripristinatoria della rimessione in termini, prescelta dal legislatore, per avere effettività, non può essere 'consumatà dall'atto di un soggetto, il difensore (normalmente nominato d'ufficio, in tali casi, stante l'assenza e l'irreperibilità dell'imputato), che non ha ricevuto un mandato 'ad hoc' e che agisce esclusivamente di propria iniziativa. L'esercizio di un diritto fondamentale non può essere sottratto al suo titolare, che può essere sostituito solo nei limiti strettamente necessari a sopperire alla sua impossibilità di esercitarlo e non deve trovarsi di fronte all'effetto irreparabile di una scelta altrui, non voluta e non concordata, potenzialmente dannosa per la sua persona. La Corte, abilitata ad intervenire in materia nei limiti imposti dall'esigenza di tutelare un diritto fondamentale, non può, tuttavia, incidere sulla conformazione del processo contumaciale, che spetta al legislatore. Pertanto, la [decisione di cui si tratta], attenendo alla sola preclusione formale individuata dal diritto vivente e derivante dall'esistenza di una pregressa impugnazione, non modifica i presupposti fissati dalla legge per l'accesso del contumace inconsapevole al meccanismo di garanzia (massima n. 34149)[7].

Analoghe a Sez. 5, n. 44863 del 2014, sono le più recenti acquisizioni espresse da Sez. 5, n. 3881 del 19/11/2014, Acquaviva, Rv. 262228, e da Sez. 5, n. 50980 del 05/05/2014, Stevanato e al., Rv. 261763.

È noto che il punctum pruriens si radica negli effetti dell'impugnazione spiegata dal difensore, giacché per l'imputato contumace si è soliti ragionare (secondo un'impostazione purtuttavia apertamente disattesa dalle pronunce appena citate) di unità dell'impugnazione, talché l'impugnazione spiegata dal difensore in certo qual modo "consuma" quella che solo in astratto è in titolarità dell'imputato contumace pur in ipotesi restituito nel termine.

Ci si licenza di soffermarsi sull'argomento per sottolineare come, proprio quest'anno, la parabola della teorizzazione di un'unità dell'impugnazione a tal punto estesa da negligere la restituzione in termini dell'imputato contumace sia ufficialmente avviata sulla strada del tramonto.

La teorizzazione in parola risale a Sez. U, n. 6026 del 31/01/2008, Huzuneanu, Rv. 238472, che lapidariamente così si esprime: "L'impugnazione proposta dal difensore, di fiducia o di ufficio, nell'interesse dell'imputato contumace (nella specie latitante), preclude a quest'ultimo, una volta che sia intervenuta la relativa decisione, la possibilità di ottenere la restituzione nel termine per proporre a sua volta impugnazione". Successivamente in senso conforme si annoverano Sez. 1, n. 8429 del 10/12/2008, Kurti e al., e Sez. 1, n. 33 del 11/11/2008, Cenollari.

Orbene, il procedimento devoluto alla cognizione di Sez. U, n. 6026 del 2008, ben lungi dall'essersi esaurito a Roma, è approdato a Strasburgo, ove infine i giudici della Sez. 1 della C. EDU, con sentenza 01/09/2016, Huzuneanu c. Italia, hanno dichiarato l'avvenuta violazione dell'art. 6 CEDU sulla base di una stringente motivazione, di cui ai paragrafi da 44 a 49, che val la pena di soppesare nel testo originale:

44. La Corte rammenta che, se un procedimento che si svolge in assenza dell'imputato non è di per sé incompatibile con l'articolo 6 della Convenzione, resta comunque il fatto che si ha diniego di giustizia quando un individuo condannato 'in absentiÀ non può ottenere successivamente che un giudice deliberi nuovamente, dopo averlo sentito, sulla fondatezza dell'accusa in fatto come in diritto, laddove non sia accertato che egli ha rinunciato al suo diritto di comparire e difendersi [Colozza c. Italia, 12 febbraio 1985, § 29, serie A n. 89; Einhorn c. Francia (dec.), n. 71555/01, § 33, CEDU 2001 XI; Krombach c. Francia, n. 29731/96, § 85, CEDU 2001-II, e Somogyi c. Italia, n. 67972/01, § 66, CEDU 2004-IV], o che avesse intenzione di sottrarsi alla giustizia (Medenica c. Svizzera, n. 20491/92, § 55, CEDU 2001-VI, e Sejdovic, sopra citata, § 82). . .

46. Nel caso di specie, il ricorrente ha presentato un ricorso dinanzi alla Corte di cassazione dopo aver ottenuto, in applicazione della legislazione pertinente, la restituzione nel termine. Con la sentenza del 7 febbraio 2008, la Corte di cassazione ha ritenuto che il ricorrente non potesse beneficiare della riapertura del processo e prendervi parte per presentare la sua difesa, in quanto l'avvocato nominato d'ufficio aveva già esaurito le vie di ricorso disponibili. Una siffatta interpretazione della legge ha messo il ricorrente nella impossibilità di contestare la sua condanna e di essere presente al processo che lo riguardava.

47. Di conseguenza, la questione che si pone nella fattispecie è stabilire se la difesa da parte di un avvocato d'ufficio abbia costituito una garanzia sufficiente contro il rischio del processo iniquo.

A questo proposito, la Corte osserva che la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione e ha concluso che un sistema che permette di privare un imputato della possibilità di interporre appello avverso la propria condanna solo perché l'avvocato nominato d'ufficio aveva esperito i ricorsi disponibili - all'insaputa dello stesso imputato - sollevava dei problemi. Essa ha ritenuto in particolare che fosse incompatibile con la Costituzione italiana privilegiare principi come quello della non duplicazione del processo a scapito delle garanzie dell'imputato.

48. La Corte ritiene che i diritti della difesa di un imputato - che non si è sottratto alla giustizia e non ha rinunciato inequivocabilmente alle sue garanzie procedurali - non possono essere ridotti al punto da renderli inoperanti con il pretesto di garantire altri diritti fondamentali del processo, come il diritto al 'termine ragionevole' o quello del 'ne bis in idem', o, 'a fortiori', per preoccupazioni legate al carico di lavoro dei tribunali. In effetti, la comparizione di un imputato è di fondamentale importanza sia a causa del diritto di quest'ultimo di essere sentito che della necessità di controllare l'esattezza delle sue affermazioni e di confrontarle con la versione della vittima, di cui si devono proteggere gli interessi, nonché dei testimoni.

49. Nel caso di specie, il ricorrente non ha avuto la possibilità di ottenere una nuova decisione sulla fondatezza dell'accusa sia in fatto che in diritto, sebbene la sua assenza al processo non gli fosse imputabile.

"Peraltro lo spettro applicativo dell'arresto della C. EDU soggiace potenzialmente ad un orizzonte di ampliamento alla luce di Sez. I, n. 20485 del 08/03/2016, Sannino, Rv. 266944, che, cimentatasi con uno spinoso interrogativo di diritto intertemporale insinuantesi nella finestra lasciata aperta dalla disciplina, di per sé approvata in ritardo ancorché proprio per dare una regola alla transizione verso il nuovo istituto dell'assenza, dilata le garanzie della vecchia contumacia. Essa, per vero, con una soluzione di indiscutibile garantismo, riconosce sussistente "l'obbligo di notifica dell'estratto della sentenza contumaciale, unitamente all'avviso di deposito, qualora il giudizio di merito, a carico dell'imputato dichiarato contumace anteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 67 del 2014, sia stato definito dopo tale data ma prima della entrata in vigore della disciplina transitoria, di cui all'art. 15-bis della stessa legge, introdotto dalla legge n. 118 del 2014, sempre che la dichiarazione di contumacia non sia dipesa dalla presa d'atto di una formale irreperibilità non derivante da colpa".

6.5.b. (Segue) con riferimento all'auto-assegnazione da parte del giudice di pace di un termine superiore a quello quindicinale.

Il termine di deposito delle motivazioni ex art. 544, comma terzo, cod. proc. pen. apre poi il capitolo dell'auto-assegnazione da parte del giudice di pace di un termine superiore a quello quindicinale di cui alla previsione dell'art. 32 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, che, secondo la communis opinio (con la sola voce di contraria di Sez. 5, n. 40037 del 10/07/2014, Petrella, Rv. 260301), deroga restrittivamente alla disciplina codicistica [Sez. 5, n. 1116 del 08/10/2015 (dep. 13/01/2016), Gallo, Rv. 266095]. Fa il punto della situazione Sez. 5, n. 26751 del 29/01/2016, Cenacchi, Rv. 267216, perentoria nello stabilire che, dovendo la sentenza depositata dal giudice di pace oltre il quindicesimo giorno essere considerata fuori termine anche quando il deposito avviene entro il maggior termine indicato nel dispositivo, "il termine per impugnare è quello di giorni trenta, decorrenti, per le parti presenti, dal quindicesimo giorno successivo all'emissione della sentenza e, per le parti non presenti, e, comunque, nel caso di deposito della sentenza oltre il quindicesimo giorno, dalla data in cui è avvenuta la notificazione dell'avviso di deposito ai sensi dell'art. 548, comma secondo, cod. proc. pen.".

Parte seconda: l'imputato.

1. L'utilizzo di mezzi tecnici idonei, con particolare riguardo al fax.

Nell'era dell'informatica, la giurisprudenza della S.C., pur al passo con i tempi, è costretta a mantenere uno sguardo ancora rivolto a ciò che ha già una patina d'antico, per la ritrosia dell'adeguamento della realtà degli uffici giudiziari alle tecnologie del mondo comune.

Dal punto di vista normativo, viene in rilievo l'art. 148, comma secondo-bis, cod. proc. pen., che si inserisce a mo' di accidente nella trama di un corpus altrimenti dotato di coerenza intrinseca, viepiù creando un'ambigua sovrapposizione con gli artt. 150 e 151 cod. proc. pen.

L'art. 148, comma secondo-bis, cod. proc. pen. detta una previsione speciale, applicabile alle sole notificazioni ed ai soli avvisi diretti ai difensori su disposizione genericamente dell'autorità giudiziaria e quindi anche del pubblico ministero. L'autorità giudiziaria, dunque, può stabilire che tali notificazioni ed avvisi siano eseguiti mediante mezzi tecnici idonei, con l'unico obbligo per l'ufficio mittente di attestare in calce all'atto di avere trasmesso il testo originale, che poi originale non può essere, perché la tele-trasmissione presuppone sempre la creazione di una copia ad opera del sistema operativo, sicché l'attestazione riguarda semmai il fatto che è stato utilizzato il testo originale come matrice della trasmissione.

Un mezzo tecnico idoneo è il fax.

Sez. 3, n. 13218 del 20/11/2015 (dep. 01/04/2016), Reggiani Viani, Rv. 266569, si è vista nella necessità di rammentarlo, onde esplicitare una volta di più che la notificazione a mezzo del fax non richiede - come invece accade per le notificazioni ex art. 150, comma primo, cod. proc. pen. - "un previo decreto motivato del giudice, ma è sufficiente una 'disposizione' consistente anche in un provvedimento organizzatorio di carattere generale, estraneo al fascicolo processuale". Detta sentenza ulteriormente ribadisce (sub Rv. 266571) quanto insegnato da Sez. U, n. 28451 del 28/04/2011, Pedicone, Rv. 250121, ossia che la notificazione a mezzo del fax può essere utilizzata anche per trasmettere atti diretti all'indagato o ad altra parte privata e, pur in tal caso, ai fini del suo perfezionamento, non è necessaria la conferma dell'avvenuta ricezione da parte del destinatario, bastando l'attestazione del cancelliere trasmittente dell'avvenuto invio dell'originale, la cui mancanza, peraltro, costituisce mera irregolarità.

1.1. L'impiego del fax ad opera delle parti.

A proposito del fax, si riaccende la querelle circa la possibilità o meno che lo stesso sia impiegato dalle parti per partecipare atti o documenti.

È noto come l'argomento abbia impegnato Sez. U, n. 40187 del 27/03/2014, Lattanzio, Rv. 259928, che ritiene applicabile la norma speciale contenuta nell'art. 3, comma secondo, del codice di autoregolamentazione della professione forense, secondo la quale l'atto contenente la dichiarazione di astensione può essere "trasmesso o depositato nella cancelleria del giudice o nella segreteria del pubblico ministero", esprimendosi pertanto a favore della possibilità, per il difensore, di trasmettere (anche) per fax la dichiarazione di adesione all'astensione dall'attività giudiziaria proclamata dagli organi rappresentativi.

Più delicato è il campo degli altri atti e documenti, per i quali non esiste una norma autorizzatoria della trasmissione in sé e per sé.

Secondo Sez. 2, n. 23343 del 01/03/2016, Ariano e al., Rv. 267081, "è legittimo" - in quanto rispondente all'evoluzione del sistema di comunicazioni e notifiche, oltre che alle esigenze di semplificazione e celerità richieste dal principio di ragionevole durata del processo - "l'inoltro alla cancelleria del giudice, a mezzo [del] telefax, di un documento contenente sia la lista dei testimoni di cui la parte intende chiedere l'ammissione e delle relative circostanze di prova, sia la richiesta alla citazione dei testi indicati".

Si compie un perspicuo balzo in avanti rispetto al passato.

Dieci anni prima, infatti, in senso solo parzialmente conforme, Sez. 6, n. 3 del 10/07/1996, Rover, Rv. 206504, consta aver inaugurato il filone che consente la trasmissione con mezzi tecnici idonei esclusivamente della lista testimoniale, ove però non contenga anche la richiesta al giudice di autorizzazione alla citazione di testimoni, periti e consulenti tecnici di cui al comma secondo dell'art. 468 cod. proc. pen., per la quale è invece d'obbligo la forma rituale dell'istanza, poiché la lista in sé ha mera funzione "di far conoscere, prima del dibattimento, le prove che l'interessato vorrà far acquisire e di consentire così alle parti di preparare la propria linea difensiva e richiedere eventualmente la prova contraria, il relativo adempimento". Detto filone è coltivato da Sez. 1, n. 44978 del 19/09/2014, Guidi, Rv. 261125, la quale, come risulta da una doverosa integrazione della massima con la motivazione, sostiene che "la presentazione della [sola] lista [dei] testi [senza però - giust'appunto alla stregua della motivazione - richiesta di autorizzazione alla citazione] può legittimamente avvenire mediante l'inoltro a mezzo [del] 'fax' ed è, di conseguenza, illegittima l'ordinanza del giudice del dibattimento che dichiari inammissibile la richiesta di sentire i testimoni in essa indicati". Peraltro esigenze di completezza rendono opportuno un accenno a Sez. 5, n. 32742 del 03/06/2010, Accordino, Rv. 248418, la quale, più sfumata nelle affermazioni di principio e nel contempo meno restrittiva negli esiti, in svolgimento di Sez. 1, n. 38161 del 24/09/2008, Pisa, Rv. 241135, sposta il discorso sul differente asse del recupero ex art. 507 cod. proc. pen. di istanze istruttorie non adeguatamente avanzate, escludendo la nullità dell'ordinanza ammissiva della prova testimoniale e di conseguenza della sentenza che sull'esito di detta prova abbia fondato la decisione per la pur "irrituale presentazione della lista [dei] testi effettuata a mezzo [del] fax, anziché nella prescritta forma del deposito in cancelleria", in quanto, tra i poteri del giudice, rientra quello di assumere le prove anche ex officio.

2. La posta elettronica certificata.

Tra i mezzi idonei suole indicare anche la posta elettronica certificata, o, in breve, PEC, ancorché la stessa trovi legittimazione giuridica e delimitazione, rispetto all'ambito di applicabilità al procedimento penale, in una disciplina ad hoc, che perciò a priori valuta positivamente l'idoneità del mezzo. Il problema, che potrebbe parere ridondante, in realtà non lo è affatto, sol che si consideri la quaestio essenziale della validità delle notificazioni e comunicazioni effettuate a mezzo della PEC pur in difetto della prescritta disciplina regolamentare di attuazione. Sul punto spicca l'intervento di Sez. 2, n. 50316 del 16/09/2015, Gullotta, Rv. 265394, che sfrutta la riconducibilità categoriale della PEC ai mezzi tecnici idonei dell'art. 148, comma secondo-bis, cod. proc. pen. per argomentare comunque la legittimità della "trasmissione telematica, se certificabile, e ciò a prescindere dall'emanazione da parte del Ministero della giustizia dei decreti attuativi, destinati a regolamentare l'utilizzo della PEC, secondo quanto previsto dall'art. 16 del [decreto-legge] 18 ottobre 2012, n. 179".

In effetti, nel procedimento penale, la PEC, quale mezzo di effettuazione di notificazioni e comunicazioni, è stata introdotta dall'art. 4 del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, conv., con mod., in legge 22 febbraio 2010, n. 24. Da ultimo, l'art. 16 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, conv., con mod., in legge 17 dicembre 2012, n. 221, nel testo risultante dalle interpolazioni apportate solo qualche giorno dopo dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228, si occupa ex professo di "biglietti di cancelleria, comunicazioni e notificazioni per via telematica", stabilendo:

- al comma quarto, che "nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Allo stesso modo si procede per le notificazioni a persona diversa dall'imputato a norma degli articoli 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, del codice di procedura penale. La relazione di notificazione è redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alla cancelleria";

- al comma sesto, che "le notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l'obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario";

- al comma ottavo, che, "quando non è possibile procedere ai sensi del comma 4 per causa non imputabile al destinatario, nei procedimenti civili si applicano l'articolo 136, terzo comma, e gli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile e, nei procedimenti penali, si applicano gli articoli 148 e seguenti del codice di procedura penale";

- al comma nono, lettera c-bis), che le disposizioni del comma quarto acquistano efficacia "a decorrere dal 15 dicembre 2014 per le notificazioni a persona diversa dall'imputato a norma degli articoli 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, del codice di procedura penale nei procedimenti dinanzi ai tribunali e alle corti di appello";

- al comma decimo, lettera b), che, "con uno o più decreti aventi natura non regolamentare, sentiti l'Avvocatura generale dello Stato, il Consiglio nazionale forense e i consigli dell'ordine degli avvocati interessati, il Ministro della giustizia, previa verifica, accerta la funzionalità dei servizi di comunicazione, individuando . . . gli uffici giudiziari in cui le stesse disposizioni operano per le notificazioni a persona diversa dall'imputato a norma degli articoli 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, del codice di procedura penale".

Rimasta aperta la discussione - quantomeno per ora in dottrina - sulla segnalata quaestio essenziale della necessità o meno dei decreti previsti dal comma decimo per la validità della PEC nonostante la sopravvenienza di Sez. U, n. 32243 del 26/06/2015, Nedzvetskyi, Rv., 264864 [limitatasi a dire che, pur dopo il d.l. n. 179 del 2012, "sono valide le notificazioni per via telematica a persona diversa dall'imputato o indagato eseguite, ai sensi del D.L. 25 giugno 2008, n. 112 . . . , dagli uffici giudiziari già autorizzati dal decreto 1 ottobre 2012 del Ministro della giustizia", per detti uffici non trovando applicazione l'art. 16, comma nono, lettera c-bis), d.l. n. 179 del 2012, circa la decorrenza dal 15 dicembre 2014 dell'efficacia delle notificazioni telematiche], alcuni nodi gordiani cominciano egualmente a venire al pettine.

Il meno complesso da dipanare pare quello giunto all'attenzione di Sez. 4, n. 16622 del 31/03/2016, Severi, Rv. 266529, la quale, in conformità alla linea di giurisprudenza venutasi a formare rispetto all'uso del fax, giudica valida la notificazione mediante PEC dell'atto destinato all'imputato effettuata al difensore ex art. 161, comma quarto, cod. proc. pen., "atteso che la disposizione di cui all'art. 16, comma quarto, D.L. 16 ottobre 2012 n. 179, che esclude la possibilità di utilizzare la 'PEC' per le notificazioni all'imputato, va riferita esclusivamente alle notifiche effettuate direttamente alla persona fisica dello stesso e non a quelle eseguite mediante consegna al difensore seppure nel suo interesse".

Assai più difficile è il nodo dell'impiego della PEC ad opera delle parti - private ma anche pubblica - per proporre atti latamente impugnatori.

Sez. 4, n. 18823 del 30/03/2016, Mandato, Rv. 266931, dichiara "inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di revoca dell'ammissione al gratuito patrocinio proposto mediante l'uso della posta elettronica certificata (PEC), in quanto le modalità di presentazione e di spedizione dell'impugnazione, disciplinate dall'art. 583 cod. proc. pen., sono tassative ed inderogabili e nessuna norma prevede la trasmissione mediante l'uso della PEC". Per una sorta di par condicio tale decisione trova un pendant simmetrico in Sez. 5, n. 24332 del 05/03/2013, Pmt in proc. Alamaru e al., Rv. 263900, secondo cui "è inammissibile l'impugnazione cautelare proposta dal P.M. mediante l'uso della posta elettronica certificata (c.d. PEC), in quanto le modalità di presentazione e di spedizione dell'impugnazione, disciplinate dall'art. 583 cod. proc. pen. - esplicitamente indicato dall'art. 309, comma quarto, a sua volta richiamato dall'art. 310, comma secondo, cod. proc. pen. - e applicabili anche al pubblico ministero sono tassative e non ammettono equipollenti, stabilendo soltanto la possibilità di spedizione dell'atto mediante lettera raccomandata o telegramma, al fine di garantire l'autenticità della provenienza e la ricezione dell'atto, mentre nessuna norma prevede la trasmissione mediante l'uso della PEC".

Nondimeno, poco prima della fine dell'anno, un'articolata ordinanza della Sez. 4, n. 51961 del 27 ottobre 2016 (dep. 06/12/2016), Filatondi, andando controcorrente, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite in relazione all'utilizzabilità della PEC per impugnazioni ed opposizioni, non già sul presupposto che l'equiparazione della PEC alla lettera raccomandata ex art. 48, comma secondo, cod. amm. dig. consentirebbe l'invio dell'atto mediante PEC anziché mediante raccomandata, quanto piuttosto sul presupposto che l'orientamento favorevole a ritenere ammissibile l'impugnazione ogniqualvolta non sussistano elementi di equivocità che inducano a ragionevolmente dubitare della provenienza dell'atto dal titolare del relativo diritto - a prescindere dall'impiego di formule sacramentali, da parte del pubblico ufficiale, in punto di indicazione di colui che effettua la presentazione - avrebbe buon agio a positivamente valutare le sicurezze tecniche offerte dal meccanismo automatico di certificazione della posta elettronica.

Con provvedimento datato 3 gennaio 2017, il Primo Presidente ha respinto l'istanza di assegnazione alle Sezioni Unite, tuttavia solo per ragioni formali, atteso che, "a fronte di una giurisprudenza concorde nel senso dell'inammissibilità di una simile forma di spedizione dell'atto di impugnazione, non contemplata dalle tassative forme indicate nell'art. 583 cod. proc. Pen . . . e, in genere, inibizione alle parti private, nel processo penale, di effettuare comunicazioni o notificazioni a mezzo [di] posta elettronica certificata . . . , l'ordinanza in oggetto non esprime un esplicito e argomentato dissenso, limitandosi a osservare, in via meramente problematica, che le forme di proposizione dell'atto di impugnazione dettate dall'art. 83 devono essere lette alla luce del principio del favor impugnationis; in tal modo non soddisfacendo il rigoroso presupposto (contrasto di giurisprudenza effettivo o quantomeno potenziale) considerato dall'art. 618 cod. proc. pen. ai fini dell'investitura delle Sezioni Unite".

I problemi sul tappeto restano dunque aperti.

Un'eventuale opzione interpretativa orientata ad appropriarsi delle utilità pratiche della tecnologia - pur facilitata nel muovere dalla valutazione informatica che la certezza garantita dalla PEC sia quanto all'invio che quanto alla ricezione per vero normalmente si salda con la (distinta) certezza garantita dalla firma digitale quanto alla provenienza del messaggio dal titolare della firma stessa in un sistema chiuso sul duplice piano dei soggetti e delle attività dai medesimi compiute - comunque non potrebbe eludere il confronto, finalizzato a far emergere un vero e proprio dissenso rispetto all'opinione dominante, con il principio, apparentemente fermo, per cui nel settore penale alle parti private sono precluse comunicazioni e notificazioni effettuate mediante l'utilizzo della posta elettronica certificata (Sez. 1, n. 18235 del 28/01/2015, Livisianu, Rv. 263189; in precedenza, Sez. 3, n. 7058 del 11/02/2014, Vacante, Rv. 258443). È verosimile presagire che l'ambito della discussione finirebbe per orientarsi - come già a proposito delle questioni sfuggite a Sez. U, n. 32243 del 2015 - sull'esclusività o meno dell'architettura del "Sistema delle Notificazioni Telematiche" (SNT), che constata uno sviluppo a tappe, a mo' di anticipazione di quello del c.d. "Processo [recte, Procedimento] Penale Telematico" (PPT).

3. La notificazione all'imputato mediante consegna al difensore di fiducia ex art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen.

Uno dei terreni di maggiore contrasto in tema di notificazioni all'imputato non detenuto è quello dell'operatività dell'art. 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen., introdotto dall'art. 2, comma primo, del decreto-legge 21 febbraio 2005, n. 17, conv., con mod., in legge 22 aprile 2005, n. 60. Esso, con formula francamente non perspicua, recita che "le notificazioni successive sono eseguite, in caso di nomina di difensore di fiducia ai sensi dell'articolo 96, mediante consegna ai difensori. Il difensore può dichiarare immediatamente all'autorità che procede di non accettare la notificazione. Per le modalità della notificazione si applicano anche le disposizioni previste dall'articolo 148, comma 2-bis".

Il primo problema che si pone consiste nel definire le "notificazioni successive", di cui parla l'esordio.

Sez. 3, n. 19366 del 08/03/2016, Bersanetti, Rv. 266584, nella scia di Sez. 3, n. 21626 del 15/04/2015, Cetta, Rv. 263501, e di Sez. 3, n. 21927 del 04/04/2008, Mazzei, Rv. 239878, sposa la tesi a termini della quale la notificazione ex art. 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen. "non presuppone il previo infruttuoso esperimento della stessa con le modalità di cui ai commi precedenti, bensì soltanto che si tratti di una notificazione 'successiva' ad altra già eseguita, con le modalità ordinarie, non già nel grado, ma nel corso dell'intero processo", osservando che, "una volta che il primo atto sia stato notificato con qualsivoglia delle modalità di cui all'art. 157, commi da 1 ad 8, e sia quindi intervenuta la nomina di un legale di fiducia, la notifica dei successivi atti ben può essere eseguita mediante diretta consegna al difensore medesimo, facendo affidamento sul vincolo che ormai lo lega al proprio assistito".

Detta tesi è però tutt'altro che pacifica.

Sez. 2, n. 41735 del 22/09/2015, Casali, Rv. 264594, recuperando pressoché alla lettera Sez. 5, n. 44608 del 24/10/2005, Rv. 232612, Rizzato, sostiene infatti che l'art. 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen. "si applica solo nell'ipotesi di notifica successiva a quella eseguita ai sensi dell'art. 157, comma ottavo, ma non nell'ipotesi in cui l'imputato abbia precedentemente dichiarato il domicilio ex art. 161 cod. proc. pen.". Sicché, in disparte per un attimo l'accenno all'ipotesi della dichiarazione (e per estensione dell'elezione) di domicilio, che sarà sviluppato tra breve[8], il comma ottavo-bis rappresenterebbe letteralmente un'appendice, o una costola, del comma ottavo, costituendo, in un kafkiano gioco di parole, un'ultima procedura, o modalità, della prima notificazione, perché di essa si occupa il comma primo, fondata sull'impossibilità di raggiungere il vero destinatario dell'atto: ciò che, nei rispettivi ambiti, lascerebbe trasparire un certo parallelismo con l'art. 161, comma quarto, cod. proc. pen., trasformato tuttavia in una sorta di sostanziale "convergenza" da quella giurisprudenza che, all'opposto, legge "l'impossibilità della notificazione al domicilio dichiarato o eletto" come viatico per "l'esecuzione presso il difensore di fiducia secondo la procedura prevista [- indifferentemente -] dagli artt. 161, comma quarto, e 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen." (Sez. 3, n. 21626 del 2015, Rv. 263502; Sez. 6, n. 42699 del 27/09/2011, Siragusa e al., Rv. 251367; Sez. 5, n. 22745 del 21/04/2011, Poggi, Rv. 250408).

3.1. (Segue) Prevalenza o meno rispetto al domicilio dichiarato od eletto.

La rilevanza pratica delle superiori considerazioni è immediatamente evidente al cospetto del tema oggetto di Sez. 6, n. 31569 del 28/06/2016, C., Rv. 267527, riesumante un vecchio indirizzo per cui la forma di notificazione prevista dall'art. 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen., nel prescrivere che le notificazioni all'imputato non detenuto successive alla prima siano eseguite mediante consegna al difensore di fiducia, "deve ritenersi prevalente su ogni altra", a meno che detto difensore formalizzi immediatamente obiezione.

Alla stregua dell'orientamento cui aderisce detta sentenza, che ha l'indiscutibile pregio della massima semplificazione, è sufficiente che dopo la prima notificazione intervenga la nomina di un difensore di fiducia affinché le successive siano eseguite mediante consegna a detto difensore, con una sola eccezione, integrata dal caso in cui quest'ultimo dichiari immediatamente di non accettare notificazioni dirette al proprio assistito. L'assoluta prevalenza in tal modo riconosciuta alle notificazioni successive alla prima mediante consegna al difensore di fiducia assorbe anche i casi di previa dichiarazione o elezione di domicilio effettuate dall'imputato ai sensi dell'art. 161 cod. proc. pen., nonostante che si tratti di dichiarazioni di volontà, da parte sua, diverse e concorrenti rispetto alla nomina di difensore.

Anticipavasi che l'orientamento di cui si tratta risale a pronunce ormai lontane, antecedenti alla barriera temporale del 2008. Si ricordano Sez. 3, n. 6790 del 09/01/2008, Salvietti e al., Rv. 238364, e Sez. 3, n. 41063 del 20/09/2007, Ardito, Rv. 237639, le quali, andando al nocciolo della questione, enunciano il principio di diritto per cui "è rituale la procedura di notifica mediante consegna al difensore di fiducia, prevista dall'art. 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen., anche nel caso di imputato che abbia previamente dichiarato o eletto il domicilio per le notificazioni ai sensi dell'art. 161 cod. proc. pen.".

Dopo il 2008, detto orientamento non ha più trovato manifestazione, giacché in quell'anno sono intervenuti ben due arresti fondamentali sul tema dei rapporti tra gli artt. 157, comma ottavo-bis, e 161 cod. proc. pen.

Il primo è rappresentato dalla sentenza delle Sez. U, n. 19602 del 27/03/2008, Micciullo, Rv. 239396, cristallizzante l'interpretazione per cui sussiste una vera e propria nullità della "notificazione eseguita a norma dell'art. 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen. presso il difensore di fiducia, qualora l'imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni. Trattasi di nullità di ordine generale a regime intermedio che deve ritenersi sanata quando risulti provato che non ha impedito all'imputato di conoscere l'esistenza dell'atto e di esercitare il diritto di difesa, ed è, comunque, priva di effetti se non dedotta tempestivamente, essendo soggetta alla sanatoria speciale di cui all'art. 184, comma primo, alle sanatorie generali di cui all'art. 183, alle regole di deducibilità di cui all'art. 182, oltre che ai termini di rilevabilità di cui all'art. 180 cod. proc. pen.".

L'avviso espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite ha trovato immediatamente avallo nella coeva sentenza della C. Cost., 05/05/2008, n. 136, che, chiamata a giudicare della q.l.c. dell'art. 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen., al paragrafo 4 delle motivazioni in diritto, dopo aver osservato che la disposizione di cui si tratta "si ispira all'esigenza di bilanciare il diritto di difesa degli imputati e la speditezza del processo, semplificando le modalità delle notifiche e contrastando eventuali comportamenti dilatori e ostruzionistici" attraverso la "valorizzazione del rapporto fiduciario tra l'imputato ed il suo difensore", fermo tuttavia "che il primo atto del procedimento deve essere notificato comunque nelle forme ordinarie", osserva che, come il difensore può sottrarsi "all'onere ed alla responsabilità" dell'attività comunicativa verso il proprio assistito, "dichiarando immediatamente e preventivamente di non accettare le notificazioni indirizzate a quest'ultimo", così "anche l'imputato può rendere inapplicabile la norma censurata, mediante dichiarazione del domicilio o sua elezione presso un qualunque soggetto, e ciò in ogni fase del procedimento, posto che la giurisprudenza di legittimità si è orientata, anche con una recentissima pronuncia delle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione, nel senso che la manifestazione di volontà della parte prevale sulla domiciliazione legale per ogni notifica ad essa successiva".

3.2. Operatività nelle impugnazioni.

La prevalenza o meno della notificazione ex art. 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen. riemerge in un altro filone, quello dell'impugnazione. Pur con riferimento ad esso, la premessa, costantemente riproposta, è che la prima notificazione a seguito della quale può procedersi ex art. 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen. si identifica con la notificazione relativa al primo atto del procedimento e non, di volta in volta, con la notificazione relativa al primo atto di ogni grado di giudizio (così, da ultimo, Sez. 3, n. 26506 del 27/05/2015, Sozzini, Rv. 263817), sicché, per esser chiari, "non occorre individuare per ciascuna fase processuale una 'primÀ notificazione rispetto alla quale possa, poi, trovare attuazione la nuova disciplina" (Sez. 5, n. 38136 del 25/07/2006, Bertone, Rv. 235976).

Ma la realtà sembra - e, per fortuna, almeno questa volta, sembra soltanto - più complicata.

Infatti - giusta Sez. 4, n. 8592 del 10/02/2016, Gervasoni, Rv. 266369, ed in precedenza Sez. 5, n. 2818 del 24/11/2014, Demetrio, Rv. 262590 - pare ravvisarsi un orientamento per cui "la notificazione all'imputato del decreto di citazione in appello, eseguita ai sensi dell'art. 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen. presso il difensore, determina, se l'interessato non 'rappresenta' con elementi idonei la mancata conoscenza dell'atto, una nullità a regime intermedio che è sanata se non tempestivamente eccepita nel corso del giudizio d'appello".

Quel che la formulazione letterale omette di esplicitare, ingenerando, ad una lettura veloce, possibilità di malintesi, è il presupposto fattual-procedimentale, ossia che la notificazione in tal modo eseguita all'imputato è erronea. Infatti, Sez. 4, n. 8592 del 2016, decide di un caso in cui la corte d'appello aveva ritenuto perfezionata la notificazione ex art. 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen. nonostante che vi fosse elezione di domicilio e Sez. 5, n. 2818 del 2014, decide di un caso in cui il difensore, anziché di fiducia, era di ufficio.

Chiarito dunque l'ambito entro il quale le formulazioni di cui si tratta devono essere lette, sorge viepiù concreto pericolo di un contrasto, giacché Sez. 6, n. 8150 del 29/02/2012, Romero, Rv. 262925, chiamata a decidere in un caso in cui v'era dichiarazione di domicilio, sostiene, con la solita espressione difficoltosa, che "la notificazione all'imputato del decreto di citazione in appello eseguita presso il difensore d'ufficio ai sensi dell'art. 157, comma ottavo-bis, cod. proc. pen. deve considerarsi omessa e determina una nullità assoluta ed insanabile, anche quando il difensore d'ufficio partecipa al giudizio senza nulla eccepire, poiché la qualità del rapporto intercorrente tra questi e l'imputato non consente alcuna presunzione fisiologica di concreta conoscenza da parte del secondo".

4. La notificazione all'imputato mediante consegna al difensore ex art. 161, comma 4, cod. proc. pen.

Gli ultimi riferimenti al domicilio eletto o dichiarato introducono alla defatigante disamina dell'art. 161, segnatamente comma quarto, cod. proc. pen., che consente la notificazione mediante consegna al difensore quando la notificazione al domicilio determinato a norma del comma secondo diviene impossibile, ovvero quando la dichiarazione o l'elezione di domicilio nei casi dei commi primo e terzo mancano o sono insufficienti o inidonee.

Conviene prendere le mosse da Sez. 3, n. 12909 del 20/01/2016, Pinto, Rv. 268158, a termini della quale l'impossibilità della notificazione al domicilio eletto, che ne legittima l'esecuzione presso il difensore secondo l'art. 161, comma quarto, cod. proc. pen., può essere integrata anche dalla temporanea assenza dell'imputato al momento dell'accesso dell'ufficiale notificatore, senza che sia necessario procedere ad un riscontro di vera e propria irreperibilità, così da qualificare come definitiva l'impossibilità di ricezione degli atti nel luogo eletto dall'imputato, considerato l'onere incombente su quest'ultimo, una volta avvisato della pendenza di un procedimento a suo carico, di comunicare ogni variazione dell'iniziale elezione di domicilio.

Alla stregua di detta sentenza, dunque, è sufficiente la temporanea assenza dell'imputato al momento dell'accesso dell'ufficiale notificatore ad integrare il requisito dell'impossibilità della notificazione al domicilio eletto, ma evidentemente anche dichiarato, a sua volta legittimante l'esecuzione della notificazione stessa presso il difensore, di fiducia o di ufficio, a termini dell'art. 161, comma quarto, cod. proc. pen. Il presupposto di tale conclusione è che la notificazione mediante consegna al difensore non esige l'accertamento della "definitiva impossibilità di ricezione degli atti nel luogo dichiarato o eletto dall'imputato", giacché su quest'ultimo, una volta avvisato della pendenza di un procedimento penale a suo carico, grava "l'obbligo di comunicare ogni variazione intervenuta successivamente alla dichiarazione o elezione di domicilio". È come se la violazione dell'obbligo in parola fosse letteralmente sanzionata con la notificazione mediante consegna al difensore.

Detto avviso, pur aspramente criticato da qualificata dottrina, consta di una nutrita schiera di precedenti conformi.

Si ricordano per esempio Sez. 3, n. 21626 del 2015; Sez. 4, n. 36479 del 04/07/2014, Ebbole, Rv. 260126; Sez. 5, n. 13051 del 19/12/2013, Barra e al., Rv. 262540; Sez. 5, n. 49488 del 10/10/2013, Nicoletti e al., Rv. 257840; Sez. 6, n. 42699 del 2011; Sez. 5, n. 22745 del 2011.

A fronte dell'avviso testé evocato, ne ricorre un altro, riassunto con chiarezza da Sez. 5, n. 35724 del 10/06/2015, L., Rv. 265872, secondo cui, invece, "ai fini dell'integrazione dell'impossibilità della notifica, non è sufficiente la semplice attestazione dell'ufficiale giudiziario di non avere trovato l'imputato, ma occorre un quid pluris, concretantesi in un accertamento che l'ufficiale giudiziario deve eseguire in loco[,] solo a seguito del quale, ove l'elezione di domicilio sia mancante o insufficiente o l'imputato risulti essersi trasferito altrove, è possibile attivare la procedura, ex art. 161, comma quarto, cod. proc. pen., di notifica presso il difensore" (nello stesso senso, Sez. 3, n. 10227 del 24/01/2013, Imbastari, Rv. 254422; Sez. 2, n. 48349 del 07/12/2011, Martini, Rv. 252059; Sez. 1, n. 36235 del 23/09/2010, Cannella, Rv. 248297; Sez. 4, n. 1167 del 24/10/2005, Manna, Rv. 233172).

Valga rilevare come l'avviso che richiede uno specifico accertamento dell'ufficiale notificatore onde appurare in loco la definitiva impossibilità della notificazione - la quale può risultare anche da un verbale di vane ricerche della polizia giudiziaria (Sez. 3, n. 15454 del 12/01/2016, Bignotti, Rv. 267087) - trovi conferma, ad un'attenta lettura della massima, anche nella sentenza delle Sez. U, n. 28451 del 2011, Rv. 250120. Essa, occupandosi dell'impossibilità della notificazione al domicilio eletto, ma abbandonandosi ad affermazioni che esplicitamente estende sia al caso in cui il domiciliatario ricusi di ricevere l'atto sia, ove invece esista una dichiarazione di domicilio, al caso in cui al domicilio dichiarato non sia reperito l'imputato né vi siano altre persone idonee a ricevere, afferma bensì che, se la notificazione di un atto all'imputato al domicilio eletto è impossibile "per il mancato reperimento del domiciliatario", è legittima l'esecuzione "mediante consegna al difensore e non mediante deposito nella casa comunale con i correlati avvisi, perché detta situazione si risolve in un caso di inidoneità dell'elezione di domicilio", ma specifica che il mancato reperimento del domiciliatario deve sussistere "nonostante l'assunzione di informazioni sul posto e presso l'ufficio anagraf[ico]" (da cui risulti che lo stesso non risiede o abita in quel Comune).

Tertium etiam datur.

In mezzo ai due estremi si registra Sez. 5, n. 2314 del 16/10/2015 (dep. 20/01/2016), Moscatiello, Rv. 265710, per cui "la notifica ai sensi dell'art. 161, comma quarto, cod. proc. pen. è consentita, ma non imposta, nel caso di temporanea assenza dell'imputato presso il domicilio eletto", dovendosi ravvisare, "al più, una irregolarità procedurale nella successiva notifica [mediante] raccomandata con avviso di ricevimento in luogo della notifica presso il difensore" (la massima in realtà va strettamente agganciata alla motivazione, dalla quale si apprende che si discuteva dell'"erroneità" della notificazione del decreto di fissazione dell'udienza nel giudizio di appello in quanto non effettuata presso il difensore ex art. 161, comma quarto, cod. proc. pen., dopo che l'ufficiale giudiziario aveva inutilmente tentato per due volte di notificarlo presso il domicilio eletto dall'imputato al momento della scarcerazione, inviando, al fine, a mezzo di lettera raccomandata, il relativo avviso).

5. Questioni "operative" sull'art. 161 cod. proc. pen.

L'art. 161 cod. proc. pen. pone numerosi altri dubbi, taluni univocamente risolvibili, talaltri, purtroppo, fonte di contrasti.

Nel segno dell'uniformità dell'interpretazione della legge, si principia con l'analisi di alcune problematiche spiccatamente "operative", connaturate dall'esigenza di segnare l'ambito entro cui le forme possono dirsi rispettate.

In relazione all'elezione o dichiarazione di domicilio effettuate in un sub-procedimento o in un procedimento parallelo poi riunito, due pronunce approcciano le criticità in termini di condivisibile pragmatismo.

Sez. 5, n. 29695 del 13/05/2016, Chielli, Rv. 267501, a suggello di una lunga serie di precedenti conformi, torna a ripetere che "l'elezione di domicilio contenuta nell'istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato opera anche nel procedimento principale per cui il beneficio è richiesto, a nulla rilevando l'espressa volontà dell'imputato di limitarne gli effetti esclusivamente ai fini della suddetta pronuncia incidentale, in quanto, ai sensi dell'art. 161 cod. proc. pen., non sono consentite parcellizzazioni degli effetti delle dichiarazioni di domicilio effettuate nell'ambito di uno stesso procedimento".

Sez. 2, n. 7188 del 05/11/2015 (dep. 24/02/2016), Turiaco, Rv. 266208, recuperando tesi e parole di Sez. 2, n. 36791 del 20/10/2006, Lo Carmine, Rv. 235037, enuncia che, "nell'ipotesi di riunione di due procedimenti penali, la dichiarazione effettuata dall'imputato in uno dei procedimenti estende i suoi effetti anche all'altro, in virtù del principio di economia processuale, che produce la interazione degli effetti di taluni provvedimenti assunti in uno soltanto dei procedimenti".

Sez. 5, n. 48916 del 18/11/2016, Dutu, non massimata, ammonisce che l'obbligo di traduzione degli atti in favore dell'imputato alloglotta sussiste anche nel caso in cui questi abbia eletto domicilio presso il difensore d'ufficio, giacché quest'ultimo ha bensì l'obbligo di ricevere gli atti destinati al proprio assistito, ma non anche quello (esulante da un ambito di professionalità esigibile) di procedere alla loro traduzione.

In prospettiva diacronica, Sez. 3, n. 3858 del 04/11/2015 (dep. 29/01/2016), Rivas Alas Dimas Erik e al., Rv. 266085, osserva che "la dichiarazione di elezione di domicilio mantiene i suoi effetti anche successivamente all'espulsione dell'imputato, non costituendo quest'ultima circostanza caso fortuito o forza maggiore che, ai sensi dell'art. 161, comma quarto, cod. proc. pen., impedisce all'imputato di comunicare l'eventuale mutamento del luogo eletto", sicché detta dichiarazione - come già rilevato da Sez. 6, n. 34174 del 10/07/2008, Mostari, Rv. 240749 - seguita a produrre effetti "in ogni stato e grado del procedimento ad eccezione delle ipotesi di cui agli artt. 156 e 613, comma secondo, cod. proc. pen.".

6. Violazione dell'art. 161 cod. proc. pen. in rapporto alla restituzione nel termine ed alla rescissione del giudicato.

Il risvolto del rispetto delle forme sul piano della sostanza si apprezza, da un lato, sul versante della restituzione nel termine ex art. 175, in specie vecchio testo, cod. proc. pen. e, dall'altro, con riferimento all'istituto dell'assenza introdotto dalla n. 67 del 2004, su quello dei presupposti per la rescissione del giudicato ex art. 625-ter cod. proc. pen.

L'ambito della restituzione nel termine è pervaso dalla convinzione che la nomina di un difensore ex art. 96 cod. proc. pen., viepiù se domiciliatario, esclude la sconoscenza del procedimento, atteso il rapporto fiduciario intercorrente tra il medesimo ed il proprio assistito e la responsabilità di quest'ultimo di informarsi da lui dell'andamento del procedimento stesso. La premessa di fatto è quella - sempre più condivisa, a dispetto di qualche isolata pronuncia difforme (Sez. 2, n. 31680 del 14/07/2011, Lan, Rv. 250747, e Sez. 6, n. 35149 del 26/06/2009, A., Rv. 244871) - che "il mancato o l'inesatto adempimento da parte del difensore di fiducia dell'incarico di proporre impugnazione, a qualsiasi causa ascrivibile, non sono idonei a realizzare le ipotesi di caso fortuito o forza maggiore", legittimanti la restituzione nel termine, sia in quanto "consistono in una falsa rappresentazione della realtà, superabile mediante la normale diligenza ed attenzione", sia in quanto "non può essere escluso, in via presuntiva, un onere dell'assistito di vigilare sull'esatta osservanza dell'incarico conferito, nei casi in cui il controllo sull'adempimento defensionale non sia impedito al comune cittadino da un complesso quadro normativo" (Sez. 6, n. 18716 del 31/03/2016, Saracinelli, Rv. 266926).

Talché:

- per Sez. 2, n. 18549 del 28/04/2016, Zanellato, Rv. 266855, è legittimo, sussistendo l'effettiva conoscenza del procedimento che impedisce la restituzione in termini ai sensi dell'art. 175, comma secondo, cod. proc. pen. (nel testo vigente prima della legge n. 67 del 2014), "il rigetto della richiesta fondata sul presupposto che la notifica dell'estratto contumaciale della sentenza sia stata effettuata al difensore di fiducia domiciliatario che abbia rinunciato all'incarico, qualora la nomina del difensore sia intervenuta in epoca successiva alla notifica effettuata all'imputato a mani proprie del decreto di citazione a giudizio";

- per Sez. 3, n. 15760 del 16/03/2016, Kaya, Rv. 266583, non ha parimenti diritto alla restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale l'imputato latitante - assistito, nel corso del giudizio di primo grado e d'appello, da difensore fiduciario presso il quale abbia eletto domicilio - che formuli l'istanza di cui all'art. 175, comma secondo, cod. proc. pen. (ante legge n. 67 del 2014) "solo dopo l'intervenuta irrevocabilità della sentenza di secondo grado, posto che la perdurante esistenza del rapporto di difesa fiduciaria costituisce fatto di per sé idoneo a provarne l'effettiva conoscenza della pendenza del procedimento e del provvedimento, salvo che non risulti una comunicazione al giudice della avvenuta interruzione di ogni rapporto fra il legale e l'assistito e della rinuncia del primo ad impugnare".

Dall'angolo di visuale del nuovo istituto dell'assenza, l'area di inferenza della conoscenza del procedimento si estende dai contatti informativi con il difensore di fiducia all'elezione di domicilio persino presso il difensore di ufficio. Simmetricamente si restringe lo spazio della rescissione del giudicato.

Ne offre testimonianza Sez. 5, n. 12445 del 13/11/2015 (dep. 23/03/2016), Degasperi, Rv. 266368, secondo cui "la rescissione del giudicato ex art. 625-ter cod. proc. pen. non si applica al caso in cui l'imputato sia stato dichiarato assente avendo eletto domicilio presso il difensore d'ufficio, poiché, ai sensi degli artt. 420-bis, commi 2 e 3, e 175, comma 2, cod. proc. pen., dall'elezione di domicilio deriva una presunzione di conoscenza del processo che legittima il giudice a procedere in assenza dell'imputato, sul quale grava l'onere di attivarsi per tenere contatti informativi con il proprio difensore sullo sviluppo del procedimento".

Identica evoluzione si registra sul terreno cruciale della mancata comunicazione del sopravvenuto stato di detenzione.

Sez. 2, n. 33574 del 14/07/2016, Suso, Rv. 267499, si muove nel solco dell'insegnamento tradizionale a termini del quale "sussiste una colpevole mancata conoscenza del processo, preclusiva del ricorso di cui all'art. 625-ter cod. proc. pen., quando la persona sottoposta alle indagini o imputata, che abbia nominato un difensore di fiducia ed eletto domicilio presso di questi, non solo abbia omesso di comunicare all'autorità procedente il proprio sopravvenuto stato di detenzione per altra causa, ma neppure si sia attivata autonomamente per mantenere con il difensore di fiducia domiciliatario i contatti informativi necessari per la conoscenza dello sviluppo del procedimento"; ma Sez. 2, n. 21069 del 15/04/2016, Naji, Rv. 266798, si spinge oltre, prescindendo dalla nomina di un difensore e perciò giungendo ad identica conclusione sulla semplice base dell'elezione di domicilio di per se stessa considerata, talché la ridetta colpevole mancata conoscenza del processo ricorre, semplicemente, "quando la persona sottoposta alle indagini o imputata, che abbia eletto domicilio e sia stata ritualmente avvisata dell'obbligo di comunicare ogni mutamento di quest'ultimo, ai sensi dell'art. 161, comma 2, cod. proc. pen., abbia omesso di comunicare all'autorità procedente il proprio sopravvenuto stato di detenzione per altra causa, con la conseguente notificazione degli atti processuali al difensore d'ufficio ai sensi del quarto comma del predetto art. 161".

7. Elezione o dichiarazione di domicilio contenute in un verbale di p.g. non sottoscritto.

L'attitudine nomofilattica della collezione delle pronunce della S.C. sull'art. 161 cod. proc. pen. si esaurisce con i precedenti argomenti. Oltre riemergono contrasti, tanto più insidiosi perché reali ma anche solo - confrontate le motivazioni delle sentenze con le massime - apparenti.

Sez. 6, n. 26631 del 12/05/2016, Andronache, Rv. 267433, ritorna sulla vexata quaestio dell'elezione (ma identicamente è a dirsi per la dichiarazione) di domicilio contenuta in un verbale di p.g. non sottoscritto dal dichiarante. Intervenuta in un caso in cui il verbale non era stato sottoscritto per rifiuto del dichiarante, conclude per la nullità dell'elezione sul presupposto che, a fronte della "sua natura di dichiarazione di volontà avente valore negozial-processuale", viene a mancare "il dato della formale e concreta riferibilità della dichiarazione a tale soggetto, in quanto il rifiuto della sottoscrizione del verbale implica il rifiuto di eleggere domicilio e la conseguente nullità delle notificazioni eseguite in un luogo non scelto, né approvato dall'imputato".

Pare significativo il dato che anche tutti i precedenti conformi riguardino casi di rifiuto della sottoscrizione (Sez. 5, n. 28618 del 28/05/2008, P.M. in proc. Glawe, Rv. 240430; Sez. 6, n. 4921 del 09/12/2013, Filocamo, Rv. 228319; Sez. 1, n. 4100 del 24/11/1998, Tosatto M., Rv. 213259, cui adde Sez. 6, n. 43796 del 20/10/2014, Ghazavi Afousi R., non massimata).

Siffatta constatazione, per quanto non lo annulli, contribuisce grandemente a ridimensionare il contrasto, che sussiste pertanto solo a livello di "premesse teoriche" sul valore negozial-processuale o meno dell'elezione o dichiarazione di domicilio, rispetto a quelle pronunce, numericamente preponderanti, le quali affermano che "la mancata sottoscrizione, da parte dell'indagato, del verbale contenente l'elezione di domicilio ne determina l'invalidità solo qualora risulti che egli abbia rifiutato di sottoscrivere l'atto eccependone la difformità rispetto alle dichiarazioni rese o all'intenzione di non dare più corso all'elezione di domicilio" (per tutte, da ultimo, Sez. 4, n. 22372 del 26/02/2015, Beschi, Rv. 263901).

Un vero e proprio contrasto, semmai, si ha rispetto al filone di appartenenza di Sez. 5, n. 13288 del 24/02/2006, Jijie, Rv. 233984, la quale sostiene che "deve ritenersi valida la elezione presso il difensore di ufficio effettuata dall'indagato con dichiarazione riportata in un verbale che poi rifiuti di sottoscrivere, senza indicazione di una specifica ragione, posto che l'omessa sottoscrizione delle 'persone intervenute' non è causa di nullità del verbale e che il pubblico ufficiale, in caso di rifiuto della sottoscrizione, deve dare indicazione del motivo, in assenza del quale l'atteggiamento dell'interessato non può intendersi mirato alla revoca della dichiarazione verbalizzata", soggiungendo - in adesione a Sez. 1, n. 1606 del 24/11/2004, Mouhibi, Rv. 231458, ed a Sez. 4, n. 25427 del 28/03/2003, Jurisnicz, Rv. 225691 - che "il rifiuto della sottoscrizione comporta la invalidità dell'atto solo quando venga espressamente riferito al disconoscimento della corrispondenza tra la dichiarazione compiuta e il verbale, oppure ad una sopravvenuta volontà di non compiere la elezione o la dichiarazione di domicilio", e viepiù evidenziando che il rifiuto della sottoscrizione del verbale contenente la elezione o dichiarazione di domicilio in realtà si risolve "in una delle fattispecie previste dall'art. 161 comma quarto cod. proc. pen., in relazione alle quali è prevista la notifica mediante consegna al difensore". Recentemente Sez. 5, n. 40286 del 14/04/2016, Arellano Lopez, Rv. 268076, sottolinea che l'interpretazione di cui si tratta "è aderente al combinato disposto degli artt. 137 e 142 cod. proc. pen., che, nell'ipotesi in cui alcuno degli intervenuti non voglia o non sia in grado di sottoscrivere il verbale redatto dal pubblico ufficiale, prescrive soltanto la necessità di indicare il motivo della mancata sottoscrizione, senza prevedere l'inefficacia dell'atto".

8. Aggiornamento ufficioso della dichiarazione di domicilio.

Ennesimo campo minato è quello dell'aggiornamento ufficioso, o se si preferisce automatico, della dichiarazione di domicilio alle risultanze procedimentali.

Propende per la soluzione negativa Sez. 5, n. 31641 del 01/06/2016, Leonardi, Rv. 267428, che, conseguentemente, giudica legittima la notifica mediante consegna al difensore nella specie dell'estratto contumaciale della sentenza di primo grado "eseguita ai sensi dell'art. 161, comma quarto, cod. proc. pen., in ragione dell'impossibilità di effettuarla presso il domicilio dichiarato, pur se dagli atti risulti la nuova residenza indicata dallo stesso imputato, nel caso in cui il mutamento o la revoca della precedente dichiarazione domiciliare non sia avvenuta nelle forme di legge". Il rigore di detto orientamento affonda le basi nella considerazione a termini della quale la dichiarazione di domicilio è una manifestazione di volontà necessitante, per essere superata, di un'altra manifestazione di volontà sovrapponibile. Aggiunge Sez. 5, n. 42399 del 18/09/2009, Donà, Rv. 245819, che neppure "è consentita alcuna deroga all'espressa previsione dell'art. 161, comma primo, cod. proc. pen., che impone l'obbligo di comunicare il mutamento del domicilio dichiarato o eletto stabilendo che, in caso contrario, la notifica sia eseguita mediante consegna al difensore" (in particolare, "il diverso recapito o luogo di residenza di cui venga a conoscenza l'ufficiale notificatore che abbia inutilmente esperito la notifica al domicilio dichiarato o eletto è irrilevante ex art. 161, ove non abbia formato oggetto di comunicazione, ex art. 162 cod. proc. pen., né può rilevare ai fini della notifica ex art. 157 cod. proc. pen. che delinea un sistema alternativo a quello configurato dall'art. 161 cod. proc. pen.. . ."). Nello stesso senso sono schierate Sez. 2, n. 31056 del 13/05/2011, Baku, Rv. 251022, e Sez. 6, n. 9723 del 17/01/2013, Rv. 254693.

Vi è però un diverso indirizzo, secondo cui "la dichiarazione di domicilio, implicando l'esistenza di un rapporto reale tra l'interessato e l'abitazione indicata, diventa inefficace con l'avvenuto trasferimento dell'imputato in altro luogo, qualora questo sia noto, indipendentemente da qualsiasi comunicazione fatta dallo stesso imputato" (Sez. 1, n. 27757 del 30/05/2003, Fattori, Rv. 227387). La notificazione conseguentemente effettuata ai sensi dell'art. 161, comma quarto, cod. proc. pen. è nulla: invero - secondo Sez. 2, n. 25671 del 19/05/2009, Sistro, Rv. 244167 - "la citata disposizione trova un temperamento, nella sua rigida applicazione, quando si abbia aliunde notizia precisa del luogo in cui il destinatario abbia trasferito la residenza o la dimora, perché in tal caso la notifica deve essere disposta ed effettuata nel nuovo domicilio, in modo da assicurargli l'effettiva e non meramente presunta conoscenza dell'atto" (già prima, in termini, Sez. 2, n. 45565 del 21/10/2009, Esposito, Rv. 245629).

9. L'elezione di domicilio dell'imputato detenuto.

Un'interessante pronuncia si occupa dell'elezione di domicilio dell'imputato detenuto. Per Sez. 5, n. 35542 del 29/02/2016, Manciaracina, Rv. 268017, "è valida la notifica all'imputato detenuto, anche per altra causa, eseguita presso il domicilio eletto e non presso il luogo di detenzione, atteso che anche l'imputato detenuto ha facoltà di dichiarare o eleggere domicilio ai sensi dell'art. 161, comma primo, cod. proc. pen.". Al riguardo consta una folta sequenza di precedenti identicamente allineati, tra i quali qualcuno, finemente, rimarca che "l'elezione, a differenza della mera dichiarazione, [presuppone] l'indicazione di persona legata da un rapporto fiduciario tale da impegnarla a ricevere gli atti riguardanti l'imputato e a consegnarli al medesimo" (Sez. 6, n. 4836 del 03/12/2014, Hassa, Rv. 262055).

Un orientamento antitetico, minoritario ma nient'affatto esiguo, ritiene all'opposto "nulla la notificazione effettuata presso il domicilio dichiarato o eletto dall'imputato detenuto, il cui sopravvenuto stato di detenzione sia noto al giudice procedente" (così, da ultimo, Sez. 6, n. 18628 del 31/03/2015, El Cherquoi, Rv. 263483).

Segnatamente, in relazione alla prassi per vero diffusissima di sollecitare dichiarazione o elezione di domicilio in sede di udienza di convalida dell'arresto o del fermo, onde farla constare una volta per tutte a verbale, Sez. 2, n. 2356 del 13/01/2005, Simioni, Rv. 230698, mantiene ferma la posizione della nullità, spiegando: "L'art. 161, comma primo cod. proc. pen., infatti, è applicabile solo al domicilio dichiarato o eletto in sede di convalida dell'arresto dalla persona sottoposta a indagini o dall'imputato che non sia né detenuto né internato, mentre per il soggetto in stato di detenzione la rituale dichiarazione o elezione di domicilio è quella effettuata all'atto della scarcerazione, come disposto dall'art. 161, comma terzo cod. proc. pen.".

10. Vicende soggettive del difensore domiciliatario.

Oltre alle prospettive più arzigogolate accennate nelle pagine precedenti, ve ne sono di minori, ma non per questo meno importanti.

Sez. 6, n. 13417 del 08/03/2016, Bona e al., Rv. 266739, recupera un remoto precedente (Sez. 6, n. 10495 del 03/07/1987, Festa, Rv. 176818), per dire che "il decesso del difensore di fiducia domiciliatario determina un'ipotesi di impossibilità di notificazione sopravvenuta derivante da una situazione impeditiva non ricollegabile al comportamento del destinatario della notificazione, sicché, qualora non risulti dagli atti, né sia altrimenti desumibile, che l'imputato fosse a conoscenza del decesso, non sono applicabili le disposizioni di cui alla prima parte dell'art. 161, comma quarto, cod. proc. pen., bensì quelle di cui agli artt. 157 e 159 cod. proc. pen. (richiamate nell'ultimo periodo del predetto quarto comma dell'art. 161), non potendosi ritenere che l'imputato sia stato nella effettiva condizione di comunicare il mutamento del luogo dichiarato o eletto".

Opposta è la soluzione nel caso di sospensione dell'avvocato dall'albo. Sez. 4, n. 19172 del 20/04/2016, Zheng, Rv. 266848, insegna, infatti, che "la notifica del decreto di citazione a giudizio effettuata presso il difensore domiciliatario è valida anche nel caso in cui questi sia stato sospeso dall'albo professionale, essendo onere della parte scegliere un professionista valido e vigilare sulla esatta osservanza dell'incarico conferito".

Parte terza: la persona offesa.

1. Introduzione.

Negli ultimi anni si è fatta strada nel legislatore - compulsato dall'esigenza di osservare gli obblighi assunti in sede internazionale ed europea - una pressante, ma confusa, attenzione alla persona offesa dal reato, cui una congerie di disposizioni, che ormai descrivono "un vero e proprio 'arcipelago' normativo nel quale non sempre è facile orientarsi" (Sez. U, n. 10959 del 2016, paragrafo 3 delle motivazioni in diritto), riserva diritti anzitutto informativi e, qua e là, partecipativi.

Il momento di avvio dell'inversione di tendenza rispetto alla tradizionale considerazione della persona offesa nel procedimento penale in chiave meramente funzionale alla sua progressione può farsi risalire all'introduzione del delitto di atti persecutori ex art. 612-bis cod. pen., dovuta al decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 ("Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori"), conv., con mod., in legge 23 aprile 2009, n. 38. Alla stregua di detto testo, la persona offesa comincia ad essere riguardata di per se stessa, come centro di imputazione di situazioni soggettive, non già funzionali alla celebrazione del rito nelle sue varie scansioni, ma, anzi, ex se fondative della funzionalità procedimentale, in specie nella fase cautelare. Basti considerare, da un lato, che l'art. 9, lettera a), introduce, oltreché l'art. 282-ter cod. proc. pen., dedicato alla nuova misura cautelare personale del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, l'art. 282-quater cod, proc. pen., a termini del quale "i provvedimenti di cui agli articoli 282-bis e 282-ter sono comunicati all'autorità di pubblica sicurezza competente, ai fini dell'eventuale adozione dei provvedimenti in materia di armi e munizioni. Essi sono altresì comunicati [- espressione eccentrica alla sistematica codicistica, che riserva le comunicazioni al P.M. -] alla parte offesa e ai servizi socio-assistenziali del territorio"; dall'altro lato, che l'art. 11, per la prima volta, fa obbligo alle forze dell'ordine, ai presidi sanitari e alle istituzioni pubbliche che ricevono dalla vittima notizia di reato per una serie di gravi delitti aggressivi della sfera personale (familiare, sessuale ed individuale) di fornirle "tutte le informazioni relative ai centri antiviolenza presenti sul territorio e, in particolare, nella zona di residenza della vittima. Le forze dell'ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche provvedono a mettere in contatto la vittima con i centri antiviolenza, qualora ne faccia espressamente richiesta".

Con la novità comincia, tuttavia, oltreché una confusione terminologica tra persona offesa e vittima, l'equivoco per cui l'accennato supplemento di coinvolgimento procedimentale deriverebbe alla prima sostanzialmente dal suo bisogno di speciale protezione.

In realtà lo sviluppo normativo successivo al d.l. n. 11 del 2009 segue due strade ben distinte, solo episodicamente sovrapponibili: l'una concerne la tutela della persona offesa in quanto persona offesa; l'altra, con previsioni speciali, la tutela, in certo qual modo rafforzata, della persona offesa in quanto persona offesa da delitti commessi con violenza alla persona.

Il salto di categoria rispetto alla seconda tipologia di persona offesa è reso evidente dal titolo del decreto-legge, 14 agosto 2013, n. 93, conv., con mod., in legge 15 ottobre 2013, n. 119, che ravvisa ragioni d'urgenza nel dettare disposizioni "per il contrasto della violenza di genere".

2. Previsioni generali applicabili alla persona offesa di per se stessa considerata.

Oltre all'art. 282-quater cod. proc. pen., di cui s'è detto poc'anzi, svariate sono ormai le previsioni del codice di rito dotate di applicazione generale alla persona offesa in quanto tale in un'ottica informativo-partecipativa.

All'art. 1, comma 1, lettera a), del decreto-legge 1 luglio 2013, n. 78, conv., con mod., in legge 9 agosto 2013, n. 94, si deve l'inserimento del comma primo-bis nell'art. 284 cod. proc. pen., in guisa tale che la decisione del giudice sul luogo di esecuzione degli arresti domiciliari assicuri le esigenze di tutela della persona offesa, esigenze che, per l'effetto, non entrano in un gioco di bilanciamento, ma assurgono ad un livello di protezione prioritaria. Vero è che non ne discende formalmente alcuna necessità di avviso o notificazione (o anche comunicazione); ma par chiaro che, nella contingenza dei casi concreti, una verifica sulla situazione attuale dei luoghi di vita della persona offesa può divenire esigibile.

Identico livello di protezione prioritaria entra nella formazione del convincimento del giudice sull'idoneità del programma di trattamento nella messa alla prova, giacché l'ultimo periodo del comma terzo dell'art. 464-quater cod. proc. pen. gli impone di valutare "anche che il domicilio indicato nel programma dell'imputato sia tale da assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato". In tal caso, la verifica sulla situazione attuale dei luoghi di vita della persona offesa è facilitata, come si vedrà tra breve, dalla sua partecipazione all'udienza.

L'art. 2, comma 1, del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, riscrive l'art. 411 cod. proc. pen. sugli "altri casi di archiviazione", in particolare introducendovi il comma primo-bis. La nuova disciplina si sovrappone a quella ordinaria ex artt. 408 e 409 cod. proc. pen. Più precisamente, l'avviso alla persona offesa (oltreché alla persona sottoposta alle indagini) consegue sic et simpliciter ad una richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto, così replicando il modello dei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona ex comma terzo-bis dell'art. 408 cod. proc. pen. (oggetto dell'intervento di Sez. U, n. 10959 del 2016). Ma emerge un'ingiustificata discrasia nello strumento di procuranda conoscenza: mentre nella disposizione da ultimo menzionata "l'avviso della richiesta di archiviazione è in ogni caso notificato, a cura del pubblico ministero, alla persona offesa", nel comma primo-bis dell'art. 411 cod. proc. pen., "il pubblico ministero deve [semplicemente] dar[e] avviso [della richiesta di archiviazione] alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa".

Anche la messa alla prova per adulti, di cui agli artt. 464-bis ss. cod. proc. pen., introdotti con la 1.n. 67 del 2014, apre all'interlocuzione della persona offesa. Ai sensi dell'art. 464, comma 4, cod. proc. pen., già a priori il programma di trattamento deve prevedere sia "le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l'imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni . . . " [lettera b)], sia "le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa" [lettera c)]. Il momento del contraddittorio, disciplinato dall'art. 464-quater cod. proc. pen., segue le cadenze di un'eventuale partecipazione attiva della persona offesa, che, se comparsa, "deve" (e non semplicemente "può") essere sentita (comma terzo). Quanto all'esecuzione, poi, è solo "con il consenso della persona offesa" che il giudice è abilitato ad "autorizzare il pagamento rateale delle somme eventualmente dovute a titolo di risarcimento del danno" (art. 464-quinques, comma primo, cod. proc. pen.). La dichiarazione di estinzione del reato ovvero, di converso, la revoca dell'ordinanza di sospensione del procedimento presuppongono la convocazione di apposite udienze di cui deve essere dato avviso alle parti e alla persona offesa (art. 464-septies, comma primo, e art. 464-octies, comma secondo, cod. proc. cod. proc.).

Da ultimo, viene in linea di conto il decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212, attuativo della direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che, fondata sulle c.d. competenze sussidiarie degli organi dell'Unione europea ex art. 5, paragrafo 3, del Trattato sull'Unione europea[9], reca, in sostituzione della decisione-quadro 2001/220/GAI relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale, norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Infatti, l'art. 1, lettera b), prima parte, inserisce l'art. 90-bis cod. proc. pen., prescrivente che "alla persona offesa, sin dal primo contatto con l'autorità procedente, veng[a]no fornite, in una lingua a lei comprensibile", numerose informazioni sul procedimento[10]. La novità rimanda all'art. 101, comma primo, cod. proc. pen., interpolato dall'art. 2, comma primo, lettera 0a), d.l. n. 93 del 2013.

3. Previsioni speciali applicabili alla persona offesa da delitti commessi con violenza alla persona.

Relativamente alla persona offesa in quanto persona offesa da delitti commessi con violenza alla persona, si va delineando uno statuto a sé stante, fondato sugli artt. 90-ter, 299, commi secondo-bis, terzo e quarto-bis, 408, comma terzo-bis, e, per quanto di ragione, 406, comma secondo-ter, e 415-bis, comma primo, cod. proc. pen.

Le ultime due disposizioni, rispettivamente in tema di proroga del termine delle indagini preliminari e di notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, si chiamano fuori dall'operazione definitoria dei delitti commessi con violenza alla persona in quanto si concentrano nominatim sui due delitti centrali della "criminalità relazionale" p. e p. dagli artt. 572 e 612-bis cod. pen.

Detta operazione investe invece tutte le altre disposizioni.

L'art. 408, comma terzo-bis, interviene sul momento di verifica delle determinazioni del P.M. nel senso del mancato impulso verso l'esercizio dell'azione penale. Suole insegnare che detta disposizione, prescrivendo che, nei procedimenti per alcuno dei delitti commessi con violenza alla persona, sia "in ogni caso" notificato alla persona offesa l'avviso della richiesta di archiviazione, offre alla medesima la possibilità di contraddire con l'opposizione, viepiù entro un termine doppio rispetto all'ordinario, nonostante che non abbia previamente dimostrato interesse all'informazione con apposita richiesta di essere avvisata[11].

Ciò nondimeno, la funzione della notificazione pare essere, non solo di controllo della persona offesa sulla decisione del pubblico ministero, ma più latamente di ponderazione da parte della medesima sul dato in sé dell'istradamento del procedimento in direzione di una chiusura anticipata alla barriera delle indagini preliminari. Alla luce di ciò, par che si debba valorizzare Sez. 3, n. 24432 del 18/02/2016, P.C. in proc. Zelmat, Rv. 267151, la quale, lungi dall'accedere a pieghe formalistiche, a proposito di una persona offesa che aveva negato di aver subito le violenze sessuali oggetto di procedimento, decide che "l'obbligo di notifica . . .previsto dall'art. 408, comma terzo-bis, cod. proc. pen.. . . sussiste anche nel caso in cui la richiesta sia basata sull'infondatezza della notizia di reato, poiché tale obbligo attiene alle forme del procedimento da seguire per richiedere l'archiviazione in relazione al titolo di reato per cui si procede e prescinde dalla sussistenza o meno di esso".

Più complessa è la disciplina della risposta concreta dell'ordinamento - sia genericamente attraverso la cautela lato sensu intesa sia specificamente attraverso l'esecuzione delle forme più afflittive (e però anche più contenitive) di pena o misura di sicurezza - al bisogno di protezione della persona offesa-vittima.

Seguendo l'ordine dell'articolato codicistico, ci si imbatte anzitutto nell'art. 90-ter cod. proc. pen. [introdotto dall'art. 1, lettera b), prima parte, d.lgs. n. 212 del 2015, in attuazione della direttiva 2012/29/UE], che, sotto la rubrica atecnica: "Comunicazioni dell'evasione e della scarcerazione)", prescrive: "Fermo quanto previsto dall'articolo 299, nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona[,] sono immediatamente comunicati alla persona offesa che ne faccia richiesta, con l'ausilio della polizia giudiziaria, i provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, ed è altresì data tempestiva notizia, con le stesse modalità, dell'evasione dell'imputato in stato di custodia cautelare o del condannato, nonché della volontaria sottrazione dell'internato all'esecuzione della misura di sicurezza detentiva, salvo che risulti, anche nella ipotesi di cui all'articolo 299, il pericolo concreto di un danno per l'autore del reato".

La clausola di riserva iniziale dell'art. 90-ter cod. proc. pen. (sulla cui rispondenza al testo della direttiva è lecito avanzare riserve) si spiega alla luce della parziale convergenza con l'art. 299 cod. proc. pen., come interpolato dall'art. 2, lettera b), d.l. n. 93 del 2013, su revoca e sostituzione delle misure. Infatti, condividendo con l'art. 90-ter cod. proc. pen. 1'atecnicismo della comunicazione a soggetti diversi dal P.M., il comma secondo-bis stabilisce che "i provvedimenti di cui ai commi 1 e 2 relativi alle misure previste dagli articoli 282-bis, 282-ter, 283, 284, 285 e 286, applicate nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, devono essere immediatamente comunicati, a cura della polizia giudiziaria, ai servizi socio-assistenziali e al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa". Una formulazione non brillante antepone la "comunicazione" dei provvedimenti alle prescrizioni del comma terzo, che invece si occupa dell'introduzione della sub-fase rilevante del procedimento, sanzionando di inammissibilità, con riguardo ai procedimenti ex comma secondo-bis, "la richiesta di revoca o di sostituzione delle misure previste dagli articoli 282-bis, 282-ter, 283, 284, 285 e 286" che la parte richiedente "contestualmente" non notifichi - talché si ritorna allo schema tecnico della notificazione, ad iniziativa (non del giudice, ma) delle parti - "presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa, salvo che in quest'ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio". Il comma terzo è replicato dal comma quarto-bis per le vicende successive alla chiusura delle indagini preliminari.

Donde, rispetto all'art. 299 cod. proc. pen., è brevemente a concludersi che, "nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona", al di fuori della parentesi (non di un interrogatorio qualunque, ma) dell'interrogatorio di garanzia, la persona offesa è chiamata a partecipare alla sub-fase della revoca o sostituzione di misure diverse dal divieto di espatrio e dall'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, avendo a disposizione lo stesso tempo del P.M. per interloquire sulla richiesta, ed è informata, mediante "comunicazione" curata dalla polizia giudiziaria, dell'accoglimento della richiesta stessa, parrebbe, in difetto di un'espressa limitazione, pur quando avanzata in sede di interrogatorio di garanzia. Ma, mentre la vocatio in iudicium è indefettibile, perché l'omissione dell'onere della notificazione determina l'inammissibilità della richiesta, il difetto della "comunicazione" del provvedimento di accoglimento non si accompagna (almeno testualmente) a conseguenze. Pertanto la comunicazione del comma secondo-bis, come del resto quella dell'art. 90-ter cod. proc. pen., sembra avere meri fini di pubblicità-notizia, la qual cosa significa che non dovrebbe avere (anche) fini connessi all'esercizio del diritto d'impugnazione. Ciò si tiene a specificare perché, alla stregua di Sez. 4, n. 18851 del 10/04/2012, Schettino, Rv. 253862, intervenuta in un caso di rilevanza mediatica, "la persona offesa dal reato [nella specie un ente esponenziale qual è il Codacons] non è legittimata a proporre ricorso per cassazione avverso i provvedimenti emessi dal tribunale del riesame in materia di libertà personale, né ad intervenire con il deposito di memorie, atteso che tale diritto è attribuito solo al pubblico ministero che ha richiesto l'applicazione della misura, all'imputato e al suo difensore", sicché per estensione non dovrebbe essere legittimata tout court ad un'impugnazione de libertate. Detta pronuncia, nondimeno, è occorsa prima della temperie del d.l. n. 93 del 2013, sicché può avanzarsi l'ipotesi che la stessa non sia più attuale.

Gli artt. 90-ter e 299, comma secondo-bis, cod. proc. pen., hanno certamente un nucleo forte in comune, rappresentato dalla comunicazione nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona, ma non sono affatto sovrapponibili: mentre l'art. 299, comma secondo-bis - in cui la comunicazione è officiosa - attiene esclusivamente al procedimento cautelare, investendo però la quasi totalità delle misure cautelari, l'art. 90-ter - in cui la comunicazione consegue solo ad una richiesta della persona offesa - attiene all'intero procedimento cautelare, ma è agganciato unicamente al fatto materiale dell'uscita, legittima o illegittima, dell'autore del reato da un istituto di detenzione, parendo viepiù dubbio che il concetto di scarcerazione possa estendersi (come tuttavia sarebbe logico che fosse) alla cessazione dell'esecuzione degli arresti domiciliari o della detenzione domiciliare.

3.1. Snodi problematici sui delitti commessi con violenza alla persona.

Premesso che il tema è trattato in modo approfondito nella terza sezione della prima parte di questa Rassegna, un contributo di chiarezza sulla nozione in sé di delitti commessi con violenza alla persona sovviene con Sez. U, n. 10959 del 2016, sull'art. 408, comma terzo-bis, cod. proc. pen. Invero, "la disposizione dell'art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen., che stabilisce l'obbligo di dare avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa d[a] i delitti commessi con 'violenza alla persona', è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsti rispettivamente dagli artt. 612-bis e 572 cod. pen., in quanto l'espressione 'violenza alla persona' deve essere intesa alla luce del concetto di 'violenza di genere', risultante dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario" (Rv. 265893, già cit.[12]).

La massima si preoccupa di restituire l'inserimento dei delitti di stalking e di maltrattamenti nella categoria dei delitti commessi con violenza alla persona anche quando le condotte non consistono in violenza fisica. La chiave di volta è recuperata in motivazione dal Supremo Consesso nell'aggancio "internazionalmente orientato" della violenza alla "violenza di genere".

Ciò nondimeno, restano aperte incertezze rispetto a delitti pur commessi con violenza - questa sì anche fisica - alla persona, epperò esulanti dall'accezione classica di violenza di genere.

La giurisprudenza si è formata tutta sotto il segno dell'art. 299 cod. proc. pen., com'è ovvio che sia, giacché è sull'urgenza della fase cautelare che va ad incidere in profondità la sanzione "forte" dell'inammissibilità della richiesta di revoca o sostituzione della misura posta dal comma terzo.

Alla stregua di detta sanzione la persona offesa è costituita titolare di un penetrante potere di controllo, che trova uno sbocco nell'impugnazione. Per la prima volta, con chiarezza, Sez. 6, n. 6864 del 09/02/2016, P.O. in proc. P., Rv. 266542, giunge alla conclusione - ineccepibile ex art. 606, comma primo, lettera c), cod. proc. pen. - che, "nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, la persona offesa può dedurre con ricorso per cassazione l'inammissibilità dell'istanza di revoca o sostituzione di misure cautelari coercitive (diverse dal divieto di espatrio e dall'obbligo di presentazione alla p.g.) applicate all'imputato, qualora quest'ultimo non abbia provveduto contestualmente a notificarle, ai sensi dell'art. 299, comma quarto-bis, cod. proc. pen., l'istanza di revoca, di modifica o anche solo di applicazione della misura con modalità meno gravose".

Certamente gli oneri di controllo da parte di tutti i giudici chiamati a decidere in esito a ciascuna fase del procedimento cautelare divengono quanto mai stringenti. Sez. 2, n. 33576 del 14/07/2006, Fassih, Rv. 267500, dà la stura ad una linea ormai consolidata che sancisce la deducibilità e rilevabilità d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento cautelare, dell'"inammissibilità dell'istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare personale applicata nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, prevista dall'art. 299, comma terzo, cod. proc. pen.. . ., quale conseguenza della mancata notifica della richiesta medesima - a cura della parte richiedente - alla persona offesa", precisando che, in sede di appello cautelare, il controllo officioso del giudice prescinde del tutto dal principio devolutivo, fissato in via generale dall'art. 597 cod. proc. pen., in quanto attiene alla legittimità del provvedimento impugnato.

Tuttavia par chiaro che la revoca o sostituzione, se nel frattempo pur erroneamente disposte, pongono la soverchia difficoltà di ripristinare la misura originaria in conseguenza di una violazione almeno in prima battuta solo procedimentale. Perciò, preso atto che Sez. U, n. 10959 del 2016, è intervenuta sull'art. 408, comma terzo-bis, cod. proc. pen., potrebbe forse cogliersi l'occasione per riflettere a priori sull'unità categoriale, agli effetti procedimentali, dei delitti commessi con violenza alla persona.

Ad ogni buon conto, in ordine alla cautela, un primo orientamento fa leva sul dato testuale dell'impiego in sé della violenza - in un'accezione non ineluttabilmente fisica - rivolto avverso la persona. Ad esempio, Sez. 2, n. 30302 del 24/06/2016, Opera, Rv., 267718, in una fattispecie di estorsione posta in essere con minaccia, afferma che "la nozione di 'delitti commessi con violenza alla persona', di cui all'art. 299, comma secondo-bis, cod. proc. pen. - per i quali sussiste l'obbligo di notifica, al difensore della persona offesa o a quest'ultima, dell'istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare in atto - include tutti quei delitti, consumati o tentati, che si sono manifestati in concreto con atti di violenza fisica, ovvero morale o psicologica, in danno della vittima del reato". L'elemento della concreta manifestazione violenta del reato rimanda alle modalità contingenti della sua realizzazione, così spostando il fuoco dell'analisi dalla fattispecie astratta alla materialità della condotta. Illustra bene questo concetto una precedente pronuncia, Sez. 1, n. 49339 del 29/10/2015, Gallani, Rv. 265732, la quale, in tema di tentato sequestro di persona a scopo di estorsione, nel ritenere nella specie insussistente l'obbligo di notificazione della richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare, in quanto la condotta criminosa si era interrotta per l'intervento delle forze di polizia prima che qualsiasi forma di violenza, anche solo morale, potesse essere percepita dall'ignara vittima, si diffonde a motivare nel senso che l'espressione legislativa di cui si ragiona "evoca non già una categoria di reati le cui fattispecie astratte siano connotate dall'elemento della violenza (sia essa fisica, psicologica o morale) alla persona, bensì tutti quei delitti, consumati o tentati, che, in concreto, si sono manifestati con atti di violenza in danno della persona offesa".

Un altro orientamento, tentando, secondo un percorso meno discosto dalla violenza di genere evocata dalle Sezioni Unite, una ricostruzione sistematica della violenza come vittimizzazione, si focalizza sull'occasionalità o meno della violenza, escludendo "l'inammissibilità dell'istanza di revoca o sostituzione delle misure cautelari coercitive . . .prevista dall'art. 299, comma quarto-bis, cod. proc. pen., per l'ipotesi in cui il richiedente non provveda alla contestuale notifica . . .alla persona offesa, qualora quest'ultima sia vittima soltanto 'occasionale' del reato" (Sez. 2, n. 25135 del 25/05/2016, Grosso, Rv. 267236). Le argomentazioni a sostegno della tesi in esame, cui alla lettera potrebbe rimproverarsi che l'occasionalità è riferita al concetto oltretutto latente di vittimizzazione e non a quello testuale e perciò palese di perpetrazione della violenza, sono esposte per esteso nella parte motiva di Sez. 2, n. 43353 del 14 ottobre 2015, Quadrelli, Rv. 265094, secondo cui la nuova formulazione dell'art. 299 cod. proc. pen. assicura uno strumento partecipativo alla persona offesa attraverso la presentazione di memorie ex art. 121 cod. proc. pen.

Peraltro è curioso che le cadenze del ragionamento di Sez. 2, n. 43353 del 2015 (nella parte in cui si sofferma sull'evoluzione del testo del d.l. n. 93 del 2013 nel passaggio parlamentare: dall'iniziale valorizzazione della relazione tra indagato e vittima derivante dal richiamo alle ipotesi delle sole misure stabilite dagli artt. 282-bis e 282-ter cod. proc. pen., all'allargamento, in conversione, alle misure previste dagli artt. 283, 284, 285 e 286 cod. proc. pen., entro la perimetrazione, però, del rapporto autore-vittima attraverso il richiamo della violenza alla persona), siano condivise da Sez. 1, n. 14831 del 11/04/2016, Massidda, non massimata. Il fatto gli è che quest'ultima, in ossequio ad una rigorosa esegesi testuale, giunge all'antitetica conclusione di escludere il "presupposto aggiuntivo" di "un profilo relazionale-affettivo tra autore e vittima del reato, in guisa che lo statuto di cui all'art. 299 c.p.p., comma 3, trova applicazione anche nei casi di c.d. violenza occasionale", giacché "non è richiamato, né implicitamente, né esplicitamente, nel testo normativo un pregresso legame relazionale tra autore e vittima, né una 'forza' commissiva che si orienti, proprio in ragione d'un pregresso rapporto, in danno di una determinata persona offesa. Piuttosto il legislatore[,] aderendo alle sollecitazioni internazionali sul piano della tutela delle vittime del reato[,] ha inteso operare includendo anche le ipotesi di azioni violente occasionali. Ciò perché allorquando la violenza (nelle sue diverse forme di manifestazione) diventa mezzo commissivo del delitto e si orienta verso la persona è idonea ex se ad instaurare un legame relazionale tra autore e vittima" (paragrafo 3 delle motivazioni in diritto).

3.2.a. Notificazione alla persona offesa della richiesta di revoca o sostituzione di misura cautelare ex art. 299, commi 3 e 4-bis, cod. proc. pen.: presupposti.

Sez. 5, n. 18306 del 24/02/2016, B., Rv. 266524, indugia sull'argomento per cui è "meritevole di tutela la necessità, in capo alla persona offesa, di sapere se il soggetto antagonista si trovi o meno in condizione di reiterare condotte lesive nei suoi confronti . . .ed evidentemente tale condizione può cambiare non soltanto se costui si trovi o meno in carcere ma anche in relazione al tipo di misura adottata o alle modalità concrete di esecuzione della misura", con la conseguenza che "è ben evidente come possa mutare tale prospettiva, dal punto di vista della vittima, se l'imputato di atti persecutori in suo danno si trovi agli arresti domiciliari in un luogo distante o prossimo a sé, oppure se abbia facoltà di assentarsi dall'abitazione per far fronte alle proprie esigenze di vita o per svolgere attività lavorativa" (paragrafo 1.3 delle motivazioni in diritto). Da tale argomento, stando alla massima ricavata dalla sentenza, discende il principio per cui, nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, l'obbligo di notificazione al difensore della persona offesa della richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare, prescritto a pena di inammissibilità dall'art. 299, comma quarto-bis, cod. proc. pen., nella specie applicabile, opera anche nel caso in cui l'istanza abbia ad oggetto il mutamento delle condizioni di esecuzione della misura coercitiva, tra cui il mutamento del luogo della restrizione domiciliare. In verità, il caso di specie presenta tratti di accentuata singolarità, avendo ad oggetto un'ordinanza emessa dal tribunale del riesame con cui era stata dichiarata l'inammissibilità dell'appello proposto dall'interessato, raggiunto dall'imputazione di atti persecutori, avverso l'ordinanza del G.U.P. di rigetto dell'istanza di sostituzione della misura cautelare degli arresti domiciliari con la "diversa misura della custodia cautelare in luogo di cura prevista dall'art. 286 c.p.p." (paragrafo 1 delle motivazioni in diritto). La singolarità sta in ciò che la custodia cautelare in luogo di cura, per il carattere di massima afflizione che già nominalmente la pervade, costituisce un aggravamento, piuttosto che un'attenuazione, del regime degli arresti domiciliari.

Il tema ritorna anche in un'altra sentenza enunciativa, sempre secondo la massima, del medesimo principio di diritto. Trattasi di Sez. 6, n. 27975 del 16/06/2016, P.M. in proc. Amri Ghalia ed al., Rv. 267131, la cui vicenda, però, a dire il vero, lette le motivazioni, sembra diversa. Ricorreva per cassazione il P.M. avverso un'ordinanza del tribunale del riesame che, a seguito di rinvio disposto dalla S.C., aveva a suo avviso omesso di pronunciarsi sull'eccezione preliminare formulata avverso l'ordinanza originaria di modifica del luogo di esecuzione della misura dell'obbligo di dimora di cui all'art. 283 cod. proc. pen., violando l'art. 623, comma primo, lettera a), in rapporto all'art. 299, comma terzo, stesso testo. Il Collegio - richiamata Sez. 6, n. 6717 del 05/02/2015, P.C. in proc. D., Rv. 262272 (peraltro replicata immediatamente dopo da Sez. 6, n. 35613 del 23/07/2015, P.O. in proc. T., Rv. 264342), circa l'obbligatorietà dell'interlocuzione con la persona offesa pur quando l'interessato insta per l'applicazione della misura "con modalità meno gravose", attesa la ratio di consentirle di offrire all'autorità giudiziaria procedente, anche in siffatta evenienza, la conoscenza di più ampie informazioni pertinenti all'oggetto della richiesta - si spinge sino a scrivere che sarebbe "difficile sostenere, per fare un esempio direttamente applicabile al caso [oggetto della decisione], che l'interlocuzione con la vittima debba intervenire solo in caso di revoca della misura dell'obbligo di dimora e non invece di modifica del luogo di esecuzione", che potrebbe essere pericolosamente "individuato nella stessa località o in altra prossima" rispetto a quella in cui vive la persona offesa. Il dato saliente è che il Collegio non si ferma qui, giacché, subito in appresso, dichiara expressis verbis che "la concorrente e pregnante finalità di tutela dell'incolumità fisica della persona offesa" in rapporto alla dimensione puramente procedimentale del contraddittorio con la medesima "permette, tuttavia, di individuare una deroga al rispetto della previsione, nel senso che nei casi di mera modifica delle modalità esecutive della misura che comporti un aumento di garanzia per la vittima, la notifica alla persona offesa potrà anche essere omessa". Di conseguenza, nella specie, opina che la modifica del luogo dell'obbligo di dimora (e di quello, per quanto di ragione, di presentazione alla p.g.) dal Comune di commissione dei fatti di reato e di residenza della persona offesa ad altro realizzi un effetto più tutelante per quest'ultima.

Tirate le somme, resta Sez. 5, n. 18565 del 08/01/2016, Secco, Rv. 267292, a sostenere che, nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona (tra cui il tentato omicidio aggravato), la richiesta di autorizzazione a trasferire il luogo degli arresti domiciliari è inammissibile se non notificata alla persona offesa o al suo difensore. La sentenza è interessante perché si preoccupa di instaurare una linea di continuità in rapporto all'interpretazione, pacifica, che evoca l'onere della notificazione nel caso di richiesta di modalità meno gravose della misura in atto, sostenendo che "considerazioni di natura logica" valgono "ad inquadrare [anche] il mutamento del domicilio ove è in corso la misura degli arresti domiciliari nell'ambito delle 'modalità meno gravose' di sua attuazione per l'interessato, ai sensi dell'art. 299, comma 4-bis, c.p.p. In base alle comuni regole di logica ed esperienza delle cose, infatti, deve ritenersi che l'indagato-imputato sia mosso da un interesse specifico alla presentazione della richiesta di modifica del luogo degli arresti domiciliari e che, quindi, il nuovo domicilio, in riferimento alle peculiarità del caso concreto ed alla soddisfazione di sue esigenze di vita, presenti caratteristiche tali da rendergli meno gravose le modalità di applicazione della misura cautelare" (paragrafo 2.2 delle motivazioni in diritto).

Sicché, teoricamente, ove per avventura l'indagato o imputato che sia avesse a vincere la presunzione che il trasferimento di domicilio corrisponde ad una sua maggiore comodità, com'è ben possibile che accada quando il domicilio attuale semplicemente non è più disponibile (per scadenza del contratto di locazione, per indisponibilità di colui che offre ospitalità, o per chiusura della struttura collettiva divenuta medio tempore di riferimento), non è esclusa la riapertura della finestra che lo libera dall'onere della notificazione.

3.2.b. Necessità a fronte di presentazione in udienza.

La lettera del comma quarto-bis dell'art. 299 cod. proc. pen. 1ascia aperto l'interrogativo se la richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare debba essere notificata anche quando essa è avanzata all'udienza preliminare.

Pacifica l'esclusione se la persona offesa è presente, perplessità sorgono quando la stessa è assente e non ha nominato un difensore o eletto domicilio.

La materia si intreccia con quella delle opzioni di notificazione, dettate da un non perspicuo - ed anzi decisamente ambiguo - comma terzo nella parte in cui stabilisce che la notificazione deve essere fatta, "a cura della parte richiedente ed a pena di inammissibilità, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa, salvo che in quest'ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio".

Sez. 2, n. 12325 del 03/02/2016, Spada, Rv. 266435, esclude la necessità della notificazione anche quando la persona offesa, assente in udienza, non ha nominato un difensore o eletto domicilio, fermo il suo diritto a ricevere avviso del provvedimento di revoca o sostituzione della misura. La premessa maggiore è che "il riconoscimento di un diritto di partecipare al procedimento cautelare della persona offesa è condizionato alla manifestazione della volontà di esserne parte[,] che si esprime attraverso la nomina di un difensore o l'elezione di domicilio, incombenti entrambi che assicurano la speditezza delle notifiche ed il contenimento dei tempi di emissione del provvedimento sulla cautela". La premessa minore è che "la assenza dell'offeso, che ha ricevuto regolare notifica [per l'udienza preliminare e che non ha eletto domicilio], esprime . . .una volontà di segno contrario a quella di volersi avvalere del diritto alla partecipazione effettiva al procedimento ed all'eventuale incidente relativo alla cognizione cautelare". La conclusione è che, "in assenza [delle predette modalità di] manifestazione di volontà partecipativa, l'offeso - ci si licenza di evidenziare - decade dal diritto alla notifica dell'istanza revoca" (paragrafi 1.1 e 1.2 delle motivazioni in diritto).

Sez. 2, n. 19704 del 01/04/2016, Machì, Rv. 267295 - riletta Sez. 2, n. 12325 del 2016, come un "tentativo di bilanciare i contrapposti interessi" della persona offesa ad essere informata e protetta e dell'indagato o imputato "a non vedere compressa la propria aspirazione alla libertà" mediante la limitazione dell'onere informativo all'ipotesi di un effettivo interesse della persona offesa alla dinamica del procedimento - ne ritiene l'incompatibilità "con il testo dell'art. 299 c.p.p. laddove impone alla p.o. di eleggere domicilio ovvero di costituirsi parte civile per beneficiare di talune informazioni e di presentare memorie. Invero la norma prevede solo distinte modalità di notifica dell'istanza, a seconda che la persona offesa abbia nominato un difensore di fiducia, nel qual caso si considera ivi domiciliata (ex art. 33 disp. att.), o non lo abbia nominato, nel qual caso la notifica andrà eseguita alla persona offesa, personalmente, salva l'ipotesi in cui questa abbia eletto o dichiarato il domicilio, per cui la notifica verrà ivi eseguita in deroga a quanto previsto dall'art. 33 disp. att. cod. proc. pen. L'inciso 'salvo che in quest'ultimo caso essa non abbia provveduto ad eleggere o dichiarare un domicilio' deve quindi intendersi quale eccezione alla regola secondo cui la persona offesa, che ha nominato il difensore, è presso di lui domiciliata, ritenendosi in tale caso prevalente la notifica presso il domicilio eletto o dichiarato, senza che possa ricavarsi, dalla omessa indicazione del domicilio o dalla mancata nomina del difensore, la decadenza della p.o. dal diritto a ricevere la notifica dell'istanza e prendere parte alla vicenda cautelare" (paragrafi 8 e 9 delle motivazioni in diritto).

4. Casistica sull'omissione di avvisi e notificazioni alla persona offesa in relazione a talune fasi del procedimento.

La recente attenzione, anzitutto normativa, per la persona offesa, su cui sin qui ci si è intrattenuti, non implica tuttavia l'attribuzione alla medesima di un generalizzato diritto alla partecipazione al procedimento.

Al contrario, i diritti e le facoltà a carattere lato sensu informativo-partecipativo alla stessa riconosciuti vanno commisurati, sia quanto a momento di esercizio sia quanto ad estensione e intensità, alle specifiche disposizioni di legge che vengono di volta in volta in rilievo.

Nella fase pre-processuale, detta conclusione vale ad esempio in tema di patteggiamento e di impugnazione della sentenza di non luogo a procedere.

Con riguardo al primo profilo, Sez. 5, n. 30941 del 08/06/2016, P.O. in proc. V. e al., Rv. 267426, portando ad epilogo l'interpretazione risalente già a Sez. 5, n. 287 del 25/11/1993, Russo e al., Rv. 196623, ribadita da Sez. 4, n. 30122 del 28/06/2007, P.O. in proc. Biagioli, Rv. 237836, afferma che "il mancato avviso alla persona offesa dell'udienza prevista dall'art. 447 cod. proc. pen. non determina alcuna nullità dell'udienza o della sentenza emessa ex art. 448 cod. proc. pen., neppure dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, di attuazione della direttiva 2012/29/UE sulla tutela delle vittime di reato, in quanto la valutazione in tale udienza della sola congruità della pena esula dai poteri di intervento previsti per la vittima, alla quale è attribuito soltanto il diritto ad essere informata dell'eventuale, conseguente, scarcerazione".

Con riguardo al secondo profilo, secondo Sez. 3, n. 15752 del 18/02/2016, P.M. in proc. Biancardi e al., Rv. 266834, "l'omessa notifica alla parte privata del ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero nei confronti della sentenza di non luogo a procedere, emessa ai sensi dell'art. 425 cod. proc. pen., non produce alcun effetto processualmente rilevante e nemmeno alcuna lesione dei diritti di difesa, atteso che nei confronti di tale sentenza non è consentito l'appello in via principale né alcuna impugnazione incidentale, e il diritto alla piena conoscenza degli atti processuali è comunque assicurato dalla notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza". D'altronde, là dove è ammesso l'appello, costante giurisprudenza insegna che l'omessa notificazione dell'atto di appello della pubblica accusa alla parte privata - ma anche viceversa - non genera né una nullità di ordine generale né l'inammissibilità del gravame, comportando unicamente la mancata decorrenza del termine per la proposizione, da parte del soggetto interessato, dell'eventuale appello incidentale, se consentito [così, da ultimo, Sez. 4, n. 4492 del 09/12/2015 (dep. 03/02/2016), Lucca, Rv. 265954].

Passando alla fase processuale, Sez. 6, n. 43330 del 12/07/2016, X, non massimata, in un procedimento per violenza sessuale, ribadisce il costante orientamento per cui l'imputato non ha interesse ad eccepire l'omessa citazione in giudizio della persona offesa, pur prevista a pena di nullità, perché unico fine della norma violata è quello di consentire al destinatario della citazione l'eventuale costituzione di parte civile.

Fermo quanto precede, il coinvolgimento della persona offesa è invece riconosciuto - nella fase prodromica all'instaurazione del giudizio - a proposito del nuovo istituto del proscioglimento per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen.: ciò, tuttavia, a conferma di quanto osservato poc'anzi, solo in forza delle puntuali norme applicabili. Invero Sez. 2, n. 6310 del 11/11/2015 (dep. 16/02/2016), P.G. in proc. Cutili, Rv. 266207, dichiara affetta da nullità di ordine generale a regime intermedio la sentenza pre-dibattimentale di non doversi procedere per particolare tenuità del fatto pronunciata senza dare avviso alla persona offesa dell'udienza camerale (dalla motivazione apprendesi che "la 'non-opposizione' del pubblico ministero e dell'imputato costituisce presupposto necessario anche per la sentenza emessa ex art. 469, comma 1-bis, così come previsto in linea generale dal comma 1 del medesimo articolo: in particolare, il comma 1-bis, nel premettere che 'la sentenza di non doversi procedere è pronunciata anche quando l'imputato non è punibile ai sensi dell'art. 131-bis del codice penale', risulta prescrivere l'adempimento della 'previa audizione in camera di consiglio anche della persona offesa, se compare', come requisito aggiuntivo e non sostitutivo rispetto a quanto richiesto dal comma 1").

SEZIONE III INDAGINI, UDIENZA PRELIMINARE E RITI ALTERNATIVI

  • reato

CAPITOLO I

QUASI FLAGRANZA E ARRESTO

(di Maria Meloni )

Sommario

1 La fattispecie e la questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite. - 2 Gli incerti confini della flagranza di reato. L'orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità. - 2.1 In particolare, le argomentazioni dell'orientamento prevalente. - 3 L'orientamento dissenziente estensivo. - 4 Sintesi degli orientamenti contrapposti. - 5 La decisione delle Sezioni Unite.

1. La fattispecie e la questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 39131 del 2016, (Pres. Santacroce, Est. Vecchio, Rel. Davigo, ric. PM in proc. Ventrice), pronunciata all'udienza in camera di consiglio del 24 novembre 2015, depositata il 21 settembre 2016, rv 267591, hanno affermato il seguente principio di diritto: È illegittimo l'arresto in flagranza operato dalla polizia giudiziaria sulla base delle informazioni fornite dalla vittima o da terzi nell'immediatezza del fatto, poiché, in tale ipotesi, non sussiste la condizione di "quasi flagranza", la quale presuppone la immediata ed autonoma percezione, da parte di chi proceda all'arresto, delle tracce del reato e del loro collegamento inequivocabile con l'indiziato.

Nella specie il Giudice per le indagini preliminari non aveva convalidato l'arresto dell'indagato - in relazione al reato di lesioni personali aggravate - ritenendo insussistente il requisito della quasi flagranza, in quanto all'individuazione dell'autore del reato si era giunti solo in ragione delle dichiarazioni della persona offesa, e la perquisizione personale e locale presso l'abitazione dell'indagato non aveva dato esito positivo. Cosicché - e passando al piano applicativo - le S.U. rilevano che la polizia non ha assistito direttamente ai fatti, essendo stata chiamata dopo la commissione del reato; e che i militari hanno proceduto alla ricerca del responsabile solo dopo le informazioni ricevute dai terzi, mentre alcun rilievo dirimente svolge l'assenza di soluzione di continuità delle indagini di polizia giudiziaria, dedotta dal P.M. ricorrente. Ergo: bene ha fatto il Gip a non convalidare l'arresto.

Con il principio su enunciato le S.U. risolvono la questione di diritto rimessa con il seguente quesito: Se la quasi flagranza legittimante l'arresto è configurabile solo quando il soggetto, che procede al compimento dell'atto privativo della libertà personale dopo aver inseguito l'indagato, abbia avuto diretta percezione dell'azione delittuosa, oppure anche quando l'attività di ricerca sia posta in essere solo per effetto dell'acquisizione di informazioni da terzi, sempre che la stessa sia iniziata subito dopo la ricezione della notizia del fatto e si sia protratta senza soluzione di continuità. In buona sostanza esse risolvono il contrasto sorto sull'esatto significato della nozione di quasi flagranza, sub specie di inseguimento del reo.

2. Gli incerti confini della flagranza di reato. L'orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità.

Sulla questione si era registrato un vivace e persistente contrasto.

La prevalente giurisprudenza di legittimità affermava che "non ricorre lo stato di quasi flagranza qualora l'inseguimento dell'indagato da parte della polizia giudiziaria sia iniziato, non già a seguito e a causa della diretta percezione dei fatti, ma per effetto e solo dopo l'acquisizione di informazioni da parte di terzi" (Sez. I, n. 43394 del 3 ottobre 2014, Quaresima, dep. 16 ottobre 2014, rv 260527), che contiene la più compiuta esposizione dell'orientamento in esame. Si inscrivono in questo indirizzo: Sez. VI, n. 8955 del 14 gennaio 2015, B.A.N. (dep. 27 febbraio 2015,, non massimata, ma edita in Dir. pen. e proc., 4, 2015, p. 406); E.B. (Sez. VI, n. 21900 del 3 aprile 2014, dep. 28 maggio 2014, rv 259770); (Sez. VI, n. 44090 del 14 ottobre 2014, dep. 23 ottobre 2014, rv 260718); Cecconi (Sez. IV, 7 febbraio 2013, dep. 5 aprile 2013, n. 15912, rv 254966); Rotolo (Sez. VI, n. 19002 del 3 aprile 2012, dep. 17 maggio 2012,, rv 252872); Z. C. (Sez. III, n. 34918 del 13 luglio 2011, dep. 27 settembre 2011, rv 250861); PM in proc. R (Sez. VI, n. 20539 del 20 aprile 2010, dep. 28 maggio 2010, rv 247379); Festa (Sez. V, n. 19078 del 31 marzo 2010, dep. 19 maggio 2010, rv 247248); M.S. (Sez. V, n. 40072 del 22 ottobre 2010, dep. 12 novembre 2010, non massimata); Manuguerra (Sez. VI, n. 42041 del 21 ottobre 2008, dep. 11 novembre 2008, rv 241918); Di Benedetto (Sez. II, n. 35458 del 6 luglio 2007, dep. 24 settembre 2007, rv 237802); Morelli (Sez. II, n. 7161 del 18 gennaio 2006, dep. 24 febbraio 2006, rv 233345); Sakoumi (Sez. IV, n. 17619 del 5 febbraio 2004, dep. 16 aprile 2004, rv 228180); Piromallo (Sez. V, n. 12669 del 17 febbraio 2004, dep. 17 marzo 2004, rv 227534); Morabito (Sez. VI, n. 10392 del 14 gennaio 2004, dep. 4 marzo 2004, rv 228466); Pasceri (Sez. III, n. 37861 dep. 17 giugno 2014, dep. 16 settembre 2014, rv 260085); Ponticelli (Sez. III, n. 4860 del 20 novembre 1990, dep. 27 febbraio 1991, rv 186494); Foriglio (Sez. I, n. 1379 del 31 marzo 1992, dep. 17 aprile 1992, rv 189874); Carrozzino (Sez. V, n. 3032 del 21 giugno 1999, dep. 1 settembre 1999, Rv. 214473); Matrisciano (Sez. IV, n. 3980 del 17 novembre 1999, dep. 12 gennaio 2000, rv 215441); Ferri (Sez. I, n. 766 del 23 febbraio 1993, dep. 14 aprile 1993, rv 193661); Palmarini (Sez. I, n. 6642 del 11 dicembre 1996, dep. 17 marzo 1997, Rv. 207085); Rasem (Sez. IV, n. 1681 del 28 giugno 1996, dep. 20 luglio 1996, rv 205333); Gessetto (Sez. I, n. 6481 del 17 dicembre 1998, dep. 8 febbraio 1999 rv 212456).

2.1. In particolare, le argomentazioni dell'orientamento prevalente.

Il nucleo centrale delle argomentazioni facenti capo all'orientamento prevalente sono i seguenti. Primo: il carattere eccezionale dell'istituto dell'arresto in flagranza, espressamente connotato come tale dall'art. 13, comma 3, Cost.. Secondo: il conseguente carattere di 'stretta interpretazione' della disciplina dell'arresto. Ragioni che pongono in discussione "la dilatazione della nozione di quasi flagranza sino a prescindere dalla coessenziale correlazione tra la percezione diretta del fatto delittuoso (quantomeno attraverso le tracce rivelatrici della immediata consumazione recate dal reo) e il successivo intervento di privazione della libertà dell'autore del reato". Al punto che "attraverso progressivi slittamenti e assimilazioni tra l'ipotesi specifica dell'inseguimento (contemplata nella disposizione) e quelle (più generiche e, pertanto, differenti) delle ricerche ovvero, addirittura, delle investigazioni tempestive si finisce col contravvenire al tenore testuale della norma". In altri termini, si "deborda dall'ambito dell'interpretazione estensiva dell'art. 382, comma 1, cod. proc. pen.", e, ancora prima, si superano i limiti che l'art. 13 Cost. pone a presidio dell'inviolabilità della libertà personale. È, pertanto, fondamentale il ritorno al testo normativo e al suo significato letterale evidenziato dal 'lemma 'inseguire' denotante, con tutta la sua pregnanza, l'azione del 'correre dietro a chi fugge' nonché dall'ulteriore requisito cronologico di immediatezza, 'subito dopo il reato', richiesto dalla legge, i quali postulano la necessità della correlazione funzionale tra la diretta percezione della azione delittuosa e la privazione della libertà del reo fuggitivo". La conclusione è, pertanto, la seguente: solo la percezione diretta della polizia giudiziaria che opera l'arresto qualifica la fattispecie di quasi flagranza.

Conclusione che, secondo l'orientamento maggioritario, trova puntuale riscontro nella ratio legis, considerato che "l'eccezionale attribuzione alla polizia giudiziaria (o al privato) del potere di privare della libertà una persona trova concorrente giustificazione nella altissima probabilità (e, praticamente, nella certezza) della colpevolezza dell'arrestato). Le quali esigono, tuttavia, "proprio la diretta percezione e constatazione della condotta delittuosa da parte degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, procedenti all'arresto, in quanto solo esse "possono suffragare, nel senso indicato, la sicura previsione dell'accertamento giudiziario della colpevolezza". Viceversa, in assenza di tale diretta percezione, "apprezzamenti e valutazioni, fondati sul piano affatto differente degli elementi investigativi assunti (ancorché prontamente e magari in loco) dalla polizia giudiziaria, non offrono analoghe sicurezza e affidabilità di previsione". Non solo, essi sono estranei alla ratio dell'istituto caratterizzato, invece, da un'immediata, autonoma e diretta percezione delle tracce del reato". Conclusivamente: la flagranza è incompatibile non solo con lo svolgimento di indagini ma anche con la stessa acquisizione di elementi investigativi, pure prontamente effettuata nel luogo di commissione del reato. Pertanto, si ribadisce che lo stato di quasi flagranza implica che la polizia giudiziaria abbia avuto immediata e contestuale percezione della commissione del reato e che, in forza di tale diretta percezione, abbia posto in essere una tempestiva attività di localizzazione ed apprensione degli autori del reato.

Per contro, le ricerche del reo, pur immediatamente eseguite e immediatamente concluse, non possono essere equiparate all'inseguimento della polizia giudiziaria, sono altra cosa, insomma sono tempestive indagini che non valgono ad integrare la quasi flagranza di cui all'art. 382 cod. proc. pen..

Come è agevole riscontrare, posto che, per l'indirizzo in esame, l'inseguimento che qualifica la quasi flagranza deve essere preceduto dalla diretta e autonoma percezione dei fatti, la nozione di quasi flagranza si ricongiunge nel suo nucleo essenziale a quella di flagranza. L'unica differenza riguarda la fuga cui segue l'inseguimento e, quindi, il raggiungimento dell'autore del reato in luogo diverso da quello del commesso reato ed in un arco temporale che oltrepassa quello della consumazione del reato.

3. L'orientamento dissenziente estensivo.

Secondo un diverso orientamento "lo stato di quasi flagranza sussiste anche nel caso in cui l'inseguimento non sia iniziato per una diretta percezione dei fatti da parte della polizia giudiziaria, bensì per le informazioni acquisite da terzi (inclusa la vittima), purché sussista soluzione di continuità fra il fatto criminoso e la successiva reazione diretta ad arrestare il responsabile del reato" (Sez. III, 6 maggio 2015, B. e altro, dep. 27 maggio 2015, n. 22136, rv 263663). A queste conclusioni si perviene affermando che il concetto di inseguimento, costitutivo della quasi flagranza, deve essere inteso "in senso lato, come attività di indagine che la polizia giudiziaria pone in essere appena ricevuta la notitia criminis e che svolge senza soluzione di continuità fino . . .all'arresto del soggetto". In altri termini: l'inseguimento "utile per definire il concetto di quasi-flagranza", va inteso in senso più ampio di quello strettamente etimologico, ricomprendendo anche l'azione di ricerca, quindi, ogni attività di indagine e ricerca finalizzata alla cattura dell'indiziato di reità, immediatamente posta in atto, anche se non immediatamente conclusa, purché protratta senza soluzione di continuità". Correlativamente appare "pienamente logico intendere il concetto di flagranza o quasi flagranza come riconducibile non a una mera percezione diretta dell'attività criminosa da parte di chi effettua l'arresto, bensì all'assenza di una soluzione di continuità tra il fatto criminoso e la reazione diretta ad arrestarne il reo".

Alcune decisioni precisano ulteriormente che, in virtù della ratio dell'istituto, il concetto di inseguimento non può non dilatarsi alla confinante accezione di perseguimento, ovvero esplicazione di indagine che sortisce immediatamente dalla notitia criminis e senza soluzione di continuità conduce in un tempo oggettivamente breve ad arrestare l'autore del reato. I risultati di questa operazione ermeneutica sono, secondo la giurisprudenza in esame, pienamente conformi all'interpretazione letterale dell'art. 382 cod. proc. pen., il quale "non esige . . .che chi procede all'arresto abbia veduto l'agente mentre commetteva il reato", in quanto "l'ipotesi dell'aver colto il reo nell'atto di commettere il reato . . .è configurata come ipotesi alternativa (ovvero) rispetto a quella dell'inseguimento del reo subito dopo il reato, senza esigere, quindi, neppure a livello semantico, che chi arresta dopo avere inseguito abbia veduto il reo fuggire dal luogo dove ha commesso il reato". Non solo, secondo l'orientamento in esame è proprio il restrittivo orientamento che "si distacca dalla pregnanza letterale della norma in misura assai superiore rispetto all'orientamento più lato", giacché "pretendendo che sussista l'ipotesi di flagranza quasi/flagranza solo nel caso in cui chi arresta ha cominciato l'inseguimento a seguito di una propria diretta percezione dei fatti, e non anche nel caso in cui chi arresta ha ricevuto informazioni da terzi (tra cui la persona offesa), avvince l'ipotesi dell'arresto a seguito di inseguimento con l'ipotesi, precedente e in realtà alternativa, dell'avere colto nell'atto di commettere un reato l'agente". Con la conseguenza che "l'inseguimento diventa un'ipotesi subordinata all'ipotesi precedente della percezione del reato", mentre, secondo la giurisprudenza in esame, "la norma, al contrario . . .prevede come alternative, e dunque autonome l'una dall'altra, le ipotesi in questione". La conclusione è che "l'inseguimento . . .impone come unico presupposto, per legittimare l'arresto in quasi flagranza, il fatto che prenda le mosse subito dopo il reato, non esigendo però il testo della norma né che chi insegue abbia visto/percepito personalmente la commissione del reato né che chi insegue abbia visto/percepito personalmente l'inizio della fuga da parte del reo".

Va da sé che "l'informazione da parte di terzi a colui che conseguentemente insegue non contrasta con la legittimità del successivo arresto" e che "poiché originabile anche da informazioni di terzi, oltre che ( . . .eventualmente) da percezioni dirette, il concetto di inseguimento può ermeneuticamente estendersi nel concetto di indagine, la quale, però, per essere qualificabile come cronologicamente collocata subito dopo la commissione del reato, non potrà subire alcuna soluzione di continuità".

In tal senso le seguenti sentenze: B. e altro (Sez. III, 6 maggio 2015,, dep. 27 maggio 2015, n. 22136, rv 263663); Isaia M. (Sez. II, 3 luglio 2015, dep. 4 novembre 2015, n. 44498); N.A.N. (Sez. I, 11 giugno 2014, dep. 1 luglio 2014, n. 28246, non massimata); Califano (Sez. II, 10 novembre 2010, dep. 16 dicembre 2010, n. 44369, Rv. 249169); Vinetti (Sez. I, 24 novembre 2011, dep. 22 febbraio 2012, n. 6916, Rv. 252915); Sali (Sez. IV, 20 giugno 2006, dep. 12 settembre 2006, n. 29980, rv 234816): Dottore (Sez. I, 15 marzo 2006, dep. 6 luglio 2006, n. 23560, rv 235259; Mahbob (Sez. IV, 12 novembre 2002, dep. 30 gennaio 2003, n. 4348, rv 226984); Paris (Sez. I, 11 luglio 2002, dep. 18 luglio 2002, n. 27287, rv 221764); Ortelli (Sez. II, 7 dicembre 1976, dep. 30 giugno 1977, n. 8493, rv 136334); Mastrodonato (Sez. I, 19 febbraio 1990,, dep. 14 marzo 1990, n. 402, rv 183661); Innocenti (Sez. VI, 28 novembre 1990, dep. 5 febbraio 1991, n. 3414, rv 186332); Capelli (Sez. II, 31 ottobre 1990, dep. 10 giugno 1991, n. 6309, rv 187405); Mitrangolo (Sez. V, 5 dicembre 1991, dep. 4 febbraio 1992, n. 2105, rv 189544); Maglione (Sez. I, 8 luglio 1992, dep. 15 ottobre 1992, n. 3318, rv 192032); Padovano (Sez. I, 12 aprile 1994, dep. 30 maggio 1994, n. 1646, rv 198882); Bianchi (Sez. IV, 12 aprile 1995, dep. 13 luglio 1995, n. 1314, rv 202108); Barone (Sez. II, 15 maggio 1998, dep. 20 marzo 1999, n. 2879, rv 212711); Giannatiempo (Sez. V, 7 luglio 1999, dep. 1 settembre 1999, n. 2738, rv 214469).

Conclusivamente: secondo l'orientamento in esame, l'azione spiegata senza interruzione per raggiungere e arrestare l'autore del reato integra la quasi flagranza, purché sussista una stretta contiguità temporale tra la consumazione del reato e l'inseguimento così inteso.

4. Sintesi degli orientamenti contrapposti.

L'esame della giurisprudenza di legittimità in subieta materia rivela che, nonostante entrambi gli orientamenti affermino di fare ricorso, al fine di stabilire il significato dell'art. 382 cod. proc. pen., all'interpretazione letterale, i risultati che ne conseguono sono diversi. L'orientamento prevalente ritiene che l'inseguimento qualificato ad integrare la quasi flagranza è quello che segue alla immediata, diretta, autonoma percezione del fatto, da parte della polizia giudiziaria, procedente all'arresto. Sicché non vi è quasi flagranza senza percezione diretta. Esattamente come per la flagranza propriamente detta, senza il quasi. Ciò comporta, come si è visto esaminando i casi decisi dalla giurisprudenza, che l'inseguimento della polizia, ancorché immediato e coronato da successo, se eseguito sulla base delle indicazioni fornite da quanti hanno assistito ai fatti, non integra la quasi flagranza. E la ragione fondamentale è che elemento connaturato alla flagranza è l'alta evidenza probatoria, praticamente la certezza in ordine alla individuazione del responsabile, che per l'orientamento prevalente, può essere assicurata solo dalla percezione diretta della polizia giudiziaria, che operi l'arresto. Cosicché, in assenza della percezione diretta della polizia giudiziaria si è fuori dall'evidenza probatoria. Conclusivamente: la percezione diretta della polizia giudiziaria è il criterio dirimente e conclusivo per affermare la sussistenza della quasi flagranza nell'ipotesi dell'inseguimento.

Il secondo orientamento, invece, ritiene, ancora sulla base dell'interpretazione letterale dell'art. 382 cod. proc. pen., che l'inseguimento della polizia giudiziaria non deve necessariamente essere preceduto dalla percezione diretta della commissione del reato, purché sia posto in essere subito dopo il reato, avvalendosi anche delle informazioni raccolte sul posto da chi ha assistito direttamente ai fatti e dispiegandosi senza interruzioni, al fine di bloccare la fuga dell'autore del reato.

5. La decisione delle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite aderiscono alle conclusioni del primo orientamento e ne condividono il tessuto argomentativo, pur con alcune precisazioni. Preliminarmente, esse affermano, sulla base di un'analisi esegetica del testo normativo di riferimento, che il legislatore ridefinendo lo stato di flagranza, ha concentrato in un'unica disposizione, cioè l'art. 382, comma 1, le previsioni racchiuse nel secondo e nel terzo comma dell'art. 237 del codice di rito previgente", le quali "hanno offerto solida base alla tradizionale distinzione tra la flagranza in senso proprio e la quasi flagranza". Il vigente codice di rito, invece, pur conservando la formulazione letterale dell'art. 237, comma 2, previgente salda nel comma 1 le due ipotesi di c.d. quasi flagranza (inseguimento del reo e rinvenimento di tracce del reato) all'ipotesi principale della flagranza, racchiudendole in una sistemazione unitaria. Con il significato, secondo le S.U., di porre a fondamento della unificata previsione dello stato di flagranza il rapporto di contestualità tra la condotta del reo e la percezione della stessa e, quindi, del nesso tra il reato e il suo autore. Con la conseguenza che le due ulteriori previsioni "non devono più ritenersi meramente equiparate alla prima . . .bensì integrano, disgiuntamente e a pieno titolo - esattamente al pari della prima - lo stato di flagranza". Ulteriore corollario è che "il sintagma quasi flagranza resta ormai privo di ogni valore giuridico-concettuale e assume nella accezione corrente la funzione di espressione puramente indicativa dei due casi di flagranza de quibus". Da questo breve quadro argomentativo, che costituisce la pars construens delle S.U. Ventrici, si dipartono le conseguenze costitutive della pars destruens. L'unitarietà dell'istituto della flagranza costituisce, infatti, il passaggio principale attraverso cui si snoda il percorso ermeneutico delle S.U., avente per oggetto un duplice approfondimento: a) la nozione di inseguimento del reo; b) la relazione temporale e logica che lega l'inseguimento al reato.

Quanto al primo punto, le S.U. escludono, anzitutto, in virtù delle pregresse considerazioni esegetiche e sempre con l'ausilio dell'interpretazione letterale restrittiva, che nella sfera previsionale dell'art. 382 cod. proc. pen. possa rientrare l'inseguimento in senso figurato o puramente metaforico, e, pertanto, le ipotesi in cui l'autore del reato sia oggetto di "incalzante attività investigativa" o comunque perseguito, a seguito di ricezione della notitia criminis. Secondo le S.U. tale opzione ermeneutica estensiva non trova riscontro nel contesto semantico del linguaggio normativo, giacché nell'art. 382, comma 1, cod. proc. pen. "condotte e situazioni assumono rilievo nella evidenza della loro materialità, siccome espressa da dati effettuali, quali l'essere il soggetto colto nell'atto di commettere il reato ovvero l'essere sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima". In tale contesto l'inseguimento investigativo o figurato risulta, pertanto, "palesemente incoerente". In secondo luogo, non trova riscontro nella stessa evoluzione storica dell'istituto in esame nella quale si coglie, secondo le S.U., una tendenza volta a restringerne progressivamente i confini e l'ambito di operatività. In tal senso si afferma che "laddove il codice di rito del 1865 (art. 47, comma 2) e quello del 1913 (art. 168, comma 3) includevano tra i casi di quasi-flagranza anche quello dell'inseguimento inteso nella accezione figurata (era considerato in flagranza anche chi fosse inseguito dal pubblico clamore), siffatta previsione è stata definitivamente espunta dai testi normativi fin dalla entrata in vigore del codice di rito del 1930". Pertanto, anche la ricostruzione dell'evoluzione storica della flagranza evidenzia una costante e progressiva limitazione dei casi di arresto in flagranza e, quindi, dell'ambito di operatività dell'istituto che trova il suo culmine nei principi costituzionali e segnatamente nell'art. 13, comma 1, Cost. che proclamando l'inviolabilità della libertà personale, e al comma 2, ammettendone le restrizioni solo nei casi e modi previsti dalla legge, su disposizione e con atto motivato dell'autorità giudiziaria, afferma che "in casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto". In breve, alla luce dell'art. 13 Cost. - che afferma la natura eccezionale dei provvedimenti restrittivi della libertà personale e vieppiù della privazione della libertà personale ad opera della polizia - si impone l'opzione esegetica restrittiva che esclude dalla nozione di inseguimento, ex art. 382 del codice di rito, l'accezione confinante e, dunque, differente del perseguimento del reo attraverso la sollecita attività di investigazione e di ricerca.

Ulteriore riscontro in tal senso è rinvenibile, secondo le S.U., anche nella struttura della misura precautelare dell'arresto in flagranza, caratterizzata dalla coessenzialità dell'esecuzione rispetto alla deliberazione, in quanto "l'attività di privazione della libertà personale del reo e la deliberazione di chi esegue l'arresto . . .sono inscindibili", ed essa "consiste e si esaurisce nella sua materiale esecuzione", connotandosi come "speculare rispetto alla denotazione delle ipotesi di flagranza, che risiede nella pertinenza - sul piano fattuale - alla condotta delittuosa, colta nel mentre si compie ovvero, tosto che sia consumata, nelle immediate proiezioni materiali della perpetrazione: l'inseguimento del reo e la sorpresa di costui con cose o tracce del reato".

Conclusivamente: l'interpretazione letterale, sistematica e storica dell'art. 382 del codice di rito escludono che nel suo ambito previsionale possa trovare collocazione l'inseguimento figurato. Cosicché l'inseguimento ex art. 382 cod proc. pen. è solo ed esclusivamente quello materiale.

Sul secondo punto relativo alla relazione temporale e logica che lega l'inseguimento al reato, le S.U. evidenziano che essa è stabilita dalla legge in termini di immediatezza, rilevando che se l'inseguimento "origina subito dopo il reato, necessariamente l'inseguitore deve avere personale percezione, in tutto o in parte, del comportamento criminale del reo nella attualità della sua concreta esplicazione", in quanto "è proprio tale contezza che . . .dà adito all'inseguimento orientato alla cattura del fuggitivo, autore del reato". In altri termini, l'inseguimento in continenti e non la fuga - che può correlarsi a ragioni diverse dalla colpevolezza - avvince il reo allo stato di flagranza. Pertanto, le S.U. escludono che l'inseguimento del reo posto in essere dalla p.g. sulla base delle informazioni dei terzi che abbiano assistito ai fatti - cioè l'inseguimento c.d. investigativo, figurato, ideale - possa essere assimilato all'inseguimento che origina dall'autonoma e diretta percezione dei fatti e cioè all'inseguimento materiale. Cosicché "l'arresto eseguito, pur dopo brevissimo tempo dai fatti, in virtù di informazioni di terzi, resta estraneo alla previsione normativa dello stato di flagranza costituito dall'inseguimento dell'indagato".

Conclusivamente: "la ratio della previsione normativa dell'inseguimento risiede . . .nella estensione della possibilità della esecuzione dell'arresto dell'autore del reato, in luogo diverso da quello di commissione del delitto e dopo apprezzabile intervallo di tempo dalla relativa consumazione, nella ipotesi che il reo, pur essendo stato scorto nell'atto della perpetrazione, sia riuscito a darsi alla fuga". Il dato dirimente è insomma, pur sempre, che colui che esegue l'arresto si determini - indipendentemente dal fatto di essere agente di polizia o privato cittadino - in virtù della diretta percezione della situazione costitutiva della flagranza di reato e non sulla base di informazioni ricevute dai terzi. Al di fuori di tale contestualità spazio-temporale si "rompe la sequenza logica della norma".

Il criterio guida, il filo conduttore attraverso cui si annodano e riannodano le argomentazioni passate in rassegna è costituito, come già detto, dalla correlazione dell'art. 382 cod. proc. pen. all'art. 13 Cost. che connota in termini di eccezionalità i provvedimenti provvisori di restrizione della libertà personale adottati dalla autorità di polizia, con la conseguenza che le norme che li prevedono sono di stretta interpretazione, in quanto tali non suscettibili di interpretazione estensiva.

  • giudice
  • procedura penale
  • inchiesta giudiziaria

CAPITOLO II

I POTERI VALUTATIVI DEL GIUDICE DELL'UDIENZA PRELIMINARE

(di Luigi Barone )

Sommario

1 Introduzione. - 2 L'evoluzione normativa dell'udienza preliminare. - 3 Il dibattito sulla natura dei poteri decisori del gup nell'attuale impianto normativo. - 4 La tesi "processuale". - 5 L'indirizzo tendente a valorizzazione il profilo di merito.

1. Introduzione.

Il tema della regola di giudizio posta a base della sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'art. 425 cod. proc. pen. è indubbiamente complesso e da sempre oggetto di un acceso dibattito in dottrina e giurisprudenza.

L'udienza preliminare rappresenta uno dei principali snodi del procedimento penale, quello nel quale il giudice è chiamato a vagliare la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero e a decidere se dare ingresso alla successiva fase dibattimentale ovvero se decretare la conclusione del procedimento. Il controllo giurisdizionale sull'esercizio dell'azione penale ha una diretta influenza tanto sulle garanzie di difesa dell'imputato quanto sulle esigenze di economia processuale, risultando di tutta evidenza come la maggiore o minore chiusura delle maglie del "filtro" da adoperare in questa fase possa scongiurare un'inutile prosecuzione dell'attività processuale a vantaggio dell'imputato nonché incidere sui flussi degli affari convogliati nella fase del giudizio, corrispondendo ad un ampliamento dei poteri riconosciuti in capo al giudice un inevitabile effetto deflattivo dello sviluppo dibattimentale.

In ragione, forse anche, dell'estrema delicatezza del passaggio processuale in questione, la relativa disciplina è stata oggetto di ripetuti interventi normativi rivolti ad un progressivo ripensamento della originaria configurazione dell'udienza preliminare in favore di un qualcosa sempre più somigliante ad un vero e proprio giudizio di cognizione.

I poteri decisori del giudice dell'udienza prelimnare (da qui in avanti gup) si sono di riflesso pian piano colorati di connotazioni di merito, che ne hanno messo in discussione la natura puramente processuale, senza tuttavia da questa disancorare la giurisprudenza maggioritaria.

Il tema è stato oggetto sul finire del 2015 e nel 2016 di importanti arresti giurisprudenziali, nei quali, invece, la Suprema Corte si è profusa in un ripensamento della materia, fornendone una chiave di lettura non più dicotomica, tale da consentire a valutazione di merito l'ingresso nella decisione del gup, senza pregiudicarne la vocazione processuale.

2. L'evoluzione normativa dell'udienza preliminare.

Tra le intenzioni del legislatore del 1988 vi era quella di creare un momento processuale, successivo all'esercizio dell'azione penale, che fungesse da filtro rispetto ad imputazioni azzardate e consentisse, così, di evitare dibattimenti inutili.

Nel congegnare per tale scopo una udienza ad hoc, il legislatore si mostrava, tuttavia, fortemente condizionato della preoccupazione di far rivivere la figura dell'abolito giudice istruttore, che non si conciliava affatto con il modello accusatorio del nuovo processo. Da qui, l'esigenza di prevedere un controllo giurisdizionale, che, nel delibare sul fondamento dell'accusa, non si traducesse in un intervento così penetrante da assumere compiti di supplenza rispetto alle lacune nei risultati delle indagini svolte dal pubblico ministero o alle carenze nell'esercizio della attività difensiva.

Da tali premesse, ne è conseguito, sul piano normativo, una udienza modellata come procedimento allo stato degli atti, cui poteva eventualmente far seguito un regime eccezionale di integrazione probatoria, giustificata soltanto dall'impossibilità per il giudice di poter decidere.

Soltanto l'evidente innocenza dell'imputato, per il ricorrere di una delle cause assolutorie, consentiva al gup di pronunciare sentenza di non luogo a procedere (nel prosieguo: nlp).

Disegnata con maglie così larghe, l'udienza preliminare si rivelava, presto, assolutamente inadeguata allo scopo cui era stata preordinata, con l'effetto singolare di non consentire il proscioglimento dell'imputato neanche in quelle ipotesi per le quali sarebbe stata, invece, ammessa l'archiviazione a norma dell'art. 125, disp. att. cod. proc. pen..

Il rischio di fallimento di quello che avrebbe dovuto costituire lo snodo nevralgico del nuovo rito spingeva il legislatore ad intervenire dettando nuove regole, che modificavano profondamente la fisionomia strutturale dell'udienza preliminare, attribuendo al gup nuovi e più penetranti poteri istruttori e valutativi.

Una prima significativa modifica veniva introdotta dalla legge n. 105 del 1993, che, eliminando il requisito della "evidenza" delle cause liberatorie rilevanti ai fini della sentenza ex art. 425, cit., incrementava sensibilmente la possibilità di adottare questo tipo di pronuncia e specularmente ampliava lo spettro valutativo sotteso alla decisione.

Ancor più incisivo il restyling dell'udienza preliminare operato con la legge 16 dicembre 1999, n. 479, con la quale, per un verso, venivano ampliati i poteri istruttori demandati al gup ai sensi degli artt. 421-bis e 422, comma 1, cod. proc. pen. (esercitabili sia su sollecitazione di parte, sia d'ufficio); per altro verso, si aggiungeva tra i presupposti legittimanti la sentenza di nlp la insufficienza, contraddittorietà o comunque non idoneità degli elementi acquisiti risultano a sostenere l'accusa in giudizio.

3. Il dibattito sulla natura dei poteri decisori del gup nell'attuale impianto normativo.

La riforma del 1999 ha indotto un ripensamento in dottrina ed in giurisprudenza sui poteri esercitabili dal gup nel vaglio della richiesta di rinvio a giudizio e, correlativamente, sulla natura della sentenza ex art. 425 cod. proc. pen.

La dottrina, nella sua gran parte, è orientata a ritenere che la novella miri a rendere effettiva la funzione di filtro dell'udienza preliminare, senza tuttavia alterare le caratteristiche della sentenza di nlp, che era e sarebbe rimasta una pronuncia meramente processuale, destinata a valutare la ricorrenza dei presupposti per il passaggio alla fase dibattimentale e, dunque, a sbarrare la strada ad "imputazioni azzardate"[1].

La Corte Costituzionale, chiamata ad una riflessione sulle mutate connotazioni dell'udienza preliminare, ha sensibilmente corretto l'originaria impostazione. In particolare, nella sentenza n. 224 del 2001 (in tema di incompatibilità del giudice), i Giudici della Consulta hanno evidenziato che "a seguito delle importanti innovazioni introdotte, in particolare, dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, l'udienza preliminare ha subito una profonda trasformazione sul piano sia della quantità e qualità di elementi valutativi che vi possono trovare ingresso, sia dei poteri correlativamente attribuiti al giudice, e, infine, per ciò che attiene alla più estesa gamma delle decisioni che lo stesso giudice è chiamato ad adottare". Per altro verso, si è evidenziato che il tema decisorio dell'udienza preliminare risulta ampliato in considerazione dei più ampi poteri d'indagine riconosciuti alla difesa con la legge 7 dicembre 2000, n. 397.

Con la sentenza n. 335 del 2002 (sempre in tema di operatività del principio di imparzialità del giudice), il Giudice costituzionale ha ribadito che "il nuovo art. 425 chiama il giudice a una valutazione di merito sulla consistenza dell'accusa, consistente in una prognosi sulla sua possibilità di successo nella fase dibattimentale".

Sulla scia di tali affermazioni di principio, la Cassazione, nel suo più ampio consesso, ha osservato che, "per effetto delle innovazioni introdotte con la legge 16 dicembre 1999, n. 479, l'udienza preliminare ha subito una profonda trasformazione sul piano sia della qualità e quantità di elementi valutativi che vi possono trovare ingresso, sia dei poteri correlativamente attribuiti al giudice, cui ha corrisposto, quanto alla determinazione conclusiva, un apprezzamento del merito ormai privo di quei caratteri di sommarietà che prima della riforma erano tipici di una delibazione tendenzialmente circoscritta allo stato degli atti" (Sez. U, n. 31312 del 26/06/2002, D'Alterio, Rv. 222043).

Nello stesso anno, ancora le Sezioni unite (n. 39915 del 30/10/2002, Vottari, Rv. 222602) ponevano un fondamentale punto fermo sul tema. Investita della questione concernente i rapporti fra rinvio a giudizio e giudizio di gravità indiziaria a fini cautelari, la Corte a composizione allargata ha evidenziato che, "pur essendo innegabile che, all'interno di un disegno frammentario del legislatore, gli strappi acceleratori verso un vero e proprio giudizio di merito, rispetto all'originario carattere di momento di impulso meramente processuale, hanno influito sulla struttura dell'udienza preliminare, la regola di diritto per il rinvio a giudizio resta tuttavia qualificata dalla peculiarità dell'oggetto della valutazione e del correlato metodo di analisi . . .Il radicale incremento dei poteri di cognizione e di decisione del giudice dell'udienza preliminare, pur legittimando quest'ultimo a muoversi implicitamente anche nella prospettiva della probabilità di colpevolezza dell'imputato, non lo ha tuttavia disancorato dalla fondamentale regola di giudizio per la valutazione prognostica, in ordine al maggior grado di probabilità logica e di successo della prospettazione accusatoria ed all'effettiva utilità della fase dibattimentale, di cui il legislatore della riforma persegue, espressamente, una significativa deflazione. Di talché, gli epiloghi decisionali dell'udienza preliminare, quanto ai casi che risultino allo stato degli atti aperti a soluzioni alternative, si ricollocano specularmene nel solco delle coordinate già tracciate dall'art. 125 disp. att. cod. proc. pen. per l'archiviazione, come logico completamento della riforma introdotta con la legge 8 aprile 1993, n. 105, recante la soppressione del presupposto della 'evidenza' ".

4. La tesi "processuale".

Forte delle affermazioni di principio espresse dalle Sezioni unite, la giurisprudenza successiva è rimasta ancorata ad una lettura della disciplina dell'udienza preliminare, tale per cui la decisione ivi demandata al giudice mantiene, anche a seguito della novella del 1999, natura processuale e non di merito. Il criterio di valutazione per il gup non è dunque l'innocenza dell'imputato, ma l'inutilità del dibattimento, anche in presenza di elementi di prova contraddittori od insufficienti, di talché il giudice deve pronunziare sentenza di nlp solo quando sia ragionevolmente prevedibile che gli stessi siano destinati a rimanere tali all'esito del giudizio (Cass. Sez. 6, n. 33921 del 17/07/2012, Rolla, Rv. 253127; Sez. 2, n. 48831 del 14/11/2013, Maida, Rv. 257645).

In epoca ancora più recente, si è affermato che, ai fini della pronuncia della sentenza di nlp, il gup deve esprimere una valutazione prognostica in ordine alla "completabilità degli atti di indagine" e alla "inutilità del dibattimento", anche in presenza di elementi di prova contraddittori o insufficienti, dando conto del fatto che il materiale dimostrativo acquisito è insuscettibile di completamento e che il proprio apprezzamento in ordine alla prova positiva dell'innocenza o alla mancanza di prova della colpevolezza dell'imputato è in grado di resistere ad un approfondimento nel contraddittorio dibattimentale (Sez. 6, n. 36210 del 26/06/2014, C., Rv. 260248). Secondo il principio generale desumibile dal sistema, deve difatti procedersi al dibattimento solo se dallo svolgimento della relativa istruttoria la prospettiva accusatoria può trovare ragionevole sostegno per fugare la situazione di dubbio, ma non anche in caso di astratta possibilità di una decisione diversa a parità di quadro probatorio (Sez. 6, n. 17659 del 01/04/2015, Bellissimo e altro, Rv. 263256). In presenza di fonti di prova che si prestino ad una molteplicità ed alternatività di soluzioni valutative, il giudice deve verificare se tale situazione possa essere superata attraverso le verifiche e gli approfondimenti propri della fase del dibattimento, ma non può operare valutazioni di tipo sostanziale che spettano, nella predetta fase, al giudice naturale (Sez. 6, n. 6765 del 24/01/2014, Luchi e altri, Rv. 258806).

La tesi maggioritaria della natura esclusivamente processuale della sentenza di nlp ha trovato seguito anche in ripetute pronunce dell'anno in corso.

Tra queste meritano di essere segnalate Sez. 5, n. 26756 del 26/02/2016, Miglietta, Rv. 267189 e Sez. 2, n. 15942 del 07/04/2016, I e altro, Rv. 266443.

Con la prima, si è affermato che attesa la funzione di "filtro" svolta dall'udienza preliminare, ai fini della pronuncia della sentenza di nlp, il gup deve valutare, sotto il solo profilo processuale, se gli elementi probatori acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque inidonei a sostenere l'accusa in giudizio, esprimendo un giudizio prognostico circa l'inutilità del dibattimento, senza poter formulare un giudizio sulla colpevolezza dell'imputato.

Con la seconda, è stato scritto che, ai fini della pronuncia della sentenza di nlp, il gup deve valutare, sotto il solo profilo processuale, se gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in dibattimento, senza poter effettuare una complessa ed approfondita disamina del merito del materiale probatorio, nè formulare un giudizio sulla colpevolezza dell'imputato, essendogli inibito il proscioglimento in tutti i casi in cui gli elementi di prova acquisiti a carico di quest'ultimo si prestino a valutazioni alternative, aperte o, comunque, tali da poter essere diversamente valutati in dibattimento anche alla luce delle future acquisizioni probatorie.

5. L'indirizzo tendente a valorizzazione il profilo di merito.

In epoca recente, la Corte ha affermato il principio, secondo cui, nel delibare la legittimità dell'esercizio dei poteri decisori da parte del giudice dell'udienza preliminare, si deve prescindere da distinzioni astratte tra valutazioni processuali e valutazioni di merito e si deve piuttosto avere riguardo - come per le decisioni emesse all'esito del dibattimento - alla completezza ed alla congruità della motivazione stessa, in relazione all'apprezzamento dell'aspetto prognostico dell'insostenibilità dell'accusa in giudizio, sotto il profilo della insuscettibilità del compendio probatorio a subire mutamenti nella fase dibattimentale (conf. Sez. 6, n. 48928 dell'11/11/2015, Fascetto, Rv. 265478).

Il principio enunciato ha trovato sviluppo nell'anno in corso in un filone di arresti, nei quali la Suprema Corte si è apertamente discostata dalla tesi tradizionale, riconoscendo alla valutazione del gup la duplice natura processuale e di merito.

Sez. 6, n. 3726 del 29/09/2015, dep. 2016, Di Gaetano, Rv. 266132, ha testualmente asserito che non può essere condivisa, in diritto, l'affermazione per la quale sarebbe preclusa al gup, in esito alla udienza preliminare, ogni valutazione afferente la fondatezza nel merito della prospettazione accusatoria.

A fondamento di un simile enunciato, il Collegio, richiamando peraltro quanto nell'anno precedente già ritenuto da Sez. 6, n. 33763, 30/04/2015, Quintavalle, Rv. 264427, ha osservato come con la novella del 1999 la regola di giudizio della udienza preliminare non sia più limitata alla verifica superficiale che non vi siano ostacoli al rinvio a giudizio. Essa implica, piuttosto, di valutare innanzitutto la esistenza di un corpo indiziario da qualificare come "serio" e, poi ed in aggiunta, una seria prospettiva di un risultato positivo per l'accusa nel dibattimento.

La Corte ricostruisce dunque una sequela di passaggi valutativi, tale per cui ai fini del rinvio a giudizio occorre, in primo luogo, verificare la sussistenza di un minimum probatorio, in assenza del quale si consentirebbe la sottoposizione al processo al di fuori di qualsiasi verifica della necessità di una tale compressione dei diritti della persona imputata.

Si afferma testualmente: Il comma aggiunto nel 1999 allo stesso art. 425 cit., soprattutto se letto rispetto al "diritto vivente" sul quale si andava ad innestare, era ed è testuale nell'ampliare l'ambito di valutazione del giudice per l'udienza preliminare richiedendo la esistenza di un minimo probatorio: "il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio".

Tale disposizione è stata introdotta al chiaro fine di ampliare l'ambito di intervento del gup, rispetto ad una interpretazione che già riteneva necessario ai fini della emissione del decreto ex art. 429 cod. proc. pen. apprezzare una "consistenza" dell'ipotesi di accusa. Quindi, ragionevolmente, salvo considerare la norma pleonastica, deve ritenersi che quella riforma imponesse un sindacato più attento del gup.

La interpretazione letterale del comma aggiunto dell'art. 425 c.p.p. è che la preclusione al rinvio a giudizio è conseguenza innanzitutto della "insufficienza" del materiale probatorio. Mentre l'espressione "elementi. . .contraddittori" potrebbe anche leggersi quale impossibilità di sviluppo dibattimentale, "elementi . . .insufficienti", che certamente non esclude che possa esservi uno sviluppo dibattimentale (anzi, l'insufficienza degli elementi prodotti all'esito delle indagini, riduce il materiale che potrebbe essere valutato a favore dell'imputato rendendo più difficile negare la possibilità teorica di acquisire utili prove nel dibattimento), non significa altro che quello che è il suo immediato significato: "scarsità del materiale probatorio".

Se, quindi, bastasse il carattere "aperto" degli elementi acquisiti, ovvero la possibilità che in dibattimento si raccolgano prove utili - che al momento dell'udienza preliminare non vi sono -, tale disposizione non avrebbe alcuna ragione d'essere, potendo disporsi il proscioglimento solo per i casi limite della accertata innocenza, delle imputazioni macroscopicamente impossibili e dei casi in cui il materiale a carico non giustifichi neanche la prospettazione di commissione del reato.

Quanto alla espressione "o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio", appare evidente che la stessa, per come collocata nel contesto complessivo, non si raccorda a "insufficienza" o a "contraddittorietà" per completarne il senso nel caso concreto, bensì impone che nel caso inverso (ovvero quando gli elementi siano "sufficienti" e "univoci"), non si possa rinviare a giudizio nei casi in cui, pur a fronte di tali elementi, non vi sia alcuna prospettiva di ulteriore sviluppo per giungere alla prova piena del fatto.

Al dato testuale diretto, nell'ambito della disciplina specifica della "regola di giudizio", si aggiungono altri elementi significativi.

Si è detto come il sistema riformato appaia presupporre sostanzialmente la "completezza" delle indagini; tale regola risulterebbe dalla lettura dell'art. 421 bis cod. proc. pen. "ordinanza per la integrazione delle indagini".

Va quindi considerato che, nella introduzione di nuovi e forti poteri del giudice per l'udienza preliminare, quello di procedere alla raccolta di prove nel corso della udienza ex art. 422 cod. proc. pen. è potere che può essere esercitato solo al fine di giungere al proscioglimento mentre un tale limite, invece, non è stato posto alla ordinanza per la integrazione delle indagini.

La possibilità di integrare le indagini è, ragionevolmente, un indice della necessità di acquisire un quadro probatorio minimo per il rinvio a giudizio. La necessità di completamento delle indagini ha ragione d'essere solo se, a fronte di elementi a carico insufficienti, il giudice sia tenuto al proscioglimento. Se non fosse necessario ottenere tale quadro probatorio minimo non vi sarebbe necessità della integrazione delle indagini: il giudice potrebbe rinviare a giudizio per il possibile sviluppo dibattimentale; ed anzi, proprio nel caso della possibilità di integrazione delle indagini, sarebbe innegabile la esistenza di uno spazio per un ulteriore sviluppo probatorio e, quindi, non vi sarebbe ragione di ritardare il rinvio a giudizio.

Il potere di integrazione introdotto con l'art. 421-bis cod. proc. pen. appare, invece, finalizzato, laddove sia in concreto possibile, al completamento della acquisizione in caso di mancanza di un quadro probatorio minimo per giustificare il giudizio. Se bastasse la mera notizia di reato per giustificare il rinvio a giudizio, accompagnata dalla possibilità teorica di ulteriore sviluppo, tale integrazione non avrebbe alcuna possibile funzione e l'udienza preliminare costituirebbe un filtro a maglie larghe delle imputazioni azzardate posto che, ogniqualvolta il pubblico ministero esercitasse l'azione penale richiedendo il rinvio a giudizio in presenza di elementi inidonei per carenza o insufficienza o contraddittorietà della prova a sostenere l'accusa in dibattimento, il giudice dell'udienza preliminare non potrebbe prosciogliere l'imputato e, quindi, l'imputazione azzardata sfocerebbe egualmente nel dibattimento. Se, invece, l'art. 425 cod. proc. pen. fosse riferibile pure alle situazioni di prova carente, insufficiente o contraddittoria, il filtro risulterebbe a maglie strette e la funzione di controllo sulle imputazioni azzardate sarebbe effettiva.

Anche guardando le cose da un diverso punto di vista, si giunge a simili conclusioni: se la interpretazione della regola di giudizio fosse nel senso che il giudice non deve valutare in alcun grado la colpevolezza od innocenza, ma solo considerare se, in base all'esito delle indagini, appaia possibile lo sviluppo dibattimentale ovvero se, allo stato degli atti presentatigli (integrati da allegazioni, anche di indagini difensive, della difesa), vi sia la prova positiva di innocenza, si avrebbe un risultato paradossale, per cui in quei casi in cui il materiale indiziario fosse inconsistente, il rinvio a giudizio potrebbe giustificarsi nella prospettiva di una futura confessione dell'imputato o di un suo correo. Ed ancora, dal punto di vista strategico potrebbe essere conveniente esercitare l'azione penale sulla base della mera notizia di reato accompagnata dalla generica indicazione di prove da raccogliere in dibattimento, in quanto meno materiale offre il pubblico ministero e minore è l'ambito in cui il giudice può rilevare la impossibilità di sviluppo dibattimentale ovvero la prova attuale, positiva, di innocenza.

Palese, inoltre, come l'udienza preliminare, anziché strumento di garanzia per l'imputato, cui si intende garantire un controllo contro la sottoposizione a processo in base a imputazioni inconsistenti ovvero "azzardate", diventerebbe ulteriore strumento di "sofferenza" in sè, a fronte degli inevitabili costi, economici e non, per un mero "passaggio di carte"; la assenza di un minimo probatorio non precluderebbe affatto il rinvio a giudizio e anche la possibilità di offrire prova contraria sarebbe una attività consentita nei limiti della assenza di una attività istruttoria in udienza preliminare.

Nel solco della medesima linea ermeneutica, la Corte (Sez. 6, n. 17385 del 24/02/2016, Tali e altri, Rv. 267074), è tornata ad occuparsi della materia affermando che nella vigente disciplina dell'udienza preliminare come risultante dalla novella del 1999 ed alla ratio della disposizione dell'art. 425 cod. proc. pen. - cui è indubbiamente sottesa l'esigenza di evitare l'inutile prosecuzione di procedimenti fondati su basi poco consistenti e di realizzare un effetto deflattivo di dibattimenti superflui -, il "nlp" costituisce una sentenza di merito su di un aspetto processuale.

Il gup è chiamato ad una valutazione sulla sostanza degli elementi dedotti dal pubblico ministero a sostegno della richiesta ex art. 416 cod. proc. pen., eventualmente integrati ai sensi degli artt. 421-bis e 422 cod. proc. pen., dunque ad espletare un giudizio di merito, e, nondimeno, tale giudizio ha ad oggetto, non la fondatezza dell'accusa - cioè la colpevolezza o l'innocenza dell'imputato (salvo il caso in cui essa sia evidente) -, bensì la capacità di siffatti elementi - perché sufficienti, non insanabilmente contraddittori o idonei - di dimostrare la sussistenza di una "minima probabilità" che all'esito del dibattimento sia affermata la colpevolezza dell'imputato, in tale senso dovendosi declinare la sostenibilità dell'accusa in giudizio codificata (in negativo) nel comma 3 dell'art. 425 e, quindi, la condizione che possa giustificare la sottoposizione dell'incolpato a processo.

In altri termini, il giudice è tenuto a verificare che la piattaforma degli elementi conoscitivi, costituiti dalle prove già raccolte e da quelle che potranno essere verosimilmente acquisite nello sviluppo processuale - secondo una valutazione prognostica ispirata a ragionevolezza -, sia munita di una consistenza tale da far ritenere probabile la condanna e da dimostrare, pertanto, l'effettiva, seppure potenziale, "utilità del dibattimento".

La Corte ribadisce, dunque, che, ai fini del rinvio a giudizio, è necessario che sussista ciò che - nella sopra ricordata sentenza n. 33763/2015 - è stato definito "minimum probatorio" su cui innestare la valutazione circa la "serietà del livello di fondatezza delle accuse".

Entro tale perimetro, il decidente è investito di un giudizio di merito, di natura prognostica, fondato sulle acquisizioni già presenti nel fascicolo - eventualmente arricchite nei termini già sopra delineati - valutate in una prospettiva non statica, ma dinamica, avendo cioè riguardo al loro sviluppo ragionevole nel processo (id est alla c.d. potenzialità espansiva del dibattimento), dovendo anche sotto tale angolazione verificare l'utilità dello sviluppo dibattimentale.

Conclusivamente, la sentenza di non luogo a procedere discende da una valutazione, non di "non colpevolezza" dell'imputato (salvo il caso di innocenza evidente), bensì di insussistenza di elementi, acquisiti o potenziali (cioè suscettibili di integrazione attraverso il contraddittorio dibattimentale), utili a dimostrare la "serietà" dell'accusa e, quindi, l'"utilità" del passaggio alla fase dibattimentale.

Da quanto testè rilevato discende che, se il giudice dell'udienza preliminare è legittimato ad esercitare il proprio prudente apprezzamento nella valutazione dei dati probatori al solo fine di verificare se l'impianto probatorio sussistente - o ragionevolmente integrabile nel dibattimento - dimostri un livello di fondatezza delle accuse definibile "serio", rimangono fuori dall'orizzonte del sindacato da espletare in questa fase quelle valutazioni che si sostanzino nella lettura/interpretazione di emergenze delle indagini o delle prove già raccolte connotate da una portata o da un significato "aperti" o "alternativi" o, dunque, suscettibili di una diversa valutazione da parte dei giudici del dibattimento, anche in ragione delle possibili acquisizioni istruttorie nel processo. Tale sindacato attiene invero alla delibazione sul merito della pretesa accusatoria - e non della effettiva utilità dello sviluppo dibattimentale -, e dunque compete in via esclusiva ai giudici della cognizione.

Esemplificando quanto affermato, la Corte ha ritenuto certamente possibile pronunciare sentenza di nlp nel caso in cui l'impianto probatorio sia fondato in via esclusiva sulle dichiarazioni di un chiamante in correità allorchè non risultino acquisiti al fascicolo riscontri esterni individualizzanti e non si profili all'orizzonte processuale la possibilità di una futura acquisizione di essi, secondo un giudizio prognostico improntato a criteri di ragionevolezza. Di contro, al gup sarà preclusa la diretta valutazione del narrato del chiamante per affermarne l'inconsistenza a fondare il giudizio di colpevolezza così come la svalutazione degli elementi forniti dall'inquirente a costituire valido riscontro individualizzante al dichiarato, atteso che tale apprezzamento del compendio probatorio sostanzia una decisione sulla res iudicanda, cioè un giudizio sulla fondatezza dell'accusa elevata dal pubblico ministero, e non una decisione sulla serietà dell'impianto dell'accusa, che appunto compete al Gup; ciò salvo il caso in cui l'inattendibilità del dichiarante o della sua narrazione o, più in generale, l'inconsistenza del quadro d'accusa siano di così luminosa evidenza da rendere manifesta l'inutilità di far proseguire oltre la causa, atteso che in siffatte ipotesi gli elementi a carico non consentono letture alternative diverse da quella della palese infondatezza della prospettazione accusatoria.

Malgrado la chiara esemplificazione operata, ciò che la Corte, tanto nell'arresto da ultimo richiamato quanto nei precedenti conformi, sembra non chiarire attiene all'individuazione dei criteri cui parametrare la sussistenza del minimum probatorio necessario per il rinvio a giudizio dell'imputato. Passaggio, questo, che rischia, al di là della alternativa ricostruzione esegetica elaborata, di lasciare irrisolta l'esigenza di fondo, che è quella di oggettivizzare, quanto più possibile, gli standard probatori che consentono il prosieguo processuale.

Per converso, gli arresti da ultimo esaminati pongono ormai come ineludibile il bisogno di considerare la componente di merito che caratterizza la valutazione del gup.

Profilo, quest'ultimo, oggi più attuale che mai, se si considera l'ingresso nel rito ordinario degli istituti della messa alla prova e della tenuità del fatto[2], la cui finalità deflattiva ne privilegia l'applicazione all'udienza preliminare, sul presupposto, però, di una valutazione di merito del giudice sulla sussistenza del fatto e la colpevolezza dell'imputato.

  • comunicazione
  • procedura penale
  • udienza giudiziaria
  • inchiesta giudiziaria

CAPITOLO III

NULLITÀ E OMESSA NOTIFICA DELL'AVVISO DI FISSAZIONEDELL'UDIENZA PRELIMINARE

(di Matilde Brancaccio )

Sommario

1 La riproposizione di una questione già controversa: il contrasto sulla natura della nullità per omessa notifica all'imputato dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare. - 2 Le Sezioni Unite "Ferrara" del 2003 e l'opzione per la nullità assoluta. - 3 La decisione delle Sezioni Unite del 24 novembre 2016. - 4 L'udienza preliminare: evoluzione di uno snodo cruciale del procedimento penale.

1. La riproposizione di una questione già controversa: il contrasto sulla natura della nullità per omessa notifica all'imputato dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare.

Nel 2016 un contrasto già in passato deciso dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite è nuovamente tornato alla ribalta.

Ci si è resi conto, infatti, che negli ultimi anni la Cassazione si era ancora una volta divisa sulla questione della natura della nullità derivante dall'omessa notifica all'imputato dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare.

E difatti, nonostante sul tema si fossero espresse già in passato le Sezioni Unite con la sentenza n. 35358 del 9/7/2003, Ferrara, Rv. 225361 (affermando la configurabilità, nell'ipotesi in esame, di una nullità assoluta di ordine generale, deducibile in ogni stato e grado del procedimento e rilevabile d'ufficio), il contrasto, diffuso sia tra diverse Sezioni della Suprema Corte che all'interno della stessa Sezione a volte, si è nuovamente sviluppato in epoca successiva, secondo le due opzioni contrapposte già emerse prima dell'intervento nomofilattico del 2003.

Si sono registrati, infatti, nel corso degli anni, due differenti orientamenti.

Una prima opzione, che segue la tesi già adottata nella pronuncia "Ferrara" del 2003, afferma che l'omessa notificazione all'imputato dell'avviso per l'udienza preliminare determina la nullità assoluta ed insanabile, deducibile e rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, dell'udienza medesima e di tutti gli atti successivi.

Le ragioni di tale orientamento risiedono nella constatazione che anche l'avviso dell'udienza preliminare equivale ad una vocatio in iudicium, sicchè l'invalidità conseguente alla sua omissione ricade nel regime delle nullità ex art. 179 cod. proc. pen.; ciò per l'omogeneità dei due atti introduttivi (all'udienza preliminare ed al giudizio di merito) dell'avviso e della citazione, entrambi volti a garantire una corretta instaurazione del contraddittorio.

A sostegno di tali considerazioni si richiamano argomenti di ordine sistematico (facenti leva sul fatto che è garantita per l'udienza preliminare la "citazione" del responsabile civile e della persona civilmente obbligata, sicchè non potrebbe che ritenersi una citazione vera e propria anche l'avviso diretto all'imputato) e riferiti all'evoluzione legislativa, dalla quale si desume una progressiva equiparazione dell'udienza preliminare a quella dibattimentale.

A tale opzione aderiscono recentemente, secondo l'indicazione dell'ordinanza di rimessione, alcune pronunce tra le quali si citano: Sez. 4, n. 3978 del 30/11/2011, Agostini, Rv. 251744 e Sez. 5, n. 1147 del 4/6/2013, dep. 2014, Alagna, Rv. 258869.

L'altro orientamento, divenuto più frequente dal 2010, ritiene, invece, che l'omessa notifica all'imputato dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare non determini una nullità assoluta ed insanabile, ma una nullità a regime intermedio ai sensi dell'art. 180 cod. proc. pen. Ciò in quanto, pur non negandosi l'evoluzione del ruolo dell'udienza preliminare nel corso degli anni, anche ad opera di interventi legislativi, permarrebbero la sua funzione di filtro ai fini del rinvio a giudizio e la diversità del regime delle nullità previste dall'art. 419, comma 7, cod. proc. pen., rispetto a quelle attinenti al decreto che dispone il giudizio (di cui all'art. 429, comma 2, cod. proc. pen.), diversità derivante dalla differente funzione di "avviso" e "citazione" nella dinamica del procedimento. In sintesi, per tale opzione, l'avviso per l'udienza preliminare non equivale ad una vera e propria citazione, termine con cui si deve intendere solo la chiamata dibattimentale in connessione con il giudizio. Per tale ragione, la disposizione di cui all'art. 179 cod. proc. pen., che sanziona il vizio di omessa citazione dell'imputato, non potrebbe riferirsi all'omesso avviso per l'udienza preliminare, atto che, pur rientrando nel novero di quelli che determinano l'intervento dell'imputato, non integra una "citazione".

Aderiscono al secondo orientamento Sez. 6, n. 17779 del 15/4/2010, R., Rv. 257181; Sez. 5, n. 49473 del 9/10/2013, Leone, Rv. 257182; Sez. 4, n. 46991 del 12/11/2015, Portera, Rv. 265662.

La Quarta Sezione della Corte di cassazione, con ordinanza n. 18935 del 22/9/2016, dep. il 5/10/2016, ha rilevato, pertanto, la sussistenza del contrasto sulla natura della nullità ed ha rimesso alle Sezioni unite la questione attinente a se l'omessa notifica all'imputato dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, previsto dall'art. 419, comma 1, cod. proc. pen., configuri un'ipotesi di nullità di ordine generale e assoluto per omessa citazione dell'imputato, ovvero una nullità a regime intermedio.

Secondo l'ordinanza di rimessione, appare evidente la necessità di rimettere nuovamente la questione alle Sezioni Unite, constatando che il secondo orientamento è consapevole del contrasto, pur in presenza delle affermazioni del massimo collegio di legittimità di cui alla sentenza Ferrara del 2003.

I termini della questione, per di più, appaiono oggi, sostanzialmente, gli stessi che formarono oggetto dell'intervento nomofilattico del 2003.

Sono in gioco, infatti, da un lato, le garanzie dell'imputato relative alla corretta instaurazione del contraddittorio e l'ambito procedimentale della loro espansione, dall'altro, il ruolo e la funzione dell'udienza preliminare con la connessa querelle sul se "avviso" per l'udienza preliminare e "citazione" possano ritenersi equivalenti ai fini dell'applicazione delle sanzioni di invalidità stabilite dall'art. 179 cod. proc. pen. nel rango delle nullità assolute ed insanabili, rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

In altre parole, la questione controversa presuppone due macro-argomenti giuridici, che ne rappresentano anche la cornice sistematica: la categoria della invalidità/nullità dell'atto e l'istituto dell'udienza preliminare, che costituiscono, infatti, i poli di ragionamento generali intorno a cui ruota la questione della natura della nullità derivante da omesso avviso di fissazione dell'udienza preliminare.

Varrà, poi, ricordare - ancora in chiave di premessa generale alla questione - che il sistema delle nullità, come noto costruito sul principio di legalità-tassatività, secondo la consolidata applicazione storica e sistematica di dottrina e giurisprudenza, è applicabile non soltanto al momento dell'individuazione delle cause di nullità, ma anche alla determinazione del trattamento del vizio.

Alcuni Autori[1], peraltro, hanno voluto agganciare il principio di tassatività delle nullità allo stesso canone oggi previsto dall'art. 111 Cost., là dove si sancisce il diritto a un «giusto processo regolato dalla legge", ed anche allo stesso sistema CEDU, citando la Corte di Strasburgo che lo individuerebbe quale "fondamentale baluardo» contro gli abusi di potere dell'autorità, e lo porrebbe in stretta relazione con il principio di legalità sostanziale (si richiama la sentenza C. Edu, Coeme ed altri c. Belgio, 22.6.2000, punto 102).

L'enunciazione del principio di tassatività non vale ad escludere, ovviamente, un certo tasso di discrezionalità giudiziale insito nel fondo dell'attività di interpretazione delle norme e connaturato ad una casistica quanto mai ampia.

Anzi, è opinione di molti che vi sia stata negli ultimi anni in modo evidente una tendenza giurisprudenziale ad un approccio maggiormente sostanzialistico alla lettura interpretativa del sistema normativo delle nullità, pur sempre legato al rispetto del principio di tassatività.

Il criterio utilizzato è stato quello del "pregiudizio effettivo"[2] riconducibile alla divergenza dell'atto dal modello legale, valutandolo alla luce di un canone di offensività concreta del vizio, secondo cui le nullità, e, in generale, le invalidità, devono essere "misurate" secondo un approccio sostanzialistico, rapportato all'effettivo danno subito in concreto dalla parte processuale, pur non mettendo in discussione il metodo tradizionale di valutazione dei vizi dell'atto, basato su principi formali e orientato secondo la tassatività delle nullità.

Le sentenze più significative, espressive di tale "propensione" sostanzialistica, si indicano in Sez. U, n. 119 del 27/10/2004, dep. 2005, Palumbo, Rv. 229540, Sez. U, n. 19602 del 27/3/2008, Micciullo, Rv. 239396 e Sez. U, n. 155 del 29/9/2011, dep. 2012, Rossi, Rv. 251497, in tema di abuso del processo, ma molte sono le pronunce anche delle Sezioni semplici che vanno in tale direzione.

La dottrina non sempre accoglie con favore tale approccio interpretativo, ritenendolo di dubbia compatibilità con il principio di tassatività e foriero di un indebolimento delle garanzie difensive[3].

Deve essere chiarito, in ogni caso, che la valutazione oggetto del giudizio delle Sezioni Unite non potrà prescindere anzitutto dall'interrogativo se, nel caso di specie, si verta in un'ipotesi di "omissione" dell'avviso ovvero solo di errata notificazione di esso - secondo i parametri delineati dalla stessa giurisprudenza di legittimità - poiché solo nel primo caso si darà luogo alla questione di nullità assoluta ai sensi dell'art. 179, comma 1, ultima parte, mentre, invece, qualora l'avviso sia stato soltanto erroneamente notificato, ma non omesso, la conseguenza sarà di nullità intermedia dell'atto garantito, ai sensi degli artt. 178, in via generale, e 180 cod. proc. pen., che tale esito collegano all'inosservanza delle disposizioni concernenti l'intervento dell'imputato nel procedimento.

Per la distinzione secondo l'endiadi "omessa citazione/nullità assoluta-erronea notificazione della citazione/nullità intermedia" si esprimono, tra le molte, Sez. 4, n. 36724 del 1/4/2004, Scuderi, Rv. 229678 e le stesse Sez. U, n. 119 del 27/10/2004, dep. 2005, Palumbo, Rv. 229540, là dove sottolineano, escludendo il vizio assoluto nel caso di specie, che solo la notificazione della citazione errata a tal punto da essere considerabile "inesistente" equivale ad "omessa" citazione.

Ed infatti, la giurisprudenza costante ritiene "omesso" quell'avviso il cui vizio sia talmente radicale da inficiare la stessa natura dell'atto in quanto tale, secondo l'insegnamento oramai consolidato di Sez. U, n. 17179 del 27/2/2002, Conti D, Rv. 221402, che ha affermato "la nullità della notificazione del decreto di citazione a giudizio dell'imputato, qualora incida direttamente sulla vocatio in iudicium, e quindi sulla regolare instaurazione del contraddittorio, deve essere equiparata all'omessa citazione dell'imputato medesimo, in quanto impedisce a quest'ultimo di conoscerne il contenuto e di apprestare la propria difesa, ed è, pertanto, assoluta e insanabile".

2. Le Sezioni Unite "Ferrara" del 2003 e l'opzione per la nullità assoluta.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 35358, del 9/7/2003, Ferrara, Rv. 225361, hanno espresso chiaramente la loro adesione alla tesi che ritiene una nullità assoluta, e non intermedia, nel caso di omessa notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare.

Anche nella fattispecie sottoposta al vaglio della sentenza Ferrara vi era stata elezione di domicilio da parte dell'imputato - come nel caso oggi all'esame delle Sezioni Unite - e notifica dell'avviso in altro luogo, a mani di soggetto diverso dall'imputato (nel caso del 2003 si trattava di notifica avvenuta a mani del portiere nel luogo di residenza dell'imputato e non nel domicilio da lui eletto, presso lo studio del difensore).

Il ragionamento dei giudici supremi si snoda attraverso alcuni passaggi fondamentali.

a) Analisi del contrasto che dà luogo alla pronuncia a Sezioni Unite.

Vengono esaminate le due opzioni contrapposte:

- un primo orientamento giurisprudenziale, definito "più risalente nel tempo", che considera l'omissione della notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare foriera di carenza di valida instaurazione del rapporto processuale, determinando una nullità assoluta ed insanabile. A sostegno di siffatta conclusione si è evidenziato che l'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, al di là della denominazione usata, ha carattere di "vocatio in iudicium", in quanto la sua comunicazione insieme alla richiesta di rinvio a giudizio del P.M., che implica l'esercizio dell'azione penale, apre la fase giurisdizionale in senso proprio del procedimento; la tesi della nullità assoluta richiama, altresì, la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, ove, a commento dell'art. 179 cod. proc. pen., si legge che "la omessa citazione va intesa come riferita non solo al dibattimento, ma anche a momenti diversi, come ad esempio l'udienza preliminare". In tal senso si esprimevano Sez. 1, n. 2431 del 2075/1993, Selvaggio, Rv. 195037 e Sez. 3, n. 8321 del 17/6/1994, Mesiano, Rv. 198693.

- un secondo orientamento, più recente, portato a ritenere, invece, che l'avviso per l'udienza preliminare, pur rientrando tra gli atti che determinano l'intervento dell'imputato, non costituisce una "citazione", termine per lo più inteso come chiamata in sede dibattimentale, e che l'udienza suddetta ha funzione di filtro del rinvio a giudizio, mentre il passaggio processuale della presentazione dell'imputato al dibattimento segue al decreto che dispone il giudizio: pertanto l'art. 179 cod. proc. pen., quando parla di omessa citazione dell'imputato, non può che avere riguardo alla notifica di questo decreto (Sez. 5, n. 9389 del 13/8/1998, Giordano, Rv. 211445; Sez. 5, n. 7523 del 27/6/2000, Sestito, Rv. 216537).

b) Adesione delle Sezioni Unite alla tesi della nullità assoluta.

Le Sezioni Unite ritengono di aderire alla soluzione adottata dal primo indirizzo giurisprudenziale, condividendone le argomentazioni.

Partendo dalla lettura della disposizione di cui all'art. 419, commi 1 e 7, cod. proc. pen., la sentenza Ferrara individua ragioni di ordine logico e sistematico per aderire alla tesi della nullità assoluta con riferimento al tipo di invalidità derivata dall'omesso avviso di fissazione dell'udienza preliminare (per nullità della notifica).

Dal punto di vista logico, si evidenzia che l'avviso deve essere notificato unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio, pertanto esso assume l'aspetto sostanziale e contenutistico di una "citazione", essendo finalizzato a consentire la partecipazione della parte personalmente all'udienza con la possibilità di esplicare la propria difesa, anche nella forma diretta, in ordine agli addebiti a suo carico formulati.

Sotto un profilo sistematico, si richiamano alcuni dati testuali, tra i quali la modifica, con la legge 16 dicembre 1999 n. 479, dell'art. 429, lett. c, cod. proc. pen. (aggiungendosi, dopo le parole "l'enunciazione del fatto" l'espressione "in forma chiara e precisa") e, parallelamente,dell'art. 417 cod. proc. pen. relativo alla richiesta di rinvio a giudizio; il comma 4, ultima parte, dell'art. 419 cod. proc. pen. contempla "la citazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria", sicchè sarebbe "impensabile" - dicono le Sezioni Unite - che si sia voluto distinguere tra la posizione di questi soggetti e quella dell'imputato, che verrebbe semplicemente notiziato; l'art. 420, comma, 2 cod. proc. pen. stabilisce che all'udienza preliminare "il giudice procede agli accertamenti relativi alla costituzione delle parti .. . .." ed è innegabile che il concetto di costituzione sia consequenziale a quello di citazione, che rappresenta il suo antecedente storico e logico. Anche in materia di misure cautelari, inoltre, in relazione all'udienza per il riesame, non si parla di "citazione" bensì di "avviso" (artt. 309 comma 8, 324 comma 8, cod. proc. pen.) e, ciononostante, è stato costantemente ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità che l'omissione della notifica di tale informativa all'imputato o all'indagato comportasse nullità assoluta (cfr. Sez.U, n. 40 del 7/3/1996, Carlutti, Rv. 203772). Tali osservazioni si ripropongono, altresì, anche per il procedimento di esecuzione, là dove il comma 3 dell'art. 666 cod. proc. pen. dispone che l'avviso dell'udienza fissata venga notificato all'interessato e la relativa omissione ha sempre determinato, secondo la giurisprudenza di legittimità, una nullità assoluta ai sensi dell'art. 179 cod. proc. pen. (si citano, Sez. 1, n. 272 del 11/3/1994, Sangiorgio, Rv. 196672; Sez. 1, n. 6168 del 4/11/1997, Zicchitella, Rv. 209134; Sez. 3, n. 1730 del 29/7/1998, Viscione, Rv. 211550; Sez. 2, n. 5495 del 2/3/2000, Esposito, Rv. 216349).

Infine, si afferma che una lettura "ragionata" del testo dell'art. 179 non può che portare a ritenere che là dove il legislatore ha fatto riferimento alla "citazione" abbia voluto fornire a tale espressione non già il significato di formale ed espresso invito a comparire, ma di atto, o meglio di insieme di adempimenti a carico dell'ufficio, con i quali l'imputato, l'indagato o il condannato vengono posti in condizione di partecipare ad una fase processuale che si conclude con una decisione, fase anche antecedente o successiva rispetto al giudizio in senso stretto, come pure incidentale rispetto al procedimento principale. Le Sezioni Unite insistono nella considerazione che il senso di tale "partecipare" sia quello di "essere parte in contraddittorio con il P.M. (e con altre eventuali parti private) dinanzi ad un giudice terzo", segnalando ancora il ruolo di "parte necessaria" dell'imputato nell'udienza preliminare, titolare di diritti che devono essere esercitati personalmente, individuandosi nell'avviso e nella sua notifica una "citazione", così fornendo un'interpretazione autentica della intenzione del legislatore.

Dunque, concludono le Sezioni Unite Ferrara, il riferimento, operato nell'art. 179 cod. proc. pen. alla "omessa citazione" senza alcuna ulteriore specificazione, non può ritenersi rivelatore della volontà di escludere le ipotesi di vocatio diverse da quella per il giudizio, ma piuttosto di un proposito volto addirittura a ricomprenderle, evidenziando, altresì, la non idoneità del dato lessicale (limitato dall'utilizzo del termine "citazione") a sorreggere la tesi che vorrebbe negare la riconducibilità all'art. 179 cod. proc. pen. delle violazioni comportanti nullità per omessa notifica all'imputato dell'avviso per l'udienza preliminare, definendo, altresì, "inconsistente" l'altra argomentazione della tesi che afferma la natura intermedia di tali nullità, basata sul ruolo "funzionale" dell'udienza preliminare.[4] Le Sezioni Unite evidenziano, d'altro canto, anche l'importanza del percorso di modifiche, legislative ed interpretative, che hanno determinato, sotto il profilo delle garanzie processuali, una progressiva equiparazione dell'udienza preliminare a quella dibattimentale ed hanno reso più pregnante il controllo del giudice sulla consistenza dell'accusa[5].

Secondo anche quanto già indicato dalla Corte Costituzionale e dalla stessa Cassazione in altre occasioni, l'udienza preliminare ha perso la sua iniziale connotazione di mero momento processuale e le valutazioni affidate al giudice sul merito dell'accusa sono ormai prive di quella sommarietà tipica di una delibazione tendenzialmente circoscritta allo stato degli atti (si richiamano, tra l'altro, le sentenze nn. 224 del 2001 335 del 2002 della Corte Costituzionale; Sez. U, n. 31312 del 26/6/2002, D'Alterio, Rv. 222044, in tema di termini per proporre impugnazione, con estensione della disciplina di cui all'art. 585 cod. proc. pen. anche alla sentenza di non luogo a procedere resa al termine dell'udienza preliminare, pronuncia, quest'ultima, che già anticipa in parte gli approdi sull'udienza preliminare che sono poi stati di Sez. U. Ferrara).

3. La decisione delle Sezioni Unite del 24 novembre 2016.

Le Sezioni Unite, all'udienza del 24 novembre 2016 (imputato Amato), hanno ritenuto assoluta, insanabile e rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, la nullità derivante da omessa notifica all'imputato dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, che realizza, sostanzialmente, un'omessa citazione di questi.

La motivazione della sentenza non risulta ancora depositata e la soluzione richiamata è contenuta nella notizia di decisione diffusa dalle stesse Sezioni Unite, all'esito dell'udienza.

Tuttavia, è possibile ritenere, già dal testo della notizia di decisione, che la nuova pronuncia si inscriva nel solco della precedente sentenza delle Sezioni Unite del 2003, che aveva appunto valorizzato il carattere di citazione in giudizio da attribuirsi all'avviso di fissazione dell'udienza preliminare indirizzato all'imputato.

Era, difatti, improbabile sin dall'inizio che le Sezioni Unite mutassero il loro indirizzo interpretativo, alla luce anche di una scarsa ricerca di argomenti nuovi per scalfirlo da parte delle sentenze difformi che si erano registrate negli ultimi anni, riproponendo la tesi della nullità intermedia.

Del resto, non può sottacersi che la giurisprudenza di legittimità fa discendere effetti di nullità radicale ed insanabile, ai sensi dell'art. 179 cod. proc. pen., anche per l'omessa notifica di atti non sicuramente inscrivibili nella categoria della "citazione" in senso tecnico ma collegati ad ambiti e fasi nei quali il contraddittorio viene ritenuto comunque un valore indispensabile, da conseguire con certezza attraverso la valida chiamata processuale del soggetto parte del procedimento penale.

Sebbene non tutte le pronunce rese in tali contesti siano coerenti con tale impostazione, registrandosi anche opzioni nel senso di nullità intermedie in ipotesi di omesse notifiche di avvisi non riconducibili alla categoria formale delle "citazioni", tuttavia è interessante esaminare alcune linee interpretative collegate a diversi ambiti di intervento, che potrebbero essere state prese in considerazione dalle Sezioni Unite per la decisione sul ricorso Amato all'udienza del 24 novembre 2016.

E così, con riferimento all'udienza di riesame, ma anche a quella di appello cautelare ed anche per le misure cautelari reali, la giurisprudenza di legittimità ha sovente ravvisato una nullità assoluta ed insanabile per l'omesso avviso riferito all'udienza camerale. Sez. U, n. 40 del 22/11/1995, dep. 1996, Carlutti, Rv. 203772 ha affermato la nullità dell'ordinanza emessa all'esito del procedimento di riesame per una misura cautelare personale, determinata dall'omesso avviso dell'udienza all'interessato che abbia proposto la relativa istanza (pur senza che ciò comporti la perdita di efficacia della misura); a tale pronuncia hanno fatto eco numerose conformi negli anni successivi e un'altra sentenza delle Sezioni Unite, la n. 33540 del 27/6/2001, Di Sarno, Rv. 219230 (per ribadire, in particolare, il mancato effetto derivato di inefficacia della misura cautelare). Conforme, Sez. 2, n. 47841 del 5711/2003, D'Ascia, Rv. 227737, che ha ribadito la tesi della nullità assoluta in caso di omesso avviso dell'udienza di riesame per misura cautelare personale, specificando che a nulla vale l'ordine di traduzione per l'udienza disposto dal Tribunale. Recentemente, Sez. 3, n. 9233 del 19/11/2015, dep. 2016, M., Rv. 266455 ha affermato l'opzione in tema di appello cautelare, segnalando che la notifica al difensore dell'avviso della data fissata per l'udienza camerale non può essere considerata equipollente alla notifica all'indagato espressamente prevista dall'art. 127 cod. proc. pen., la cui omissione, in quanto attinente alla mancata citazione dello stesso, determina una nullità assoluta, insanabile e rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

Sulla stessa linea della nullità assoluta per il difetto di avviso nell'udienza di riesame reale, da ultimo, e dopo Sez. U, n. 29 del 25/10/2000, dep. 2001, Scarlino, Rv. 216960, si richiamano Sez. 3, n. 39902 del 28/5/2014, Ramasso, Rv. 268302, e Sez. 2, n. 4996 del 21/1/2015, Leopardi Dittajiuti, Rv. 262323, questa seconda pronuncia precisando che si determina una nullità assoluta per violazione del contraddittorio nel caso di notifica effettuata nel domicilio del difensore piuttosto che in quello eletto o dichiarato dall'imputato. In senso difforme dalla tesi della nullità assoluta, invece, si muove Sez. 2, n. 3694 del 15/12/2015, dep. 2016, Spinella, Rv. 265785, che ha affermato che l'omessa notifica all'indagato della data fissata per l'udienza camerale di riesame determina una nullità di ordine generale a regime intermedio soggetta ai limiti di deducibilità di cui all'articolo 182 cod. proc. pen. ed alla sanatoria di cui all'articolo 184 cod. proc. pen.[6]. Nello stesso senso, altra pronuncia della medesima sezione: Sez. 2, n. 16781 del 8/4/2015, Ragaglia, Rv. 263762.

Allo stesso modo, si potrebbe esaminare la giurisprudenza in tema di procedimento di esecuzione, nel solco delle Sezioni Unite Ferrara del 2003, poichè anche nel procedimento di esecuzione è possibile ritrovare analoghe preoccupazioni di corretta instaurazione del contraddittorio con l'imputato,là dove sia mancato l'avviso per l'udienza di trattazione della procedura in executivis. Le sentenze Sez. 1, n. 272 del11/3/1994, Sangiorgio, Rv. 196672; Sez. 1, n. 6168 del 4/11/1997, Zicchitella, Rv. 209134; Sez. 3, n. 1730 del 29/7/1998, Viscione, Rv. 211550; Sez. 2, n. 5495 del 2/3/2000, Esposito, Rv. 216349 affermano il principio secondo cui il mancato avviso al ricorrente della data di udienza camerale fissata per i provvedimenti di cui all'articolo 674 cod.proc.pen., comporta una nullità assoluta ed insanabile ex art 178, lett.c), cod. proc. pen. per violazione del diritto di difesa, poiché il giudice dell'esecuzione, in tale procedimento, deve osservare quanto stabilito in genere dall'articolo 666 cod. proc. pen. ed in particolare dal terzo comma di detta norma,che prescrive l'obbligo di comunicare o notificare alle parti e ai difensori l'avviso della data di udienza camerale fissata per la trattazione del ricorso; conformi a tale impostazione anche Sez. 2, n. 20904 del 3/4/2003, Giannini, Rv. 225089; Sez. 2, n. 28191 del 17/6/2003, Biemme s.p.a. Rv. 225210; Sez. 1, n. 20290 del 6/5/2008, Di Dia, Rv. 239994.

Sul tema in generale degli omessi avvisi nei procedimenti camerali, poi, altre ipotesi di omissione dell'avviso di fissazione dell'udienza - e non dunque di una "citazione" in giudizio - danno luogo, secondo la giurisprudenza di legittimità, ad ipotesi di invalidità insanabili.

Un caso recentemente risolto dalle Sezioni Unite è quello dell'omesso avviso dell'udienza camerale al difensore di fiducia tempestivamente nominato in una procedura di competenza del Tribunale di sorveglianza, in relazione al quale il massimo collegio di legittimità, con la sentenza Sez. U, n. 24630 del 26/3/2015, Maritan, Rv. 263598, ha dichiarato la sussistenza di un'ipotesi di nullità assoluta, ai sensi dell'art. 179, comma 1, cod. proc. pen., anche nel caso in cui partecipi all'udienza un difensore diverso da quello di fiducia (o eventualmente d'ufficio, nominato in atti).

Evidentemente, l'ipotesi è diversa da quella dell'omesso avviso all'imputato, ma può servire a chiarire l'ottica entro cui si muove la giurisprudenza con riferimento ad "avvisi" che determinino la corretta instaurazione del contraddittorio in procedure finalizzate all'adozione di provvedimenti che incidono in modo significativo sulla sfera giuridica del soggetto interessato.

Allo stesso modo, potrebbe richiamarsi la giurisprudenza secondo cui l'omessa notificazione all'interessato dell'avviso della fissazione dell'udienza dinanzi al Tribunale di sorveglianza dà luogo a nullità assoluta, ai sensi del combinato disposto degli artt. 178, comma primo lett. c), e 179, comma primo ultima parte, cod. proc. pen., del provvedimento conclusivo del procedimento (in tal senso, Sez. 1, n. 26791 del 18/6/2009, Gallieri, Rv. 244657; Sez. 1, n. 41139 del 17/10/2002, Camporotondo, Rv. 222718); chiarissima Sez. 1, n. 4663 del 28/9/1995, De Gregorio, Rv. 202498, secondo cui il decreto di fissazione dell'udienza camerale nel procedimento di sorveglianza è equiparabile al decreto di citazione nel procedimento ordinario, sicchè l'omessa notifica del predetto decreto, in quanto preclude l'intervento e l'assistenza del condannato, integra una nullità di ordine generale ai sensi degli artt. 178 lett. c) e 179 cod. proc. pen.. Anche l'ordinanza del magistrato di sorveglianza che decide sulla istanza di remissione del debito va adottata, a pena di nullità assoluta, nel contraddittorio delle parti all'esito di apposita udienza camerale (Sez. 1, n. 13417 del 3/3/2011, Gagliardi, Rv. 249862).

Sebbene con la premessa che l'esemplificazione non pretende di essere esaustiva, data la molteplice casistica, si può rammentare, ancora, che anche l'omesso avviso al difensore per l'udienza fissata per la convalida del fermo di indiziato di delitto integra una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178, comma primo, lett. c) e 179, comma primo, cod. proc. pen., a nulla rilevando che in udienza sia stato presente un sostituto nominato ex art. 97, comma quarto, cod. proc. pen. (così Sez. 1, n. 16587 del 18/12/2015, dep. 2016, Stiranets, Rv. 267366, nel caso di specie il difensore era d'ufficio). Conforme a tale impostazione sembra essere, pur nella diversità delle fattispecie, Sez. U, Maritan del 2015, cit.. (in senso contrario, tuttavia, per una nullità a regime intermedio in ipotesi di omesso avviso al difensore per udienza di convalida di arresto, si esprime altro orientamento, piuttosto consolidato, per il quale cfr., da ultimo, Sez. 5, n. 10637 del 12/2/2009, Caushi, Rv. 243164; Sez. 5, n. 11817 del 13/2/2014, Medda, Rv. 262738).

Infine, si pensi come anche in tema di mandato d'arresto europeo, l'omesso avviso all'interessato ed al suo difensore della fissazione dell'udienza camerale per la decisione sulla richiesta di consegna determina la nullità assoluta, per violazione dei diritti di difesa, della decisione adottata (Sez. 6, n. 16195 del 10/5/2006, Zelger, Rv. 234127).

4. L'udienza preliminare: evoluzione di uno snodo cruciale del procedimento penale.

Svolta sinteticamente l'analisi della giurisprudenza di legittimità sulle garanzie preposte alla partecipazione dell'imputato in udienze diverse da quella fissata per il dibattimento, e che appartengono a logiche di fase diverse da quella di cognizione, può essere utile approfondire brevemente uno dei due indicati perni (l'altro è quello delle nullità, viste come strumento per garantire effettivamente il contraddittorio dell'imputato) attorno ai quali si è verosimilmente ricostruita e risolta la questione sottoposta alle Sezioni Unite: e cioè l'udienza preliminare.

Ciò per comprendere meglio l'alveo in cui si colloca la decisione delle Sezioni Unite del 24 novembre 2016 e, forse, poterne anticipare qualche spunto motivazionale, oltre quelli già richiamati sinora.

Non vi è dubbio, infatti, che, a seconda dell'impostazione più o meno caratterizzata dall'idea di un'assimilazione di tale udienza ad un vero e proprio giudizio, si potrebbe determinare diversamente il livello di garanzie da approntare all'omesso avviso all'imputato della fissazione di essa, sanzionandolo, rispettivamente, con una nullità assoluta ovvero con una nullità a regime intermedio.

Cionondimeno, anche la prospettiva di una natura esclusivamente processuale potrebbe portare comunque a ritenere il diritto dell'imputato di veder meglio garantita la fase di "chiamata" all'udienza preliminare dalla possibile minaccia di un qualche vizio dell'atto, attraverso un meccanismo di nullità assoluta.

Le Sezioni Unite Ferrara avevano valorizzato il ragionamento motivazionale riferito al ruolo mutato dell'udienza preliminare in una fase storica in cui era opportuno chiarirlo in modo forte.

Nel loro solco si è iscritta la dottrina che, anche a commento della pronuncia, ha preso posizione sul tema, e ciò a prescindere dalle opzioni finali risolte anche diversamente[7].

Non vi è dubbio, pertanto, che la definizione dogmatica di tale fondamentale snodo del procedimento penale, la sua evoluzione ed il ruolo che attualmente essa ricopre rappresentino un argomento di fondo imprescindibile: la scenografia entro cui si inscrive la questione.

Non è questa la sede per ricostruire compiutamente il tema, ma basterà sottolineare che il problema interpretativo forse più impegnativo, dall'entrata in vigore della 1. n. 479 del 1999 ad 28, è stato quello relativo alla presunta mutata natura dell'udienza preliminare, e cioè alla sua totale o parziale equiparabilità al giudizio dibattimentale.

La più recente giurisprudenza di legittimità e costituzionale sembra oggi orientata a qualificare la fase dell'udienza preliminare come un «giudizio» a tutti gli effetti, traendone le conseguenze in termini processuali, parzialmente superando la concezione precedente che aveva sempre individuato l'udienza preliminare quale «fase processuale e non di cognizione piena», strutturata su una regola di giudizio attinente al rito e non al merito (cfr., per tale ultima definizione, la sentenza n. 64 del 1991 Corte cost.; ribadisce la natura processuale della declaratoria di non luogo a procedere anche Corte cost. n. 206 del 1997[8]).

La Corte costituzionale, con le già richiamate sentenze nn. 224 del 2001[9] e 335 del 2002, ha preso atto, successivamente, del cambiamento avvenuto, accordandogli un sigillo di coerenza con il quadro costituzionale, rilevando che, per effetto principalmente delle innovazioni introdotte dalla 1. n. 479 del 1999, "l'udienza preliminare ha subìto una profonda trasformazione sul piano sia della quantità e qualità degli elementi valutativi che vi possano trovare ingresso, sia dei poteri correlativamente attribuiti al giudice" (C. Cost. 4 luglio 2001 n. 224), cui è corrisposto, quanto alla determinazione conclusiva, un apprezzamento del merito ormai privo di quei caratteri di "sommarietà" che prima della riforma erano tipici di una delibazione tendenzialmente circoscritta allo "stato degli atti" (in questo senso vanno anche le Sezioni Unite Ferrara).

Tali approdi interpretativi, peraltro, non hanno portato la gran parte della dottrina e molta parte della giurisprudenza di legittimità ad uscire dalla logica e dalla prospettiva processualistica per l'udienza preliminare, ciò soprattutto per evitare il rischio che essa finisca col divenire un pre-giudizio di merito sui fatti, che anticipi la cognizione piena del primo grado.

Molti autorevoli Autori[10] si sono espressi nel senso che gli innegabili mutamenti normativi non possono aver determinato la modifica della connotazione eminentemente processuale dell'udienza preliminare, cui spetta sempre e comunque una prognosi di non superfluità del dibattimento. Secondo alcune di tali voci dottrinarie la natura di giudizio di merito non potrebbe essere desunta neppure dall'ampliamento dei poteri istruttori del giudice; questi non sono di per sé sufficienti a determinare una simile mutazione, poiché la qualificazione di rito o di merito di una decisione non dipende dall'estensione dei poteri del giudice, bensì dall'oggetto del giudizio[15]; inoltre, proprio commentando Sez. U Ferrara, un Autore[16] ha sottolineato, in senso critico rispetto alle motivazioni della sentenza, ma aderendo ai suoi esiti, che la nullità assoluta per l'omesso avviso di fissazione dell'udienza preliminare può trovare fondamento non già nell'avvenuto appiattimento dell'udienza preliminare sul dibattimento, bensì nel fatto che la prima è pur sempre una fase avente natura giurisdizionale che si conclude con una decisione (sebbene non definitiva), dove all'imputato deve essere consentito «partecipare» ovvero essere parte in contraddittorio con il pubblico ministero, in quanto parte necessaria e titolare di diritti personalissimi che devono essere esercitati in questa fase, oltre che titolare di un interesse ad ottenere la sentenza di non luogo a procedere.

Dando atto dell'esistenza di opinioni difformi in dottrina, rispetto a quelle che appaiono maggioritarie[11], deve sottolinearsi come rimanga comunque tuttora aperta la questione riferita alla rilevanza da conferire ad una funzione di "filtro" dell'udienza preliminare, con la collegata osservazione che la maggiore o minore chiusura delle maglie del "filtro" da adoperare in questa fase può essere determinante per i futuri sviluppi processuali ed incidere, altresì, in un'ottica di sistema, sui flussi degli affari convogliati nella fase del giudizio, anche con effetti deflattivi dello sviluppo dibattimentale che potrebbero conseguire ad un ampliamento dei poteri riconosciuti al GUP.

La principale pronuncia di legittimità che si è espressa, prima delle Sezioni Unite Ferrara, sulle conseguenze delle novelle legislative degli anni dal 1999 al 2002 rimane Sez. U, n. 39915 del 30/10/2002, Vottari, Rv. 222602, che ha sostanzialmente delimitato la regola di giudizio dell'udienza preliminare secondo indicazioni tuttora seguite, nel nucleo essenziale, dalla prevalente giurisprudenza di legittimità.

La sentenza ha evidenziato che, "pur essendo innegabile che, all'interno di un disegno frammentario del legislatore, gli strappi acceleratori verso un vero e proprio giudizio di merito, rispetto all'originario carattere di momento di impulso meramente processuale, hanno influito sulla struttura dell'udienza preliminare, la regola di diritto per il rinvio a giudizio resta tuttavia qualificata dalla peculiarità dell'oggetto della valutazione e del correlato metodo di analisi. L'obiettivo arricchimento, qualitativo e quantitativo, dell'orizzonte prospettico del giudice, rispetto all'epilogo decisionale, non attribuisce infatti allo stesso il potere di giudicare in termini di anticipata verifica della innocenza-colpevolezza dell'imputato, poiché la valutazione critica di sufficienza, non contraddittorietà e comunque di idoneità degli elementi probatori, secondo il dato letterale del novellato terzo comma dell'art. 425, è sempre e comunque diretta a determinare, all'esito di una delibazione di tipo prognostico, divenuta oggi più stabile per la tendenziale completezza delle indagini, la sostenibilità dell'accusa in giudizio e, con essa, l'effettiva, potenziale, utilità del dibattimento in ordine alla regiudicanda. S'intende cioè sostenere che il radicale incremento dei poteri di cognizione e di decisione del giudice dell'udienza preliminare, pur legittimando quest'ultimo a muoversi implicitamente anche nella prospettiva della probabilità di colpevolezza dell'imputato, non lo ha tuttavia disancorato dalla fondamentale regola di giudizio per la valutazione prognostica, in ordine al maggior grado di probabilità logica e di successo della prospettazione accusatoria ed all'effettiva utilità della fase dibattimentale, di cui il legislatore della riforma persegue, espressamente, una significativa deflazione."

Nei successivi arresti, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha ribadito che - pur in presenza delle modifiche alla disciplina della udienza preliminare e dei presupposti della sentenza di non luogo a procedere operate con la novella del 1999 - la sentenza di non luogo a procedere mantiene natura di sentenza di natura processuale e non di merito.

Il criterio di valutazione per il giudice dell'udienza preliminare non è, dunque, l'innocenza dell'imputato, ma l'inutilità del dibattimento, anche in presenza di elementi di prova contraddittori o insufficienti, sicchè il giudice deve pronunziare sentenza di non luogo a procedere solo quando sia ragionevolmente prevedibile che gli stessi siano destinati a rimanere tali all'esito del giudizio (Sez. 6, n. 33921 del 17/07/2012, Rolla, Rv. 253127; Sez. 2, n. 48831 del 14/11/2013, Maida, Rv. 257645).

Le sentenze più recenti, peraltro, di volta in volta, hanno diversamente descritto l'oggetto della valutazione prognostica spettante al giudice dell'udienza preliminare, ai fini dell'emissione della sentenza di non luogo a procedere.

In un caso, esso è stato individuato nella "completabilità degli atti di indagine" e nella "inutilità del dibattimento", anche in presenza di elementi di prova contraddittori o insufficienti, dando conto del fatto, nella sentenza di non luogo a procedere, che il materiale dimostrativo acquisito è insuscettibile di completamento e che il proprio apprezzamento in ordine alla prova positiva dell'innocenza o alla mancanza di prova della colpevolezza dell'imputato è in grado di resistere ad un approfondimento nel contraddittorio dibattimentale (Sez. 6, n. 36210 del 26/06/2014, C., Rv. 260248); in altra sentenza, l'oggetto del giudizio è stato individuato nella verifica sul se, dallo svolgimento dell'istruttoria in dibattimento, la prospettiva accusatoria possa trovare o non ragionevole sostegno per fugare la situazione di dubbio, dovendosi escludere che si possa procedere a rinvio a giudizio in caso di astratta possibilità di una decisione diversa a parità di quadro probatorio (Sez. 6, n. 17659 del 01/04/2015, Bellissimo, Rv. 263256) e, comunque, non potendo operare il GUP valutazioni di tipo sostanziale che spettano al giudice naturale della fase del dibattimento (Sez. 6, n. 6765 del 24/01/2014, Luchi, Rv. 258806).

Se si guarda agli ultimi e più recenti approdi della giurisprudenza della Corte di cassazione, si potrà scorgere un notevole sforzo definitorio, quanto alla natura dell'udienza preliminare, con una "terza via" alla dicotomia ontologica sin qui prospettatasi (natura processuale/natura di merito).

Anzitutto, si richiama la sentenza che ha ritenuto utile chiarire come, nel delimitare l'ambito di esercizio dei poteri decisori del giudice nell'udienza preliminare, si debba prescindere da distinzioni astratte tra valutazioni processuali e valutazioni di merito e come si debba piuttosto avere riguardo - allo stesso modo che per le decisioni emesse all'esito del dibattimento - alla completezza ed alla congruità della motivazione stessa, in relazione all'apprezzamento dell'aspetto prognostico dell'insostenibilità dell'accusa in giudizio, sotto il profilo della insuscettibilità del compendio probatorio a subire mutamenti nella fase dibattimentale (Sez. 6, n. 290156 del 03/06/2015, Arvonio, Rv. 264053). Nella stessa ottica si è detto che il giudice dell'udienza preliminare è chiamato ad una valutazione di effettiva consistenza del materiale probatorio posto a fondamento dell'accusa, eventualmente avvalendosi dei suoi poteri di integrazione delle indagini, e, ove ritenga sussistere tale necessaria condizione minima, deve disporre il rinvio a giudizio dell'imputato, salvo che vi siano concrete ragioni per ritenere che il materiale individuato, o ragionevolmente acquisibile in dibattimento, non consenta in alcun modo di provare la sua colpevolezza (Sez. 6, n. 33763 del 30/04/2015, Quintavalle, Rv. 264427).

In chiusura, basti evocare, in tale ottica ricostruttiva, la recentissima sentenza Sez. 6, n. 17385 del 2472/2016, Tali, Rv. 267074, che ha sostenuto, con chiarezza definitoria ed ampia motivazione, la natura della sentenza di non luogo a procedere emessa all'esito dell'udienza preliminare, quale "sentenza di merito su di un aspetto processuale", poichè il giudice dell'udienza preliminare è chiamato a valutare non la fondatezza dell'accusa, bensì la capacità degli elementi posti a sostegno della richiesta di cui all'art. 416 cod. proc. pen., eventualmente integrati ai sensi degli artt. 421 bis e 422 cod. proc. pen., di dimostrare la sussistenza di una «minima probabilità» che, all'esito del dibattimento, possa essere affermata la colpevolezza dell'imputato. In motivazione la Corte ha chiarito che la valutazione del giudice dei dati probatori è finalizzata a verificare l'esistenza di un livello «serio» di fondatezza delle accuse, ma restano escluse da tale sindacato quelle letture degli atti di indagine o delle prove connotate da un significato «aperto» o «alternativo», suscettibile, dunque, di diversa interpretazione da parte del giudice del dibattimento.

  • procedura penale
  • polimero speciale

CAPITOLO IV

LA RESTITUZIONE NEL TERMINE E L'ACCESSO AI RITI ALTERNATIVI

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 Premessa. - 2 La questione controversa. - 3 La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

1. Premessa.

L'istituto della restituzione nel termine per l'impugnazione della sentenza contumaciale, previsto dall'art. 175 cod. proc. pen., è stato oggetto di due modifiche legislative, attraverso le quali si è perseguito l'obiettivo di adeguarne la disciplina all'art. 6 CEDU come interpretato dalla Corte di Strasburgo. Inizialmente, infatti, la norma consentiva la restituzione nel termine in due specifiche ipotesi: a) qualora l'imputato giudicato in contumacia provasse di non avere avuto conoscenza senza sua colpa della sentenza e l'impugnazione non fosse stata proposta dal suo difensore; b) qualora l'imputato contumace, non sottrattosi volontariamente alla cognizione degli atti, dimostrasse di non avere avuto effettiva conoscenza della decisione, notificata per estratto al difensore, risultando egli irreperibile (art. 159 cod. proc. pen.) o impossibile provvedere alla notificazione nel domicilio dichiarato o eletto (artt. 161, comma 4, e 169 cod. proc. pen.).

Tale disciplina è stata più volte censurata dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che ne ha rilevato il contrasto con l'art. 6, comma 3, CEDU, con riferimento sia al diritto dell'imputato ad un'effettiva partecipazione all'udienza, che al suo diritto ad ottenere un nuovo giudizio sul merito dell'accusa, in caso di condanna in absentia e di mancanza di una prova inequivocabile della sua rinuncia a comparire e a difendersi o del tentativo di sottrarsi alla giustizia (Corte EDU, 12 gennaio 1985, Colozza c. Italia; Corte EDU 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia; Corte Edu 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia). In particolare, la Corte EDU ha stigmatizzato le difficoltà di avvalersi del rimedio restitutorio in esame in considerazione sia dell'onere probatorio gravante sul contumace che della brevità del termine di soli dieci giorni per la presentazione dell'istanza.

In risposta a tali sollecitazioni, il legislatore è intervenuto sull'art. 175 cod. proc. pen. con il d.l. 21 febbraio 2005 n. 17, convertito con modifiche nella 1. 22 aprile 2005 n. 60. Nel tentativo di correggere i difetti strutturali del nostro sistema processualpenalistico evidenziati dalla Corte EDU, il legislatore del 2005 ha optato per il mantenimento del meccanismo riparatorio già introdotto dal codice del 1988, eliminandone gli aspetti censurati in sede europea in ordine all'onere probatorio gravante sull'imputato ed al breve termine originariamente previsto per l'avvio del relativo procedimento. È stato, infatti, riconosciuto al contumace inconsapevole il diritto alla restituzione nel termine per l'impugnazione della sentenza contumaciale (o per l'opposizione al decreto penale di condanna) sulla base di una presunzione iuris tantum di incolpevole ignoranza del procedimento o del provvedimento. Oltre all'inversione dell'onere della prova, è stato, inoltre, ampliato a trenta giorni il termine entro cui presentare l'istanza restitutoria in esame (art. 175, comma 2 bis, cod. proc. pen.).

Già all'indomani della riforma alcuni interpreti hanno dubitato dell'idoneità della nuova disciplina a garantire lo svolgimento di un nuovo processo nei confronti del contumace inconsapevole e della sua compatibilità con l'art. 111, comma 3, Cost. I maggiori rilievi critici sono stati mossi considerando che nel giudizio di impugnazione permangono sia gli effetti delle preclusioni precedentemente maturate che la validità delle prove assunte in primo grado, nonostante il carattere "imperfetto" di un contraddittorio celebrato nei confronti di un imputato che non ha avuto conoscenza dell'atto introduttivo del giudizio e del merito dell'accusa.

Il legislatore è, pertanto, intervenuto nuovamente sulla materia con la 1. 28 aprile 2014 n. 67 con la quale l'istituto della contumacia è stato soppresso e sostituito da un meccanismo che consente la celebrazione del processo solo nel caso in cui l'imputato sia a conoscenza dell'accusa e del procedimento. L'istituto della restituzione in termini, inoltre, è stato limitato alla sola opposizione al decreto penale di condanna mentre sono stati introdotti degli strumenti restitutori che, attraverso l'annullamento della sentenza o la rescissione del giudicato (artt. 605, comma 5-bis e 625-ter cod. proc. pen.), consentono la regressione del processo alla fase di primo grado qualora l'imputato dimostri che la sua assenza è stata determinata da un'incolpevole mancata conoscenza del processo di primo grado. In tal caso, la nuova disciplina prevede espressamente la reintegrazione dell'imputato nelle facoltà di chiedere i riti alternativi del giudizio abbreviato e del patteggiamento.

Tuttavia, la norma transitoria introdotta all'art. 15-bis, 1. n. 67 del 2014 dalla 1. 11 agosto 2014, n. 118, ha previsto che tale nuova disciplina non si applica ai procedimenti contumaciali in corso alla data della sua entrata in vigore (22 agosto 2014), qualora sia stata già dichiarata la contumacia dell'imputato e questo non sia stato dichiarato irreperibile.

2. La questione controversa.

Proprio con riferimento ai procedimenti cui si applica la disciplina antecedente la novella del 2014, la Seconda sezione della Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 23161 del 16 febbraio 2016, ha rimesso alle sezioni Unite la questione relativa alla possibilità per l'imputato, restituito nel termine per appellare la sentenza contumaciale ai sensi dell'art. 175, comma 2, cod. proc. pen., di formulare la richiesta di un rito alternativo (giudizio abbreviato o patteggiamento).

La questione riguarda solo una delle due ipotesi disciplinate dall'art. 175, comma 2, cod. proc. pen, ovvero quella dell'incolpevole ignoranza del procedimento da parte dall'imputato. Solo in tal caso, infatti, l'imputato, non avendo avuto conoscenza della vocatio in ius, non ha potuto esercitare nei termini di legge la facoltà di accedere ai riti alternativi. Con riferimento a tale specifica fattispecie, sono stati, infatti, rilevati due distinti orientamenti della giurisprudenza di legittimità.

Una prima tesi ermeneutica muove dalla considerazione delle differenze, quanto a presupposti e termini, dei due rimedi restitutori previsti dall'art. 175, commi 1 e 2 cod. proc. pen. Il primo, infatti, si riferisce alla restituzione nel termine stabilito a pena di decadenza ed è subordinato alla prova, a carico della parte istante, dell'impedimento della sua osservanza dovuto a caso fortuito o forza maggiore. Il meccanismo previsto dall'art. 175, comma 2, cod. proc. pen. attiene, invece, alla restituzione nel termine per proporre impugnazione avverso la sentenza contumaciale (o opposizione avverso il decreto penale di condanna) e si fonda sulla presunzione iuris tantum di non conoscenza della pendenza del procedimento da parte dell'imputato. In tal caso, infatti, spetta all'autorità giudiziaria competente a decidere sull'istanza il compito di accertare se l'istante abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento, ed abbia volontariamente rinunciato a comparire, o del provvedimento, ed abbia volontariamente rinunciato a proporre impugnazione o opposizione.

Secondo l'orientamento in esame, l'unico effetto del provvedimento restitutorio emesso ai sensi dell'art. 175, comma 2, cod. proc. pen. attiene alla possibilità di proporre l'impugnazione avverso la sentenza contumaciale senza alcuna reintegrazione dell'imputato nei diritti e nelle facoltà, come quella di chiedere il giudizio abbreviato, esercitabili entro precisi termini di decadenza. Tale principio è stato affermato per la prima volta da Sez. I, 23 ottobre 2012, n. 29479, Vangjelaj, Rv. 256447, in cui la Corte ha affermato che l'imputato, rimesso nel termine per impugnare, non può accedere al rito abbreviato a meno che non attivi il procedimento previsto dal primo comma dell'art. 175 cod. proc. pen. per tutti i termini stabiliti a pena di decadenza. Le argomentazioni della sentenza Vangjelaj sono state successivamente riprese e ribadite da Sez. VI, 12 giugno 2013, n. 34076, Petrolo, non massimata; Sez. I, 16 luglio 2014, n. 39248, Quku, non mass.; Sez. IV, 4 febbraio 2015, n. 11141, Marku, Rv 262707 e Sez. V, 16 giugno 2015, n. 32690, Berdo, Rv. 264550.

A conclusioni diametralmente opposte giunge il secondo orientamento giurisprudenziale che riconosce al contumace inconsapevole del procedimento la facoltà di chiedere un rito alternativo. Le prime tracce di tale opzione ermeneutica si rinvengono negli arresti giurisprudenziali che hanno superato in via interpretativa la problematica relativa al mancato coordinamento, sul punto relativo alla diversa ripartizione dell'onere della prova, tra l'art. 175, comma 2, cod. proc. pen. e l'art. 603, comma 4, cod. proc. pen. in tema di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale (Sez. III, 1 dicembre 2010, n. 1805, Demiraj, Rv. 249134; Sez. I, 16 aprile 2013, n. 27160, Voli, Rv. 256703; Sez. I, 25 febbraio 2014, n. 844, Etchart. Rv. 261975; Sez. II, 11 giugno 2014, n. 32633, Dicecca, Rv. 259986; Sez. III, 24 giugno 2014, n. 39898, G., Rv. 260416; Sez. F, 27 agosto 2015, n. 35984, Ponci, Rv. 264556). La Corte ha, infatti, ritenuto che la restituzione nel termine per l'impugnazione della sentenza contumaciale, nel caso di incolpevole ignoranza del procedimento, è un rimedio inefficace se l'imputato non viene reintegrato nei diritti e nelle facoltà non esercitate in primo grado. In tale ottica, è stata, pertanto, riconosciuta al contumace rimesso in termini per incolpevole ignoranza del procedimento la possibilità di ottenere la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale senza le limitazioni previste dall'art. 603, comma 4, cod. proc. pen.

Partendo, dunque, da tale indispensabile premessa ermeneutica, il secondo orientamento giurisprudenziale ne ha sviluppato le argomentazioni alla luce degli arresti della giurisprudenza della Corte Costituzionale che, in relazione alle nuove contestazioni formulate ai sensi degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., hanno riconosciuto all'imputato il diritto di chiedere l'applicazione della pena, il giudizio abbreviato o l'oblazione, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, trattandosi, in siffatti casi, "di accuse delle quali la parte è venuta a conoscenza quando il termine per proporre le suddette domande era già scaduto senza sua colpa" ( Corte Cost. n. 265 del 1994; Corte Cost. n. 530 del 1995; Corte Cost. n. 333 del 2009; Corte Cost. n. 237 del 2012; Corte Cost. n. 184 del 2014; Corte Cost. n. 273 del 2014; Corte Cost. n. 139 del 2015).

Nel rilevare la simmetria tra tali ipotesi e quella in esame, l'indirizzo in esame ha affermato che anche al contumace inconsapevole del procedimento a suo carico deve essere riconosciuta la facoltà di chiedere un rito alternativo. Anche in tal caso, infatti, non è ravvisabile alcuna colpevole inerzia dell'imputato che, ignorando l'accusa formulata nei suoi confronti, non ha avuto la possibilità di esercitare compiutamente il diritto di difesa attraverso la scelta di un rito alternativo e di ottenere lo sconto di pena ad esso correlato. In particolare, Sez. II, 22 dicembre 2011, n. 858, Gharsalli, Rv. 251774, ha affermato che il giudice di appello ha il dovere di motivare i provvedimenti relativi alle istanze preliminari di remissione in termini per la richiesta di riti alternativi e di rinnovazione del dibattimento. Ciò in quanto "deve essere garantita la parità dei diritti dell'imputato rimasto inconsapevole, senza colpa alcuna, del procedimento a suo carico al fine di proporre l'applicazione di procedimenti speciali (quali il patteggiamento o il giudizio abbreviato) che comportino la riduzione di un terzo della pena concretamente applicabile". Tale principio di diritto è stato successivamente ribadito da Sez. III, 3 dicembre 2014, n. 14956, C., Rv. 263047, che, con riferimento al termine entro cui formulare la richiesta di un rito alternativo, ha affermato che tale richiesta sarebbe inammissibile qualora fosse presentata entro i dieci giorni decorrenti dal momento in cui l'imputato ha avuto conoscenza dell'intervenuta condanna in absentia, trattandosi di una richiesta riferita ad un procedimento ormai definito. Secondo l'arresto in esame, l'imputato deve prima reclamare la remissione nel termine per proporre l'impugnazione al cui accoglimento consegue, una volta depositato l'atto di gravame, la riapertura del procedimento. Prima di tale momento sussiste, dunque, una causa di forza maggiore, rappresentata dall'impossibilità di avanzare l'istanza di restituzione nel termine per accedere al rito alternativo nell'iter procedurale, che cessa solo con il deposito dell'atto di appello.

3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

Con la sentenza del 29 settembre 2016, n. 52274, Rrushi, dep. 7 dicembre 2016, Rv. 268107, le Sezioni Unite, aderendo al secondo indirizzo ermeneutico, hanno affermato il principio di diritto così massimato: "La restituzione nel termine per appellare la sentenza contumaciale, ai sensi dell'art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nel testo vigente prima dell'entrata in vigore della 1. 28 aprile 2014, n. 67, applicabile ai procedimenti in corso a norma dell'art. 15-bis della legge citata, comporta la facoltà per l'imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento, di chiedere al giudice di appello di essere ammesso a un rito alternativo al dibattimento."

Pur condividendo la premessa ermeneutica del primo indirizzo giurisprudenziale in ordine alla diversità dei due rimedi restitutori previsti dall'art. 175, commi 1 e 2, cod. proc. pen., il Supremo Consesso ne ha evidenziato le criticità con riferimento al caso in cui la richiesta di riti alternativi sia stata "impedita" dalla mancata conoscenza dell'esistenza del procedimento penale da parte dell'imputato. In siffatta ipotesi, infatti, osserva il Supremo Consesso, "non si comprende come l'imputato possa fare richiesta di riti alternativi, prima e a prescindere dalla restituzione nel termine per impugnare la sentenza di primo grado". Tale soluzione viene ritenuta in contrasto con i principi informatori del codice di rito in quanto l'irrevocabilità della sentenza rappresenta un ostacolo che rende inammissibile una richiesta di riapertura del procedimento.

Partendo da tale premessa ermeneutica, il Supremo Consesso ha condiviso la soluzione interpretativa proposta dal secondo orientamento offrendone una lettura alla luce delle pronunce della Corte di Strasburgo che obbligavano l'Italia ad adottare le misure necessarie per garantire all'imputato, assente inconsapevole, l'esercizio dei diritti di difesa. Ad avviso della Corte, infatti, la conformità all'art. 6 CEDU dell'art. 175 cod. proc. pen. può essere assicurata solo adottando un'interpretazione che consenta all'imputato di esercitare nel nuovo giudizio tutti i diritti di difesa, compresa la facoltà di accesso ai riti alternativi, di cui non ha potuto avvalersi per la mancata incolpevole conoscenza del procedimento a suo carico, "purchè tale esercizio non stravolga o sia comunque incompatibile con la fase processuale (giudizio di appello) instaurata a seguito della restituzione nel termine".

Una volta affermata l'aderenza all'art. 6 CEDU di tale esegesi dell'art. 175 cod. proc. pen., i giudici del Supremo Consesso si sono interrogati sulla sua conformità ai principi costituzionali e sulla sua compatibilità con la struttura del giudizio di appello.

Sotto il primo profilo, il Supremo Consesso, richiamando la giurisprudenza della Corte Costituzionale in tema di nuove contestazioni, ha sottolineato l'affinità tra la situazione conseguente al mutamento in itinere dell'accusa e quella relativa alla mancata conoscenza del procedimento fin dall'inizio in cui, comunque, l'imputato, ignorando l'atto di accusa nei suoi confronti, non ha potuto valutare la convenienza della scelta di affrontare il dibattimento piuttosto che di accedere ad un rito alternativo. Anche in tal caso, ad avviso delle Sezioni Unite, è indiscutibile che la violazione del diritto di difesa conseguente alla mancata conoscenza del procedimento non può essere sanata con la mera impugnazione della sentenza di primo grado e con i rimedi previsti dall'art. 603, comma 4, cod. proc. pen. ove non si riconosca anche la possibilità di accedere a riti alternativi.

Siffatta interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 175, comma 2, cod. proc. pen., determinando la massima espansione delle garanze difensive, evita, inoltre, sottolineano i giudici, la disparità di trattamento non solo rispetto alla situazione fisiologica dell'imputato che, essendo informato del procedimento, ha potuto liberamente valutare la possibilità di accedere ai riti alternativi, ma anche con riferimento all'analoga situazione dell'imputato che, rimesso nel termine per proporre opposizione a decreto penale di condanna, a norma dell'art. 461 cod. proc. pen., può chiedere il giudizio abbreviato o l'applicazione della pena.

Le Sezioni Unite hanno, inoltre, ritenuto che la soluzione adottata non presenta alcun profilo di incompatibilità con il giudizio di appello potendosi rinvenire nell'ordinamento processualpenalistico altri casi in cui la cognizione sulle richieste di riti alternativi è devoluta al giudice d'appello. Innanzitutto, l'art. 604, comma 7, cod. proc. pen. e l'art. 448 cod. proc. pen. prevedono espressamente che la domanda di oblazione, respinta in primo grado, e l'istanza di applicazione della pena su richiesta delle parti, se rigettata dal giudice di primo grado o in caso di dissenso del P.M., possano essere valutate dal giudice dell'impugnazione. Quanto al giudizio abbreviato, il precedente arresto delle Sezioni Unite n. 44711 del 27 ottobre 2004, Wajib, Rv. 229176, in tema di giudizio abbreviato condizionato, ha ammesso la possibilità che, in caso di reiterato rigetto della richiesta, il giudice di appello, al quale sia devoluta la questione dell'illegalità della pena, una volta accertata la necessità dell'integrazione probatoria, riconosca la diminuente di cui all'art. 442, comma 2, cod. proc. pen.

Quanto alla possibile obiezione dell'incompatibilità dell'interpretazione adottata con le esigenze di deflazione, i giudici del Supremo Consesso hanno rilevato che la scissione del binomio premialità-deflazione, avviata dalla sentenza Wajib, ha trovato un successivo riconoscimento negli arresti della Corte Costituzionale in tema di nuove contestazioni (sent. n. 333 del 2009 e n. 237 del 2012), in cui la Corte ha escluso che "l'esigenza di corrispettività tra riduzione della pena e deflazione processuale possa prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto di difesa".

Quale ultimo corollario dell'interpretazione adottata, le Sezioni Unite hanno, infine, preso in considerazione sia la posizione della parte civile che, ai sensi dell'art. 441, comma 4, cod. proc. pen., potrà non accettare il rito abbreviato con conseguente disapplicazione della disposizione di cui all'art. 75, comma 3, cod. proc. pen., che l'eventualità di un contrasto tra le acquisizioni probatorie del dibattimento e le risultanze delle indagini preliminari, superabile attraverso la possibilità, riconosciuta dalla giurisprudenza ormai consolidata in tema di giudizio abbreviato d'appello, di disporre d'ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l'accertamento dei fatti.

  • procedura penale
  • prescrizione dell'azione
  • procedura speciale

CAPITOLO V

RICHIESTA DI PATTEGGIAMENTO E RINUNCIA ALLA PRESCRIZIONE

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 Gli orientamenti emersi nella giurisprudenza delle sezioni semplici. - 3 Le indicazioni desumibili da precedenti pronunce delle Sezioni unite. - 4 La soluzione adottata dalle Sezioni unite.

1. La questione controversa.

La struttura della richiesta di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen., essendo fondata sulla manifestazione di volontà da parte dell'imputato in merito all'assoggettamento alla sanzione, ha fatto sorgere dubbi sull'eventuale rilevanza che tale negozio processuale possa determinare con riferimento all'intervenuta prescrizione del reato. La giurisprudenza delle sezioni semplici, infatti, si è lungamente interrogata sulla compatibilità tra la richiesta di patteggiamento ed una successiva impugnazione della sentenza, emessa sulla base dell'accordo formalizzato dalle parti, volta a far valere l'intervenuta prescrizione maturata in epoca precedente all'emissione della sentenza.

È apparsa incongruente la condotta dell'imputato che, acconsentendo all'applicazione della pena manifesterebbe una volontà incompatibile con la successiva impugnazione della sentenza per far valere una causa estintiva del reato che, in quanto preesistente alla pronuncia della sentenza, ben poteva essere preventivamente dedotta, anziché essere prospettata solo dopo la formazione e ricezione dell'accordo.

L'obiettiva complessità di raccordare gli effetti sostanziali e processuali della richiesta di patteggiamento hanno fatto sorgere ben presto un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, non essendo mancate pronunce che hanno tenuto distinto il contenuto dell'accordo sulla pena rispetto alla verifica dell'intervenuta prescrizione del reato, essendosi ritenuto che la prescrizione, in quanto oggetto della verifica giurisdizionale ex art. 129 cod. proc. pen., non potesse in alcun caso essere oggetto di una rinuncia implicita, desunta da un atto processuale avente tutt'altra finalità.

Le Sezioni unite sono state, pertanto, chiamate a stabilire se la presentazione della richiesta di applicazione della pena da parte dell'imputato o il consenso da questi prestato alla proposta di patteggiamento del pubblico ministero, possano essere considerati quali dichiarazione legale tipica di rinuncia irrevocabile alla prescrizione.

2. Gli orientamenti emersi nella giurisprudenza delle sezioni semplici.

L'orientamento maggioritario si era attestato, anche recentemente, nel senso di ritenere che la prescrizione, ancorché maturata antecedentemente alla sentenza di patteggiamento, non potesse essere fatta valere in sede di impugnazione, in quanto l'adesione all'accordo tra le parti rappresenta una forma di rinuncia espressa e non più revocabile alla causa estintiva (Sez. IV, 30 settembre 2014, n.51792, Hounaini, Rv. 261570). Tale decisione si inscriveva nell'ambito delle conformi decisioni secondo le quali, con la richiesta di patteggiamento e con il consenso del pubblico ministero, si realizzerebbe un accordo che non è più revocabile dalle parti ed, in quanto tale, implicante necessariamente la rinuncia alla prescrizione, essendo questa insita nell'intesa sulla pena ed incompatibile con la sua applicazione.

Negli stessi termini si erano pronunciate altre sentenze (Sez. V, 28 ottobre 1999, n. 14109, Matonti, Rv. 215799; Sez. II, 20 ottobre 2003, n. 2900, Puliatti, Rv. 227887; Sez. 5V, 25 novembre 2009, n. 7021, Puorro, Rv. 246151; Sez. II, 6 dicembre 2012, n. 47940, Piccinno, Rv. 252052; Sez. III, 5 luglio 2012, n. 207, Mazzoli, Rv. 254144) le quali avevano ribadito che il perfezionamento del procedimento speciale consensuale, volto all'applicazione della pena, costituisce una dichiarazione legale tipica di rinuncia alla causa estintiva del reato a fronte del quale, riconoscere al richiedente la possibilità di far valere la prescrizione in sede di impugnazione, equivarrebbe ad attribuirgli un potere di revoca della proposta o del consenso prestato.

La propensione della giurisprudenza ad orientarsi in senso favorevole a ritenere la rinuncia alla prescrizione implicita nella richiesta di patteggiamento è desumibile anche da alcune pronunce non massimate, intervenute recentemente (si veda: Sez. V, 15 maggio 2015, n. 38984, Defendini; Sez. VI, 30 giugno 2015, n. 36689, Mazzi; Sez. VII, ord. 2 luglio 2015, n. 35329, Galan; Sez. II, 20 ottobre 2015, n. 42748, Zappella) che, aderendo alle tesi maggiormente rigorosa ed escludendo l'ammissibilità del ricorso in cassazione per far valere la prescrizione maturata prima del patteggiamento, non hanno dato conto del contrasto esistente, privilegiando la consistenza numerica delle pronunce conformi.

A fronte dell'orientamento maggioritario sopra indicato, nella giurisprudenza di legittimità si registrava anche una diversa posizione, secondo la quale il giudice, a norma dell'art. 129 cod. proc. pen., dovrebbe dichiarare d'ufficio l'intervenuta causa estintiva della prescrizione, anche a fronte della richiesta di applicazione della pena.

In questa direzione si era espressa Sez. III, 4 marzo 2010, n. 14331, Cardinali, Rv. 246608, negando che la richiesta di applicazione della pena possa costituire rinuncia alla prescrizione, presupponendo, quest'ultima, una dichiarazione di volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti. Nello stesso senso si sono espresse ulteriori sentenze, tra le quali Sez. V, 12 ottobre 2010, n. 45023, Coata, Rv. 249077, nonché Sez. V, 26 novembre 2009, n. 3548, Collura, Rv. 245841 e Sez. I, 13 marzo 2007, n. 18391, Cariglia, Rv. 236576, le quali avevano ribadito che la richiesta di applicazione concordata della pena non costituisce una ipotesi di rinuncia alla prescrizione non più revocabile, anche in considerazione della peculiare disciplina della rinuncia alla prescrizione, prevista dall'art. 157 comma 7 cod. pen., introdotta dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, richiedente una manifestazione di volontà espressa, che non ammette equipollenti. Pertanto, alla richiesta di applicazione della pena concordata non potrebbe attribuirsi contenuto ed effetto della rinuncia alla prescrizione già maturata, in quanto difetterebbe il requisito di legge della forma espressa.

Sempre a sostegno del suddetto orientamento, va ascritta Sez.I, 14 dicembre 2012, n. 21666, Gattuso, Rv. 256076, secondo la quale la rinuncia alla prescrizione è un diritto personalissimo riservato all'imputato e non rientra, pertanto, nel novero degli atti processuali che possono essere compiuti dal difensore a norma dell'art. 99 cod. proc. pen.

Occorre dar conto anche dell'esistenza di una terza soluzione che escluderebbe la possibilità di attribuire alla richiesta di patteggiamento il significato di rinuncia alla prescrizione solo qualora l'imputato abbia proposto la questione della prescrizione prima dell'istanza di applicazione della pena (Sez. V, 1 aprile 2008, n. 17399, Bongiolatti, Rv. 240423). Nello stesso senso si è espressa Sez. III, 10 giugno 2014, n. 30910, Ottonello, esaminando una vicenda processuale connotata dal fatto che l'istanza di patteggiamento era stata presentata in via subordinata rispetto all'accoglimento dell'eccezione di intervenuta prescrizione del reato. Con la predetta pronuncia, la Corte escludeva la configurabilità della rinuncia alla prescrizione per effetto della richiesta di patteggiamento, atteso che in presenza di una richiesta principale volta ad ottenere la dichiarazione di estinzione e la proposizione, solo in via subordinata, della richiesta di applicazione della pena, viene meno il presupposto della ritenuta incompatibilità tra patteggiamento ed impugnazione della sentenza per violazione dell'art. 129 cod.proc.pen. sotto il profilo dell'omessa rilevazione della causa estintiva.

Il dato che accomuna le predette pronunce è, pertanto, ravvisabile nella contestuale manifestazione di una duplice volontà, l'una diretta ad ottenere una sentenza di non doversi procedere per prescrizione e l'altra contenente l'accordo sulla pena. Lì dove entrambe le richieste vengono proposte in via graduata dall'imputato, è stata ritenuta palese l'impossibile di ritenere che l'accordo sulla pena implichi necessariamente la rinuncia a far valere la prescrizione.

3. Le indicazioni desumibili da precedenti pronunce delle Sezioni unite.

Interessanti spunti, successivamente trasfusi nella sentenza che ha risolto il contrasto in esame, sono emersi da precedenti pronunce delle Sezioni unite che, pur intervenendo su problematiche diverse, hanno fornito rilevanti contributi in ordine alle forme di manifestazione della rinuncia alla prescrizione ed al ruolo del vaglio che il giudice è chiamato ad effettuare prima di pronunciare la sentenza di applicazione della pena.

Di particolare rilievo è la sentenza resa da Sez. un., 30 settembre 2010, n. 43055, Dalla Serra, Rv. 248379, concernente la possibilità di individuare un atto di implicita rinuncia alla prescrizione nel compimento di un'attività processuale incompatibile con l'intendimento di avvalersi della suddetta causa estintiva. La Corte si è pronunciata in relazione all'ipotesi di ricorso per cassazione proposto contro la declaratoria di estinzione del reato pronunciata dal giudice per le indagini preliminari, cui era stato richiesto di emettere decreto penale di condanna, condotta nella quale era stata ravvisata un'implicita rinuncia alla prescrizione.

Tale pronuncia contiene delle affermazioni di principio dirimenti, la Corte, infatti, ha sostenuto che la rinuncia alla prescrizione, secondo il testuale dettato dell'art. 157, comma 7, cod. pen., così come novellato dall'art. 6 legge 5 dicembre 2005 n. 251, richiede una dichiarazione di volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti, per cui essa non può desumersi implicitamente dalla mera proposizione di atti processuali aventi una diversa finalità.

Altrettanto rilevante, sia pur sotto un diverso profilo, è la sentenza resa da Sez. un., 25 novembre 1998, n. 3/1999, Messina, Rv. 212438, con la quale la Corte ha precisato come sia dovere indeclinabile del giudice esaminare, prima della verifica dell'osservanza dei limiti di legittimità della proposta di pena concordata, gli atti del procedimento al fine di riscontrare l'eventuale esistenza di una qualsiasi causa di non punibilità, la cui operatività, giustificando il proscioglimento dell'imputato e creando un impedimento assoluto all'applicazione della sanzione, è necessariamente sottratta ai poteri dispositivi delle parti. La Corte, pertanto, ha affermato che la pronuncia di proscioglimento è indipendente dalle valutazioni e dalle prospettazioni contenute nelle determinazioni pattizie ed ha come unici referenti l'obiettiva e definitiva evidenza probatoria degli atti e la soggezione del giudice alla legge, che lo obbliga ad emettere immediato verdetto di proscioglimento.

4. La soluzione adottata dalle Sezioni unite.

Il contrasto giurisprudenziale è stato risolto dalle Sezioni unite recependo la tesi volta a privilegiare la previsione testuale dell'art. 157, comma settimo, cod. proc. pen., conseguentemente ritenendo che «In tema di patteggiamento, la richiesta di applicazione della pena da parte dell'imputato, ovvero il consenso prestato alla proposta del pubblico ministero, non possono valere come rinuncia alla prescrizione, in quanto l'art. 157 comma settimo cod. proc.pen. richiede la forma espressa, che non ammette equipollenti. (In motivazione, la Corte ha affermato che, qualora il giudice non rilevi l'intervenuta prescrizione ex art. 129 cod. proc. pen., l'errore può essere dedotto con ricorso in cassazione)» (Sez. un., 25 febbraio 2016, n. 18953, Piergotti, Rv. 266333).

A tale conclusione la Corte è giunta, in primo luogo, contestando la ritenuta antinomia logico-concettuale ravvisata tra la richiesta di patteggiamento e la rinuncia alla prescrizione, posto che, per affermarsi una incompatibilità tra le predette opzioni, occorrerebbe ritenere dimostrata la consapevolezza da parte dell'imputato dell'esistenza della causa estintiva.

Invero, la scelta processuale di addivenire al patteggiamento è un'opzione processuale che, di per sé, consente di dubitare della consapevolezza circa l'intervenuta prescrizione, in quanto risulterebbe priva di razionalità la volontà dell'imputato di rinunciare a conseguire una pronuncia di proscioglimento per effetto della prescrizione, preferendo l'applicazione della pena. Le Sezioni unite hanno sottolineato come la rinuncia alla prescrizione è un atto gravido di conseguenze, proprio perché determina la prosecuzione del processo verso l'epilogo di una pronuncia nel merito della regiudicanda e comporta, pertanto, anche la rivitalizzazione della pretesa punitiva statuale, altrimenti affievolita dal decorso del termine di prescrizione.

La rinuncia alla prescrizione, pertanto, assume significato nella ragionevole aspettativa, per l'imputato, di conseguire un risultato più vantaggioso rispetto alla maturata causa estintiva, ossia una pronuncia assolutoria nel merito. Nel caso della richiesta di patteggiamento, invece, la prospettiva di un risultato favorevole è esclusa dalla natura stessa dell'accordo sulla pena, il che rende evidente l'esistenza di un'intrinseca incompatibilità tra la finalità propria della rinuncia alla prescrizione e le conseguenze che ne derivano nel caso in cui l'imputato addivenga all'accordo sulla pena.

Ne consegue che non può in alcun caso ravvisarsi una rinuncia alla prescrizione nella richiesta di patteggiamento, tanto più in considerazione dell'obiettiva difficoltà di conciliare l'implicita manifestazione di rinuncia con la necessità di una dichiarazione tipizzata ed espressa, richiesta dall'art. 157 cod. proc. pen. La Corte, peraltro, non ha tralasciato di effettuare un raffronto con l'analogo istituto della rinuncia in ambito civile, sottolineando che la previsione contenuta nell'art. 2937, terzo comma, cod. civ., secondo cui "La rinuncia può risultare da un fatto incompatibile con la volontà di valersi della prescrizione" legittima la configurabilità della rinuncia per facta concludentia che, viceversa, è esclusa in ambito penale lì dove l'art. 157 cod.proc.pen. richiede una manifestazione espressa della volontà di rinunciare alla prescrizione.

A supporto della tesi per cui la rinuncia alla prescrizione richiede necessariamente una dichiarazione esplicita ed espressa, si è richiamato il precedente delle Sezioni unite con il quale - sia pure con riferimento a diversa fattispecie processuale - si era già affermato che la rinuncia alla prescrizione richiede una dichiarazione di volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti ed, in quanto tale, non desumibile implicitamente da atti processuali aventi una diversa ed autonoma funzione (Sez. un., 30 settembre 2010, n. 43055, Dalla Serra, Rv. 248379).

Accanto alle argomentazioni fondate sulla forma di manifestazione della rinuncia richiesta dall'art. 157 cod. proc. pen., le Sezioni Unite hanno sviluppato un ulteriore percorso argomentativo - solidamente basato su plurime pronunce del massimo organo nomofilattico - volto a dimostrare come la valutazione del giudice in merito all'esistenza di cause di estinzione del reato sia del tutto autonoma rispetto all'accordo delle parti. Si è evidenziato, infatti, che in tema di patteggiamento il paradigma procedimentale assegna priorità alla verifica dell'insussistenza delle cause di non punibilità previste dall'art. 129 cod. proc. pen., da compiersi indipendentemente dalla piattaforma negoziale, sulla base degli atti del fascicolo del pubblico ministero (in motivazione sono state richiamate le sentenze rese da Sez. un., 28 maggio 1997, n.5, Lisuzzo, Rv. 207877 e Sez. un., 25 novembre 1998, n. 3/1999, Messina, Rv. 212438; sulla scansione nelle due fasi della procedura del patteggiamento, anche Sez. un., 21 giugno 2000, n.18, Franzo, Rv. 216431).

L'iter descritto dall'art. 444 cod. proc. pen. prevede un ruolo centrale del giudice, chiamato in via pregiudiziale a ravvisare la sussistenza di una delle cause di proscioglimento che, ove presenti, dovranno essere dichiarate d'ufficio ed a prescindere dalla volontà espressa dalle parti. Le Sezioni unite hanno efficacemente sottolineato come, se la richiesta di patteggiamento implicasse una rinuncia alla prescrizione, non avrebbe alcun senso la previsione di un potere di controllo del giudice ex art. 129 cod. proc. pen., tanto più che il combinato disposto degli artt. 444 e 129 cod. proc. pen. non esclude affatto la prescrizione dal novero delle cause estintive a fronte delle quali va emessa la sentenza di proscioglimento in luogo di quella di applicazione della pena.

Precisa la Corte che l'attribuzione al giudice del patteggiamento del potere di rilevare, pure ex officio, la presenza di eventuali cause estintive, a prescindere della consapevole od inconsapevole rappresentazione delle parti, costituisce ineludibile presidio di legalità ed efficace deterrente rispetto a strumentali applicazioni dell'istituto, con la conseguenza che il controllo ex art. 129 cod. proc. pen. diviene un ineludibile presupposto per il successivo pronunciamento sulla richiesta di applicazione della pena.

Ne consegue che il giudice, ove ravvisi una causa di estinzione del reato, ivi compresa l'intervenuta prescrizione, sarà tenuto a prosciogliere l'imputato anche a fronte dell'inerzia delle parti e nonostante l'intervenuto accordo sulla pena; qualora ciò non avvenga, la successiva sentenza di applicazione della pena sarà affetta da un vizio di legittimità deducibile con ricorso in cassazione.

SEZIONE V LE CAUTELE

  • procedura penale
  • detenzione preventiva

CAPITOLO I

TERMINI DI CUSTODIA CAUTELARE E DEPOSITO DELLA SENTENZA

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 Premessa. - 2 I termini del contrasto e l'ordinanza di rimessione. - 3 La decisione delle Sezioni Unite.

1. Premessa.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sentenza del 25 maggio 2016, n. 33217, Cozzolino, Rv. 267354, hanno risolto la questione relativa agli effetti del deposito anticipato della sentenza sulla decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare di cui sia stata ordinata la sospensione ai sensi dell'art. 304, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.

La questione esaminata attiene al caso del deposito della sentenza in data anteriore alla scadenza del termine indicato dal giudice nel dispositivo, ai sensi dell'art. 544, comma 3, cod. proc. pen., o stabilito dalla legge ai sensi del comma 2 della medesima norma. Il quesito investiva la possibile ridecorrenza dei termini di custodia cautelare, precedentemente sospesi, sin dalla data dell'effettivo deposito, involgendo indirettamente anche la tematica della decorrenza dei termini per l'impugnazione.

2. I termini del contrasto e l'ordinanza di rimessione.

Il deposito anticipato della sentenza è stato considerato da Sez. VI, ord. 29 aprile 2004, n. 29873, Delle Grottaglie, Rv 229675, come un evento meramente accidentale, ininfluente sulla decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare, che rimangono sospesi fino alla scadenza del termine indicato dal giudice. Ad avviso della Corte, infatti, l'autodeterminazione giudiziale del termine per la redazione della motivazione, ai sensi dell'art. 544, comma 3, cod. proc. pen., determina l'avvio di una fattispecie processuale che, "indipendentemente da ulteriori evenienze, comporta, proprio in relazione al tempo indicato in dispositivo, una immodificabile decorrenza del termine per impugnare ex art. 585, comma 2, lett. c), cod. proc. pen. ed un diverso spazio temporale per la celebrazione del giudizio di appello".

Tali argomentazioni sono state successivamente ribadite da Sez. IV, 30 novembre 2004, n. 6695, Mignozzi, Rv.230947 e sviluppate da Sez. I, 21 giugno 2005, n. 26005, Palmisano, Rv. 231870; Sez. I, 30 settembre 2005, n. 38596, Cuomo, Rv. 232604; Sez. II, 5 febbraio 2014, n. 19181, Turcanu, non massimata; Sez. II, 5 febbraio 2014, n. 8045, Turcanu, non massimata; Sez. II, 5 febbraio 2014, n. 19182, Cortese, non massimata. In tali arresti, la Corte ha posto l'accento sul tenore letterale dell'art. 304, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., che stabilisce una diretta correlazione tra la sospensione del termine di custodia cautelare e la pendenza del termine per il deposito della sentenza, senza alcun riferimento al tempo effettivo risultato necessario per la redazione della motivazione. È stata, inoltre, sottolineata la necessità di assicurare un coordinamento tra tale disciplina e quella dei termini per l'impugnazione la cui decorrenza è predeterminata per legge con riferimento alla maturazione del termine per il deposito della sentenza.

Secondo un diverso indirizzo giurisprudenziale, il deposito anticipato della sentenza rispetto al termine indicato dal giudice determina la ripresa del decorso dei termini di fase della custodia cautelare. Tale principio, enunciato per la prima volta da Sez. VI, 17 novembre 2003, n. 47803, Burrafato, Rv. 228445, ha trovato una circostanziata esplicazione, quale obiter dictum, nella sentenza delle Sezioni unite del 31 marzo 2011, n. 27361, Ez Zyane, Rv. 249969 (poi condiviso da Sez. VI, 8 marzo 2012, n. 1186, Scarcia, Rv. 252176; Sez. VI, 11 giugno 2015, n. 31353, Guerrisi, non massimata; Sez. I, 19 febbraio 2016, n. 11626, Cerenecj, non massimata). In tale pronuncia il Supremo Consesso ha, infatti, affermato che l'esigenza di contenere l'incidenza della facoltà di differimento del termine di deposito della sentenza sulla limitazione della libertà personale impone di considerare sospesi i termini di custodia cautelare solo per il tempo effettivamente utilizzato dal giudice e rivelatosi idoneo per la redazione della sentenza. La sentenza Ez Zyane, inoltre, prendendo in esame l'argomentazione relativa alla necessità del coordinamento tra la disciplina della decorrenza del termine per l'impugnazione e quella della sospensione del termine di durata della custodia cautelare, ha evidenziato la diversità dei presupposti e dell'ambito applicativo dei due istituti: da un lato, infatti, il regime delle impugnazioni esige la certa ed immediata individuazione, quanto a decorrenza e durata, del termine di cui si può avvalere l'impugnante; quanto alla sospensione dei termini di durata della custodia cautelare, invece, le esigenze di contenimento di ogni limitazione della libertà personale e di conformità della stessa ai principi del giusto processo, impongono di circoscrivere il periodo di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare entro il tempo effettivamente utilizzato dal giudice per la redazione della sentenza.

Con ord. 24 febbraio 2016, n. 9553, la Sesta sezione, dopo avere analizzato i principali passaggi argomentativi dei due contrapposti orientamenti ermeneutici, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.

3. La decisione delle Sezioni Unite.

Come accennato in premessa, le Sezioni Unite, con la sentenza 25 maggio 2016, n. 33217, Cozzolino, Rv. 267354, hanno affermato il principio di diritto così massimato: "La sospensione dei termini di durata della custodia cautelare, disposta ai sensi dell'art. 304, comma primo, lett. c) cod. proc. pen., durante il periodo stabilito dall'art. 544, commi 2 e 3, cod. proc. pen. per la stesura della motivazione, cessa alla scadenza del termine stabilito dalla legge o determinato dal giudice nel dispositivo, con la conseguenza che da tale data riprendono a decorrere i termini di fase della custodia cautelare, restando irrilevante a questi fini l'effettivo deposito della motivazione in un termine eventualmente più breve."

Ad avviso del Supremo Consesso, il deposito anticipato della sentenza rappresenta un elemento distonico, eventuale ed incerto, inidoneo ad alterare la correlazione tra la sospensione dei termini di durata della custodia cautelare (e della prescrizione) ed il termine originariamente indicato dal giudice o fissato dal legislatore. In particolare, la Corte ha ripercorso e condiviso le argomentazioni di carattere letterale e sistematico poste a fondamento dell'orientamento ermeneutico che nega ogni rilevanza al deposito anticipato della sentenza, escludendo che tale fattore accidentale possa determinare una revoca della precedente valutazione di complessità della motivazione ovvero una modifica di tale valutazione. Siffatta conclusione, ad avviso dei giudici del Supremo Consesso, trova conferma nell'art. 544, comma 3, cod. proc. pen. che condiziona l'indicazione di un termine maggiore per il deposito della sentenza alla sussistenza di specifici requisiti "il cui elemento unificante è quello di costituire ragioni che non consentono l'osservanza del termine generale di quindici giorni". In tale cornice normativa e in assenza di una diversa previsione di legge, deve, dunque, escludersi che il deposito anticipato della sentenza possa assumere l'idoneità giuridica di una manifestazione di revoca della precedente valutazione di complessità e che ciò possa determinare gli effetti riconducibili ad un simile provvedimento.

Ad ulteriore riscontro del ragionamento svolto, osservano, inoltre, i giudici che il legislatore ha previsto espressamente i casi in cui la dinamica del processo è calibrata sul tempo effettivamente impiegato per un determinato adempimento processuale. In particolare, ciò è espressamente previsto nel caso della proroga dei termini di durata della custodia cautelare in cui il termine finale è stato individuato con riferimento alla data del deposito della perizia (art. 305, comma 1, cod. proc. pen.). In tal caso, dunque, "vi è da parte del legislatore una attribuzione al giudice del governo dei tempi processuali" attraverso il contenimento della durata della proroga all'effettivo adempimento dell'atto peritale, escludendo ulteriori condizionamenti provenienti dalle parti, dall'ausiliario o da scelte organizzative del giudice in merito alla fissazione dell'udienza per l'esame del perito nel contraddittorio delle parti.

Ad avviso della Corte, inoltre, il diverso sistema delineato dal legislatore in relazione all'individuazione del termine per il deposito della sentenza, cui sono collegate, da un lato, la decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare e della prescrizione, e, dall'altro, la disciplina del più lungo termine per l'impugnazione, risulta ontologicamente coerente, sia sotto il profilo della ragionevolezza e della compatibilità costituzionale che della sua conformità ai parametri della Convenzione EDU. In particolare, la Corte ha evidenziato che, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, una volta intervenuta una pronuncia giudiziale di condanna, nella valutazione dell'ulteriore periodo di detenzione dell'imputato assumono rilevanza i principi di ragionevole durata del processo o la violazione di specifici diritti tutelati dalla convenzione, atteso che, proprio in ragione di siffatta pronuncia di condanna, deve ritenersi attuata l'esigenza di un pronto intervento giudiziale e, al contempo, attenuata la presunzione di innocenza dell'imputato.

Sulla base della giurisprudenza della Corte EDU, la Corte ha, pertanto, escluso che la protrazione della custodia cautelare nel periodo compreso tra il deposito anticipato della sentenza e la scadenza del termine prefissato possa comportare una violazione del principio di ragionevole durata del processo, trovando la sua ragione giustificativa nella complessità della causa, che rappresenta uno dei parametri valutativi individuati dalla stessa Corte di Strasburgo, unitamente alla durata della limitazione della libertà personale.

  • procedura penale
  • sequestro di beni

CAPITOLO II

SEQUESTRO PREVENTIVO E OBBLIGO DI AVVISO

(di Matilde Brancaccio )

Sommario

1 Sequestro preventivo della polizia giudiziaria ed obbligo di dare avviso ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen.: una questione dibattuta. - 2 La sentenza delle Sezioni Unite "Giudici" del 29 gennaio 2016. - 3 L'avviso ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen. e la sua ratio. - 4 Una decisione condivisibile.

1. Sequestro preventivo della polizia giudiziaria ed obbligo di dare avviso ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen.: una questione dibattuta.

La disciplina del sequestro preventivo impegna da sempre giudici di merito e di legittimità in questioni che ne mettono in risalto la complessa natura: da un lato, misura cautelare reale, che può essere disposta anche d'urgenza dalla polizia giudiziaria e costituisce un formidabile strumento di intervento utilizzabile nella fase delle indagini preliminari; dall'altro, momento procedimentale in cui, al soggetto nei confronti del quale il sequestro è diretto, spettano senza dubbio importanti livelli di garanzia difensiva.

Ebbene, si è discusso per lungo tempo nella giurisprudenza di legittimità, ed anche in dottrina, sulla possibilità di immaginare l'estensione di una delle garanzie previste per i sequestri probatori - l'art. 114 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale - ai sequestri preventivi d'urgenza disposti d'iniziativa dalla polizia giudiziaria.

La norma, come noto, prevede che, nel procedere al compimento degli atti indicati nell'art. 356 cod. proc. pen., la polizia giudiziaria avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia.

Nel 2016 solo l'intervento delle Sezioni Unite ha posto fine al contrasto, oramai radicato nella giurisprudenza della Cassazione, tra l'orientamento che sosteneva la necessità di leggere in maniera estensiva l'art. 114 disp. att. cod. proc. pen., quale norma destinata a valere al di là del ristretto ambito degli atti in essa richiamati, facenti capo all'art. 356 cod. proc. pen., e riferibile agli atti di sequestro preventivo disposti d'iniziativa dalla polizia giudiziaria, e la tesi che, al contrario, negava tale possibilità.

Vi è da aggiungere, peraltro, che già nel 2015, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sentenza Sez. U, n. 5396 del 29/1/2015, Bianchi, Rv. 260323-260326 avevano dovuto pronunciarsi analogamente sulla corretta interpretazione della disposizione di cui all'art. 114 disp. att. cod. proc. pen., a conferma della sua centralità nell'impianto normativo delle garanzie, per il suo contenuto "strumentale" e preordinato alla conoscenza di una garanzia difensiva vera e propria, quale, appunto, è l'assistenza del difensore al compimento di un atto nei confronti dell'indagato.

In quel caso si erano esaminate le garanzie per l'espletamento del test alcoolimetrico, stabilendo che l'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. si applica quando deve procedersi a tale atto, che rientra a pieno titolo tra quelli ai quali si riferisce la norma (richiamando l'art. 356 cod. proc. pen., a sua volta, gli artt. 352 e 354 stesso codice) e dovendo, pertanto, darsi avviso al conducente di un veicolo da sottoporre all'esame alcoolimetrico della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia; in mancanza - hanno affermato le Sezioni Unite - si determina una nullità intermedia che può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182, comma secondo, secondo periodo, cod. proc. pen., fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado. Vi è da notare come, allo stesso tempo, la decisione abbia sgombrato il campo, definitivamente, da un altro dubbio: quello relativo all'applicabilità della norma di cui all'art. 114 cit. agli accertamenti qualitativi non invasivi ed alle prove previsti dall'art. 186, comma terzo, cod. strada, in quanto gli stessi hanno funzione meramente preliminare rispetto a quelli eseguiti mediante etilometro e, come tali, restano estranei alla categoria degli accertamenti di cui all'art. 354 cod. proc. pen.

Si evidenzia, dunque, mettendo insieme la questione risolta nel 2015 e quella che ci si accinge a commentare per il 2016, una vera e propria esigenza di ricerca dei confini di applicabilità dell'avviso destinato all'indagato, nel momento dell'espletamento di atti di particolare delicatezza (in quanto coinvolgenti in alcuni casi - come per il test alcoolimetrico la sfera personale individuale), della facoltà di farsi assistere, durante il compimento dell'atto, dal difensore di fiducia.

Le Sezioni Unite, nella sentenza Sez. U, n. 15453 del 29/1/2016, Giudici, Rv. 266335, hanno, per la verità, subito chiarito ciò che non era parso scontato nella giurisprudenza sino ad allora; e cioè il fatto che la questione si ponesse soltanto per il sequestro eseguito di iniziativa della polizia giudiziaria, nelle ipotesi di urgenza che non consentono l'intervento dell'autorità giudiziaria, poiché, nel caso in cui la stessa polizia giudiziaria si limiti a dare esecuzione ad un decreto di sequestro disposto dal giudice, essa agisce su delega ed il controllo del suo operato avviene preventivamente.[1] Peraltro, si fa notare come lo stesso art. 114 disp. att. cod. proc. pen., in ordine al quale va accertata l'applicabilità anche al sequestro preventivo, faccia esclusivo riferimento ad atti compresi nel Titolo IV del Libro V, vale a dire ad "Attività a iniziativa della polizia giudiziaria".

La sentenza, infatti, tiene a precisare, nel corso della motivazione, come sia corretto l'orientamento (si cita, ad esempio, Sez. 3, n. 40530 del 05/05/2015, Pagnin, Rv. 264827) che, analogamente, ritiene l'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. inapplicabile anche al sequestro probatorio eseguito dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero, tenuto conto sia dell'indiscutibile dato letterale cui si è già fatto riferimento (il Titolo IV del Libro V, si riferisce esclusivamente ad "Attività a iniziativa della polizia giudiziaria"), sia di alcuni argomenti logico-sistematici; in particolare, si fa riferimento al fatto che il p.m., pur essendo "parte" del procedimento, è dotato di ampie garanzie sul piano costituzionale ed è inserito nell'ambito dell'ordine giudiziario (si cita l'art. 107 della Costituzione), laddove, invece, la polizia giudiziaria è sottoposta in generale al potere esecutivo (pur essendo nella disponibilità dell'autorità giudiziaria). Proprio, dunque, perché la polizia giudiziaria non offre le medesime garanzie di indipendenza del pubblico ministero sono previsti dal legislatore alcuni strumenti per esercitare il controllo difensivo, il che spiega il motivo per cui l'art. 114 cit., attraverso il richiamo all'art. 356 cod. proc. pen., faccia riferimento soltanto all'attività di iniziativa della polizia giudiziaria.

Fatte tali premesse, la questione inerente al sequestro preventivo d'urgenza, tuttavia, rimane quella della possibilità, consentita o meno dal dato letterale dell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. e da quello sistematico degli artt. 356, 354, 352 e 321, comma 3 bis cod. proc. pen., di estendere una garanzia prevista per atti "a vocazione probatoria", ai quali si riferisce l'art. 356 cod. proc. pen., richiamando gli artt. 352 (perquisizioni) e 354 (accertamenti urgenti e sequestri), ad atti che costituiscono sostanzialmente anticipazioni di misure cautelari reali, quali sono i provvedimenti di sequestro preventivo d'iniziativa adottabili dalla polizia giudiziaria.

Sul punto, si registravano, prima dell'intervento delle Sezioni Unite, due orientamenti contrapposti, dei quali si riportano brevemente le motivazioni.

Una tesi (di cui sono espressione Sez. 3, n. 45321 del 17/10/2013, Messina, Rv. 257421; Sez. 3, n. 45850 del 23/10/2012, Abrogato, Rv. 253854; Sez. 4, n. 37937 del 07/07/2010, Marchi, Rv. 248443; Sez. 3, n. 1266 del 07/04/1999, Carletti, Rv. 213751) esclude l'applicabilità delle disposizioni previste dall'art. 114 cit. al sequestro preventivo di iniziativa della polizia giudiziaria, sulla base di argomenti che possono così sintetizzarsi:

a) la norma fa esclusivo riferimento al sequestro probatorio ed il legislatore, se avesse voluto estendere le garanzie in essa previste anche al sequestro preventivo, avrebbe dovuto, nell'introdurre l'art. 321 comma 3-bis, cod. proc. pen., modificare in tal senso anche l'art. 114 cit.;

b) il sequestro probatorio è atto di indagine ed attiene alla formazione della prova, per cui è necessario l'eventuale presidio delle garanzie difensive; il sequestro preventivo, invece, corrisponde all'esigenza di evitare che la libera disponibilità del bene possa protrarre o aggravare le conseguenze del reato; in ordine allo stesso, pertanto, non può trovare applicazione una norma prevista in relazione alle indagini preliminari;

c) le attività per le quali ricorre l'obbligo di avviso ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen., prevedono la convalida da parte del p.m.; per il sequestro preventivo, invece, vi è un controllo immediato da parte del giudice (organo in posizione di terzietà), che deve procedere, in tempi stretti, alla convalida: stante siffatto immediato controllo sull'operato della polizia giudiziaria, dalla mancanza del presidio difensivo, al momento della esecuzione della misura, non deriva alcuna violazione del diritto di difesa.

Altra tesi (rappresentata principalmente dalle sentenze Sez. 3, n. 40361 del 11/03/2014, Montagno Bozzone, Rv. 261358; Sez. 3, n. 36597 del 04/04/2012, Giarletta, Rv. 253569; Sez. 3, n. 20168 del 27/04/2005, Fazzio, Rv. 232244; Sez. 3, n. 18049 del 03/04/2007, Piras, non massimata; Sez. 3, n. 42512 del 16/07/2009, Olivieri, Rv. 245778), invece, ritiene che le disposizioni contenute nell'art. 114 disp. att., in ordine all'avvertimento all'indagato, se presente, di farsi assistere da un difensore, vanno applicate anche al sequestro preventivo eseguito di iniziativa della polizia giudiziaria.

Secondo tale orientamento alla interpretazione letterale della norma va preferita quella sistematica e fondata sulla ratio e le finalità di garanzie difensive, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost.

Le ragioni del diverso orientamento vengono ritenute non decisive: l'omessa esplicita menzione del sequestro preventivo è attribuita al fatto che questo è atto normalmente del giudice e non della polizia giudiziaria, nonchè al fatto che l'art. 321 c.p.p., comma 3 bis, è stato inserito successivamente (con il D.Lgs. n. 15 del 1991, art. 15): si tratterebbe, quindi, secondo la tesi "estensiva", di un difetto di coordinamento tra norme; irrilevanti sarebbero, poi, le diversità funzionali, in quanto, nel caso del sequestro preventivo eseguito d'urgenza dalla polizia giudiziaria, si verifica la stessa situazione prevista per il sequestro probatorio; sicchè l'esclusione del presidio difensivo sarebbe incongrua.

2. La sentenza delle Sezioni Unite "Giudici" del 29 gennaio 2016.

Le Sezioni Unite, con la sentenza Sez. U, n. 15453 del 29/1/2016, Giudici, Rv. 266335, sono intervenute a risolvere il contrasto "se, in caso di sequestro preventivo disposto di iniziativa dalla polizia giudiziaria, questa abbia l'obbligo, a pena di nullità, di dare avviso all'indagato presente al compimento dell'atto della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia", con il connesso quesito relativo a "se, in caso affermativo, la nullità conseguente determini anche quella dell'autonomo decreto di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. dopo aver convalidato quello d'urgenza disposto d'iniziativa dalla polizia giudiziaria".

La prima questione, ove risolta negativamente, ovviamente rendeva superfluo l'esame della seconda, evenienza verificatasi con la decisione delle Sezioni Unite.

Si è già sgombrato il campo, utilizzando le affermazioni e le ragioni delle Sezioni Unite, dal fatto che la questione controversa non attiene all'attività svolta "su delega" dalla polizia giudiziaria (per quel che qui interessa maggiormente, sia che si tratti di eseguire un decreto di sequestro preventivo, sia che si tratti di eseguire un decreto di sequestro probatorio), bensì esclusivamente a quella svolta di iniziativa.

Devono, quindi, ora chiarirsi, da un lato, le premesse sistematiche dalle quali è partita la Suprema Corte, dall'altro le affermazioni svolte e le motivazioni poste a loro fondamento.

Ma anzitutto deve enunciarsi il principio affermato.

Le Sezioni Unite hanno stabilito che, in tema di sequestro preventivo disposto di iniziativa della polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 321 comma terzo bis cod. proc. pen., non sussiste obbligo di dare avviso all'indagato, presente al compimento dell'atto, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen., sottolineandosi come il legislatore ha previsto l'avviso ex art. 114 cit. soltanto in relazione agli atti di cui all'art. 356 cod. proc. pen., in considerazione della vocazione probatoria di questi ultimi e della conseguente necessità di controllo della regolarità dell'operato della polizia giudiziaria.

La Cassazione, dunque, ha escluso che al sequestro preventivo d'urgenza disposto d'iniziativa dalla polizia giudiziaria possa applicarsi l'istituto di garanzia ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen.

È ben vero - si dice - che, in relazione al soggetto che procede all'atto (la polizia giudiziaria), possano valere preoccupazioni di non assoluta indipendenza anche con riferimento al sequestro preventivo e non soltanto in relazione al sequestro probatorio ovvero al compimento di uno degli altri atti procedimentali "tipici" previsti dagli artt. 352 e 354 (perquisizioni, accertamenti), per i quali, come detto, è pacifico che si applichi l'art. 114 cit..

Ed è, altresì, vero che anche attraverso il sequestro preventivo, così come nei casi di sequestro probatorio o perquisizioni, si incide significativamente su diritti fondamentali dell'individuo, costituzionalmente garantiti: la libertà personale, il domicilio, la proprietà privata.

Tuttavia, la legislazione vigente, secondo la sentenza Giudici, non consente di poter ricorrere ad un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. per estenderne l'applicazione al sequestro preventivo disposto d'urgenza dalla polizia giudiziaria.

Il dato letterale e sistematico risulta, infatti, a giudizio della Corte, assolutamente insuperabile.

L'art. 114, significativamente inserito nel Capo VIII delle Norme di attuazione e quindi tra le "Disposizioni relative alle indagini preliminari", richiama soltanto gli atti di cui all'art. 356, vale a dire quegli atti posti in essere dalla polizia giudiziaria, nel corso delle indagini preliminari, in sede di acquisizione della prova. Tali atti di polizia giudiziaria sono contemplati dal Titolo 4ª (Attività a iniziativa della polizia giudiziaria) del Libro 5ª (Indagini preliminari).

Già la collocazione sistematica rende "ardua" (seguendo l'espressione usata dalla Cassazione) di per sè, in mancanza di una disposizione espressa, la possibilità di applicare l'art. 114 disp. att., al sequestro preventivo eseguito di iniziativa della polizia giudiziaria, disciplinato invece dall'art. 321 c.p.p., comma 3 bis, vale a dire da una norma inserita nel Libro 4ª (Misure cautelari), Titolo 2ª (Misure cautelari reali), Capo 2ª (Sequestro preventivo).

Inoltre, rispondendo alle obiezioni della tesi estensiva, le Sezioni Unite precisano che, se da un lato è vero che l'art. 321, comma 3 bis, è stato introdotto (con il D.Lgs. n. 12 del 1991, art. 15) solo successivamente all'approvazione del codice di rito, sicchè la mancanza di richiamo da parte delle coeve disposizioni codicistiche potrebbe essere imputabile a tale ragione, dall'altro, è vero anche che il legislatore avrebbe ben potuto richiamare, nella nuova disposizione, la previsione dell'art. 114, o modificare in tal senso quest'ultima.

Tuttavia ciò non è accaduto.

Allo stesso modo sarebbe semplicistico imputare la dimenticanza ad un mero difetto di coordinamento di norme, in mancanza di qualsiasi elemento che possa avvalorare la tesi dell'applicabilità delle garanzie difensive di cui all'art. 114 cit., anche al sequestro preventivo. Ciò appare tanto più vero alla Corte ponendo mente al fatto che non vi è traccia di una tale volontà "estensiva" neppure nei lavori preparatori che hanno portato all'adozione delle modifiche al regime del sequestro preventivo nel 1991.

Ed infatti, nella relazione al D.Lgs. n. 12 del 1991, dopo essersi evidenziato che alcuni inconvenienti emersi dalla applicazione della disciplina codicistica avevano reso necessario intervenire sul sequestro preventivo (essendosi rilevate "ragioni di urgenza tali da rendere opportuna la previsione di poteri precautelari in capo al pubblico ministero ed alla stessa polizia giudiziaria, al fine di soddisfare tempestivamente le funzioni preventive"), il sequestro preventivo di urgenza viene espressamente descritto come modellato sulla falsariga del fermo di cui all'art. 384 cod. proc. pen.. Si legge in tale relazione che "si è ritenuto opportuno delineare per la fase delle indagini preliminari una sorta di fermo reale ( . . . ) tenuto conto della sostanziale analogia di presupposti e della identica funzione di precautela rispetto alla adozione delle misure riservate al giudice. Al pubblico ministero viene pertanto consentito di disporre il sequestro preventivo qualora la situazione si presenti in termini di urgenza tali da non consentire di attendere il provvedimento del Giudice e, negli stessi casi un identico potere è riconosciuto alla polizia giudiziaria prima che il pubblico ministero abbia assunto la direzione delle indagini".

A deporre per la soluzione negativa indicata dalle Sezioni Unite, pertanto, oltre all'assenza di qualsiasi, sia pure indiretto, richiamo alle garanzie difensive di cui all'art. 114 cit., vi è, quindi, l'espressa equiparazione del sequestro preventivo di iniziativa della polizia giudiziaria (indicato come "fermo reale") al fermo di indiziato di delitto, ribadendosi la natura cautelare della misura, con accentuazione della differenziazione con il sequestro a finalità probatoria.

Da tali considerazioni le Sezioni Unite traggono la conseguenza dell'arbitrarietà di qualsiasi operazione estensiva dei presidi difensivi previsti per il sequestro probatorio ad una misura avente tutt'altra natura e finalità.

Si individua, anzitutto, nella motivazione della sentenza Giudici, la finalità probatoria che caratterizza gli atti soggetti all'obbligo di avviso ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen.:

-l'art. 356 cod. proc. pen., (richiamato dall'art. 114 disp. att.) fa riferimento agli atti previsti dagli artt. 352 e 354 del codice e, come risulta anche dalla collocazione sistematica delle norme sopra richiamate, si riferisce, pertanto, ad attività della polizia giudiziaria concernente la formazione della prova: accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone, perquisizioni e sequestri; di tali ultime due attività la polizia giudiziaria redige verbale che va trasmesso entro quarantotto ore al pubblico ministero, il quale, se ne ricorrono i presupposti, nelle quarantotto ore successive procede alla convalida (art. 352, comma 4, cod. proc. pen. e art. 355, commi 1 e 2, cod. proc. pen); di tali verbali, essendo relativi ad atti non ripetibili, vi sarà l'inserimento nel fascicolo per il dibattimento a norma dell'art. 431 c.p.p., comma 1, lett. b) ed essi avranno valenza probatoria in dibattimento. L'art. 511 c.p.p., prevede, infatti, che il giudice, anche di ufficio, dispone che sia data lettura, integrale o parziale, degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento (comma 1), ovvero, in luogo della lettura, indichi gli atti utilizzabili ai fini della decisione (comma 5). La possibilità per il difensore di assistere agli atti compiuti dalla polizia giudiziaria, prevista dall'art. 356 c.p.p., è, quindi, palesemente finalizzata ad assicurare un presidio difensivo a garanzia della regolarità e genuinità di atti destinati ad assicurare le fonti di prova e ad essere poi utilizzati in dibattimento. Il legislatore ha voluto, cioè, assicurare, stante la natura e la finalità di detti atti, un immediato controllo difensivo sull'operato della polizia giudiziaria. E di tanto si dà espressamente atto nella Relazione al codice: "la norma di cui all'art. 356 attua la direttiva 31, settima parte (previsione specifica di garanzie difensive tra le quali devono essere comprese quelle relative agli atti non ripetibili). Tale assistenza è di natura eccezionale in quanto avviene nel corso di un'attività endoprocessuale, svolta da soggetti che dovrebbero trovarsi in posizione dialettica rispetto all'indiziato. Essa trova giustificazione - per le perquisizioni, l'apertura del plico, gli accertamenti urgenti - nel fatto che le fonti di prova, così assicurate, saranno acquisite al dibattimento attraverso la lettura del verbale se si tratta di atti non ripetibili (art. 304, comma 1, e art. 427) e la consultazione del verbale e la testimonianza dell'ufficiale o agente di polizia giudiziaria se si tratta di atti ripetibili". Controllo difensivo, peraltro, soltanto eventuale (trattandosi di atti a sorpresa), dal momento che sono stati previsti l'avvertimento di cui all'art. 114 disp. att., all'indagato (se presente) e la sola assistenza del difensore (senza diritto di essere avvisato). Si è, pertanto, ritenuto che la polizia giudiziaria non abbia alcun obbligo di avvertire il difensore indicato dall'indagato, nè di procedere alla sospensione delle operazioni fino al momento dell'arrivo del difensore (a meno che non si tratti di un tempo limitato, compatibile con l'urgenza dell'atto).

Si sottolinea, quindi, come "completamente diverse" siano le finalità del sequestro preventivo.

Mentre, come si è visto, il sequestro probatorio è un mezzo di ricerca della prova, il sequestro preventivo mira ad inibire la libera disponibilità di un bene.

L'art. 321 c.p.p., comma 1, prevede la possibilità di disporre la misura cautelare quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati.

Tale norma è inserita nel Capo II (Sequestro preventivo), Titolo II (Misure cautelari reali) del Libro II, vale a dire nello stesso libro in cui sono disciplinate le misure cautelari personali. La collocazione sistematica della norma è significativa della "unificazione" nella categoria delle misure cautelari, sia di quelle personali che di quelle reali.

Il legislatore ha, cioè, preso atto della rilevanza sociale ed economica di taluni interventi di cautela reale su beni materiali e su diritti costituzionalmente garantiti (proprietà, domicilio, libertà di iniziativa economica), non dissimili da quelli incidenti sulla libertà personale.

Ne è derivata una disciplina unificante che ha comportato che anche per le misure cautelari reali venissero previsti gli stessi caratteri fondamentali delle misure cautelari personali in tema di autorità competente ad emettere la misura, predeterminazione dei criteri di applicazione, garanzie dei soggetti destinatari. E tale assimilazione è stata ribadita ed addirittura accentuata nella introduzione del comma 3-bis dell'art. 321, laddove nei lavori preparatori si definisce la misura come "fermo reale" con un evidente esplicito parallelismo con il "fermo personale".

La polizia giudiziaria, nell'intervenire di sua iniziativa, in caso di urgenza, pone, infatti, in essere una misura precautelare di carattere provvisorio per impedire che la libera disponibilità del bene possa protrarre o aggravare le conseguenze del reato o determinare la commissione di altri reati.

Le Sezioni Unite, svolta tale analisi sistematica, rilevano come da essa emerge, con evidenza, la diversità ontologica e la diversa finalità delle due misure (sequestro probatorio e sequestro preventivo): mentre gli atti richiamati nell'art. 356 cod. proc. pen., mirano, invero, ad assicurare le fonti di prova, il sequestro preventivo ha funzioni meramente cautelari.

Peraltro, si fa notare come la differenza tra i due istituti sia stata più volte affermata anche dalla Corte costituzionale.

In particolare, con la sentenza n. 151 del 1993 i giudici delle leggi hanno evidenziato: che «il sequestro preventivo è, invero, un atto che, per la sua finalizzazione alla prevenzione di un pericolo, ovvero alla confisca, la legge ha inteso riservare al giudice; ed è quindi logico che esso, quando venga, per ragioni di urgenza, disposto dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero, costituisca una misura intrinsecamente provvisoria, destinata ad estinguersi entro brevissimo termine se non confermata dal giudice».

Su tali basi di ragionamento, le Sezioni Unite affermano che il legislatore ha previsto la presenza (eventuale) del difensore, attraverso il meccanismo di avvertimento all'indagato ex art. 114 disp. att., soltanto in relazione agli atti richiamati dall'art. 356 cod. proc. pen., in considerazione della vocazione probatoria di tali atti, che impone la necessità del presidio difensivo a controllo della regolarità dell'operato della polizia giudiziaria.

Una tale esigenza, invece, non è ravvisabile in relazione al sequestro preventivo, anche se eseguito dalla polizia giudiziaria, trattandosi di misura cautelare, per sua natura a carattere provvisorio e destinata ad impedire la libera disponibilità di un bene.

Peraltro - si fa notare - non è ricavabile dal codice di rito un principio che consenta di ritenere sussistenti per le misure cautelari (stante la loro natura) meccanismi che prevedano necessariamente l'intervento preventivo della difesa (fatte salve le ipotesi, espressamente stabilite, di contraddittorio anticipato, come nel caso della misura interdittiva di cui all'art. 289, comma 2, cod. proc. pen.).

Anzi, per il sequestro preventivo operato di iniziativa della polizia giudiziaria sussiste una sorta di equiparazione, come detto, al fermo di indiziato di delitto di cui all'art. 384 cod. proc. pen., in relazione al quale il successivo art. 386 stabilisce che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, subito dopo il fermo, diano immediata notizia al pubblico ministero ed avvertano il fermato della facoltà di nominare un difensore di fiducia: nessuna garanzia preventiva, dunque, neppure sotto forma di avvisi di assistenza, bensì garanzie difensive "rimandate" ad un momento successivo al compimento dell'atto.

Infine, ancora più marcate sono le differenze in relazione ai meccanismi di controllo (successivo) sull'attività posta in essere dalla polizia giudiziaria.

Inoltre, anche i meccanismi di convalida degli atti urgenti disposti, rispettivamente, per il sequestro probatorio e per quello ex art. 321 bis cod. proc. pen., differiscono sensibilmente (cfr. art. 352, comma 4, art. 355 comma 2 e art. 321, comma 3-bis, cod. proc. pen.).

Dalla lettura delle norme emerge con chiarezza, infatti, come soltanto per il sequestro preventivo, e non anche per quello probatorio, sia previsto un controllo immediato da parte del giudice (organo terzo) sull'operato della polizia giudiziaria.

Tale controllo in tempi brevi giustifica, ulteriormente, la mancanza del presidio difensivo al momento della esecuzione della misura.

Secondo le Sezioni Unite, infine, dalla mancata previsione di tale presenza (peraltro, come si è visto, soltanto eventuale per il sequestro probatorio, nel caso in cui l'indagato decida di avvalersi dell'assistenza del difensore di fiducia) non deriva alcuna violazione del diritto di difesa. Le garanzie difensive vengono, infatti, tutelate attraverso meccanismi di controllo da parte del giudice, che può, con celerità, ritenere non conforme a legge l'operato della polizia giudiziaria, evitando la convalida e disponendo la restituzione di quanto sequestrato.

La definizione del sequestro preventivo d'urgenza formulata dalle Sezioni Unite, pertanto, all'esito di una tale ricostruzione, è la seguente: una misura precautelare a carattere provvisorio destinata a caducarsi se non convalidata dal giudice nei tempi strettissimi dettati dal legislatore nel codice di procedura penale.

Tale meccanismo risulta - a giudizio della Suprema Corte - conforme a Costituzione, venendo rispettate, in proposito, le stesse garanzie previste in tema di libertà personale e di inviolabilità del domicilio (art. 13, comma 3, Cost. e art. 14, comma 2, Cost.). E difatti, gli interventi in casi eccezionali di necessità ed urgenza da parte dell'autorità di pubblica sicurezza hanno, invero, copertura costituzionale, purchè siano indicati tassativamente dalla legge e siano convalidati dall'autorità giudiziaria nelle successive quarantotto ore (altrimenti si intendono revocati e restano privi di ogni effetto).

La sentenza Giudici individua, nel percorso costruito dal legislatore nel tempo, un vera e proprio "processo di autonomizzazione" dei due istituti del sequestro probatorio e del sequestro preventivo, del quale costituiscono tasselli successivi alla costruzione del codice di procedura penale, dapprima, la modifica del 1991, con l'introduzione della forma di sequestro preventivo d'urgenza in relazione alla quale proprio si ragiona nella decisione, successivamente, la modifica apportata all'art. 104 disp. att. cod. proc. pen. con la legge 15 luglio 2009, n. 94, art. 2, comma 9, lett. a). Tale ultima norma, infatti, nella formulazione previgente, stabiliva che per il sequestro preventivo si applicassero le disposizioni relative al sequestro probatorio contenute nel Capo VI e che si applicasse altresì la disposizione dell'art. 92, mentre, nella riformulazione del 2009, vede eliminato dal proprio testo ogni riferimento alle disposizioni concernenti le modalità di esecuzione del sequestro probatorio. È stata, infatti, prevista una disciplina autonoma e separata che già emerge dalla rubrica, in cui si parla di "Esecuzione del sequestro preventivo" (e non più quindi di "Norme applicabili al sequestro preventivo"); vengono, poi, stabilite delle modalità di esecuzione, tassativamente indicate e che variano a seconda dell'oggetto su cui viene ad essere applicata la misura cautelare, sicchè devono ritenersi, ormai, inapplicabili al sequestro preventivo le disposizioni dettate in relazione alla esecuzione del sequestro probatorio dall'art. 81 disp. att. e ss..

La conclusione delle Sezioni Unite è che sussiste, pertanto, una definitiva autonomia e distinzione delle norme di attuazione dettate in tema di "prove" (Capo VI), misure cautelari (Capo VII), indagini preliminari (Capo VIII), senza più alcuna "interferenza" o "commistione" tra le une e le altre; con ovvie conseguenze interpretative anche con riferimento, appunto, all'esclusione della possibilità di riferire la norma di cui all'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. ai sequestri preventivi d'urgenza.

Secondo la Corte, non è possibile una interpretazione analogica, stante la diversità strutturale e funzionale dei due istituti: si sottolinea come la ratio che giustifica la presenza del difensore alla esecuzione del sequestro probatorio (acquisizione di fonti di prova, utilizzabili poi in dibattimento) non abbia ragion d'essere in relazione al sequestro preventivo (misura cautelare volta ad impedire la libera disponibilità di un bene).

Neppure è possibile una interpretazione adeguatrice, sia per la diversità dei due istituti (con conseguente non pertinenza del richiamo all'art. 3 Cost.), sia per la insussistenza di ogni violazione del diritto di difesa (sotto il profilo dell'art. 24 Cost.), risultando rispettate le garanzie difensive attraverso il controllo esercitato, in tempi brevi, dal giudice, così come previsto anche per le misure cautelari personali (art. 13 Cost.).

3. L'avviso ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen. e la sua ratio.

Le Sezioni Unite, nel tracciare le differenze tra gli istituti del sequestro probatorio e del sequestro preventivo, per giungere alla soluzione negativa della questione riferita alla possibilità di estendere la garanzia prevista dall'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. alla citata misura cautelare reale, là dove eseguita d'iniziativa dalla polizia giudiziaria in presenza di presupposti d'urgenza, hanno anche analizzato la ratio della stessa previsione di cui al citato art. 114.

Ebbene, secondo la Suprema Corte, le ragioni che hanno indotto il legislatore a prevedere, nell'art. 114 disp att., che la polizia giudiziaria, nel procedere al compimento degli atti indicati dall'art. 356 del codice di procedura penale, avverta la persona sottoposta alle indagini, se presente, della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia, riposano su una serie di valutazioni.

Anzitutto, si evidenzia che, una volta previsto dall'art. 356 cod. proc. pen., il diritto del difensore ad assistere (senza essere preventivamente avvisato, trattandosi di atti a sorpresa) agli atti di cui agli artt. 352-354, è proprio la disposizione di cui all'art. 114 disp. att. a rendere concretamente esercitabile tale diritto, disponendo l'avvertimento obbligatorio all'indagato, se presente, della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia[2].

Sotto tale profilo, dunque, la disposizione di attuazione in parola rappresenta una norma strumentale e necessaria all'esercizio di un diritto difensivo, di cui, pertanto, costituisce un corollario indispensabile.

Analizzando specificamente l'art. 114 cit., poi, si rinvengono tre elementi significativi che spiegano le ragioni di tutela ad esso sottese ed enucleabili dalla lettera e dalla lettura sistematica della norma.

Secondo le Sezioni Unite, hanno motivato la disposizione dell'obbligo di avviso ragioni riferite al "soggetto" che compie l'atto (polizia giudiziaria); quindi ragioni collegate all'"oggetto" verso cui si esplica l'atto (libertà personale, diritto di proprietà, domicilio); infine, le stesse "finalità" dell'atto.

Quanto al "soggetto", la sua peculiare natura, che non offre le stesse garanzie di "indipendenza" dal potere politico, come invece l'autorità giudiziaria, anche requirente, e, d'altra parte, i significativi poteri riconosciuti dal codice di procedura penale alla polizia giudiziaria, impongono limiti e controlli sul suo operato.

La Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale vigente faceva riferimento al fatto che, "nel quadro delle attività ad iniziativa della polizia giudiziaria da compiersi prima dell'intervento del pubblico ministero, si è inteso distinguere una attività "informale", diretta ad assicurare le fonti di prova mediante un'azione di ricerca, individuazione e conservazione, sostanzialmente libera nei modi del suo svolgimento, e taluni atti "tipici" soggetti ad una più rigorosa disciplina.

In relazione agli atti definiti nella Relazione "tipici" il legislatore ha previsto dei meccanismi di controllo, affinchè l'attività della polizia giudiziaria si mantenga in ambiti di stretta legalità e non trasmodi, quindi, in arbitrio.

E, ad assicurare il rispetto del principio di legalità nello svolgimento di quella attività, sono apprestati degli strumenti che si esplicano in via preventiva (attraverso la presenza del difensore) o in via successiva (attraverso la convalida dell'operato da parte del p.m. o del giudice).

Sotto il primo aspetto (che qui interessa), il legislatore ha previsto che, durante il compimento di determinati atti, l'indagato possa essere assistito dal difensore.

Il principio è enunciato espressamente nell'art. 356 cod. proc. pen., secondo cui il difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini ha facoltà di assistere, senza diritto di essere preventivamente avvisato, agli atti previsti dagli artt. 352 e 354, oltre che all'immediata apertura del plico autorizzata dal pubblico ministero a norma dell'art. 353, comma 2.

Le Sezioni Unite ritengono significativo, in proposito, che il presidio difensivo dell'art. 114 disp. att. riguardi, facendo riferimento al testo normativo, soltanto gli atti posti in essere, di propria iniziativa, dalla polizia giudiziaria, come emerge dal riferimento "al compimento degli atti indicati nell'art. 356 del codice", sicchè, come già sottolineato, ritengono che non vi sia dubbio circa il fatto che le disposizioni di cui all'art. 114 disp. att. non si applicano al sequestro probatorio eseguito dalla p.g. su delega del p.m..

In ordine all'"oggetto", gli artt. 352 - 354 cod. proc. pen. prevedono il potere-dovere della polizia giudiziaria di procedere, in casi predeterminati di necessità e di urgenza, quando non sia possibile un intervento tempestivo del p.m., a perquisizioni (personali o locali) e sequestri.

Si tratta di atti che incidono su diritti costituzionalmente garantiti (e quindi meritevoli di particolare tutela), quali la libertà personale (art. 13 Cost.), il domicilio (definito dall'art. 14 Cost., come inviolabile) e la proprietà privata (art. 42 Cost.).

Infine, quanto alla "finalità", gli atti posti in essere dalla polizia giudiziaria (artt. 352 - 354 c.p.p.) riguardano, come si vedrà in seguito, la formazione della prova: atti, cioè, che potranno assumere valore probatorio in sede dibattimentale.

Tale "vocazione probatoria" differenzia natura e disciplina del sequestro probatorio rispetto a quello preventivo, sicchè anche in tale finalità, presente solo nella prima delle due forme di sequestro, vanno ricercate le diverse ragioni della disciplina applicativa dell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen.

Così delineati ambito e finalità della disposizione contenuta nell'art. 114 disp. att. c.p.p., su tali presupposti le Sezioni Unite hanno poi condotto il ragionamento logico e sistematico già esposto nel paragrafo precedente e che ha portato alla conclusione negativa circa l'estensione dell'obbligo di avviso in detta norma previsto al sequestro preventivo eseguito di iniziativa della polizia giudiziaria.

4. Una decisione condivisibile.

Dopo la decisione delle Sezioni Unite Giudici, i primi commenti dottrinari hanno fatto notare come le Sezioni Unite avallino "la via forse meno garantista, ma che certamente è più aderente alla ratio legis sottesa ai due istituti (sequestro preventivo/sequestro penale), nonché al dato normativo e sistematico. Il fatto che la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura, la Legge-Delega n. 62/1987 e la Relazione al D.Lgs. n. 12/1991 non abbiano immaginato di estendere il presidio dell'avviso all'indagato anche alla misura cautelare reale di iniziativa della polizia giudiziaria suggella la tesi, che - come sottolineato - ha il pregio di essere più aderente alla lettera delle norme prese in considerazione (artt. 114 disp. att. c.p.p. e 356 c.p.p.)"[3].

Altri commenti dottrinari[4], invece, hanno criticato la soluzione negativa circa l'estensione dell'obbligo di avviso dell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. al sequestro preventivo d'urgenza disposto dalla polizia giudiziaria.

Del resto, già prima della sentenza del 29 gennaio 2016 la dottrina aveva mostrato sensibilità diverse sul tema.

Così, accanto a chi considerava doverosa e garantista l'estensione dell'obbligo di avviso citato, oltre che coerente con i principi costituzionali[5], altri esprimevano perplessità sulla praticabilità di un'interpretazione estensiva in presenza di dati normativi invece ritenuti ostativi[6].

In particolare, le critiche successive alla pronuncia delle Sezioni Unite Giudici si sono incentrate - a volte con toni anche ingiustificatamente aspri[7] - sulla considerazione che, nonostante la pronuncia appaia, di primo acchito, "perfetta", essa, ad una riflessione più attenta, rivelerebbe, invece, qualche piega, "piccole incrinature che suggeriscono altrettante considerazioni critiche o, quantomeno, un approccio più cauto nella risoluzione della questione controversa".

Così, si mette in dubbio che le garanzie difensive possano dirsi validamente assorbite nella funzione giurisdizionale e che l'intervento immediato del giudice in convalida del sequestro preventivo d'urgenza renda inutile l'assistenza del difensore, sottolineando la differenza, su un piano generale, dei concetti di "difesa" e "giurisdizione", funzioni costituzionalmente ineludibili e fondanti di un giusto processo, destinate a rafforzarsi a vicenda.

Inoltre, si evidenzia che, se è vera la constatazione che il contraddittorio anticipato non è istituto che appartiene diffusamente alle misure cautelari, essendo previsto nel codice di procedura soltanto dall'art. 289 cod. proc. pen. e, extra codicem, per le misure applicabili agli enti, di cui all'art. 47 d. lg. 8 giugno 2001, n. 231 (norma che sembra collegarsi, per lo più, alle peculiarità dell'ambito giuridico rappresentato dalla responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche), tuttavia, la prospettiva muterebbe, almeno in parte, se si ripercorresse l'insegnamento della Corte costituzionale, espresso in tre pronunce della metà degli anni '90[8], là dove la Consulta avrebbe valorizzato il diritto di difesa nel procedimento cautelare.

Dalla lettura di tali pronunce del giudice delle leggi si fa derivare, peraltro, alquanto arditamente, il principio che il contraddittorio, nella fase cautelare, sia la regola ogni qualvolta lo stesso non rischi di frustrare irrimediabilmente la proficuità dell'atto, evenienza che non si verificherebbe nel caso di avviso ex art. 114 disp. att. e sequestro preventivo d'urgenza.

Infine, un ulteriore argomento speso è quello dei confini sfumati tra sequestro preventivo e sequestro probatorio, nonostante le differenze messe in risalto dalla sentenza delle Sezioni Unite; a riprova della possibile sovrapposizione pratica dei due sequestri si fa notare come il sequestro preventivo possa essere convertito in sequestro probatorio (oltre che in sequestro conservativo) e che essi, pur modellati secondo presupposti diversi, possano certamente coesistere, a determinate condizioni, sullo stesso bene. Se, dunque, si dice, dal sequestro preventivo si può passare a quello probatorio, l'omessa assistenza del difensore, in ipotesi di misura reale urgente disposta dalla polizia giudiziaria, rischierebbe di riverberarsi negativamente, nei casi di conversione in sequestro probatorio, sugli atti che, originariamente compiuti ai sensi dell'art. 321, comma 3-bis, c.p.p., mantenendo un interesse a fini di prova ed in quanto irripetibili, saranno utilizzabili in giudizio: si tratterebbe, cioè, di quegli stessi atti che - ove sin dall'inizio si fosse proceduto col mezzo di ricerca della prova - si sarebbero potuti giovare dell'apporto del difensore in un'ottica di garanzia, invece negata.

Dimentica, tale impostazione, tuttavia, che, come è facilmente evincibile dal percorso argomentativo delle Sezioni Unite, il controllo della difesa, per le misure cautelari, è legislativamente e logicamente affidato a rimedi successivi all'atto e si realizza sistematicamente attraverso i meccanismi impugnatori.

Il legislatore, peraltro, là dove ha voluto, ha espressamente previsto modalità di "contraddittorio anticipato" in materia cautelare, come, appunto, nel d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 in materia di responsabilità da reato degli enti ovvero, ad esempio, per la misura interdittiva di cui all'art. 289 cod. proc. pen., con ciò valutando inutile - secondo una scelta insindacabile perché certamente rientrante nella sua discrezionalità - l'anticipazione in altri casi.

Quanto agli interventi della Corte costituzionale in materia, è vero invece che i giudici delle leggi hanno più volte chiarito - come pure sottolineato dalle Sezioni Unite - la diversità tra sequestro preventivo e sequestro probatorio, decidendo questioni di volta in volta sollevate, ed hanno specificato, in tale contesto, anche le ragioni dell'ulteriore previsione della disposizione relativa all'iniziativa d'urgenza del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, cui deve seguire la necessaria verifica del giudice per le indagini preliminari in sede di convalida, con ciò avvalorando il sistema attualmente vigente.

Nella sentenza n. 151 del 1993, che ha dichiarato l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 355, comma 2, cod. proc. pen., sollevata in relazione all'art. 3 Cost. ed alla presunta, differente disciplina dei termini di convalida previsti per il sequestro preventivo, i giudici delle leggi, infatti, hanno affermato che il decreto di sequestro preventivo è atto che, per la sua finalizzazione alla prevenzione di un pericolo o alla confisca, è stato dalla legge riservato al giudice e, quindi, quando disposto per ragioni d'urgenza dalla polizia giudiziaria o dal p.m., costituisce una misura provvisoria, destinata ad estinguersi entro brevissimo termine, se non confermata dall'autorità giudiziaria; la convalida del sequestro probatorio operato dalla polizia giudiziaria è, invece, atto proprio del p.m., dato che ha la stessa funzione del decreto di sequestro disposto da questi, e mira non solo al controllo dell'attività svolta dalla polizia giudiziaria ma anche al mantenimento della misura.

Il meccanismo di tutela previsto in materia cautelare reale, peraltro, si giustifica costituzionalmente poiché, afferma la Corte costituzionale, quando la legge conferisce alla polizia giudiziaria il potere di sacrificare la libertà personale o domiciliare, deve anche prevedere (ed è sufficiente che preveda, n.d.r.) un intervento dell'autorità giudiziaria nei ristretti termini previsti dall'art. 13, comma 2, e 14, comma 2, Cost.; sicchè alla provvisorietà dell'atto di polizia giudiziaria, corrisponde l'urgenza dell'atto di intervento dell'autorità giudiziaria su di esso.

Ciò posto, la Corte costituzionale nega violazioni costituzionali proprio spostando l'accento delle garanzie sul controllo giurisdizionale immediato ed interpretando l'art.355, comma 2, cod. proc. pen. nel senso di intendere perentori i termini per la convalida in esso previsti.

Del resto, anche l'argomento della possibile riqualificazione del sequestro preventivo d'urgenza in sequestro probatorio, pure pacifica in giurisprudenza (cfr., da ultimo, Sez. 4, n. 21000 del 26/4/2016, Scifo, Rv. 266863), non appare decisivo, trattandosi di ipotesi residuale, sulla cui correttezza, peraltro, è sempre ammesso il ricorso per cassazione avverso l'illegittimità della riqualificazione disposta in assenza dei presupposti (così, ex multis, Sez. 4, n. 43327 del 29/9/2016, Faenza, Rv. 267981).

  • procedura penale
  • sequestro di beni

CAPITOLO III

SEQUESTRO CONSERVATIVO E RILEVABILITÀ DEI LIMITI DI PIGNORABILITÀ IN SEDE CAUTELARE

(di Assunta Cocomello )

Sommario

1 Premessa. - 2 La rilevanza dei limiti legali di pignorabilità dei beni ai fini della legittimità del provvedimento di sequestro conservativo e rilevabilità nell'incidente cautelare: il contrasto di giurisprudenza. - 3 La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

1. Premessa.

La profonda rivisitazione, effettuata dal legislatore nel codice del 1988, dell'istituto del sequestro conservativo penale in conseguenza della scelta di trasformare l'istituto da garanzia patrimoniale di esecuzione, impugnabile con l'opposizione, in misura cautelare reale, ha inteso dare prevalenza, all'aspetto coercitivo dello stesso, cioè limitativo della disponibilità di beni in funzione di esigenze latu sensu processuali, quale quella di garantire l'esecuzione della sentenza che verrà emessa all'esito del processo.

La funzione cautelare è rappresentata, infatti, nel sequestro conservativo dall'interesse pubblicistico alla riparazione del danno cagionato dal reato ed, in particolare, dalla necessità di evitare il depauperamento del patrimonio appartenente al debitore che può realizzarsi o con la scomparsa materiale del bene ovvero attraverso un'alienazione del medesimo, cosicchè il vincolo cautelare nascente dall'adozione del provvedimento di cui all'art. 316 cod. proc. pen., risulta finalizzato ad evitare qualsiasi possibilità di dissipazione, fittizia o concreta, dell'entità patrimoniale soggetta alla misura cautelare.

In tale ottica si colloca anche l'individuazione del procedimento di riesame, quale mezzo di impugnazione della misura del sequestro conservativo, nell'ambito del quale si realizza pienamente il contraddittorio processuale che può mancare nella fase di attuazione dell'adozione del sequestro de quo. In tal modo viene assicurato un contemperamento degli opposti interessi, da un lato, alla immediata esecuzione del provvedimento coercitivo reale in presenza di un concreto pregiudizio nel ritardo (pericolo di dispersione dei beni) e, dall'altro, alla garanzia dei diritti dei cittadini, alla luce delle caratteristiche autoritative del provvedimento di cui all'art. 316 cod. proc. pen., idoneo a pregiudicare gravemente, al pari di ogni misura coercitiva reale, i diritti e la libertà economica del cittadino.

L'istituto del sequestro conservativo penale, pertanto, in ragione della sua funzione di garanzia e di acquisto del titolo di privilegio dei crediti relativi ad obbligazioni ex delicto, evidenzia, a tutt'oggi, il permanere di una chiara impronta pubblicistica che segna l'elemento di maggiore differenziazione rispetto alla corrispondente misura del processo civile. Permane tuttavia un' inevitabile "connessione" tra le norme della disciplina civilistica e processual-civilistica, con quelle penalistiche, rappresentata, in primis, da una serie di rinvii normativi contenuti nelle norme del processo penale alla disciplina civile.

In tale prospettiva, in particolare, la giurisprudenza di legittimità ha dovuto affrontare il problema della rilevanza, in sede cautelare penale, dei limiti di pignorabilità dei beni e dei crediti, previsti nella normativa civilistica, sui quali si era da tempo sviluppato un contrasto di orientamenti.

2. La rilevanza dei limiti legali di pignorabilità dei beni ai fini della legittimità del provvedimento di sequestro conservativo e rilevabilità nell'incidente cautelare: il contrasto di giurisprudenza.

Da tempo nella giurisprudenza di legittimità si registra un contrasto avente ad oggetto la rilevanza dei limiti legali di pignorabilità dei beni ai fini della legittimità del provvedimento di applicazione del sequestro conservativo e la conseguente rilevabilità di tali limiti, nell'incidente cautelare. Un primo orientamento, più risalente nel tempo, afferma che i limiti del pignoramento, in conseguenza del richiamo operato in tal senso dall'art. 316 cod. proc. pen., rilevano già al momento della disposizione del sequestro conservativo, essendo, quantomeno irragionevole, consentire l'apposizione del vincolo cautelare su beni che, per loro natura, già si sa non poter essere assoggettati all'esecuzione (Sez. VI, n. 2033, 22 maggio 1997, Lentini, Rv. 209111; Sez. VI, n. 16168, 4 febbraio 2011, De Biase e altro, Rv. 249329; Sez. II, n. 46626, 20 novembre 2009, Melis, Rv. 245466; anche Sez. 5, n. 598/04, 1 ottobre 2003, Orlando, Rv. 227445).

Un secondo ed opposto orientamento, afferma, invece, che le problematiche sui limiti di pignorabilità dei beni sottoposti a sequestro conservativo non possono essere proposte e tantomeno risolte nella sede dell'incidente cautelare penale, sul presupposto che la competenza funzionale a deciderle sia devoluta al giudice dell'esecuzione civile una volta che, passata in giudicato la sentenza penale di condanna, il sequestro conservativo si converta in pignoramento. Secondo tale orientamento è proprio l'attribuzione della conversione automatica del sequestro conservativo, introdotta dal nuovo codice, al passaggio in giudicato della condanna penale, che rende funzionalmente incompetente il giudice penale a deliberare in tema di cose soggette a sequestro conservativo, ed in particolare a giudicare di domande di terzi intese a contestare il vincolo imposto sul bene, la cui competenza è funzionalmente devoluta al giudice civile, dinanzi al quale la domanda va introdotta nelle forme dell'opposizione del terzo al pignoramento (Sez. I, n. 37579, 27 giugno 2001, Saetta, Rv. 220118; Sez. V, n. 42244, 14 ottobre 2010, Ricci Maccarini, Rv. 248891; Sez. V, n. 35531, 25 giugno 2010, Donigaglia, Rv. 248495 e sulla specifica fattispecie del sequestro conservativo di beni conferiti in fondo patrimoniale, Sez. VI, n. 4435, 17 gennaio 2011, Trozzi).

A seguito di ordinanza di rimessione della Quinta Sezione Penale, pertanto, le S.U, della Suprema Corte sono state chiamate a pronunciarsi sulla seguente questione controversa: "Se le questioni attinenti alla impignorabilità dei beni sottoposti a sequestro conservativo possano essere proposte al tribunale del riesame, nell'incidente cautelare, ovvero se la competenza funzionale a deciderle sia devoluta al giudice dell'esecuzione civile una volta che, passata in giudicato la sentenza penale di condanna, il sequestro conservativo si converta in pignoramento".

3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite con la sentenza, 21 luglio 2016 (dep. 16 settembre 2016), n. 38670, Culasso, Rv. 267592, ha affermato il seguente principio:

"In tema di impugnazione delle misure cautelari reali, le questioni attinenti al regime di pignorabilità dei beni sottoposti a sequestro conservativo sono deducibili con la richiesta di riesame e devono essere decise dal tribunale del riesame, al quale è demandato un controllo "pieno", che deve tendere alla verifica di legittimità della misura ablativa in tutti i suoi profili".

Va posto in evidenza come, sebbene il ricorso rimesso al Supremo Collegio aveva ad oggetto fattispecie relativa al sequestro conservativo di beni conferiti in un fondo patrimoniale, la soluzione della quaestio iuris approfondita e risolta dalla Corte con la sentenza in esame, prescinde dalla specificità della fattispecie e si palesa di più ampio respiro, involgendo, più in generale, la problematica della riconducibilità delle questioni relative all'impignorabilità di beni e di crediti nella competenza del tribunale del riesame, nell'ambito dell'incidente cautelare. Le Sezioni Unite, nel condividere le conclusioni del primo degli orientamenti illustrati, seguono un percorso ermeneutico che muove dalla interpretazione letterale dell'art. 316 cod. proc. Pen. e dei successivi articoli, nonchè dall'analisi della evoluzione normativa che ha interessato l'istituto del sequestro conservativo penale, in particolare, la fase di impugnazione dello stesso. La Corte, pertanto, illustra la profonda evoluzione dell'istituto che da garanzia patrimoniale di esecuzione, impugnabile con il rimedio della opposizione, diviene, nel codice di procedura penale del 1988, una misura cautelare reale, avverso la quale, ai sensi dell'art. 318 cod. proc. pen., è previsto riesame "anche nel merito". La natura di misura cautelare del sequestro conservativo, impone che il suo funzionamento sia analizzato utilizzando i criteri di fondo del sistema cautelare, primo fra tutti l'accertamento, da parte del giudice emittente e del giudice della impugnazione, dei presupposti applicativi del sequestro ed in particolare, dei presupposti di legittimità comuni a tutte le misure cautelari reali, del fumus boni iuris e del periculum in mora, nonchè in considerazione di specifica previsione dell'art. 316, comma 1 cod. proc. pen. del requisito imprescindibile, della pignorabilità, posto che, ai sensi del successivo art. 320, comma 1 del codice di rito, il sequestro si converte in pignoramento una volta divenuta irrevocabile la sentenza di condanna al pagamento di una pena pecuniaria, ovvero al risarcimento del danno in favore della parte civile. Pertanto, osserva la Corte, "non vi è motivo per non riconoscere che sia valutabile dal giudice che procede o da quello della impugnazione cautelare il rispetto dei parametri normativi che condizionano o possono paralizzare la deduzione della impignorabilità", in quanto il controllo demandato al tribunale del riesame deve essere "pieno" e tendere alla verifica della legittimità della misura ablativa in tutti i suoi profili, "compresi quelli di sostanza e di derivazione civilistica" con l'unica eccezione dell'esercizio del potere di devoluzione al giudice civile, espressamente disciplinato dall'art. 324, comma 8, cod. proc. pen.

La Corte, segnando definitivamente una linea di demarcazione tra la natura, la funzione e la disciplina del sequestro conservativo penale rispetto all'omonimo istituto di matrice civilistica, chiarisce e ridimensiona la reale portata dei rinvii normativi "alle forme prescritte dal codice di procedura civile", contenuti, rispettivamente, nell'art. 317, comma 3, e nell' art. 320, comma 1, cod. proc. pen., precisando che il primo ha riguardo soltanto alle mere "modalità di imposizione" del vincolo in fase cautelare e non scalfisce la competenza del giudice penale, e il secondo, riguardante la fase successiva alla conversione in pignoramento del sequestro conservativo penale a seguito l'irrevocabilità della sentenza, deve intendersi quale rinvio alla competenza del giudice civile limitatamente al "procedimento esecutivo" di espropriazione mobiliare o immobiliare, per la soddisfazione del credito.

Il percorso argomentativo seguito dal Supremo Consesso, inoltre, sfocia nella affermazione, di rilevante impatto pratico, che potranno essere fatte valere già in sede di richiesta della misura cautelare reale e, a maggior ragione, in sede di riesame, non solo tutte le questioni attinenti alla impignorabilità dei beni oggetto di sequestro di proprietà dell'imputato, ma anche le ipotesi di inefficacia di atti dispositivi di beni compiuti dall'imputato-debitore in favore di terzi, secondo le disposizioni previste dagli artt. 192 e 194, comma 1 e 2 cod. pen. (per quanto riguarda gli atti a titolo gratuito) e art. 193, commi 1 e 2, cod. pen. (per quanto riguarda gli atti a titolo oneroso). Anche il tema dell'inefficacia dell'atto dispositivo, infatti, attiene, non meno che quello della impignorabilità del bene, alla opponibilità-inopponibilità del vincolo di destinazione costituito sui beni individuati per il sequestro, e non può che essere valutabile "esclusivamente dinanzi al giudice penale, sul presupposto di un automatico recepimento dell'effetto di inefficacia dell'atto di disposizione, così come riconosciuto anche dalla giurisprudenza civile (Sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23158)". Ne consegue, come già affermato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, che potranno essere oggetto di sequestro conservativo oltre che i beni di proprietà dell'imputato o del responsabile civile, anche i beni di proprietà di terzi, "a condizione che emergano elementi da cui risulti la mala fede dei terzi acquirenti o la simulazione del contratto d'acquisto".

Analogamente, potranno essere fatte valere in sede di emissione o impugnazione del sequestro conservativo, le questioni riguardanti l'inefficacia degli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni precedenti la dichiarazione di fallimento, secondo la disciplina prevista dall'art. 64 legge fall., non dovendosi ricorrere ad un'azione revocatoria in separata sede posto che tali atti sono "inefficaci di diritto", in quanto oggetto di una presunzione di frode nel biennio precedente alla sentenza dichiarativa di fallimento.

La pronuncia in esame, inoltre, ha dichiarato inammissibile, l'ulteriore motivo di ricorso proposto dalla difesa dell'imputato e relativo "all'insufficienza della motivazione sulla capacità patrimoniale e reddituale dell'imputato al fine di fondare la prognosi sul pericolo di dispersione della garanzia". Nella specie, osservava il ricorrente, il danno da fatto illecito da garantire con il sequestro conservativo non era determinato né determinabile, in quanto all'imputato era contestato il delitto di bancarotta fraudolenta in concorso, senza specificazione della condotta distrattiva dalla quale il danno, a questi addebitabile, sarebbe derivato, mentre tale danno era indicato, nella contestazione, solo in termini complessivi (ammontare del fallimento). In merito la Corte, ha evidenziato l'irrilevanza, ai fini della deteterminabilità del danno, della omessa indicazione dell'ammontare della singola condotta distrattiva, avendo il provvedimento impugnato sostenuto, con adeguata motivazione, la sussistenza dell' "unicità del fatto dannoso" e la conseguente responsabilità solidale dell'imputato con gli altri concorrenti nel reato. In altre parole, chiarisce la Corte, qualora il fatto illecito fonte di danno si articoli in una pluralità di azioni od omissioni poste in essere da più soggetti, il riconoscimento di una responsabilità ai sensi dell'art. 2055 cod. civ. a carico di uno dei coimputati, è censurabile, in sede di legittimità, soltanto, per mezzo di specifico motivo di ricorso, in ordine alla assenza, carenza o illogicità della motivazione sulla sussistenza di un unico fatto dannoso, e non invece di singoli fatti, autonomi e scindibili, che abbiano prodotto danni distinti, dei quali potrebbe essere ritenuto responsabile solo il partecipante a ciascun episodio. Pertanto, non avendo il ricorrente censurato l'onere di motivazione del giudice su tale punto, il ricorso doveva ritenersi affetto da genericità.

Con l'occasione, inoltre, la Suprema Corte, ribadendo un precedente indirizzo sul punto (Sez. IV, 30 aprile 1984, n. 10226, Rv. 166762; Sez. IV, 9 giugno 1983, n. 9677, Rv. 161233; Sez. IV, 24 gennaio 2006, n. 16998 Rv. 233832), ha precisato che, l'unicità del fatto dannoso richiesta dall'art. 2055 cod. civ., ai fini della configurabilità della responsabilità solidale di più autori di un fatto illecito, deve intendersi riferita esclusivamente al danneggiato, in coerenza con la funzione propria dell'istituto di rafforzare la garanzia di quest'ultimo e, pertanto, tale unicità sussiste quando le diverse azioni od omissioni, dolose o colpose, pur costituenti fatti illeciti diversi, siano legate da un vincolo di interdipendenza ed abbiano concorso in maniera efficiente a determinare l'evento.

Infine, la sentenza in esame, in tema di individuazione dei termini dell'impugnazione del provvedimento di sequestro conservativo, ha ribadito che il termine di dieci giorni imposto, a pena di decadenza della misura, dal combinato disposto degli artt. 324, comma settimo e 309, commi nono e decimo, cod. proc. pen., per la decisione del tribunale del riesame, decorre dal giorno della ricezione degli atti processuali e non dalla ricezione dell'istanza di riesame.

SEZIONE VI LE IMPUGNAZIONI

  • procedura penale

CAPITOLO I

L'INAMMISSIBILITÀ DELL'APPELLO

(di Vittorio Pazienza )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il problema della specificità dei motivi di impugnazione. - 3 Gli indirizzi in contrasto: la tesi favorevole ad una differente valutazione dei motivi di appello. - 4 (Segue): l'orientamento contrario: necessità di una valutazione omogenea della specificità dei motivi di ricorso in appello e in cassazione. - 5 La decisione delle Sezioni unite: l'informazione provvisoria.

1. Premessa.

Tra le questioni più fortemente controverse rilevate nella recente elaborazione della giurisprudenza di legittimità, un posto di assoluto rilievo deve essere attribuito a quella riguardante l'ambito di concreta applicazione della causa di inammissibilità dell'appello, ai sensi dell'art. 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., in relazione all'inosservanza della disposizione di cui all'art. 581, comma 1, lett. c), dello stesso codice: quest'ultima, com'è noto, prescrive che nell'impugnazione siano tra l'altro enunciati "i motivi, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta".

Si vedrà tra breve, infatti, che su tale questione - emersa soprattutto in relazione alla necessità o meno che il motivo di appello contenga specifiche censure al percorso motivazionale della sentenza, quanto al capo o al punto della decisione impugnato - si sono formati e sviluppati due diversi indirizzi interpretativi. In particolare, secondo un primo orientamento, la valutazione della specificità del motivo deve svolgersi in termini meno stringenti e comunque diversi da quanto avviene nell'esame dei motivi di ricorso per cassazione; in una diversa ed anzi opposta prospettiva, invece, la predetta valutazione deve avvenire secondo criteri del tutto omogenei a quelli utilizzati nello scrutinio dei motivi di legittimità.

Il rilievo non solo sistematico della questione - che evidentemente coinvolge uno degli snodi essenziali del sistema delle impugnazioni, quale quello relativo alla funzionalità del "filtro" di cui all'art. 591 cod. proc. pen. - non ha bisogno di essere sottolineato, sia per l'intuitiva frequenza con cui il problema si pone nella pratica giudiziaria, sia per i dirompenti effetti correlati alla declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione.

A tale ultimo riguardo, è sufficiente ricordare che, da un lato, tale declaratoria ben può essere adottata anche d'ufficio, qualora l'inammissibilità dell'impugnazione non sia stata rilevata dal giudice d'appello (cfr. ad es. Sez. 1, n. 37319 del 08/07/2015, Nocelli); dall'altro, ovviamente, anche l'inammissibilità dell'impugnazione per il difetto di specificità dei motivi - secondo quanto progressivamente chiarito dal Supremo consesso, da ultimo con Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci Rv. 266818 (v. sul punto infra, cap. IV) - preclude non solo l'esame del merito, ma anche l'eventuale rilevazione, ex art. 129 cod. proc. pen., di cause di non punibilità quale la prescrizione del reato (anche se intervenuta prima della sentenza impugnata, e tuttavia non rilevata né eccepita in quella sede, e neppure dedotta con i motivi di ricorso).

Il contrasto interpretativo è stato ricomposto, in epoca recentissima, dalle Sezioni unite, con una decisione di cui è nota, ad oggi, la sola informazione provvisoria (cfr. infra, § 5).

Una ulteriore indiretta conferma dell'estrema rilevanza della problematica in esame, e della conseguente necessità di un sollecito superamento delle divergenze insorte, può essere desunta dal fatto che l'assegnazione del quesito al Supremo consesso non è avvenuta a seguito di un'ordinanza di rimessione ex art. 618 cod. proc. pen., da parte di una delle Sezioni semplici, bensì per effetto di un provvedimento direttamente emesso dal Primo Presidente della Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 610, comma 2, del codice di rito.

2. Il problema della specificità dei motivi di impugnazione.

L'art. 581 cod. proc. pen. prescrive all'impugnante una serie di oneri "formali", sia quanto all'indicazione degli elementi identificativi del provvedimento censurato, sia quanto all'enunciazione dei profili contenutistici. Vengono in rilievo, a tale ultimo riguardo, i capi o i punti della decisione cui si riferisce l'impugnazione (lett. a), le richieste (lett. b) ed appunto i motivi (lett. c), la cui enunciazione - si è chiarito in dottrina - è finalizzata a «garantire un minimo di serietà all'impugnazione[ . . . ]implicando a carico della parte non solamente l'onere di dedurre le censure che intenda muovere su uno o più punti determinati della decisione, ma anche di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi che sono alla base delle censure medesime, al fine di consentire al giudice del gravame di cogliere i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato».

Nel percorso compiuto da dottrina e giurisprudenza per conferire connotazioni di sufficiente determinatezza al requisito della specificità del motivo (espressamente richiesto, come già notato, dalla lettera dell'art. 581), sono stati raggiunti risultati interpretativi sostanzialmente univoci per ciò che riguarda i profili di genericità del motivo per così dire "intrinseci". È dunque pacificamente inammissibile non solo l'impugnazione del tutto priva dell'enunciazione delle ragioni di fatto o di diritto atte a sorreggere le richieste formulate, ma anche quella contenente critiche che, potendo adattarsi alla impugnativa di una qualunque sentenza, sono prive di qualsiasi preciso e concreto riferimento al provvedimento impugnato (Sez. 3, n. 39071 del 05/06/2009, Oliva, Rv. 244957), nonché quella corredata da motivi redatti in forma perplessa o alternativa, ad es. lamentando la "mancanza e/o insufficienza e/o illogicità della motivazione" del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 16851 del 16/07/2010, T., Rv. 248037).

Diverso è il discorso relativo alla necessità di dichiarare inammissibile l'impugnazione, per la genericità del motivo proposto, qualora non vi sia correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione stessa: è necessario chiarire, in altri termini, se i motivi dedotti con riferimento ad un determinato capo o punto della decisione impugnata possano ignorare il percorso motivazionale compiuto al riguardo dal provvedimento censurato, senza incorrere nel vizio di aspecificità.

Su tale questione, la giurisprudenza di legittimità ha fornito risposte assolutamente consolidate, in senso negativo, con riferimento al motivo di ricorso per cassazione. Quest'ultimo deve quindi essere dichiarato inammissibile, se «fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso» (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838. In senso analogo, cfr. anche ad es. Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo, Rv. 254584, secondo cui i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili «non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato»).

Al contrario, per ciò che riguarda la valutazione della specificità dei motivi di appello, l'elaborazione giurisprudenziale è stata tutt'altro che univoca, avendo dato luogo al marcato contrasto interpretativo che ha determinato il ricorso, da parte del Primo Presidente, ai poteri di assegnazione alle Sezioni unite previsti dal già richiamato capoverso dell'art. 610 cod. proc. pen.

Si vedrà infatti tra breve che, per una parte della giurisprudenza, tale valutazione deve essere operata in termini diversi per i motivi di appello: a tali conclusioni, si è giunti talora con un richiamo al principio del favor impugnationis, in altre più frequenti occasioni valorizzando anche la diversa struttura del giudizio di appello rispetto a quello di legittimità, con particolare riferimento alla differente funzione rispettivamente svolta, dai motivi di ricorso, nell'individuazione dei poteri cognitivi e decisori del giudice ad quem. È noto infatti che l'appello costituisce un'impugnazione a critica libera, che, di regola, "attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti" (art. 597, comma 1, cod. proc. pen.); laddove invece il ricorso per cassazione costituisce un mezzo di impugnazione a critica vincolata (essendo inammissibile se proposto per motivi diversi da quelli stabiliti dalla legge: cfr. art. 606, commi 1 e 3, cod. proc. pen.), che, di regola, "attribuisce alla Corte di cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti" (art 609, comma 1, cod. proc. pen.).

Se dunque le differenze strutturali tra i due tipi di impugnazione implicano, per un primo indirizzo, la non necessità di una puntuale correlazione tra il contenuto dei motivi di ricorso e le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata (con una "corrispondente" restrizione dell'ambito applicativo dell'inammissibilità ex art. 591, comma 2, cod. proc. pen.), in una diversa ed anzi opposta prospettiva ermeneutica si esclude che, dalle caratteristiche del giudizio di appello, derivi la necessità di utilizzare parametri valutativi differenti, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 591, comma 2, cod. proc. pen., rispetto al ricorso per cassazione.

3. Gli indirizzi in contrasto: la tesi favorevole ad una differente valutazione dei motivi di appello.

Le differenze strutturali cui si è appena accennato hanno indotto una parte della giurisprudenza a ritenere che l'inammissibilità dell'appello non possa essere dichiarata per il fatto che l'impugnante si sia limitato a riproporre le censure già esaminate e disattese in primo grado, in quanto "tale rilievo, se è pertinente nell'ambito del giudizio di cassazione, nel quale costituisce motivo di 'aspecificità' la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, non può essere utilizzato con riferimento al giudizio di appello in considerazione dell'effetto devolutivo dei motivi di impugnazione, che consente ed impone al giudice di secondo grado la rivisitazione dei capi e dei punti impugnati" (Sez. 3, n. 36406 del 27/06/2012, Livrieri, Rv. 253983). Nella medesima prospettiva è stato ritenuto ammissibile, da alcune decisioni, anche l'appello contenente una mera richiesta di rivalutazione delle prove (Sez. 3, n. 1470 del 20/11/2012, dep. 2013, Labzaoui, Rv. 254259).

Tali linee argomentative sono state ribadite, con varietà di accenti, anche nel corso del 2016: si è infatti affermato che "la genericità dell'appello o del ricorso per cassazione va valutata in base a parametri diversi, e soltanto in relazione al secondo costituisce motivo di inammissibilità per aspecificità la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione. In virtù del principio devolutivo, invece, il giudice d'appello, a meno che i motivi non siano inficiati di per sé soli da una evidente genericità, è tenuto a rivisitare "in toto" i capi ed i punti della sentenza di primo grado oggetto di impugnazione; ne consegue che è ammissibile l'appello che riproponga, con specifica indicazione dei capi impugnati, censure già esaminate e confutate dal giudice di primo grado" (Sez. 3, n. 23317 del 09/02/2016, Iosa. Nello stesso senso, cfr. anche Sez. 5, n. 8645 del 20/01/2016, Stabile).

Sempre valorizzando la particolare struttura dell'impugnazione, si è osservato anche che "se l'atto di appello apre un nuovo giudizio di merito sul punto da esso investito, senza circoscrivere in alcun modo il potere di cognizione e di valutazione del giudice adito, sembra eccessivo ritenere inammissibile lo stesso quando esponga in modo estremamente succinto, ma intelligibile, le ragioni che, ad avviso dell'appellante, sono idonee a sostenere le sue richieste di riforma del provvedimento impugnato" (Sez. 6, n. 3721 del 24/11/2015, dep. 2016, Sanna, Rv. 265827; in senso analogo, v. anche Sez. 3, n. 30388 del 13/04/2016, Curti).

Le sentenze aderenti all'indirizzo qui in esame hanno spesso evocato il principio del favor impugnationis (cfr. ad es., tra le tante, Sez. 2, n. 16350 03/02/2016, Cerreto), arrivando a precisare che la valutazione della sufficiente specificità del motivo deve essere effettuata senza dimenticare la salvaguardia del diritto all'impugnazione, in quanto il giudizio di appello "configura l'ultima possibilità di rivalutazione del merito della vicenda processuale e, quindi, integra un importante presidio del diritto di difesa" (Sez. 2, n. 2782 del 24/11/2015, dep. 2016, Tavella). In altre precedenti occasioni, invece, è stato espressamente escluso, dal percorso argomentativo, ogni riferimento ad un minor rigore nella valutazione dell'atto di appello rispetto al ricorso per cassazione: si è esplicitamente precisato, al riguardo, che lo scrutinio sulla genericità del motivo deve essere sempre effettuato con il medesimo rigore, essendo invece la diversità strutturale tra i due giudizi a far escludere che la riproposizione di questioni già esaminate e disattese in primo grado sia causa di inammissibilità dell'appello, il quale "ha per contenuto la rivisitazione integrale del punto 'attaccato', con i medesimi poteri del primo giudice ed anche a prescindere dalle ragioni dedotte nel motivo" (Sez. 6, n. 13449 del 12/02/2014, Kasem, Rv. 259456).

4. (Segue): l'orientamento contrario: necessità di una valutazione omogenea della specificità dei motivi di ricorso in appello e in cassazione.

Come già più volte accennato, nella giurisprudenza della Suprema corte si è affermato anche un indirizzo diverso, secondo cui l'ammissibilità dell'impugnazione, con riferimento alla necessaria specificità dei motivi, deve essere valutata per l'atto di appello avvalendosi dei medesimi criteri utilizzati per il ricorso per cassazione.

In tale prospettiva, una importante decisione ha chiarito, per un verso, che il requisito della specificità non può dirsi integrato dalla "prospettazione di astratte plurime spiegazioni che possono essere date di un comportamento dei soggetti coinvolti nella vicenda processuale, essendo invece necessario indicare le ragioni per cui si ritiene errata la valutazione che il giudice ha compiuto delle prove legittimamente acquisite nel dibattimento". Per altro verso, è stato espressamente confutato l'assunto secondo cui le esigenze di specificità dei motivi sarebbero attenuate in appello, dove il giudice è competente a rivalutare anche il fatto: si è infatti precisato, al riguardo, che "tale rivalutazione, essendo l'appello un'impugnazione devolutiva, può e deve avvenire nei rigorosi limiti di quanto la parte appellante ha legittimamente investito il giudice d'appello con il mezzo d'impugnazione (conforme alle previsioni di cui all'art. 581 cod. proc. pen.), che serve sia a circoscrivere l'ambito dei poteri del giudice sia a evitare impugnazioni dilatorie, che impegnano inutilmente e dannosamente le risorse giudiziarie, limitate e preziose, e che concorrono a impedire la realizzazione del principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost., comma 2)" (Sez. 6, n. 21873 del 03/03/2011, Puddu, Rv. 250246). Anche di recente, si è ribadito che l'inammissibilità dell'appello ricorre quando i motivi di ricorso «sono avulsi dai passaggi argomentativi del provvedimento impugnato - sviluppati in risposta alle analoghe deduzioni proposte dall'imputato in primo grado - e si riducono alla mera prospettazione di una possibile ed astratta spiegazione del comportamento ascritto all'imputato non coerente con le risultanze probatorie in atti e con la ricostruzione storico-fattuale compiuta dal giudice della prima cognizione» (Sez, 6, n. 7773 del 12/01/2016, Seferovic, Rv. 266433).

Con riferimento alla particolare ipotesi in cui il motivo di ricorso in appello riproponga questioni già dedotte e disattese in prima istanza, si è posto in evidenza che tale riproposizione non costituisce in sé causa di inammissibilità, perché nel giudizio di appello non sussiste alcuna preclusione ad un nuovo esame nel merito dell'intera vicenda: «nondimeno, l'appello, in quanto soggetto alla disciplina generale delle impugnazioni, deve essere connotato da motivi, sia pure ridotti all'essenziale, caratterizzati da specificità, cioè da argomenti che siano strettamente collegati agli accertamenti della sentenza di primo grado, si correlino alle argomentazioni riportate nella decisione impugnata e si confrontino con essi, non si fermino alla formulazione di una critica del tutto astratta ed indeterminata» (Sez. 6, n. 37392 del 02/07/2014, Alfieri, Rv. 261650). Nel medesimo ordine di idee, con riferimento all'appello cautelare ex art. 310 cod. proc. pen., è stata ritenuta inammissibile l'impugnazione del P.M. contenente un generico rinvio all'originaria richiesta di misura cautelare, ovvero una mera riproposizione degli argomenti contenuti in detta richiesta e rigettati dal giudice della cautela (cfr. ad es. Sez. 1, n. 32993 del 22/03/2013, Adorno, Rv. 256996).

È interessante notare che anche alcune decisioni aderenti all'indirizzo qui in esame hanno tenuto in adeguata considerazione il principio del favor impugnationis, precisando peraltro che il minor rigore valutativo non può comportare la «sostanziale elisione» del requisito di cui all'art. 581, lett. c), cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 39210 del 29/05/2015, Jovanovic, Rv. 264686; in senso analogo, da ultimo, v. ad es. Sez. 4, n. 48895 del 26/10/2016, Beltrami).

Appare infine utile segnalare due recenti decisioni della Suprema corte che hanno individuato una stretta correlazione tra la necessaria specificità dei motivi di appello e il consolidato principio che impone di adottare una motivazione rafforzata, nell'ipotesi di riforma di una sentenza assolutoria, nel senso che il predetto ulteriore obbligo motivazionale «deve trovare proprio nel motivo la prima base di riferimento, in quanto lo stesso sia idoneo a suffragare l'auspicato ribaltamento della decisione». Si è escluso, in altri termini, che l'obbligo di motivazione rafforzata possa gravare sul solo giudice di secondo grado e non anche sull'appellante, «dovendosi invece ritenere che la specificità, in relazione all'appello, debba essere intesa nel senso che il motivo, per indirizzare realmente la decisione di riforma, debba contenere nelle linee essenziali le ragioni che confutano e sovvertono sul piano strutturale e logico le valutazioni del primo giudice, non essendo sufficiente la mera riproposizione di temi reputati in primo grado insufficienti o inidonei» (Sez, 6, n. 546 del 18/11/2015, dep. 2016, D'Ambrosio, Rv. 265883; in senso conforme, v. anche Sez. 6, n. 25711 del 17/05/2016, Vitelli).

5. La decisione delle Sezioni unite: l'informazione provvisoria.

Sul contrasto interpretativo descritto nelle pagine precedenti sono intervenute le Sezioni unite, con una sentenza pronunciata il 27/10/2016, imp. Galtelli.

Di tale decisione, come già accennato in premessa, è ad oggi nota la sola informazione provvisoria, del seguente tenore: «L'appello (al pari del ricorso per cassazione) è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata».

Dall'informazione provvisoria emerge quindi che il Supremo consesso ha ritenuto di aderire alla tesi che equipara pienamente, nella valutazione della specificità del motivo, il ricorso in appello al ricorso per cassazione (cfr., supra, § 4).

  • prova
  • procedura speciale

CAPITOLO II

LA RILEVABILITÀ DELLA MANCATA RINNOVAZIONE DELLA PROVA DICHIARATIVA NEL CASO DI REFORMATIO IN APPELLO DELLA SENTENZA ASSOLUTORIA

(di Luigi Giordano, Andrea Nocera )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 Gli orientamenti contrapposti. - 3 La decisione delle Sezioni unite: l'indirizzo europeo consolidato e la sua consonanza con la giurisprudenza interna. - 3.1 segue: l'assoluta necessità di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello. - 3.2 segue: la "decisività" della prova dichiarativa. - 3.3 segue: il vizio derivante della mancata rinnovazione delle fonti dichiarative. - 4 Alcune considerazioni critiche. - 5 I riflessi della pronuncia sulle sentenze successive. - 6 Un nuovo fronte: la reformatio in peius della sentenza emessa nel giudizio abbreviato.

1. La questione controversa.

Il capovolgimento del giudizio assolutorio di primo grado da parte del giudice di appello sulla base di una diversa valutazione di prove dichiarative, senza tuttavia la loro rinnovazione, si pone in contrasto con la consolidata giurisprudenza della Corte EDU secondo la quale, in forza dell'art. 6, par. 1 e 3, lett. d), CEDU, un simile esito, salve circostanze "eccezionali", presuppone necessariamente la nuova assunzione diretta dei testimoni nel giudizio di impugnazione. L'applicazione di questo principio della giurisprudenza europea, ormai cristallizzato da una pluralità di decisioni, ha costituito l'occasione perché le Sezioni unite della Corte, con la sentenza Sez. un., 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta Tapas, affrontassero un delicato contrasto interpretativo relativo all'ampiezza dei poteri cognitivi del giudice di legittimità.

I punti salienti della vicenda possono essere ricostruiti sinteticamente. Nel corso di un procedimento che aveva ad oggetto il reato di estorsione, la Corte d'appello ribaltava la sentenza assolutoria di primo grado, giudicando credibile, in forza di un apprezzamento meramente cartolare del contegno del dichiarante, la persona offesa che era stata valutata inattendibile dal primo giudice. L'imputato proponeva ricorso per cassazione, deducendo il vizio di motivazione in relazione alla valutazione di credibilità della persona offesa, di cui era evidenziata la decisività senza peraltro lamentare la violazione dei parametri di legalità convenzionale derivante dall'omessa riassunzione della prova dichiarativa.

La Seconda sezione penale, rilevando l'esistenza di un contrasto sul regime di rilievo del predetto vizio nel giudizio di cassazione, con ordinanza del 26 novembre 2015, depositata il 20 gennaio 2016, rimetteva il ricorso alle Sezioni unite formulando il seguente quesito: «se sia rilevabile d'ufficio la questione relativa alla violazione dell'art. 6 CEDU per avere il giudice d'appello riformato la sentenza di primo grado sulla base di una diversa valutazione di attendibilità di testimoni di cui non si procede a nuova escussione».

2. Gli orientamenti contrapposti.

L'ordinanza di rimessione ha evidenziato il contrasto insorto all'interno della Suprema Corte sul punto della rilevabilità d'ufficio della violazione della norma convenzionale.

Secondo l'orientamento che si è espresso in senso negativo, per rilevare la violazione dell'art. 6 CEDU, è necessario che l'imputato abbia esperito tutti i rimedi offerti dall'ordinamento processuale "domestico". Questa condizione non ricorre quando non vi sia stata in appello richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale e non sia stato proposto ricorso per cassazione deducendo, nelle forme di cui all'art. 581 cod. proc. pen., una violazione di legge integrata proprio dal mancato rispetto del parametro convenzionale. La rinnovazione della prova dichiarativa in appello, infatti, è necessaria solo se la diversa valutazione investe i profili dell'attendibilità intrinseca del dichiarante, non essendosi limitata alla riconsiderazione di dati estrinseci alle affermazioni, non direttamente incidenti sul cd. flusso comunicativo. In assenza di un impulso di parte non è possibile verificare se la rivalutazione della testimonianza attenga agli aspetti che necessitano della rinnovazione ovvero si risolva nella riconsiderazione degli elementi esterni al dichiarato estranei all'area di incidenza della giurisprudenza europea (Sez. V, 20 novembre 2013 n. 51396, Basile ed altri, Rv. 257831; Sez. IV, 19 novembre 2013 n. 18432/2014), Spada, Rv. 261920; Sez. I, 9 giugno 2015 n. 26860, Bagarella ed altri, Rv. 263961).

L'indirizzo opposto, invece, ha sostenuto che la violazione in questione è rilevabile d'ufficio ex art. 609, comma 2, cod. proc. pen. in quanto il presupposto del previo esaurimento dei rimedi interni va applicato senza eccessivo formalismo, come suggerito dalla stessa giurisprudenza europea (Corte EDU, 19 marzo 1991, Cardot c. Francia), essendo indispensabile tener conto delle particolari circostanze del caso concreto (Corte EDU, 6 novembre 1980, Van Oosterwijck c. Belgio). È sufficiente, pertanto, che la parte abbia impugnato la decisione ad essa sfavorevole, anche senza proporre specifica doglianza per la violazione del diritto ad un processo equo, perché le norme della CEDU hanno natura sovra-legislativa, seppure sub-costituzionale, tanto che il condannato potrebbe comunque ricorrere alla Corte europea per far valere la violazione dell'art. 6 CEDU.

In particolare, alla rilevabilità d'ufficio della pacifica violazione di regole convenzionali di carattere oggettivo e generale, già censurata in sede europea, si deve pervenire in base ad un'interpretazione convenzionalmente conforme dell'art. 609, comma 2, cod. proc. pen., senza necessità di sollevare una questione di legittimità costituzionale della richiamata norma processuale in relazione all'art. 117, comma 1, Cost. (Sez. II, 10 ottobre 2014, n. 677, Di Vincenzo, Rv. 261555; Sez. III, 12 novembre 2014, n. 11648, P., Rv. 262978; Sez. III, 20 gennaio 2015, n. 19322, Ruggeri, Rv. 263513; Sez. V, 24 febbraio 2015 n. 25475, Prestanicola ed altri, Rv. 263902; Sez. I, 3 marzo 2015, n. 24384, Mandarino, Rv. 263896).

3. La decisione delle Sezioni unite: l'indirizzo europeo consolidato e la sua consonanza con la giurisprudenza interna.

La sentenza affronta la questione sulla base dei pilastri rappresentati dagli approdi interpretativi ormai pacifici sul rapporto tra parametri convenzionali e norme interne. Il primo dovere dell'interprete consiste nel verificare se è effettivamente riscontrabile un contrasto tra la norma interna da applicare al caso concreto e la disposizione della CEDU ovvero se la disciplina nazionale, anche all'esito di un'interpretazione adeguatrice, sia in linea con i parametri convenzionali, sollevando un incidente di costituzionalità per la violazione della norma "interposta" solo nel primo caso. La forza vincolante per il giudice nazionale dei precedenti della Corte EDU, peraltro, è circoscritta ai soli orientamenti consolidati ovvero alle decisioni "pilota", con le quali siano state evidenziati contrasti strutturali di un ordinamento nazionale rispetto alla convenzione europea.

Nel caso di specie è richiamato proprio un indirizzo consolidato della Corte EDU, assurto a particolare risalto a seguito della decisione del 5 novembre 2011, Dan c. Moldavia, ancorché fosse stato espresso anche da precedenti pronunce (Corte EDU, 7 luglio 1989 Bricmont c. Belgio, e poi, ex plurimis, nei casi Corte EDU, 27 giugno 2000, Costantinescu c. Romania; Corte EDU, 15 luglio 2003, Sigurbòr Arnarsson c. Islanda; Corte EDU, 18 maggio 2004, Destrehem c. Francia; Corte EDU, 21 gennaio 2006, Garda Ruiz c. Spagna), secondo cui l'affermazione nel giudizio di appello della responsabilità dell'imputato prosciolto in primo grado sulla base di prove dichiarative è consentita solo previa nuova assunzione diretta dei testimoni nel giudizio di impugnazione, a pena di violazione dell'art. 6 CEDU, e in particolare del par. 3, lett. d) di tale disposizione, che assicura il diritto dell'imputato di «esaminare o fare esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico». Questo orientamento, peraltro accolto da sentenze maturate in ordinamenti giuridici diversi da quello italiano, è declinato dalla Corte europea anche nel senso di ritenere che la lesione della norma convenzionale si verifica pure nell'ipotesi in cui, come nella vicenda concreta in esame, né l'imputato, né il suo difensore abbiano sollecitato una nuova escussione dei testimoni (v., da ultimo, Corte EDU, 4 giugno 2013, Hanu c. Romania; ancor prima, Corte EDU, 19 febbraio 1996, Botten c. Norvegia; Corte EDU, 8 marzo 2007, Danila c. Romania; Corte EDU, 26 giugno 2012, Gaitanaru c. Romania).

L'indirizzo della Corte di Strasburgo si pone in sintonia con la giurisprudenza interna la quale da tempo ha sottolineato il particolare dovere di motivazione che incombe sul giudice di appello che afferma la responsabilità dell'imputato prosciolto in primo grado (Sez. un., 30 ottobre 2003, n. 45276, Andreotti, Rv. 22609; Sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, Rv. 231679), tanto da dover confutare specificamente le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria (Sez. VI, 20 aprile 2005, n. 6221, Aglieri, Rv. 233083). Successivamente, per effetto del rilievo dato all'introduzione del canone "al di là di ogni ragionevole dubbio", inserito nell'art. 533, comma 1, cod. proc. pen. dalla legge n. 46 del 2006, n. 46 (ma già individuato dalla giurisprudenza quale inderogabile regola di giudizio: v. Sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328, Franzese, Rv. 222139), è stato più volte puntualizzato che per la riforma di una sentenza assolutoria nel giudizio di appello, in mancanza di elementi sopravvenuti, non basta una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, occorrendo una "forza persuasiva superiore", tale da far venire meno "ogni ragionevole dubbio" (ex plurimis, Sez. III, 27 novembre 2014, n. 6817, S., Rv. 262524). In questo contesto, sull'influsso della giurisprudenza di Strasburgo, si è consolidato l'indirizzo secondo cui il giudice di appello non può pervenire a condanna in riforma della sentenza assolutoria di primo grado basandosi esclusivamente, o in modo determinante, sulla diversa valutazione delle fonti dichiarative delle quali non abbia proceduto, anche d'ufficio, a norma dell'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a una rinnovata assunzione delle stesse (cfr., di recente, Sez. VI, 6 ottobre 2015, n. 47722, Arcane, Rv. 265879; Sez. V, 13 marzo 2015, n. 29827, Petrusic, Rv. 265139).

3.1. segue: l'assoluta necessità di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello.

Nel caso di capovolgimento in appello di una sentenza proscioglimento fondata su prove dichiarative, dunque, la Corte conferma l'indirizzo ormai consolidato secondo cui, al dovere di motivazione rafforzata da parte del giudice dell'impugnazione, desumibile anche dal canone «al di là di ogni ragionevole dubbio», deve essere affiancato quello di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, che integra un limite alla reformatio in peius della pronuncia di assoluzione.

Tra le ipotesi di rinnovazione dell'istruttoria, in particolare, non è esplicitamente presa in considerazione dall'art. 603 cod. proc. pen. quella in cui il giudice d'appello interpreti le risultanze di prove dichiarative in termini antitetici rispetto alle conclusioni assunte in primo grado. La disciplina interna, pertanto, sulla base di una mera interpretazione letterale, sembra divergere dalla giurisprudenza europea. Dai principi fondamentali del processo penale dell'oralità della prova, dell'immediatezza della sua formazione davanti al giudice chiamato a decidere e della dialettica delle parti nella sua formazione, tuttavia, discende che la diretta percezione della prova orale è condizione essenziale della correttezza e completezza del ragionamento sull'apprezzamento degli elementi di prova.

Nel caso di appello proposto contro una sentenza di assoluzione fondata su prove dichiarative, pertanto, la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale si profila come "assolutamente necessaria" ai sensi dell'art. 603, comma 3, cod. proc. pen. Tale presupposto, infatti, non si collega solo ai casi di incompletezza del quadro probatorio, ma deve essere più generalmente connesso all'esigenza che il convincimento del giudice di appello, nei casi in cui sia in questione il principio del "ragionevole dubbio", replichi l'andamento del giudizio di primo grado, fondandosi su prove dichiarative direttamente assunte.

La necessità per il giudice dell'appello di procedere, anche d'ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante. Ne consegue che essa è necessaria: a) per il testimone "puro"; b) per quello c.d. assistito; c) per il coimputato in procedimento connesso; d) per il coimputato nello stesso procedimento (fermo restando che, in questi ultimi due casi, l'eventuale rifiuto di sottoporsi all'esame non potrà comportare conseguenze pregiudizievoli per l'imputato); e) per il soggetto "vulnerabile" (salva la valutazione del giudice sull'indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le dovute cautele, ad un ulteriore stress); f) per l'imputato che abbia reso dichiarazioni "in causa propria" (dal cui rifiuto non potrebbe, tuttavia, conseguire alcuna preclusione all'accoglimento della impugnazione).

Anche il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, pure d'ufficio.

Nel caso in cui la necessaria rinnovazione della prova dichiarativa non possa intervenire per l'impossibilità di procedervi, ad esempio a causa di irreperibilità, infermità o decesso del soggetto da esaminare, «non vi sono ragioni per consentire un ribaltamento ex actis», fermo restando il dovere del giudice di accertare sia la effettiva sussistenza della causa preclusiva alla nuova audizione, sia che la sottrazione all'esame non dipenda dalla volontà di favorire l'imputato, né da condotte illecite di terzi, essendo in tali casi legittimo fondare il proprio convincimento sulle precedenti dichiarazioni assunte.

3.2. segue: la "decisività" della prova dichiarativa.

Uno dei nodi più delicati affrontati dalla sentenza in esame consiste nell'individuazione della prova dichiarativa "decisiva" di cui va disposta la rinnovazione in appello per poter procedere al capovolgimento della sentenza di proscioglimento. Si tratta della trasposizione nel diritto interno della categoria delle prove che i giudici europei definiscono "sole or decisive rule", nozione elaborata fin da Corte EDU 20 novembre 1989, Kostovsky c. Paesi Bassi, nei casi in cui viene invocata la violazione delle regole dell'equo processo afferenti alla prova.

Secondo le Sezioni unite detta prova non consiste in quella "negata" di cui all'art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., cioè la prova che, ove esperita avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; piuttosto si tratta di una prova da riassumere, il cui contenuto si era già dispiegato in primo grado ed aveva fondato l'esito assolutorio.

Costituiscono prove decisive al fine della valutazione della necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nel caso di riforma in appello del primo giudizio assolutorio, pertanto, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l'assoluzione. Esse, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si devono rivelare potenzialmente idonee ad incidere sull'esito del giudizio.

Sono prove decisive, secondo la Suprema Corte, inoltre, anche quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell'appellante, rilevanti - da sole o insieme ad altri elementi di prova - ai fini dell'esito della condanna.

Non può ravvisarsi la necessità della rinnovazione dibattimentale, al contrario, in relazione a prove dichiarative di cui non sia discusso il contenuto informativo, ma la qualificazione giuridica (ad esempio nel caso di dichiarazioni ritenute dal primo giudice come necessitanti di riscontri ex art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., e inquadrabili secondo l'appellante in un'ipotesi di testimonianza cfr. Sez. III, 24 settembre 2015, n. 44006, B., Rv. 265124) ovvero che possono formare oggetto di diversa valutazione del loro contenuto non in sé considerato, ma solo combinato ad altri fonti di prova di differente natura (per questo ordine di idee, cfr. Sez. VI, 6 ottobre 2015, n. 47722, Arcone, Rv. 265879; Sez. II, 22 settembre 2015, n. 41736, Di Trapani, Rv. 264682).

Ai fini della esclusione della doverosità della riassunzione della prova dichiarativa, infine, non rileva che il contenuto di essa, come raccolto in primo grado, non presenti "ambiguità" o non necessiti di "chiarimenti" o "integrazioni". Una simile valutazione che compisse il giudice di appello si fonderebbe non su un apprezzamento diretto della fonte dichiarativa ma sul resoconto documentale di quanto registrato in primo grado e, dunque, su una valutazione meramente cartolare degli elementi di prova.

3.3. segue: il vizio derivante della mancata rinnovazione delle fonti dichiarative.

Una volta affermata la necessita della rinnovazione della prova dichiarativa in appello, anche d'ufficio, nel caso di riforma in peius della sentenza di primo grado, la Corte si sofferma sulle conseguenze del suo mancato rispetto, affermando che, in tali ipotesi, deve ravvisarsi un vizio di motivazione della decisione di appello e non una violazione di legge.

La mancata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, infatti, "non rileva di per sé", ma solo nella misura in cui riveli una motivazione viziata, in quanto la sentenza di appello abbia operato ex actis un ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado sulla base di una diversa lettura delle prove dichiarative. «È quindi solo l'esito di condanna del giudizio di appello e, in primo luogo, la motivazione della relativa sentenza ad essere potenzialmente censurabile» (cfr., per tutte, Sez. II, 15 settembre 2015, n. 48630, Pircher, Rv. 265323; Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 1400, P.R., Rv. 261799; Sez. VI, 28 novembre 2013, n. 1256, Cozzetto, Rv. 258236).

Non ricorre invece, una violazione di legge ed in particolare della legge processuale, la quale è rilevante se è sanzionata con la nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza (art. 606, comma 1, lett. c, cod. proc. pen.) e solo se dedotta dalla parte impugnante (a norma degli artt. 581, comma 1, lett. c), e 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.) ovvero, a prescindere da una deduzione di parte, quando attenga a questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento (art. 609, comma 2, cod. proc. pen. nel caso di nullità assolute o di inutilizzabilità che inficino radicalmente la regolarità processuale e che soggiacciono al principio di tassatività).

Per valutare se, non essendo stata riassunta la fonte dichiarativa, la sentenza di appello sia viziata occorre apprezzarne il contenuto, dalla quale dovrà desumersi: a) se sia stata espressa nella motivazione una valutazione contra reum delle fonti dichiarative; b) se tale valutazione sia in contrasto con quella resa dal giudice di primo grado; c) se essa sia stata "decisiva", nel senso dapprima precisato, ai fini dell'affermazione della responsabilità; d) se essa sia stata assunta senza procedere a una rinnovazione dell'esame delle fonti dichiarative.

Pertanto, qualora l'imputato nell'atto di ricorso abbia attaccato il punto della sentenza contenente l'affermazione della responsabilità penale e si dolga di una errata valutazione delle risultanze probatorie mediante un "valido" ricorso per cassazione, non viziato, cioè, da connotati di globale inammissibilità, la violazione dell'art. 6 CEDU è rilevabile anche d'ufficio nel giudizio di legittimità, essendo del tutto irrilevante che il ricorrente faccia specifico riferimento alla regola di cui all'art. 603, comma 3, cod. proc. pen. interpretato alla luce della giurisprudenza della Corte EDU o, più semplicemente, alla disposizione europea, la cui mancata applicazione si è riverberata sulla motivazione della sentenza impugnata. Nel caso di reformatio in peius in appello, in conclusione, il vincolo derivante dalla necessità di adeguare le norme interne alle regole convenzionali determina l'ampliamento del perimetro cognitivo della Corte di cassazione, consentendo di rilevare anche d'ufficio la violazione del diritto all'equo processo derivante dalla mancata rinnovazione della prova dichiarativa.

4. Alcune considerazioni critiche.

Le Sezioni unite, dunque, hanno posto rimedio «all'indubbia anomalia di un processo di appello essenzialmente cartolare, a fronte di uno di primo grado che, in quanto improntato all'oralità, valorizza l'apprezzamento del giudice che ha fatto luogo in prima persona all'assunzione della prova, individuando un punto di equilibrio fra l'astrattamente legittima possibilità della irrogazione di una condanna in grado di appello - riconosciuta anche in sede pattizia internazionale - ed il dispiegarsi del principio del contraddittorio, consentendo alla difesa, che dopo il secondo grado di giudizio non potrà più ottenere una rivalutazione del merito del processo, di confrontarsi direttamente con gli elementi di prova in grado di ribaltare il precedente convincimento, a sé favorevole» (in questi termini, Sez. VI, 22 giugno 2016, n. 38757, Alibani ed altri).

Più specificamente, è stato evidenziato in dottrina che le Sezioni unite hanno composto l'apparente antinomia tra il vincolo posto all'oggetto del giudizio dai motivi di ricorso (art. 609, comma 1, cod. proc. pen.) e la necessità di evitare il rischio di esporre lo Stato italiano a responsabilità per violazione dei contenuti precettivi dell'art. 6 CEDU, non dilatando il perimetro applicativo della rilevabilità di ufficio dell'ipotetico vizio rappresentato dal contrasto con le norme della Convenzione europea, mediante una raffinata riconduzione di tale rilevabilità nell'ambito del vizio di motivazione introdotto dalla parte ricorrente.

La violazione del diritto di difesa derivante dalla mancata rinnovazione del dibattimento in appello, dunque della legalità convenzionale, è stata inclusa "in modo inedito" nel vizio di motivazione (cfr. Sez. II, 21 giugno 2016, n. 37385, Arena, Rv. 267912). È stata poi prevista una sorta di rilevabilità di ufficio "mediata" dall'avvenuta introduzione del tema - in senso ampio - ad opera della parte, che contesta, in modo specifico e valido, punti argomentativi della decisione di secondo grado concernenti le fonti "sospette", pur senza formulare censure ricollegabili direttamente alla CEDU.

È stato altresì individuato dalla Corte uno specifico onere a carico dell'organo che rappresenta l'accusa e che è legittimato a proporre gravame avverso una pronuncia assolutoria di primo grado (ovvero della parte civile appellante) di accompagnare la richiesta di riforma con l'istanza di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale onde dimostrare l'inattendibilità delle dichiarazione dei testi posti a fondamento della decisione assolutoria, senza che, però, l'omessa richiesta possa configurare alcuna causa di inammissibilità dell'appello (Sez. II, 9 settembre 2016, n. 40798, Foglio, Rv. 267654).

Uno dei profili più delicati, come è stato precisato, riguarda l'individuazione della prova dichiarativa "decisiva" che fa insorgere il dovere di rinnovazione in appello nel caso di reformatio in peius. Le Sezioni unite hanno chiarito che si tratta di una prova "già assunta" in primo grado, aggiungendo che, nonostante lo scarso significato che eventualmente le fosse stato assegnato dal primo giudice, il suo valore decisivo ai fini della condanna potrebbe desumersi dalla prospettiva dell'appellante. Hanno poi precisato che "non potrebbe invece ritenersi "decisivo" un apporto dichiarativo il cui valore probatorio, che in sé considerato non possa formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado, si combini con fonti di prova di diversa natura non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o addirittura pretermesse dal primo giudice, ricevendo soltanto da queste, nella valutazione del giudice di appello, un significato risolutivo ai fini dell'affermazione della responsabilità". Con quest'ultima specificazione, secondo la dottrina, le Sezioni unite hanno inteso assicurare rilievo alla sola rivalutazione dell'attendibilità intrinseca delle dichiarazioni e non a quella estrinseca, ribadendo l'indirizzo giurisprudenziale già espresso in precedenza sul punto (per questo ordine di idee, cfr. Sez. VI, 6 ottobre 2015, n. 47722, Arcone, Rv. 265879; Sez. II, 22 settembre 2015, n. 41736, Di Trapani, Rv. 264682; Sez. IV, 26 febbraio 2013, n. 16566, Morzenti). Questa distinzione, peraltro, sarebbe opinabile perché il giudizio sulla credibilità "interna" del flusso comunicativo risente inevitabilmente anche del valore attribuito agli elementi esterni al dichiarato, rendendo necessario in entrambi i casi riassumere la prova dichiarativa in appello. Il dovere di rinnovazione dell'istruttoria, pertanto, dovrebbe sorgere ogni volta che le dichiarazioni risultino rilevanti ai fini dell'accertamento della responsabilità, nel senso che il giudice le abbia incluse tra le prove a fondamento della condanna.

5. I riflessi della pronuncia sulle sentenze successive.

Le decisioni che sono seguite alla pronuncia delle Sezioni unite, su questi specifici profili, sembrano essersi attestate sull'orientamento espresso dalla sentenza in esame.

La Corte, con la sentenza Sez. V, 28 giugno 2016, n. 45847, Colombo, ad esempio, ha escluso il vizio derivante dalla mancata rinnovazione dell'istruttoria in una fattispecie in cui il giudice di appello era pervenuto alla reformatio in peius della sentenza assolutoria non già sulla base della dedotta rivalutazione cartolare delle dichiarazioni della persona offesa, giudicata inattendibile in primo grado, ma valorizzando taluni elementi probatori esterni a dette dichiarazioni non considerati in primo grado, che, in quanto non contestati o addirittura ammessi dallo stesso imputato, acquisivano una dimensione oggettiva.

Nello stesso senso, Sez. VI, 5 luglio 2016, n. 40751, Agliocchi, ha escluso la necessità della rinnovazione della prova dichiarativa in una fattispecie in cui la Corte di appello aveva posto a fondamento della propria decisione, piuttosto che gli elementi provenienti da tale genere di prove, quelli desumibili da atti di natura documentale non adeguatamente valorizzati o erroneamente considerati o addirittura pretermessi dal primo giudice e ritenuti risolutivi ai fini dell'affermazione di responsabilità della ricorrente (nella specie, «idonei a denotare la parzialità delle dichiarazioni accusatorie riportate in sede di ricostruzione dei fatti compiuta dalla ricorrente nelle denunce»).

Inoltre, con la sentenza Sez. III, 7 luglio 2016, n. 43924, Failla, la Corte ha precisato che «l'obbligo di rinnovazione diviene attuale solo allorquando venga in rilievo un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa, non, altresì, quando la valutazione di attendibilità rimanga inalterata, mutando, . . .la valutazione del compendio probatorio o l'interpretazione della fattispecie incriminatrice». In tal senso, quando la difformità riguardi non già il giudizio di attendibilità, ma il ragionamento probatorio, in quanto contraddittorio o illogico, l'audizione di una fonte il cui contenuto e la cui attendibilità sono rimasti inalterati nel corso del procedimento rappresenta «una inutile superfetazione processuale».

Sul medesimo piano si segnala Sez. I, 6 luglio 2016, n. 41930, Bono ed altri, Rv. 267799, ove si evidenzia che non ha carattere "decisivo" «la prova insuscettibile di divergenti considerazioni tra i due gradi di giudizio» oppure «quella coordinata con altra reputata ininfluente dal primo giudice e ritenuta dirimente da quello dell'impugnazione, che assegni a quest'ultima rilievo risolutivo». In particolare, si esclude la sussistenza di un vizio di motivazione nella sentenza di appello che non ha radicalmente sovvertito la decisione di primo grado, ma si è limitata ad individuare gli elementi integrativi di una diversa fattispecie di reato (nel caso di specie, la qualificazione del fatto in termini di tentato omicidio in luogo del delitto di lesioni aggravate) e ad applicare un'altra norma di legge regolatrice, ancorché con effetti peggiorativi per la posizione del ricorrente, «tradottisi in una considerazione di maggiore gravità del reato e nell'irrogazione di una sanzione più afflittiva, senza però che ciò abbia comportato valutazioni difformi in ordine alla sussistenza del fatto ed all'attribuzione alla persona dell'imputato». L'applicazione dei principi elaborati dalla Corte EDU, infatti, è circoscritta ai soli casi in cui "l'antitesi di decisioni sia dipendente dal diversificato apprezzamento di prove dichiarative" e non può investire l'operazione delibativa dei giudici di appello che riguardi l'aspetto formale della vicenda criminosa giudicata, la sua ricostruzione materiale ed il "nomen iuris" attribuibile al fatto di reato.

Carattere decisivo è stato riconosciuto, invece, alla prova dichiarativa apprezzata contra reum sulla base della rivalutazione cartolare di una testimonianza che era definita nel primo giudizio "vaga e reticente sulla dinamica dei fatti e delle circostanze di contesto" (Sez. VI, 14 ottobre 2016, n. 46254, Lasiru Dolly, ove, nell'annullare la sentenza di appello che era pervenuta alla condanna dell'imputato assolto in primo grado, si rileva che la rivalutazione in tali termini delle dichiarazioni decisive obbligava la Corte di merito a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame del soggetto.

Analoghe valutazioni sul contenuto della decisività della prova dichiarativa, sono espresse dalla citata sentenza Sez. II, 9 settembre 2016, n. 40798, Foglio, cit., ma anche da Sez. VI, 14 luglio 2016, n. 34446, Cirfeda, e Sez. IV, 14 luglio 2016, n. 34980, Akarame Renè. In tale ultima pronuncia, l'illegittimità della sentenza di riforma in peius non preceduta dal nuovo ascolto dei testimoni si fonda sulla ritenuta necessarietà per la ricostruzione dei fatti contestati del contributo conoscitivo apportato dalla prova dichiarativa, apprezzata in modo divergente nelle decisioni di merito (nella specie, in maniera esclusiva per una fattispecie di reato, e anche "non esclusiva, ma senz'altro determinante", per altre, con riferimento ad altri elementi di prova concretamente apprezzati alla luce del contributo ricostruttivo fornito nelle dichiarazioni).

L'onere di rinnovare l'istruzione dibattimentale, inoltre, è stato affermato con riferimento alle dichiarazioni rese da soggetti "collaboratori", che abbiano "influito sul convincimento del Tribunale, guidandolo anche nell'interpretazione delle conversazioni intercettate" e che il giudice di appello abbia "svalutato", con l'attribuzione di un significato non ostativo ad una diversa ricostruzione, ovvero "espunto" dall'esame critico (Sez. VI, 12 maggio 2016, n. 44667, Napoli e altri).

I principi fin qui illustrati, infine, trovano applicazione anche nel caso di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. al giudice civile a seguito dell'annullamento da parte della Corte di cassazione della sentenza di appello che, ribaltando la decisione assolutoria di primo grado, aveva condannato l'imputato ai soli effetti civili, dichiarando la prescrizione dei reati. Secondo la Corte, in questa ipotesi, il giudice civile competente in grado di appello dinanzi al quale è rinviato il giudizio è tenuto a valutare la sussistenza della responsabilità dell'imputato in base ai parametri del diritto penale, in quanto l'azione civile è stata esercitata nel processo penale e il suo buon esito presuppone l'accertamento dell'esistenza del reato. Detto giudice potrà ricorrere ai poteri officiosi di cui al combinato disposto degli artt. 257 e 359 cod. proc. civ., ove ritenga di poter pervenire al capovolgimento della decisione assolutoria di primo grado in forza della rivalutazione dell'attendibilità della testimonianza decisiva (Sez. IV, 31 ottobre 2016, n. 45786, Assaiante).

6. Un nuovo fronte: la reformatio in peius della sentenza emessa nel giudizio abbreviato.

Nella motivazione della sentenza in esame, le Sezioni unite hanno precisato che, per ragioni di coerenza sistematica, deve pervenirsi a conclusioni analoghe a quelle che sono state illustrate con riferimento al giudizio dibattimentale nel caso di impugnazione del pubblico ministero contro una pronuncia di assoluzione emessa all'esito di rito abbreviato, ove la decisione sia basata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive dal primo giudice e il cui valore sia posto in discussione dall'organo dell'accusa impugnante. Nel rito speciale, pertanto, il capovolgimento della decisione assolutoria fondata su prova orale può intervenire solo se il giudice di appello esercita i poteri di integrazione probatoria che gli sono riconosciuti in forza della sentenza della Corte cost. 16 dicembre 1991, n. 470. Sarebbe irrilevante, al riguardo, la circostanza che gli apporti dichiarativi decisivi siano stati valutati in primo grado solo in forma cartolare ovvero derivino, a loro volta, dall'integrazione probatoria disposta nel rito abbreviato a norma dell'art. 438, comma 5, o dell'art. 441, comma 5, cod. proc. pen. e, dunque, siano oggetto di un apprezzamento "di prima mano".

Le Sezioni unite, sul punto, aderiscono ad un indirizzo già espresso dalla giurisprudenza (Sez. VI, 11 febbraio 2014, n. 8654, Costa, Rv. 259107). Nella stessa sentenza, peraltro, la Corte ha dato atto di un'opinione diversa manifestata in altre pronunce di legittimità (ex plurimis, Sez. II, 23 maggio 2014, n. 33690, De Silva, Rv. 260147), sostenendo che essa sia stata espressa sulla sola base delle indicazioni desumibili dalle fattispecie considerate dalla giurisprudenza della Corte EDU e senza valorizzazione del principio del ragionevole dubbio, da ritenersi di carattere "generalissimo".

Su questo specifico tema, successivamente, è intervenuta un'ulteriore decisione che ha escluso la sussistenza dell'obbligo di rinnovazione della prova orale decisiva per ribaltare in appello un'assoluzione emessa all'esito di rito abbreviato. Secondo Sez. III, 12 luglio 2016, n. 43242, C.S., in particolare, il riferimento all'obbligo di rinnovazione della prova anche nel caso di rito speciale non condizionato, contenuto nella decisione delle Sezioni unite, presenta un rilievo solo incidentale e, quindi, non vincolante. Nel giudizio abbreviato, l'imputato, a fronte di un consistente sconto sanzionatorio, ha rinunciato all'assunzione delle prove secondo il crisma dell'oralità e dell'immediatezza, così circoscrivendo il contradditorio alla fase antecedente al giudizio. L'accertamento, pertanto, è limitato sotto il profilo del contradditorio e, comunque, solo cartolare. Il giudice perviene alla decisione senza avere una percezione diretta delle prove dichiarative e senza che il confronto dialettico sulla pregressa acquisizione delle fonti di conoscenza sia equiparabile a quello proprio del giudizio dibattimentale. In un simile contesto risulterebbe irragionevole porre in capo al giudice d'appello l'obbligo di provvedere ad un contatto diretto con la fonte della prova dichiarativa che il giudice di primo grado non ha avuto per espressa scelta dello stesso imputato. L'accertamento cartolare, inoltre, non è incompatibile con il superamento del principio del "ragionevole dubbio", dovendo "darsi atto che una condanna che non si è nutrita dell'oralità nell'acquisizione della sua base probatoria non confligge con la presunzione di non colpevolezza dell'art. 27, secondo comma, Cost.. . .".

Questa sentenza ha ribadito l'opzione interpretativa accolta prima dell'intervento delle Sezioni Unite da numerose pronunce; di recente, tra le altre, da Sez. VI, 20 gennaio 2016 n. 12652, Masciulli, secondo la quale, nel caso del giudizio abbreviato non condizionato, non può operare il principio desunto dall'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, dal momento che investe l'apprezzamento di una prova orale che nella fattispecie non sussiste, in conseguenza del carattere cartolare del rito abbreviato, che non viene meno neppure se il G.u.p. avesse respinto la richiesta di abbreviato condizionato all'escussione di un teste. Nel senso della applicabilità del principio in caso di abbreviato "condizionato", in relazione al vaglio di dichiarazioni testimoniali rese dinanzi al GUP, invece, si è espressa Sez. II, 9 settembre 2016, n. 40798, Foglio, cit.

In seguito, la questione in esame è stata rimessa alle Sezioni unite da Sez. II, 28 ottobre 2016, n. 47015, Patalano, che ha chiesto di valutare se, nel caso di impugnazione del pubblico ministero contro una pronuncia di assoluzione emessa nell'ambito di un giudizio abbreviato, ove tale decisione sia basata su una valutazione delle prove dichiarative ritenute decisive dal giudice e il cui valore sia posto in discussione dall'organo dell'accusa impugnante, il giudice di appello debba porre in essere i poteri di integrazione probatoria e procedere all'assunzione diretta dei dichiaranti. In quest'ordinanza è stato rilevato che l'esercizio di poteri istruttori da parte del giudice dell'appello avverso la sentenza emessa nel giudizio abbreviato in base alla citata pronuncia della Corte Costituzionale non costituisce un obbligo, ma una mera facoltà da porre in essere quando è assolutamente necessario. L'allargamento della tutela prevista dalla Convenzione europea, nell'obiettivo di massima estensione delle regole dell'equo processo, trova un limite nella struttura del rito abbreviato non condizionato e nella sua natura negoziale. I principi fondamentali della oralità della prova, dell'immediatezza della sua formazione davanti al giudice chiamato a decidere e della dialettica delle parti «non costituiscono un dogma processuale, ma possono essere sacrificati, per scelta dello stesso imputato, in funzione dei vantaggi assicurati dal rito stesso, senza per ciò compromettere l'equità del procedimento che termini in un giudizio di condanna».

  • procedura penale
  • azione civile
  • esecuzione della pena

CAPITOLO III

STATUZIONI CIVILI, PROVVISIONALE E DIVIETO DI REFORMATIO IN PEIUS

(di Alessandro D'Andrea )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 Il primo indirizzo esegetico. - 3 Il secondo orientamento interpretativo. - 4 L'approccio ermeneutico intermedio. - 5 La soluzione resa dalle Sezioni Unite.

1. La questione controversa.

La questione relativa alla possibilità di configurare la violazione del principio del divieto della reformatio in peius nel caso in cui la parte civile, pur senza presentare impugnazione, chieda ed ottenga dal giudice di secondo grado una pronuncia di condanna dell'imputato al pagamento di una provvisionale, precedentemente non richiesta nel giudizio di prime cure, è stata risolta negativamente dalle Sezioni Unite nella sentenza Sez. U, n. 53153 del 27 ottobre 2016, C., Rv. 268179, espressamente affermando che «Non viola il principio devolutivo né il divieto di reformatio in peius la sentenza di appello che accolga la richiesta di una provvisionale proposta per la prima in quel giudizio dalla parte civile non appellante».

Per come evidenziato nell'ordinanza di rimessione, si tratta di uno specifico quesito strettamente correlato alla più generale questione relativa alla possibilità per il giudice di appello, in assenza di impugnazione della parte civile, di rivedere le statuizioni concernenti il risarcimento del danno in senso sfavorevole all'imputato.

2. Il primo indirizzo esegetico.

Per il primo indirizzo esegetico risulta legittima, in quanto non posta in violazione del divieto della reformatio in peius, la sentenza di secondo grado che accolga la domanda di provvisionale della parte civile non impugnante, formulata per la prima volta in appello.

Per tale indirizzo interpretativo, espresso in plurime sentenze della Corte, la richiesta di pagamento di provvisionale effettuata dalla parte civile per la prima volta in appello, in esito ad una condanna generica di primo grado al risarcimento del danno, non costituisce domanda nuova, così imponendo al giudice del gravame di pronunciarsi su di essa, utilizzando i medesimi criteri di giudizio previsti dall'art. 539, comma 2, cod. proc. pen. per il giudice di primo grado. Ne costituiscono, tuttavia, condizione: la circostanza che il risarcimento del danno non sia stato espressamente negato dal giudice di prime cure e che esso non sia contestato, nell'an e nel quantum, da parte dell'imputato.

A tale soluzione non osterebbe né la formulazione degli artt. 598 e 600 cod. proc. pen., né alcuno dei profili evidenziati nella sentenza n. 353 del 1994 della Corte Costituzionale (dichiarativa della parziale illegittimità costituzionale dell'art. 600, comma 3, cod. proc. pen.) attinenti al carattere accessorio e subordinato dell'azione civile ove inserita nel processo penale. Deve, pertanto, essere confermato, in ambito penale, quanto già ritenuto da Cass. civ., Sez. 3, n. 1798 del 6 ottobre 1970, Rv. 347770 - per la quale la richiesta di provvisionale non costituisce una domanda nuova, in quanto rientrante nell'ambito dell'originaria domanda di condanna - apparendo del tutto irragionevole prevedere una disparità di trattamento tra le due situazioni solo determinata dal fatto che l'azione civile sia stata esercitata in sede penale attraverso la costituzione di parte civile.

Si tratta di un orientamento assai risalente, la cui originaria affermazione è individuabile nelle sentenze Sez. 4, n. 1937 del 26 novembre 1968, dep. 1969, Martino, Rv. 110321 e Sez. 4, n. 770 del 28 febbraio 1970, Curti, Rv. 115372, nelle quali, per la prima volta, è stata esclusa l'applicabilità del divieto della reformatio in peius ai provvedimenti di natura civile della sentenza, conseguentemente prevedendosi la concedibilità ex officio in appello della provvisionale alla parte civile.

Numerose altre sentenze hanno, quindi, ribadito l'indicato assunto - Sez. 4, n. 1682 del 13 ottobre 1970, Trentin, Rv. 115699; Sez. 4, n. 5070 del 1 marzo 1979, Mazzoleni, Rv. 142141; Sez. 6, n. 10461 del 28 marzo 1979, Calanca, Rv. 143592; Sez. 4, n. 10940 del 8 maggio 1979, Menichetti, Rv. 143709; Sez. 4, n. 10079 del 20 maggio 1982, Draghi, Rv. 155855; Sez. 4, n. 2614 del 25 gennaio 1988, Palazzo, Rv. 177704; Sez. 4, n. 3171 del 11 gennaio 1990, Roncalli, Rv. 183572; Sez. 1, n. 10212 del 25 settembre 1992, Busacca, Rv. 192294; Sez. 5, n. 7967 del 8 maggio 1998, Calamita, Rv. 211540; Sez. 6, n. 396 del 22 settembre 1998, dep. 1999, Pellegrino, Rv. 212912 e Sez. 5, n. 30822 del 14 maggio 2003, Barberis, Rv. 225807 - escludendo ogni violazione del principio del divieto della reformatio in peius, ex art. 597, comma 3, cod. proc. pen., da parte del giudice di appello che liquidi di ufficio la provvisionale in favore della parte civile, e ciò anche quando tale ultima non abbia proposto gravame avverso la sentenza di primo grado.

Con riferimento alle più recenti pronunce, la Corte ha riaffermato il superiore assunto nelle sentenze Sez. 6, n. 38976 del 23 settembre 2009, Ricciotti, Rv. 244558; Sez. 1, n. 17240 del 2 febbraio 2011, Consolo, Rv. 249961; Sez. 5, n. 8339 del 18 ottobre 2012, dep. 2013, T., Rv. 255014; Sez. 5, n. 25520 del 18 maggio 2015, Vincenti Mattioli, Rv. 265147, ulteriormente chiarendo che il divieto previsto dall'art. 597 cod. proc. pen. concerne esclusivamente le disposizioni di natura penale, non estendendosi alle statuizioni civili della sentenza.

L'ultima decisione massimata ancora espressasi negli indicati termini è la sentenza Sez. 3, n. 42684 del 7 maggio 2015, Pizzo, Rv. 265198, cui ha fatto seguito, successivamente alla rimessione della questione alle Sezioni Unite, la pronuncia Sez. 3, n. 35570 del 9 marzo 2016, Ardita, n.m., in cui è stato ribadito, ancora una volta, che, quando sia stata pronunciata in primo grado condanna generica al risarcimento del danno, non costituisce domanda nuova - in quanto tale inammissibile - la richiesta di condanna al pagamento di una provvisionale effettuata per la prima volta in appello dalla parte civile, con la conseguenza che il giudice di seconde cure ha il dovere di pronunciarsi sulla domanda medesima con gli stessi criteri di giudizio previsti per il giudice di primo grado dall'art. 539, comma 2, cod. proc. pen.

3. Il secondo orientamento interpretativo.

Il difforme indirizzo interpretativo ritiene, in termini assolutamente antitetici, che è illegittima la sentenza di secondo grado che accolga la richiesta di provvisionale avanzata dalla parte civile non impugnante per la prima volta in appello, in quanto posta in violazione del principio devolutivo, di quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nonché, soprattutto, del divieto di reformatio in peius.

È stato osservato, infatti, che la domanda della parte e l'interesse che la sorregge estrinsecano la facoltà di impugnazione, ponendosi pertanto, salvo eccezioni, non solo come premessa processuale del nuovo grado di giudizio, ma anche quale mezzo di delimitazione oggettiva dell'ambito cognitivo del giudice ad quem nel contesto dei caratteri peculiari di ciascun tipo di impugnazione. Ne deriva che se la domanda impugnatoria è volta a far conseguire un risultato favorevole al suo proponente, lo stesso principio che pretende l'attivazione della parte per dar luogo al giudizio d'impugnazione giustifica il divieto di adozione di soluzioni eccedenti i limiti di quanto richiesto dalla parte stessa. Pare contravvenire all'indicato principio, cioè, una decisione che non si limiti ad accogliere o respingere l'appello - anche integrando la motivazione della precedente pronuncia annullata - ma che aggravi gli effetti della condanna dell'imputato al risarcimento del danno, incrementando d'ufficio l'importo liquidato dal primo giudice a tale titolo.

Per tale esegesi risulterebbero violati, oltre alle previsioni dei commi 1 e 3 dell'art. 597 cod. proc. pen., anche i più generali principi della domanda, della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del contraddittorio, che continuano a presidiare l'azione del danneggiato pure nell'alternativa ipotesi di costituzione di parte civile in sede penale.

La disciplina dell'impugnazione per i soli interessi civili dettata dall'art. 573 cod. proc. pen., infatti, prevede solo l'obbligo della trattazione del giudizio, seppur limitato alla sola domanda civile, con le modalità proprie del procedimento penale di impugnazione, per cui l'esercizio del diritto di azione da parte del danneggiato dal reato, anche se avvenuto nel contesto del procedimento penale, resta, comunque, soggetto al rispetto dei principi generali di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del contraddittorio con le altre parti, i quali principi verrebbero gravemente violati qualora si ammettesse che il giudice del gravame possa attribuire alla parte civile vittoriosa nel grado inferiore, ma non appellante, una prestazione in misura superiore a quella già riconosciutale, pur in assenza di domanda incidentale antagonista e contrapposta all'appello principale.

Tali principi sono stati nella sostanza affermati, per la prima volta, nella sentenza Sez. 4, n. 989 del 13 aprile 1965, Steiner, Rv. 099766, che ha ritenuto preclusa la possibilità per il giudice di appello di condannare l'imputato, in carenza di specifica impugnazione della parte civile, ad una provvisionale maggiore di quella stabilita dal giudice di primo grado, semplicemente in base alla richiesta proposta nella discussione orale, non essendo ciò consentito dall'effetto devolutivo dell'appello e dal divieto di ultrapetizione.

Nel prosieguo, quindi, i superiori assunti hanno trovato reiterato conforto nelle pronunce Sez. 4, n. 485 del 12 febbraio 1971, Cantone, Rv. 118450; Sez. 4, n. 4235 del 26 ottobre 1973, dep. 1974, Palini, Rv. 127205; Sez. 4, n. 15728 del 29 marzo 1977, Gallina, Rv. 137474 e Sez. 4, n. 9058 del 2 giugno 1981, Muzi, Rv. 150529, nelle quali è stata conformemente esclusa la possibilità di concessione di una provvisionale in appello richiesta solo oralmente in giudizio, in carenza di una preventiva richiesta formalmente avanzata nel giudizio di primo grado ovvero in sede di formulazione dei motivi di impugnazione.

Ancora, le sentenze Sez. 4, n. 8324 del 14 maggio 1979, Genovese, Rv. 143054 e Sez. 4, n. 10932 del 9 aprile 1979, Ippolito, Rv. 143708 hanno ribadito che il giudice di appello, in mancanza di specifica impugnazione della parte civile, non può condannare l'imputato al pagamento di una provvisionale maggiore di quella stabilita in primo grado, non essendo ciò consentito dal principio dell'effetto devolutivo dell'appello e dal divieto della ultrapetizione.

Per la decisione Sez. 4, n. 35584 del 7 maggio 2003, Barilla, Rv. 225987, poi, il giudice di appello che proceda a seguito di impugnazione del solo imputato non può disporre la condanna di tale ultimo al pagamento di una provvisionale in favore della costituita parte civile, quando la relativa domanda sia stata respinta dal giudice di primo grado, in quanto il principio devolutivo impedisce una reformatio in peius della sentenza nell'assenza di specifico gravame sul punto.

Gli indicati assunti hanno, da ultimo, trovato conforto, sempre in termini conformi, nelle decisioni Sez. 4, n. 42134 del 1 ottobre 2008, Federico, Rv. 242185; Sez. 1, n. 2658 del 17 novembre 2010, dep. 2011, Covelli, Rv. 249547; Sez. 1, n. 50709 del 30 ottobre 2014, Birri, Rv. 261757 e Sez. 2, n. 42822 del 17 settembre 2015, Portolesi, Rv. 265206.

4. L'approccio ermeneutico intermedio.

Deve darsi conto, infine, anche di una posizione apparentemente intermedia - in particolare espressa nelle pronunce Sez. 1, n. 14583 del 4 novembre 1999, Crepaldi, Rv. 216128; Sez. 5, n. 36062 del 19 giugno 2007, Pellegrinetti, Rv. 237722 e Sez. 1, n. 13545 del 4 febbraio 2009, Bestetti, Rv. 243132 - per la quale la provvisionale può essere concessa, anche senza apposita istanza della parte civile, non solo dal giudice di primo grado, ma anche da quello d'appello. In questo secondo caso, tuttavia, tale possibilità è condizionata dal fatto che la relativa questione non sia stata prospettata al primo giudice e non abbia formato oggetto di decisione, in quanto in tale eventualità non potrebbe più essere legittimamente valutata in assenza di specifica impugnazione, stante l'ostacolo rappresentato dal principio devolutivo.

Le sentenze Sez. 5, n. 9779 del 15 febbraio 2006, Durante, Rv. 234237 e Sez. 2, n. 47723 de 7 novembre 2014, Richard, Rv. 260833, hanno, quindi, affermato che è illegittima la decisione con cui il giudice di appello disponga l'assegnazione della provvisionale in assenza della richiesta della parte civile, considerato che l'art. 539 cod. proc. pen. subordina tale statuizione alla specifica richiesta della parte civile, che, pertanto, non può ritenersi soddisfatta dall'istanza di provvisoria esecuzione della eventuale condanna al risarcimento del danno, disciplinata dalla diversa previsione dell'art. 540 cod. proc. pen.

5. La soluzione resa dalle Sezioni Unite.

Come in precedenza osservato, le Sezioni Unite hanno risolto il prospettato conflitto ermeneutico aderendo alla prima opzione interpretativa, perciò stabilendo che la provvisionale può essere chiesta dalla parte civile non appellante anche per la prima volta in appello, in quanto l'accoglimento di tale richiesta non viola il principio devolutivo né quello della reformatio in peius.

Si tratta di soluzione cui il Supremo Collegio è pervenuto in ragione di un ricco ed articolato percorso argomentativo, originato dall'analisi della giurisprudenza di legittimità pronunciatasi sulla dedotta questione, le cui più recenti decisioni, tuttavia, non sono state particolarmente rappresentative dell'indicato contrasto, avendo esse affermato, uniformemente, che è legittima la statuizione di accoglimento della richiesta di provvisionale proposta per la prima volta in appello dalla parte civile non impugnante.

Ragioni di vero contrasto, invece, sono rinvenibili nella giurisprudenza della Corte riguardante altre questioni interpretative - come quella relativa alla concedibilità della provvisionale, in assenza di apposita richiesta della parte civile, sia da parte del giudice di primo grado che di quello di appello; ovvero quella concernente la modificabilità, ad opera del giudice di secondo grado, della somma già liquidata a titolo di provvisionale, in favore della parte civile non impugnante - che, pure, assumono sicuro rilievo in relazione al quesito sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, giacché la soluzione interpretativa da prescegliere dipende dall'analisi degli stessi temi relativi all'ambito funzionale del principio devolutivo ex art. 597, comma 1, cod. proc. pen., specificamente riferito al contenuto della domanda risarcitoria esercitata in sede penale, del rispetto del canone civilistico della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nonché del perimetro del divieto di reformatio in peius, stabilito dall'art. 597, comma 3, cod. proc. pen.

Certamente, per come chiarito dalle Sezioni Unite, la circostanza che la parte civile, nel caso di specie, non abbia avanzato richiesta alcuna di provvisionale nel giudizio di primo grado, conclusosi con sentenza di condanna generica al risarcimento del danno, non preclude la possibilità di riconoscimento della provvisionale a suo vantaggio nel giudizio di secondo grado, essendo noto che nella diversa ipotesi in cui vi fosse stata una richiesta della parte civile rigettata, in un punto della sentenza, dal giudice di prime cure - ovvero questi non avesse provveduto su tale richiesta -, sarebbe impedita in sede di appello, per l'applicazione del principio devolutivo, la condanna al pagamento di una provvisionale in favore della parte civile che non ha proposto impugnazione.

Sotto altro profilo, poi, il Supremo Collegio ha osservato come il chiaro disposto del- l'art. 539, comma 2, cod. proc. pen. induca ad escludere, conformemente all'esegesi già formatasi nella giurisprudenza della Corte, che il giudice possa condannare l'imputato al pagamento di una provvisionale in assenza di una conforme richiesta avanzata dalla parte civile.

Il testo dell'indicata norma, infatti, è inequivoco nel ritenere che la condanna al pagamento di una provvisionale può essere pronunciata solo su richiesta della parte civile, con esclusione di qualsiasi potere esercitabile ex officio. Il giudice che disponesse la provvisionale in assenza della richiesta dell'interessato, infatti, opererebbe esorbitando dalle competenze riconosciutegli dalla disciplina codicistica, così, di fatto, pronunciando una decisione ultra petita. Ciò vale, naturalmente, anche con riguardo al giudice di secondo grado, posto che l'art. 598 cod. proc. pen. stabilisce che in appello si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni relative al giudizio di primo grado, tra cui è certamente ricompresa la disciplina dell'art. 539 cod. proc. pen.

Le Sezioni Unite hanno, poi, escluso che la richiesta di provvisionale possa qualificarsi come domanda nuova rispetto al contenuto della domanda risarcitoria proposta dalla parte civile, su cui si è pronunciato il giudice di primo grado con la condanna al risarcimento dei danni ex art. 539, comma 1, cod. proc. pen. Ed invero, facendo riferimento ai principi che regolano l'esercizio dell'azione civile nella propria sede naturale (giudizio civile), con specifico riguardo alle modalità di individuazione della domanda nuova ed al rapporto intercorrente tra condanna generica e condanna al pagamento di una provvisionale - per cui si ha domanda nuova solo ove venga ampliato il petitum ovvero venga introdotta in giudizio una pretesa avente presupposti distinti da quelli di fatto della originaria domanda - il Supremo Collegio ha conclusivamente ritenuto che la richiesta di provvisionale non costituisce una domanda nuova, in quanto rientrante nell'originaria domanda di condanna, e che, pertanto, la formulazione della richiesta di provvisionale per la prima volta in appello non determina alcuna violazione del canone di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all'art. 112 cod. proc. civ. Ciò appare conforme ai canoni interpretativi indicati dalla giurisprudenza civile in materia, nonché ai principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale in ordine all'insussistenza di limitazioni derivanti dall'inserimento dell'azione civile nel processo penale.

Le Sezioni Unite hanno, quindi, precisato che la condanna al pagamento di una provvisionale, nei limiti del danno rispetto a cui è stata raggiunta la prova, non può essere qualificata come una statuizione parziale definitiva, tenuto conto della natura accessoria della richiesta ex art. 539, comma 2, cod. proc. pen. rispetto alla condanna generica. La provvisionale, infatti, è ontologicamente funzionale a soddisfare le esigenze di anticipazione della liquidazione del danno, in favore della parte civile, insorte per effetto della durata del processo.

Pertanto, è «l'aggravamento delle condizioni del creditore danneggiato che legittima la parte civile ad avanzare, per la prima volta, nei confronti dell'imputato debitore, la richiesta di provvisionale nel giudizio di appello, avvalendosi dell'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto generatore del danno contenuto nella condanna generica pronunciata dal primo giudice; ciò in quanto la clausola rebus sic stantibus è permeabile rispetto al verificarsi di fatti nuovi, insorti nella sfera del danneggiato, in grado di incidere sulla futura liquidazione definitiva del danno».

Rileva, al fine, pure il principio di immanenza della parte civile, in applicazione del quale l'impugnazione proposta dall'imputato, sul punto della responsabilità penale, devolve al giudice di appello anche la cognizione sulla domanda risarcitoria per i danni da reato, resa ai sensi dell'art. 538 cod. proc. pen. L'immanenza della parte civile, poi, comporta anche che la richiesta da essa avanzata, in qualità di soggetto non appellante, di modifica della somma oggetto di condanna in primo grado al pagamento della provvisionale avviene nel pieno rispetto del principio del contraddittorio.

In ragione dell'insieme delle considerazioni svolte, allora, il Supremo Collegio è addivenuto all'affermazione per cui, in primo luogo, «la sentenza di appello, con la quale l'imputato viene condannato al pagamento di una provvisionale, a fronte di richiesta proposta per la prima volta in quel giudizio dalla parte civile non impugnante, non si pone in contrasto con il principio devolutivo».

Ed infatti, la statuizione contenuta nella sentenza di primo grado, relativa alla condanna generica ex art. 539, comma 1, cod. proc. pen., riconoscendo il diritto della parte civile al risarcimento dei danni da reato, pur in assenza di un compiuto accertamento della entità degli stessi, comprende anche il diritto del danneggiato ad ottenere la condanna al pagamento di una provvisionale, in funzione anticipatoria rispetto alla definitiva liquidazione, nei ristretti limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova. Pertanto, nel caso in cui la sentenza di primo grado contenga una espressa statuizione di accoglimento della domanda risarcitoria e sia priva di un punto specificamente dedicato alla provvisionale, in difetto della relativa richiesta, sfugge la stessa configurabilità dell'effetto preclusivo delineato dall'art. 597, comma 1, cod. proc. pen., nei confronti della parte civile non impugnante rispetto alla possibilità di formulare, nel giudizio di secondo grado, la richiesta di provvisionale. La parte danneggiata, infatti, è risultata vittoriosa sul punto della decisione comprendente l'an della domanda risarcitoria, e la richiesta di provvisionale, per il suo carattere accessorio ed anticipatorio, non può qualificarsi come domanda nuova, rispetto a quella originaria, che ha trovato accoglimento con la condanna generica al risarcimento del danno.

In secondo luogo, poi, il Supremo Collegio ha ritenuto che la sentenza di appello con cui viene accolta la richiesta di provvisionale proposta per la prima volta in quel giudizio dalla parte civile non appellante non viola neanche il divieto di reformatio in peius.

Dato atto del conflitto esegetico originante l'ordinanza di rimessione della questione, infatti, le Sezioni Unite hanno espressamente affermato di condividere il primo orientamento ermeneutico - per il quale la disposizione dettata dall'art. 597, comma 3, cod. proc. pen. non si applica alle statuizioni civili della sentenza, e dunque all'istanza risarcitoria oggetto dell'azione civile - in favore del quale militano diverse argomentazioni di ordine sistematico.

È importante considerare, infatti, che la proposizione dell'appello, da parte dell'imputato, avverso la sentenza di primo grado affermativa della sua responsabilità penale devolve al giudice di seconde cure la cognizione piena su tutti i presupposti della relativa pronuncia. Il capo della sentenza è un atto giuridico completo, in cui si concretizza il contenuto decisorio della sentenza, rispetto al quale il punto della decisione ha una portata più ristretta, riguardando tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione, necessarie per ottenere una decisione completa sul capo. Pertanto, l'impugnazione proposta dall'imputato avverso il punto della condanna penale devolve al giudice di appello la cognizione sull'accertamento della responsabilità, e, nell'ambito di tale scrutinio, il giudice di secondo grado procede all'esame degli elementi costitutivi della fattispecie di reato.

Rispetto a ciò, il divieto di reformatio in peius risponde ad una specifica funzione limitativa, ab extrinseco, del delineato ambito di cognizione del giudice di appello, secondo scelte valoriali adottate dal legislatore.

Per come precisato dal Supremo Collegio, il divieto di reformatio in peius, «già previsto nel codice del 1865 (art. 419, comma 3), come pure in quello Finocchiaro Aprile del 1913 (art. 480, comma 2) ed in quello del 1930 (art. 515, comma 3), si sostanziava nel divieto di aggravamento della decisione appellata dal solo imputato, sulla base di una scelta effettuata dal legislatore.

Dalle indicazioni ora richiamate emergono elementi di sicuro rilievo, anche al fine di risolvere il quesito che ci occupa. Invero, le ricordate opere di codificazione evidenziano un preciso tratto comune, che caratterizza il divieto di reformatio in peius, nel senso che il divieto peggiorativo, imposto al giudice di appello per il caso di impugnazione proposta dal solo imputato, involge unicamente le statuizioni penali della sentenza.

L'analisi della regola che pone il divieto di reformatio in peius induce a rilevare che la stessa risponde ad una sedimentata tradizione codicistica, in forza della quale il giudice di appello, in caso di impugnazione del solo imputato, non può aggravare la pena originariamente inflitta».

Conclusivamente, quindi, il divieto di reformatio in peius, come recepito nel vigente codice di rito penale, costituisce un limite legale esterno, imposto al potere cognitivo del giudice di appello, che involge le statuizioni penali della sentenza, sulla base di specifiche scelte compiute dal legislatore, la cui portata non può essere estesa, in via interpretativa, ad ipotesi diverse da quelle disciplinate.

Conseguentemente, il potere decisorio del giudice di appello, rispetto alle statuizioni civili, non risulta attinto da tale regola limitativa, per cui il divieto di reformatio in peius non viene in rilievo nell'ambito delle valutazioni conducenti alla modifica della somma liquidata a titolo di provvisionale dal primo giudice e neppure rispetto alla richiesta di provvisionale, formulata per la prima volta dalla parte civile non appellante, nel giudizio di secondo grado.

  • prescrizione dell'azione

CAPITOLO IV

INAMMISSIBILITÀ DEL RICORSO IN CASSAZIONE E PRESCRIZIONE

(di Francesco Costantini )

Sommario

1 Premessa: inammissibilità del ricorso e prescrizione maturata prima della sentenza di appello. - 2 Il tradizionale orientamento espresso da Sez. un. "Bracale". - 3 Il nuovo e contrapposto indirizzo giurisprudenziale. - 4 I principi affermati con la sentenza "Ricci". - 5 Rilevabilità della prescrizione maturata prima della sentenza di appello e dedotta nell'atto di impugnazione.

1. Premessa: inammissibilità del ricorso e prescrizione maturata prima della sentenza di appello.

Con sentenza n. 12602 del 17/12/2015 (dep. 25/03/2016), Ricci, Rv. 266818, le Sezioni unite hanno affrontato la questione volta a stabilire se la Corte di cassazione, adita con ricorso inammissibile, possa dichiarare la prescrizione del reato intervenuta prima della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita dalla parte in quella sede o nei motivi di ricorso. Tale questione, si inserisce nella più generale tematica, sotto diversi aspetti negli ultimi anni più volte esaminata dalla Suprema Corte, relativa all'individuazione dell'ambito di cognizione rimesso al giudice dell'impugnazione inammissibile ed alla possibilità per lo stesso di rilevare eventuali cause di non punibilità ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen.

Benché lo specifico quesito avesse già formato oggetto di esame da parte del Supremo consesso, che si era pronunciato in merito con la sentenza Sez. un., n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164, si registrava nella più recente giurisprudenza di legittimità un conflitto interpretativo in considerazione delle riflessioni sviluppate in alcune pronunce delle Sezioni ordinarie giunte ad elaborare sul tema una nuova ricostruzione ermeneutica.

2. Il tradizionale orientamento espresso da Sez. un. "Bracale".

Secondo l'orientamento tradizionale che traeva origine da quanto affermato in Sez. un. "Bracale", l'inammissibilità del ricorso per cassazione contrassegnato da uno dei vizi indicati dalla legge (art. 591, comma 1, e art. 606, comma 3), non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità sia di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata sia di rilevarla di ufficio. Tale affermazione costituisce l'epilogo di un lungo percorso seguito dalla giurisprudenza delle Sezioni unite, a partire dagli anni novanta, in ordine alla problematica relativa ai rapporti tra cause di inammissibilità dell'impugnazione e cause di non punibilità che ha determinato una progressiva erosione degli spazi riservati all'operatività dell'art. 129 cod. proc. pen.

Con una prima pronuncia, Sez. un., n. 21 del 11/11/1994, Cresci, Rv. 199903, il Supremo consesso, sulla falsariga dell'esperienza maturata nel vigore dell'abrogato codice di rito, riproponendo la distinzione tra inammissibilità originaria e sopravvenuta, aveva ritenuto che la manifesta infondatezza in quanto riconducibile nell'alveo delle cause di inammissibilità sopravvenuta, in considerazione della approfondita attività cognitiva occorrente per rilevarla, fosse priva di effetti preclusivi e dunque tale da consentire l'operatività della disposizione dell'art. 129 cod. proc. pen. La successiva sentenza Sez. un. 30 giugno 1999, n.15, del 30/06/1999, Piepoli, Rv. 213981, pur ridefinendo il confine tra le due sfere di inammissibilità ed ampliando la platea delle ipotesi di inammissibilità originaria, qualificava ancora la manifesta infondatezza come una causa peculiare di inammissibilità a fronte della quale si riteneva che il giudice avesse ancora il potere di rilevare e dichiarare eventuali cause di non punibilità. Il definitivo superamento della distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute si è avuto soltanto con la sentenza Sez. un., n. 32 del 22/11/2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266, che ha affrontato la specifica questione dei rapporti tra inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza e prescrizione del reato maturata successivamente alla scadenza del termine per la proposizione del ricorso. La Corte, nell'escludere la possibilità di rilevare la prescrizione nel caso esaminato, ha ricostruito l'inammissibilità dell'impugnazione come categoria unitaria, affermando che l'accertamento sommario che conduce all'inammissibilità per manifesta infondatezza produce effetti di stretto diritto processuale consistenti nel precludere l'accesso al rapporto di impugnazione al fine di evitare che tale rapporto venga utilizzato come strumento, non soltanto, per procrastinare la formazione del titolo esecutivo ma, anche, per conseguire effetti di favore di ordine sostanziale in presenza di un gravame soltanto apparente. In tale contesto interpretativo si è posta la citata sentenza Bracale, con la quale il Supremo consesso, seguendo le linee ermeneutiche tracciate dalle precedenti pronunce, ha affermato che l'intervenuta formazione del giudicato sostanziale derivante dalla proposizione di un atto di impugnazione inammissibile preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio una causa di non punibilità precedentemente maturata. Il principio è stato successivamente ribadito da alcuni arresti delle Sezioni semplici nei quali si è rimarcato che l'inammissibilità originaria del ricorso per cassazione preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare d'ufficio, ex art. 129 cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione anche se maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello ma non dedotta né rilevata nel giudizio di merito (Sez. I, n. 24688 del 04/06/2008, Rayyan, Rv. 240594; Sez. III, n. 42839 del 08/10/2009, Imperato, Rv. 244999; Sez. I, n. 6693 del 20/01/2014, Cappello, Rv. 259205 e Sez. VI, n. 25807 del 14/03/2014, Rizzo ed altro, Rv. 259202).

3. Il nuovo e contrapposto indirizzo giurisprudenziale.

A fronte di tale orientamento negli ultimi anni si era andato sempre più consolidando un difforme indirizzo esegetico volto ad ammettere il superamento dell'effetto preclusivo del ricorso inammissibile ai fini della declaratoria di estinzione del reato per prescrizione intervenuta prima della sentenza di appello. Tale soluzione interpretativa si è sviluppata a partire da alcune pronunce che inizialmente avevano affermato l'ammissibilità del ricorso per cassazione diretto a far valere unicamente la prescrizione maturata prima della sentenza di appello e ritualmente eccepita dalla difesa, ritenendosi che, in tal caso, il giudice di merito, indipendentemente dalla predetta eccezione della parte, ha l'obbligo di rilevare d'ufficio l'estinzione del reato per prescrizione, con la conseguenza che l'omessa declaratoria della predetta causa estintiva determinerebbe, ove non se ne consentisse l'eccepibilità in sede di legittimità, l'assoggettamento dell'imputato alla condanna e alla correlativa esecuzione di pena, con conseguente violazione del principio costituzionale di uguaglianza per disparità di trattamento rispetto alle diverse ipotesi in cui tale omissione non si verifichi. Il ricorso così strutturato, dunque, non potrebbe ritenersi inammissibile in quanto volto a far valere una violazione di legge ex art. 606 lett. b) cod. proc. pen., per l'omessa dichiarazione d'ufficio della estinzione del reato per prescrizione (Sez. III, n.11103 del 30/01/2014, Colosso, Rv. 258733; Sez. IV, n. 49817 del 6/11/2012, Cursio ed altri, Rv. 254092; Sez. IV, n. 11739 del 21/03/2012, Mazzaro, Rv. 252319; Sez. IV, n. 595 del 16/11/2011, Rimauro, Rv. 252666; Sez. V, n. 47024 del 11/07/2011, Varone, Rv. 251209; Sez. IV, n. 6835 del 15/01/2009, Casadei, Rv. 243649; Sez. II, n. 38704 del 07/07/2009, Ioime, Rv. 244809). L'ambito di applicazione di tale principio è stato poi ampliato in altre pronunce ed esteso alle diverse ipotesi in cui la prescrizione non solo non sia stata rilevata dal giudice di merito ma non sia stata neppure dedotta dalla difesa dell'imputato né in sede di gravame né con il ricorso in cassazione. In relazione a tali ipotesi, secondo una prima serie di pronunce, deve ammettersi, incondizionatamente, l'applicabilità dell'art. 129 cod. proc. pen. e, dunque, la rilevabilità di ufficio della maturata prescrizione in quanto sarebbe possibile assimilare il caso della prescrizione maturata prima della conclusione della fase di merito alle altre specifiche ipotesi - abolitio criminis, incostituzionalità della norma incriminatrice e morte dell'imputato - in cui le stesse Sezioni unite hanno ammesso che si possa superare l'efficacia preclusiva del ricorso inammissibile, conservando il giudice il potere/dovere di rendere una pronunzia che non sia solo meramente enunciativa della predetta inammissibilità. In tale prospettiva, allora, l'interpretazione propugnata non si porrebbe del tutto in contrasto con la linea ermeneutica segnata dalle Sezioni unite che ha riconosciuto l'esistenza di eccezioni alla regola. Militerebbero, poi, a favore della soluzione propugnata, la funzione e la stessa ratio dell'istituto della prescrizione da intendersi come "automatico meccanismo presuntivo, in base al quale il trascorrere del tempo (di quel tempo, previsto in astratto dalla legge) comporta l'estinzione del reato" e che "costituisce una garanzia personale per l'individuo, che non può (non deve) essere esposto, al di là di ragionevoli limiti temporali, al rischio di essere penalmente punito per fatti commessi anni addietro". Inoltre, la rilevanza dell'istituto "anche al di fuori di un rapporto processuale in senso stretto" sarebbe direttamente evincibile dalla previsione dell'art. 411 cod. proc. pen. che, precludendo l'esercizio dell'azione penale in relazione ad un reato estinto (anche) per prescrizione, implica che detta causa estintiva "deve operare per il solo fatto di essersi verificata". Esisterebbe allora, una sostanziale differenza tra la prescrizione maturata prima della sentenza di appello, da un lato, e quella maturata dopo di essa o, addirittura, dopo la proposizione del ricorso per cassazione, dall'altro. La prima, infatti, in quanto venuta ad esistenza anteriormente alla conclusione della fase di merito, imporrebbe al giudice di rilevarla in ossequio a quel meccanismo automatico previsto dal legislatore che postula per il giudice di merito un mero atto di ricognizione, colpevolmente omesso, mentre negli altri due casi la prescrizione del reato potrebbe avere rilievo solo a seguito della instaurazione del rapporto processuale di impugnazione che in caso di ricorso affetto da inammissibilità originaria non si verifica, precludendo la dichiarazione della causa estintiva (Sez. IV, n. 27160 del 17/04/2015, Fiandaca, Rv. 264100; Sez. V, n. 10409 del 15/01/2015, Romano, Rv. 263889; Sez. III, n. 2001 del 30/10/2014, Fasciana, Rv. 262014 nonché, in precedenza, Sez. III, n. 52031 del 06/11/2014, Rahman, Rv. 261709; Sez. III, n. 46969 del 22/05/13, R., Rv. 257868; Sez. V, n. 42950 del 17/09/2012, Xhini, Rv. 254633). Seguendo la medesima linea interpretativa in ulteriori arresti si è affermato, ancora, che deve ammettersi la rilevabilità d'ufficio della prescrizione del reato maturata prima della pronunzia della sentenza impugnata e non rilevata dal giudice d'appello, pur se non dedotta con il ricorso per cassazione e nonostante l'inammissibilità di quest'ultimo, ma solo se, a tal fine, non occorra alcuna attività di apprezzamento delle prove finalizzata all'individuazione di un dies a quo diverso da quello indicato nell'imputazione contestata e ritenuto nella sentenza di primo grado, essendo tale attività estranea ai compiti istituzionali della Corte di cassazione (Sez. V, n. 26445 del 17/02/2015, Barone, Rv. 264002; Sez. IV, n. 27019 del 16/06/2015, Pejani, Rv. 263879; Sez. II, n. 4986 del 21/01/2015, Piccininni e altri, Rv. 262322; Sez. IV, n. 51766 del 26/11/2014, Celotti, Rv. 261580; Sez. II, n. 34891 del 15/05/2013, Vecchia, Rv. 256096; Sez. III, n. 14438 del 30/01/2014, Pinto, Rv. 259135; Sez. III, n. 15112 del 21/03/2014, Bombara, Rv. 259185).

4. I principi affermati con la sentenza "Ricci".

Le Sezioni unite hanno aderito all'impostazione tradizionale, affermando il principio così massimato "L'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609 comma 2, cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso". Il Supremo consesso ha preso le mosse proprio dall'impianto interpretativo così come elaborato dalla giurisprudenza di legittimità a seguito del superamento della dicotomia cause di inammissibilità originarie/sopravvenute, ponendosi in linea di continuità con la ricostruzione ermeneutica elaborata dalle sentenze "De Luca" e "Bracale" ed escludendo, anche nel caso in esame, il superamento della preclusione processuale derivante dall'inammissibilità del gravame che, impedendo il passaggio del procedimento all'ulteriore grado di giudizio, inibisce la cognizione della questione e la rivisitazione del decisum per la formazione del cosiddetto "giudicato sostanziale". In particolare, la Corte ha rimarcato che soltanto l'accertata ammissibilità dell'impugnazione, per l'effetto propulsivo che la connota, investe il giudice del potere decisorio sul merito del processo. Al contrario, la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione preclude una qualsiasi pronuncia sul merito. Ciò in quanto "tutte le ipotesi di inammissibilità previste, in via generale, dall'art. 591, comma 1, lett. a), b), c), cod. proc. pen., e, con riguardo specifico al ricorso per cassazione, dall'art. 606, comma 3, cod. proc. pen. viziano geneticamente l'atto, che, ponendosi al di fuori della cornice normativa di riferimento, provoca la reazione dell'ordinamento con la corrispondente sanzione, quale risposta ad un potere di parte non correttamente esercitato. Dette ipotesi, a prescindere dalle modalità più o meno agevoli di rilevazione, sono tutte ugualmente intrinseche alla struttura dell'atto, sì da renderlo inidoneo ad investire il giudice del grado successivo della piena cognizione del processo". La sentenza invalidamente impugnata, dunque, diventa intangibile sin dal momento in cui si concretizza la causa di inammissibilità, che va apprezzata in un'ottica "sostanzialistica" della dinamica impugnatoria e delle relative conseguenze sul piano delle preclusioni processuali (giudicato sostanziale). La successiva declaratoria d'inammissibilità della impugnazione da parte del giudice ad quem ha carattere meramente ricognitivo di una situazione già esistente e determina la formazione del giudicato formale. L'inammissibilità dell'impugnazione, quindi, paralizza, sin dal suo insorgere, i poteri decisori del giudice, il quale, al di là dell'accertamento di tale profilo processuale, non è abilitato a occuparsi del merito e a rilevare, a norma dell' art. 129 cod. proc. pen., cause di non punibilità, quale l'estinzione del reato per prescrizione, sia se maturata successivamente alla sentenza impugnata sia se verificatasi in precedenza, nel corso cioè del giudizio definito con tale sentenza. Nella medesima ottica, il Supremo Consesso ha conferito una decisiva rilevanza, nell'intero sistema delle impugnazioni, alle modalità con cui la parte esercita il proprio diritto, affermando, in particolare, che detto sistema "è contraddistinto comunque dal principio dispositivo, nel senso che è nella facoltà delle parti dare ingresso, attraverso un atto conforme ai requisiti di legge richiesti, al procedimento di impugnazione e delimitare i punti del provvedimento da sottoporre al controllo dell'organo giurisdizionale del grado successivo. Ne consegue che il momento di operatività dell'effetto devolutivo ope legis non può che coincidere con la proposizione di una valida impugnazione, che investa l'organo giudicante della cognizione della res iudicanda, con riferimento sia ai motivi di doglianza articolati dalle parti sia a quelli che, inerendo a questioni rilevabili d'ufficio, si affiancano per legge ai primi. Laddove l'impugnazione è inammissibile, non può il giudice ex officio dichiarare l'esistenza di una causa di non punibilità, posto che la verifica negativa di ammissibilità dell'impugnazione, come si è detto, ha valore assorbente e preclusivo rispetto a qualsiasi altra indagine di merito. Esistono all'interno dell'ordinamento fondamentali esigenze di funzionalità e di efficienza del processo, che devono garantire - nel rispetto delle regole normativamente previste e in tempi ragionevoli - l'effettivo esercizio della giurisdizione e che non possono soccombere di fronte ad un uso non corretto, spesso strumentale e pretestuoso, dell'impugnazione". Non avrebbe, inoltre, pregio fare leva sulla ratio ispiratrice dell'art. 129 cod. proc. pen. per trarre argomenti decisivi a favore della prevalenza della declaratoria di non punibilità. Si osserva infatti che tale norma non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, considerato che non attribuisce, di per sé, al giudice dell'impugnazione un autonomo spazio decisorio, svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma si limita a dettare una regola di giudizio, che deve essere adattata alla struttura del processo così come normativamente disciplinata e che deve guidare il giudice nell'esercizio dei poteri decisori che già gli competono in forza di una corretta investitura. È in questa cornice positiva che, ad avviso della Corte, va letta e apprezzata la ratio dell'art. 129 cod. proc. pen., che persegue certamente gli obiettivi del favor innocentiae e dell'economia processuale (immediata declaratoria di cause di non punibilità), ma nell'ambito di ben individuate scansioni processuali. La ricostruzione operata troverebbe, altresì, ulteriore conforto nell'art. 610 cod. proc. pen., così come novellato dalla legge 26 marzo 2001, n. 128, che ha affidato alla c.d. "sezione-filtro" della Corte di cassazione il vaglio di ammissibilità dei ricorsi, confermando che la verifica sull'ammissibilità del ricorso ha natura prioritaria e autonoma rispetto alla trattazione del merito. Né vi sarebbe contrasto con i principi di equità, razionalità e ragionevole durata del processo (art. 6, § 1, CEDU), di presunzione d'innocenza della persona fino a pronuncia definitiva di colpevolezza (art. 6, § 2, CEDU) e di prevedibilità di tutte le conseguenze negative - anche sotto il profilo della tutela processuale - della condotta realizzata (art. 7, §1, CEDU) essendo comunque onere della parte interessata attivare correttamente il rapporto processuale d'impugnazione con l'esclusione, in caso contrario, di ogni potere cognitivo del giudice.

Analizzando, poi, le argomentazioni addotte a sostegno della soluzione avversa, le Sezioni unite hanno osservato, innanzitutto, che deve escludersi ogni assimilazione della fattispecie in esame alle indicate ipotesi derogatorie in cui la sentenza "Bracale" ha riconosciuto la possibilità per il giudice di rendere una decisione diversa dalla inammissibilità, non essendo ravvisabile una comune ragione giustificatrice "tenuto conto della peculiare fisionomia dello statuto di queste ultime". Non sarebbe, inoltre, ravvisabile alcuna violazione del principio costituzionale di uguaglianza, ben potendo accadere che un imputato benefici della estinzione del reato e altro imputato, invece, debba subire la condanna, trattandosi di situazioni che non sono sovrapponibili, considerato che, in ogni caso, non è soltanto l'errore del giudice a determinare il consolidamento della decisione viziata, ma anche la condotta della parte processuale interessata, che propone una impugnazione non conforme al modello legale e inidonea ad instaurare il grado successivo di giudizio. Non avrebbe, altresì, fondamento normativo la distinzione tra prescrizione maturata prima o dopo la sentenza di merito, posto che "l'omessa rilevazione della prescrizione è un dato destinato, come un qualsiasi altro errore, a rimanere privo di rilievo, se non viene attivato il controllo sulla sentenza del giudice precedente, attraverso la proposizione di un valido ricorso". Infine, non avrebbe alcun pregio il richiamo all'art. 411 cod. proc. pen. che consentirebbe di attribuire rilievo alla prescrizione anche al di fuori di un rapporto processuale in senso stretto. Tale disposizione, infatti, ad avviso della Corte, si inserisce nella fase delle indagini preliminari in cui non opera l'art. 129 cod. proc. pen., mentre nell'ipotesi in esame, facendosi riferimento specifico al rapporto d'impugnazione, il potere cognitivo dell'organo giudicante, in caso di invalidità del ricorso, non può che rimanere circoscritto alla sola rilevazione della inammissibilità, che preclude l'esame del fatto in relazione al quale dovrebbe operare la causa di non punibilità.

5. Rilevabilità della prescrizione maturata prima della sentenza di appello e dedotta nell'atto di impugnazione.

Con la pronuncia in esame, le Sezioni unite, a fronte della adottata decisione, hanno, altresì, esaminato la diversa ipotesi in cui l'intervenuta prescrizione del reato, maturata prima della sentenza di appello, sia stata dedotta - anche se quale unico motivo - nell'atto di impugnazione. La Corte ha risolto la questione affermando il principio di diritto così massimato "È ammissibile il ricorso per cassazione con il quale si deduce, anche con un unico motivo, l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, integrando tale doglianza un motivo consentito ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen.".

In tal caso infatti, secondo il Supremo collegio, è possibile una declaratoria di estinzione del reato, dovendosi escludere la inammissibilità del ricorso stesso. Quest'ultimo, infatti, anche se strutturato su quest'unico motivo, non può ritenersi inammissibile, proprio perché volto a far valere una violazione di legge ex art. 606 lett. b) cod. proc. pen. per l'omessa dichiarazione da parte del giudice del merito della estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Né l'ammissibilità del ricorso può dirsi pregiudicata dal fatto che il ricorrente abbia omesso di eccepire in appello l'intervenuta prescrizione maturata nel corso di quel giudizio o addirittura in epoca antecedente, non potendosi il giudice di merito sottrarre all'obbligo di immediata dichiarazione della causa di non punibilità. Conseguentemente la sentenza, in quanto viziata da palese violazione di legge, può essere fondatamente impugnata con atto certamente idoneo ad attivare il rapporto processuale del grado superiore, il che esclude la formazione del c.d. "giudicato sostanziale".

  • prescrizione dell'azione

CAPITOLO V

INAMMISSIBILITÀ PARZIALE DELL' IMPUGNAZIONE E PRESCRIZIONE

(di Francesca Costantini )

Sommario

1 Premessa: ricorso parzialmente inammissibile avverso sentenza cumulativa e prescrizione. - 2 La tesi contraria alla rilevabilità della prescrizione. - 3 La tesi favorevole alla rilevabilità della prescrizione. - 4 La decisione delle Sezioni Unite.

1. Premessa: ricorso parzialmente inammissibile avverso sentenza cumulativa e prescrizione.

Nell'ambito della più generale tematica relativa alla individuazione degli spazi di cognizione rimessi al giudice dell'impugnazione inammissibile ed alla possibilità per lo stesso di rilevare eventuali cause di non punibilità ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., nel corso dell'ultimo anno, è stata sottoposta al vaglio delle Sezioni unite penali la particolare questione volta a stabilire "se, in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna che riguardi più reati, cioè una sentenza plurima o cumulativa, l'ammissibilità di motivi afferenti uno o più di essi renda, per ciò solo, ammissibile il ricorso anche relativamente agli altri reati, i cui pertinenti autonomi motivi risultino inammissibili, con la conseguenza di consentire la dichiarazione di prescrizione anche per essi, qualora sia trascorso il relativo termine".

Occorre premettere che sul tema dei rapporti tra inammissibilità dell'impugnazione e prescrizione del reato si sono avuti, nel corso degli anni, plurimi interventi delle Sezioni unite che hanno elaborato un ormai consolidato orientamento secondo il quale, in caso di ricorso per cassazione comunque inammissibile, anche per manifesta infondatezza dei motivi, è preclusa la possibilità di rilevare e dichiarare l'estinzione del reato per prescrizione, sia ove questa sia maturata in epoca successiva alla pronuncia della sentenza impugnata sia ove sia maturata in epoca antecedente. Il riconoscimento della prevalenza della forza preclusiva dell'inammissibilità rispetto alla prescrizione poggia sulla considerazione per cui il ricorso inammissibile, in quanto affetto da un vizio o da una anomalia contenutistica, è atto meramente apparente, inidoneo a determinare il passaggio del procedimento all'ulteriore grado di giudizio sì che la cognizione della questione da parte del giudice dell'impugnazione risulta inibita per la formazione del giudicato interno (Sez. U., n. 32 del 21/12/2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266). La specifica ipotesi in cui la prescrizione sia maturata prima della sentenza di appello, poi, è stata esaminata in tempi estremamente recenti con la sentenza Sez. U., n. 12602 del 17/12/2015, Ricci, Rv. 266818, che, ribadendo quanto già in epoca più risalente sostenuto da Sez. U., n. 23428 del 22 giugno 2005, Bracale, Rv. 231164, ha affermato il principio secondo il quale "L'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609 comma 2, cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso".

La questione oggetto della pronuncia oggi in esame non risultava, tuttavia, immediatamente riconducibile a tale consolidato orientamento di legittimità, presentando profili di peculiarità in quanto attinente a vicende in cui non tutti i motivi di ricorso sono inammissibili e pertanto involgente un giudizio sulla struttura delle sentenze plurime o cumulative ed in particolare sul grado di autonomia riconoscibile alle diverse parti di una sentenza pronunciata nell'ambito di un processo relativo a più imputazioni nei confronti di un unico imputato e sull'attitudine di ciascuna di dette parti di passare separatamente in giudicato. Conseguentemente, la giurisprudenza delle sezioni semplici non era univoca, registrandosi sul tema due contrapposti orientamenti.

2. La tesi contraria alla rilevabilità della prescrizione.

L'indirizzo interpretativo prevalente, seguito da numerose sentenze della Suprema Corte, si poneva in termini rigidamente restrittivi escludendo ogni possibilità per la Corte di cassazione, in caso di ricorso su contestazioni plurime, di pronunciare anche d'ufficio l'estinzione di un reato per prescrizione intervenuta dopo la sentenza di appello, allorché il motivo di ricorso in relazione a tale specifico reato sia inammissibile, ma i motivi di ricorso relativi alle altre contestazioni siano ammissibili. Si riteneva, infatti, che "l'autonomia della statuizione di inammissibilità del ricorso per cassazione in relazione ad un capo di imputazione impedisce la declaratoria di estinzione per prescrizione del reato con esso contestato, pur in presenza di motivi ammissibili con riferimento agli altri addebiti" (Sez. V, 1n. 15599 del 05/04/2015, Zagarella, Rv. 263119). Da ciò si faceva conseguentemente derivare l'applicazione del consolidato orientamento giurisprudenziale, citato in premessa, secondo il quale nel caso di ricorso per cassazione comunque inammissibile - anche per manifesta infondatezza dei motivi - è preclusa la possibilità di rilevare e dichiarare l'estinzione del reato per prescrizione, qualora questa maturi in epoca successiva alla pronuncia della sentenza impugnata. A conclusioni sostanzialmente sovrapponibili erano giunte, in precedenza tra le altre, Sez. IV, n. 51744 del 12/12/2014, Campagnaro, Rv. 261576; Sez. VI, n. 33030 del 24/07/2014, A., Rv. 259860; Sez. IV, n. 50334 del 22/02/2013, La Chimia, Rv. 257846 e Sez. VI, n. 6924 del 22 febbraio 2012, Fantauzza, Rv. 256556.

Si osservava in tali pronunce che in caso di sentenza cumulativa relativa a più imputazioni i singoli capi della sentenza sono autonomi anche ai fini dell'impugnazione, stante il principio della pluralità delle azioni penali, tante per quanti sono gli imputati e, per ciascun imputato, tante quante sono le imputazioni. Conseguentemente, "per quanto i diversi capi siano contenuti in una sentenza documentalmente unica con la quale il giudice di merito ha statuito in ordine alle distinte imputazioni, ognuno di essi conserva la propria individualità e passa in cosa giudicata se non investito da impugnazione". A sostegno di tale conclusione veniva, inoltre, ricordato che l'art. 610 comma 3, cod. proc. pen., consente la separazione dei giudizi anche da parte della Corte di cassazione, a definitiva conferma che "all'interno dell'unico, ma complesso, rapporto processuale che si costituisce nel caso di processo oggettivamente cumulativo (pluralità di contestazioni nei confronti di un unico soggetto), le singole contestazioni, che rappresentano distinti capi della sentenza, mantengono la loro individualità. Si precisava, altresì, che l'ipotesi esaminata non era quella di mancata originaria impugnazione del punto della responsabilità all'interno di un unico capo di imputazione, ma quella della preclusione, che non è idonea a far acquistare alla relativa statuizione l'autorità di cosa giudicata, qualora si sia in presenza di impugnazione ammissibile relativa ad altri punti della deliberazione. Trattandosi, infatti, di una sentenza plurima o cumulativa, a cagione della confluenza in un unico processo dell'esercizio di più azioni penali, con la costituzione di una pluralità di rapporti processuali, ciascuno dei quali inerente ad una singola imputazione, verrebbe in rilievo la nozione di "capo" della sentenza, là dove ciascuna decisione emessa relativamente ad uno dei reati attribuiti all'imputato rappresenta un atto giuridico completo, tale da poter costituire, da solo, anche separatamente, il contenuto di una sentenza.

Si evidenziava, conseguentemente, che se più ed autonome tra loro, sono le regiudicande, tanti quanti sono i capi di imputazione, plurimi saranno i "rapporti di impugnazione" che si costituiscono uno per ciascun capo a sua volta corrispondente a ciascun reato, precisandosi, ancora, che la unicità del ricorso non implica l'inscindibilità delle sottese situazioni processuali corrispondenti ad imputazioni diverse, come deve ritenersi confermato dal fatto che ove venga proposto da più parti un unico gravame avverso la stessa sentenza per capi che autonomamente riguardano i diversi ricorrenti, esso darà luogo a più rapporti processuali scindibili in tanti processi quanti sono i ricorrenti. Né può ritenersi che il diritto dell'imputato alla prescrizione, da più parti rivendicato in termini di prerogativa costituzionalmente protetta, possa imporre una soluzione interpretativa diversa in quanto, laddove l'estinzione sia maturata nelle more tra la sentenza di secondo grado e il giudizio di cassazione, il decorso del tempo acquisisce rilievo solo in presenza di una ragione, prospettata e prospettabile in termini tali da poter ritenere validamente incardinato il rapporto processuale sotteso al controllo di legittimità mediante la indicazione di motivi consentiti ex 606 cod. proc. pen. o non manifestamente infondati; ciò avuto riguardo alla specifica imputazione oggetto di condanna e contestazione innanzi alla Corte, non ad ogni possibile altro capo di decisione.

3. La tesi favorevole alla rilevabilità della prescrizione.

A fronte dell'orientamento sopra delineato, volto ad escludere la rilevabilità della prescrizione in caso di inammissibilità dei motivi di ricorso avverso il capo della sentenza relativo ad una delle imputazioni, come segnalato nell'ordinanza di rimessione, si registrava altro indirizzo di segno opposto sostenuto da Sez. II, n. 31034 del 19/07/2013, Santacroce, Rv. 256557 e Sez. V, n. 16375 del 15/04/2014, Cavina, Rv. 262763. In tali arresti si affermava il principio secondo il quale "la Corte di cassazione deve rilevare la prescrizione del reato maturata dopo la pronuncia della sentenza impugnata, anche nel caso in cui la manifesta infondatezza del ricorso risulti esclusa con riferimento ad altro reato". In Sez. II, n. 31034/13, Santacroce ci si limitava però ad affermare che la fondatezza della doglianza sulla intervenuta prescrizione di uno dei reati contestati, escludendo la manifesta infondatezza del ricorso e dunque la insussistenza del rapporto processuale in sede di legittimità, rapporto invece legalmente instauratosi, impone la dichiarazione di prescrizione anche per il diverso delitto contemplato in altro capo.

Nella successiva Sez. V, n. 16375/14, Cavina, analogamente, la Corte affermava di condividere l'orientamento secondo cui la Corte di cassazione deve rilevare la prescrizione del reato maturata dopo la pronuncia della sentenza impugnata anche nel caso in cui la manifesta infondatezza del ricorso risulti esclusa con riferimento ad altro reato. Tale orientamento, infatti, ad avviso del Collegio, valorizzerebbe l'instaurazione, ad opera di siffatto ricorso, di un valido rapporto processuale (da intendersi nel suo complesso) e dunque l'attitudine del ricorso stesso ad introdurre il rapporto processuale di impugnazione in relazione a tutti i reati. Di conseguenza, la prescrizione nel frattempo maturata potrebbe essere dichiarata anche in relazione al reato rispetto al quale il motivo di ricorso è inammissibile.

4. La decisione delle Sezioni Unite.

Con decisione assunta all'udienza del 27 maggio 2016, le Sezioni unite hanno risolto l'evidenziato contrasto affermando che "L'operatività della prescrizione è preclusa per i reati in ordine ai quali il ricorso per cassazione risulti inammissibile". In attesa del deposito delle motivazioni della sentenza ed in ragione allo stato della sola informazione provvisoria, può rilevarsi che la Corte ha ritenuto di aderire alla prima opzione ermeneutica, escludendo che, in caso di ricorso solo in parte ammissibile il giudice di legittimità possa rilevare d'ufficio la prescrizione maturata in relazione ai reati i cui pertinenti autonomi motivi risultino inammissibili, così ponendosi in linea con l'impianto interpretativo elaborato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di rapporti tra prescrizione del reato e inammissibilità del ricorso.

  • giurisdizione militare
  • pubblico ministero
  • sindacato giurisdizionale

CAPITOLO VI

CONFLITTO DI GIURISDIZIONE TRA GIUDICI ORDINARI E MILITARI E LEGITTIMAZIONE A SVOLGERE LE FUNZIONI DI PUBBLICO MINISTERO

(di MariaEmanuela Guerra )

Sommario

1 Premessa. - 2 L'orientamento maggioritario a favore della partecipazione del Procuratore generale (ordinario). - 3 La diversa opzione esegetica. - 4 La giurisdizione militare quale giurisdizione speciale: brevi cenni. - 4.1 La costituzione dell'Ufficio del pubblico ministero militare presso la Corte di cassazione in seguito alla riforma del 1981. - 4.2 Le funzioni del Procuratore generale militare presso la Corte di cassazione in rapporto alle attribuzioni del Procuratore generale "ordinario". - 5 Cenni sulla soluzione resa dalle Sezioni unite.

1. Premessa.

Con la sentenza pronunciata il 23 giugno 2016, non ancora depositata, le Sezioni Unite hanno dato soluzione alla problematica relativa ai rapporti tra gli autonomi Uffici del Pubblico ministero incardinati presso la Corte di cassazione, rispettivamente la Procura generale (ordinaria) e la Procura generale militare, individuando quale Ufficio sia legittimato a partecipare al procedimento di risoluzione del conflitto di giurisdizione tra giudice militare e ordinario.

Pur trattandosi di decisione di cui, allo stato, non sono ancora note le motivazioni, se ne reputa opportuna la segnalazione per la delicatezza della questione dedotta, che, involgendo i limiti ai poteri di intervento dell'Ufficio requirente speciale istituito avanti alla Suprema Corte[1], necessariamente rimanda alla più generale tematica dell'individuazione del fondamento e dei confini della giurisdizione speciale militare.

Più precisamente, il Supremo Collegio è stato chiamato a verificare:

1) "Se alla udienza partecipata davanti alla Corte regolatrice del conflitto di giurisdizione, promosso dal giudice militare nei confronti di quello ordinario, debba intervenire, in qualità di pubblico ministero, il Procuratore generale della Corte di cassazione o il Procuratore generale militare, ovvero entrambi.

2) Se in sede di regolamento del conflitto positivo di giurisdizione tra il giudice ordinario e quello militare sia riconosciuta alla Corte regolatrice la possibilità di escludere uno dei reati per il quale sia già intervenuta sentenza di condanna in primo grado.".

La presente analisi si concentrerà esclusivamente sulla prima delle due questioni rimesse, in quanto dall'informazione provvisoria della decisione resa, non risulta la soluzione adottata dalla Corte con riferimento alla seconda.

Brevemente gli elementi relativi alla fattispecie oggetto del ricorso.

L'imputato, sottoufficiale dell'Arma dei Carabinieri, era stato condannato in primo grado dal Tribunale militare, per il reato p. e p. dagli artt. 146, 47 n. 2, cod. pen. mil. pace (minaccia ad un inferiore per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, con l'aggravante del grado rivestito) e dal Giudice per l'udienza preliminare ordinario, per i reati p. e p. dagli artt. 81, 266, commi 1, 2 e 4 e 336 cod. pen. (istigazione di militari a disobbedire alle leggi, in luogo pubblico e in presenza di più persone, minaccia a pubblico ufficiale, in continuazione), in relazione alla medesima condotta. In particolare, all'imputato veniva contestato di aver minacciato, con più espressioni verbali, i militari, di grado inferiore, componenti di una pattuglia dei carabinieri, impegnati in un controllo su strada, al fine di indurli a non portare a termine l'atto d'ufficio in corso, costituito dalla sottoposizione ad alcoltest, e consequenziale contestazione delle violazioni al codice della strada, al conducente del veicolo fermato.

La Corte d'appello militare di Roma, rilevava il conflitto positivo di giurisdizione e investiva la Corte di cassazione della sua risoluzione, in considerazione del fatto che la condotta ascrivibile al militare, seppur "incontestabilmente unica" aveva originato due distinti procedimenti penali, entrambi definiti, in primo grado, con una sentenza di condanna.

In sostanza, il collegio riteneva che nel caso in esame, stante l'esigenza di evitare che un fatto formalmente e sostanzialmente unico potesse comportare l'assoggettamento ad una duplice sanzione, con violazione del principio del ne bis in idem, la norma penale militare svolgeva un ruolo ulteriore ed assorbente rispetto alla norma ordinaria.

La Prima Sezione della Corte di cassazione, investita del conflitto, rimetteva il procedimento alle Sezioni Unite, ravvisando i presupposti di cui all'art. 618 cod. proc. pen. con particolare riferimento all'individuazione dell'ufficio del pubblico ministero titolare del diritto/dovere di intervento nell'udienza camerale fissata per la risoluzione del conflitto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice militare.

La Sezione evidenziava come suddetta questione, sebbene non avesse formato oggetto di approfondimento e di specifica disamina, risultasse implicitamente risolta nel senso dell'intervento del Procuratore generale (ordinario) e della esclusione del Procuratore generale militare.

Tuttavia, la Prima Sezione riteneva di dissentire da tale conforme prassi, rilevando, al contrario, come, in assenza di un'indicazione normativa, non fosse confortata da alcuna giustificazione plausibile e razionale.

Da qui la rimessione al Supremo consesso.

2. L'orientamento maggioritario a favore della partecipazione del Procuratore generale (ordinario).

L'orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità era nel senso di riconoscere esclusivamente al Procuratore generale (ordinario) della Repubblica il potere di intervenire nel regolamento dei conflitti di giurisdizione avanti alla Corte di cassazione tra giudice ordinario e giudice militare.

Ed infatti, risulta come la Corte regolatrice abbia sempre giudicato tali conflitti tra il giudice militare e quello ordinario con l'intervento in camera di consiglio del Procuratore generale della Repubblica ordinario (Sez. 1, n. 50012 del 01/12/2009, Mollicone, Rv. 245981; Sez. U, n. 25 del 24/11/1999, Di Dona, Rv. 214693; Sez. 1, n. 3695 del 18/05/1999, Cascella, Rv. 213871; Sez. 1, n. 6780 del 02/12/1997, dep. 23/01/1998, Maida, Rv. 209374; Sez. 1, n. 897 del 10/02/1997, Priebke, Rv. 206876; Sez. 1, n. 3312 del 08/07/1992, Maltese, Rv. 191755).

A fondamento di tale posizione si richiamava in primo luogo, la ratio della legge n. 180 del 1981 istitutiva dell'ufficio del Procuratore generale militare presso la Corte di cassazione, in base alla quale, appunto, il Procuratore generale militare è legittimato a intervenire in casi numericamente limitati, ovvero quando la Corte giudica sui reati militari. In sostanza, l'istituzione dell'Ufficio del Procuratore generale militare presso la Corte di cassazione conseguirebbe alla previsione del giudizio di legittimità per i procedimenti relativi ai reati militari e, quindi, storicamente e legislativamente tale Ufficio nasce in una ottica ben precisa, con sfera di operatività circoscritta.

In secondo luogo, dall'esame degli specifici profili ordinamentali della Procura generale (ordinaria) presso la Corte di cassazione, emerge il generale compito attribuitole di vegliare "alla osservanza delle leggi" ed "alla pronta e regolare amministrazione della giustizia". Ne deriva, pertanto, che l'Ufficio del Procuratore generale non è portatore di uno specifico interesse istituzionale ad un determinato esito del processo, fungendo, al contrario, da "organo di giustizia", non avendo, inoltre, alcun obbligo di conformità delle proprie conclusioni alla posizione assunta dal pubblico ministero quando esso è ricorrente.

Ed invero, la Procura generale ha attribuzioni che riflettono quelle della Corte di cassazione, nelle materie civile e penale, cooperando all'attività della Corte attraverso la formulazione di conclusioni motivate nelle udienze pubbliche e con requisitorie scritte nei casi previsti dalla legge.

In definitiva, mentre il Procuratore generale ordinario è legittimato a partecipare a tutti i giudizi civili e penali davanti alla Suprema Corte, il Procuratore generale militare partecipa soltanto ai giudizi dinanzi alla Suprema Corte di cassazione per i quali è importante il suo contributo di specializzazione, quali quelli relativi a ricorsi avverso sentenze e ordinanze del giudice militare, ovvero per la trattazione dei conflitti di competenza tra giudici militari.

Nel caso dei conflitti di giurisdizione, pertanto, si è al di fuori della sfera di operatività della Procura generale militare presso la Corte di cassazione. Ed invero, trattandosi di un giudizio sui limiti della giurisdizione ordinaria rispetto a quella speciale, eccezionalmente prevista dalla Costituzione, attribuito alla competenza della Corte di cassazione, proprio in relazione alla sua posizione di terzietà (cfr., Sez. 1, n. 316 del 31/01/1985, A.A., Rv. 168311; Sez. 6, n. 1447 del 13/08/1986, Cavallaro, Rv. 173664; Sez. 1, n. 1567 del 02/06/1988, A.A., Rv. 178694), è del tutto coerente che il pubblico ministero legittimato ad intervenire sia quello dotato di competenza generale nell'interesse della legge, quale appunto il Procuratore generale.

Infine, si evidenzia come l'eventuale previsione della partecipazione congiunta del Procuratore ordinario e militare potrebbe creare il rischio che vengano formulate conclusioni diverse da parte dei due rappresentanti della Procura generale presso la Corte di cassazione.

3. La diversa opzione esegetica.

Come anticipato, la Sezione remittente aderiva alla diversa impostazione in base alla quale non poteva escludersi il potere di intervento del Procuratore generale militare nella risoluzione del conflitto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice militare.

In assenza di una esplicita previsione legislativa che individui quale sia l'ufficio del pubblico ministero legittimato a partecipare a tale procedimento, la circostanza che l'oggetto della deliberazione nel regolamento del conflitto si configuri, quale che sia il suo epilogo, lungo la linea di demarcazione di entrambe le giurisdizioni, ordinaria e militare, portava la Sezione a dissentire dall'indirizzo prevalente soprarichiamato.

In realtà, osservava, potrebbero profilarsi plurime opzioni interpretative: oltre all'alternativa tra (a) l'intervento del Procuratore generale della Repubblica (ordinario) e (b) l'intervento del Procuratore generale militare, anche la ulteriore ipotesi (c) dell'intervento di entrambi gli uffici del Pubblico Ministero, costituiti presso la Corte Suprema di cassazione.

Ed infatti, l'art. 32, comma 1, cod. proc. pen., nel disciplinare il procedimento per la risoluzione del conflitto, opera il rinvio alle "forme previste dall'art. 127" cod. proc. pen.; ebbene, entrambe le citate disposizioni non contengono alcuna indicazione testuale orientativa in merito alla questione in esame, poiché operano soltanto un generico riferimento al pubblico ministero, nonostante che, come sopra accennato, presso la Suprema Corte vi sia duplicità di soggetti processuali e ordinamentali aventi tale qualità. Nemmeno appaiono risolutive le previsioni generali di cui agli artt. 76, primo comma, e 65 dell'ordinamento giudiziario, R.D. n. 12 del 1941, che, rispettivamente, specificano le attribuzioni della Corte di cassazione in tema di risoluzione dei conflitti e sanciscono l'obbligo di intervento del pubblico ministero presso la Corte «in tutte le udienze civili e penali», e, dunque, anche nelle udienze camerali partecipate ai sensi dell'art. 127 cod. proc. pen.

Oltre alla assenza di alcuna regula iuris enucleabile dalle norme vigenti sulla quale fondare la legittimazione esclusiva del Procuratore generale della Corte di cassazione, veniva evidenziato come in tema di confitti di competenza tra giudici militari nella prassi non fosse pacifico che la legittimazione ad intervenire in camera di consiglio spettasse esclusivamente al Procuratore generale militare: ed, infatti, venivano richiamate alcune decisioni intervenute ad esito di procedimenti che hanno visto la partecipazione del Procuratore generale ordinario (Sez. 1, n. 43463 del 01/10/2004, Natalino, Rv. 230701; Sez. 1, n. 16611 del 12/02/2001, Sorrentino, Rv. 218614; Sez. 1, n. 2077 del 29/03/1996, Vittucci, Rv. 205483; Sez. 1, n. 2790 del 08/05/1995, Bronzi, Rv. 202098; Sez. 1, n. 1316 del 01/03/1995, Marchese, Rv. 201449).

Proprio la specialità della giurisdizione militare, costantemente riconosciuta anche dalle pronunce della Corte costituzionale, evidenzierebbe come sarebbe incongruente aver previsto l'istituzione dell'ufficio autonomo del pubblico ministero militare in Cassazione se poi gli venisse negato il diritto di intervenire presso la Suprema Corte, in relazione ad una sfera, quale appunto quella relativa alla possibile sussistenza della giurisdizione militare, indissolubilmente connessa all'espletamento delle sue funzioni. In altri termini, in base a tale interpretazione, non si riteneva giustificabile, da un lato, negare detta legittimazione in caso di conflitto di giurisdizione, e, dall'altro, riconoscerla con riferimento ai conflitti di competenza tra giudici militari.

Il Procuratore generale militare, inoltre, sosteneva la tesi della legittimazione di entrambi i pubblici ministeri (ordinario e militare), osservando come la costituzione presso la Corte Suprema di cassazione dei due distinti ed autonomi uffici del pubblico ministero differenzierebbe, sul piano dell'assetto ordinamentale, tale ufficio giudiziario da tutti gli altri per i quali vige, al contrario, il principio dell'unicità del p.m. Ed allora, poiché detta distinzione si riverbera nel criterio di selezione informato al canone della preminenza della regiudicanda - o dell'oggetto della deliberazione - alla giurisdizione ordinaria ovvero a quella speciale militare, sarebbe consequenziale riconoscere in sede di regolamento di giurisdizione tra giudici ordinari e militari, ove non è evidentemente possibile delineare a priori quale sarà il giudice ritenuto competente, la legittimazione di entrambi gli uffici della Procura Generale, sia quello ordinaria sia quello militare, a far sentire la loro "voce", a pena di violazione dell'art. 178, lett. b), cod. proc. pen., nella parte concernente la partecipazione al procedimento del pubblico ministero.

4. La giurisdizione militare quale giurisdizione speciale: brevi cenni.

Nell'esporre la specifica questione decisa dalle Sezioni Unite, appare utile svolgere alcune brevi considerazioni in merito al fondamento e ai limiti della giurisdizione militare nel nostro ordinamento penale.

La giurisdizione militare, quale giurisdizione penale speciale, trova il suo fondamento costituzionale nell'art. 103, in base al quale «i tribunali militari in tempo di pace hanno la giurisdizione stabilita dalla legge soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze Armate»[2].

La giurisprudenza della Corte costituzionale ha da sempre inteso la giurisdizione militare in termini di eccezione[3], circoscritta entro confini rigorosamente ristretti, in deroga alla giurisdizione ordinaria, che per il tempo di pace è la normale giurisdizione anche con riguardo ai reati militari. In tempo di pace, infatti, la giurisdizione militare ha un ambito di estensione minore rispetto a quello di applicabilità della legge penale militare: il limite soggettivo della giurisdizione militare è che si tratti di reati militari commessi durante il sevizio alle armi, mentre ricade nell'ambito della giurisdizione ordinaria la cognizione dei reati "militari" che siano commessi da appartenenti alle Forze armate ma non in servizio alle armi. Si ha, allora, che la nozione di appartenenza alle Forze armate accolta in Costituzione è più ristretta di quella del legislatore ordinario, dato che la prima è funzionale a delimitare la giurisdizione speciale militare, e l'altra, invece, tende a fare coincidere giurisdizione ed assoggettamento alla legge penale militare. La non coincidenza degli ambiti di operatività di iurisdictio e lex in Costituzione è, in sostanza, espressione del principio per il quale "la giurisdizione normalmente da adire è quella dei giudici ordinari anche nella materia militare" (Corte cost., sent. n. 206 del 1987; n. 429 del 1992; n. 271 del 2000).

In definitiva, il legislatore costituente avrebbe strutturato, con una sorte di soluzione di "compromesso", una complessa architettura nella quale il principio di unità della giurisdizione, convive con la previsione di alcune giurisdizioni speciali, fra le quali quella militare, contenute entro rigidi confini.

Deve evidenziarsi come negli anni l'ordinamento giudiziario militare sia stato interessato da un profondo processo di trasformazione teso a ridurne i caratteri distintivi rispetto a quello ordinario, con riferimento alla materie di competenza e alle diverse modalità di autonomia organizzatoria. Le novità più significative sono state introdotte dalla Legge n. 180 del 1981, che ha modificato l'ordinamento militare di pace, e dalla Legge n. 561 del 1988, che ha istituito il Consiglio della Magistratura Militare, organo di garanzia parametrato su quello che la Costituzione prevede per la magistratura ordinaria. In sostanza, tali riforme legislative, assicurando, da un lato, una maggiore tutela della persona sottoposta al procedimento penale, e, dall'altro, l'indipendenza dei magistrati, avrebbero realizzato il superamento di quelle criticità che connotavano la giustizia militare come un "foro privilegiato" ed una giurisdizione "di casta", o come tradizionalmente si afferma, "un giudizio di capi", in quanto, stante la presenza dominante dell'elemento "militare" su quello tecnico-giuridico, rappresentava una pura proiezione in sede penale della repressione disciplinare operata dalle gerarchie. In sostanza, si può affermare che, a seguito delle riforme intervenute, l'ordinamento giudiziario militare ed il processo penale militare, siano configurati "ad immagine e somiglianza" di quelli ordinari[4].

Ed infatti, dal punto di vista del diritto processuale, le regole applicabili sono quelle stabilite dall'ordinario codice di rito[5], con la previsione degli stessi gradi di giurisdizione culminanti col sindacato di legittimità della Cassazione; dal punto di vista del diritto sostanziale, il codice penale militare di pace si applica ad un numero estremamente circoscritto di reati militari, individuati dalla legge ordinaria[6], sottratti, inoltre, alla cognizione del giudice militare a favore di quello ordinario in tutti i casi di connessione con un reato comune più grave, in base all'art. 13, comma 2, cod. proc. pen.

Da non dimenticare, infine, come nel processo di democratizzazione della giustizia militare un ruolo fondamentale sia stato svolto dalla Corte costituzionale la quale, pronunciandosi positivamente in diversi incidenti di costituzionalità che hanno interessato le norme del cod. pen. mil. pace, ha prodotto come effetto, una ulteriore riduzione della specialità della legge penale militare a favore delle regole processuali comuni[7]. Tanto che una parte della dottrina è giunta ad affermare che attualmente la magistratura militare abbia, di fatto, assunto le connotazioni proprie di una magistratura specializzata più che quella di una magistratura speciale[8].

4.1. La costituzione dell'Ufficio del pubblico ministero militare presso la Corte di cassazione in seguito alla riforma del 1981.

La legge 7 maggio 1981, n. 180, ha significativamente innovato l'ordinamento giudiziario militare, al fine di renderlo conforme ai parametri costituzionali e, in particolare, alla disposizione contenuta nell'art. 111, settimo comma, Cost., che impone di prevedere la possibilità di esperire ricorso alla Corte di cassazione, per violazione di legge, contro le sentenze e le decisioni che incidono sulla libertà personale di tutti gli organi giurisdizionali, ordinari e speciali.

Tra le novità più rilevanti è da considerare quella che ha introdotto nel procedimento penale militare il ricorso ordinario per cassazione secondo la disciplina ordinaria[9]. In proposito, sono da menzionare le previsioni di cui all'art. 6, che dà ingresso al ricorso per Cassazione contro i provvedimenti dei giudici militari «secondo le norme del codice di procedura penale», e quella contenuta nell'art. 5, che ha istituito presso la Corte di cassazione l'ufficio del pubblico ministero militare, «composto dal Procuratore Generale Militare della Repubblica, scelto tra i magistrati militari di Cassazione nominati alle funzioni direttive superiori, e da uno o più sostituti procuratori generali militari, magistrati militari di cassazione.»

Tali disposizioni hanno attuato la VI disp. trans. Cost., secondo comma, in base alla quale, il legislatore, entro un anno dalla entrata in vigore della Costituzione, doveva provvedere al riordinamento del Tribunale supremo militare, in relazione all'art. 111 Cost. costituzionale.

La soluzione adottata con la riforma del 1981 è stata nel senso di predisporre una ristrutturazione radicale del sistema delle impugnazioni, con riferimento al tempo di pace, tramite la soppressione del Tribunale supremo militare, e l'attribuzione alla Corte di cassazione del potere di decisione sui ricorsi avverso le decisioni dei giudici militari, secondo le regole ordinarie. Di conseguenza, la tipica funzione "nomofilattica della Suprema corte, di cui all'art. 65 della legge sull'ordinamento giudiziario, è stata estesa anche con riferimento al diritto penale militare.

Ma se l'art. 6 ha uniformato, in relazione al giudizio di legittimità, il rito militare a quello ordinario, l'art. 5 ha voluto garantire anche in sede di Cassazione, l'apporto specialistico offerto dai magistrati militari, con specifico riferimento alle funzioni requirenti. Ed infatti, la Corte giudica con l'intervento del pubblico ministero militare in luogo di quello comune. Ebbene, se questa particolarità non pare sufficiente per mutare la natura del supremo e unico giudice di legittimità in materia penale, indubbiamente introduce un importante elemento di specializzazione, giustificato dalla specialità della materia.

4.2. Le funzioni del Procuratore generale militare presso la Corte di cassazione in rapporto alle attribuzioni del Procuratore generale "ordinario".

In base all'art. 52 del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66, recante Codice dell'ordinamento militare, i magistrati militari sono distinti in base alle funzioni svolte, secondo i criteri stabiliti dalla disciplina vigente per i magistrati ordinari[10]. Al comma 4, che riproduce fedelmente il contenuto dell'art. 1 della Legge n. 180/1981, è ribadito il principio del rinvio mobile alla disciplina dello stato giuridico, delle garanzie di indipendenza, dell'avanzamento e del trattamento economico dei magistrati ordinari, in quanto ritenuto applicabile e non derogato da norme di carattere speciale. Il rinvio dinamico effettuato dal suddetto articolo, con carattere di generalità e completezza, dunque, rende applicabile ai magistrati militari l'intero ordinamento giudiziario ordinario, con la conseguenza che tutte le norme attualmente previste per i magistrati ordinari, anche in materia di guarentigie a salvaguardia dell'indipendenza e dell'inamovibilità di sede e funzioni, si applicano ai magistrati militari. Per quanto attiene all'ufficio del pubblico ministero, l'art. 58 dell'ord. mil. ne stabilisce la composizione, la costituzione ed il funzionamento[11].

Ebbene, dal complesso delle norme citate, emerge la corrispondenza fra le funzioni della magistratura militare e ordinaria, pur nella specialità della materia attribuita all'ordinamento giudiziario militare.

Ed invero, con particolare riferimento alle funzioni requirenti di legittimità, la circostanza che presso la Corte di cassazione siano istituiti due autonomi uffici del pubblico ministero, solleva la problematica dei rapporti tra gli stessi in merito alle rispettive attribuzioni.

In proposito, è interessante richiamare la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che nel rendere il proprio parere con specifico riferimento all'inquadramento giuridico e al trattamento economico del Procuratore generale militare presso la Corte di cassazione, ha precisato il ruolo della Corte di cassazione nel giudizio militare e le diverse competenze degli organi requirenti ordinari e militari presso la stessa istituiti.

In particolare, nei pareri resi nel 2008 e nel 2012[12] il Consiglio di Stato ha puntualizzato e ribadito che ".. . .mentre nei confronti della magistratura amministrativa e di quella contabile la Corte di cassazione svolge solo un ruolo di verifica del rispetto delle regole sul riparto di giurisdizione (art. 111 Cost.), ben più pregnante è il ruolo della Corte di cassazione nei confronti della magistratura militare, rispetto alla quale la cassazione si pone come giudice di terzo grado, al pari che nei confronti della magistratura ordinaria penale.

Il Procuratore generale militare presso la Corte di cassazione ha una competenza settoriale limitata al diritto penale militare, non equiparabile a quella generale, che, nell'ordinamento, spetta solo al Procuratore generale presso la Corte di cassazione." Ed inoltre: «..il ruolo della Corte di cassazione rispetto alla magistratura militare è quello di giudice di terzo grado e le funzioni del procuratore generale presso la Corte di cassazione hanno carattere generale, a differenza di quelle del procuratore generale militare che rivestono carattere settoriale;».

Le funzioni del Procuratore militare presso la Corte di cassazione, dunque, sono da intendere circoscritte ai giudizi che abbiano ad oggetto reati militari.

Tali considerazioni trovano riscontro richiamando il ruolo riconosciuto al medesimo in materia disciplinare, nell'interpretazione della Suprema Corte. L'art. 67 dell'ord. mil. stabilisce che il Procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione esercita l'azione disciplinare nei confronti dei giudici militari appartenenti alle Forze armate autonomamente rispetto al Ministro della difesa; esercita le funzioni di pubblico ministero e non partecipa alle deliberazioni. Ebbene, si è posto il problema se sia il pubblico ministero militare a presenziare nel processo di cassazione che può conseguire alla conclusione del procedimento disciplinare dinanzi al Consiglio della magistratura militare. La questione, affrontata dalle Sezioni Unite civili è stata risolta nel senso di escludere tale legittimazione sulla base delle seguenti argomentazioni di ordine generale.

In particolare, Sez. U. civ., sentenza n. 7 del 15/06/2000, dep. 19/01/2001, Procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione contro Roberti, Rv. 543339, ha affermato: «Il pubblico ministero interviene in ogni processo al quale debba, o ritenga di dover, partecipare nell'esercizio di una funzione obiettiva, tendenzialmente neutrale, intesa alla tutela, non già di interessi particolari e concreti del proprio ufficio o di singole branche dell'organizzazione statuale, o, più in genere, pubblica, ma, dell'ordinamento giuridico nei suoi aspetti generali e indifferenziati (cfr., al riguardo, Cass. SS.UU. civ., sent. n. 1282 del 2.3.1982). Il principio in questione, in quanto ne' espressamente, ne' implicitamente derogato dalla relativa, specifica, disciplina, non può non valere anche con riferimento all'intervento del pubblico ministero, e, in particolare dell'Ufficio del Procuratore generale militare presso la Corte di cassazione, di cui all'art. 5, commi 1, L. 7.5.1981 n.180, nei procedimenti disciplinari che si svolgono, à termini dell'art. 1, comma 3, L. n. 561 del 1988, prec. cit., nei confronti dei magistrati militari dinanzi al Consiglio della magistratura militare, dovendo ritenersi, perciò, che in tali procedimenti il detto ufficio, anche quando prende l'iniziativa del promovimento dell'azione disciplinare, agisca come parte esercente esclusivamente una funzione di giustizia, diretta alla difesa obiettiva dell'ordinamento in generale e del tutto indipendente dagli interessi dell'amministrazione dello Stato cui, lato sensu, sono rapportabili le situazioni controverse, e cioè del Ministero della difesa, al quale fa capo l'ordinamento giudiziario militare, non a caso posto esso pure dalla legge nel ruolo di litisconsorte necessario dei procedimenti in discorso, in una condizione, tuttavia, manifestamente autonoma e differenziata rispetto a quella del pubblico ministero. Dagli esposti rilievi e dall'evidenziata coincidenza dell'interesse generale di difesa dell'ordinamento coltivato nei procedimenti di cui trattasi dal Procuratore generale militare con quello, omologo, cui attende il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte Suprema di cassazione con l'intervento in ogni causa civile istituita dinanzi a tale Corte, secondo la previsione dell'art. 79, comma 2, cod. proc. civ., deve farsi discendere il corollario dell'inesistenza della necessità, o anche soltanto dell'opportunità, in una diretta partecipazione del primo dei ridetti uffici del pubblico ministero al momento dibattimentale, di cui all'art. 379 del codice di rito, del processo di cassazione che può conseguire alla conclusione dei procedimenti cennati: di fatti, avuto riguardo alla ripetuta coincidenza di interessi ed alla correlata c.d. unitarietà della figura del pubblico ministero (cfr., in proposito, Cass. SS.UU. civ., sent. n. 12866 del 2.12.1992), ben può ritenersi che esso presenzi allo stadio del giudizio considerato - fra l'altro, legislativamente assoggettato a una disciplina, quella del codice di procedura civile, strutturalmente diversa da quella della fase processuale di merito precedente, regolamentata dal codice di procedura penale del 1930 - attraverso l'organo requirente che partecipa ordinariamente all'udienza.

Vale la pena di porre in risalto, prima di concludere sul qui esaminato profilo del processo, che l'affermazione della legittimazione, o della competenza, del Procuratore generale militare presso la Corte Suprema di cassazione ad intervenire direttamente, nella veste così di parte, come di organo requirente sostitutivo di quello ordinario, nell'udienza di questa Sezioni Unite dedicata alla discussione dei ricorsi avverso le decisioni in materia disciplinare del Consiglio della magistratura militare non è correlabile ne' al dettato dell'art. 5, comma 1, dell'altrove ricordata L. 7.5.1981 n. 180, recante creazione del relativo ufficio, perché la norma in argomento attiene unicamente al regolamento dell'amministrazione della giustizia penale militare, ne' alla prescrizione dell'art. 1, comma 3, L. 30.12.1986 n. 561.. . .: le prescrizioni considerate, in particolare, tenuto conto del loro inequivocabile tenore letterale, non possono concernere se non la disciplina del giudizio destinato a svolgersi dinanzi al Consiglio della magistratura militare (in relazione al quale soltanto si giustificano la specifica attribuzione al Procuratore generale militare - componente di diritto del Consiglio suddetto: art. 1, comma 1 lett. b, L. cit. - di funzioni, non giudicate ma, inquirenti e requirenti, ed il sancito divieto di partecipazione alle deliberazioni), e non riguardano sicuramente il processo di cassazione, eventualmente, successivo al giudizio cennato, la cui regolamentazione, come detto, risulta strutturata in modo e forme del tutto diversi da quelli previsti per tale giudizio.».

D'altro canto, è da evidenziare come sia concordemente esclusa la sussistenza di una competenza esclusiva dei magistrati della Procura generale militare a partecipare ai giudizi di legittimità sulle decisioni dei tribunali militari. In sostanza, la previsione contenuta nell'art. 5 della Legge 180/81, è semplicemente la "costituzione" del P.M. militare in Cassazione: ciò che va salvaguardato in materia è il generale disposto dell'art. 74, secondo comma, ord., giud., in base al quale "Un rappresentante del pubblico ministero interviene a tutte le udienze penali delle corti e dei tribunali ordinari. In mancanza del suo intervento, l'udienza non può aver luogo.". In definitiva, allora, nell'ipotesi di provvedimenti emessi dalla Corte di cassazione in un procedimento penale militare discusso in una udienza nella quale sia stato presente il P.G. ordinario non sarebbe configurabile alcun vizio processuale. E ciò non solo in base al principio di tassatività delle nullità, ma, anche, in considerazione del fatto che in tale ipotesi risulterebbe pur sempre garantita la partecipazione del P.M. al procedimento (l'assenza di tale organo, come noto, comporterebbe invece la nullità in base all'art. 178, lett. b) cod. proc. pen.)[13].

Pare potersi così affermare che la presenza del Procuratore generale militare presso la Suprema Corte persegua la finalità di arricchire il contributo di competenze utili per il giudizio di legittimità, senza, tuttavia, incidere riduttivamente sulle attribuzioni ordinarie del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, che, ai sensi dell'art. 76 ord. giud., è chiamato ad agire in ogni procedimento, sia civile che penale, nel solo interesse della legge.

In conclusione, la riforma del 1981, dalla quale è derivata l'istituzione presso la Corte di cassazione dell'autonomo ufficio del pubblico ministero militare, costituisce al contempo il fondamento e il limite della legittimazione di tale magistrato requirente ad intervenire nei giudizi avanti alla Suprema Corte. La ratio legislativa, infatti, è stata quella di prevedere l'ingresso di un elemento di specializzazione nell'ordinario giudizio di legittimità, quando abbia ad oggetto un fatto-reato che rientra nella giurisdizione speciale militare, prevedendo, appunto, la partecipazione del Procuratore generale militare. Di conseguenza, le funzioni di tale organo requirente sono necessariamente speciali e, quindi, più limitate rispetto a quelle ordinarie del Procuratore generale della Corte di cassazione, al quale, pertanto, in linea generale, non pare possa ritenersi preclusa la legittimazione a partecipare anche alle udienze penali militari, in sostituzione dell'organo speciale.

5. Cenni sulla soluzione resa dalle Sezioni unite.

Come indicato in premessa, le Sezioni Unite hanno risolto il conflitto esegetico sopra illustrato con la pronuncia di una sentenza di cui non sono ancora note le motivazioni ma, per quanto allo stato conosciuto dalla diffusione della relativa informazione provvisoria, ha accolto la prima opzione ermeneutica, riconoscendo, dunque, la legittimazione esclusiva del Procuratore generale (ordinario) a partecipare alle udienze nel procedimento di risoluzione del conflitto di giurisdizione insorto tra giudice ordinario e giudice militare.

  • procedura penale
  • errore giudiziario
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO VII

ERRORE DI FATTO E REVISIONE

(di Pietro Molino )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il contesto storico-normativo. - 3 La questione e le oscillazioni giurisprudenziali.

1. Premessa.

All'udienza del 21 luglio 2016, le Sezioni Unite Nunziata (sentenza in attesa di deposito delle motivazioni) si sono pronunciate sul tema del rapporto fra errore di fatto e giudizio di revisione, rispondendo affermativamente - giusta informazione provvisoria n. 23 - al seguente quesito: «Se sia ammissibile il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso la sentenza della Corte di cassazione che si sia pronunciata nel giudizio di revisione».

La quinta sezione aveva infatti demandato alla Corte, nella sua più autorevole composizione, il compito di confermare, o meno, la sostenibilità della tesi per la quale il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto è ammissibile contro le decisioni della Corte di cassazione, conclusive di un giudizio di revisione, nella misura in cui per "condannato" - la qualifica soggettiva a favore del quale è ammessa la richiesta ai sensi dell'art. 625-bis cod. proc. pen. - si deve intendere anche il soggetto titolare della facoltà di introdurre il procedimento di revisione.

2. Il contesto storico-normativo.

Il rimedio di cui all'art. 625-bis cod. proc. pen., avverso gli errori di fatto in cui sia incorsa la Corte di Cassazione nelle sue decisioni, deve la sua introduzione nel sistema alla legge n. 128 del 2001.

Inserita in uno dei c.d. "pacchetti sicurezza", la norma risponde alle sollecitazioni provenienti da un dibattito giurisprudenziale e dottrinale sviluppatosi già nella vigenza del codice di procedura penale del 1930, il cui art. 552 dichiarava espressamente inoppugnabili tutti i provvedimenti emessi dal giudice di legittimità in materia penale.

Pur mancando nel codice vigente un'analoga disposizione, non è peraltro mai stata posta in dubbio l'inoppugnabilità di tali provvedimenti, ritenuti irrevocabili ed incensurabili in base all'esigenza di certezza delle situazioni giuridiche e di impedire il protrarsi indefinito del processo.

Il giudice delle leggi ha sempre ribadito - cfr. Corte cost., sentenza n. 294 del 1995 - che "il principio della irrevocabilità e della incensurabilità delle decisioni della Corte di Cassazione, oltre ad essere rispondente al fine di evitare la perpetuazione dei giudizi e di conseguire un accertamento definitivo [ . . . ] è pienamente conforme alla funzione di giudice ultimo della legittimità, affidata alla medesima Corte di Cassazione dall'art. 111 Cost.".

Il divieto di impugnazione delle sentenze della Corte di cassazione è strutturato come canone fondamentale del sistema processuale, in quanto per la formazione del giudicato è necessario che il processo sia costruito come una serie chiusa di atti cronologicamente ordinati, in cui vi sia ad un certo punto una provvedimento finale ed immutabile, così da garantire che il procedimento abbia un termine: di modo che in un processo articolato, per l'appunto, in gradi diversi, la pronuncia del giudice ultimo nasce già, di per se stessa, incontrovertibile.

È la stessa Costituzione a tutelare il giudicato come valore unitario, come si deduce sia dalla disposizione dell'art. 27, comma secondo, che stabilisce in modo chiaro che la presunzione di non colpevolezza può essere vinta solo da un provvedimento irrevocabile, sia dall'art. 111, comma secondo, che presuppone il divieto di rimettere in discussione il contenuto di una sentenza a tempo indefinito; anche il principio del divieto di bis in idem di matrice CEDU, assunto come valore costituzionale per effetto dell'art. 117 della Carta, è ancorato al riconoscimento del presupposto di una sentenza definitiva.

Ciò premesso, il problema dell'inevitabile conflitto, fra la regola dell'inoppugnabilità del provvedimento del giudice di legittimità ed altri valori dotati del medesimo rango costituzionale, riassumibili nel diritto ad una decisione "giusta", ha spinto nel corso del tempo la giurisprudenza ad introdurre alcuni temperamenti alla intangibilità del giudicato: da un lato, la Corte ha fatto sovente ricorso all'istituto della revoca; per altro verso, ha applicato estensivamente alle sentenze il rimedio della correzione degli errori materiali ex art. 130 del codice processuale, teso a correggere errori od omissioni che non determinano nullità e la cui eliminazione non comporta una modificazione essenziale dell'atto (cfr. Sez. U, n. 15 del 31/5/2000, Radulovic, Rv. 216705).

Tuttavia, se l'ambito elettivo di applicazione dell'art. 130 cod. proc. pen. è quello della semplice svista da parte del giudice o del mero lapsus calami, che può consistere sia nella mancata indicazione degli articoli di legge sia nell'errata indicazione di elementi descrittivi non influenti però sulla ricostruzione del fatto storico attribuito all'imputato - nel senso cioè che l'errore materiale deve incidere esclusivamente su elementi della pronuncia estranei al thema decidendum e che conseguano alla pronuncia stessa senza alcuna discrezionalità da parte del giudice - il problema si pone invece con riferimento al delicato nodo degli errori di fatto incorsi nella lettura degli atti interni al giudizio di legittimità, essendo inoppugnabili le decisioni della Corte di Cassazione e non potendo tali errori farsi rientrare tra quelli materiali, dal momento che vanno a modificare direttamente la decisione; problema che, nel sistema vigente sino alla c.d. legge "Pecorella" del 2006, era ancora più accentuato dalla restrizione del controllo di legittimità al vizio della motivazione risultante esclusivamente dal testo del provvedimento impugnato, ritenendosi preclusa finanche la semplice comparazione tra le doglianze e gli atti del procedimento.

Il dibattito giurisprudenziale ha visto la Corte sollevare questione di legittimità costituzionale (ordinanza del 5 maggio 1999) degli artt. 629, 630 e ss. del codice di procedura penale, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono e non disciplinano la revisione delle decisioni della Corte di Cassazione per errore di fatto (materiale e meramente percettivo) nella lettura di atti interni al giudizio: nel respingere la questione per ragioni formali, il giudice delle leggi - Corte Costituzionale, sentenza n. 395 del 2000 - suggeriva tuttavia alla Cassazione rimettente la possibilità di poter astrattamente utilizzare finanche l'istituto di cui all'art. 130 cod. proc. pen., così fornendo in qualche misura legittimazione ad interpretazioni estensive di tale istituto in passato adottate per rimediare agli errori.

Il legislatore - anticipando ogni possibile risposta della Corte di cassazione agli inputs del giudice delle leggi - attraverso l'art. 6 comma 6 della legge 26 marzo 2001, n. 128, inseriva nel codice di procedura penale il nuovo articolo 625-bis disciplinante il "Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto", il cui primo comma dispone che "è ammessa, a favore del condannato, la richiesta per la correzione dell'errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di Cassazione".

L'art. 625-bis introduce per la prima volta nell'ordinamento penale la possibilità di impugnare - e non solo di correggere - le sentenze della Corte di Cassazione: il ricorso straordinario consente una sorta di "rivisitazione" della sentenza, mantenendo in sostanza i medesimi elementi a fondamento del convincimento dell'organo giudicante.

Ciò premesso, mentre il terzo comma dell'art. 625-bis riconosce al giudice di legittimità il potere di attivarsi d'ufficio, senza limiti di tempo, per la correzione dell'errore materiale - coerentemente con la sua tendenziale natura di mero lapsus espressivo che non ha inciso nel processo di formazione del giudizio ma solo nella sua estrinsecazione formale - ilsecondo comma della disposizione prescrive invece che il ricorso può essere presentato soltanto dal "condannato" o dal procuratore generale, mentre il primo comma chiarisce che l'impugnazione può operare soltanto "a favore del condannato".

In presenza, dunque, di una formulazione normativa che si limita - sostanzialmente - ad indicare i soggetti legittimati all'impugnazione ed il beneficiario della medesima, la questione oggetto del quesito attiene all'ambito di applicazione del rimedio straordinario per errore di fatto, ossia ai provvedimenti che possono essere oggetto di ricorso ex art. 625-bis del codice di rito.

3. La questione e le oscillazioni giurisprudenziali.

Nello specifico, la domanda rivolta alle Sezioni Unite concerne la possibilità di un ricorso straordinario contro la sentenza della Corte di Cassazione che disattenda il ricorso proposto contro un'ordinanza dichiarativa d'inammissibilità di una richiesta di revisione.

A fronte, infatti, di un indiscusso orientamento schierato per la inammissibilità, fondata su una lettura rigida dell'art. 625-bis cod. proc. pen. che circoscrive la praticabilità del gravame esclusivamente avverso le sentenze della Corte per effetto delle quali diviene definitiva una sentenza di condanna, una sentenza di poco anteriore all'annualità in rassegna - Sez. 1, n. 1776/15 del 29/09/2014, Narcisio, Rv. 261781 - si era espressa in senso opposto, sull'argomento che la legittimazione normativa del solo "condannato", accanto a quella del procuratore generale, a proporre la richiesta per la correzione dell'errore di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione, implicherebbe soltanto l'esclusione della legittimazione del "prosciolto" a proporre la medesima impugnazione straordinaria e della "persona sottoposta ad indagini" e dell'"imputato" avverso le decisioni della corte di legittimità in tema di misure cautelari; non giustificherebbe, invece, ulteriori restrizioni e, segnatamente, l'inammissibilità del ricorso straordinario per errore di fatto, ai sensi dell'art. 625-bis, commi 1 e 2, avverso la sentenza della Corte di rigetto del ricorso contro l'ordinanza di inammissibilità (art. 634 cod. proc. pen.) o la sentenza di rigetto (art. 637 cod. proc. pen.) dell'istanza di revisione di decisione di condanna.

Secondo la sentenza Narcisio, infatti, se è vero che nel corpo della disposizione (art. 625bis) si fa riferimento al "condannato" per delimitare l'area del soggetto legittimato alla proposizione dell'istanza - il che, come detto, esclude coerentemente dal rimedio in parola le decisioni incidentali emesse in sede cautelare - ciò non significa che i provvedimenti emessi dalla Corte di cassazione assoggettabili al ricorso straordinario siano esclusivamente quelli da cui deriva, per la prima volta, il consolidamento di tale condizione giuridica, cioè solo le decisioni di inammissibilità o rigetto di ricorsi proposti avverso sentenze di merito con cui si è affermata la penale responsabilità del ricorrente: tale lettura della disposizione finirebbe infatti con il ricavare (in malam partem) una norma in realtà non scritta, posto che il "condannato" è anche il soggetto titolare della facoltà di introdurre il giudizio di revisione (art. 632 cod. proc. pen., comma 1, lett. a) nel cui ambito, in caso di rigetto della domanda, si approda parimenti allo scrutinio di legittimità, con l'emissione di un provvedimento decisorio che - in caso di rigetto del ricorso - conferma la condizione giuridica di partenza.

L'accento viene posto sul giudizio di revisione che - a differenza delle procedure inci dentali o di quelle esecutive - risulta essere lo strumento "generale", ancorché straordinario - di rimozione (ovviamente, lì dove ne ricorrano i presupposti normativi) degli effetti di una decisione irrevocabile erronea con cui si è affermata la penale responsabilità di un individuo: il che - secondo l'arresto Narcisio - pone la decisione che ne chiude l'esperimento in una condizione di piena assonanza (negli effetti) con quelle terminative del giudizio ricostruttivo del fatto controverso.

In attesa delle ragioni poste a sostegno dalle Sezioni Unite per decretare il sostanziale accoglimento della tesi espressa dalla pronuncia Narcisio, deve peraltro osservarsi come la giurisprudenza della Corte sia stata spesso attraversata dal tema della interpretazione della locuzione "condannato" contenuta nell'art. 625-bis cod. proc. pen., anche sotto altre angolazioni non direttamente collegate con il tema specifico, ma altrettanto utili a comprendere se la norma faccia riferimento solo alla impugnabilità straordinaria della sentenza di legittimità che produca l'acquisto ovvero anche a quella che determini il mantenimento di tale status.

Nell'anno in rassegna, la Corte - Sez. 5, n. 15368 del 19/01/2016, Grande Aracri, Rv. 266565 - ha dichiarato manifestamente infondata - in relazione agli artt. 3, 13, 24, 111 e 117 Cost. (quest'ultimo con riferimento agli artt. 5,6, e 13 CEDU) - la questione di legittimità costituzionale dell'art. 625-bis cod. proc. pen., nella parte in cui prevede che il ricorso straordinario per errore di fatto contro decisioni della Corte di cassazione sia esperibile solo dal condannato e non anche dall'indagato con riferimento ad errore rilevato in procedure incidentali (nella specie, pronuncia di inammissibilità del ricorso avverso ordinanza del Tribunale del Riesame), in quanto le decisioni emesse all'esito di queste ultime costituiscono giudicato allo stato degli atti e, come tali, essendo suscettibili di modificazione per la sopravvenienza di nuovi elementi, non sono munite del carattere dell'irrevocabilità, che connota invece i provvedimenti con cui viene resa definitiva una condanna.

Ancora, Sez. 6, Ordinanza n. 20684 del 09/05/2016, Mastropietro, Rv. 266745, ha dichiarato inammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto avverso una decisione della Suprema Corte in tema di sequestro e confisca, e di restituzione dei beni all'avente diritto.

SEZIONE VII ESECUZIONE

  • diritto penale
  • giurisprudenza
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO I

LA REVOCABILITÀ DELLE SENTENZE DI CONDANNA PER FATTI SUCCESSIVI ALL'ABOLITIO CRIMINIS

(di Vittorio Pazienza )

Sommario

1 Inquadramento della questione. - 2 Cenni sul reato di omessa esibizione di documenti da parte dello straniero. - 3 Gli orientamenti in contrasto. - 3.1 La tesi dell'inapplicabilità dell'art. 673 cod. proc. pen. in caso di abrogazione "derivante" dal mutamento giurisprudenziale. - 3.2 La tesi della revocabilità ex art. 673 cod. proc. pen. dopo un revirement delle Sezioni unite: la netta chiusura della Corte costituzionale. - 3.3 La tesi della incondizionata revocabilità ex art. 673 delle condanne definitive in caso di abrogazione (per via legislativa) della norma incriminatrice. - 3.4 La tesi intermedia sostenuta in dottrina (e ripresa dall'ordinanza di rimessione alle Sezioni unite). - 4 La soluzione accolta dalle Sezioni unite. - 4.1 Successione di leggi con effetto abrogativo e mera successione di interpretazioni giurisprudenziali. - 4.2 Revocabilità delle sentenze di condanna emesse dopo la (tacita) abrogazione della norma incriminatrice. - 4.3 L'individuazione dei "margini" dell'intervento in sede esecutiva: il richiamo all'evoluzione della giurisprudenza in tema di pena illegale. - 4.4 Le conclusioni raggiunte dalle Sezioni unite.

1. Inquadramento della questione.

Tra le decisioni di maggior rilievo delle Sezioni unite della Corte di cassazione depositate nel corso del 2016, un posto di assoluto riguardo deve essere riconosciuto a Sez. U, n. 26259 del 29 ottobre 2015, dep. 2016, Mraidi, Rv. 266872, che si inscrive nella ben nota elaborazione giurisprudenziale volta ad un progressivo ripensamento delle funzioni del giudicato penale e dei limiti della sua intangibilità, laddove sia in gioco l'effettivo rispetto dei diritti fondamentali della persona condannata con sentenza ormai divenuta irrevocabile.

Com'è noto, tale percorso evolutivo ha finora registrato il susseguirsi di una serie di importantissimi arresti del Supremo consesso (cui si farà cenno nel corso della presente esposizione) dedicati al tema della "tenuta" del giudicato, nelle ipotesi in cui la pena risulti esser stata irrogata in forza di norme rivelatesi in contrasto con principi sovranazionali o costituzionali, ovvero comunque esser stata applicata illegalmente.

Inserendosi a pieno titolo in tale percorso - volto ad assicurare, tra l'altro, l'effettivo perseguimento delle finalità rieducative di ogni trattamento sanzionatorio posto in esecuzione (art. 27 Cost.) - la sentenza Mraidi si segnala per aver posto al centro della riflessione non tanto (come nei precedenti arresti delle Sezioni unite) i parametri di legalità della pena applicata al condannato per un fatto di indiscussa rilevanza penale, quanto piuttosto l'effettiva esistenza, al momento della condanna, di una "base legale" idonea a fondare un'affermazione di penale responsabilità.

Le Sezioni unite hanno infatti affermato che il giudice dell'esecuzione può revocare la sentenza definitiva di condanna per abolitio criminis, ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen., non solo nella fisiologica ipotesi in cui l'abrogazione della norma incriminatrice sia successiva alla condanna stessa (sia cioè conseguente all'entrata in vigore di una "legge posterio re" ex art. 2, secondo comma, c.p.), ma anche in quella - evidentemente "patologica" - in cui l'abolitio, pur essendo intervenuta prima della sentenza o addirittura prima del fatto giudicato, non sia stata rilevata in sede di cognizione.

Appare superfluo soffermarsi sul rilievo sistematico di tale affermazione, con la quale viene almeno in parte messo in discussione un principio del tutto consolidato: quello secondo cui all'errore di diritto contenuto in sentenza può porsi rimedio esclusivamente attraverso i mezzi ordinari di impugnazione.

L'occasione per un intervento di così rilevante impatto - peraltro mitigato dalla precisazione per cui l'omessa rilevazione deve esser frutto di un errore del giudice di natura "percettiva", e non "valutativa" (cfr. infra, § 4.4) - è stata offerta dal radicale contrasto insorto, nella giurisprudenza di legittimità, in relazione al reato di omessa esibizione dei documenti da parte dello straniero, previsto dall'art. 6 T.U. Imm., dopo le modifiche apportate dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, che ne ha ridotto l'ambito applicativo - secondo l'interpretazione affermatasi a partire da Sez. U, n. 164523 del 24 febbraio 2011, Alacev, Rv. 249546 - alle sole condotte poste in essere dagli stranieri in posizione regolare (v. infra, § 2). Il contrasto ha riguardato, in particolare, la sorte delle sentenze di condanna divenute irrevocabili e pronunciate, nei confronti degli stranieri irregolari, per fatti commessi dopo l'entrata in vigore della novella del 2009 (v. infra, § 3).

La complessità del tema, e la difficoltà di coglierne compiutamente tutte le implicazioni, sono eloquentemente comprovate dal fatto che la sentenza delle Sezioni unite ha espresso una piena quanto esplicita adesione ai principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza 12 ottobre 2012, n. 230 (sulla quale si avrà modo di tornare) in ordine alla »riconducibilità del fenomeno abrogativo alla sola successione nel tempo di atti normativi», ed alla conseguente «esclusione che l'abrogazione di una legge possa essere determinata da un mutamento giurisprudenziale, anche se consacrato da una pronuncia delle Sezioni unite».

Proprio in quella occasione, peraltro, la Consulta è incidentalmente pervenuta - dichiarando l'infondatezza di una questione di legittimità costituzionale dell'art. 673 cod. proc. pen., sollevata da un giudice dell'esecuzione in una fattispecie identica a quella esaminata dalle Sezioni unite - a conclusioni opposte a quelle accolte nella sentenza Mraidi, avendo escluso che l'istituto della revoca ex art. 673 possa comunque venire in considerazione, qualora una legge abrogativa della fattispecie incriminatrice sia entrata in vigore prima, e non dopo, la commissione del fatto oggetto del giudizio.

La comprensione negli esatti termini delle marcate divergenze interpretative cui si è accennato, e del percorso motivazionale tracciato dalle Sezioni unite per superarle, necessita di un breve richiamo della elaborazione giurisprudenziale sullo "stato dell'arte" relativo al reato di cui all'art. 6 T.U. Imm..

2. Cenni sul reato di omessa esibizione di documenti da parte dello straniero.

Il problema dell'esatta individuazione dell'ambito soggettivo di applicazione del reato di cui all'art. 6, terzo comma, T.U. Imm. è stato affrontato in due diverse occasioni dalle Sezioni unite, chiamate una prima volta a ricomporre il contrasto insorto sulla formulazione originaria della norma incriminatrice, stando alla quale veniva punito lo straniero che, senza giustificato motivo, non esibiva "il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno".

In tale circostanza, si affermò che il reato doveva ritenersi integrato dalla mancata esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione sia da parte dello straniero re-golarmente soggiornante, sia da quello in posizione irregolare, essendo anche da quest'ultimo esigibile l'esibizione di un documento identificativo (Sez. U, n. 45801 del 29/10/2003, Meski, Rv. 226102, la quale evidenziò tra l'altro che l'interesse protetto dalla norma andava individuato non già nella verifica della regolarità della presenza dello straniero nel territorio dello Stato, ma nella esigenza di una compiuta e immediata identificazione documentale dello straniero presente - regolarmente o meno - nel territorio medesimo).

La già ricordata modifica della norma incriminatrice, ad opera della 1. n. 94 del 2009, ha reso punibile l'ingiustificata inottemperanza dello straniero "all'ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato". Anche in questa nuova formulazione, la portata applicativa dell'art. 6 T.U. Imm. aveva dato luogo ad incertezze interpretative, determinando un nuovo intervento delle Sezioni unite, nel 2011, con la già citata sentenza Alacev.

In tale seconda occasione, le Sezioni unite conferirono un dirimente rilievo alla sostituzione della disgiuntiva "ovvero" con la congiunzione "e", che aveva fatto venir meno l'equipollenza tra le due categorie di documenti: con la conseguente necessità - per non incorrere nel reato - di esibire i documenti di identificazione unitamente a quelli attestanti la regolarità del soggiorno. Sulla scorta di tali rilievi di ordine letterale, e della diversità di ratio ormai alla base della norma incriminatrice (volta a soddisfare non più solo l'esigenza di identificare compiutamente lo straniero, ma anche quella di immediata verifica della regolarità della sua presenza in Italia), la sentenza Alacev escluse l'applicabilità della nuova fattispecie allo straniero in posizione irregolare, e ricondusse la vicenda nell'alveo «dell'art. 2, comma 2, c.p., per essere intervenuta l'abolitio criminis del reato già previsto dall'art. 6, comma 3, d.lg. n. 286 del 1998 nei confronti dello straniero in posizione irregolare, a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 1, comma 22, lett. h), 1. n. 94 del 2009».

Tali conclusioni sono state ribadite in modo incontroverso nella successiva elaborazione giurisprudenziale. Ciò non ha peraltro impedito il sorgere di un contrasto interpretativo estremamente vivace, sia in dottrina che in giurisprudenza, sulla sorte delle sentenze di condanna pronunciate - proprio come nel caso scrutinato dalle Sezioni unite - nei confronti di stranieri in posizione irregolare per fatti di inottemperanza all'ordine di esibire i documenti commessi dopo l'entrata in vigore del nuovo testo della norma incriminatrice.

3. Gli orientamenti in contrasto.

Non è difficile scorgere, al fondo delle divergenze interpretative cui si è appena accennato, l'esistenza di ragioni profonde. Vi è da un lato l'ovvia preoccupazione di scongiurare - ricorrendo alla revoca ex art. 673 cod. proc. pen. - le criticità insite nell'esecuzione di una pena per un fatto la cui rilevanza penale era già stata espunta dall'ordinamento, al momento della sua commissione: criticità che vanno ovviamente correlate all'evoluzione interpretativa, già ricordata in premessa, da cui emerge - alla luce dei rilevanti principi affermati a più riprese dalle Sezioni unite sul tema della legalità della pena - una progressiva "cedevolezza" del giudicato, qualora sia messo a repentaglio l'effettivo rispetto dei diritti fondamentali di una persona condannata con sentenza ormai irrevocabile.

D'altro lato, viene in rilievo il più che consolidato principio, al quale si è già fatto cenno, secondo cui deve comunque escludersi che, in sede esecutiva, si possa rimediare ad errori di diritto in cui sia incorso il giudice della cognizione, trattandosi di questioni coperte dal giudicato. Un principio ribadito di recente anche da alcune pronunce delle Sezioni unite - che pur si inseriscono nella richiamata evoluzione interpretativa - in relazione a proble matiche esecutive diverse da quelle riguardanti l'art. 673 cod. proc. pen.: in tali decisioni, si è appunto escluso che il giudice dell'esecuzione possa sostituire - ostandovi l'intangibilità del giudicato - le proprie valutazioni a quelle espresse in sede di cognizione, e quindi rimediare ad errori di diritto non eliminati attraverso i mezzi di impugnazione (Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 262327-2623328; Sez. U, n. 37345 del 23/04/2015, Longo, Rv. 264381).

Per altro verso, è utile evidenziare che l'elaborazione giurisprudenziale ha visto confrontarsi approcci interpretativi radicalmente divergenti anche quanto alla preliminare identificazione del fenomeno giuridico da regolare.

Infatti, prima ancora ed oltre che la possibilità, e gli eventuali limiti, di una revoca per abolitio criminis della sentenza ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen., il contrasto ha riguardato sia la collocazione sistematica da attribuire ad un revirement giurisprudenziale sancito dalle Sezioni unite, sia anche l'effettiva riconducibilità della fattispecie, già in astratto, tra quelle in cui devono trovare applicazione le norme in tema di successione di leggi nel tempo. Tale riconducibilità viene infatti senz'altro esclusa da chi ritiene che, se il fatto giudicato è stato commesso dopo l'entrata in vigore della legge abrogativa, si può e si deve parlare non già di successione di leggi, ma solo di una successione di diverse interpretazioni della medesima legge (quella in vigore al momento del fatto), qualora - come nella specie: la nuova formulazione dell'art. 6 risale al 2009, il fatto contestato è stato commesso nel 2010, la sentenza Alacev è stata pronunciata nel 2011 - l'effetto abrogativo venga affermato dalla giurisprudenza a distanza di tempo dall'entrata in vigore della legge medesima.

3.1. La tesi dell'inapplicabilità dell'art. 673 cod. proc. pen. in caso di abrogazione "derivante" dal mutamento giurisprudenziale.

In diverse occasioni anche recenti, la Suprema corte ha radicalmente escluso la possibilità di revocare le sentenze in questione, osservando che l'art. 673 cod. proc. pen. «opera soltanto nel caso in cui, a seguito di innovazione legislativa o di declaratoria di incostituzionalità, si verifichi un'ipotesi di abrogazione esplicita o implicita di una norma. La predetta disposizione non può, invece, trovare applicazione, quando l'eventuale abrogazione implicita derivi da un mutamento giurisprudenziale che non può costituire ius superveniens anche a seguito di pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione» (Sez. 1, n.34154 del 04/07/2014, Torpano). In tale prospettiva si erano del resto mosse precedenti decisioni concernenti altre fattispecie di reato: il mutamento giurisprudenziale, per quanto autorevolmente sancito dalle Sezioni unite, non vincola gli altri giudici chiamati ad occuparsi di fattispecie analoghe, a differenza delle altre ipotesi prese in considerazione dall'art. 673 cod. proc. pen. (abrogazione e declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice): sicchè il sopraggiungere del giudicato preclude la possibilità di rimuovere la condanna.

Sotto altro profilo, si è posto in evidenza che l'eventuale errore interpretativo commesso in sede di cognizione può essere rimosso solo attraverso l'impugnazione della sentenza, dovendo escludersi un intervento in sede esecutiva ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen., «in quanto detto istituto si applica solo se l'abrogazione della norma incriminatrice (o la dichiarazione di incostituzionalità della stessa) interviene dopo la decisione del giudice» (Sez. 1, n. 34153 del 04/07/2014, Angelo Gomes; nello stesso senso, cfr. Sez. 1, n. 42594 del 25/09/2013, Mlaouhi).

3.2. La tesi della revocabilità ex art. 673 cod. proc. pen. dopo un revirement delle Sezioni unite: la netta chiusura della Corte costituzionale.

La mancata inclusione del mutamento giurisprudenziale (sancito dalle Sezioni Unite) tra le cause di revoca della sentenza definitiva di condanna, ai sensi dell'art. 673, ha indotto una parte della giurisprudenza di merito a percorrere itinerari interpretativi diametralmente opposti a quelli poc'anzi richiamati. Si è infatti ritenuto - sulla base di percorsi differenti, ma accomunati dall'intento di recepire compiutamente le indicazioni di sistema ricavabili anche da fonti sovranazionali - che anche ad un siffatto revirement dovesse conferirsi rilievo (non diversamente che per un'abolitio criminis o una declaratoria di illegittimità costituzionale) ai fini della revoca delle condanne definitive pronunciate prima dell'intervento delle Sezioni unite.

In particolare, un Giudice dell'esecuzione aveva senz'altro esteso la portata applicativa dell'art. 673 cod. proc. pen. anche alle sentenze emesse prima del mutamento giurisprudenziale sancito dalla sentenza Alacev, in quanto «interventi interpretativi con effetto sostanzialmente abolitivo della fattispecie (come quello in esame) che si traducano in un rovesciamento del diritto vivente, non possono essere considerati non incidenti sui parametri di legalità cui si sono conformati i giudicati pregressi, 'formatisi' nel rispetto di principi di diritto vivente 'aboliti' dall'intervento delle Sezioni Unite» (Trib. Torino, 30 gennaio 2012, Amechi).

In una diversa prospettiva, altro Giudice dello stesso Tribunale aveva escluso la riconducibilità della fattispecie all'abolitio criminis, dal momento che non si era «di fronte ad un fenomeno di successione nel tempo di leggi (intese come fonti formali), bensì ad un fenomeno di successione nel tempo di diverse interpretazioni giurisprudenziali di una determinata fonte formale». Il Tribunale aveva rilevato altresì che tale ipotesi non era contemplata dall'art. 673 cod. proc. pen., escludendo - ed in ciò discostandosi dall'altra ordinanza torinese - che la portata applicativa di tale articolo potesse essere estesa in via analogica, per il carattere eccezionale attribuito, nel sistema, agli interventi del giudice dell'esecuzione. Tutto ciò aveva indotto il Tribunale a sollevare una questione di legittimità costituzionale del predetto articolo, in relazione agli artt. 3, 13, 25, 27 terzo comma, e 117 Cost. (con riferimento all'art. 7 CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo).

La questione è stata dichiarata infondata dalla Corte costituzionale con la già citata sentenza n. 230 del 2012, le cui importanti affermazioni di principio hanno formato oggetto di un serrato dibattito dottrinale, e sono state in più parti riprese anche dalle Sezioni unite, nella sentenza oggi in esame.

Ci si limita, in questa sede, ad evidenziare anzitutto che la Consulta ha preliminarmente escluso che l'art. 673 cod. proc. pen. potesse trovare applicazione facendo leva sulla modifica normativa intervenuta nel 2009. Invero, la commissione del fatto dopo la novella imponeva di escludere «che la successione tra il vecchio e il nuovo testo di detta norma possa venire in considerazione, come fenomeno atto a rendere operante il precetto dell'art. 2, secondo comma, c.p., al quale la disposizione processuale dell'art. 673 è, per questo verso, correlata ('nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore' - s'intende, alla commissione di tale fatto - 'non costituisce reato e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali')».

In altri termini, ad avviso della Consulta, l'unico problema interpretativo, per il giudice a quo, riguardava l'applicabilità o meno agli stranieri irregolari del novellato art. 6, «a prescindere da quale fosse il regime operante anteriormente alla novella del 2009. Ne consegue che non può ritenersi implausibile l'assunto sulla cui base il giudice a quo reputa rilevante la questione sollevata: ossia che la richiesta di revoca sottoposta al suo vaglio si basa sulla successione nel tempo, non già di leggi, ma di diverse interpretazioni giurisprudenziali della medesima norma di legge».

La Corte ha pertanto ritenuto ammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 673, ma ne ha dichiarato l'infondatezza sotto tutti i profili denunciati. Interessa qui ricordare che, quanto alla dedotta irragionevolezza ex art. 3 Cost., la Consulta ha posto in rilievo le connotazioni solo «tendenziali» della funzione nomofilattica attribuita all'interpretazione della Suprema corte: connotazioni basate su un'efficacia «non cogente, ma di tipo essenzialmente «persuasivo». Con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell'organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l'onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è di fatto accaduto».

D'altro lato, il dubbio di costituzionalità formulato per l'asserita violazione del principio di tendenziale retroattività della lex mitior è stato disatteso conferendo rilievo «assorbente» al fatto che detto principio «attiene - anche in base alla relativa disciplina codicistica (art. 2, secondo e terzo e quarto comma, c.p.) alla sola successione di 'leggi'»: dovrebbe quindi dimostrarsi, per giungere alla richiesta equiparazione, che «la consecutio tra due contrastanti linee interpretative giurisprudenziali equivalga ad un atto di produzione normativa». La fondatezza di tale ricostruzione è stata tuttavia esclusa dalla Corte costituzionale, ostandovi non soltanto la non vincolatività di un orientamento giurisprudenziale (anche se sancito dalle Sezioni unite), ma «anche, e prima ancora - in uno alla già più volte evocata riserva di legge in materia penale, di cui allo stesso art. 25, secondo comma, Cost. - il principio di separazione dei poteri, specificamente riflesso nel precetto (art. 101, secondo comma, Cost.), che vuole il giudice soggetto soltanto alla legge». Né per la Consulta potrebbe argomentarsi, in senso contrario, valorizzando il fatto che - come accaduto nella specie - «la nuova decisione dell'organo della nomofilachia sia nel segno della configurabilità di una abolitio criminis. Al pari della creazione delle norme, e delle norme penali in specie, anche la loro abrogazione - totale o parziale - non può, infatti, dipendere, nel disegno costituzionale, da regole giurisprudenziali, ma soltanto da un atto di volontà del legislatore (eius abrogare cuius est condere)».

In buona sostanza, la Corte costituzionale ha assunto una posizione di netta chiusura ad ogni ipotesi di revoca delle sentenze definitive di condanna a carico di stranieri irregolari per fatti commessi dopo la novella del 2009. Si è visto infatti che, da un lato, la Consulta ha preliminarmente escluso la sussistenza di un fenomeno di successione di leggi riconducibile alla portata applicativa dell'art. 2 cod. pen. (e quindi dell'art. 673 cod. proc. pen.), ritenendo invece configurabile solo una successione di diverse interpretazioni giurisprudenziali della medesima disposizione (il novellato art. 6 T.U. Imm.). D'altro lato, la sentenza n. 230 ha escluso anche che tale mutamento interpretativo, pur se sancito dalle Sezioni unite della Suprema corte, possa nel sistema essere equiparato - attraverso la pronuncia additiva sollecitata dal rimettente - ad un atto di produzione normativa con effetti abrogativi.

A tali linee argomentative si sono espressamente riportate alcune successive pronunce di legittimità, secondo cui la condanna per fatto successivo alla novella costituisce un'errata applicazione, da parte del giudice della cognizione, di una norma preesistente al fatto da giudicare: vicenda che «integra un errore di giudizio rimediabile con gli ordinari mezzi di impugnazione, nella specie non esperiti, ma esula dai casi per cui è ammessa la revoca della sentenza per abolizione del reato a norma dell'art. 673 cod. proc. pen.» (Sez. 1, n. 40296 del 22/05/2013, n. 40296, Mbaye).

3.3. La tesi della incondizionata revocabilità ex art. 673 delle condanne definitive in caso di abrogazione (per via legislativa) della norma incriminatrice.

Nella giurisprudenza della Suprema corte, si era peraltro affermato anche un orientamento in radicale contrasto con quelli fin qui esaminati. Era stata infatti sostenuta la piena revocabilità, ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen., delle sentenze definitive di condanna emesse in situazioni analoghe a quella riguardante il Mraidi, ma in un'ottica ricostruttiva del tutto diversa da quella sostenuta dal Tribunale di Torino (e totalmente disattesa dalla Corte costituzionale: cfr. supra, § 3.2). In particolare, questo indirizzo non aveva ricollegato l'applicabilità dell'art. 673 al mero sopravvenire di un mutamento giurisprudenziale favorevole, ma piuttosto al fatto che vi era stata, con l'entrata in vigore della legge n. 94 del 2009, un'abolitio criminis (parziale) per via legislativa, di cui doveva tenersi conto anche in sede di esecuzione.

A ben guardare, quindi, l'orientamento in questione si era posto in un'ottica del tutto omogenea a quella della Corte costituzionale quanto al "punto di partenza", ovvero all'affermazione per cui la revoca ex art. 673 non può che conseguire ad un'abolitio criminis per via legislativa; tuttavia, a differenza della Consulta, tale indirizzo aveva ritenuto di poter valorizzare - ai fini della revoca di una sentenza irrevocabile di condanna - anche la successione di leggi (con effetto abrogativo) verificatasi prima della commissione del fatto giudicato.

Si era così affermato che l'art. 673 «non distingue il tempo dell'avvenuta abrogazione legislativa, né se la sentenza di condanna per una condotta di reato non più considerata di rilevanza penale sia intervenuta prima o dopo l'abrogazione stessa, dappoiché ritenuta di superiore interesse per l'ordinamento la regola secondo cui nessuno può essere condannato per un reato non contemplato dall'ordinamento. Se ciò accade, come nel caso in esame, anche se formatosi un giudicato contrario successivamente al tempo dell'intervenuta abrogazione, l'ordinamento ha provveduto alla predisposizione del rimedio dell'incidente di esecuzione di cui all'art. 673 cod. proc. pen.» (Sez. 1, n. 6539 del 02/02/2012, Jabir). Anche dopo l'intervento della Consulta, si era quindi sostenuto che la revoca ex art. 673 «va applicata indipendentemente dal tempo della sentenza di condanna, se emessa prima o dopo l'abrogazione stessa, poiché esprime l'interesse superiore dell'ordinamento a che nessuno risulti condannato per un reato non (più) previsto come tale dalla legge e, quindi, anche nel caso di giudicato formatosi successivamente al tempo dell'intervenuta abrogazione»: revoca che in tal caso è operante «per abolizione del reato, e non per mero mutamento giurisprudenziale» (Sez. 1, n. 1611 del 02/12/2014, dep. 2015, Santiago Peralta, Rv. 261984).

3.4. La tesi intermedia sostenuta in dottrina (e ripresa dall'ordinanza di rimessione alle Sezioni unite).

La vivacissima contrapposizione registratasi in giurisprudenza ha trovato un pieno riscontro nel dibattito dottrinale, sviluppatosi sia con specifico riferimento alla sentenza Alacev, sia soprattutto a seguito dell'intervento della Corte costituzionale. Alcuni autori hanno infatti pienamente condiviso la posizione di chiusura della Consulta, ritenendo imprescindibile - per l'operatività della revoca ex art. 673 - l'esistenza di una "legge posteriore" al fatto (art. 2, comma 2, cod. pen.). In un'ottica ricostruttiva radicalmente diversa, si è invece da altri ritenuto applicabile l'art. 673 anche in caso di abolitio criminis successiva al fatto giudicato, distinguendo peraltro nettamente tale ipotesi da quella del mutamento giurisprudenziale «a testo legislativo inalterato» (ovvero non conseguente ad una modifica della norma incriminatrice), in relazione alla quale la revoca ex art. 673 doveva invece essere esclusa.

Tra le due prospettive in radicale antitesi, si è fatta autorevolmente strada in dottrina anche una terza via interpretativa, che focalizza l'attenzione sulle modalità e sulle ragioni del mancato rilevamento dell'abolitio criminis in sede di cognizione: ammettendo solo per talune ipotesi di errore la possibilità di "rimediare" in sede esecutiva, ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen.

In particolare, è stata posta in rilievo la complessità del tema, che "evoca principi tra loro antitetici. Da un lato, infatti, l'intangibilità del giudicato dovrebbe indurre a ritenere ormai preclusa la declaratoria dell'effetto abrogativo; dall'altro, però, non può ignorarsi il deficit di potere punitivo che vizia la sentenza di condanna". Queste premesse impongono, secondo tale opinione, di risolvere la questione della revocabilità delle sentenze a seconda dei casi: «la tesi negativa s'impone ove l'ipotesi dell'abolitio sia stata valutata ma poi esclusa dal giudice della cognizione: si ammetterebbe, infatti, il potere di sindacare, nella fase esecutiva, questioni di merito già coperte dal formarsi della res iudicata. Ma, al di là di tale evenienza, deve ritenersi consentito l'intervento "riparatore": se il fatto era già descritto in termini tali da ricadere nell'area del penalmente lecito e la causa di proscioglimento è sfuggita al giudice, l'art. 673 cod. proc. pen. offre il rimedio necessario a sanare l'illegalità della sanzione irrogata». Il fondamento di tali conclusioni era già stato in precedenza chiarito da chi aveva posto in evidenza che, con l'emissione di una sentenza di condanna dopo l'entrata in vigore della legge abrogativa, si era «ben al di là di un mero error in iudicando, dal momento che la abolitio criminis, comunque e quantunque intervenuta, porta ad un vero e proprio vuoto di potere punitivo: per cui una condanna che si fondi su una norma incriminatrice abrogata deve essere ritenuta priva di un qualunque peso giuridico per quanto attiene alla possibilità di una sua legittima esecuzione».

Tale impostazione è stata fatta propria dall'ordinanza di rimessione del contrasto interpretativo alle Sezioni unite (Sez. 1, ord. n. 24399 del 27/03/2015, Mraidi), la quale - ritenendo sussistere nella specie un fenomeno di abrogazione parziale del reato di cui all'art. 6 T.U. Imm., conseguente all'entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 - ha nettamente distinto l'ipotesi in cui il problema dell'abolitio sia stato affrontato e risolto negativamente dal giudice della cognizione (ricorrendo in tal caso un «effettivo errore interpretativo (valutativo) non rimediabile dal giudice dell'esecuzione a cui non è consentito 'rimettere in discussione il giudicato' (Sez. un. 27 novembre 2014, n. 6240/2015, Basile)», dall'ipotesi in cui il giudice dell'esecuzione mostra di aver semplicemente ignorato la questione. In tale eventualità di errore meramente percettivo, ad avviso della Prima sezione, «non sembrano rinvenibili ragioni per circoscrivere le ipotesi di revoca per abolitio disciplinate dall'art. 673 cod. proc. pen.ai casi previsti dall'art. 2, secondo comma, cod. pen., e non anche a quelli del primo comma, che riflettono valore cogente dall'art. 25 Cost.».

4. La soluzione accolta dalle Sezioni unite.

In tale tormentatissimo contesto interpretativo, le Sezioni unite hanno seguito le linee ricostruttive dell'ordinanza di rimessione, compiendo una scelta di campo a favore della revocabilità delle sentenze di condanna emesse per fatti in realtà privi di rilievo penale già al momento della loro commissione, essendo l'abolitio criminis anteriore ai fatti stessi. Tale scelta appare peraltro connotata - nel suo presupporre un errore meramente "percettivo", e non "valutativo", del giudice della cognizione (cfr. supra, § 3.3) - da una (comprensibile) preoccupazione di garantire coerenza e "tenuta" sia rispetto alle considerazioni di sistema svolte nel 2012 dalla Corte costituzionale, sia soprattutto in relazione ai limiti di effettiva "tangibilità" del giudicato, delineati dalle Sezioni unite in alcune recenti decisioni concernenti il tema della legalità della pena.

In tale percorso argomentativo, è possibile individuare tre "tappe" fondamentali: l'attribuzione di un rilievo ex art. 673 ai soli fenomeni abrogativi, a loro volta identificabili nelle sole ipotesi di intervento del legislatore su una norma previgente; la revocabilità delle sentenze anche nell'ipotesi di abolitio criminis verificatasi prima del fatto per cui vi è stata condanna; l'individuazione dei concreti spazi di intervento a disposizione del giudice dell'esecuzione.

4.1. Successione di leggi con effetto abrogativo e mera successione di interpretazioni giurisprudenziali.

Un primo aspetto di assoluto rilievo, nella sentenza Mraidi, è costituito dalla esplicita adesione ai principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 230 in ordine alla necessità di ricondurre il fenomeno abrogativo, anche agli effetti di una revoca ex art. 673 cod. proc. pen., alla sola successione nel tempo di atti normativi, con conseguente esclusione di ogni autonomo rilievo, ai fini predetti, di una successione di interpretazioni giurisprudenziali della medesima disposizione (cfr. supra, § 3.2).

Sin dalle premesse della propria ricostruzione, le Sezioni unite hanno posto al centro dell'analisi l'art. 15 disp. prel. cod. civ., e la possibilità - ivi prevista - che l'abrogazione delle leggi possa avvenire non solo in forma espressa, ma anche "per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore": chiarendo al riguardo che, qualora «l'effetto abrogativo, tacito e parziale, per l'incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti, non sia agevolmente desumibile dal testo della legge posteriore, è fisiologico che si sviluppi un'attività ermeneutica diretta a verificare la compatibilità tra le nuove disposizioni, o alcune di esse, e quelle precedenti. Può quindi accadere che si determini un contrasto giurisprudenziale, con la conseguenza che l'effetto abrogativo su singole norme incriminatrici sia 'riconosciuto' dal giudice per via interpretativa, anche a distanza di tempo dall'entrata in vigore della nuova disciplina».

Esattamente questa, ad avviso delle Sezioni unite, è la situazione verificatasi in relazione al reato di omessa esibizione di documenti da parte dello straniero, in cui l'effetto parzialmente abrogativo non è derivato (né poteva esserlo) dal mero mutamento giurisprudenziale sancito dalla sentenza emessa dalle Sezioni unite nel 2011, ma dall'entrata in vigore della 1. n. 94 del 2009, che ha modificato la struttura della norma incriminatrice rendendola applicabile ai soli stranieri in posizione irregolare (cfr. supra, § 2). In altri termini, la sentenza Alacev «ha quindi avuto una funzione meramente ricognitiva dell'intervenuto effetto abrogativo parziale diretto a restringere l'area applicativa dell'art. 6, comma 3, T.U. Imm., ai soli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, effetto di cui la Corte di cassazione ha dato atto ma che è riconducibile esclusivamente alla legge».

Va evidenziato che le Sezioni unite, recependo una riflessione dottrinale ricordata in precedenza (cfr. supra, § 3.4), hanno tenuto a distinguere nettamente la predetta ipotesi da quella in cui si susseguano diverse interpretazioni giurisprudenziali di un medesimo testo normativo: è stata infatti esclusa, nel secondo caso, qualsiasi possibilità di attribuire all'interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto, ostandovi «il precetto fondamentale della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.)».

In conclusione, per la sentenza Mraidi, l'intervento delle Sezioni unite del 2011 in tema di inottemperanza all'obbligo di esibizione dei documenti ha consentito il "riconoscimento" dell'effetto abrogativo parziale determinato dalla novella del 2009: ed in tale contesto, che ha visto il consolidarsi dell'interpretazione favorevole agli stranieri irregolari, «non vi è motivo di negare che vi sia stata un'ipotesi di successione di leggi (e non di interpretazioni giurisprudenziali) nel tempo, riconducibile all'art. 2, secondo comma, c.p., che legittima l'intervento del giudice dell'esecuzione».

Appare evidente la diversità di posizioni assunta, a tale specifico proposito, dalle Sezioni unite rispetto alla Consulta nella sentenza n. 230 del 2012 (cfr. supra, § 3.2): diversità che la sentenza Mraidi ha ritenuto di poter collegare alle premesse concettuali poste dal giudice a quo nella formulazione della questione di legittimità, dalle quali la Corte costituzionale sarebbe partita per rigettare la questione, senza peraltro valutarne la correttezza nel caso concreto.

4.2. Revocabilità delle sentenze di condanna emesse dopo la (tacita) abrogazione della norma incriminatrice.

Per le Sezioni unite, dunque, il reato di cui all'originaria formulazione dell'art. 6 T.U. Imm. è stato in parte tacitamente abrogato dalla legge n. 94 del 2009, mentre la sentenza Alacev del 2011 ha avuto effetti meramente ricognitivi della parziale abolitio: tuttavia, proprio perché il mutamento di giurisprudenza ha riguardato «una successione di leggi», di quest'ultima deve tenersi conto anche agli effetti di cui all'art. 673, nonostante sia intervenuta prima non solo della sentenza di condanna, ma anche della stessa condotta di inottemperanza all'ordine di esibizione dei documenti.

A sostegno di tali conclusioni, il Supremo consesso ha sottolineato anzitutto l'insussistenza di preclusioni derivanti dal testo dell'art. 673, sia perché non sono previste limitazioni ai poteri di accertamento e valutazione del giudice dell'esecuzione (a differenza di quanto stabilito negli artt. 671 e 675 cod. proc. pen. in tema, rispettivamente, di applicazione del concorso formale e del reato continuato, e di dichiarazione di falsità documentale), sia perché l'espressione "abrogazione della norma incriminatrice" deve intendersi comprensiva di ogni tipo di abrogazione, e dunque anche di quella tacita.

Inoltre, ed anzi soprattutto, le Sezioni unite hanno espresso a chiare lettere le ragioni che impongono un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 673 cod. proc. pen.: ragioni che appaiono di una consistenza intrinseca dirompente, tanto da indurre a qualche riflessione sulla tenuta del "bilanciamento" con i valori sottesi all'intangibilità del giudicato, che - come già accennato e come meglio si vedrà fra breve - la stessa sentenza ha inteso operare sulla scorta di altre recenti pronunce del Supremo consesso, delimitando l'area del possibile intervento in sede esecutiva alle sole ipotesi in cui la mancata rilevazione dell'abolitio criminis sia stata causata da un errore "percettivo" del giudice della cognizione (cfr. infra, § 4.3).

Si è infatti evidenziato, in primo luogo, che il giudice dell'esecuzione è chiamato ad accertare - quale "garante della legalità penale" - che in sede di cognizione sia stato effettivamente rispettato il principio di legalità, verificando se la norma incriminatrice applicata sia stata oggetto di un intervento abrogativo del legislatore. Si è poi osservato che l'applicazione di tale principio "non può essere condizionata da riferimenti cronologici, in quanto se l'art. 2, secondo comma, c.p. prevede che nessuno possa essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato (e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali), ancor più va tutelata la posizione di colui che sia stato condannato per un fatto che già al momento della commissione non era reato per essere precedentemente intervenuta l'abolitio criminis. Pertanto, come ben rilevato nell'ordinanza di rimessione, non vi è ragione di circoscrivere le ipotesi di revoca per abolitio disciplinate dall'art. 673 cod. proc. pen. ai casi previsti dall'art. 2, secondo comma, c.p. e non anche a quelli del primo comma ('Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato'), che traggono valore cogente dall'art. 25, secondo comma, Cost. ('Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso')".

4.3. L'individuazione dei "margini" dell'intervento in sede esecutiva: il richiamo all'evoluzione della giurisprudenza in tema di pena illegale.

La possibilità ed anzi il dovere di ricorrere alla revoca ex art. 673 cod. proc. pen. sono stati dunque affermati in termini inequivoci dalle Sezioni unite, che hanno ricondotto la condanna per un reato già abrogato ad una vera e propria violazione del principio di legalità.

Tuttavia, la sentenza Mraidi non ha ritenuto di poter aprire ad un uso incondizionato di tale strumento, come sostenuto da una parte della dottrina e della giurisprudenza (cfr. supra, §§ 3.3 e 3.4): è stata infatti individuata una soluzione "intermedia", volta a salvaguardare almeno in parte il principio dell'intangibilità del giudicato attraverso la valorizzazione della natura - percettiva o valutativa - dell'errore verificatosi in sede di cognizione.

Il fondamento di tale soluzione è stato esplicitamente individuato dalle Sezioni unite nell'evoluzione interpretativa, qui richiamata in premessa (cfr. supra, § 1), dalla quale emerge una progressiva "cedevolezza" del giudicato, qualora la tutela effettiva dei diritti fondamentali del condannato venga pregiudicata dall'esecuzione di una pena irrogata secondo parametri normativi non in linea con le norme costituzionali o convenzionali, o comunque applicata illegalmente.

In particolare, il Supremo consesso ha diffusamente richiamato, anzitutto, i principi espressi dalla sentenza 24 aprile 2013, n. 210 della Corte costituzionale, secondo cui l'ordinamento nazionale "conosce ipotesi di flessione della intangibilità del giudicato" in alcune ipotesi in cui i valori di certezza del diritto e la stabilità nei rapporti giuridici sono ritenuti subvalenti rispetto alla tutela della libertà personale, se ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata o modificata in favore del reo.

Sono stati quindi adeguatamente valorizzati i rilievi sistematici svolti da recenti pronunce delle stesse Sezioni unite in tema di legalità del trattamento sanzionatorio, volte a ridefinire i limiti dell'intangibilità del giudicato in alcune situazioni - sulle quali, evidentemente, non è qui possibile soffermarsi - nelle quali deve considerarsi preminente la tutela dei diritti fondamentali del condannato.

In particolare, sono state richiamate: Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258650 (secondo cui, tra l'altro, la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l'intero arco della sua durata, da una legge conforme ai principi di cui agli artt. 13, secondo comma, e 25, secondo comma, Cost., e deve assolvere alla funzione rieducativa di cui all'art. 27 della Carta); Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260696 (che ha tra l'altro posto in evidenza il ridimensionamento, dopo l'entrata in vigore della Costituzione e poi del codice Vassalli, del "significato totalizzante attribuito all'intangibilità del giudicato quale espressione della tradizionale concezione autoritaria dello Stato", in favore di una valenza di garanzia individuale del giudicato penale che, "oltre a garantire la necessità di certezza e stabilità giuridica delle decisioni emesse secondo le regole del giusto processo, deriva soprattutto dall'esigenza di porre un limite all'intervento dello Stato nella sfera individuale e si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem"); Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 262327 (secondo cui l'applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice dell'esecuzione può essere rilevata anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, purchè si tratti di pena determinata o determinabile per legge senza alcuna discrezionalità, e purchè "non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione"); Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264857 (secondo cui, in caso di sopravvenuta illegittimità costituzionale di una norma diversa da quella incriminatrice ma incidente sul trattamento sanzionatorio, il giudice dell'esecuzione può rideterminare la pena applicata ex art. 444, con l'accordo delle parti o ai sensi degli artt. 132-133 cod. pen., ferma restando l'efficacia del giudicato quanto alla sussistenza del fatto, alla sua attribuibilità soggettiva e alla qualificazione giuridica); Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265108 (che ha ritenuto deducibile dinanzi al giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 666 cod. proc. pen., l'illegalità della pena derivante da palese errore giuridico o materiale da parte del giudice della cognizione, privo di argomentata valutazione, qualora la predetta illegalità non sia rilevabile d'ufficio in sede di legittimità a causa della tardività del ricorso).

4.4. Le conclusioni raggiunte dalle Sezioni unite.

All'esito di tale articolato percorso, le Sezioni unite hanno conclusivamente ribadito, anzitutto, la fondatezza delle conclusioni raggiunte dalla sentenza Alacev del 2011, quanto alla parziale abrogazione del reato di inottemperanza all'ordine di esibizione dei documenti, previsto dall'art. 6 T.U. Imm. ed applicabile, dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 94 del 2009, ai soli stranieri in posizione regolare: conclusioni definite "ormai 'diritto vivente'", anche perché non contraddette dalla successiva giurisprudenza di legittimità.

Si è posta poi l'attenzione sulla fattispecie concreta, evidenziando che, nella sentenza di condanna emessa nel 2010 nei confronti del Mraidi, il Tribunale di Bergamo si era pronunciato "senza porsi il problema" dell'effettiva applicabilità dell'art. 6: tale assoluta assenza di motivazione sul punto ha indotto le Sezioni unite a ritenere che non si fosse in presenza di un "errore valutativo", nel senso indicato dalla citata sentenza del Supremo consesso in tema di applicazione illegale di pene accessorie (cfr. supra, § 4.3), secondo cui il giudicato è intagibile "solo quando il giudice della cognizione abbia espresso le sue valutazioni (a meno di errori macroscopici di calcolo o di applicazione di una pena avulsa dal sistema)". Il silenzio del giudice bergamasco è stato quindi ritenuto, dalle Sezioni unite, sintomo di un "mero errore percettivo, che legittima l'intervento del giudice dell'esecuzione il quale è garante della legalità della pena ed è tenuto a valutare se nel caso concreto la sentenza di condanna debba essere revocata perché pronunciata in relazione ad un fatto commesso dopo l'entrata in vigore della legge abrogatrice".

Nel ribadire che una siffatta condanna dà luogo ad una violazione del principio di legalità, le Sezioni unite hanno richiamato sia gli artt. 1 e 2, primo comma, c.p. e 25 Cost., sia il nullum crimen, nulla poena sine lege di cui all'art. 7 della Convenzione EDU, sottolineando che tale articolo, nell'interpretazione della Corte di Strasburgo, non solo richiede che la condanna si fondi su una "base legale", ma impone alla Corte stessa di verificare anche che, al momento del fatto per cui è intervenuta condanna, "esistesse una disposizione di legge che rendeva l'atto punibile, e che la pena inflitta non eccedesse i limiti fissati da tale disposizione" (Corte EDU, G.C., 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, §§ 77-80; in senso analogo v. anche Corte EDU, G.C., 18 aprile 2015, Rohlena c. Repubblica Ceca, § 50)

In tale contesto, le Sezioni unite hanno affermato che "la tutela dei diritti costituzionalmente e convenzionalmente presidiati, quale il diritto fondamentale alla libertà personale e il principio di legalità, deve infatti prevalere sull'intangibilità del giudicato, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 210 del 2013 e dalle Sezioni unite a partire dalle sentenze Ercolano e Gatto, non potendo accertarsi l'"applicazione di una pena avulsa dal sistema" (Sez. U, Basile, più volte citata) come quella inflitta con una sentenza di condanna pronunciata per un fatto che, al momento della sua commissione, non aveva rilievo penale e per questo era da ritenersi illegale ab origine".

Nonostante l'accertata "omessa percezione" dell'abolitio criminis, da parte del giudice della cognizione, le Sezioni unite non hanno peraltro ritenuto di poter pervenire all'annullamento dell'ordinanza con cui, in sede esecutiva, era stata rigettata l'istanza di revoca della condanna inflitta al Mraidi, in quanto il P.M. ricorrente non aveva adeguatamente individuato le norme asseritamente violate, né aveva contestato in maniera articolata le ragioni dedotte dal giudice dell'esecuzione a sostegno della propria decisione di rigetto dell'istanza di revoca.

SEZIONE VIII RAPPORTI CON AUTORITÀ STRANIERE

Sommario

PREMESSA

PREMESSA.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione nel 2016 sull'argomento riguarda essenzialmente le problematiche legate alla consegna di persone in base al mandato di arresto europeo - per quanto riguarda i rapporti con gli Stati dell'Unione Europea -, quelle relative all'estradizione - per quanto riguarda i Paesi extra UE -, e quelle legate alla acquisizione di prove all'estero (sia nella UE che al di fuori) tramite rogatoria, in quanto a tutt'oggi, come noto, anche all'interno dell'Unione Europea l'acquisizione di elementi di prova deve ancora avvenire tramite il tradizionale sistema rogatoriale, seppure semplificato.

Peraltro, l'anno oggetto della presente rassegna è stato prodigo di novità nel settore, in particolare nel campo legislativo prima che giurisprudenziale. È stato, infatti, l'anno nel quale sono state recepiti molti strumenti normativi dell'Unione Europea in materia di cooperazione giudiziaria, alcuni dei quali attendevano di essere attuati da oltre dieci anni. Si tratta, in particolare, della decisione quadro 2009/299/GAI sul reciproco riconoscimento delle decisioni pronunciate in assenza dell'imputato al processo[1], della decisione quadro 2009/948/GAI sulla prevenzione e risoluzione dei conflitti relativi all'esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali[2], della decisione quadro 2009/829/GAI sulle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare[3], della decisione quadro 2003/577/GAI sui provvedimenti che dispongono il blocco o sequestro dei beni per finalità probatoria ovvero la loro successiva confisca[4], della decisione quadro 2002/465/GAI sulle squadre investigative comuni[5], della decisione quadro 2005/214/GAI sul reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie[6], e della decisione quadro 2008/947/GAI sul riconoscimento delle sentenze con sospensione condizionale o sanzioni sostitutive[7], delle decisioni quadro 2009/315/GAI, 2009/316/GAI sugli scambi tra gli Stati Membri di informazioni tratte dai casellari giudiziari e sulla istituzione del sistema europeo di informazione sui casellari giudiziari (ECRIS)[8], ed, infine, della decisione quadro 2008/675/GAI sulla considerazione delle decisioni di condanna tra Stati Membri dell'Unione in occasione di un nuovo procedimento penale[9].

Si può fin d'ora accennare al fatto che anche nell'anno a venire dovrebbero registrarsi significative novità legislative in materia, che potrebbero portare nuove questioni all'attenzione della giurisprudenza. Nel corso del 2017 dovrebbero, infatti, entrare in vigore gli strumenti legislativi nazionali per l'introduzione, attraverso la conformazione del nostro ordinamento a quello dell'Unione, di nuovi istituti per la cooperazione con gli altri Paesi dell'UE nell'acquisizione e circolazione della prova penale, ed, in particolare, l'ordine di indagine europeo (OIE), di cui alla decisione quadro 2014/41/UE. Dovrebbero poi essere adottati gli strumenti normativi per l'attuazione della Convenzione relativa all'assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell'Unione Europea, del 2000, (c.d. Convenzione di Bruxelles) che l'Italia non aveva fino ad oggi ancora attuato. La stessa, per quanto destinata poi ad essere superata dall'entrata in vigore dell'OIE, si sarebbe rivelata, se attuata tempestivamente, un utile strumento di cooperazione perché, per esempio, avrebbe permesso al nostro Paese di avvalersi già da tempo, per le indagini transnazionali all'interno della UE, delle squadre investigative comuni, oggi entrate a fare comunque parte del nostro ordinamento in virtù del recepimento - intervenuto, però, molto tempo dopo la suddetta Convenzione - della già citata decisione quadro 2002/465/GAI.

Anche in materia di rapporti con i Paesi extra UE, infine, si profilano significative novità, dovendo entrare in vigore la normativa di modifica del libro XI del codice di procedura penale[10]. La giurisprudenza di Cassazione del 2016, però, come è comprensibile, non si è ancora confrontata con le novità legislative appena sopravvenute, ma ha ugualmente affrontato temi di rilevanza ed interesse significativi.

Numerose e variegate sono le questioni di cui la giurisprudenza della Corte di cassazione si è occupata nel corso del 2016 in tema di mandato di arresto europeo.

  • detenuto
  • arresto
  • competenza giurisdizionale
  • diritto penale internazionale

CAPITOLO I

LA GIURISPRUDENZA SUL MANDATO DI ARRESTO EUROPEO

(di Andrea Venegoni )

Sommario

1 Presupposti per l'emissione di un m.a.e. - 2 Omessa trasmissione del titolo interno. - 3 Competenza. - 4 M.a.e. e misure cautelari. - 5 Sindacato dall'autorità giudiziaria italiana. - 6 Consenso. - 7 Motivi di rifiuto: - 7.1 Trattamento inumano e degradante. - 7.2 Reati commessi nel territorio italiano. - 7.3 Doppia punibilità. - 8 M.a.e. nei confronti di cittadino italiano o residente in Italia - 9 Questioni procedurali. - 10 Consegna ad un terzo Stato.

1. Presupposti per l'emissione di un m.a.e.

Vanno, in primo luogo, segnalate le decisioni attinenti all'emissione, o alla mancata emissione del mandato stesso.

Nel caso analizzato da Sez. 6, n. 8209 del 12/1/2016, Piccinno, Rv. 266113, in tema di procedura "attiva", quando, cioè, è l'Italia a chiedere ad un altro Stato della Unione Europea la consegna di una persona, il Gip aveva rigettato una richiesta di emissione di m.a.e. per l'esecuzione della misura cautelare degli arresti domiciliari, ritenendo erroneamente preclusa l'emissione del mandato per tale misura, in base ad una non corretta interpretazione del Vademecum stilato dal Ministero della Giustizia, e ritenendo, sempre erroneamente, che l'emissione del mandato fosse condizionata alla previa dichiarazione di latitanza del consegnando. Il pubblico ministero ricorreva in cassazione e la S.C. ha annullato il provvedimento inquadrandolo nella categoria degli atti abnormi, in quanto, pur essendo in astratto manifestazione di un legittimo potere, si era in realtà esercitato al di fuori del casi consentiti. Il m.a.e., infatti, può essere chiesto anche per l'esecuzione di una misura cautelare detentiva diversa dalla custodia in carcere.

2. Omessa trasmissione del titolo interno.

Molte questioni riguardano, però, la procedura "passiva", cioè quando l'autorità giudiziaria italiana deve decidere se dare corso ad una richiesta di consegna sulla base di un mandato di arresto europeo emesso da un altro Stato dell'Unione.

Una di esse riguarda il caso in cui l'autorità richiedente, con il m.a.e., non ha inoltrato copia del titolo restrittivo interno; è opportuno, infatti, ricordare, come ha fatto anche la Corte di Giustizia dell'Unione in una recente sentenza[1], che presupposto del m.a.e. è sempre un titolo interno. La questione è se sia possibile, in tale situazione, per l'autorità giudiziaria dello Stato richiesto, e quindi, nella specie, italiana, disporre la consegna, dovendo la stessa esercitare il controllo sulla ricorrenza dei presupposti per la consegna stessa o, in mancanza, per il rifiuto. Secondo Sez. F., n. 33218 del 28/7/2016, Khalil, Rv. 267765, se anche dagli altri atti trasmessi a corredo della domanda non è possibile esercitare tale controllo, allora tale mancanza giustifica il diniego della consegna; Sez. F, n. 33219 del 28/7/2016, Scarfò, Rv. 267452, solo in apparente contraddizione con la precedente, ma in realtà esprimendo lo stesso principio, ha, per parte sua, stabilito che, in un caso simile, l'omessa acquisizione del provvedimento restrittivo interno non è ostativo alla consegna se la restante documentazione trasmessa dall'autorità dello Stato di emissione permette comunque all'autorità giudiziaria dello Stato richiesto il controllo sui requisiti necessari per disporre la consegna stessa.

In tal senso, secondo Sez. 6, n. 21774 del 19/5/2016, U., Rv. 266936, se, in generale, la mancanza della sentenza di condanna non impedisce che si dia corso alla richiesta di consegna per l'estero, la sua acquisizione può divenire decisiva se il mandato di arresto europeo, e l'ulteriore documentazione in atti, non contengono gli elementi conoscitivi necessari e sufficienti per la decisione. Nella specie, in particolare, la Corte ha ritenuto viziato il provvedimento con il quale la Corte di appello, in assenza di informazioni sull'imputato, minorenne al momento della commissione del fatto, aveva disposto la consegna per l'estero, non effettuando la verifica in ordine alla sua imputabilità, prevista dall'art. 18, comma primo, lett. i), della legge n. 69 del 2005.

3. Competenza.

Posto che non vi è dubbio che il m.a.e. debba riguardare l'esecuzione di una decisione giudiziaria e debba essere emesso da una autorità giudiziaria, qualche dubbio interpretativo è sorto a proposito della definizione di questi concetti, considerata la varietà ordinamentale dei sistemi processuali penali degli Stati dell'Unione. Sebbene la Corte di cassazione nel 2016 non abbia dovuto affrontare il problema, tuttavia lo stesso ha una valenza di carattere generale e per il loro inquadramento è essenziale il ruolo della Corte di Giustizia dell'Unione. A questo proposito, la stessa prossimamente sarà chiamata a decidere su un rinvio pregiudiziale sottoposto dal Rechtbank (Tribunale) di Amsterdam il quale ha ricevuto un mandato emesso dalla Direzione Generale della polizia svedese per l'arresto di una persona resasi responsabile di alcuni reati in Svezia. Il Tribunale olandese dubita che l'autorità emittente svedese possa considerarsi "autorità giudiziaria".

Al momento, sono state rese note le conclusioni dell'Avvocato Generale presentate il 19 ottobre 2016[2], il quale ha concluso nel senso che i concetti di "decisione giudiziaria" ed "autorità giudiziaria" sono concetti autonomi del diritto dell'Unione e devono essere decisi in base a quest'ultimo e ha concluso nel senso che, a suo avviso, un'autorità di polizia, come quella che ha emesso il m.a.e. nella specie, non riveste i caratteri della" autorità giudiziaria".

La decisione che la Corte prenderà nei prossimi mesi si profila di estremo interesse anche per la sua valenza di carattere generale, perché farà da guida alla soluzione di questioni analoghe che dovessero prospettarsi in futuro, anche da parte dell'autorità giudiziaria italiana.

La questione della competenza è sempre fonte di dibattito giurisprudenziale, anche per la molteplicità di provvedimenti che potrebbero essere adottati nel corso del procedimento per la consegna sulla base di un m.a.e. Sez. 6, n. 23259 del 19/5/2016, U., Rv. 266799, si è occupata del problema se, in caso di imputato minorenne all'epoca dei fatti, vi sia una diversa competenza sui provvedimenti che possono essere adottati nel corso della procedura, o se la minore età determini per qualunque provvedimento la competenza della sezione per i minorenni della corte d'appello, ed ha stabilito che, in realtà, provvedimenti quali la convalida dell'arresto di polizia giudiziaria e, ove richieste, misure cautelari, sono sempre di competenza della corte d'appello, anche nel caso sopra indicato, spettando alla sezione minorile della stessa corte d'appello il solo giudizio sulla sussistenza delle condizioni per la consegna.

4. M.a.e. e misure cautelari.

Il m.a.e. può essere chiesto anche per l'esecuzione di una misura cautelare. Nel caso di procedura "attiva", quando cioè l'autorità italiana chiede l'esecuzione di un proprio mandato, la giurisprudenza ha affrontato il problema se questo possa avvenire anche per l'esecuzione di misure cautelari diverse dalla custodia in carcere.

Nel caso analizzato da Sez. 6, n. 8209 del 12/1/2016, Piccinno, Rv. 266113, in tema di procedura "attiva", il Gip aveva rigettato una richiesta di emissione di m.a.e. per l'esecuzione della misura cautelare degli arresti domiciliari, ritenendo erroneamente preclusa l'emissione del mandato per tale misura, in base ad una non corretta interpretazione del Vademecum stilato dal Ministero della Giustizia, e ritenendo, sempre erroneamente, che l'emissione del mandato fosse condizionata alla previa dichiarazione di latitanza del consegnando. Il pubblico ministero ricorreva in cassazione e la S.C. ha annullato il provvedimento inquadrandolo nella categoria degli atti abnormi, in quanto, pur essendo in astratto manifestazione di un legittimo potere, si era in realtà esercitato al di fuori del casi consentiti. Il principio che emerge dalla decisione è, quindi, che il m.a.e., infatti, può essere chiesto anche per l'esecuzione di una misura cautelare detentiva diversa dalla custodia in carcere.

Quando un m.a.e. è richiesto dall'autorità giudiziaria italiana per l'esecuzione di una misura cautelare, tuttavia, la medesima autorità deve farsi carico di verificare che la stessa misura, o comunque una misura analoga, esista nello Stato richiesto, al fine di evitare che quest'ultimo applichi all'interessato una misura maggiormente afflittiva di quella da eseguire in Italia. Il principio è stato espresso da Sez. 3, n. 35879 del 28/6/2016, Castillo De Los Santos, Rv. 267524, a proposito di un m.a.e. chiesto dall'Italia, anche in questo caso per l'esecuzione degli arresti domiciliari.

Un problema che si è posto in tema di procedura "passiva", è, invece, quello della mancata previsione di un termine predeterminato di durata della misura cautelare, successivo al provvedimento della Corte d'Appello. Nella specie, si trattava di un caso in cui il provvedimento di consegna nei confronti dell'imputato, al quale era stata applicata la misura cautelare, era stato annullato dalla Cassazione per mancanza di svolgimento di udienza in camera di consiglio e la S.C., pur annullando senza rinvio in relazione al difetto procedurale, aveva restituito gli atti alla Corte d'Appello per l'ulteriore corso, senza annullare, quindi, la misura cautelare. L'imputato formulava istanza di scarcerazione alla Corte d'Appello e, in seguito al rifiuto, ricorreva in cassazione. La S.C. stabiliva il principio sopra ricordato, ritenendo che lo stesso non esprima irrazionalità del sistema, in quanto i tempi per la conclusione del procedimento principale, dai quali dipende la durata della misura cautelare, sono già di per sé ristretti e non incompatibili con l'assenza di un termine specifico per la stessa. (Sez. 2, n. 4864 del 4/2/2016, Alexandroae, Rv. 266380).

5. Sindacato dall'autorità giudiziaria italiana.

Il m.a.e. si basa, come noto, sul principio del mutuo riconoscimento, uno dei cardini della normativa dell'Unione in tema di cooperazione giudiziaria che, fino al Trattato di Lisbona, rappresentava il c.d. Terzo Pilastro dell'Unione, in particolare dopo i Trattati di Amsterdam (1997) e Nizza (2001). Oggi il mutuo riconoscimento continua ad essere il principio fondamentale in tema di cooperazione giudiziaria, ma è mutato il quadro istituzionale dell'Unione, non esistendo più la distinzione in diversi Pilastri - che si traduceva anche in una differenza nelle procedure legislative - ma, piuttosto, un quadro istituzionale tendente alla maggiore uniformità.

Tale principio presuppone la fiducia reciproca tra gli Stati, e comporta che il provvedimento di cui viene chiesta l'esecuzione non debba essere sottoposto ad un sindacato particolarmente pregnante nel merito da parte delle autorità dello Stato richiesto, salvi i casi di rifiuto. La legge italiana, in realtà, sembra richiedere qualche valutazione ulteriore laddove subordina la concessione di misure cautelari alla sussistenza dei requisiti previsti dal codice di procedura penale nazionale, fatta eccezione per gli articoli 273, commi 1 e 1-bis, 274, comma 1, lettere a) e c), e 280[3], e laddove subordina la consegna finale alla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza[4]. La giurisprudenza compie quindi un'opera di chiarimento all'interno del perimetro normativo sui limiti del sindacato dall'autorità giudiziaria italiana per l'esecuzione di un m.a.e. Così, Sez. 6, n. 3951 del 27/1/2016, P.G. in proc. Laini, Rv. 267186, ha ritenuto che la stessa, nel valutare i presupposti per l'accoglimento della domanda di consegna, deve operare una ricognizione della valutazione effettuata dall'autorità giudiziaria emittente in ordine alla sussistenza del quadro indiziario, non occorrendo analoga verifica con riferimento al profilo delle esigenze cautelari, e dovendo comunque escludersi che la consegna possa essere rifiutata sulla base di una valutazione di tale profilo diversa da quella espressa dall'autorità emittente.

Molto interessante è poi il caso di cui si è occupata Sez. 6, n. 3949 del 26/1/2016, Picardi, Rv. 267185 attinente ad un m.a.e. per l'esecuzione di una sentenza di condanna non ancora definitiva, emessa a seguito di processo in contumacia. Le questioni che sono coinvolte in una situazione simile spaziano, infatti, dai poteri dello Stato richiesto sui m.a.e. emessi dopo processi in contumacia a quelli relativi al fatto che la sentenza non è ancora definitiva. La Corte ha ritenuto che i parametri di valutazione dell'autorità giudiziaria dello Stato richiesto (nella specie, l'Italia), non sono, in realtà, diversi da quelli esercitabili in presenza di sentenze irrevocabili, di cui all'art. 17, comma 4, della legge n. 69 del 2005, e quindi è escluso qualunque potere di sindacato sulla modalità di acquisizione delle prove poste a base della condanna; tuttavia, il fatto che la condanna non sia ancora definitiva comporta l'equiparazione del m.a.e. a quello processuale, e, di conseguenza, l'autorità giudiziaria italiana deve apporre la condizione prevista per il cittadino ed il residente dall'art. 19, comma 1, lett. c) della legge, al fine di consentire al consegnando di avere un nuovo grado di merito nello Stato emittente.

6. Consenso.

Questione che è stata oggetto di discussione è anche quella che attiene alla revocabilità del consenso alla consegna. Sul punto va rilevato che mentre la decisione quadro prevede la irrevocabilità del consenso solo "in linea di massima", lasciando aperto espressamente uno spiraglio per la revocabilità dello stesso, la legge nazionale ne prevede esplicitamente la irrevocabilità.

La giurisprudenza completa la dizione normativa con l'affermazione per cui l'irrevocabilità del consenso discende dalla natura giuridica dello stesso, negozio unilaterale, recettizio, ed insuscettibile di revoca in quanto non può farsi discendere dalla volontà della parte che lo ha prestato liberamente il prodursi di effetti giuridici diversi da quelli già realizzati a seguito di tale manifestazione di volontà (Sez. 2, n. 4864 del 4/2/2016, Alexandroae, Rv. 266378).

Altra questione sono i requisiti necessari per ritenere che il consenso sia stato prestato da parte dell'interessato con piena consapevolezza dell'accusa mossagli e libera determinazione. In questo senso, si è ritenuto che il consenso prestato a seguito di contestazione effettuata sulla base dei soli dati emergenti dalla scheda del Sistema di ricerca Integrato Schengen (SIS) sia del tutto legittimo (Sez. 2, n. 4864 del 4/2/2016, Alexandroae, Rv. 2663789).

7. Motivi di rifiuto:

7.1. Trattamento inumano e degradante.

Il tema del rifiuto di esecuzione del m.a.e. per il timore che l'interessato sia sottoposto, nello Stato richiedente, a trattamenti inumani e degradanti ha continuato ad essere al centro dell'attenzione anche nel 2016, proponendosi come uno dei temi più spinosi in materia, anche perché, come è stato notato, può esporre uno Stato dell'Unione Europea - la quale dovrebbe rappresentare anche uno spazio di civiltà nel trattamento dei detenuti - ad un giudizio, proveniente da altro Stato dell'Unione, sul proprio sistema carcerario o di esecuzione della pena, e quindi ad un giudizio che, direttamente o indirettamente, potrebbe andare a colpire uno degli aspetti di manifestazione esteriore della sovranità statuale. Inoltre, l'argomento potrebbe apparire in contrasto con il principio del mutuo riconoscimento, e cioè la fiducia reciproca che gli Stati si sono concessi creando il sistema basato sul m.a.e. La materia è, per questo, estremamente delicata ed è stata oggetto di attenzione anche da parte della Corte di Giustizia dell'Unione, la quale, peraltro, ha ritenuto il divieto di pene o trattamenti inumani come facente parte di quelli fondamentali dell'Unione, anche prevalente, se necessario, su quello del mutuo riconoscimento (si vedano, tra le altre, le sentenze 5 aprile 2016 nel caso C-404/15, Aaranyosi, e C-659/15, Caldararu). Così, Sez. 6, n. 23277 del 1/6/2016, Barbu, Rv. 267296, ha stabilito che il motivo di rifiuto, previsto dalla legge nazionale, che ricorre in caso di serio pericolo di trattamenti inumani o degradanti (per non parlare di pena di morte o tortura, che, però, nei Paesi dell'Unione non sono, o non dovrebbero essere, ipotizzabili), impone all'autorità dello Stato richiesto di eseguire il m.a.e. di verificare, prima di decidere sulla consegna, la sussistenza concreta di tale rischio, anche richiedendo allo Stato emittente qualsiasi informazione complementare necessaria.

7.2. Reati commessi nel territorio italiano.

La giurisprudenza si è occupata dell'interpretazione di questo motivo di rifiuto di consegna, previsto dall'art. 18, comma 1, lett. p), legge 69 del 2005, relativo al fatto che il m.a.e. riguardi reati che dalla legge italiana sono considerati reati commessi in tutto o in parte nel suo territorio, o in luogo assimilato al suo territorio; ovvero reati che sono stati commessi al di fuori del territorio dello Stato membro di emissione, se la legge italiana non consente l'azione penale per gli stessi reati commessi al di fuori del suo territorio.

Il dubbio è, infatti, se, ai fini dell'opposizione del rifiuto, sia sufficiente che una condotta materiale, costituente parte dell'illecito avvenuto nell'altro Stato, sia stata tenuta in Italia, o se debba trattarsi di condotta che integri un reato punibile in Italia. Per questa seconda ipotesi è propensa Sez. 6, n. 13446 del 1/4/2016, Buchner Baucevich, Rv. 267167, che, in un caso di partecipazione ad associazione a delinquere finalizzata all'evasione di imposte sulla produzione di tabacco posta in essere in Gran Bretagna, ha escluso che la condotta dell'indagato prestata nel territorio nazionale, che non assuma autonoma rilevanza secondo la legge penale italiana, sia sufficiente per applicare il suddetto motivo di rifiuto.

Sez. 6, n. 40760 del 23/6/2016, Pozdnyakov, Rv. 268092, ha ritenuto che, ai fini dell'applicazione del motivo di rifiuto della consegna di cui all'art. 18 lett. p), L. 22 aprile 2005, n. 69, nell'ipotesi di reato commesso da cittadino straniero fuori dal territorio dello Stato richiedente, occorre verificare la procedibilità secondo la legge italiana non con riferimento alla fattispecie concreta "sub iudice", bensì in relazione alla corrispondente ipotesi di reato commesso all'estero da cittadino italiano.

7.3. Doppia punibilità.

È noto che la legge italiana ha introdotto tra i motivi di rifiuto generalizzato per la consegna il requisito della doppia punibilità, per quanto il principio fondante della decisione quadro dell'Unione, e cioè quello già ricordato sopra del mutuo riconoscimento, tendesse a superare proprio l'impostazione basata sulla doppia incriminazione, rendendola non necessaria per una serie di reati elencati nel testo normativo[5]. Peraltro, in un caso come quello di cui si è occupata Sez. 6, n. 5749 del 9/2/2016, Caldaras, Rv. 266039, e cioè in cui il reato in questione era quello di guida senza patente, non solo non compreso nella lista dei reati per i quali la stessa decisione quadro non richiede la doppia incriminazione, ma addirittura depenalizzato nel nostro ordinamento, il rifiuto della consegna non appare in contrasto con lo spirito della decisione quadro.

Quando il requisito della doppia punibilità è, invece, richiesto, Sez. 6, n. 42042 del 4/10/2016 Ferraretto, Rv. 268072, ha ritenuto che per la sua sussistenza è necessario che l'ordinamento italiano contempli come reato, al momento della decisione sulla domanda dello Stato di emissione, il fatto per il quale la consegna è richiesta, mentre non è necessaria la rilevanza penale del medesimo alla data della sua commissione.

8. M.a.e. nei confronti di cittadino italiano o residente in Italia

La decisione quadro non contiene alcuna distinzione di trattamento per il fatto che la persona da consegnare sia cittadino dello Stato richiesto della consegna. La nazionalità non può, quindi, essere motivo di rifiuto.

Tuttavia, la legge nazionale prevede alcune garanzie particolari che possono essere imposte dall'Italia in caso di consegna di un proprio cittadino o di persona qui residente. In particolare, la consegna deve essere subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di esecuzione del mandato per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà personale eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro di emissione[6]. La giurisprudenza in materia conferma, quindi, tale principio; emblematica in tal senso è Sez. 6, n. 4756 del 2/2/2016, Porosnicu, Rv. 265919.

9. Questioni procedurali.

Va, innanzi tutto, segnalato che Sez. 6, n. 21773 del 19/5/2016, D., Rv. 266935 ha delineato una distinzione tra mandato di arresto europeo "processuale" ed "esecutivo", alla luce della normativa nazionale, specificando che l'art. 2 del d.lgs 15 febbraio 2016, n. 31, che ha modificato l'art. 19 della 1. n. 69 del 2005, riguarda le ipotesi di consegna per l'estero ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza inflitte con decisione pronunciata in "absentia" e non si applica al m.a.e. c.d. processuale, volto, invece, a garantire la partecipazione dell'indagato al procedimento penale instaurato nei suoi confronti nello Stato estero.

Ai sensi degli artt. 11-13 della legge 69 del 2005, l'arresto di una persona in Italia oggetto di ricerca da parte delle autorità di altro Stato Membro può anche avvenire sulla base del solo inserimento di una segnalazione nel sistema informazione Schengen (SIS); in tal caso l'arresto è eseguito di iniziativa da parte della polizia giudiziaria, salva messa a disposizione immediata dell'arrestato alla Corte d'Appello per la convalida dell'arresto. Successivamente, ed in particolare, ai sensi dell'art. 13 della legge 69 del 2005, entro il termine di dieci giorni, lo Stato richiedente deve trasmettere il mandato di arresto europeo. Sez. 6, n. 5547 del 19/1/2016, Ivanova, Rv. 266109, ha ritenuto che l'omessa trasmissione del mandato entro tale termine non determina l'inefficacia del provvedimento di convalida, in quanto è sufficiente che, entro il medesimo termine, pervenga la segnalazione della persona nel SIS contenente le indicazioni di cui all'art. 6, comma 1.

Uno dei primi adempimenti che la normativa italiana richiede al presidente della Corte d'Appello nella procedura "passiva" è, in sostanza, la verifica della identità della persona arrestata e la corrispondenza con quella che era ricercata. Sez. 6, n. 5547 del 19/1/2016, Ivanova, Rv. 266108, ha specificato che tale controllo è diverso da quello di cui all'art. 391 cod. proc. pen., esaurendosi in una verifica meramente cartolare che non influisce minimamente sull'esito del procedimento di consegna e sulla adozione di una specifica misura cautelare.

Sez. 6, n. 21772 del 19/5/2016, Auster, Rv. 266934, ha ritenuto che non costituisce motivo di impedimento alla consegna la circostanza che, prima della decisione della Corte d'appello, il titolo cautelare disposto dallo Stato di emissione sia formalmente sostituito con il m.a.e. processuale per lo stesso fatto e che, in relazione al m.a.e., non si proceda ad un nuovo interrogatorio, sempre che l'indagato sia già stato interrogato dopo l'arresto eseguito in ragione del titolo interno. Il caso era relativo ad una segnalazione S.I.S. basata su un mandato d'arresto "interno", disposto dalle autorità spagnole, sostituito successivamente da un m.a.e. processuale, emesso dopo l'arresto in Italia e fondato sul precedente titolo coercitivo.

Altra questione processuale affrontata dalla giurisprudenza è se il termine di sessanta giorni entro il quale, secondo l'art. 17, comma 2, legge n. 69 del 2005, deve essere emessa la decisione sulla consegna, abbia natura perentoria. Sez. 6, n. 12559 del 17/3/2016, Bohancanu, Rv. 267421, ha ritenuto che abbia natura perentoria solo ai fini della durata delle misure restrittive della libertà personale, non determinando, invece, la sua inosservanza alcuna conseguenza sulla validità della decisione in merito alla consegna.

10. Consegna ad un terzo Stato.

Delicato è il tema della consegna della persona, da parte dello Stato richiedente, ad un terzo Stato. La decisione quadro e la normativa italiana ammettono tale possibilità, ma l'art. 28 della decisione quadro 2002/584/GAI prevede che ciò avvenga con il necessario consenso dello Stato che ha consegnato la persona allo Stato che successivamente intende trasferirla ad uno Stato terzo. La norma prevede anche che tale consenso debba intervenire entro il termine di trenta giorni. Una questione affrontata dalla giurisprudenza è quella della natura di tale termine e delle conseguenze della sua violazione.

Sez. 6, n. 12/2016 del 29 dicembre 2015, Johnson, Rv. 265818, ha ritenuto che tale termine non deve considerarsi perentorio, per cui il consenso può intervenire anche successivamente al decorso di esso; è essenziale, però, che intervenga prima della consegna della persona allo Stato terzo.

  • detenzione preventiva
  • estradizione

CAPITOLO II

LA GIURISPRUDENZA IN TEMA DI ESTRADIZIONE

(di Andrea Venegoni )

Sommario

Prefazione - 1 Procedimento di estradizione. - 2 Motivi di rifiuto: ne bis in idem. - 3 Altre possibili ipotesi di rifiuto. - 4 Tutela dei diritti fondamentali. - 5 Misure cautelari. - 6 Principio di specialità.

Prefazione.

Il tema dell'estradizione ha continuato ad essere oggetto di varie sentenze della Suprema Corte anche nell'anno 2016.

È stato, innanzi tutto, precisato un principio fondamentale, di rilevanza anche pratica, secondo cui la presenza nel territorio italiano della persona della quale si richiede l'estradizione è il presupposto essenziale che legittima la domanda dello Stato estero. Ne consegue che, qualora sia dimostrato con certezza che l'estradando non si trova più nel territorio italiano, non ricorrono le condizioni per pronunciare la decisione di estradabilità e deve dichiararsi non luogo a provvedere. (Sez. VI, 24 giugno 2016, n. 30726, Gov. EAU, Rv. 267682).

 

1. Procedimento di estradizione.

Vari sono gli incombenti pratici che soprassiedono alla procedura di estradizione. In tema di estradizione "passiva", quando l'Italia è richiesta di estradare una persona verso uno Stato richiedente, uno di questi attiene alla necessità che gli atti ricevuti dall'estero siano tradotti in lingua italiana.

Sez. VI, 19 febbraio 2016, n. 09896, Hysa, Rv. 266688, ha ritenuto l'inosservanza della disposizione contenuta nell'art. 201 disp. att. cod. proc. pen., secondo cui le domande provenienti da un'autorità straniera nonché i relativi atti e documenti sono accompagnati da una traduzione in lingua italiana, non dà luogo a nullità.

2. Motivi di rifiuto: ne bis in idem.

Significative sono le decisioni su possibili situazioni che giustifichino il rifiuto di concessione della estradizione.

Un primo tema riguarda il caso in cui la persona sia già stata giudicata per gli stessi fatti. È la questione del "ne bis in idem" internazionale, che può manifestarsi con più modalità, in relazione a ciascun caso concreto.

Sez. VI, 24 novembre 2015, n. 03923, D'Ambrosio, Rv. 265911, si è occupata di un caso in cui l'estradando era già stato oggetto di procedimento in Italia sugli stessi fatti oggetto della richiesta di estradizione, e lo stesso era stato definito con archiviazione. Il problema era, quindi, se tale modalità di definizione del procedimento fosse di ostacolo all'estradizione per possibile violazione del principio del "ne bis in idem". La Corte ha ritenuto che ciò non costituisca di per sé causa ostativa alla concessione dell'estradizione ai sensi dell'art. 9 della Convenzione di Parigi del 1957.

Densa si spunti di interesse è, poi, Sez. VI, 15 novembre 2016, n. 54467, Resneli. La stessa riguarda una domanda di estradizione verso la Turchia di un cittadino, verosimilmente non italiano, già giudicato in via definitiva per gli stessi fatti (traffico di stupefacenti) non nel Paese nel quale si trova, destinatario della richiesta di estradizione (l'Italia), ma in uno Stato terzo, la Germania, dove aveva anche già scontato la pena. La Corte d'Appello aveva ritenuto tale elemento non ostativo alla concessione dell'estradizione, ritenendo che il principio del suddetto art. 9 operi quando vi è una sentenza definitiva nei confronti dell'estradando nello stato richiesto dell'estradizione, ma non in uno Stato terzo.

La Corte nella presente decisione rivede il tradizionale orientamento secondo cui, non essendo il ne bis in idem principio o consuetudine del diritto internazionale, esso determina la recessione di una giurisdizione nazionale solo in presenza di convezioni tra gli Stati. In particolare, la decisione rivede questa posizione con riferimento ai rapporti all'interno della UE, atteso lo specifico quadro normativo dell'Unione. Infatti, quanto meno l'art. 54 della Convenzione applicativa dell'accordo di Schengen prima, e l'art. 50 della Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione poi- atto facente oggi a pieno titolo parte dei trattati e quindi dell'acquis communautaire -, lo prevedono come principio generale e fondamentale applicabile in tutto il territorio dell'Unione, per cui l'esistenza di una sentenza definitiva per gli stessi fatti emessa all'interno di uno Stato dell'Unione impedisce che un altro Stato della stessa Unione possa dare corso ad una richiesta di estradizione verso uno Stato extra UE. Si tratta di sentenza che certamente susciterà molti commenti, ma che indubitabilmente ha il merito di colorare di ulteriore concretezza il concetto di "spazio comune di giustizia" che l'Unione Europea intende rappresentare a partire quanto meno dal Trattato di Maastricht del 1992 e dalle conclusioni del Consiglio Europeo di Tampere del 1999.

3. Altre possibili ipotesi di rifiuto.

Altra questione in tema di estradizione esecutiva per l'estero, richiesta sulla base della Convenzione europea di estradizione, e quindi di procedura "passiva", è se l'autorità giudiziaria nazionale possa, in alternativa, disporre l'esecuzione in Italia di pene inflitte all'estero sia per lo straniero residente che per il cittadino italiano. Sez. VI, 24 novembre 2015, n. 07750/2016, Janeczko, Rv. 266125, ha ritenuto che l'A.G. italiana non abbia tale potere, rientrando invece nelle attribuzioni del Ministro della giustizia attivare la procedura per il riconoscimento della sentenza straniera, ove la stessa in base ai relativi accordi internazionali possa poi essere eseguita in Italia.

In ogni caso, va anche segnalato che secondo Sez. VI, 8 settembre 2015, n. 4974/2016, Siepak, Rv. 266263, la mera violazione di norme processuali nella sentenza per la cui esecuzione è stata domandata l'estradizione non impedisce una pronuncia favorevole all'estradizione, in quanto il divieto previsto dall'art.705 comma secondo, lett. b), cod. proc. pen. sussiste solo qualora venga prospettata l'assenza nell'ordinamento dello Stato richiedente di una normativa a tutela delle garanzie difensive e del diritto al giusto processo.

Invece, è stato ritenuto motivo che giustifica la non concessione dell'estrazione del cittadino italiano il fatto che la richiesta sia stata avanzata da uno Stato con il quale l'Italia non ha stipulato apposita Convenzione (Sez. VI, 11 novembre 2015, n. 3921/16, Mancusi Hoyos, Rv. 266539).

Altro argomento delicato è il rapporto tra l'estradizione e la prescrizione dei reati per i quali la stessa è richiesta. Sez. VI, 8 settembre 2015, n. 4974/16, Siepak, Rv. 266264 ha ritenuto che l'accertamento dell'intervenuta prescrizione, secondo la legge italiana, della pena per la cui esecuzione è stata avanzata la richiesta di consegna, va compiuto anche con riferimento alla causa ostativa prevista dall'art.172 ultimo comma cod.proc.pen. in relazione alla commissione di "delitti della stessa indole", dovendosi ricomprendere in tale previsione non solo le ipotesi di reati che violano la stessa disposizione di legge, ma anche la commissione di diverse fattispecie di illecito penale che presentino profili di omogeneità sul piano oggettivo, in relazione al bene tutelato ed alle modalità esecutive, ovvero sul piano soggettivo, in relazione ai motivi a delinquere che hanno avuto efficacia causale nella decisione criminosa.

4. Tutela dei diritti fondamentali.

Principio ormai acquisito nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale, nonchè nelle convenzioni internazionali, è quello per cui l'estradizione non deve esporre l'estradato al rischio di trattamenti lesivi dei suoi diritti fondamentali, ed in particolare al rischio di essere assoggettato alla pena di morte, a tortura o anche a trattamenti inumani o degrandanti. Fondamentale è, al riguardo, la previsione dell'art. 3 della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo del 1950 e la giurisprudenza della Corte EDU[1].

Il problema si pone in particolare nelle procedure di estradizione "passiva", cioè quando l'autorità giudiziaria italiana deve decidere se concedere l'estradizione verso il Paese richiedente, Paese non appartenente all'Unione Europea e quindi titolare di tradizioni e cultura giuridica che, in alcuni casi, possono anche essere molto lontane dalle nostre. A tal fine, Sez. VI, 8 marzo 2016, n. 13440, Plesca, Rv. 266737 ha ritenuto che, in un caso in cui occorreva assicurarsi della disciplina vigente nella Repubblica di Moldavia in ordine al trattamento penitenziario riservato alle madri detenute con prole infantile, se emerge l'esigenza di acquisire elementi conoscitivi in ordine alla disciplina penitenziaria applicata dallo Stato richiedente, la corte d'appello deve effettuare i necessari accertamenti anche chiedendo informazioni alle autorità del Paese istante.

Tuttavia, Sez. VI,26 aprile 2016, n. 22827, Ramirez Melendez, Rv. 267066, occupandosi del problema della prova del fatto che l'estradizione esporrebbe la persona a tali rischi, ha precisato che, in prima battuta, incombe sull'estradando l'onere di allegare gli elementi e le circostanze idonei a fondare il timore che la sua estradizione preluda ad un trattamento incompatibile con i diritti fondamentali della persona.

Peraltro, secondo Sez. VI, 15 dicembre 2015, n. 04977/2016, Onikauri, Rv. 265899, il divieto di pronuncia favorevole che l'art. 705, comma secondo, lett. c), cod. proc. pen. stabilisce per i casi in cui vi sia motivo di ritenere che l'estradando verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona, opera esclusivamente nelle ipotesi in cui la allarmante situazione sia riferibile ad una scelta normativa o di fatto dello Stato richiedente, a prescindere da contingenze estranee ad orientamenti istituzionali e rispetto ai quali sia possibile comunque una tutela legale. Inoltre, la Corte ha specificato che è comunque onere dell'estradando allegare elementi idonei dai quali desumere la sussistenza di motivi ostativi, dovendosi escludere che il giudice possa decidere sulla base di semplici congetture.

Al riguardo, la già citata Sez. VI, 15 novembre 2016, n. 54467, Resneli, ha ritenuto che non si possa affermare a priori che Internet sia una fonte inattendibile per valutare se l'estradizione in uno Stato extra UE esponga l'estradando al rischio di trattamenti inumani e degradanti, potendosi, al contrario, desumere la fondatezza delle informazioni in rete da elementi oggettivi, quale l'autorevolezza dell'organizzazione internazionale titolare del sito che le diffonde.

Per contro, in altra sentenza la Corte (Sez. II, 6 ottobre 2015, n. 2282/16, Rep. Fed. Brasile, Rv. 266253), ha ritenuto che il divieto di pronuncia favorevole ove si abbia motivo di ritenere che l'estradando verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona, non opera qualora, pur in presenza di informazioni circa la violazione di tali diritti derivante da una diffusa e grave situazione di endemica violenza all'interno del sistema carcerario del Paese richiedente, quest'ultimo offra, al più alto livello governativo, specifiche assicurazioni in ordine alla destinazione dell'estradando ad un istituto penitenziario già positivamente valutato quanto al rispetto dei diritti fondamentali, e tali assicurazioni siano avvalorate dalla adesione del Paese stesso a trattati internazionali che garantiscono e promuovono il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti.

5. Misure cautelari.

È stato ritenuto legittimo il ripristino della custodia cautelare a fini estradizionali, a seguito della violazione della prescrizione degli arresti domiciliari. (Sez. VI, ord. 15 marzo 2016, n. 11048, PG, Rv. 266160).

Uno dei presupposti per l'applicazione di misure cautelari è il pericolo di fuga. Sez. III, 9 febbraio 2016, n. 23319, Daci, Rv. 267061 ha ritenuto che la sussistenza di tale requisito, che giustifica l'applicazione del provvedimento limitativo della libertà personale a fini estradizionali, deve essere motivatamente fondata su elementi specifici, concreti e sintomatici di una reale possibilità di allontanamento clandestino da parte dell'estradando, quale il possesso da parte di questo di un falso documento d'identità, valido ai fini dell'espatrio. In particolare, nel caso di specie la Corte ha anche argomentato che, mentre il possesso di documenti falsi, validi ai fini dell'espatrio, costituisce circostanza utilmente valutabile ai fini del pericolo di fuga, non lo è il mero possesso di un passaporto valido non accompagnato da ulteriori circostanze sintomatiche di un effettivo e reale intento di sottrarsi alla misura.

Sez. VI, 12 febbraio 2016, n. 07144, Kovalevskiy, Rv. 266188 si è, invece, occupata dell'aspetto particolare della possibilità di applicare una misura cautelare anche dopo l'emissione del decreto di estradizione, affermando che, una volta emesso dal Ministro della giustizia il decreto di estradizione sulla base della convenzione europea del 1957, è consentita l'applicazione della custodia cautelare nei confronti dell'estradando al fine di assicurarne la materiale consegna allo Stato istante, a nulla rilevando l'insussistenza del pericolo di fuga. La Corte ha precisato che il sindacato giurisdizionale sulla sussistenza e permanenza delle esigenze cautelari, consentito nella fase che intercorre tra la conclusione della fase c.d. giurisdizionale e il momento in cui il Ministro della giustizia pone in esecuzione il decreto di estradizione, è, invece, precluso nella successiva fase amministrativa in cui la misura coercitiva è emessa in funzione della consegna dell'estradando allo Stato istante.

Sez. VI, 15 dicembre 2015, n. 06664/2016, Hysa Bardhi, Rv. 266112, ha precisato la nozione di "pericolo di fuga", affermando che lo stesso attiene al pericolo di allontanamento dal territorio dello Stato richiesto con conseguente rischio di inosservanza dell'obbligo assunto a livello internazionale di rendere possibile ed effettiva la consegna dell'estradando al Paese richiedente, affinché risponda dei suoi comportamenti aventi rilevanza penale in quello Stato.

6. Principio di specialità.

Il principio di specialità è uno dei principi tipici delle procedure estradizionali e si basa sul concetto per cui la persona estradata verso lo Stato richiedente per determinati, specifici, reati indicati nella domanda, non può essere processata per reati diversi, non compresi in essa.

Sez. II, 8 gennaio 2016, n. 03706, P.M. in proc. Alampi, Rv. 265781, ha ritenuto che la violazione del principio di specialità, formulato dalla Stato richiesto ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite del 20 dicembre 1998, configura una condizione di procedibilità dell'azione penale per tutti i fatti commessi anteriormente all'estradizione e per i quali la stessa non sia stata richiesta. Tuttavia, Sez. II, 1 dicembre 2015, n. 8945/2016, La Torre, Rv. 265834, ha ritenuto che la mera contestazione di una aggravante, non compresa nella qualificazione del reato contenuta nella richiesta di estradizione, ed in particolare di quella di cui all'art. 7, 1. 12 luglio 1991, n. 203, non viola il principio di specialità che risulta rispettato quando gli elementi costitutivi del fatto storico per cui è stata concessa l'estradizione risultano corrispondenti a quelli per cui è intervenuta la condanna.

  • diritto penale internazionale
  • prova

CAPITOLO III

ROGATORIE

(di Andrea Venegoni )

Sommario

1 Presupposti. - 2 Procedura.

1. Presupposti.

Una delle questioni che più spesso ricorre in tema di rogatorie è quella attinente a casi in cui è necessario ricorrere ad esse, in situazioni connotate da elementi di transnazionalità. La questione di pone in particolare in riferimento all'esecuzione delle operazioni di intercettazione telefonica o di acquisizione di informazioni da strumenti informatici, anche per lo sviluppo dell'utilizzo di tali tecnologie nelle indagini. Sez. IV, 8 aprile 2016, n. 16670, Fortugno, Rv. 266983, si è occupata del problema se l'acquisizione della messaggistica, scambiata mediante sistema Blackberry, necessiti di rogatoria internazionale, atteso che, anche quando quando le comunicazioni sono avvenute in Italia, per "decriptare" i dati identificativi associati ai codici PIN è necessario ricorrere alla collaborazione del produttore del sistema operativo avente sede all'estero. La risposta è stata negativa, e quindi la S.C. ha ritenuto corretta l'attività di intercettazione del traffico telematico cd. "PIN to PIN", svolta secondo le modalità di cui all'art. 266 bis cod. proc. pen., relativa a comunicazioni registrate da terminale sito sul territorio italiano, rispetto alle quali la società canadese di gestione del traffico si era limitata a comunicare i dati in suo possesso che identificavano i possessori dei nickname associati ai codici PIN monitorati.

Ancora, decidendo su una situazione di fatto simile a quella della sentenza sopra citata, Sez. III, 29 gennaio 2016, n. 10788, Rao, Rv. 266490, ha ritenuto che il ricorso alla procedura dell'istradamento - cioè il convogliamento delle chiamate in partenza dall'estero in un nodo situato in Italia (e a maggior ragione di quelle in partenza dall'Italia verso l'estero, delle quali è certo che vengono convogliate a mezzo di gestore sito nel territorio nazionale) - non comporta la violazione delle norme sulle rogatorie internazionali, in quanto in tal modo tutta l'attività d'intercettazione, ricezione e registrazione delle telefonate viene interamente compiuta nel territorio italiano, mentre è necessario il ricorso all'assistenza giudiziaria all'estero unicamente per gli interventi da compiersi all'estero per l'intercettazione di conversazioni compiute all'estero e captate solo da un gestore straniero. In applicazione del suddetto principio, la Corte ha ritenuto legittima l'intercettazione di attività di messaggistica cd. PIN to PIN effettuata in Italia tra persone in possesso di apparecchi Blackberry, mediante immissione dei dati, trasmessi dalla società con sede in Italia, direttamente sulla memoria centralizzata installata nei locali della Procura della Repubblica).

Anche Sez. III, 3 marzo 2016, n. 25833, Violi, Rv. 267090, ha cercato di delineare i confini tra il concetto di "prova da acquisire all'estero", necessitante di rogatoria, e prova acquisibile in Italia, senza necessità di rogatoria, sebbene in situazioni con elementi di transnazionalità. Così, sempre a proposito delle intercettazioni, ha precisato che non è necessario esperire una rogatoria internazionale allorquando l'attività di captazione e di registrazione del flusso comunicativo avvenga in Italia e tanto sia nel caso di utenza mobile italiana in uso all'estero, sia nel caso di utenza mobile straniera in uso in Italia, richiedendosi il ricorso alla rogatoria solo nell'ipotesi in cui l'attività captativa sia diretta a percepire contenuti di comunicazioni o conversazioni transitanti unicamente su territorio straniero.

Sez. III, 23 marzo 2016, n. 39379, Casà, Rv. 267752, si è, invece, occupata del caso di acquisizione nel procedimento italiano di documenti provenienti dall'estero, concludendo che la stessa non necessita della procedura di rogatoria internazionale, di cui agli artt.727 e ss. cod. proc. pen., allorquando sia espletata interamente all'interno del territorio italiano e senza che sia compiuta alcuna attività materiale invasiva della territorialità di uno Stato straniero. Nella specie si trattava di un caso di dichiarazione fiscale infedele, nella quale la S.C. ha escluso la sussistenza di una violazione di legge nell'acquisizione di documenti provenienti dalla società estera, quando gli stessi erano stati ottenuti dalla PG mediante richiesta alla società consociata di diritto italiano.

2. Procedura.

Altro tema affrontato dalla giurisprudenza in materia di rogatorie riguarda, invece, gli aspetti procedurali.

In un caso di procedura "passiva", Sez. I, 14 marzo 2016, n. 34744, Rv. 267507, decidendo un conflitto di competenza, ha affermato che qualora una rogatoria dall'estero abbia ad oggetto atti da eseguirsi in più distretti, la Corte d'Appello designata dalla Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 724, comma primo bis, cod. proc. pen., può delegare l'esecuzione di taluno degli atti oggetto di rogatoria ad un giudice per le indagini preliminari di altro distretto, in quanto la scelta del legislatore di accentrare in una sola Corte d' Appello l'espletamento della rogatoria internazionale si risolve nell'affidamento a detto organo giudiziario di una valutazione discrezionale delle modalità più opportune per l'esecuzione del compito affidatole.

Sez. VI, 17 febbraio 2016, n. 23236, Billè, Rv. 267251, si è invece occupata del problema della trasmissione diretta delle rogatorie con Stati europei non facenti parte della Convenzione di Schengen, ed in particolare della Svizzera. È noto, infatti, che la suddetta Convenzione - che, seppure nata come mero accordo internazionale al di fuori del diritto comunitario, oggi fa invece pienamente parte dell'acquis communautaire - permette la trasmissione in via diretta delle rogatorie tra le autorità giudiziarie degli Stati. Tuttavia, anche sulla base della Convenzione europea di assistenza giudiziaria firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959, la trasmissione diretta delle rogatorie era diventata, nella prassi, una realtà. La Corte ha quindi ritenuto ammissibile, perché conforme alle norme convenzionali richiamate dall'art. 696, comma primo, cod. proc. pen. e, in particolare, alle prassi instauratesi sulla base di queste ultima norme, la trasmissione diretta della rogatoria tra autorità giudiziarie di Stati aderenti alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, ancorché non facenti parte della cooperazione in ambito Schengen, al di là dei limiti fissati dall'art. 15 di tale Convenzione, che, peraltro, non riguardano le richieste di indagini preliminari, tra le quali si pone la richiesta di sequestro probatorio. La fattispecie verteva, in particolare, in tema di sequestro probatorio in cui, in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto infondata l'eccezione di inutilizzabilità dei documenti provenienti dall'autorità giudiziaria svizzera, su richiesta trasmessa direttamente dall'autorità giudiziaria italiana procedente, escludendo la rilevanza nell'ordinamento giuridico italiano di eventuali violazioni delle direttive di attuazione dell'accordo italo-svizzero, ratificato con legge 5 ottobre 2001 n. 367, emanate dagli uffici svizzeri e relative alla competenza dell'apposito ufficio centrale a decidere sulle domande di assistenza giudiziaria.

SEZIONE IX GIURISDIZIONE ONORARIA

  • procedura penale
  • impunità

CAPITOLO I

L'ELABORAZIONE DELLE SEZIONI SEMPLICI IN TEMA DI PROCEDIMENTO DAVANTI ALGIUDICE DI PACE

(di Pietro Molino )

Sommario

1 Premessa. - 2 L'applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131bis cod. pen. nei reati di competenza del giudice di pace. - 3 Condotte riparatorie. - 4 In tema di appello dell'imputato.

1. Premessa.

Nell'annualità in rassegna, la Corte si è espressa in più di un'occasione nella materia del procedimento regolato dal Decreto Legislativo n. 274 del 2000.

Tali pronunce costituiscono l'occasione per fare il punto su alcune questioni di particolare rilevanza per il procedimento onorario, non solo sotto l'aspetto squisitamente applicativo ma allargando lo sguardo ai profili di sistema, anche alla luce dei possibili interventi di riforma presenti nel cantiere legislativo.

Lo sguardo si dirige, in particolare, agli ultimi approdi raggiunti dalla Corte in tema delle modalità alternative di definizione del procedimento, in rapporto:

- sia alla prospettiva di un ulteriore allargamento della competenza penale del giudice onorario - secondo quanto previsto come criterio direttivo dall'art. 2, comma 14, lett.

h) della Legge 28 aprile 2016, n. 57 (recante "Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace") - ai "procedimenti per i reati, consumati o tentati, previsti dagli articoli 612, primo e secondo comma, salvo che sussistano altre circostanze aggravanti, 626 e 651 del codice penale, nonché per le contravvenzioni previste dagli articoli 727 e 727-bis del codice penale e per quelle previste dall'articolo 6 della legge 30 aprile 1962, n. 283";

- sia, per converso, alla possibile introduzione, anche nel procedimento ordinario, dell'istituto delle "condotte riparatorie", ai sensi di quanto previsto dall'art. 1 del disegno di legge n. 2798 (recante "Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all'ordinamento penitenziario per l'effettivitàrieducativa della pena"), licenziato dalla Camera dei Deputati il 23 settembre 2015 ed in corso di approvazione al Senato della Repubblica, il cui art. 1 contempla l'inserimento nel codice penale di un art. 163-ter che disegna, appunto, per i reati procedibili a querela soggetta a remissione, un'ipotesi di estinzione del reato per condotte riparatorie sostanzialmente modellata sulla falsariga di quanto previsto dall'art. 35 del D. Lgs. 274/2000.

2. L'applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131bis cod. pen. nei reati di competenza del giudice di pace.

Richiesta di valutare la compatibilità "di sistema" della nuova causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen. (norma introdotta dall'art. 1 del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28), la giurisprudenza della Corte di cassazione è parsa attestarsi, a seguito di alcuni pronunciamenti, su una posizione tendente ad escludere l'applicabilità del nuovo istituto ai reati di competenza del giudice di pace.

In particolare, nell'anno in rassegna, Sez. 7, Ordinanza n. 1510/2016 del 04/12/2015 (dep. 15/01/2016), Bellomo, Rv. 265491 - ha affermato: - che ai sensi dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, nel procedimento davanti al giudice di pace si osservano di regola le norme contenute nel codice di procedura penale e nei titoli I e II del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, "in quanto applicabili" e salvo le specifiche eccezioni quanto ad istituti e procedimenti speciali ad esso espressamente dichiarati non applicabili;

- che il rito davanti al giudice di pace conosce l'istituto del fatto di particolare tenuità, disciplinato dall'art. 34 del D.Lgs. n. 274 del 2000, che rappresenta una disposizione speciale rispetto a quella (sia pur ratione temporis successiva) generale codicistica dell'art. 131-bis cod. pen., poiché il primo si ha quando, rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l'esercizio dell'azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato, mentre nel secondo la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, comma 1 (con parametri valutativi quindi ulteriori rispetto all'elemento costituito, ai sensi dell'art. 34 D.Lgs. n. 274 del 2000, dal solo grado della colpevolezza), l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale (anziché occasionale ex art. 34 cit.);

- che milita in tal senso anche una indicazione desumibile dai lavori preparatori del decreto legislativo n. 28 del 2015, perché il legislatore delegato non ha accolto l'invito rivolto dalla Commissione Giustizia della Camera a valutare l'opportunità di coordinare la disciplina della particolare tenuità del fatto prevista dell'art. 34 del d.lgs. 28 ottobre 2000, n. 274, in riferimento ai reati del giudice di pace, con la disciplina prevista dal provvedimento in esame ed è stato anche disatteso il suggerimento avanzato da talune precedenti Commissioni ministeriali di abrogare espressamente l'art. 34 D. Lgs. n. 274 del 2000.

La tesi ricalca quanto per la prima volta affermato - in epoca appena anteriore - in Sez. F, n. 38876 del 20/08/2015, Morreale, Rv. 264700, pronuncia che aveva sottolineato come "le analogie e le differenze esistenti tra il procedimento penale presso il giudice di pace ed il procedimento penale ordinario portano invece a ritenere che tra di essi esiste un rapporto di specialità reciproca perché, intorno ad un nucleo fondamentale comune, ruotano una serie di istituti e riti speciali, funzionali alle esigenze proprie di ciascun procedimento".

Nella sentenza Morreale si era in particolare evidenziato che, avendo l'istituto ex art. 131bis cod. pen. natura sostanziale, la sua applicazione potrebbe in effetti non risultare preclusa dall'art. 2, comma primo, del D. Lgs. n. 274 del 2000, che regola i rapporti tra procedimenti sul piano processuale: tuttavia, la presenza nel procedimento davanti al giudice onorario di una disciplina specifica del fatto di particolare tenuità, strutturata attraverso elementi non del tutto sovrapponibili rispetto a quelli che caratterizzano la disposizione introdotta nel codice penale, porta a configurare la disposizione ex art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, in considerazione della sedes materiae, come speciale rispetto a quella codicistica, sia pure ratione temporis successiva.

A riprova dello "scollamento" fra le due fattispecie tale da prospettare un rapporto di specialità reciproca, la sentenza Morreale sottolineava come l'elemento del pregiudizio alle esigenze di lavoro, studio, famiglia, salute sia del tutto estraneo rispetto all'ambito di operatività della disposizione ex art. 131-bis cod. pen., per la quale, al contrario, non ha alcun rilievo l'interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento (solo in assenza del quale, nel corso delle indagini preliminari, il giudice di pace può dichiarare con decreto d'archiviazione non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto) o il diritto di veto della persona offesa, né ancora il diritto potestativo dell'imputato a non avvalersi dell'istituto (laddove, nei procedimenti per reati di competenza del giudice di pace, se è stata esercitata l'azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l'imputato e la persona offesa non si oppongono).

Anche nella sentenza Morreale, infine, si citava - quale argomento ad ulteriore sostegno della tesi abbracciata - il mancato recepimento, da parte del legislatore delegato, dell'esortazione rivolta dalla Commissione Giustizia della Camera a valutare l'opportunità di coordinare la disciplina della particolare tenuità del fatto prevista in riferimento ai reati del giudice di pace con quella contemplata dal nuovo dell'art. 131-bis cod. pen., anche eventualmente procedendo alla abrogazione dell'art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000.

La disattenzione dell'invito deve esser letta, secondo i giudici della sentenza Morreale, come il segno della volontà normativa di tollerare la coesistenza di due modelli profondamente diversi di irrilevanza penale per tenuità del fatto: entrambi sistematicamente collocabili, almeno con riferimento alla fase del giudizio, all'interno della categoria giuridica del proscioglimento, il primo (art. 131-bis cod. pen.) subordinato alla non abitualità del comportamento, il secondo (art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000) alla sua occasionalità; il primo attento al possibile pregiudizio per le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta a indagine o dell'imputato, l'altro del tutto svincolato da tale parametro; il primo inteso a favorire l'instaurazione del contradditorio tra indagato e persona offesa nella procedura decisionale, l'altro fondato su una serie di preclusioni collegate all'interesse o alla volontà delle parti.

Argomenti non dissimili erano stati adoperati, in precedenza, anche da Sez. 4, n. 31920 del 14/07/2015, Marzola, Rv. 264420, che aveva sottolineato come la disciplina dell'articolo 131 bis cod. pen., siccome espressamente prevista per il procedimento ordinario è inapplicabile per i reati di cognizione del giudice di pace, mentre per converso l'irrilevanza del fatto ex articolo 34 può dover essere applicata anche dal giudice ordinario, giacchè tale disposizione si applica non solo davanti al giudice di pace, ma anche davanti al giudice diverso da quello di pace nei casi di cui all'articolo 63 del decreto legislativo n. 274 del 2000.

Sotto un secondo profilo, va altresì ricordato che la Corte costituzionale (sentenza n. 25 del 28/01/2015, dep. 03/03/2015) - nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 529 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 111 della Costituzione nella parte in cui non prevede(va) una formula di proscioglimento per la "particolare tenuità del fatto", "simmetrica ed analoga" a quella prevista, per i soli procedimenti penali di competenza del giudice di pace, dall'art. 34 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 - ha precisato, proprio tenendo presente in parte qua il testo della legge delega n. 67 del 2014, che il legislatore ben può introdurre una causa di proscioglimento per la "particolare tenuità del fatto" strutturata diversamente e senza richiedere tutte le condizioni previste dall'art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000, con ciò confermando che nulla impedisce a due diverse fattispecie di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto di coesistere nel medesimo ordinamento.

In tale univoco contesto è apparsa, nell'anno in rassegna, una voce dissonante - Sez. 4, n. 40699 del 19/04/2016, Colangelo, Rv. 267709 - secondo la quale "la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen., è applicabile anche nei procedimenti relativi a reati di competenza del giudice di pace, atteso che, si tratta di una disciplina diversa e più favorevole di quella prevista dall'art. 34 D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274".

In motivazione, la sentenza si confronta espressamente con i precedenti difformi ed in particolare con l'argomento valorizzato dalla sentenza Marzola, premettendo che la decisione del legislatore delegato di non raccogliere la sollecitazione a coordinare la disciplina della particolare tenuità del fatto con quella prevista dal provvedimento in esame "fu tuttavia adottata per il solo fatto che fu ritenuta estranea alle indicazioni della legge delega, donde la necessità che la possibile interferenza tra diverse disposizioni deve essere risolta dall'interprete".

Sgombrato il campo da tale preliminare impedimento, la sentenza della quarta sezione ricorda come le Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266593, pur non affrontando ex professo tale problematica, hanno comunque sottolineato il "carattere assolutamente generale" dell'istituto della particolare tenuità del fatto; in assenza di contrarie indicazioni normative, dunque, sono proprio le differenze fra i due istituti - secondo la sentenza Colangelo - a far ritenere che la disciplina sostanzialmente di maggior favore prevista dall'art. 131 bis cod. pen. sia applicabile, nel rispetto dei soli limiti espressamente indicati dalla norma, a tutti i reati, ivi compresi quelli di competenza del giudice di pace, posto che "sarebbe altamente irrazionale e contrario ai principi generali che la disciplina sulla tenuità del fatto che trova la sua ispirazione proprio nel procedimento penale avanti al giudice di pace, sia inapplicabile per i reati attribuiti alla competenza di quel giudice, ove invece dovrebbe farsi unicamente riferimento a quella specifica e più stringente di cui all'art. 34 citato".

Sul finire del 2016, la Corte è però tornata sulla posizione originaria:

- nelle coeve Sez. 5, n. 47518 del 15/09/2016, Bruno, e Sez. 5, n. 47523 del 15/09/2016, Gherghelau, entrambe non massimate, identiche nell'affermare che "i connotati di specialità rinvenibili, soprattutto sotto il profilo del ruolo della persona offesa, nella disciplina dettata dall'art. 34 d. Igs. n. 274 del 2000 escludono senz'altro che detta norma sia stata tacitamente abrogata dalla novella del 2015, non sussistendo il presupposto dell'incompatibilità tra le due diverse discipline, come confermato dai lavori preparatori della novella del 2015; i medesimi connotati conducono ad escludere che per i reati di competenza del giudice di pace possa trovare applicazione la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131 bis cod. pen., soluzione, questa, imposta dalla disciplina dettata dall'art. 16 cod. pen. e destinata appunto a regolare i rapporti tra il codice penale e le altre leggi penali, nel senso che le disposizioni del primo si applicano anche alle materie regolate dalle seconde in quanto non sia - come nella situazione in esame - da queste diversamente stabilito . . . "; soluzione che la sentenza ritiene coerente con l'interpretazione sistematica orientata a valorizzare il favore per la conciliazione tra le parti che ispira la giurisdizione penale del giudice di pace, laddove è di tutta evidenza, infatti, che la "finalità conciliativa" propria di tale giurisdizione verrebbe, inevitabilmente, compromessa dall'applicabilità della causa di non punibilità codicistica svincolata dai peculiari profili della disciplina di cui all'art. 34;

- in Sez. 5, n. 50663 del 18/10/2016, Misku, n.m., osservando, tra l'altro, come la norma generale funge da causa speciale di non punibilità, laddove mentre la disposizione speciale per i Giudici di Pace si struttura siccome causa processuale di non procedibilità: con la conseguenza che, stante la diversità di finalità e disciplina positiva tra le due norme, può trovar applicazione esclusivamente la normativa propria per i giudizi avanti il Giudice di Pace e non anche la disciplina generale posta nel codice sostanziale.

3. Condotte riparatorie.

Come noto, nell'anno precedente a quello in rassegna le Sezioni Unite (Sez. U. n. 33864 del 23/04/2015 - dep. 31/07/2015, Sbaiz) si erano pronunciate in ordine alle "condotte riparatorie" di cui all'art. 35 del D.Lgs. n. 274/2000, affermando che non sussiste l'interesse per la parte civile ad impugnare la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato ai sensi dell'art. 35 citato.

Dopo aver premesso che l'istituto dell'estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie rappresenta una peculiare forma di definizione alternativa del procedimento che, unitamente a quella di improcedibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 34 d.lgs. citato, costituisce una delle principali innovazioni introdotte dalla normativa istitutiva della figura del giudice di pace - e dopo aver ancora osservato che la correttezza della decisione è condizionata dalla prova concreta della ricerca del risultato riparatorio, in mancanza della quale la decisione assunta sarebbe erronea, in relazione ai parametri del concreto ravvedimento ricavabile dall'offerta e, soprattutto, dell'efficacia dell'attività riparatoria posta in essere nell'ottica della prevenzione di ulteriori reati - le Sezioni Unite accoglievano l'orientamento per il quale si deve escludere l'interesse della parte civile ad impugnare la sentenza dichiarativa di estinzione del reato per condotte riparatorie sia agli effetti penali che civili ex art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000, in quanto tale pronuncia, limitandosi ad accertare la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell'estinzione del reato, con valutazione operata allo stato degli atti, senza alcuna istruttoria e con sentenza predibattimentale, non riveste autorità di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno e non produce, pertanto, alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile.

Nella giurisprudenza del 2016 delle sezioni semplici si registrano diverse pronunce allineate sugli insegnamenti della sentenza Sbaiz.

In particolare, risulta indiscussa - cfr., ex multis, Sez. 5, n. 21710 del 07/01/2016, Botto; Sez. 4, n. 27087 del 15/06/2016, Sun; Sez. 7, Ordinanza n. 38625 del 05/07/2016, Ghislandi; tutte non massimate -la tesi secondo cui non sussiste l'interesse per la parte civile ad impugnare, anche ai soli fini civili, la sentenza emessa ai sensi dell'art. 35 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 a seguito di condotte riparatorie, in quanto tale pronuncia, limitandosi ad accertare la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell'estinzione del reato, non riveste autorità di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno e non produce, pertanto, alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile.

Di interesse sono gli arresti che, affrontando il tema della "congruità/idoneità" della condotta riparatoria e, in generale, della valutazione sul punto del giudice di pace, mutuano le considerazioni espresse nella sentenza Sbaiz:

- in Sez. 4, n. 48848 del 03/11/2016, Elascu, n.m., si ribadisce il concetto per il quale, qualora il giudice di pace intenda addivenire alla pronuncia di estinzione del reato ai sensi dell'art. 35, comma 1, d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274, pur nel dichiarato dissenso della persona offesa per l'inadeguatezza della somma di denaro posta a sua disposizione dall'imputato quale risarcimento, è tenuto ad esprimere una motivata valutazione di congruità della stessa con riferimento alla soddisfazione tanto delle esigenze compensative quanto di quelle retributive e preventive;

- in Sez. 4, n. 51939 del 25/10/2016, Di Berardino, n.m., si afferma che nel procedimento davanti al giudice di pace, l'operatività della speciale causa di estinzione del reato, prevista dall'art. 35 D.Lgs. 28 agosto n. 274 del 2000, presuppone sia la riparazione del danno cagionato mediante le restituzioni o il risarcimento sia l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, non essendovi alternatività tra le due condotte previste dalla norma, atteso che tali esigenze, ove sussistenti, devono essere entrambe soddisfatte.

Una segnalazione particolare merita Sez. 5, n. 32791 del 13/05/2016, Dal Bosco, così massimata: "Il giudice di pace, richiesto di dichiarare estinto il reato allorché l'imputato dimostri di aver proceduto, prima della udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato mediante le restituzioni o il risarcimento e di aver eliminato le conseguenze dannose e pericolose del reato, è tenuto a pronunciare sentenza di assoluzione, ex art. 129 cod. proc. pen., quando risulti "evidente" la ricorrenza di una delle condizioni che impongono il proscioglimento nel merito, ovvero che l'azione penale non poteva essere promossa o non può essere proseguita; gli è di conseguenza preclusa, all'interno del meccanismo applicativo dell'istituto previsto dall'art. 35 del D.Lgs. n. 274 del 2000, un'attività istruttoria volta ad accertare l'esistenza o meno del reato in tutte le sue componenti, giacché la disposizione ultima citata richiede solo che il giudice "senta" le parti ed eventualmente la persona offesa, all'unico fine di valutare la congruità dell'offerta sotto il duplice profilo risarcitorio e social-preventivo" (Rv. 267461).

In motivazione, la Corte esamina il rapporto fra le due disposizioni, osservando che la norma di cui all'art. 129 cod. proc. pen. va calata nel meccanismo applicativo dell'istituto previsto dall'art. 35 del d.lgs 274/2000: norma che, mentre esige per l'applicazione dell'istituto che il giudice "senta" le parti e la persona offesa se comparsa, non richiede invece anche l'acquisizione del fascicolo del Pubblico Ministero (contrariamente a quanto previsto da istituti aventi analoga funzione deflattiva).

Gli strumenti a disposizione del giudice - dai quali poter trarre argomenti per valutare la congruità dell'offerta, sia sotto il profilo risarcitorio che quello social-preventivo - sono quindi limitati, anche se non è escluso che il giudice, dopo aver ascoltato le parti, possa acquisire documenti idonei a valutare l'entità del danno o la gravità del reato, trattandosi di attività strettamente funzionale all'adempimento dell'obbligo su di lui gravante; è da escludere, invece, una attività di tipo istruttoria, finalizzata ad accertare l'esistenza (o insussistenza) del reato o la sua commissione da parte dell'imputato, ovvero l'insussistenza dell'elemento soggettivo, giacché verrebbe frustrata, in tal modo, la funzione dell'istituto, volto sia a realizzare una forma di giustizia conciliativa, sia a deflazionare il carico giudiziario, attraverso una forma di componimento extra giudiziario, o, più strettamente, extra processum.

Alla valutazione del giudice non può sfuggire, logicamente, l'accertamento della corrispondenza dell'imputazione al modello legale, giacché solo laddove venga contestato un fatto rientrante nel paradigma normativo si può parlare di "estinzione" del reato come conseguenza della riparazione: ma si tratta di una verifica che non deve essere necessariamente espressa, ben potendo essere contenuta nel giudizio di congruità dell'offerta, il quale presuppone - come condizione imprescindibile - proprio l'accertamento che l'offerta sia rivolta alla estinzione di un fatto costituente, in astratto, reato; tale verifica, dunque, anche se implicitamente compiuta, non può legittimare il ricorso per cassazione salvo che nei casi di "evidente" arbitrarietà della valutazione (allorché, per esempio, venga accolta l'offerta riparatoria per un fatto certamente lecito).

4. In tema di appello dell'imputato.

La Corte è intervenuta più volte, nel corso del 2016, per riaffermare il principio secondo il quale "è ammissibile l'appello proposto dall'imputato, avverso la sentenza del giudice di pace di condanna alla pena della multa, ancorché non sia stato impugnato il capo relativo alla condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, in quanto l'art. 37 D.Lgs. n. 274 del 2000 deve essere coordinato con la disposizione di cui all'art. 574, comma quarto, cod. proc. pen., per la quale l'impugnazione proposta avverso i punti della sentenza riguardanti la responsabilità dell'imputato estende i suoi effetti agli altri punti che dipendano dai primi, fra i quali sono ricompresi quelli concernenti il risarcimento del danno, che ha il necessario presupposto nell'affermazione della responsabilità penale" (da ultimo, Sez. 5, n. 42779 del 23/09/2016, Rossi, Rv. 267958).

Nell'anno precedente, infatti, si era riaperto il contrasto fra tale orientamento e quello secondo il quale, considerato che i due sistemi ordinamentali del giudice di pace e del codice di procedura penale esprimono assetti strutturalmente diversi e assimilabili solo nei ristretti ambiti e limiti previsti dall'art. 2 D.Lgs. n. 274 del 2000 e della clausola limitativa imposta dal sintagma "per tutto ciò che non è previsto dal presente decreto" che vale ad escludere ogni contaminazione non voluta dei due sistemi, di modo che tale clausola esclude che possa essere richiamata la regola di chiusura ex art. 574, comma 4, cod. proc. pen., deve allora ritenersi inammissibile l'appello proposto dall'imputato avverso la sentenza di condanna, emessa dal giudice di pace, ad una pena pecuniaria ed al risarcimento del danno in favore della parte civile, laddove si contesti il solo giudizio di responsabilità, senza cioè che venga espressamente impugnato il capo relativo alla condanna, seppure generica, al risarcimento del danno (Sez. 2, n. 31190 del 17/04/2015, Cerone, Rv. 264544).

Già in Sez. 5, n. 5017 del 14/12/2015 (dep. 08/02/2016 ), El Hajji, Rv. 266059, tuttavia, la Corte è ritornata convintamente sulla posizione maggioritaria.

In premessa, la Corte osserva che non è in discussione la peculiarità del procedimento dinanzi al giudice di pace, "modello di giustizia caratterizzato da forme particolarmente snelle, di per sè non comparabile con il procedimento per i reati di competenza del tribunale" (Corte cost., ord. n. 201 del 2004; conf. ord. n. 415 del 2005), coerente con "esigenze di massima semplificazione" (Corte cost., ord. n. 349 del 2004).

Tuttavia, secondo la sentenza El Hajji tale rilievo non può mettere in ombra il profilo essenziale dell'assetto della disciplina delle impugnazioni delle sentenze pronunciate dal giudice di pace, così come configurato dal legislatore e come delineato dalla giurisprudenza costituzionale con la sentenza n. 426 del 2008: in particolare, richiamato l'art. 17, comma 1, della legge delega n. 468 del 1999 e, in particolare, la lett. n) della disposizione (che stabilisce l'appellabilità delle sentenze emesse dal giudice di pace, ad eccezione di quelle che applicano la sola pena pecuniaria e di quelle di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria), il giudice delle leggi ha sottolineato infatti come dall'esame del testo della norma emerga che il legislatore delegante ha inteso attribuire una portata generale alla previsione dell'appellabilità delle sentenze del giudice di pace, configurando come eccezioni, dunque di stretta interpretazione, le ipotesi di loro inappellabilità. In un simile contesto, l'espressione "quelle che applicano la sola pena pecuniaria", utilizzata dal legislatore delegante ai fini dell'individuazione di una delle tassative ipotesi sottratte alla regola della proponibilità dell'appello, è riferibile alle sentenze che rechino esclusivamente condanna alla pena pecuniaria, e non anche alle sentenze in cui a questa condanna si accompagni quella al risarcimento del danno; la Corte costituzionale ha ancora osservato che l'art. 37, comma 1, d. lgs. n. 274 del 2000 ha tratto origine, come si evince dalla relazione ministeriale al decreto legislativo, dalla "preoccupazione, espressa dalla Commissione giustizia del Senato in sede di parere allo schema di decreto e recepita dal legislatore delegato, in ordine al grado di afflittività delle pronunce sul danno, possibili per somme anche notevolmente superiori all'ordinario limite di competenza per valore del giudice di pace civile".

Da tali considerazioni, la sentenza El Hajji ricava dunque la conferma del necessario coordinamento dell'art. 37 d.lgs. n. 274 del 2000 con l'art. 574, comma 4, cod. proc. pen., non riconducibile ai limiti di applicabilità della disciplina codicistica previsti dall'art. 2 dello stesso decreto, posto che il menzionato art. 37 non prevede alcuna disciplina di quello che la Relazione al progetto preliminare del codice di rito indicava come "effetto conseguenziale dell'impugnazione penale"; un effetto - quello ex art. 574, comma 4, cod. proc. pen. - che esprime il legame logico-giuridico tra l'affermazione di responsabilità penale e l'accoglimento della pretesa civilistica, nella misura in cui il capo della sentenza di condanna che riguarda l'azione civile e l'entità del danno risarcibile risulta logicamente collegato ai capi e ai punti oggetto dell'impugnazione principale dell'imputato contro la pronuncia di condanna penale.

Per ultimo, la pronuncia El Hajji osserva che ritenere che la formulazione dell'art. 37, comma 2, d. Lgs. n. 274 del 2000 renda appellabile la sentenza solo se l'impugnazione è espressamente rivolta anche ai capi civili "produrrebbe la singolare conseguenza di prevedere tre gradi di giudizio se, ad esempio, l'imputato si duole della mera entità del risarcimento ed invece solo due se nega, a monte, la fattispecie determinativa di danno (id est il fatto reato) senza avere cura di aggiungere, a mò di mera clausola di salvaguardia, che le censure da lui svolte si estendono anche alla conseguente pronuncia adottata sul piano civilistico".

Nello stesso solco ermeneutico, nell'anno in rassegna, si collocano anche Sez. 5, n. 31619 del 01/04/2016, Brescia, Rv. 267952; nonché Sez. 5, n. 35023 del 17/05/2016, Pepe, Rv. 267770 che, esprimendo piena adesione agli argomenti della El Hajji, sottolinea come identici principi sono stati affermati anche a proposito di atti di impugnazione che non riguardino la condanna al risarcimento bensì, più specificamente, quella alla rifusione delle spese processuali in favore della parte civile (cfr., sul punto, Sez. 5, n. 7455/2014 del 16/10/2013, Di Luca, Rv. 259625).

  • procedura penale
  • udienza giudiziaria
  • vittima

CAPITOLO II

MANCATA COMPARIZIONE DELLA PERSONA OFFESA ALL'UDIENZA E REMISSIONE TACITA DI QUERELA

(di Luigi Barone )

Sommario

1 Premessa. - 2 Inquadramento della questione controversa. - 3 La soluzione offerta dalle Sezioni unite "VIELE" del 2008. - 4 Il persistere del contrasto nella giurisprudenza successiva alla sentenza "Viele". - 5 La soluzione fornita dalle Sezioni unite "Pastore" del 2016. - 5.1 (Segue). L'estensione della soluzione al rito ordinario.

1. Premessa.

Nell'anno in commento le Sezioni unite sono intervenute sul tema della remissione tacita di querela per effetto della mancata comparizione della persona offesa all'udienza, affermando che integra remissione tacita di querela la mancata comparizione alla udienza dibattimentale (nella specie davanti al Giudice di pace) del querelante, previamente ed espressamente avvertito dal giudice che l'eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela (Sez. U, n. 31668 del 23/06/2016, Pastore, Rv. 267239).

La fattispecie all'esame della Corte riguardava la decisione assunta dal Giudice di pace di non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine ai reati ascrittigli, estinti per remissione di querela, sul presupposto in diritto che l'assenza in udienza tanto della persona offesa (previamente avvertita dal giudice che la sua mancata comparizione sarebbe stata considerata come volontà di conciliare la lite e, quindi, di rimettere la querela) quanto dell'imputato significasse tacita espressione, rispettivamente, di remissione e di accettazione della querela.

Il Procuratore Generale presso la Corte territoriale aveva proposto ricorso, deducendo violazione di legge, in forza del principio affermato dalle Sez. U, n. 46088 del 30/10/2008, Viele, Rv. 241357, secondo cui nel procedimento davanti al Giudice di pace instaurato a seguito di citazione disposta dal pubblico ministro, ex art. 20 d.lgs. n. 274 del 2000, la mancata comparizione del querelante - pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata ritenuta concludente nel senso della remissione tacita della querela - non costituisce fatto incompatibile con la volontà di persistere nella stessa, sì da integrare la remissione tacita, ai sensi dell'art. 152, comma 2, cod. pen..

La Quinta Sezione della Cassazione rimetteva il ricorso alle Sezioni unite, in ragione della persistenza, malgrado il citato intervento nel 2008 del massimo consesso, di un contrasto giurisprudenziale, in relazione alla questione, oggetto del ricorso proposto.

2. Inquadramento della questione controversa.

L'art. 152 cod. pen. prevede che nei reati procedibili a querela la remissione estingue il reato e aggiunge, al comma 2, che la remissione è processuale o extraprocessuale e che quest'ultima può essere espressa o tacita, aggiungendo che "vi è remissione tacita, quando il querelante ha compiuto fatti incompatibili con la volontà di persistere nella querela". Se ne desume, ad una prima lettura della norma, che la remissione tacita è prevista solo nella forma extraprocessuale e deve consistere in fatti univocamente incompatibili con la volontà di persistere nella richiesta di punizione.

Le formalità di presentazione dell'atto di remissione sono fissate dal codice di rito e precisamente dall'art. 340 cod. proc. pen., il quale si limita, tuttavia, alla sola ipotesi di remissione espressa. Dal dato normativo processuale si evince anche che la remissione processuale può essere ricevuta solo dal giudice che procede, mentre quella extraprocessuale espressa è fatta personalmente o a mezzo di procuratore speciale, con dichiarazione ricevuta da un ufficiale di polizia giudiziaria, che deve trasmetterla immediatamente alla autorità procedente (art. 340, comma 1). Le formalità previste per la dichiarazione di remissione e di accettazione sono quelle previste per la rinuncia espressa della querela (art. 340, comma 2).

Nel procedimento davanti al giudice di pace, il dato normativo di riferimento si arricchisce delle specifiche previsioni previste dal d.lgs. n. 274/2000.

Ci si riferisce alla peculiare genesi del procedimento in questione che, all'ordinaria sua instaurazione attraverso la citazione a giudizio formulata dal pubblico ministero (art. 20, novellato dall'art. 17 della L. n. 155/2005), può anche, per i reati procedibili a querela, essere promosso attraverso ricorso immediato al giudice, sottoscritto dalla persona offesa o dal suo legale rappresentante e dal difensore (art. 21).

Per questa seconda ipotesi, il legislatore ha disciplinato espressamente le conseguenze all'evenienza in cui all'udienza non compaiano la persona offesa ricorrente o le eventuali altre persone offese (non ricorrenti, ma ugualmente citate). Nel primo caso, l'art. 30, comma 1, stabilisce che "la mancata comparizione all'udienza del ricorrente o del suo procuratore speciale, non dovuta ad impossibilità a comparire per caso fortuito o forza maggiore, determina l'improcedibilità del ricorso, salvo che l'imputato o la persona offesa intervenuta e che abbia presentato querela chieda che si proceda al giudizio". Nel secondo caso, l'art. 28, dopo aver premesso (comma 1) che "il ricorso presentato da una fra più persone offese non impedisce alle altre di intervenire nel processo", stabilisce (comma 3) che "la mancata comparizione delle persone offese, alle quali il decreto sia stato regolarmente notificato ai sensi dell'art. 27, comma 4, equivale a rinuncia al diritto di querela ovvero alla remissione della querela, qualora sia stata già presentata".

Sul piano normativo, dunque, la mancata comparizione all'udienza del querelante (sia esso ricorrente o meno) comporta la (sopravvenuta) improcedibilità solo nella ipotesi disciplinata dall'art. 21, non anche in quella prevista dall'art. 20 dello stesso testo legislativo (citazione a giudizio da parte del pubblico ministero).

E tanto, è stato costantemente spiegato dalla giurisprudenza con la considerazione che nel caso di ricorso immediato della persona offesa-querelante, questa assume iniziative di impulso, non solo genericamente procedimentali, ma anche specificamente processuali ed il venir meno di tale input da parte di chi, per sua diretta iniziativa, geneticamente lo ha posto in essere e, nondimeno, non intenda più coltivarlo, giustifica appieno la conseguente improcedibilità dell'azione penale, non sussistendo più alcun interesse, né da parte dello Stato né da parte della persona offesa-querelante, all'ulteriore proseguimento del processo.

Sulla base della disciplina sin qui descritta, è stato, altresì, pacificamente ritenuto che "la remissione tacita di querela deve consistere in una univoca manifestazione di volontà, che si concreti in un comportamento del querelante, incompatibile con la volontà di persistere nella querela" e che tale non può essere ritenuta "la mera omessa comparizione dello stesso all'udienza dibattimentale relativa al processo pendente a carico del querelato" (ex multis Sez. U, n. 46088 del 30/10/2008, Viele, Rv. 241357).

Non si riscontra, invece, altrettanta uniformità di vedute con riferimento alla specifica ipotesi in cui la mancata comparizione del querelante (tanto nel rito ordinario quanto in quello davanti al giudice di pace) consegua ad un invito in tal senso rivoltogli dal giudice, contenente l'espresso avvertimento che l'eventuale assenza dal processo potrebbe essere intesa come una tacita abdicazione all'originaria istanza punitiva.

Se l'indirizzo dominante ritiene, invero, che la mancata presentazione del querelante, anche a seguito di un avviso del tipo anzidetto, non possa concretizzare una forma di remissione tacita di querela, un secondo, se pur minoritario, gruppo di arresti aderisce all'opposta opzione ermeneutica, secondo cui, nell'ipotesi in questione, l'omessa comparizione in udienza del querelante configurerebbe una tacita remissione di querela, stante la contraddizione logica del comportamento rinunciatario assunto rispetto alla volontà di ottenere la punizione dell'imputato manifestata con la querela.

Si è anticipato nel paragrafo introduttivo che la questione controversa, particolarmente dibattuta nei procedimenti davanti al giudice di pace, risulta essere stata già una volta sottoposta al vaglio delle Sezioni unite della Cassazione, le quali nel 2008 hanno optato per la tesi maggioritaria (Sez. U, n. 46088 del 30/10/2008, Viele, Rv. 241357).

L'intervento del massimo organo della nomofilachia non è, però, valso a sopire le critiche che sino ad allora la dottrina prevalente aveva mosso all'indirizzo maggioritario, nonché il dibattito interno alla giurisprudenza, ove, a quella di merito per lo più ancorata all'orientamento minoritario, non sono mancate, specie nell'ultimo periodo, pronunce, che hanno dato nuovo seguito all'indirizzo, a suo tempo disatteso dalle Sezioni unite, introducendo rispetto a quanto argomentato da queste ultime nuovi motivi di riflessione.

Questi in estrema sintesi l'andamento e il contenuto del contrasto giurisprudenziale in discussione, la cui disamina non può non prendere avvio dalle affermazioni di principio espresse nel 2008 dalle Sezioni unite.

3. La soluzione offerta dalle Sezioni unite "VIELE" del 2008.

Con la sentenza n. 46088 del 30/10/2008, Viele, Rv. 241357, le Sezioni unite avevano escluso che dalla volontaria assenza dal processo della persona offesa, informata del significato che a tale comportamento il giudice avrebbe potuto conferire, possa desumersi la tacita volontà remittente del querelante, trattandosi di un comportamento compatibile con la determinazione di insistere nella originaria istanza punitiva. In estrema sintesi, quelli che seguono furono gli argomenti fondanti espressi nell'occasione dal massimo organo della Cassazione.

a) Il comportamento omissivo della persona offesa realizzerebbe una inammissibile remissione processuale tacita di querela, per via del disposto dell'art. 152, comma 2, cod. pen., che prevede soltanto per la remissione extraprocessuale la forma tacita, da individuarsi in comportamenti del querelante incompatibili con la volontà di persistere nella querela, che devono, però, rilevare nel mondo esterno, pur non rimanendo confinati nel limbo di eventuali stati d'animo, di meri orientamenti eventualmente internamente programmati.

b) Esclusione dell'applicabilità in via analogica delle norme dettate per le ipotesi di mancata comparizione a seguito di ricorso immediato della persona offesa. In questi casi, l'art. 30, comma 1, d. lgs. cit., stabilisce che la mancata comparizione all'udienza del ricorrente determina l'improcedibilità del ricorso, mentre per il caso in cui a non comparire siano persone offese diverse dal ricorrente, l'art. 28, comma 3, d. lgs. cit., prevede che la mancata comparizione . . . equivale a rinuncia al diritto di querela ovvero alla remissione della querela, qualora sia stata già presentata.

La disciplina trova la sua specifica ragion d'essere in un ambito processuale (quello innanzi il giudice di pace), nel quale la persona offesa-querelante assume una iniziativa di impulso non solo genericamente procedimentale, ma anche specificamente processuale ed il venir meno dell'impulso processuale da parte di chi, per sua diretta iniziativa, geneticamente lo ha posto in essere e, nondimeno, non intenda più coltivarlo, giustifica appieno la conseguente improcedibilità dell'azione penale, non sussistendo più alcun interesse, né da parte dello Stato né da parte della persona offesa-querelante, all'ulteriore proseguimento del processo.

L'"eccezionalità" o "settorialità" della regolamentazione, a tale ratio improntata, non è affatto evocabile in situazioni ben diverse, per cui al di fuori di quella specifica ipotesi positivamente disciplinata, e quindi sotto il generale profilo delineato dall'art. 152 cod. pen., non è affatto previsto dalla legge che la mancata presentazione nel processo del querelante, pur in presenza di espresso avviso del giudice in tal senso, possa comportare l'improcedibilità dell'azione penale. Siffatta conseguenza sanzionatoria non è in alcun caso contemplata e disciplinata nell'ordinamento.

c) Nessuna incidenza del favor conciliationis ai fini della soluzione della questione. Escludono, infine, le Sezioni unite che sul tema dibattuto possa giocare un ruolo significativo il disposto dell'art. 2, comma 2, d. lgs. n. 274 del 2000, secondo cui "nel corso del procedimento, il giudice di pace deve favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti"; né l'omologa previsione dell'art. 555, comma 3, cod. proc. pen., a termini del quale, nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, "il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, verifica se il querelante è disposto a rimettere la querela ed il querelato ad accettare la remissione". Il tentativo di conciliazione da tali norme evocato costituisce, invero, sicuramente prerogativa del giudice di pace o del tribunale in composizione monocratica, ma non è dato al giudice, in mancanza di espressa previsione normativa, di fissare e predeterminare egli stesso una specifica condotta che debba poi essere ineluttabilmente (univocamente ed oggettivamente, di per sé) interpretata come sicura accettazione di quel tentativo, né le conseguenze sanzionatorie che scaturirebbero dall'inottemperanza all'invito conciliativo: questo egli propone, ma la sua accettazione non può esser desunta dal silenzio nel quale si concretizza la mancata comparizione del querelante. Ai sensi del precitato art. 555, comma 3, cit. "il giudice verifica se il querelante è disposto a rimettere la querela" e la remissione della querela presuppone che la parte sia "disposta" a tanto, ma impone, poi, pur sempre che la remissione consegua a tale interna "disposizione". Ed il tentativo di conciliazione ex art. 2, comma 2, d. lgs. cit. scaturisce da una iniziativa in tal senso del giudice, ma comporta poi il positivo accertamento della effettiva conciliazione, secondo quanto prescritto dall'art. 29, comma 5, cit., il cui disposto sarebbe del tutto vanificato, nella sua specifica cadenza procedimentale, dalla non prevista scorciatoia del previo avviso a comparire con esplicitati effetti sanzionatori.

4. Il persistere del contrasto nella giurisprudenza successiva alla sentenza "Viele".

L'opzione ermeneutica prescelta dalle Sezioni unite ha trovato, per un lungo periodo, pieno seguito nella giurisprudenza di legittimità (ex multis: Sez. 6, n. 11142 del 25/02/2010, Lombardi, Rv. 247014; Sez. 4, n. 18187 del 28/03/2013, De Luca, Rv. 255231; Sez. 4, n. 4059 del 12/12/2013, dep. 2014, Lussana, Rv. 258437; Sez. 5, n. 12187 dell'8/3/16, Miranda, Rv. 266331; nonché le recentissime, anche se non massimate, Sez. 5, n. 16113 del 10/12/2015, dep. 2016, Tiano; Sez. 5, n. 16687 del 18/12/2015, dep. 2016, Terella ed altro; Sez. 5, n. 18240 del 7/1/2016, Ciferri; Sez. 5, n. 18898 del 3/02/2016, Sirignano; Sez. 5, n. 18280 dell'11/02/2016, Cerlenco, Rv. 266440; Sez. 5, n. 21384 del 18/04/2016, Tilli; Sez. 5, n. 21361 del 16/10/2015, dep. 2016, Occhipinti, in una fattispecie nella quale il giudice di pace aveva desunto la volontà tacita di rimettere la querela nel comportamento della persona offesa, che si era resa irreperibile, indicando non esattamente il proprio recapito telefonico, indispensabile per essere recapitata).

Dopo un periodo di pieno adeguamento al principio affermato dalle Sezioni unite, la giurisprudenza di legittimità è tornata, però, in epoca recente ad oscillare sul tema oggetto della presente relazione, registrando al proprio interno arresti, che hanno ridato voce all'indirizzo minoritario, che si era affermato prima del 2008.

In tal senso, si sono pronunciate Sez. 5, n. 8638 del 22/12/2015, dep. 2016, Pepkola, Rv. 265972; Sez. 5, n. 12186 del 22/12/2015, dep. 2016, D'Orazio, Rv. 266374; Sez. 5, n. 12417 dell'1/02/16, Onorato, concordi tra loro nell'affermare che, nel procedimento dinanzi al giudice di pace, la mancata comparizione della persona offesa - previamente e chiaramente avvisata del fatto che l'eventuale successiva assenza possa essere interpretata come volontà di non insistere nell'istanza di punizione - integra gli estremi della remissione tacita della querela, a condizione che la persona offesa sia stata avvisata del fatto che l'eventuale sua successiva assenza poteva essere interpretata come volontà di non insistere nell'istanza punitiva e che non sussistano manifestazioni di segno opposto.

5. La soluzione fornita dalle Sezioni unite "Pastore" del 2016.

Nuovamente investite, pertanto, della questione, le Sezioni unite, con la sentenza "Pastore", si sono discostate dall'indirizzo maggioritario, confutando i relativi argomenti fondanti, a cominciare dalla nozione di remissione tacita processuale ed extraprocessuale.

Al riguardo il massimo collegio ha osservato che la remissione della querela presuppone che un procedimento penale sia già avviato, sicché le condotte indicative di una volontà di rimettere la querela devono necessariamente essere veicolate verso l'autorità giudiziaria, e da questa apprezzate, non importa in quale stato e grado del procedimento.

Manifestazioni formali di una volontà di rimettere la querela o fatti "incompatibili con la volontà di persistere nella querela" possono dunque pervenire nelle forme più varie all'autorità giudiziaria procedente, che, al di fuori dei casi di remissione formalmente processuale, potrà valutare se la condotta o l'atto ricollegabile al querelante possa valere come remissione extraprocessuale espressa o tacita.

La remissione processuale va, pertanto, identificata in una formale espressione della volontà della parte querelante che interviene nel processo, direttamente o a mezzo di procuratore speciale, ricevuta dall'autorità giudiziaria che procede. In ogni altro caso la condotta significativa di una volontà di rimettere la querela va valutata come extraprocessuale, dovendosi distinguere il luogo della manifestazione della "volontà-comportamento" dal luogo di apprezzamento della efficacia dello stesso, essendo quest'ultimo invariabilmente "processuale".

Questo primo rilievo ha consentito alla Corte di ritenere che, nella fattispecie al suo esame, la condotta, costituita dal non essere il querelante comparso in udienza a seguito dell'avvertimento che ciò sarebbe stato considerato volontà implicita di rimessione della querela, può bene essere inquadrata nel concetto di fatto di natura extraprocessuale incompatibile con la volontà di persistere nella querela, a norma dell'art. 152, comma 2, cod. pen..

Il problema è, semmai, quello di stabilire se legittimamente possa essere attribuito un simile valore di remissione tacita della querela alla mancata comparizione in dibattimento del querelante, previamente avvertito dal giudice (di pace) che tale condotta sarebbe stata considerata in tal senso. Un significato, dunque, non collegato alla mera mancata comparizione del querelante davanti al giudice ma alla combinazione di tale condotta omissiva con il previo formale avvertimento del significato che ad essa sarebbe stato attribuito.

La giurisprudenza maggioritaria, si è visto, era orientata nel senso che la mancata comparizione del querelante potrebbe rilevare esclusivamente nel caso di ricorso immediato al giudice, ai sensi dell'art. 21, d.lgs. n. 274 del 2000, perché solo ad esso si riferisce la disposizione dell'art. 30, comma 1, decr. cit., che ricollega alla mancata comparizione della persona offesa un effetto di improcedibilità del ricorso (e ciò senza necessità di alcun previo avviso circa tale conseguenza).

La sentenza "Viele" aveva aggiunto che, comunque, un siffatto avvertimento del giudice sarebbe stato da considerarsi tamquam non esset, poiché, pur costituendo prerogativa e dovere del giudice di pace il tentativo di conciliazione, non è "dato al giudice, in mancanza di espressa previsione normativa, di fissare e predeterminare egli stesso una specifica condotta che debba poi essere ineluttabilmente ( . . . ) interpretata come sicura accettazione di quel tentativo, né le conseguenze sanzionatorie che scaturirebbero dall'inottemperanza all'invito conciliativo".

Le Sezioni unite "Pastore" si sono discostate da questo rilievo.

È ben vero, si legge infatti in sentenza, che un simile avvertimento alla persona offesa querelante non è contemplato espressamente nel procedimento davanti al giudice di pace nei casi di citazione a giudizio emessa dal pubblico ministero (d.lgs. n. 274 del 2000, art. 20); ma tale iniziativa non è dissonante rispetto alla generale fisionomia del procedimento, che prevede, all'art. 2, comma 2, l'impegno del giudice di pace di "favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti", ed è in linea con la specifica previsione dell'art. 29, comma 4 (che vale per entrambi i riti di introduzione della udienza) secondo cui il giudice, proprio con riferimento al caso di reato perseguibile a querela, "promuove la conciliazione tra le parti".

Nella finalità di promuovere la conciliazione tra le parti, nei casi di reati perseguibili a querela (che costituisce un preciso dovere del giudice di pace: cfr. legge-delega 24 novembre 1999, n. 468, art. 17, comma 1, lett. g), è attribuita al giudice un'ampia scelta di iniziative: tra l'altro, egli "può rinviare l'udienza per un periodo non superiore a due mesi e, ove occorra, può avvalersi anche dell'attività di mediazione di centri e strutture pubbliche e private presenti sul territorio" (art. 29, comma 4, cit.).

In tali casi, l'attività di conciliazione, se fruttuosa, può sfociare (art. 29, comma 5) nella formale remissione della querela e nella formale "accettazione" di questa (più propriamente, ex art. 155 c.p., "mancanza di ricusa" della remissione), per le quali, evidentemente, si richiede necessariamente la presenza del querelante e del querelato che non si siano già attivati in tal senso.

Ma, in considerazione della previsione di un inderogabile dovere del giudice di pace di favorire la conciliazione tra le parti nei casi di reati perseguibili a querela, ben può essere riconosciuta al giudice stesso la scelta delle modalità più opportune per perseguire tale obiettivo, se del caso rendendo avvertite le parti della valutazione che potrebbe essere attribuita a una loro condotta passiva: volontà tacita del querelante di rimessione e mancanza di volontà di ricusa del querelato.

Una analoga iniziativa giudiziale, proprio in una fattispecie di procedimento davanti al giudice di pace, è stata del resto riconosciuta dalle Sezioni Unite (n. 27610 del 25/05/2011, Marano, Rv. 250201) come legittima e idonea a rendere avvertito il querelato che la sua mancata comparizione sarebbe stata interpretata come assenza di volontà di ricusa della remissione; e (si legge testualmente in sentenza), al di là delle differenze sul piano psicologico e strutturale che caratterizzano la volontà di remissione della querela e la mancanza di ricusa della remissione, efficacemente evidenziate nella citata sentenza, non vi sono ragioni per non estendere una simile conclusione anche alla posizione del querelante.

Da tutto ciò, le Sezioni unite traggono la conclusione, non contrastante con il tenore formale della disciplina ed è anzi in linea con la sua complessiva ratio, secondo cui nell'ambito del procedimento davanti al giudice di pace per reati perseguibili a querela, dalla mancata comparizione della persona offesa che sia stata previamente e specificamente avvertita delle relative conseguenze deriva l'effetto di una tacita volontà di remissione di querela. Ciò anche, si precisa nel caso di procedimento instaurato su citazione del p.m., stante il dovere del giudice di promuovere la conciliazione tra le parti.

Resta naturalmente fermo che, nel caso in cui il procedimento sia stato instaurato dal p.m. ex art. 20, d.lgs. n. 274 del 2000, la mancata comparizione della persona offesa alla udienza di comparizione, in difetto di un previo e specifico avvertimento del giudice, non può di per sè essere interpretata come tacita volontà di remissione della querela.

5.1. (Segue). L'estensione della soluzione al rito ordinario.

Le considerazioni svolte assumono per le Sezioni unite una portata generale, tale per cui la mancata comparizione della persona offesa in caso di reati perseguibili a querela rileva allo stesso modo nei procedimenti davanti al giudice di pace e nel rito ordinario.

Già l'art. 555, comma 3, cod. proc. pen., con riferimento ai reati a citazione diretta, prevede che nella udienza di comparizione il giudice, "quando il reato e' perseguibile a querela, verifica se il querelante è disposto a rimettere la querela e il querelato ad accettare la remissione".

Da ultimo, con l'introduzione dell'art. 90 bis cod. proc. pen., ad opera del d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 (attuativo della direttiva 2012/29/UE in tema di norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato), il legislatore, nel quadro della valorizzazione delle esigenze informative della persona offesa, ha previsto al comma 1, lett. n), che ad essa, sin dal primo contatto con l'autorità procedente, sia data informazione in merito "alla possibilità che il procedimento sia definito con remissione di querela di cui all'art. 152 cod. pen., ove possibile, o attraverso la mediazione".

In tale contesto normativo, teso a rafforzare le esigenze informative delle vittime dei reati, alle quali vanno peraltro specularmente assegnati altrettanti oneri di partecipazione al processo, va certamente considerata come legittima ed anzi auspicabile una prassi alla stregua della quale il giudice, nel disporre la citazione delle parti, abbia cura di inserire un avvertimento alla persona offesa e al querelato circa la valutazione in termini di remissione della querela della mancata comparizione del querelante e di mancanza di ricusa della remissione della mancata comparizione del querelato.

Una simile opportuna iniziativa è letta dalla Corte in piena sintonia con il rispetto del principio della ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111, comma 2, Cost., favorendo definizioni del procedimento che passino attraverso la verifica dell'assenza di un perdurante interesse della persona offesa all'accertamento delle responsabilità penali e precludano sin dalle prime battute lo svolgimento di sterili attività processuali destinate a concludersi comunque con un esito di improcedibilità dell'azione penale o di estinzione del reato.

Sulla base delle considerazioni svolte, il massimo organo della Cassazione è così pervenuto alla enunciazione del principio, anticipato in premessa, secondo cui integra remissione tacita di querela la mancata comparizione alla udienza dibattimentale del querelante previamente ed espressamente avvertito dal giudice che l'eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela.