PARTE TERZA - LE RECENTI RIFORME NELL'APPLICAZIONE DELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ --- SEZIONE I DIVERSION E PROCESSO PENALE

Sommario

PREMESSA

PREMESSA.

All'indomani della sentenza pilota della Corte EDU, 8 gennaio 2013, "Torreggiani", che, esaminando gli effetti della drammatica condizione di sovraffollamento delle carceri, ha condannato l'Italia per violazione dell'art. 3 della Convenzione, il legislatore ha avviato un profondo ripensamento del sistema penale, in tutte le sue aree, da quella sostanziale a quella processuale (della cognizione e dell'esecuzione della pena), al fine di sfoltire il numero di detenuti, di tutelarne la condizione all'interno delle carceri, lì dove persistessero condizioni di detenzione disumane e degradanti, di favorire l'ingresso a sanzioni non penali o comunque alternative alla detenzione.

Sul piano strettamente processuale, il proposito è quello di dar vita a un più efficace meccanismo di doppio binario processuale, idoneo a selezionare, per la trattazione con il rito ordinario, i procedimenti afferenti a fatti (veramente) meritevoli dell'accertamento dibattimentale, implementando, per tutte le altre ipotesi, modalità alternative di definizione degli affari penali.

E così, se una serie di reati bagatellari "propri", ritenuti ormai privi di offensività, sono stati oggetto di depenalizzazione (d.lgs. 15 Gennaio 2016, n. 8) o di abrogazione (d.lgs. 15 Gennaio 2016, n. 7), una serie di altri reati, cd. "bagatellari impropri", sono stati attratti nel meccanismo deflattivo, attraverso l'introduzione della causa di non punibilità della tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.) e della "messa alla prova"; adatta, quest'ultima, a far conseguire un significativo sgravio del carico giudiziario e penitenziario e, al contempo, a ricucire lo strappo sociale provocato dalla condotta criminosa.

Queste ultime previsioni sono da ricomprendere nell'ambito della categoria delle diversion, intendendo con questa espressione ogni deviazione dalla normale sequenza di atti del processo penale prima della pronuncia sull'imputazione.

Nello specifico, la particolare tenuità del fatto si inquadra tra gli strumenti di deflazione processuale volti a fronteggiare il fenomeno della crescente domanda di giustizia e del conseguente ingolfamento del sistema giudiziario. Esso consente di non procedere in relazione a quei reati, in astratto non ritenuti privi di offensività, ma che possono essere attratti nel meccanismo deflattivo in questione, se nel caso concreto si rivelano di esigua lesività, tanto da far perdere l'interesse ad un loro perseguimento penale. Il fatto integra una fattispecie criminosa in tutti i suoi aspetti, soggettivi ed oggettivi, ma è la sua concreta manifestazione ad essere apprezzata in termini di particolare tenuità, tanto da far venire meno l'interesse al perseguimento del reato.

L'istituto non costituisce una novità nell'ordinamento penale italiano, affiancandosi alle omologhe previsioni contenute nel rito minorile (irrilevanza del fatto disciplinata dall'art. 27 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448) e nel procedimento penale davanti al giudice di pace (esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto, regolamentata dall'art. 34, d.l.vo 28 agosto 2000, n. 274).

La disciplina dell'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, dettata adesso anche per il rito ordinario, si articola in una norma di parte generale sostanziale (art. 131-bis cod. pen.) e in una serie di disposizioni processuali, contenute nel codice di rito, relative alle condizioni di applicabilità dell'istituto alle varie fasi del procedimento; nelle richiamate omologhe previsioni "del giudice di pace" e del rito minorile, la normativa è, invece, racchiusa in un unico articolo di legge (34, cit. per i reati di competenza del giudice di pace; 27, d.P.R., cit., per il processo a carico del minore imputato), comprensivo di profili prettamente processuali, di altri di natura sostanziale (esiguità del danno, occasionalità della condotta, grado della colpevolezza) pressoché coincidenti con quelli previsti dall'art. 131-bis e di altri ancora di natura soggettiva, prettamente rispondenti alle peculiarità del rito, nel quale l'istituto è stato concepito.

L'istituto della messa alla prova (da qui in avanti: m.a.p.), anch'esso già previsto nel rito minorile dall'art. 28 d.P.R. n. 448 del 1988, è stato coniato per il rito ordinario degli adulti dalla 1. 28 aprile 2014, n. 67, che all'art. 3 ha introdotto nel codice penale gli artt. 168-bis, 168-ter e 168-quater e al successivo art. 4 ha inserito nel libro VI del codice di procedura penale il nuovo titolo V-bis, comprendente gli artt. da 464-bis a 464-novies.

Tale articolazione sottolinea la duplice valenza, sia sostanziale che processuale, dell'istituto, che prelude all'estinzione del reato in conseguenza dell'esito positivo della prova (art. 168-ter, comma 2), configurando al tempo stesso una forma alternativa di definizione del processo.

In sostanza, questa nuova figura, di ispirazione anglosassone, realizza una rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita[1].

Più precisamente, quello introdotta dalla legge n. 67 è una prova giudiziale nella fase istruttoria, assimilabile al modello adottato nel procedimento minorile (art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988 e art. 27 delle relative norme di attuazione, approvate con d.lgs. n. 272 del 1989), nel quale la m.a.p. precede la pronuncia di una sentenza di condanna[2].

A differenza, però, di quella minorile, dettata essenzialmente da istanze volte a promuovere nell'imputato un percorso di maturazione e di rivisitazione critica del proprio operato e, al contempo, a limitarne la permanenza nel circuito penale (ex multis, Sez. 5, n. 14035 del 07/12/2012, dep. 2013, G. e altro, Rv. 256772), la m.a.p. degli adulti è connaturata dalle finalità deflattive, di cui si è detto in premessa[3].

Da qui il carattere innovativo, rimarcato anche dalla dottrina, dell'istituto, che segna un ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio, riportando nell'idea rieducativa, quale principio fondamentale del sistema sanzionatorio penale, un complesso e integrato sistema di aiuto sociale, sul presupposto che la politica sociale è la migliore politica criminale e il diritto penale l'extrema ratio della politica sociale[4] [5] [6].

  • giurisdizione penale
  • codice penale

CAPITOLO I

LA CAUSA DI NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO

(di Piero Silvestri )

Sommario

1 La questione di diritto su cui sono intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione. - 2 Il principio di offensività come criterio di controllo sui contenuti delle fattispecie penali. La giurisprudenza della Corte Costituzionale. Cenni. - 2.1 (Segue). Principio di offensività, reati di pericolo presunto e soglie di punibilità. - 2.2 (Segue). Il principio di offensività come concreto canone interpretativo anche per i reati di pericolo astratto e per quelli che prevedono soglie di punibilità. - 3 Principio di offensività e particolare tenuità del fatto. - 4 I termini del contrasto giurisprudenziale: la guida in stato di ebbrezza. Cenni. - 4.1 (segue). La tesi secondo cui la causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen. sarebbe compatibile con la previsione di diverse soglie di rilevanza penale nel reato di guida in stato di ebbrezza. - 4.2 (Segue). La tesi della non compatibilità: la pronuncia "Tushaj". - 5 La contravvenzione prevista dall'art. 186, comma 7, C.d.S.: il rifiuto di sottoporsi all'accertamento. Cenni. - 5.1 (Segue). La tesi secondo cui la causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod, pen. sarebbe compatibile con il reato previsto dall'art. 186, comma 7, C.d.S. - 5.2 (segue). La tesi della incompatibilità. - 6 L'intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione: i principi affermati. - 6.1 (segue). Tenuità del fatto e reati con soglia di punibilità: la guida in stato di ebbrezza. - 6.2 (segue). Tenuità del fatto e rifiuto di sottoporsi ad accertamento alcoolemico (art. 186, comma 7, C.d.S.). - 6.3 (segue). Le implicazioni processuali discendenti dai principi affermati. - 7 La diversa impostazione dogmatica della sentenza Markiku. - 8 Le ulteriori sentenze della Corte di cassazione.

1. La questione di diritto su cui sono intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione.

La questione su cui nel 2016 sono intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione ha riguardato molteplici profili.

Il primo attiene ai presupposti, alla struttura e alla natura giuridica del nuovo istituto previsto dall'art. 131-bis cod. pen.

Il secondo attiene al come il nuovo istituto si rapporti con il principio di offensività, con particolare riguardo ai reati di pericolo come quello di guida in stato di ebbrezza, in cui sono presenti soglie di punibilità crescenti, ovvero quello di rifiuto di sottoporsi ad accertamento alcoolemico.

Il terzo inerisce al contenuto ed al valore dell'accertamento posto alla base della pronuncia con cui è dichiarata la particolare tenuità del fatto e, in particolare, se tale accertamento possa fungere da presupposto per disporre ulteriori conseguenze, quali, ad esempio, sanzioni amministrative accessorie.

2. Il principio di offensività come criterio di controllo sui contenuti delle fattispecie penali. La giurisprudenza della Corte Costituzionale. Cenni.

Il principio di offensività è tradizionalmente oggetto di attenzione da parte della Corte costituzionale sotto un duplice profilo.

Il primo attiene al controllo delle scelte di politica criminale; il secondo inerisce al criterio ermeneutico indirizzato al giudice, posto che una "lettura sistematica" dell'art. 25 Cost. "postula un ininterrotto operare del principio di offensività dal omento dell'astratta predisposizione normativa a quello dell'applicazione concreta da parte del giudice" (Corte cost., sent. n. 263 del 2000; n. 225 del 2008).

In questa sede è opportuno evidenziare come, sotto il primo profilo, la Corte costituzionale abbia in più occasioni sottolineato, da una lato, come l'utilizzo della sanzione penale sia giustificato solo dalla necessità di tutelare " valori almeno di rilievo costituzionale" (Corte cost., sent. n. 364 del 1988) e, dall'altro, come, quanto al vaglio sulla necessaria attitudine lesiva dei comportamenti incriminati rispetto a beni "meritevoli di tutela", il canone di offensività costituisca il limite di rango costituzionale alla discrezionalità legislativa che spetta indubbiamente alla stessa Corte di rilevare (Corte cost., sent. n. 360 del 1995; n. 263 del 2000; n. 354 del 2002).

Tali importanti affermazioni di principio si sono in passato tradotte in un concreto vaglio sulla consistenza e sulla quotazione del bene interesse/valore dedotto come oggetto di tutela della norma penale, condotto sulla base di un percorso argomentativo che ha inquadrato le valutazioni sulla offensività nell'ambito del paradigma della ragionevolezza o della irragionevolezza rispetto ai valori o agli scopi.

2.1. (Segue). Principio di offensività, reati di pericolo presunto e soglie di punibilità.

Anche con riferimento ai profili strutturali della fattispecie penale, la Corte Costituzionale ha sostanzialmente riservato al legislatore il livello e il modulo di anticipazione della tutela, rinunciando di fatto a sindacare le stesse scelte di costruzione dell'illecito penale secondo lo schema del reato di danno o di pericolo, ovvero secondo una particolare forma di tipizzazione del pericolo.

Si è ribadito che l'ampia discrezionalità che va riconosciuta al legislatore penale si estende anche alla scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni e/o interessi e che "rientra in detta sfera di discrezionalità l'opzione per le forme di tutela avanzata, che colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo . . .nonché, correlativamente, l'individuazione della soglia di pericolosità punitiva alla quale riconnettere la risposta punitiva" (Corte cost., sent. n. 225 del 2008).

Dunque, anche le anticipazioni di tutela declinate su specifiche presunzioni di pericolosità (reati di pericolo astratto o presunto, come, appunto, la guida in stato di ebbrezza) non risultano in sé insindacabili, almeno fino a quando tale scelta non appaia manifestamente "irrazionale o arbitraria", contrastando con l'id quod plerumque accidit (in questo senso, Corte cost., sent. n. 1 del 1971, n. 71 del 1978, n. 139 del 1982, n. 126 del 1983, n. 62 del 1986, n. 333 del 1991, n. 132 del 1992, n. 360 del 1995).

Sul tema, esemplificativi, sono i principi fissati nella sentenza n. 333 del 1991 in materia di stupefacenti, in cui, affermato che "le incriminazioni di pericolo presunto non sono incompatibili in via di principio con il dettato costituzionale", la Corte ha puntualizzato che "è riservata al legislatore l'individuazione sia delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo sia della soglia di pericolosità alla quale fare riferimento, purché, peraltro, l'una e l'altra determinazione non siano irrazionali o arbitrarie, ciò che si verifica allorquando esse non siano collegabili all'id quod plerumque accidit".

In tale contesto si pone il tema del rapporto tra principio di offensività e fattispecie in cui il legislatore fa riferimento alle c.d. "soglie di punibilità".

A titolo puramente esemplificativo e senza alcuna pretesa di completezza, si può fare riferimento, oltre che al reato previsto dall'art. 186 del Codice della strada, al delitto di indebita percezione di erogazione da arte dello Stato, a molti reati tributari, e, in materia ambientale, al reato di superamento dei valori limite in caso di scarico di acque reflue industriali (art. 137 del d. lvo 3 aprile 2006, n. 152), di deposito temporaneo presso il luogo di produzione di rifiuti sanitari pericolosi (art. 256, comma 6, d.lvo. cit.).

Anche in relazione a tali tipologie di reati, la Corte Costituzionale ha escluso di poter adottare una pronuncia che, intervenendo sulle soglie di punibilità, comporti l'estensione dell'ambito applicativo delle norme penali, ribadendo il principio secondo cui tale scelta "resta comunque . . .sottratta al sindacato di questa Corte, la quale non potrebbe, senza esorbitare dai propri compiti ed invadere il campo riservato dall'art. 25 Cost. al legislatore, . . .sovrapporre ad essa . . .una diversa strategia di criminalizzazione, volta ad ampliare l'area di operatività della sanzione prevista dalla norma incriminatrice" (Corte cost., sent. n. 161 del 2004 in tema di false comunicazioni sociali; analogamente, n. 49 del 2002 in materia penale tributaria).

Anche i reati nei quali sono previste soglie di punibilità sono quindi compatibili, seppur con i limiti indicati, con i principi di offensività e di riserva di legge.

2.2. (Segue). Il principio di offensività come concreto canone interpretativo anche per i reati di pericolo astratto e per quelli che prevedono soglie di punibilità.

Oltre ad averlo valorizzato come canone di politica criminale fondamentale indirizzato al legislatore, è ormai consolidata nella giurisprudenza della Corte costituzionale l'affermazione secondo cui il principio di offensività costituisce sempre un criterio ermeneutico rivolto al giudice, come tramite per una rilettura sostanzialistica di fattispecie declinate su una pericolosità presunta o astratta, o costruite su vere e proprie presunzioni di pericolo: in tale veste si è riconosciuto al principio in esame il valore di "canone interpretativo universalmente accettato", tale da imporre al giudice il compito di accertare di volta in volta che il comportamento solo astrattamente pericoloso abbia raggiunto un minimum di offensività nella fattispecie oggetto di giudizio.

Se, da un lato, si è affermato che l'ampia discrezionalità da riconoscersi al legislatore penale si estende anche alla scelta di protezione penale dei singoli beni e o interessi e che in essa va ricompresa la possibilità di scegliere forme di tutela avanzata che colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, dall'altro, si è ribadito che tali soluzioni devono misurarsi, nondimeno, con l'esigenza di rispetto del principio di necessaria offensività del reato in una ripartizione di competenze tra giudice costituzionale e giudice ordinario "spetta. . . .alla Corte- tramite lo strumento del sindacato di Costituzionalità - procedere alla verifica dell'offensività in astratto acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo. . . . ma ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario" (Corte cost., sent. n. 225 del 2008; n. 62 del 1986; ord. n. 437 del 1989, in tema di reati tributari, sent. n. 333 del 1991, n. 133 del 1992, n. 360 del 1995, n. 296 del 1996, in materia di stupefacenti; n. 172 del 2014 in tema di atti persecutori).

L'impiego ermeneutico del principio di offensività ha trovato applicazione anche in un campo, quale quello dei c.d. "reati di sospetto", da sempre ispirato alla modellistica del diritto penale d'autore: nella decisione n. 225 del 2008 relativa all'art. 707 cod. pen., la Corte ha escluso il preteso contrasto con il principio di legalità in astratto, da un lato, negando che la disposizione prefiguri una responsabilità "per il modo di essere dell'autore", dall'altro, sottolineando che "sarà per il resto compito del giudice ordinario evitare che . . .la norma incriminatrice vena a colpire anche fatti concretamente privi di ogni connotato di pericolosità" verificando in particolare le modalità e le circostanze spazio- temporali della detenzione che dovranno risultare "tanto più significative . . . nella direzione della esistenza di un attuale e concreto pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio quanto meno univoca ed esclusiva risulti la destinazione dello strumento allo scasso".

In questa prospettiva si può richiamare anche la sentenza n. 286 del 1974 che ha rigettato la censura, proposta con riferimento all'art. 3 Cost., concernente la differenza tra le ipotesi di incendio e naufragio di cosa propria e di cosa aliena.

Nell'occasione la Corte, evidenziato che " . . . per la sussistenza dei reati di naufragio e di incendio di cosa aliena è necessario che si verifichi un evento che sia potenzialmente idoneo - se pur non concretamente - a creare la situazione di pericolo per la pubblica incolumità (per l'incendio sono richieste la vastità, la violenza, la capacità distruttiva, la diffusività del fuoco" ha quindi concluso che in tale prospettiva "il diritto vivente finisce se non con l'identificare, certo con il ravvicinare assai le fattispecie- di cui si assume la disparità- di un naufragio o di un incendio posto in essere su cosa altrui oppure su cosa propria" (sul punto, pare utile richiamare anche la sentenza n. 71 del 1978).

Un tale schema argomentativo risulta essere ricevuto e penetrato in modo diffuso, da molto tempo, anche nella giurisprudenza della Corte di cassazione che riconosce la valenza di guida interpretativa al principio di offensività anche in presenza di fattispecie declinate su un paradigma formale, come, appunto, i reati costruiti sul provvedimento autorizzativo, sostanzialmente fondate sul modello del pericolo astratto, richiedendo comunque al giudice l'accertamento di una "minima potenzialità di vulnus" nella condotta per la configurabilità del reato.

È consolidato il principio secondo cui anche con riferimento ai reati di pericolo astratto deve essere verificata l'offensività del fatto alla luce del criterio della contestualizzazione dell'evento, con giudizio "ex ante", nel senso che occorre verificare, pena la radicale insussistenza del reato, se il fatto era in grado di esporre a pericolo, e, quindi, se fosse offensivo (fra le altre, di recente, Sez. 4, n. 5397 del 20/5/2014, dep. 2015, Meile, Rv. 262024; Sez. 4, n. 36639 del 19/6/2012, Castelluccio, Rv. 254163 in tema di reati contro la pubblica incolumità; Sez. 3, n. 6299 del 15/1/2013, Simeon, Rv. 254493; Sez. 3, n. 37337 del 16/4/2013, Ciacci, Rv. 257347; Sez. 3, n. 39049 del 20/3/2013, Bortini, Rv. 256426; Sez. 3, n. 46719 del 14/10/2009, Dappi, Rv. 245612, in tema di fattispecie autorizzative, frequenti nel "diritto penale complementare", come, ad esempio, nel diritto penale dei beni culturali o del'ambiente; Sez. 6, n. 33016 del 11/4/2014, Orrù, Rv. 260455 in tema di calunnia; sul tema pare utile fare riferimento anche a Sez. U, n. 28605 del 24/4/2008, Di Salvia, Rv. 239921 in tema di coltivazione di sostanze stupefacenti ed a Sez. U, n. 12 del 8/4/1998 D'andrea, Rv. 210873 in tema di reati tributari).

È diffusa, cioè, l'affermazione secondo cui, mentre nei reati di pericolo concreto è necessario verificare la effettiva pericolosità della condotta concreta, tenendo conto di tutti gli elementi a disposizione del giudice, i reati di pericolo astratto non richiedono questo tipo di accertamento, accontentandosi della normale pericolosità di condotte del tipo di quella tenuta dall'agente.

E tuttavia, si afferma, anche nei reati di pericolo astratto non si può prescindere dalla prova della esistenza di un fatto pericoloso, in quanto il tratto caratteristico di questo tipo di reati riguarda solo il livello al quale si colloca il giudizio di pericolosità che appartiene al genere di azione e non al fatto nella sua individualità, nel senso che la condotta deve essere sussumibile sotto la classe o tipo astratto di quelle condotte che normalmente si rivelano pericolose per il bene giuridico tutelato dalla norma.

Tale accertamento rende compatibile il reato di pericolo astratto con il principio di offensività.

A conclusioni non diverse si perviene anche con riferimento ai reati in cui il legislatore ha previsto limiti soglia.

Il diritto penale del pericolo astratto non coincide con il modello repressivo ancorato alla previsione dei valori di limiti-soglia.

La ragione dell'antinomia fra il paradigma del pericolo (anche astratto) e quello del rischio, a cui si riconduce l'intero sistema del limiti soglia, è rappresentato, si sostiene, dal diverso rilievo accordato al concetto di bene giuridico.

Mentre, infatti, lo schema del pericolo astratto non prescinde dal bene giuridico, in quanto rientra pur sempre nel modello classico di diritto penale finalizzato alla tutela, ancorchè anticipata, di interessi giuridicamente pregnanti, il diritto penale orientato alla minimizzazione del rischio attraverso la previsione di limiti - soglia si fonda sulla previsione di valori limite ipercautelativi.

Si afferma che i limiti soglia rappresentano una tecnica normativa volta ad attuare il c.d, principio di precauzione.

È utile sottolineare in questa sede come, proprio in relazione alla fattispecie con valori di limite soglia, ci si interroghi sul se il superamento dei limiti soglia possa o meno fornire indicazioni utili ai fini dell'accertamento di un pericolo che, ancorchè astratto, sia reale, nel senso indicato, per i beni giuridici.

Anche cioè per i reati con valori limiti di soglia, si pone forte l'esigenza che gli stessi siano interpretati secondo il parametro fondamentale della offensività[1].

Va evidenziato come, proprio in relazione ai reati in cui il legislatore ha "legato" la "punibilità" al superamento di "soglie", la Corte costituzionale, con specifico riferimento alla condotta di detenzione di stupefacenti, abbia precisato che la previsione del limite obiettivo fisso della "dose media giornaliera" in funzione della distinzione tra illecito amministrativo e illecito penale, non impedisce al giudice di merito di valutare se l'eccedenza accertata rispetto alla soglia sia di entità così modesta fa dar ritenere la condotta "priva di qualsiasi idoneità lesiva concreta dei beni giuridici tutelati e quindi penalmente irrilevante.

Secondo la Corte costituzionale "l'offensività deve ritenersi di norma implicita nella configurazione del fatto e nella sua qualificazione di illecito da parte del legislatore, salvo talune ipotesi marginali . . . nelle quali, a causa della necessaria astrattezza della norma, può verificarsi divergenza fra tipicità e offesa" (Corte cost., sent. n. 333 del 1991).

Dunque, anche, rispetto ai reati di pericolo in cui è prevista una soglia di punibilità, la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire che il giudice ordinario è tenuto, in ossequio al principio di offensività, a verificare non solo il grado di offesa ma se la condotta sia in concreto lesiva del bene giuridico tutelato dalla norma.

Dunque: un'offensività in concreto, delegata di volta in volta al giudice della vicenda processuale al fine di verificare lo scarto tra tipicità della fattispecie e offensività della condotta.

3. Principio di offensività e particolare tenuità del fatto.

Come puntualizzato dalla stessa relazione ministeriale, la particolare tenuità del fatto è istituto diverso da quello della c.d. inoffensività del fatto: "quest'ultimo [. . .] attiene alla totale mancanza di offensività del fatto che risulta pertanto privo di un suo elemento costitutivo e in definita atipico e insussistenze come reato [. . .] diversamente, l'istituto in questione della "irrilevanza" per particolare tenuità presuppone un fatto tipico e, pertanto, costitutivo di reato, ma da ritenere non punibile in ragione dei principi generalissimi di proporzione e di economia processuale"" (§ 2 della Relazione).

La causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131-bis cod. pen., sembra, sul piano sistematico, collocarsi in una posizione di mezzo, alla quale fanno da sponda un livello "alto" di proclamazione dell'offensività quale principio costituzionale, di cui si è detto, ed una soglia, in basso, di incomprimibilità dell'offensività stessa, limite ultimo della stessa possibilità di configurare il reato, al di là del quale esiste cioè solo il terreno dell'irrilevanza per inoffensività.

Tale ultima soglia potrebbe, si assume, essere individuata nell'art. 49, comma 2, cod. pen., interpretato nel senso di riferire l'esclusione della punibilità in esso contemplata non soltanto ai reati ad evento naturalistico, ma estesa anche ai reati ad evento giuridico: per la stessa armonia del sistema e per l'intollerabilità di una tale "lacuna", fonte di sicura disparità di trattamento[2].

Si sostiene che l'offesa normativamente "tenue", per un verso, esclude evidentemente, già sotto un profilo logico, che si sia in presenza di fattispecie tipiche inoffensive, e, per altro verso, pone la necessità di individuare con precisione il bene giuridico protetto, sul logico presupposto che sarebbe problematico un giudizio di "non adeguatezza" dell'offesa stessa senza la previa individuazione dello specifico danno o pericolo che quel bene hanno corrotto.

Si demanda, come detto, al giudice un accertamento che va oltre quello della mera corrispondenza della condotta alla fattispecie astratta e che non si risolve in un controllo di semplice conformità della condotta medesima al tipo legale.

Dunque l'art. 49 cod. pen. sembra essere uno spartiacque importante: al di sotto di esso, il fatto, nell'apprezzamento giudiziale concreto, non attinge neppure a quella "minima potenzialità di vulnus" e sarà fatto inoffensivo; al di sopra di esso, il fatto, sebbene offensivo anche in concreto, può manifestare un basso indice di disvalore dell'azione e di evento che, nel concorso di altre circostanze soggettive, può condurre alla non punibilità "da tenuità".

Tra questi due livelli normativi si colloca, appunto, la particolare tenuità del fatto.

Da un lato, infatti, c'è un reato perfetto in tutti in suoi connotati, compreso il relativo portato di offensività, tanto che, il nuovo art. 651-bis cod. proc. pen.. assegna alla sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto pronunciata a seguito del dibattimento efficacia di giudicato, nel giudizio civile o amministrativo di danno, quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso.

Dall'altro lato, si collocano le varie figure evocative del "fatto di lieve entità", disseminate nel codice e nelle leggi speciali e tradizionalmente ricondotte al panorama delle circostanze attenuanti o iscritte all'interno di fattispecie che beneficiano di un trattamento sanzionatorio di minor rigore.

4. I termini del contrasto giurisprudenziale: la guida in stato di ebbrezza. Cenni.

In questo contesto si pone la questione, rimessa alla cognizione delle Sezioni unite, della compatibilità della causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen. con il reato di guida in stato di ebbrezza.

È utile fare brevemente riferimento alla contravvenzione in questione.

Deve, in primo luogo, richiamarsi il d.l. 3 agosto 2007, n. 117, contenente "Disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza della circolazione", convertito, con modificazioni, dalla legge 2 ottobre 2007, n. 160, la cui finalità era quella di ridurre i rischi connessi alla circolazione stradale attraverso un complessivo inasprimento delle sanzioni e la previsione di interventi volti a garantire i limiti di velocità; per quanto concerne la guida in stato di ebbrezza, il citato intervento legislativo eleva il trattamento sanzionatorio previgente, diversificando altresì le pene in tre distinte fasce di gravità, sulla base del tasso alcolemico rilevato nel conducente.

Successivamente, il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, contenente "Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica", convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, a fronte del rilevante incremento del fenomeno degli incidenti stradali causati dall'abuso di alcool e stupefacenti, aggravò le pene per i reati di omicidio e lesioni personali colpose commessi per violazione della disciplina stradale ed ulteriormente inasprì le sanzioni dei reati di guida in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, prevedendo, per le più gravi ipotesi previste dalla lettera b) e c) del comma 2 dell'art. 186, la confisca del veicolo a seguito di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti.

Di rilievo è l'intervento riformatore della legge 29 luglio 2010, n. 120, che ha depenalizzato la violazione meno grave (art. 186, comma 2, lett. a): tasso alcolemico superiore a 0,5 grammi per litro e non superiore a 0,8), sostituendo la sanzione penale con quella amministrativa del pagamento di una somma da 500 a 2.000 euro e prevedendo la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida da tre a sei mesi.

Con l'art. 33 la legge citata ha, altresì, introdotto nell'art. 186 un nuovo comma, il 9-bis, che attribuisce al giudice il potere di sostituire per non più di una volta la pena (sia detentiva che pecuniaria) applicata per le contravvenzioni di guida in stato di ebbrezza con quella del lavoro di pubblica utilità, salvo nel caso in cui il conducente abbia provocato un incidente.

Il reato in esame è un reato di mera condotta in quanto postula un comportamento che prescinde dalla realizzazione di un risultato ed è un reato di pericolo in quanto la condotta che ne configura l'integrazione espone a pericolo la sicurezza della circolazione stradale e l'incolumità degli utenti della strada, che rappresentano il bene giuridico tutelato dalla norma in esame.

Il concetto di ebbrezza cui fa riferimento la previsione del codice della strada ha un significato più ampio di quello di ubriachezza di cui all'art. 688 cod. pen., poiché si riferisce allo stato di chi versi in una qualunque condizione di disarmonia psico-fisica, determinata da ingestione di bevande alcoliche in conseguenza delle quali difetti nel soggetto la necessaria prontezza di riflessi.

Tale stato di ebbrezza, pertanto, è percepibile anche all'esterno sulla base dei comportamenti del soggetto, dello stato e della condotta di guida, nonché dalla concentrazione alcolemica del sangue che si ricava dalla quantità di alcool nell'aria alveolare espirata, come chiarisce l'art. 379, comma 3 e comma 1 del Regolamento di esecuzione del codice della strada, approvato con D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495.

La giurisprudenza di legittimità afferma che le diverse fattispecie introdotte, rispettivamente, alle lett. a), b) e c) del secondo comma dell'art. 186 cod. strada dal D.L. n. 117 del 2007, costituiscono autonome ipotesi di illecito, ancorchè le stesse si riferiscano tutte alla condotta di guida in stato di ebbrezza delle quali l'ipotesi meno grave di cui alla lettera a) (tasso alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 grammi per litro) è stata depenalizzata, come detto, con l'art. 33, comma 4, della legge 29 luglio 2010, n. 120.

L'autonomia emerge dalla previsione di pene diversificate in ragione della diversità del tasso alcolemico e non ricorre alcun rapporto di specialità fra le tre disposizioni, caratterizzate da reciproca alternatività e, quindi, da un rapporto di incompatibilità di una con l'altra (Sez. 4, n. 28547 del 3/6/2008, Morandi, Rv. 240380; Sez. 4, n. 45122 del 6/11/2008, Corzani, Rv. 241763; Sez. 4, n. 7305 del 29/1/2009, Carosiello, Rv. 242869).

Quanto all'accertamento dello stato di ebbrezza, dal combinato disposto dell'art. 186 cod. strada e art. 379 del regolamento di attuazione emergono tre distinte modalità di rilevazione: 1) ad opera degli organi di polizia stradale; 2) ad opera delle strutture sanitarie; 3) attraverso il riscontro delle circostanze sintomatiche dell'esistenza dello stato di ebbrezza, desumibili, in particolare, dallo stato del soggetto e dalla condotta di guida; rispetto a tali ultime circostanze sussiste un obbligo da parte degli organi di polizia stradale di indicazione nella notizia di reato.

4.1. (segue). La tesi secondo cui la causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen. sarebbe compatibile con la previsione di diverse soglie di rilevanza penale nel reato di guida in stato di ebbrezza.

Secondo un primo indirizzo, la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131--bis cod. pen. sarebbe applicabile anche al reato di guida in stato di ebbrezza, non essendo incompatibile con il giudizio di particolare tenuità la previsione di diverse soglie di rilevanza penale all'interno della fattispecie tipica.

Sez. 4, n. 44132 del 9/9/2015, Longoni, Rv. 264829 ha affermato che:

1) l'istituto della particolare tenuità del fatto è stato inserito dal legislatore nella parte generale del codice penale con l'intento di attribuirgli una valenza generalizzata al di là delle espresse limitazioni indicate nello stesso art. 131-bis cod. pen., previste per talune classi di reato individuate in ragione della pena prevista ovvero per ragioni considerate incompatibili con un giudizio di esiguità del fatto;

2) la necessaria interpretazione dei reati secondo il principio di offensività in concreto induce a ritenere non dubitabile che l'istituto possa/debba trovare applicazione a tutti i reati (anche a quelli che tradizionalmente si indicano come 'reati senza offesa');

3) la compatibilità dell'istituto della particolare tenuità del fatto con il reati di pericolo astratto e, in particolare, con quello di guida in stato di ebbrezza, sarebbe stata già affermata dalla Corte di cassazione in relazione alla causa di improcedibilità di cui all'art. 34 del D.Lgs., n. 274 del 2000;

4) anche quando il legislatore inserisce all'interno della fattispecie soglie di punibilità per distinguere tra fatti penalmente rilevanti e fatti leciti, il giudizio di particolare tenuità del fatto è sempre possibile, atteso che "l'incriminazione definisce la meritevolezza di astratte classe di fatti, laddove l'art. 131 bis cod. pen . . . si impegna sul diverso piano del singolo fatto concreto".

5) l'aver il legislatore utilizzato o meno la tecnica della soglia per selezionare classi di ipotesi che, per essere in maggior grado offensive, impongono il dispiegarsi dell'armamentario penalistico, non esonera dalla necessità di verificare se la manifestazione reale e concreta - il fatto unico ed irripetibile descritto dall'imputazione elevata nei confronti di un determinato soggetto - presenti o meno - rispetto alla cornice astratta - un ridottissimo grado di offensività.

Sulla base di tali considerazioni generali, la Corte ha anche esaminato l'argomentazione, molto valorizzata per negare la compatibilità dell'istituto in esame con i reati con soglie di punibilità crescenti, secondo cui, nei casi in cui la soglia serva a distinguere l'illecito penale da quello amministrativo - come, appunto, per la guida in stato di ebbrezza - sarebbe irragionevole, e quindi suscettibile di sospetto di incostituzionalità, applicare la causa di non punibilità in esame, perché si lascerebbe l'agente che abbia commesso un fatto penalmente rilevante senza sanzione mentre, invece, colui che abbia commesso la sola violazione amministrativa, e quindi un fatto meno grave, resterebbe colpito dalle relative sanzioni.

A parere della Corte, l'argomentazione non sarebbe condivisibile, atteso il principio della piena autonomia dei connotati e dei principi delle violazioni amministrative rispetto a quelle penali; si tratta di un principio ribadito in più occasioni dalle stesse Sezioni unite della Corte di cassazione, seppur in ordine all'ipotesi "diversa" della "trasformazione" dell'illecito penale in illecito amministrativo e non coincidente con quella rimessa al vaglio delle Sezioni Unite, relativa invece alla previsione "ab origine" di soglie crescenti di punibilità volte a distinguere un illecito penale da un illecito amministrativo (Sez. U., n. 25457 del 29/03/2012, Campagne Rudie, Rv. 252694; Sez. U, n. 7394 del 16/3/1994, Mazza, Rv. 197698).

L'autonomia dei due illeciti, secondo l'impostazione in esame, induce a negare qualsiasi profilo di irragionevolezza nell'esito che vede il reo sottratto ad ogni conseguenza per effetto dell'applicazione dell'art. 131-bis cod. pen. e colui che abbia commesso un illecito amministrativo 'sotto la soglia di rilevanza penale' destinatario di ogni sanzione.

Tale conclusione non muterebbe neanche in relazione ai rapporti tra i reati di cui alla lettera b) e alla lettera c) del comma secondo dell'art. 186 cod. str., atteso che "anche un fatto integrante il reato sub lettera c) ben può risultare particolarmente tenue - nonostante il reo presenti un tasso alcolemico superiore a quello massimo che vale per l'operatività della lettera b) - perché la causa di non punibilità impegna alla valutazione della complessiva tenuità del fatto; dovendosi quindi cogliere non soltanto l'entità dello stato di ebbrezza, ma anche le 36 modalità della condotta e l'entità del pericolo o del danno cagionato. A ben vedere tanto implica da un canto la sicura ipotizzabilità del fatto di particolare tenuità anche in presenza di tassi alcolennici ricadenti nel range previsto dalla lettera c); dall'altro la decisività, ai fini del riconoscimento della causa di esclusione della punibilità, degli altri fattori che valgono ad integrare siffatta causa. Si pensi, a mero titolo di esempio, a reato che si sia concretizzato nel guidare per pochi metri in stato di ebbrezza, con valore superiore a 1,5 g/I, una bicicletta in una strada poco o nulla interessata dal traffico".

Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha affrontato anche la connessa questione relativa al se all'applicazione della causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen. consegua o meno per il giudice l'obbligo di disporre la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida.

Secondo la sentenza in esame, poiché non sarebbe dubitabile che l'applicazione della causa di non punibilità della quale si discorre presupponga l'accertamento del reato, ad essa conseguirebbe comunque la sospensione della patente di guida e per un periodo superiore a quello previsto per colui che incorre nella violazione sanzionata dalla lettera a).

Pertanto, ove il giudice si pronunci per la non punibilità del fatto ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen., neppure si porrebbe il quesito in ordine al potere-dovere del giudice di disporre la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa per la irrogazione delle sanzioni amministrative accessorie: egli disporrà direttamente la sospensione della patente di guida".

Dunque, secondo la sentenza "Longoni":

a) la causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen. sarebbe applicabile al reato di guida in stato di ebbrezza, per entrambe le fattispecie previste dalle lett. b) e c);

b) all'applicazione della causa di non punibilità non potrebbe seguire l'applicazione della sanzione amministrativa prevista per l'illecito amministrativo di cui alla lett. a) della norma (In senso conforme, Sez. 4, n. 48843 del 24/11/2015, Sassone, Rv. 265218; Sez. 4, n. 50243 del 9/9/2015, Specogna, Rv. 265225; Sez. 4, n. 4844 del 27/1/2016, Caretti);

c) il giudice, a seguito dell'accertamento del reato che funge da presupposto per l'applicazione della causa di non punibilità, deve disporre la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida.

4.2. (Segue). La tesi della non compatibilità: la pronuncia "Tushaj".

In senso difforme si pone Sez. 4, n. 49824 del 3/12/2015, Tushaj che ha rimesso alle Sezioni unite la questione.

Secondo la Corte, il legislatore, nel disciplinare le tre ipotesi di illecito descritte nel secondo comma dell'art. 186 Cod. Strada, avrebbe "già "a monte" operato una valutazione di maggiore o minore pericolosità, calibrando l'entità delle rispettive sanzioni (ivi comprese le sanzioni accessorie amministrative) in relazione ad un dato tecnico ben preciso, costituito dal tasso alcoolemico.

Di tal che, nel ravvisare la particolare tenuità del fatto con riferimento alle due ipotesi di rilevanza penale, il giudice si sostituirebbe al legislatore, non disponendo di altri o diversi parametri cui poter ancorare motivatamente e ragionevolmente un giudizio di "tenuità".

Si assume che non sarebbe possibile ritenere particolarmente tenue un fatto la cui presunzione di gravità il legislatore avrebbe già ancorato ad un ben preciso dato tecnico ed oggettivo, con conseguente "irrilevanza delle modalità della condotta di guida che ben possono variare da caso a caso".

Si evidenzia, inoltre, che le contravvenzioni previste dall'art. 186, comma 2, lett. b) e c) costituirebbero reati di pericolo rispetto ai quali i beni oggetto di tutela (garanzia della regolarità della circolazione e salvaguardia della sicurezza stradale) "opererebbero su un piano diverso rispetto a quello, specifico, riferito alla vita e all'incolumità dei singoli, oggetto di tutela dei reati di lesioni personali colpose ed omicidio colposo commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale".

Dunque, nessun rilievo potrebbero assumere, ai fini della punibilità per i reati di guida in stato di ebbrezza, le modalità della condotta di guida.

Al fine di ribadire il convincimento che il legislatore abbia escluso qualsiasi possibilità di attribuire, da parte del giudice connotazioni, di particolare tenuità alle ipotesi di reato di cui alle lettere b) e c) dell'art. 186 del Cod. Strada, è stato inoltre valorizzato l'argomento secondo cui, diversamente, si dovrebbe giungere alla conclusione che l'autore dell'illecito amministrativo previsto dalla lett. a) dell'art. 186, comma 2, sarebbe sottoposto a conseguenze più sfavorevoli (la sanzione amministrativa) rispetto a colui che, pur avendo compiuto un reato (una delle due contravvenzioni previste alle lettere b) o c), godrebbe della causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen.

Per escludere l'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. ai reati previsti dall'art. 186 Cod. pen., soccorrerebbe anche il tema della sanzioni amministrative accessorie e, in particolare, della sospensione della patente di guida.

Per completezza deve aggiungersi che, secondo la pronuncia in esame, la tesi secondo cui alla pronuncia di non punibilità per particolare tenuità del fatto dovrebbe conseguire la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente, non potrebbe essere condivisa perché:

1) l'art. 131-bis cod. pen. nulla prevede per le sanzioni amministrative, a differenza dell'art. 168-ter cod. pen. in tema di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova;

2) la sanzione amministrativa della sospensione della patente avrebbe come presupposto formale la sentenza o il decreto definitivo di condanna, così come previsto dall'art. 220 dello stesso codice, alle quali dovrebbe essere equiparata, secondo la esplicita volontà del legislatore, solo la sentenza di applicazione di pena, ai sensi dell'art. 186, comma 2-quater, Codice della Strada;

3) nessun rilievo potrebbe essere quindi attribuito al mero accertamento del reato contenuto nel provvedimento applicativo della causa di non punibilità in esame, atteso che, diversamente, non avrebbe avuto senso estendere alla sola di sentenza di patteggiamento, la previsione generale di cui all'art. 220 che, come detto, individua come presupposto della sanzione amministrativa accessoria solo la sentenza o il decreto definitivo di condanna;

4) se alla non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. non dovesse seguire l'applicazione della sospensione della patente di guida (nel silenzio del legislatore, a differenza del 168ter cod. pen.), si avrebbe il paradosso che tale sanzione andrebbe invece applicata addirittura per l'illecito amministrativo di cui alla lettera a) del 186 Codice della Strada e non per le ipotesi di reato sub b) e sub c) dello stesso articolo; a ritenere invece applicabile la sanzione amministrativa accessoria in caso di non punibilità ex art. 131bis cod. pen. per i reati di guida 38 in stato di ebbrezza, l'imputato non sfuggirebbe comunque a quella che può risultare la sanzione in concreto più afflittiva. Dunque secondo la sentenza in esame, la causa di non punibilità non sarebbe applicabile ai reati di guida in stato di ebbrezza.

5. La contravvenzione prevista dall'art. 186, comma 7, C.d.S.: il rifiuto di sottoporsi all'accertamento. Cenni.

La fattispecie prevista dall'art. 186, comma 7, Codice della strada era stata depenalizzata dal d.l. 3 agosto 2007, n. 117, convertito con modificazioni dalla 1. 2 ottobre 2007, n. 160, e qualificata come illecito amministrativo.

Con d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla 1. 24 luglio 2008, n. 125 la fattispecie è stata nuovamente qualificata come contravvenzione ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. d).

La condotta tipica del reato contestato, che ha natura istantanea, si sostanzia nella manifestazione di indisponibilità da parte dell'agente a sottoporsi all'accertamento alcolimetrico (Sez. 4, n. 5909 del 08/01/2013, Giacone, Rv. 254792) e si distingue nettamente dalla condotta costitutiva del reato di guida in stato di ebbrezza, rispetto al cui accertamento si può atteggiare, ancorché non strutturalmente, in termini di reciproca alternatività.

La ratio dell'incriminazione è tradizionalmente individuata, oltre che in quelle poste a fondamento del reato di guida in stato di ebbrezza, anche nella necessità di impedire con la sanzione del rifiuto il frapponimento di ostacoli nell'attività di controllo per la sicurezza stradale (Sez. U, n. 46625 del 29/10/2015, Zucconi).

Quanto al contenuto della condotta, la Corte di cassazione ha chiarito che il rifiuto può concretarsi non necessariamente in un comportamento verbale, dovendo attribuirsi rilievo anche al comportamento, più in generale, elusivo del metodo idoneo a consentire la rilevazione (Sez. 4, n. 5409 del 27/1/2015, Avondo, Rv. 262162 in fattispecie in cui la Corte ha attribuito rilevanza al comportamento dell'imputato che, sottoposto a più tentativi di misurazione del tasso alcolemico mediante alcoltest, non aveva soffiato in modo adeguato, tale da consentire la misurazione del tasso, pur essendo stato reso edotto delle modalità di esecuzione del test ed essere stato avvisato delle conseguenze del rifiuto; in particolare, l'imputato aveva aspirato anziche' soffiare e, dopo aver ripetuto tale comportamento per quattro o cinque volte, la sua condotta era stata ritenuta elusiva).

In particolare, nella giurisprudenza della Corte di legittimità è stata ritenuta rilevante an che la condotta ammissiva dello stato di ebbrezza, indirettamente espressiva del rifiuto di sottoporsi all'accertamento (Sez. 4, n. 36566 del 18/09/2006, Baruffaldi, Rv. 235371; Sez. 4, n. 26744 del 8/2/2006, Moratto, Rv. 234568; Sez. 4, n. 3444 del 12/11/2003, dep. 2004, Simoncelli, Rv. 229784).

Si è affermato che integra il reato di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti alcolimetrici la condotta di colui che, pur essendosi sottoposto a più accertamenti preliminari per la verifica dello stato di alterazione psicofisica derivante dall'influenza dell'alcool, ricusi di procedere all'alcoltest nonostante l'ultimo di essi abbia dato esito positivo, in quanto l'art. 186, comma 3, Codice della Strada non prevede limiti alla ripetizione delle prove preliminari, né pone condizioni alla facoltà degli agenti di procedervi, trattandosi di "accertamenti qualitativi non invasivi" (Sez. 4, n. 51773 del 26/11/2014, Sculco, Rv. 261546).

Perché il rifiuto possa integrare il reato di cui al comma 7, deve trattarsi di accertamento legittimamente richiesto in presenza di alcune delle condizioni previste dai commi 3, 4, 5, dell'art. 186 Cod. strada.

L'art. 186, Cod. strada, disciplina, ai citati commi 3 e 4, i presupposti e le modalità dell'esercizio del potere conferito agli organi di polizia. In difetto di tali presupposti, l'indagato può legittimamente rifiutarsi di sottoporsi all'accertamento e tale rifiuto non integrerà quindi reato, ma non perché scriminato dall'esercizio di un diritto, bensì perché quella condotta non potrà considerarsi integrare la fattispecie penalmente sanzionata. Laddove, invece, quei presupposti sussistano, non è previsto dalla norma, né è ipotizzabile, un diritto di opporsi all'accertamento, idoneo a scriminare il reato che quel rifiuto di per sé integra ex art. 186, comma 7, Cod. Strada.

5.1. (Segue). La tesi secondo cui la causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod, pen. sarebbe compatibile con il reato previsto dall'art. 186, comma 7, C.d.S.

Sul tema, si segnala Sez. 4, n. 33821 del 1/7/2015, Pasolini, Rv. 264357, in cui la Corte territoriale, dopo aver analizzato -, sottoponendole a vaglio critico e ritenendole giuridicamente irrilevanti - le deduzioni dell'imputato fondate sull'assunto secondo cui, da una parte, non sarebbe stato nella specie configurabile il reato perche il rifiuto di sottoporsi al test era stato opposto solo alla possibilità che l'accertamento fosse eseguito sulla pubblica via, ma non anche nel caso in cui il controllo fosse stato eseguito in un luogo di privata dimora, e, dall'altra, l'assenza di evidenza dello stato di ebbrezza e la tardività dell'invito degli organi di Polizia stradale a sottoporsi al test, ha annullato con rinvio la sentenza d'appello "in ragione della sopravvenuta disciplina più favorevole".

La motivazione offerta dal giudice di merito, che ha affermato il "mancato riscontro di una condotta di guida concretamente pericolosa;", valutata unitamente all'applicazione della pena in misura pari al minimo edittale, nel concorso degli altri presupposti di legge concernenti la pena edittale e l'abitualità, avrebbero rappresentato - secondo la sentenza in esame - indici significativi della possibile sussunzione del fatto nell'ipotesi di particolare tenuità.

Dunque, una implicita affermazione di compatibilità astratta fra l'istituto della particolare tenuità del fatto e la contravvenzione in esame (nello stesso senso, sostanzialmente, Sez. 4, n. 26744 del 1/7/2015, dep. 2016, Andrushchenko; Sez. 4, n. 46368 del 8/10/2015, Godinez).

5.2. (segue). La tesi della incompatibilità.

Secondo invece l'ordinanza di rimessione alle Sezioni unite della Corte, emessa il 3/12/2015, poiché il reato previsto dall'art. 186, comma 7, Codice della Strada "si risolve in una condotta (cioè il rifiuto di sottoporsi ad accertamenti) che è sempre uguale a se stessa e delinea un reato istantaneo- nel senso che è sufficiente ad integrarlo il mero rifiuto del conducente del veicolo" - sarebbe impossibile una graduazione dell'offensività nel senso richiesto dall'art. 131-bis cod. pen. "tale da far ritenere questa o quella fattispecie concreta (di rifiuto) particolarmente tenue", considerato inoltre lo "scopo della norma incriminatrice costituito dalla necessità di impedire - attraverso la sanzione del rifiuto- il frapponimento di ostacoli nell'attività di controllo per la sicurezza stradale".

Si assume, in particolare, che, nella specie, non sarebbe possibile fare riferimento alle modalità della condotta, risolvendosi questa solo nel rifiuto, in qualunque modo manifestato, di sottoporsi ad un accertamento legittimamente richiesto.

6. L'intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione: i principi affermati.

In tale contesto si collocano Sez. U, n. 13681 del 25/2/2016, Tuahaj, Rv. 266589-266590- 266591-266592-266593-266594, e Sez. U, n. 13682 del 25/2/2016, Coccimiglio, Rv. 266595.

La Corte di cassazione, dopo aver fatto espresso riferimento al principio di offensività ed alla sua funzione, ha chiarito che:

- l'istituto della particolare tenuità del fatto, previsto dall'art. 131-bis cod. pen., è "esplicitamente, indiscutibilmente definito e disciplinato come causa di non punibilità e costituisce dunque figura di diritto penale sostanziale";

- esso persegue finalità connesse ai principi di proporzione ed "extrema ratio", con effetti anche in tema di deflazione, essendo il suo principale scopo quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo;

- "il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa che ha ad oggetto le modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo valutate ai sensi dell'art. 133, comma 1, cod. pen. Si richiede, in breve, una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta; e non solo di quelle che attengono all'entità dell'aggressione del bene giuridico protetto";

- il giudizio sulla tenuità richiede cioè una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo.

- qualunque reato, anche il più grave, può essere offensivamente tenue;

- quanto alle modalità della condotta, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l'entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, occorre fare riferimento alle forme di manifestazione del comportamento, così come storicamente verificatosi;

- ai sensi dell'art. 133, comma 1, cod. pen., al fine di verificare la gravità del reato, deve tenere conto anche dei profili soggettivi relativi alla intensità del dolo ed al grado della colpa, desumibili dalle modalità della condotta;

- nel disciplinare la graduazione dell'illecito, si deve fare riferimento infatti non solo al disvalore di azione e di evento ma anche al grado della colpevolezza; - lo stesso approccio deve essere compiuto al fine della valutazione dell'entità del danno o del pericolo, non essendovi alcuna preclusione categoriale e dovendosi compiere una valutazione mirata sulla manifestazione del reato e sulle sue conseguenze;

- l'esiguità del disvalore è frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno ed alla colpevolezza e ben può accadere che si sia in presenza di elementi di giudizio di segno opposto da soppesare e bilanciare prudentemente.

Quanto al profilo soggettivo della non abitualità del comportamento, la Corte ha preci sato che:

- le indicazioni offerte dalla norma sono tassative;

- l'abitualità si concretizza in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole (almeno due) diversi da quello oggetto del procedimento nel quale si pone la questione dell'applicabilità dell'art. 131-bis. "il terzo illecito della medesima indole dà legalmente luogo alla serialità che osta all'applicazione dell'istituto";

- i reati possono ben essere successivi a quello in esame, perchè si verte in un ambito diverso da quello della disciplina legale della recidiva ed è in questione un distinto apprezzamento in ordine alla serialità dei comportamenti;

- la pluralità dei reati può configurarsi non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l'esistenza (come ad esempio nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui);

- il reato ritenuto non punibile per tenuità (e conseguentemente iscritto nel casellario) rileva, anche quando l'accertamento della sua esistenza non sia avvenuto all'esito del giudizio, ai fini della valutazione della abitualità del comportamento;

- quanto ai reati che hanno ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate, il legislatore evoca: a) per quel che concerne le condotte abituali, quelli che presentano tale tratto come tipico, come ad, esempio, il delitto di maltrattamenti in famiglia (in tema di reato permanente, Sez. 3, n. 30383 del 30/3/2016, Mazzoccoli, Rv. 267589 secondo cui è preclusa l'applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto finchè la permanenza non sia cessata, in ragione della perdurante compressione del bene giuridico per effetto della condotta delittuosa. In applicazione del principio, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza impugnata per difetto di motivazione sull'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen., nonostante la pronuncia avesse espresso una valutazione di "modestia oggettiva del fatto" di cui era stata accertata la cessazione della permanenza); successivamente alla sentenze delle Sezioni Unite, quanto al reato abituale, Sez. 2, n. 23020, del 10/5/2016, P., Rv. 267040 in tema di omessa corresponsione dell'assegno divorzile); b) per quel che concerne i reati che presentano nel tipo condotte reiterate, quelli (come quello di atti persecutori) in cui la serialità è un elemento della fattispecie ed è quindi sufficiente a configurare l'abitualità che esclude l'applicazione della disciplina, senza che occorra verificare la presenza di distinti reati; c) per quel che riguarda le condotte plurime, quelle fattispecie concrete nelle quali si sia in presenza di ripetute, distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti. (ad esempio, un reato di lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, generato dalla mancata adozione di distinte misure di prevenzione, da un consolidato regime di disinteresse per la sicurezza).

6.1. (segue). Tenuità del fatto e reati con soglia di punibilità: la guida in stato di ebbrezza.

Sulla base di tali principi le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno evidenziato, con specifico riferimento agli illeciti che presentano soglie quantitative di punibilità, come il superamento della soglia di rilevanza penale esprima il minimo disvalore della situazione dannosa o pericolosa, sicchè il "giudice che ritiene tenue una condotta collocata attorno all'entità minima del fatto conforme al tipo . . . non si sostituisce al legislatore, ma anzi ne recepisce fedelmente la valutazione".

Ha aggiunto la Corte che anche per i reati come quelli di guida in stato di ebbrezza la valutazione che il giudice è chiamato a compiere attiene alla fattispecie concreta nel suo complesso "e quindi tutti gli aspetti già più volte evocati, che afferiscono alla condotta, alle conseguenze del reato ed alla colpevolezza".

Tali considerazioni, si è affermato, valgono infatti anche per i reati di pericolo presunto, atteso che anche per tale categoria di reati "accertata la situazione pericolosa tipica e dunque l'offesa, resta pur sempre spazio per apprezzare in concreto, alla stregua della manifestazione del reato, ed al solo fine della ponderazione in ordine alla gravità dell'illecito, quale sia lo sfondo fattuale nel quale la condotta si inscrive e quale sia, in conseguenza, il concreto possibile impatto pregiudizievole rispetto al bene tutelato".

In applicazione di tali principi, la Corte, con riferimento al reato di cui all'art. 186 C.d.S., ha precisato che detta contravvenzione tutela non tanto la regolarità della circolazione quanto, piuttosto, beni primari come quelli della vita e l'integrità personale.

In tal senso depone, a parere della Corte, la stessa disciplina legale: il comma 2-bis prevede che se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale, il reato è aggravato; più in generale, l'art. 222 prevede severe sanzioni amministrative accessorie quando dalla violazione di norme del Codice derivano danni alle persone.

Ne consegue che la valutazione sulla gravità dell'illecito in funzione dell'applicazione dell'art. 131-bis cod.. pen. impone di considerare se il fatto illecito abbia generato un contesto concretamente e significativamente pericoloso con riguardo ai beni indicati.

Tale principio non è inficiato dal fatto che al di sotto della soglia di rilevanza penale esiste una fattispecie minore che integra un illecito amministrativo, attesi i diversi statuti e le evidenti differenze fra l'illecito penale e quello amministrativo. (in tal senso, Sez. U, n. 25457 del 29/03/2012, Campagne Rudie, Rv. 252694).

Quanto alla questione afferente agli effetti della pronunzia ex art. 131-bis cod. pen. sulle sanzioni amministrative accessorie previste in tema di guida in stato di ebbrezza, la Corte ha aggiunto che:

- dette sanzioni, in assenza di una pronunzia di condanna o di proscioglimento, riprendono la loro autonomia ed entrano nella sfera di competenza dell'amministrazione pubblica;

- tale soluzione interpretativa, fondata sulla ritrovata autonomia della sanzione accessoria, trova conferma nell'ultimo periodo dell'art. 224, comma 3 e dell'art. 224-ter, comma 6, C. d. S. secondo cui l'estinzione della pena successiva alla sentenza irrevocabile di condanna non ha effetto sull'applicazione della sanzione amministrativa accessoria;

- alla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto consegue l'applicazione, demandata al Prefetto, delle sanzioni amministrative accessorie stabilite dalla legge".

6.2. (segue). Tenuità del fatto e rifiuto di sottoporsi ad accertamento alcoolemico (art. 186, comma 7, C.d.S.).

Quanto al rapporto tra la causa di non puniblità per particolare tenuità del fatto e il reato di rifiuto di sottoporsi ad accertamento alcolemico, le Sezioni unite hanno precisato che:

- la "ratio" e lo sfondo di tutela che presiedono alla contravvenzione in esame devono tenere conto del collegamento tra detto reato e quello di guida in stato di ebbrezza, atteso che il comma 7 dell'art. 186 C.d.S. non punisce una mera, astratta, disobbedienza ma un rifiuto connesso a condotte di guida indiziate di essere gravemente irregolari e tipicamente pericolose;

- di conseguenza non può ritenersi che la norma tuteli solo la regolarità della circolazione stradale, atteso il collegamento evidente tra tali reati e la protezione di beni primari come quelli della vita e dell'integrità personale;

- dunque anche per il reato previsto dall'art. 186, comma 7, C.d.S., l'apprezzamento sulla gravità dell'illecito connesso all'applicazione dell'art. 131-bis cod. pen. impone di considerare se il fatto illecito abbia generato un contesto concretamente e significativamente pericoloso con riguardo ai beni indicati;

- nessuna preclusione è configurabile quindi tra la causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen., e la contravvenzione di cui all'art. 186, comma 7, C.d.S.

6.3. (segue). Le implicazioni processuali discendenti dai principi affermati.

Dai principi esposti, la Corte ha fatto discendere rilevanti corollari processuali.

In considerazione del suo carattere sostanziale, la Corte ha ritenuto applicabile la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, ai fatti commessi prima della entrata in vigore della norma "Il novum trova quindi applicazione retroattiva ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 4. L'elevato rango del principio espresso da tale ultima norma impone la sua applicazione ex officio, anche in caso di ricorso inammissibile, come ritenuto recentemente dalle Sezioni unite. Si è infatti condivisibilmente affermato il diritto dell'imputato, desumibile dal principio in questione, ad essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo; ed il dovere del giudice di applicare la lex mitior, anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile (Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265110).

In particolare, la Corte, in maniera non del tutto simmetrica ai principi affermati dalle Sez. U. "Della Fazia" ha precisato che la inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la deducibilità e la rilevabilità di ufficio di tale causa di esclusione della punibilità e che nei soli procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della nuova normativa, la relativa questione, in applicazione dell'art. 2 cod. pen. comma 4, è deducibile e rilevabile d'ufficio ai sensi dell'art. 609 cod. proc. pen., comma 2.

Secondo le Sezioni unite, quando la sentenza impugnata è anteriore alla entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, la Corte di cassazione, se riconosce la sussistenza di tale causa di non punibilità, la dichiara d'ufficio ex art. 129 cod. proc. pen., comma 1, annullando senza rinvio la sentenza impugnata a norma dell'art. 620, comma 1, lett. l), cod. proc. pen.

La Corte di cassazione ha spiegato che l'art. 620, comma 1, lett. l) cod. proc. pen. è stato ripetutamente ritenuto dalle stesse Sezioni unite fonte per l'adozione di pronunzie assolutorie nella sede di legittimità (Sez. U, n. 22327 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226100; Sez. U, n. 22327 del 21/05/2003, Carnevale, Rv. 224181); oltre che dalle sezioni semplici (ad es. Sez. 2, 11/11/2010, n. 41461, Franzi, Rv. 248927). Detta norma ha costituito pure la base normativa per applicare una causa di non punibilità sopravvenuta (cfr., Sez. 6, n. 9727 del 18/02/2014, Grieco, Rv 259110; Sez. 6, n. 17065 del 26/04/2012, Cirillo, Rv. 252506).

In tali situazioni la pronunzia è adottata ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., non potendo essere ritenuto impeditivo il fatto che tale articolo, pur dedicato nella rubrica all'obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, non faccia menzione dell'ipotesi in cui ricorra una causa di non punibilità.

Secondo la Corte, l'art. 129 cod. proc. pen. ha infatti portata generale, sistemica.

La norma, come già ritenuto dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa, Rv. 230529), non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore ed autonomo rispetto a quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l'epilogo proscioglitivo nelle varie fasi e nei diversi gradi del processo, ma enuncia una regola di condotta rivolta al giudice che, operando in ogni stato e grado del processo, presuppone l'esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio. In breve, atteso l'indicato ruolo sistemico, l'articolo citato consente l'adozione di tutte le formule di proscioglimento.

La Corte ha evidenziato inoltre come diverso sia il vaglio che deve essere compiuto in sede di merito, rispetto alle valutazioni demandante al giudice di legittimità.

Se, da un lato, è indubbio che la valutazione della particolare tenuità del fatto comporta un tipico giudizio sugli elementi di fatto, è altrettanto incontestabile che in cassazione vada essenzialmente verificata la corretta applicazione delle legge e, quindi, dei parametri previsti dall'art. 131-bis cod. pen., "sulla base del fatto accertato e valutato dalla sentenza impugnata".

Un simile approccio tende ad escludere in radice l'eventuale necessità dell'annullamento con rinvio finalizzato all'eventuale applicazione dell'istituto della tenuità del fatto, in quanto l'applicazione dello stesso in sede di legittimità si risolve in un apprezzamento di puro diritto, sulla base degli elementi di fatto come definitivamente accertati in sede di merito.

7. La diversa impostazione dogmatica della sentenza Markiku.

In tale contesto deve essere segnalata per completezza Sez. 5, n. 5800 del 2/7/2015 (dep. 2016), Markikou, Rv. 267989.

La Corte ha affermato che, pur avendo il legislatore dichiaratamente introdotto una causa di non punibilità avente natura sostanziale, cionondimeno il nuovo istituto ha ricevuto una particolare disciplina sul versante processualistico; la causa di non punibilità in esame sarebbe trattata come causa di improcedibilità nel corso delle indagini preliminari ed in tal senso sarebbe spiegabile la circostanza che per essere dichiarata è richiesto l'assenso implicito dell'indagato, il quale può optare per un accertamento nel merito circa la sussistenza del fatto.

Al fine di consentire un immediato effetto deflattivo e, quindi, di evitare di pervenire alla fase del giudizio per poi procedere al riconoscimento della non punibilità per tenuità del fatto, si è preferito consentire, cioè, in sede di archiviazione e con l'adozione di una sentenza predibattimentale, ex art. 469 cod. proc. pen., l'immediata declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto.

In tali ipotesi, proprio l'assenza di un compiuto accertamento nel merito della fondatezza dell'imputazione nel contraddittorio tra le parti, renderebbe necessaria, secondo la pronuncia in esame, la non opposizione dell'indagato/imputato alla definizione ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen.

Intervenuto l'esercizio dell'azione penale, la tenuità del fatto si configurerebbe essenzialmente come causa di non punibilità.

Il fatto che non siano state apportate modifiche all'art. 530 cod. proc. pen., nel quale non si è introdotta una specifica formula liberatoria modulata sulla base dell'art. 131-bis cod. proc. pen., ha indotto la Corte a ritenere che anche nelle ipotesi di tenuità del fatto riconosciuta all'esito del giudizio, prevalga la dimensione processuale dell'istituto, tant'è che l'art. 651-bis cod. proc. pen, nel disciplinare l'efficacia in sede civile ed amministrativa della sentenza dichiarativa della tenuità del fatto, fa riferimento al "proscioglimento" dell'imputato, anzichè all'assoluzione.

Dalla qualificazione della non punibilità per tenuità del fatto come un istituto sostanzialmente ibrido conseguono rilevanti conseguenze anche con riferimento all'ambito della cognizione in sede di legittimità.

Si è affermato che se l'istituto della particolare tenuità del fatto avesse solo natura di cau sa di non punibilità, ciò impedirebbe l'applicazione dell'art. 129 cod. proc. pen., sia perché tale norma consente l'immediata declaratoria delle sole causa di non punibilità espressamente indicata, tra le quali non è stata inserita anche quella concernente la tenuità del fatto; sia perché in sede di lavori preparatori all'emanazione del d.lgs. n. 28 del 2015, era stata espressamente elaborata una modifica dell'art. 129 cod. proc. pen., proprio inserendo fra le altre ipotesi ivi contemplate quella disegnata dal nuovo art. 131-bis.

Il fatto che tale modifica non sia stata mantenuta all'atto di licenziare il testo definitivo, è stato interprato dalla Corte quale precisa e consapevole opzione del legislatore nel senso di escludere la possibilità di fare ricorso all'art. 129 del codice di rito al fine di rilevare la particolare tenuità del fatto come causa di non punibilità.

Secondo la sentenza in esame lo strumento di immediata applicazione che il codice di rito fornisce alla Corte di cassazione in vista di una pronuncia di annullamento senza rinvio che appare coerente alle più volte sottolineate finalità deflattive della riforma, è costituito in realtà dall'art. 620, che alla lett. a) cod. proc. pen. - ancora una volta imponendo all'interprete di privilegiare le anzidette implicazioni processuali del nuovo istituto - che contiene uno specifico riferimento ai casi in cui l'azione penale non avrebbe dovuto essere iniziata (o proseguita).

In definitiva, secondo la sentenza in esame, deve ritenersi che la particolare tenuità del fatto possa essere rilevata anche "ex officio" dalla Corte di cassazione, con annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, laddove questa consenta di ravvisare "ictu ocuti" la sussistenza dei presupposti richiesti dall'art. 131-bis cod. pen., ma tale pronuncia non può essere emessa ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen.: l'attività richiesta al giudice di legittimità, in tal caso, non può intendersi verifica di merito, ma piuttosto semplice valutazione della corrispondenza del fatto, nel suo minimum di tipicità, al modello legale di una fattispecie incriminatrice, come la disciplina del nuovo istituto impone nella fase del giudizio (prescindendone invece nel corso delle indagini preliminari).

8. Le ulteriori sentenze della Corte di cassazione.

Prescindendo dalle pronunce delle Sezioni unite, la Corte di cassazione è intervenuta sul tema affermando rilevanti principi di diritto.

Si è chiarito che:

- il giudice dell'esecuzione non può applicare retroattivamente la disciplina di favore della particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131-bis cod. pen., poichè trattandosi di causa di non punibilità che non esclude la sussistenza del reato, non può applicarsi la disciplina in materia di successione delle leggi penali di cui all'art. 2 cod. pen. (Sez. 1, n. 46567 del 15/9/2016, Torrisi, Rv. 268069; Sez. 7, ord. n. 11833 del 26/2/2016, Rondello, Rv. 266169);

- nel procedimento innanzi al giudice di pace non si applica la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen., prevista esclusivamente per il procedimento davanti al giudice ordinario, trovando invece applicazione la speciale disciplina di cui all'art. 34 D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (fra le altre, Sez. 5, n. 45996 del 14/7/2016, P., Rv. 268144; Sez. 5, n. 26854 del 1/6/2016, Ferrari, Rv. 268047; Sez. 7, ord., n. 1510 del 4/12/2015 (dep. 2016), Bellomo, Rv. 265491; Sez. F., n. 38876 del 20/8/2015, Morreale, Rv. 264700; in senso difforme, tuttavia, Sez. 4, n. 40699 del 19/4/2016, Colangelo, Rv. 267709);

- la sussistenza della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto ex art. 131bis cod. pen. può essere pronunciata anche con sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'art. 425 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 21409 del 11/2/2016, Flammini, Rv. 267145 in cui in motivazione, la S.C. ha chiarito che la disposizione processuale richiamata contiene in sè la previsione di applicabilità del nuovo istituto posto che preveda la possibilità di emettere la pronuncia di non doversi procedere anche quando l'imputato è persona "non punibile per qualsiasi causa");

- è affetta da nullità di ordine generale a regime intermedio la sentenza predibattimentale di non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen., pronunciata senza dare avviso alla persona offesa dell'udienza camerale (Sez. 2, n. 6310 del 11/11/2015 (dep. 2016), Cutili, Rv. 266207);

- la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen., in quanto essa, estinguendo il reato, rappresenta un esito più favorevole per l'imputato, mentre la seconda lascia inalterato l'illecito penale nella sua materialità storica e giuridica (Sez. 6, n. 11040 del 27/1/2016, Calabrese, Rv. 266505);

- la dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto non è preclusa dalla presenza di più reati legati dal vincolo del concorso formale, poichè questo istituto non implica l'abitualità del comportamento. (Sez. 3, n. 47039 del 8/10/2015, Derossi, Rv. 265449, in fattispecie in tema di reati urbanistici e paesaggistici);

- la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131bis cod. pen. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un'ipotesi di " comportamento abituale", ostativa al riconoscimento del beneficio (sul tema, prima dell'intervento delle Sezioni unite, Sez. 3, n. 43816 del 1/7/2015, Amodeo, Rv. 265084; Sez. 3, n. 29897 del 28/5/2015, Gau, Rv. 264034).

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CAPITOLO II

LA MESSA ALLA PROVA

(di Luigi Barone )

Sommario

1 I rimedi impugnatori avverso la denegata messa alla prova (Sezioni unite "Rigacci"). - 2 Inquadramento della questione. - 3 La sentenza delle Sezioni unite. - 4 Diritto di accesso e finalità deflattive della messa alla prova. - 5 Verso una possibile rimodulazione della disciplina di accesso alla messa alla prova. - 6 La rilevanza delle aggravanti nel computo dei limiti edittali della messa alla prova (Sezioni unite "Sorcinelli"). - 7 Inquadramento della questione. - 8 Il contrasto. - 9 La soluzione fornita dalle Sezioni unite. - 9.1 Argomento letterale. - 9.2 Lettura sistemica. - 9.3 La voluntas legis. - 9.4 Non coincidenza tra il perimetro di operatività delle ipotesi per le quali è prevista la citazione diretta a giudizio e quelle per le quali è consentita la m.a.p. - 9.5 Le ragioni specialpreventive poste dalla Corte a fondamento della soluzione prescelta. - 10 Conclusione.

1. I rimedi impugnatori avverso la denegata messa alla prova (Sezioni unite "Rigacci").

Le Sezioni unite (n. 33216 del 31/03/2016, Rigacci. Rv. 267237), risolvendo un contrasto sviluppatosi nella giurisprudenza delle sezioni semplici in materia di m.a.p., hanno affermato che l'ordinanza predibattimentale di rigetto della domanda di accesso al beneficio non è immediatamente impugnabile, ma è appellabile unitamente alla sentenza di primo grado, ai sensi dell'art. 586 cod. proc. pen.

2. Inquadramento della questione.

Nel disciplinare il nuovo istituto, il legislatore ha regolato le fasi e i termini di presentazione della domanda. Essa può essere proposta nel corso delle indagini preliminari (art. 464-ter cod. proc. pen.), all'udienza preliminare fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422 e, nei casi di giudizio direttissimo e di procedimento di citazione diretta a giudizio, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (l'art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen.), che costituisce anche, ma solo nel caso di precedente rigetto, il termine ultimo entro cui l'imputato può rinnovare la richiesta (art. 464-ter, comma 4, cod. proc. pen.).

L'art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen., stabilisce che il pubblico ministero e l'imputato possono ricorrere contro l'ordinanza che decide sulla richiesta, ma non puntualizza se con ciò intenda legittimare o meno l'autonoma impugnazione dell'ordinanza, quale che sia il suo contenuto. Certamente, la norma consente il ricorso immediato avverso il provvedimento di accoglimento dell'istanza dell'imputato, giacché in tal caso alle parti non sarebbe altrimenti consentito alcun rimedio avverso la decisione assunta (ex multis, Sez. 5, n. 25566 del 3/6/2015, Marcozzi, Rv. 264061). Il dubbio attiene all'ipotesi in cui la decisione sia di rigetto, contrapponendosi nella giurisprudenza di legittimità due orientamenti: uno favorevole[1], l'altro contrario[2] alla autonoma impugnabilità dell'ordinanza.

La questione ebbe a suo tempo a proporsi per l'omologo istituto "minorile" disciplinato dall'art. 28 d.P.R. n. 448 del 1988. In questo caso, dopo un periodo di iniziale incertezza, è prevalso, consolidandosi nel tempo, l'orientamento che ritiene l'ordinanza di rigetto dell'istanza di m.a.p. impugnabile soltanto congiuntamente alla sentenza che definisce il giudizio (Sez. 4, n. 34169 del 18/6/2002, dep. 2003, Tenerelli, Rv. 225953; Sez. 1, n. 1467 del 22/03/1995, Biasco, Rv. 201137; Sez. 4, n. 3107, 30/06/1992, Franzè, Rv. 192165; contra Sez. 1, n. 1768 del 20/11/1992, Muzio, Rv. 193517; Sez. 1, n. 11650 del 9/11/1992, Mancini e altro, Rv. 192579).

3. La sentenza delle Sezioni unite.

Smentendo le certezze interpretative che ciascuno dei due orientamenti riteneva di cogliere dal dato letterale della norma, le Sezioni unite hanno evidenziato l'oggettiva ambiguità nei contenuti della disposizione in esame e, quindi, la necessità di una lettura di sistema di tutti i segmenti della disciplina alla ricerca di una soluzione in grado di garantire all'interessato il massimo livello di accessibilità al nuovo istituto e a questo il conseguimento delle finalità deflattive che gli sono proprie. Ragionando in questa ottica, il Supremo collegio ha ritenuto di privilegiare la tesi dell'impugnabilità dell'ordinanza predibattimentale di rigetto, solo con la sentenza di primo grado, secondo la regola generale fissata dall'art. 586 cod. proc. pen.

Coordinando la fase dibattimentale con quelle precedenti, la Corte ha, così, delineato un regime unitario di rimedi, tale per cui l'indagato può presentare la domanda sin dalle indagini preliminari e reiterarla sino alle soglie del dibattimento, per poi impugnare l'eventuale ulteriore provvedimento di rigetto soltanto con la sentenza.

Nel sistema, così ricostruito, l'indagato/imputato è sempre tutelato nel merito, in quanto sia il giudice, cui viene reiterata la domanda, sia quello dell'impugnazione potranno operare una piena rivalutazione dell'istanza precedentemente rigettata.

La Corte non ha accolto quell'orientamento che consente all'imputato, la cui richiesta venga rigettata nell'udienza preliminare, di impugnare la decisione negativa con ricorso per cassazione e, allo stesso tempo, di riproporre la richiesta nel successivo giudizio, prima dell'apertura del dibattimento (così, Sez. 2, n. 45338 del 4/11/15, Rigoni e altro, Rv. 265101). Ciò per la diseconomia processuale che deriverebbe da una tale soluzione, rispetto a quella proposta, secondo cui, nell'esempio che si è fatto, l'imputato avrebbe come prima possibilità la riproposizione dell'istanza nella fase di apertura del dibattimento e solo in caso di un nuovo rigetto la facoltà di impugnare il provvedimento negativo unitamente alla sentenza.

Nell'arresto in commento, il massimo organo di legittimità ha mostrato di non ignorare che l'eventuale accesso alla m.a.p. nel giudizio di appello determinerebbe una certa compromissione dell'effetto deflattivo processuale che costituisce la finalità primaria della m.a.p. (cfr., C. cost., n. 207 del 2016; C. cost., n. 240 del 2015)[3].

Tuttavia, i giudici hanno valutato questa evenienza, recessiva rispetto all'interesse dell'imputato di ottenere gli effetti di rilievo sostanziale derivanti dal superamento favorevole della m.a.p. e che conducono all'estinzione del reato.

4. Diritto di accesso e finalità deflattive della messa alla prova.

A ben vedere la priorità accordata dalla Corte al diritto di accesso dell'imputato alla m.a.p. non si pone in antitesi rispetto alla funzione deflattiva demandata all'istituto.

Con quest'ultima espressione ci si riferisce, invero, alla riduzione, non soltanto del carico processuale, conseguente alla rapida ed anticipata definizione del procedimento, ma anche di quello "penitenziario". Ed anzi, è stato proprio questo il profilo scatenante che ha determinato il legislatore ad aprire le porte del rito ordinario all'istituto in parola, inserito, non a caso, tra gli interventi, in risposta alla sentenza "Torreggiani" (8 gennaio 2013), con la quale la Corte edu, esaminando gli effetti della drammatica condizione di sovraffollamento delle carceri, aveva condannato l'Italia per violazione dell'art. 3 della Convenzione.

La pronuncia del giudice sovranazionale, nell'imporre al legislatore italiano di ovviare alla situazione di pregiudizio delle carceri italiane, ha stimolato di fatto un profondo ripensamento del sistema penale, in tutte le sue aree, da quella sostanziale a quella processuale (della cognizione e dell'esecuzione della pena), con il fine di snellire lo svolgimento dei giudizi, di ridurne la durata, di sfoltire il numero di detenuti e di tutelare la condizione di questi ultimi all'interno delle carceri, lì dove persistessero condizioni di detenzione disumane e degradanti.

È così, per la parte che qui interessa, se una serie di reati bagatellari "propri", ritenuti ormai privi di offensività, sono stati oggetto di depenalizzazione (d.lgs. 15 Gennaio 2016, n. 8) o di abrogazione (d. lgs. 15 Gennaio 2016, n. 7), una serie di altri reati, cd. "bagatellari impropri", sono stati attratti nel meccanismo deflattivo, attraverso l'introduzione della causa di non punibilità della tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.) e della m.a.p.; adatto, quest'ultima, a far conseguire un significativo sgravio del carico giudiziario e penitenziario e, al contempo, a ricucire lo strappo sociale provocato dalla condotta criminosa.

Nella sentenza in commento, le Sezioni unite, pur non soffermandosi sulle teorie retributive e riparative del diritto penale[4] hanno mostrato piena consapevolezza e sensibilità dell'importanza e delle potenzialità dell'istituto di nuova introduzione, in grado di ribaltare i tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio, con l'obiettivo di riportare nell'idea rieducativa un complesso e integrato sistema di aiuto sociale, sul presupposto che la politica sociale è la migliore criminale e il diritto penale l'extrema ratio della politica sociale. Atteggiamento di favore, quello del più autorevole consesso, ancor più manifesto nella sentenza gemella (Sez. U, 31 marzo 2016, n. 36272, Sorcinelli, Rv. 267238) di cui si dirà più avanti, pronunciata nella stessa data di quella in commento.

5. Verso una possibile rimodulazione della disciplina di accesso alla messa alla prova.

Nel dibattimento minorile, in assenza di barriere temporali, la sospensione con m.a.p. è disposta alla fine dell'istruttoria, consentendosi così al collegio di formulare con maggiore contezza il necessario giudizio, sia pure sommario, di sussistenza del fatto e di responsabilità dell'imputato. Ragioni deflattive processuali, dettate dal bisogno di accelerare i tempi del processo e di alleggerire il carico delle pendenze, hanno invece determinato il legislatore a fissare, nella fase predibattimentale del rito ordinario, la soglia ultima entro cui proporre la richiesta di sospensione con m.a.p., nella convinzione che ciò fosse sufficiente a garantire una rapida definizione del giudizio.

In realtà, il rischio di rimbalzi e rallentamenti processuali costituisce il portato fisiologico del regime delle impugnazioni e in quanto tale non è del tutto neutralizzabile, qualunque sia, della questione dibattuta, la tesi che si vuole privilegiare. Si pensi, invero, che, seguendo anche la tesi favorevole al ricorso immediato per cassazione avverso il provvedimento di rigetto, questo non sospenderebbe il procedimento (art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen.), per cui sarebbe tutt'altro che improbabile il sopraggiungere di un annullamento del provvedimento reiettivo in una fase processuale avanzata, se non già definita con sentenza di primo grado o addirittura irrevocabile.

La preclusione "predibattimentale" possiede, dunque, in ogni caso, una portata relativa ed è questa la ragione per cui essa non ha costituito ostacolo alla lettura della norma fornita dalle Sezioni unite, che, conferendo primaria importanza alla tutela del diritto di accesso alla m.a.p., hanno ritenuto che ciò fosse pienamente garantito, soltanto consentendo all'interessato di impugnare nel merito il provvedimento a lui sfavorevole.

Nell'approdare a questa conclusione, i giudici non solo hanno accettato che la m.a.p. possa svolgersi nel corso del giudizio di appello, ma hanno anzi salutato con favore una simile evenienza, che consentirebbe una gestione della prova, confortata da un maggiore bagaglio di conoscenze dell'imputato, tale da favorire la predisposizione di un progetto trattamentale efficace, capace cioè di adeguarsi alla personalità del soggetto e di realizzare gli scopi di risocializzazione.

Il rilievo, pienamente condivisibile se si considerano le marcate finalità special preventive connesse al contenuto afflittivo della prova, si scontra, però, con le attuali barriere preclusive, che (a differenza del rito minorile) consentono l'accesso alla m.a.p. soltanto all'apertura e non alla chiusura del dibattimento.

Ragionando, poi, su un piano più pratico (ma non per questo trascurabile), l'esigenza di una rivisitazione delle attuali cadenze processuali emerge anche guardando fattispecie come quella della "Rigacci". Nell'occasione, pur essendo stata celebrata l'udienza preliminare, l'istanza di sospensione con m.a.p. era stata, per la prima volta, proposta nella fase antecedente l'apertura dibattimento, a seguito della riqualificazione del fatto da parte del p.m. in una fattispecie di reato (art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990), rientrante, a differenza di quella originaria (art. 73, d.P.R., cit.), nei limiti edittali fissati dall'art. 168-bis, cod. pen.. A rigore, dunque, l'istanza sarebbe stata inammissibile. Tuttavia, nell'ordinanza di rimessione, il profilo della tempestività è stato risolto favorevolmente, sul presupposto che nella fattispecie si sarebbe riprodotta, prima dell'apertura del dibattimento, una situazione del tutto identica a quella che sarebbe derivata dall'emissione di una citazione diretta a giudizio, rito oggi fisiologicamente applicabile, in ragione della pena edittale, al reato di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990. In altri termini, si legge in motivazione, la situazione venutasi a verificare sarebbe omologabile a quella prevista dall'art. 550, comma 1, cod. prc. pen., per cui è parso conforme alla ratio della norma dare prevalenza al rilievo che per quel tipo di reato lo sbarramento processuale avrebbe dovuto coincidere con l'apertura del dibattimento, a prescindere dal fatto che in base all'originaria qualificazione fosse necessaria l'udienza preliminare, in concreto celebrata. Soluzione, questa, ritenuta dalla Corte remittente preferibile sia valutando la natura sostanziale dell'istituto della messa alla prova sia considerando l'aspetto processuale, correlato alla definizione alternativa del processo tramite l'applicazione di un istituto che ha natura deflattiva.

L'opzione ermeneutica seguita dal giudice remittente non è priva di rilevanza, in quanto potrebbe segnare, di fatto, l'allargamento delle maglie di accesso al beneficio in commento fino a ricomprendere l'ipotesi in cui l'imputato, pur in presenza di una contestazione che esuli dai casi di cui all'art. 550, cit., presenti, ugualmente, prima dell'apertura del dibattimento, l'istanza di sospensione, prospettando una qualificazione del fatto a lui favorevole. Principio, questo, affermato dalla recentissima Sez. 4, n. 4527 del 20/10/2015, dep. 2016, Cambria Zurro, Rv. 265735, secondo la quale il giudice, cui sia stata rivolta la richiesta la sospensione del procedimento con m.a.p., è tenuto a verificare la correttezza della qualificazione giuridica attribuita al fatto dall'accusa e può - ove la ritenga non corretta - modificarla, traendone i conseguenti effetti sul piano della ricorrenza o meno dei presupposti dell'istituto in questione.

Esulerebbe ancora, invece, dallo spazio applicativo dell'istituto, l'eventuale riqualificazione intervenuta all'esito del giudizio, così come la modifica della contestazione intervenuta in corso di giudizio, fermo restando che in tal caso (osserva il giudice remittente), almeno ove si tratti di modifica per diversità del fatto, tale da ricondurre il reato entro la sfera di operatività dell'istituto della m.a.p., non consentita nella configurazione precedente, potrebbe prospettarsi una questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., della norma che prevede lo sbarramento entro le fasi processuali sopra indicate, così da precludere, non per colpa dell'interessato, l'accesso ad un istituto che assume rilievo anche sostanziale e si prefigge di assicurare anche una peculiare esigenza di trattamento rieducativo.

6. La rilevanza delle aggravanti nel computo dei limiti edittali della messa alla prova (Sezioni unite "Sorcinelli").

Si è già accennato che nella stessa udienza di trattazione del ricorso "Rigacci" le Sezioni unite si sono occupate, in autonomo procedimento, dell'istituto della m.a.p., non soltanto con riferimento al profilo dell'impugnabilità del relativo provvedimento reiettivo, ma anche sulla rilevanza delle circostanze aggravanti nel computo dei limiti edittali di accesso al beneficio.

In particolare, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul se, nella determinazione del limite edittale fissato dall'art. 168-bis, comma 1, cod. pen., ai fini dell'applicabilità della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova, deve tenersi conto delle circostanze aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.

7. Inquadramento della questione.

L'esame della questione impone di prendere avvio dal dato normativo di riferimento.

L'art. 168-bis cod. pen. delimita l'ambito operativo dell'istituto della m.a.p. affidandosi ad un duplice criterio nominativo e quantitativo, comprendente, da un lato, le specifiche figure delittuose indicate dall'art. 550, comma 2, cod. proc. pen. dall'altro tutti i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni (sola, congiunta o alternativa a quella pecuniaria), senza puntualizzare, però, in questo secondo caso, se nella determinazione dell'indicato limite edittale debbano essere considerati o meno gli eventuali fattori circostanziali aggravatori.

Da qui la questione di diritto sopra enunciata, oggetto nella giurisprudenza di legittimità di contrastanti soluzioni.

8. Il contrasto.

Un primo indirizzo riteneva che quando si procede per reati diversi da quelli nominativamente individuati per effetto del combinato disposto dagli artt. 168-bis, primo comma, cod. pen., e 550, comma 2, cod. proc. pen., il limite edittale, al cui superamento consegue l'inapplicabilità dell'istituto, si determina tenendo conto delle aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale (Sez. 6, n. 36687, del 30/06/2015, Fagrouch, Rv. 264045; Sez. 6, n. 46795 del 06/10/2015, Crocitti, Rv. 265484).

L'assunto muove dalla constatazione che il legislatore, in quegli istituti ove ha inteso perimetrare lo spazio applicativo attraverso il criterio quantitativo "edittale", ha sempre previsto la computazione ai fini della determinazione della pena delle circostanze di cui all'art. 63, comma 3, cod. pen.. Si pensi nel codice di rito agli artt. 4 (sulla competenza), 278 (in materia di misure cautelari personali), 379 (in tema di arresto in flagranza) e 550 (sui casi di citazione diretta a giudizio) ovvero nel codice penale agli artt. 131-bis (tenuità del fatto) e 157 (prescrizione). Di conseguenza, anche con riferimento all'istituto della m.a.p., pur in assenza di una espressa previsione normativa, la soluzione interpretativa da adottare non può che allinearsi alla disciplina dettata per le ipotesi appena indicate.

A questo primo argomento di portata generale, se ne aggiunge altro, interno questa volta all'art. 168-bis, secondo cui il criterio quantitativo ivi espresso, se non conformato al dettato delle altre norme suindicate, si porrebbe in palese contrasto con il criterio "qualitativo", attuato con il richiamo all'art. 550, comma 2, cit., là dove il legislatore ha effettuato una precisa scelta di "indicare normativamente" i delitti per i quali è ammessa la m.a.p., inglobandovi i delitti puniti con pena prevista anche da aggravanti per le quali la legge prevede una specie di pena diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale. Tale scelta, si è osservato, può trovare spiegazione soltanto con la precipua volontà del legislatore di tenere conto ai fini del criterio "quantitativo" della regola stabilita dall'art. 550, comma 1, cit., ivi compreso l'espresso richiamo all'art. 4, cit., là dove stabilisce che, ai fini edittali, non si tiene conto delle aggravanti speciali e ad effetto speciale.

Soltanto così, è stato affermato, il sistema troverebbe una sua completezza e coerenza, rispettando la logica complessiva della legge di rendere applicabile "la messa alla prova", per tutti quei delitti per i quali si procede a citazione diretta a giudizio dinanzi al giudice in composizione monocratica.

Da questa prima esegesi si discostava un secondo, maggioritario, filone giurisprudenziale, che, sulla base di una interpretazione fedele alla lettera della legge e che si assumeva essere anche più coerente sul piano logico e sistematico, riteneva che il parametro quantitativo sancito all'art. 168-bis cit. si riferisce unicamente alla pena massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dalla contestazione di qualsivoglia aggravante, comprese quelle ad effetto speciale (Sez. 6, n. 6483 del 09/12/2014, dep. 2015, Gnocco e altro, Rv. 262341; Sez. 2, n. 33461 del 14/07/2015, Ardissone, Rv. 264154; Sez. 4, n. 32787 del 27/07/2015, Jenkins Rossi, Rv. 264325).

9. La soluzione fornita dalle Sezioni unite.

Con la sentenza in commento ( n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238), le Sezioni unite hanno risolto la questione optando per la seconda delle due tesi richiamate, riprendendo molti degli argomenti utilizzati negli arresti che a questa avevano aderito[5].

9.1. Argomento letterale.

In ossequio alla prima regola interpretativa fissata dall'art. 12 preleggi, limite di ogni altro criterio ermeneutico cui ricorrere solo quando il testo risulti poco chiaro o di significato non univoco, la Corte ha ritenuto doveroso valorizzare il portato testuale dell'art. 168-bis, cod. pen., che seleziona i reati in base a un duplice criterio, quantitativo e qualitativo, ma non contiene alcun riferimento alla possibile incidenza di eventuali aggravanti al fine di identificare i reati che possono essere ricompresi nell'ambito dell'istituto della m.a.p.

9.2. Lettura sistemica.

Il dato letterale ha assunto nel procedere argomentativo della Corte maggior pregnanza per effetto del raffronto con altri momenti normativi ricavabili dall'ordinamento (art. 4, cod. proc. pen.; art. 157, cod. pen.; art. 278, cod. proc. pen.; art. 131-bis cod. pen.), rispetto ai quali il differente riferimento al dato edittale (vale a dire l'esplicita esclusione nel computo della pena delle circostanze previste dall'art. 63, comma 3, cod. pen.) assume rilievo nell'ottica precipua dei singoli istituti. Ne consegue, a giudizio del collegio, l'impossibilità di enucleare dal sistema un omogeneo criterio di computo dei limiti edittali (come invece sostenuto nella sentenza "Fagrouch"), in quanto soltanto dove il legislatore ha voluto che si tenesse conto delle circostanze aggravanti lo ha espressamente previsto.

L'argomento confutato era stato sostenuto anche dal Procuratore generale, a parere del quale l'argomento letterale sarebbe in contraddizione con "un canone classico del diritto penale sostanziale, che da sempre collega il riferimento della pena edittale alla fattispecie incriminatrice nel suo complesso".

Anche posto in questi termini la Corte ha, però, ritenuto non condivisibile l'assunto.

Si è, infatti, osservato che l'affermazione secondo cui la fattispecie circostanziata è dotata di una sua autonoma cornice edittale è sicuramente corretta se riferita alla struttura del reato, ma non sembra giocare un ruolo nell'interpretazione dell'art. 168-bis, cit., conducendo ad una configurazione dell'istituto che, oltre a non trovare riscontro nella lettera della legge e delle analoghe previsioni di diritto sostanziale e processuale, si discosta apertamente dalla voluntas legis.

Sotto altro profilo, si è aggiunto, le argomentazioni espresse nella requisitoria dovrebbero condurre a considerare, in assenza di specificazioni normative di segno contrario, la rilevanza di tutte le circostanze, aggravanti e attenuanti, comuni e speciali. Ma dare rilievo, in questo caso, alle circostanze comuni risulterebbe operazione di difficile attuazione, considerando che gli aumenti previsti dalla legge sono "mobili", oltre che proporzionali rispetto alla pena-base, e manca un criterio applicativo di riferimento.

In realtà, ogni tentativo di ricercare una rigorosa e indefettibile coerenza del sistema in materia è destinato all'insuccesso, in quanto i criteri per la selezione dei reati attraverso il riferimento alla quantità di pena sono influenzati dagli istituti a cui si riferiscono e sono utilizzati, di volta in volta, in base a valutazioni discrezionali del legislatore. Anche a voler ammettere che la maggior parte delle disposizioni del codice tengano conto, per la determinazione della pena ai più diversi fini, delle circostanze aggravanti per le quali è stabilita una pena di specie diversa e di quelle ad effetto speciale, non per questo deve ritenersi che da esse emerga una regola generale e, soprattutto, che tale regola non sia derogabile dal legislatore. In realtà, si tratta semplicemente di una linea di tendenza", che non assurge a criterio generale.

Del resto, è parso significativo al collegio che nella stessa 1. n. 67 del 2014, accanto a disposizioni che richiamano espressamente l'art. 278, cod. proc. pen., ai fini della determinazione della pena (art. 1, comma 1, lett. c, g, contenente la delega in materia di pene detentive non carcerarie), ve ne siano altre - come la delega in materia della particolare tenuità del fatto, contenuta nel medesimo art. 1, lett. m), nonchè lo stesso art. 168-bis, introdotto dall'art. 3 - che non fanno alcun cenno alle circostanze aggravanti, a dimostrazione che il legislatore quando vuole dare rilevanza alle circostanze lo fa in modo esplicito.

Il fatto poi che, in sede di attuazione della delega sulla particolare tenuità del fatto, si sia previsto che per la determinazione della pena detentiva si debba tenere conto delle circostanze speciali, trova una sua giustificazione, considerando che questo istituto dà luogo ad una causa di non punibilità, con conseguente rinuncia ad ogni trattamento sanzionatorio, per cui opportunamente se ne è ridimensionata la portata applicativa, limitandola a fatti che non presentino un particolare disvalore, anche in considerazione del limite edittale previsto, che è addirittura più alto di quello per la messa alla prova.

Allo stesso modo è stato escluso che il richiamo contenuto nell'art. 168-bis all'art. 550, comma 2, cit., debba essere esteso al comma 1, e, di conseguenza, all'art. 4, cod. proc. pen., in esso menzionato.

Questa interpretazione, secondo una delle decisioni ricomprese nel primo orientamento richiamato (Sez. 6, n. 36687 del 10/09/2015, Fagrouch), assicurerebbe una maggior coerenza al sistema, evitando che il duplice criterio selettivo determini una serie di contraddizioni e di incertezze applicative e, così, colmando una pretesa lacuna" per l'operatività dell'istituto.

In tal modo si propone, tuttavia, una interpretazione correttiva che si scontra con la chiarezza della norma, la quale non evoca il comma 1 dell'art. 550, cit., non richiama l'art. 4 dello stesso codice e non menziona alcuna circostanza aggravante, limitandosi ad indicare espressamente l'art. 550, solo comma 2, per delineare le fattispecie di reato per le quali la messa alla prova è, in astratto, consentita.

Del resto, il riferimento al comma 1, contenuto nel successivo comma dell'art. 550, non può essere considerato un richiamo quoad penam, o meglio ai criteri di determinazione della pena, in quanto si tratta semplicemente dell'indicazione che, anche per i reati di cui all'elencazione, il pubblico ministero deve esercitare l'azione penale con la citazione diretta.

9.3. La voluntas legis.

La lettura alternativa proposta dall'orientamento contrario a quello prescelto, risulta smentita, a giudizio del massimo consesso, anche in base alla "intenzione del legislatore", ricostruita attraverso i lavori parlamentari che hanno portato alla definitiva approvazione della legge. Infatti, nella formulazione originaria della disposizione contenuta nel disegno di legge n. 111 di iniziativa del sen. Palma (art. 1, comma 1, lett. c), vi era l'esplicito riferimento alle circostanze speciali e ad effetto speciale, ma esso è stato successivamente soppresso nel testo congiunto approvato dal Senato e trasmesso alla Camera dei deputati (cfr. Dossier n. 89 della 17^ Legislatura, a cura del Servizio Studi del Senato, 2013). La modifica è stata ritenuta necessaria per escludere le circostanze di cui all'art. 63, comma 3, cod. pen., dal computo della pena ai fini dell'applicabilità dell'istituto.

Nessun vuoto normativo, presupposto indefettibile per ricorrere alla analogia, dunque. Piuttosto, deve rilevarsi come il legislatore, al fine di ampliare la portata operativa dell'istituto, abbia volutamente soppresso l'originario riferimento alle aggravanti di cui all'art. 63, cit., sul presupposto che ciò fosse sufficiente ad impedire che gli aumenti conseguenti a dette circostanze potessero in qualche modo incidere sulla determinazione della pena.

9.4. Non coincidenza tra il perimetro di operatività delle ipotesi per le quali è prevista la citazione diretta a giudizio e quelle per le quali è consentita la m.a.p.

Discostandosi da quanto affermato nelle sentenze "Fagrouch" e "Crocitti", le Sezioni unite hanno, altresì, osservato che, ove il legislatore avesse inteso attuare una piena sovrapposizione dei reati a citazione diretta a quelli per cui è ammessa la m.a.p., si sarebbe riportato per intero al disposto di cui all'art. 550, cit., proprio in ragione del medesimo limite edittale individuato in entrambe gli istituti in disamina. Non a caso, invece, è stato richiamato solo il secondo comma di tale ultima norma (e non il primo, che al detto limite edittale fa riferimento), proprio per evitare di escludere l'applicazione dell'istituto anche per quei reati di competenza collegiale che sono puniti con pena edittale inferiore nel massimo ai quattro anni.

Anche la dottrina, richiamata in sentenza, ritiene, del resto, che quella del legislatore è stata una scelta consapevole, limitata ad operare una selezione dei reati per categorie criminose, laddove il richiamo al citato art. 550, comma 1, avrebbe avuto come effetto quello di escludere l'applicazione dell'istituto per reati puniti con pena edittale inferiore nel massimo ai quattro anni, ma di competenza collegiale ai sensi dell'art. 33-bis cod. proc. pen., quindi non ricompresi nel giudizio a citazione diretta. Soluzione, questa, che avrebbe comportato rischi di tenuta costituzionale della norma, in quanto tali reati sarebbero stati esclusi solo perchè non ricompresi nel procedimento a citazione diretta. Infatti, in base al criterio di quantificazione della pena previsto dall'art. 550, comma 1, attraverso il riferimento all'art. 4, la presenza di una aggravante ad effetto speciale che porti il limite edittale oltre la soglia dei quattro anni, impedendo la citazione diretta, ostacolerebbe l'accesso dell'imputato alla messa alla prova. Se avesse inteso operare in tal senso il legislatore lo avrebbe esplicitato, richiamando l'art. 4, cit.

L'argomento disatteso risulterebbe, infine, contraddetto dal tenore dell'art. 464-bis. comma 2, cod. proc. pen., che, nel fissare i termini finali entro i quali è possibile avanzare la richiesta di accesso alla messa alla prova, fa riferimento alla formulazione delle conclusioni in udienza preliminare ai sensi degli artt. 421 e 422, evidenziando così come il novero dei reati per i quali essa è consentita sia più esteso di quelli previsti dall'art. 550.

Una volta stabilito che l'art. 168-bis cod. pen., quando richiama l'art. 550, comma 2, cit., lo fa solo in funzione dell'individuazione di altre fattispecie per le quali è ammesso il rito, la questione sulla rilevanza delle circostanze aggravanti ad effetto speciale e di quelle per le quali la legge prevede una pena di specie diversa risulta fortemente ridimensionata. Infatti, tra i reati indicati nell'art. 550, comma 2, e per i quali l'imputato può chiedere di essere ammesso alla prova, vi sono fattispecie incriminatrici descritte nella loro forma aggravata (lett. c, d, e, t), alcune delle quali sanzionate con pene elevate, come il furto aggravato ai sensi dell'art. 625 cod. pen., che ricorrendo più circostanze può essere punito con la reclusione fino a dieci anni. Sicchè sostenere che il criterio selettivo "quantitativo", che si riferisce alla pena edittale non superiore a quattro anni, debba tenere conto, nella determinazione del limite di pena ai fini dell'ammissione alla prova, delle circostanze aggravanti di cui all'art. 63, comma 3, cod. pen., e, conseguentemente, escludere tali reati circostanziati dal rito, rivela la sua intrinseca contraddizione. Se il legislatore ha espressamente previsto che nell'ambito di applicazione della messa alla prova vi rientrino anche reati aggravati da circostanze ad effetto speciale, non si comprende perchè avrebbe dovuto introdurre, nel medesimo articolo, una regola di tenore contrario.

Neppure si potrebbe obiettare che il richiamo nominativo ai reati indicati nell'art. 550, comma 2, costituisca l'eccezione alla regola, poichè dagli elementi presi in considerazione emerge come il legislatore, nell'individuazione dei reati che possono accedere al nuovo istituto, non ha scelto solo quelli caratterizzati da una bassa gravità, ma si è spinto a selezionare anche fattispecie di gravità medio-alta, tanto è vero che nell'elenco di cui all'art. 550, comma 2, sono ricompresi reati, non circostanziati, che prevedono una pena-base massima superiore a quattro anni. Pertanto, deve escludersi che i due criteri utilizzati dall'art. 168-bis - quantitativo e qualitativo - si pongano in un rapporto di "regola a eccezione".

Si è trattato di una opzione maturata durante i lavori parlamentari, in risposta alle istanze provenienti da più parti, volte a rendere la messa alla prova maggiormente "competitiva" rispetto ad altri istituti, come la sospensione condizionale della pena, non in grado di soddisfare le istanze deflative, che costituiscono una delle finalità del nuovo rito. Del resto, accedendo alla tesi più restrittiva, si avrebbe come effetto una sostanziale "sovrapposizione" dello spazio operativo della messa alla prova rispetto a quello di altre discipline quale, ad esempio, la causa di non punibilità per tenuità del fatto, nei cui confronti l'art. 168-bis cod. pen., avrebbe un raggio d'azione persino ridotto, considerato che l'art. 131-bis, fissa il limite edittale di applicazione dell'istituto in anni cinque di reclusione, che, in questo caso, tiene però conto delle aggravanti speciali e ad effetto speciale.

9.5. Le ragioni specialpreventive poste dalla Corte a fondamento della soluzione prescelta.

Coerente a quanto affermato nella sentenza gemella "Rigacci", la Corte ha ritenuto che la soluzione prescelta fosse quella conforme alle connotazioni specialpreventive dell'istituto della m.a.p.

Di contro, la tesi non condivisa presuppone, a giudizio dei giudici, un'eccessiva enfatizzazione delle ragioni generalpreventive, tendenti a limitare l'istituto a reati rientranti nella fascia di gravità bassa, che rischiano, però, di tradire la stessa ratio della messa alla prova.

Rispetto alla chiarezza della lettera della legge, caratterizzata da un significativo silenzio in ordine agli accidentalia delicti, i tentativi di limitare l'applicazione dell'istituto sulla base di un'interpretazione favorevole alla rilevanza delle circostanze, che ha come conseguenza l'esclusione di reati ritenuti gravi, oltre a scontrarsi con la volontà del legislatore di allargare l'ambito di operatività della messa alla prova, finisce per privilegiare una concezione "premiale" della sospensione del procedimento, operando una indebita dequotazione dei contenuti trattamentali tesi alla prevenzione speciale.

Questa nuova figura, di ispirazione anglosassone, realizza una rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita e si connota per una accentuata dimensione processuale, che la colloca nell'ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio (Corte cost., n. 240 del 2015). Ma di essa va riconosciuta, soprattutto, la natura sostanziale. Da un lato, nuovo rito speciale, in cui l'imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo; dall'altro, istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene "infranta" la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto.

La sospensione del procedimento dà luogo ad una fase incidentale in cui si svolge un vero e proprio esperimento trattamentale, sulla base di una prognosi di astensione dell'imputato dalla commissione di futuri reati che, in caso di esito positivo, determina l'estinzione del reato. Il percorso di "prova" comporta per l'imputato l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e, se possibile, il risarcimento dei danni in favore della persona offesa, quindi l'affidamento al servizio sociale sulla base di un programma e, infine, la prestazione di un lavoro di pubblica utilità.

Il legislatore ha dato impulso ad un profondo ripensamento del sistema sanzionatorio che ancora oggi "gravita tolemaicamente intorno alla detenzione muraria". Il nuovo corso è testimoniato dalla L. n. 67 del 2014, che ha introdotto, tra l'altro, la messa alla prova e la particolare tenuità del fatto.

Si tratta di istituti diretti a contenere l'inflazione penalistica, nel tentativo di ridurre la crisi della sanzione penale, rendendo possibile il ricorso a reazioni "appropriate alla specificità dei fatti criminosi", in una concezione gradualistica dell'illecito, verso l'obiettivo di una razionalizzazione e laicizzazione del sistema penale attraverso la concentrazione delle risorse disponibili sugli illeciti di maggior significato e una lettura realistica del principio di obbligatorietà dell'azione penale, con la consapevolezza che la pena può non essere la conseguenza ineluttabile di ogni reato.

Da qui il carattere innovativo della messa alla prova che segna un ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio.

In considerazione delle finalità specialpreventive perseguite dall'istituto della sospensione del procedimento con m.a.p. e, di conseguenza, del soddisfacimento delle esigenze di prevenzione generale tramite un trattamento che conserva i caratteri sanzionatori, seppure alternativi alla detenzione, risulta pertanto plausibile una sua applicazione anche a reati ritenuti astrattamente gravi.

Sembra evidente, sulla base di un approccio sistematico alla lettura dell'art. 168-bis cod. pen., che la gravità del reato non debba essere pregiudizialmente enfatizzata nel momento dell'astratto rilievo dei criteri di ammissibilità, in quanto il giudizio effettivo di ammissione del rito resta riservato alla valutazione del giudice circa l'idoneità del programma trattamentale proposto e la prognosi di esclusione della recidiva: valutazione, questa, che si svolge in base ai parametri dell'art. 133 cod. pen., i quali attengono alla gravità del reato, desunta dalla condotta, dall'entità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa e dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Ed è proprio questa la fase in cui assume effettivo e concreto rilievo la gravità dell'illecito.

Anticipare questa valutazione sin dai criteri astratti di ammissibilità cui fa riferimento l'art. 168-bis cod. pen., equivale a restringere, in forza di una interpretazione praeter legem, l'ambito operativo della messa alla prova, utilizzando automatismi che irrigidiscono l'istituto in un'ottica di sola prospettiva premiale. Al contrario, la lettura corretta della norma amplia il perimetro di operatività del rito, spostando sul giudice e sul suo potere discrezionale la motivata valutazione in merito alla fondatezza della richiesta dell'imputato, coerentemente con le finalità specialpreventive della messa alla prova.

10. Conclusione.

La soluzione che ritiene l'irrilevanza delle circostanze risulta confermata non solo dall'interpretazione letterale dell'art. 168 bis, cit., che pone in evidenza la mancanza di ogni riferimento agli accidentalia delicti, e dalla ricostruzione della voluntas legis, ma anche da un'interpretazione logico-sistematica, là dove si osservi che l'effetto di estendere l'ambito applicativo della messa alla prova a reati che possono presentare un maggiore disvalore trova piena giustificazione con il fatto che si tratta di un istituto che prevede, comunque, un "trattamento sanzionatorio" a contenuto afflittivo, non detentivo, che può condurre all'estinzione del reato. Tale carattere, infine, è confermato dall'art. 657-bis cod. proc. pen., in cui si prevede che nel determinare la pena da eseguire in caso di fallimento della prova (a seguito di revoca o di esito negativo della messa alla prova) venga comunque detratto il periodo corrispondente a quello della prova eseguita.

Il percorso argomentativo svolto approda, così, alla conclusione per cui ai fini dell'individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la disciplina dell'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, il richiamo contenuto all'art. 168-bis cod. pen. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie-base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese quelle ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.

SEZIONE II DECRIMINALIZZAZIONE

Sommario

PREMESSA

PREMESSA.

Con i recenti decreti legislativi, 15.01.2016, n. 7 e n. 8, il Governo ha esercitato la delega, contenuta nell'art. 2 della legge 28 aprile 2014, n. 67, dettando disposizioni in tema di abrogazione di reati ed introduzione di illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie civili (art. 2, comma 3) e di depenalizzazione (art. 2, comma 2) con trasformazione degli illeciti penali in illeciti amministrativi.

Come evidenziato nelle relazioni governative di accompagnamento agli schemi dei due decreti, con questi interventi il legislatore ha inteso dare concretezza ad una scelta politica volta a deflazionare il sistema penale, sostanziale e processuale, in ossequio ai principi di frammentarietà, offensività e sussidiarietà della sanzione criminale: l'idea condivisa è che una penalizzazione generalizzata, seppure formalmente rispondente a intenti di maggiore repressività, si risolve di fatto in un abbassamento della tutela degli interessi coinvolti, nella misura in cui la macchina repressiva penale non è (e non può essere) calibrata per sanzionare un numero elevato di fatti, specie quando questi siano minori per grado di offensività.

In particolare, il duplice intervento legislativo ha trovato fondamento nell'esigenza di procedere secondo modalità diverse in relazione alle fattispecie generalmente procedibili di ufficio, trasformate in illeciti amministrativi, e in relazione ai reati perseguibili su impulso della persona offesa, per i quali solamente è stata introdotta la particolare figura dell'illecito civile.

Il decreto n. 7 ha disposto, dunque, l'abrogazione di una serie di reati previsti da specifiche disposizioni del codice penale, poste a tutela della fede pubblica, dell'onore e del patrimonio, procedibili a querela di parte in quanto direttamente incidenti su interessi di natura privatistica. In ossequio a quanto stabilito dall'art. 2 comma 3 della legge delega, il decreto in esame, facendo salvo il diritto della persona offesa al risarcimento del danno, ha previsto, altresì, in relazione alle fattispecie abrogate, l'introduzione di adeguate sanzioni pecuniarie civili, "al fine di riconsiderare il ruolo tradizionalmente compensativo attribuito alla responsabilità civile nel nostro ordinamento, affiancando alle sanzioni punitive di natura amministrativa un ulteriore e innovativo strumento di prevenzione dell'illecito, nella prospettiva del rafforzamento dei principi di proporzionalità, sussidiarietà ed effettività dell'intervento penale"[1]. In relazione alle fattispecie descritte in tali norme, fermo restando il diritto della persona offesa al risarcimento del danno, il legislatore delegato ha introdotto una nuova tipologia di sanzione, le cosiddette "sanzioni pecuniarie civili". I reati oggetto di abrogazione sono stati, infatti, trasformati in illeciti civili, con applicazione delle relative sanzioni pecuniarie da parte del giudice competente a conoscere dell'azione di risarcimento del danno, al termine del giudizio, qualora l'autore abbia commesso le condotte tipizzate con dolo e venga accolta la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa (art. 8). Per quanto attiene alla disciplina transitoria, in assenza di indicazioni da parte della legge delega, il legislatore delegato ha previsto, salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili, l'applicazione della sanzione pecuniaria civile anche per i fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore del decreto (art. 12).

  • procedura penale

CAPITOLO I

DEPENALIZZAZIONE, ABROGAZIONI E ILLECITO CIVILE

(di Francesca Costantini )

Sommario

1 Premessa: l'intervento abrogativo realizzato con il decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7. - 2 Le questioni di diritto intertemporale. - 3 La tesi favorevole alla decisione del giudice dell'impugnazione sulle statuizioni civili. - 4 La tesi che esclude la decisione del giudice dell'impugnazione sulle statuizioni civili. - 5 Il principio affermato dalle Sezioni Unite. - 6 Conseguenze sull'ammissibilità del ricorso proposto dalla parte civile in caso di assoluzione per intervenuta abolitio criminis.

1. Premessa: l'intervento abrogativo realizzato con il decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7.

Con il d. lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, recante "Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili", in attuazione della delega conferita al Governo con l'art. 2, comma 3, lett. a) della legge 28 aprile 2014, n. 67, è stata disposta l'abrogazione di una serie di reati previsti da specifiche disposizioni del codice penale ed incidenti su interessi di natura prettamente privatistica. In relazione alle fattispecie descritte in tali norme, fermo restando il diritto della persona offesa al risarcimento del danno, il legislatore delegato ha introdotto una nuova tipologia di sanzione, le cosiddette "sanzioni pecuniarie civili". I reati oggetto di abrogazione sono stati, infatti, trasformati in illeciti civili, con applicazione delle relative sanzioni pecuniarie da parte del giudice competente a conoscere dell'azione di risarcimento del danno, al termine del giudizio, qualora l'autore abbia commesso le condotte tipizzate con dolo e venga accolta la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa (art. 8). Per quanto attiene alla disciplina transitoria, in assenza di indicazioni da parte della legge delega, il legislatore delegato ha previsto, salvo che il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili, l'applicazione della sanzione pecuniaria civile anche per i fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore del decreto (art. 12).

2. Le questioni di diritto intertemporale.

A seguito del delineato intervento legislativo, si è da subito posto in giurisprudenza un interrogativo riguardo l'incidenza dell'abolitio criminis sulle statuizioni civili scaturenti dalla sentenza di condanna eventualmente pronunciata nei gradi di merito. Ci si è chiesti in particolare se, nonostante il venir meno del reato e, conseguentemente, della possibilità di pronunciare una sentenza di condanna, il giudice dell'impugnazione conservasse il potere di decidere il ricorso agli effetti civili.

A differenza, infatti, di quanto previsto per le diverse figure di reato depenalizzate e contestualmente trasformate in illeciti amministrativi dal coevo d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, laddove, all'art. 9, comma 3, si è stabilito che quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell'impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, il citato decreto n. 7 non contempla alcuna disposizione che preveda la possibilità per il giudice dell'impugnazione di provvedere sulle statuizioni civili pronunziate nei gradi di merito.

L'assenza di una specifica disposizione circa la sorte delle statuizioni civili già adottate ha determinato, pertanto, l'insorgere di dubbi interpretativi in relazione ai quali la giurisprudenza di legittimità si è espressa in senso non univoco. Conseguentemente, la Seconda Sezione della Corte di cassazione, con ordinanza n. 26092 del 23 giugno 2016, ha rimesso alle Sezioni unite della Suprema corte la questione volta a stabilire "se, in caso di sentenza di condanna relativa ad un reato successivamente trasformato in illecito civile, ai sensi degli artt. 3 e 4 del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice dell'impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, debba revocare le statuizioni civili oppure decidere comunque sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili".

3. La tesi favorevole alla decisione del giudice dell'impugnazione sulle statuizioni civili.

Secondo un primo orientamento, avallato da pronunce di diverse sezioni, in caso di impugnazione di sentenza di condanna relativa ad una delle fattispecie criminose abrogate dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n.7, il giudice, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve, comunque, decidere sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.

Tale conclusione si rinviene in molti arresti, tutti convergenti nell'affermare che dall'assenza di una norma transitoria che disponga espressamente che il giudice dell'impugnazione è tenuto a pronunciarsi in ordine agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, non può farsi automaticamente conseguire la caducazione delle relative statuizioni (tra le molte, Sez. 2, n. 14529 del 23/03/2016, Bosco, Rv. 266467; Sez. 5, n. 14041 del 15/02/2016, Carbone, Rv. 266317; Sez. 2, n. 29603 del 27/04/2016, De Mauri, Rv. 267166).

A sostegno di tale conclusione si richiamava, in primo luogo, la consolidata giurisprudenza di legittimità formatasi in relazione all'ipotesi in cui l'abolitio criminis intervenga successivamente alla sentenza di condanna divenuta definitiva, secondo la quale, in virtù di quanto disposto dall'art. 2 comma 2, cod. pen., l'eventuale revoca della sentenza di condanna da parte del giudice dell'esecuzione non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto, con conseguente salvezza delle statuizioni civili derivanti da reato le quali continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata (tra le molte Sez. 5, n. 4266 del 20/12/2005, Colacito, Rv. 233598; Sez. 5, n. 28701 del 24/05/2005, Romiti, Rv. 231866; Sez. 6, n. 2521 del 21/01/1992, Dalla Bona, Rv. 190006). Si osservava, dunque, che, se l'art. 2 cod. pen. disciplina espressamente la sola ipotesi di cessazione dell'esecuzione e degli effetti penali della condanna, si deve ritenere che, riguardo alla ipotesi di sentenza non ancora divenuta definitiva, per il diritto del danneggiato al risarcimento dei danni devono trovare applicazione non i principi generali sulla successione delle leggi stabiliti dall'art. 2 cod. pen. bensì il principio stabilito dall'art. 11 delle preleggi per cui "la legge non dispone che per l'avvenire" e, pertanto, il diritto al risarcimento permane anche a seguito di abolitio criminis, a nulla rilevando successive modifiche legislative, che non abbiano espressamente disposto sui diritti quesiti.

Con riferimento, poi, all'interpretazione della disciplina dei decreti attuativi della legge delega n. 67 del 2014, si evidenziava che dall'esame congiunto dell'art. 3, co. 1, d.lgs n. 7 del 2016, che prevede che i "fatti previsti dall'articolo seguente, se dolosi, obbligano, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita" e dell'art. 12, co. 1, stesso decreto che, appunto, estende tale disciplina ai fatti commessi antecedentemente, consegue che anche il giudice penale è legittimato a riconoscere il risarcimento del danno. Una lettura sistematica della normativa, tale da consentire di affermare che anche il giudice penale è legittimato a riconoscere il risarcimento del danno per gli illeciti civili commessi prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 7, salvo che il processo sia stato definito. Si sosteneva, pertanto, l'insussistenza di alcuna differenza ontologica tra le ipotesi abrogate dal d.lgs. n. 7 e quelle depenalizzate dal d.lgs. n. 8 tale da giustificare una disciplina differente. Ciò anche in virtù dell'unicità della delega emanata con legge n. 67 del 2014, per cui non vi sarebbe ragione di riferire la disciplina dettata dal decreto legislativo n. 8, esclusivamente alle ipotesi depenalizzate da questo provvedimento e non anche da quello precedente.

Da ultimo, secondo le pronunce che si inscrivono in tale filone, la soluzione prospettata risulterebbe la più coerente con i principi della giurisdizione penale e civile evitando che talune cause estintive non dipendenti dalla volontà della parte danneggiata possano frustrare il diritto al risarcimento ed alla restituzione. L'interpretazione opposta, infatti, imponendo alla parte civile costituita la prosecuzione del giudizio in sede civile, sebbene lo stesso abbia già trovato definizione, pur non irrevocabile, in sede penale, si porrebbe in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost., potendo, altresì, condurre a possibili contrasti di giudicati poiché, a fronte dell'accertamento della sostanziale sussistenza del fatto illecito da parte del giudice penale, il giudice civile sarebbe chiamato ad una completa rivalutazione del medesimo fatto al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per l'irrogazione della sanzione.

4. La tesi che esclude la decisione del giudice dell'impugnazione sulle statuizioni civili.

A fronte dell'indirizzo giurisprudenziale esposto, si è contestualmente sviluppato altro orientamento che ha affermato la opposta soluzione per cui l'annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per una delle fattispecie criminose di cui al d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, comporta la revoca delle statuizioni civili (tra le altre, Sez. 2, n. 26091 del 10/06/2016, Tesi, Rv. 267004; Sez. 2, n. 26071 del 09/06/2016, Rossi, Rv. 267003; Sez. 5, n. 32198 del 10/05/2016, Marini, Rv. 267002; Sez. 5, n. 15634 del 14/04/2016, Guerzoni, Rv. 266502; Sez. 5, 16147 del 01/04/2016, Favaloro, Rv. 266503; Sez. 5, n. 14044 del 09/03/2016, Di Bonaventura, Rv. 266297).

Secondo tale avviso giurisprudenziale, la conclusione prescelta sarebbe da preferire, in primo luogo, in considerazione degli approdi raggiunti dal Giudice delle leggi in tema di rapporti tra giurisdizione penale e civile, essendo reiterato nella giurisprudenza costituzionale l'insegnamento, fondato sul favor separationis, per cui "l'assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all'idea della separazione dei giudizi, penale e civile", essendo "prevalente, nel disegno del codice, l'esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all'interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo" (sentenza n. 168 del 2006; in senso analogo, sentenza n. 23 del 2015). Principi confermati anche dalla recentissima sentenza n. 12 del 2016, che ha ribadito il carattere accessorio e subordinato dell'inserimento dell'azione civile nel processo penale, da cui consegue il suo necessario adattarsi alla funzione e alla struttura del processo penale nonché la legittimità dell'art. 538 cod. proc. pen., che collega in via esclusiva la decisione sulla domanda della parte civile alla condanna dell'imputato.

Conseguentemente, si osservava che, fuori dalle ipotesi espressamente previste, quali quelle di cui all'art. 578 cod. proc. pen., resta fermo il principio generale in forza del quale il giudice penale in tanto può occuparsi dei capi civili in quanto contestualmente pervenga a una dichiarazione di responsabilità penale, sicché, fuori dai casi in cui la disciplina introduttiva dell'abolitio criminis preveda che il giudice dell'impugnazione debba decidere sulla stessa ai soli effetti civili, rimane precluso al giudice dell'impugnazione l'esame, ai fini dell'eventuale conferma, delle statuizioni civili.

Sotto altro aspetto, la soluzione raggiunta troverebbe ulteriore conforto proprio nella diversa disciplina stabilita dall'art. 9, d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8 per gli illeciti depenalizzati e non replicata, per quelli abrogati, dal d.lgs. n. 7 del 2016, non potendosi, comunque, prospettare un'applicazione analogica di tale norma, in considerazione del carattere di eccezionalità che essa presenta, così come la disposizione di cui all'art. 578 cod. proc. pen. Le due discipline, inoltre, non risultano fondate sulla eadem ratio in quanto, "nel caso di depenalizzazione la sanzione prevista è irrogata dall'autorità amministrativa, sicché, definendosi nella sede amministrativa l'applicabilità delle sanzioni amministrative alle violazioni anteriormente commesse (art. 8), il legislatore ha attribuito al giudice dell'impugnazione penale il compito di provvedere sulle statuizioni civili. Nel caso, invece, di abrogazione a norma del d. lgs. n. 7, la sanzione pecuniaria civile è irrogata dal giudice competente a conoscere dell'azione di risarcimento del danno: di conseguenza, una previsione analoga a quella dell'art. 9, comma 3, d.lgs. n. 8 del 2016 (e a quella dì cui all'art. 578 cod. proc. pen.), impedendo che il giudice civile sia investito dell'azione di risarcimento del danno con riferimento agli illeciti per i quali sia già intervenuta almeno la sentenza di condanna penale in primo grado, risulterebbe del tutto incoerente con la previsione in forza della quale le disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie civili di cui al d.lgs. n. 7 del 2006 si applicano anche ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso decreto" (Sez. 5, n. 15634/16).

5. Il principio affermato dalle Sezioni Unite.

Con la sentenza n. 46688 del 29/09/2016, Schirru, Rv. 267884, le Sezioni unite hanno risolto il delineato contrasto affermando il principio di diritto secondo il quale "In caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile ai sensi del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice dell'impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili".

Nell'affrontare la questione, le Sezioni unite hanno preso le mosse innanzitutto dall'analisi della disciplina introdotta dal d.lgs. n. 7 del 2015, rilevando come essa debba considerarsi un complesso normativo autonomo e frutto di specifiche scelte del legislatore.

Si osserva, infatti, come non sia possibile trascurare la circostanza per cui, pur prevedendosi una disciplina transitoria (art. 12), non si rinviene in essa alcun riferimento all'eventuale potere del giudice dell'impugnazione di decidere sui capi relativi alle statuizioni civili. Il "silenzio normativo", unitamente alla particolare disciplina prevista per l'irrogazione delle sanzioni pecuniarie civili e soprattutto la previsione per cui il potere di irrogarle spetta al giudice competente a conoscere dell'azione di risarcimento del danno (art. 8) che, di regola, è il giudice civile, inducono a propendere per l'applicazione del canone interpretativo dell' ubi noluit non dixit, considerato altresì che, qualora si riconoscesse al giudice della impugnazione il potere di pronunciarsi anche sugli interessi civili, si dovrebbe ammettere che gli sia anche conferito il potere-dovere di irrogare la sanzione pecuniaria civile, implicante una valutazione di merito commisurata ai parametri di cui all'art. 5 del decreto, che non è consentita in sede di legittimità. Per altro verso, il raffronto di tale disciplina transitoria con quella di cui al coevo d.lgs. n. 8, rispecchierebbe "la più generale scelta di congegnare due sistemi con opzioni tecnico-normative differenziate ed autonome, l'uno per realizzare le abrogazioni con introduzione delle sanzioni civili e l'altro per le depenalizzazioni, con seguito nella sede di applicazione delle sanzioni amministrative: scelta resa palese dal fatto di avere, il Governo, fatto ricorso a due strumenti legislativi diversi anche per estremi formali di identificazione". La specifica previsione della retroattività delle norme in tema di sanzioni civili ai fatti commessi antecedentemente all'entrata in vigore del decreto e, con riferimento alla diversa ipotesi di intervenuto giudicato, della revoca della sentenza da parte del giudice della esecuzione, confermerebbero che la mancata previsione del potere del giudice del gravame di esaminare le pregresse statuizioni civili "sia l'ordinario sviluppo dello scenario processuale delineato".

La soluzione accolta troverebbe, inoltre, fondamento nel principio generale, operante anche nel giudizio di impugnazione in virtù del richiamo effettuato dall'art. 598 cod. proc. pen., posto dall'art. 538 cod. proc. pen., che collega in via esclusiva la decisione sulla domanda della parte civile alla formale condanna dell'imputato. Sul tema, ricorda la Corte che tale regola non implica una mancanza di tutela del diritto della parte civile nel processo penale, ma soltanto, nel caso di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, la individuazione, per la parte civile costituita, della successiva competenza del giudice civile.

Da ultimo, la Corte si sofferma ad esaminare la resistenza della soluzione prescelta ai principi costituzionali ed in particolare quelli di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. e di ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost., essendosi prospettati, nelle pronunce aderenti all'avverso indirizzo ermeneutico, profili di illegittimità costituzionale nella scelta di obbligare la parte civile ad adire il giudice civile nonostante l'intervenuta condanna, seppur non definitiva, in sede penale. Anche sotto tale profilo, la Suprema corte rammenta come già la Corte costituzionale abbia dato risposta sotto molteplici profili alla questione dei rapporti fra azione civile e processo penale e della compatibilità costituzionale di precetti in rito che determinano limitazioni per la parte civile costituita nel processo penale, evidenziando come essi trovino una propria giustificazione nell'impostazione generale del nuovo processo penale basata sul concetto di separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente nel disegno del codice l'esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo, rispetto all'interesse del danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo. Principi declinati nella recentissima pronuncia C. cost., 22 giugno 2016, n. 12, in cui la Corte costituzionale nell'esaminare la questione relativa alla legittimità costituzionale dell'art. 538 cod. proc. pen., ha avuto modo di delineare nuovamente la fisionomia generale della disciplina dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale, richiamando le precedenti pronunce sul punto e rimarcando che essa è informata al principio della separazione e dell'autonomia dei giudizi, per cui l'azione civile è destinata a subire "tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all'accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi".

Principi, questi ultimi, che negli ultimi anni hanno trovato espressa conferma anche in arresti della Corte di cassazione nel suo massimo consesso, che ha ribadito il carattere eventuale, accessorio e subordinato dell'azione civile nel processo penale, con tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e struttura dello stesso, cioè le esigenze, di interesse pubblico, connesse all'accertamento dei reati e alla definizione del processo in tempi ragionevoli (Sez. U, n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087; Sez. U, n. 33864 del 23/04/2015, Sbaiz, Rv. 264238).

Alla luce di tali insegnamenti verrebbe meno ogni dubbio di costituzionalità per la diversità del trattamento riservato alla parte civile nel decreto in esame rispetto a quello contemporaneamente emesso in tema di depenalizzazione proprio in considerazione della rilevata diversità ed autonomia dei due sistemi normativi "sicché la diversità di trattamento non risulta ingiustificata dalla omogeneità delle situazioni coinvolte". Analogamente non sarebbe ravvisabile alcuna violazione del principio di ragionevole durata del processo, avendo il Giudice delle leggi affermato che possono arrecare un "vulnus" a quel principio solamente le norme che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza. Circostanza non ravvisabile nel caso in esame, atteso che la preclusione della decisione sulle questioni civili, se pure indubbiamente procrastina la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un autonomo giudizio civile, trova però giustificazione proprio nell'indicato carattere accessorio e subordinato dell'azione civile proposta nell'ambito del processo penale rispetto alle finalità di quest'ultimo, da individuarsi nel preminente interesse pubblico alla sollecita definizione del giudizio mediante la riconduzione delle istanze civili nella propria sede naturale.

Anche l'ulteriore dubbio, relativo alla compatibilità della soluzione prescelta con le norme sovranazionali ed in particolare con le direttive dell'Unione Europea in tema di protezione della vittima del reato, ha trovato risposta negativa da parte della Corte, sulla scorta, ancora, di quanto affermato nella citata sentenza della Corte costituzionale n. 12 del 2016, per la quale, nella normativa sovranazionale e nella giurisprudenza della Corte edu non sarebbe rinvenibile alcun ostacolo al regime di preclusione della decisione sulla domanda della parte civile nel caso di mancata condanna dell'imputato, atteso che una violazione delle garanzie accordate dall'art. 6 della CEDU è configurabile - secondo la Corte europea - solo quando a tale preclusione non si accompagni la previsione di altri rimedi accessibili ed efficaci per far valere le pretese della vittima del reato.

All'esito delle molteplici considerazioni svolte, la Suprema Corte ha, pertanto, risolto il conflitto giurisprudenziale nel senso, indicato in apertura, della revoca da parte del giudice dell'impugnazione dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, sottolineando altresì che il diritto della parte civile non rimane, comunque, menomato al punto da dovere espletare il proprio onere probatorio come se l'istruttoria già compiuta nella sede penale fosse rimasta totalmente azzerata, alla luce della costante giurisprudenza civile di legittimità che riconosce, in capo al giudice civile, adito per il risarcimento del danno, l'onere del riesame dei fatti emersi nel procedimento penale, pure conclusosi con sentenza assolutoria (si richiamano tra le altre Sez. 3 civ., n. 24475 del 18/11/2014, Rv. 633452; Sez. 3, n. 1665 del 29/01/2016, Rv. 638323).

Da ultimo, la Corte ha ritenuto di dover esaminare, seppure non rientrasse nella specifica questione rimessa al vaglio delle Sezioni unite, il diverso caso in cui la abrogazione sopravvenga alla condanna definitiva, escludendo che in tal caso la revoca da parte del giudice dell'esecuzione della sentenza di condanna per abolitio criminis, conseguente alla perdita del carattere di illecito penale del fatto, espressamente prevista dall'art. 12 comma 2 del d.lgs. n. 7 del 2016, comporti anche la caducazione delle statuizioni civili derivanti da reato, che, anche in applicazione della previsione di cui all'art. 2, comma 2 cod. pen., continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata.

In tal caso infatti, ad avviso della Corte, "il riconoscimento del risarcimento del danno o alla riparazione è avvenuto con riferimento ad un fatto-reato che, al momento della pronuncia stessa, era stato accertato come tale con relativa condanna penale e il successivo venir meno di questa per effetto dell'abrogazione non può incidere sulla cristallizzazione del giudicato riguardo ai capi civili della sentenza".

6. Conseguenze sull'ammissibilità del ricorso proposto dalla parte civile in caso di assoluzione per intervenuta abolitio criminis.

Con la sentenza in esame la Corte ha preso posizione anche riguardo alla complementare questione relativa alla ammissibilità del ricorso per cassazione proposto dalla parte civile avverso la sentenza di assoluzione per intervenuta abolitio criminis in forza del d.lgs. n. 7 del 2016. Invero, a seguito dell'intervento legislativo di depenalizzazione, alcune pronunce avevano affrontato tale questione giungendo a soluzioni contrapposte.

Una prima pronuncia aveva affermato che "è inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso per cassazione proposto dalla parte civile avverso la sentenza di assoluzione pronunciata a seguito della trasformazione del reato in illecito civile" (Sez. 2, n. 20206 del 22/04/2016, Were, Rv. 266680). Si osservava, in proposito, che "il giudizio che il ricorrente invoca non può essere svolto per sopravvenuta carenza di interesse poiché, sebbene abbia impugnato la sola parte civile ai fini della responsabilità civile, comunque, nel giudizio penale, l'affermazione della responsabilità ai soli fini civili presuppone che il fatto di cui si giudica sia considerato come reato. Venendo meno il presupposto della punibilità del fatto-reato di danneggiamento semplice, il giudizio di impugnazione proposto soltanto dalla parte civile non può svolgersi con l'esame dei motivi di ricorso poiché il giudice penale non potrebbe comunque pronunciare alcuna sentenza di condanna anche avente ad oggetto le sole statuizioni civili". La Corte richiamava la giurisprudenza di legittimità secondo cui è ammissibile l'impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di assoluzione (art. 576 cod. proc. pen.) preordinata a chiedere l'affermazione della responsabilità dell'imputato, quale logico presupposto della condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno, con la conseguenza che detta richiesta non può condurre ad una modifica della decisione penale, sulla quale si è formato il giudicato, in mancanza dell'impugnazione del P.M., ma semplicemente all'affermazione della responsabilità dell'imputato per un fatto previsto dalla legge come reato, che giustifica la condanna alle restituzioni ed al risarcimento del danno. In tale ipotesi, il giudice dell'impugnazione, dovendo decidere su una domanda civile necessariamente dipendente da un accertamento sul fatto reato, e, dunque, sulla responsabilità dell'autore dell'illecito, può, seppure in via incidentale, statuire in modo difforme sul fatto oggetto dell'imputazione, ritenendolo ascrivibile al soggetto prosciolto (Sez. 2, n. 897 del 24/10/2003, Cantamessa, Rv. 227966). Ritenendo, pertanto, imprescindibile l'esistenza di un nesso di necessaria accessorietà rispetto ad un fatto reato, la Corte concludeva per l'insussistenza di un interesse ad impugnare ai soli effetti civili una pronuncia di proscioglimento per fatti non più previsti dalla legge come reato.

Sulla medesima questione si era pronunciata, Sez. 5, n. 16131 del 24/02/2016, Aureli, Rv. 267001, e successivamente anche Sez. 5, n. 35341 del 09/03/2016, Frattina, n.m., che, in senso opposto, avevano ritenuto ammissibile l'impugnazione proposta dalla parte civile. Secondo tali pronunce atteso che il d. lgs. n. 7 del 2016 non contiene, a differenza del d. lgs. n. 8 del 216 (art. 9, comma 3), una disposizione dedicata alla sorte delle statuizioni civilistiche, si deve ritenere che, nel caso in cui l'imputato sia stato condannato con decisione non divenuta irrevocabile, venga meno il potere del giudice penale di delibare le pretese della parte civile, in quanto esso è correlato, ai sensi dell'art. 538 cod. proc. pen., alla pronuncia di una sentenza di condanna. Una diversa soluzione colliderebbe con il fatto che l'art. 12, comma 1 del d.lgs. n. 7 cit. prevede il potere - dovere del giudice di applicare le cd. sanzioni pecuniarie civili ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo. Infatti, se si applicasse l'art. 9, comma 3, secondo periodo del d.lgs. n. 8 del 2016 anche nei procedimenti aventi ad oggetto reati abrogati dal d.lgs. n. 7, si imporrebbe anche alla Corte di cassazione, quale giudice dell'impugnazione, di compiere valutazioni di merito, alla stregua dei criteri di cui all'art. 5 del d.lgs. n. 7, sulla base di elementi fattuali che le parti avrebbero diritto di sottoporre al giudice, in quanto rimasti estranei al contraddittorio nel processo penale (si richiama a titolo esemplificativo l'arricchimento del soggetto responsabile o le condizioni economiche dell'agente). Ad avviso della Corte, tuttavia, tali conclusioni come, del resto, emerge sistematicamente dall'analisi dell'art. art. 9, comma 3 del d.lgs. n. 8 del 2016, assumono significato solo nel caso di sentenza di condanna. Ciò in quanto il principio generale che emerge dall'art. 538 cod. proc. pen. incontra una deroga sia nell'ipotesi prevista dall'art. 578 cod. proc. pen., per il caso in cui il reato sia estinto per amnistia o prescrizione, sia nell'ipotesi contemplata dall'art. 576, comma 1, che lascia impregiudicata la facoltà di impugnazione della parte civile contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio. Per cui, dovendo essere unitario il regime concernente le sentenze di proscioglimento - giacché unitaria è la loro considerazione nell'art. 576 cod. proc. pen. -, non sarebbe conforme al sistema che la parte civile sia privata del diritto di impugnare una sentenza sfavorevole, che, almeno nei casi di cui all'art. 652 cod. proc. pen., finisce per pregiudicare il successivo, autonomo esercizio dell'azione civile.

Le Sezioni unite hanno aderito al primo degli esposti orientamenti affermando il principio di diritto per cui "è inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso per cassazione proposto dalla parte civile, ai soli effetti civili, avverso una sentenza di assoluzione per un reato abrogato e qualificato come illecito civile dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, atteso che, in assenza di efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione nel giudizio civile, non è ravvisabile un interesse della parte civile alla impugnazione finalizzata ad impedirne l'operatività".

Preliminarmente la Corte ha rilevato che "i limiti stessi di operatività del giudicato di assoluzione nei giudizi di danno, come delineati dall'art. 652 cod. proc. pen., restringono di molto la portata della questione". In assenza, infatti, di efficacia vincolante del giudicato non sarebbe ravvisabile un interesse della parte civile alla impugnazione finalizzata ad impedirne l'operatività. A sostegno della conclusione accolta la Corte richiama, inoltre, ribadendolo, l'insegnamento di Sez. U, n. 25083 del 11/07/2006, Negri, Rv. 233918, osservando che, anche nella ipotesi in questione, il giudizio richiesto dalla parte civile al giudice penale, implicando il necessario accertamento e la valutazione del reato ormai abrogato, non sarebbe più possibile proprio in considerazione della espunzione della figura del reato dall'ordinamento penale. Conseguentemente, "negandosi l'accesso della parte civile nel processo penale a tutela di detti interessi, deve contestualmente escludersi che si perfezioni, nel giudizio instaurato per dare completezza alla verifica delle censure della parte civile, l'accertamento destinato a produrre efficacia di giudicato nel giudizio civile ai sensi dell'art. 652 cod. proc. pen. La già costituita parte civile potrà, dunque, adire ex novo il giudice nella sede naturale per la tutela degli interessi risarcitori senza incontrare preclusioni".

SEZIONE III LA VITTIMA E IL PROCESSO PENALE

Sommario

PREMESSA

PREMESSA.

La presente Sezione è dedicata alle più significative pronunce dello scorso anno in materia di tutela della persona offesa del reato.

Nell'ultimo triennio il legislatore ha significativamente inciso sul codice di rito valorizzando il ruolo e gli interessi della vittima; in particolare, ha previsto inediti diritti di partecipazione, in alcuni casi assistiti da sanzioni che rendono la tutela offerta sostanziale e non nominalistica[1]. Tale rafforzamento del ruolo processuale della persona offesa, operativo sin dalla fase delle indagini preliminari, rappresenta l'espressione di un processo di evoluzione nella sensibilità politico-criminale, riguardante, appunto, la considerazione della posizione di tale soggetto, indipendentemente dalla sua costituzione quale parte civile, accanto ai "protagonisti tradizionali" del processo penale, ovvero, oltre al giudice, il pubblico ministero e l'imputato. Può, infatti, affermarsi come il processo penale negli ultimi anni abbia subìto una "ridefinizione" del proprio assetto, affiancando al perseguimento dell'interesse collettivo alla punizione degli autori di reato, la tutela degli interessi individuali della vittima alla individuazione e condanna del proprio aggressore, da un lato, e alla garanzia della propria integrità psicofisica, dall'altro.

Fenomeno sollecitato, non solo, dall'allarme sociale provocato dalle emergenti forme di criminalità, anche a carattere sovranazionale (terrorismo, tratta degli esseri umani, violenza di genere), che richiedono particolari forme di protezione delle vittime, ma anche, dalle fonti sovranazionali recepite nel nostro ordinamento.

In primo luogo, si può ricordare il d. 1. 14 agosto 2013, n. 93, recante "Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province", convertito, con modificazioni, dalla Legge 15 ottobre 2013, n. 119, teso a rafforzare la prevenzione e la repressione dei reati commessi contro le donne o con violenza in ambito domestico-familiare.

Presentato da subito come il "decreto-femminicidio", ha introdotto diverse novità di natura processuale[2], accomunate dall'obiettivo di contrastare le più significative forme di violenza di genere e di rafforzare gli strumenti di protezione delle persone offese di tali fenomeni criminosi.

Concentrando l'esame sulle novità processuali volte alla valorizzazione della posizione delle parti offese nel procedimento, tali misure si concretizzano in obblighi informativi a favore delle parti offese, declinati in alcuni momenti del procedimento; ed infatti: a) al momento dell'acquisizione della notizia di reato le persone offese (di qualunque reato) sono informate dei diritti e delle facoltà loro attribuite per legge (art. 101, comma 1, cod. proc. pen.); b) in occasione della revoca o sostituzione delle misure cautelari personali applicate all'imputato, le persone offese dei delitti commessi con violenza alla persona devono essere immediatamente informate (art. 299, comma 2-bis, cod. proc. pen.); c) la richiesta di revoca o di sostituzione delle misure cautelari coercitive deve essere contestualmente notificata alle persone offese dei delitti commessi con violenza alla persona, a pena di inammissibilità (art. 299, commi 3 e 4-bis, cod. proc. pen.); d) l'avviso della richiesta di archiviazione deve essere notificato alle persone offese dei delitti commessi con violenza alla persona (art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen.); e) l'avviso di conclusione delle indagini preliminari deve essere notificato alle persone offese del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, di cui all'art. 572 cod. pen., e di atti persecutori, di cui all'art. 612-bis cod. pen.(art. 415-bis, comma 1, cod. proc. pen.).

In particolare, con riferimento agli oneri informativi a favore delle persone offese in occasione del sub-procedimento di revoca o sostituzione delle misure cautelari coercitive (ad eccezione dell'obbligo di presentazione alla p.g. e del divieto di espatrio)[3], il legislatore del 2013 ha introdotto l'inedito onere, a carico del soggetto richiedente, di notificare nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, la richiesta di modifica - contestualmente alla presentazione al giudice - presso il difensore della parte offesa o, in mancanza, alla persona offesa - salvo che in quest'ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio[4].

Tale onere informativo, sanzionato a pena di inammissibilità della domanda, è finalizzato a consentire alla persona offesa o al difensore della stessa di presentare memorie, ai sensi dell'art. 121 cod. proc. pen. nei due giorni successivi alla notifica, trascorsi i quali il giudice procede comunque. In sostanza, la novella apportata all'art. 299 cod. proc. pen. è finalizzata a permettere un'interlocuzione della persona offesa di determinati delitti nei momenti evolutivi delle misure cautelari applicate all'autore del reato, all'evidente scopo di garantire maggiore tutela e adeguata partecipazione della stessa al procedimento.

Più di recente, il d.lgs. n. 212 del 2015 (entrato in vigore il 20 gennaio 2016) ha dato attuazione alla delega normativa per il recepimento della Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Comunemente ritenuto lo Statuto dei diritti delle vittime, la Direttiva 2012/29/UE mira a realizzare, con uno strumento più efficace rispetto alla decisione quadro 2001/220/ GAI utilizzata in precedenza, l'armonizzazione nei Paesi dell'Unione dei diritti delle vittime lungo tutto l'arco del procedimento penale, dalle indagini al processo e anche successivamente allo stesso.

Tra le modifiche di natura processuale introdotte dal suddetto decreto, viene in rilievo il nuovo articolo 90-ter cod. proc. pen, rubricato "Comunicazioni dell'evasione e della scarcerazione", che integra il sopracitato regime delle comunicazioni di cui all'articolo 299, commi 2-bis, 3 e 4-bis, cod. proc. pen., in tema di sostituzione o revoca di misure cautelari; la nuova disposizione prevede che "fermo quanto previsto dall'articolo 299, nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona sono immediatamente comunicati alla persona offesa che ne faccia richiesta, con l'ausilio della polizia giudiziaria, i provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, ed è altresì data tempestiva notizia, con le stesse modalità, dell'evasione dell'imputato in stato di custodia cautelare o del condannato, nonché della volontaria sottrazione dell'internato all'esecuzione della misura di sicurezza detentiva".

La norma attua l'articolo 6, par. 5, della Direttiva che, infatti, obbliga gli Stati membri a garantire alla vittima la possibilità, su richiesta, di essere informata senza ritardo della scarcerazione o dell'evasione della persona indagata, imputata o condannata. Sempre conformemente alla Direttiva, la previsione reca un inciso che legittima la mancata comunicazione, anche se richiesta, quando " . . . . risulti il pericolo concreto di un danno per l'autore del reato": in sostanza, il legislatore ha individuato quale motivo ostativo l'emergenza di concreti elementi da cui desumere la possibilità di azioni ritorsive contro l'imputato, il condannato o l'internato in stato di libertà.

Il quadro normativo brevemente delineato evidenzia come il legislatore abbia inteso assicurare, nell'ambito del sistema di garanzie a favore delle vittime di reato, una tutela privilegiata, in termini di diritti di informazione e protezione, alla speciale categoria delle persone offese dei "reati commessi con violenza alla persona". Ebbene, in assenza di una delimitazione normativa dei confini di tale categoria, la Corte di cassazione, è intervenuta anche a Sezioni unite, definendone l'ambito, individuando le ipotesi in cui operano i diritti rafforzati e le sanzioni conseguenti alla violazione degli stessi. All'esame di tali decisioni sono specificamente dedicati i capitoli 1 e 4.

I capitoli 2 e 3 intendono, rispettivamente: a) offrire un aggiornato bilancio della incidenza della fattispecie di Atti persecutori, di cui all'art. 612-bis cod. pen., sul sistema generale di tutela penale della vittima di stalking, indicata nelle fonti sovranazionali[5] quale particolare forma di manifestazione di violenza psicofisica che richiede un specifica protezione per le relative vittime; b) illustrare il principio espresso dalla Suprema Corte in tema di mancata comparizione della persona offesa querelante - previamente ed espressamente avvertita dal giudice che l'eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela - quale effetto speculare al potenziamento dei diritti riconosciuti.

  • procedura penale
  • vittima

CAPITOLO I

DIRITTO DELLA PERSONA OFFESA AD ESSERE INFORMATA

(di MariaEmanuela Guerra )

Sommario

1 Le questioni interpretative all'esame della Suprema Corte. - 2 Le vittime occasionali dei delitti commessi con violenza alla persona. - 2.1 La sentenza Sez. U, n. 10959 del 29/01/2016. - 3 La questione della sussistenza di un onere della persona offesa di manifestare la volontà di partecipare al procedimento quale condizione per l'esercizio del diritto all'informazione de libertate: gli orientamenti della giurisprudenza. - 4 Il mutamento delle modalità esecutive della misura cautelare. - 5 Osservazioni conclusive.

1. Le questioni interpretative all'esame della Suprema Corte.

Il quadro normativo tratteggiato nella premessa ha posto alcuni problemi interpretativi che attengono alla delimitazione dei previsti obblighi informativi a favore delle persona offesa nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, in occasione delle vicende modificative dello stato di libertà dell'imputato.

Preliminarmente è da segnalare Sez. 1, n. 46229 del 14/09/2016, Russello, che ha puntualizzato come nell'ipotesi di aggravamento della misura cautelare, ai sensi dell'art. 276 cod. proc. pen., non ricorrano i presupposti di applicabilità dell'obbligo informativo imposto dall'art. 299 cod. proc. pen.

Nella fattispecie, il giudice aveva sostituito la misura degli arresti domiciliari con quella della custodia in carcere a seguito di segnalazioni di reiterate violazioni delle prescrizioni imposte; rispetto a tale decisione, l'imputato aveva dedotto, quale causa di inammissibilità del provvedimento adottato dal giudice, la mancata preventiva informazione alla persona offesa, ai sensi dell'art. 299, comma 3 cod. proc. pen.

La Prima Sezione, nel rigettare il ricorso, ha affermato che la sostituzione della misura conseguente alla trasgressione delle prescrizioni cautelari, deve ritenersi espressione della potestà coercitiva dell'organo giurisdizionale procedente, rispetto alla quale, nel nostro sistema processuale, la persona offesa dal reato non dispone di poteri di interlocuzione. In definitiva, il potere attribuito al giudice dall'art. 276 cod. proc. pen., avendo carattere sanzionatorio rispetto al comportamento inaffidabile dell'imputato, ha un differente ed autonomo fondamento coercitivo rispetto a quello previsto dall'art. 299 cod. proc. pen., che, invece, prefigura un modello processuale fondato su un mutamento del quadro indiziario (cfr. Sez. 1, n. 82 del 10/11/2015, Sorgenti, Rv. 265383; Sez. 6, n. 14300 del 04/02/2014, Rosaci, Rv. 259450) che, di conseguenza, richiede il contraddittorio di tutte le parti (cfr. Sez. 5, n. 489 del 02/07/2015, Ivanciu, Rv. 262209).

Inoltre, si ritiene pacifica l'applicabilità del citato onere informativo anche al procedimento minorile (Sez. 3, n. 36737 del 3/09/2014, A.E.B.), sul rilievo che le modifiche introdotte all'art. 299 cod. proc. pen. non hanno previsto alcuna distinzione e non sono incompatibili con la primaria finalità rieducativa del processo minorile. In sostanza, rileva la Terza Sezione, valgono le ordinarie regole del codice di rito, poiché non solo l'obbligo di rispetto del contraddittorio con la parte offesa non può qualificarsi come contrazione del diritto di difesa di chi ha tale obbligo, ma, inoltre, è la stessa normativa ad avere operato il bilanciamento tra gli interessi contrapposti della persona offesa e quelli dell'indagato sottoposto a misura cautelare, quando le richieste di modifica non siano presentate nel corso dell'interrogatorio di garanzia.

Con riferimento ai problemi applicativi sorti in merito all'ambito di operatività dell'obbligo informativo cautelare a favore delle persone offese di cui al citato art. 299 cod. proc. pen., la Corte ha affrontato e deciso le seguenti questioni, ovvero se l'onere di notifica:

a. trovi applicazione con riferimento a tutte le persone offese anche "occasionali" dei reati commessi con violenza o debba intendersi limitato alle ipotesi di pregresso rapporto relazionale tra l'autore del reato e la vittima;

b. se sia condizionato alla nomina del difensore o all'elezione di domicilio da parte della persona offesa. c. sussista anche nell'ipotesi in cui l'imputato si limiti chiedere la modifica delle condizioni di esecuzione della misura coercitiva[6].

d. La soluzione di tali problematiche assume particolare rilevanza stante la gravità della sanzione processuale dell'inammissibilità dell'istanza de libertate, posta a presidio della violazione dell'obbligo informativo a favore della persona offesa. Peraltro, come emerge da Sez. 2, n. 33576 del 14/07/2016, Fassih, Rv. 267500: "L'inammissibilità dell'istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare personale applicata nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, prevista dall'art. 299, comma terzo, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 2 D.L. 14 agosto 2013, n. 93, conv. nella legge 15 ottobre 2013, n. 119, quale conseguenza della mancata notifica della richiesta medesima - a cura della parte richiedente - alla persona offesa, è deducibile e rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo cautelare.", prescindendo in sede di appello cautelare, dal principio devolutivo, fissato in via generale dall'art. 597 cod. proc. pen., in quanto attiene alla legittimità del provvedimento impugnato.

Ed inoltre, Sez. 6, n. 6864 del 9/02/2016, P., Rv. 266542 ha espressamente riconosciuto che "Nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, la persona offesa può dedurre con ricorso per cassazione l'inammissibilità dell'istanza di revoca o sostituzione di misure cautelari coercitive (diverse dal divieto di espatrio e dall'obbligo di presentazione alla p.g.) applicate all'imputato, qualora quest'ultimo non abbia provveduto contestualmente a notificarle, ai sensi dell'art. 299, comma quarto bis, cod. proc. pen., l'istanza di revoca, di modifica o anche solo di applicazione della misura con modalità meno gravose.".

Tale pronuncia, che si pone in continuità con Sez. 6, n. 6717 del 05/02/2015, D.C., Rv. 262272, ha individuato nella mancata preventiva notifica alla persona offesa in materia cautelare un vulnus alle preorogative riconosciutele a propria tutela, tramite la possibilità di presentare nei due giorni successivi memorie ai sensi dell'art. 121 cod. proc. pen.; e tale violazione, osserva la Sezione, legittima la persona offesa a ricorrere, "potendosi al tal fine richiamare, onde integrare la previsione di cui all'art. 311 cod. proc. pen., le norme che riconoscono il diritto alla persona offesa al contraddittorio cartolare, implicando altresì la possibilità di dedurre il vizio inerente al mancato rispetto del contraddittorio (di ciò è espresisone l'art. 409, comma 6, cod. proc. pen.).".

Nel caso in esame la Corte, riconosciuta la inammissibilità dell'atto introduttivo del sub-procedimento cautelare, ha annullato senza rinvio il provvedimento del giudice che aveva revocato la misura dell'obbligo di avvicinamento ai luoghi frequentati dalle persone offese, con restituzione degli atti al tribunale per l'ulteriore corso.

Può affermarsi come la soluzione ermeneutica accolta da tale pronuncia (cfr. anche Sez. 1, n. 51402 del 28/06/2016, Zacheo, che ha accolto il ricorso presentato dai prossimi congiunti della vittima di un reato di omicidio non preventivamente informati della richiesta di revoca della misura cautelare), comporti un duplice ordine di conseguenze di non poco rilievo.

Da un lato, rende effettivo il diritto al contraddittorio cartolare a favore della persona offesa, riconoscendole un'inedita legittimazione al ricorso avverso il provvedimento sulla cautela adottato in violazione del diritto all'informazione preventiva, giungendo in tal modo ad integrare la previsione di cui all'art. 311 c.p.p., che indica quali soggetti che possono impugnare le decioni emesse a norma degli artt. 309 e 310 cod. proc. pen. soltanto l'imputato ed il suo difensore. Tale impostazione troverebbe riscontro, a livello sistematico, nell'intepretazione "costituzionalmente orientata" formatasi sull'art. 409 cod. proc. pen. in tema di omessa notifica della richiesta di archiviazione alla persona offesa, secondo la quale, appunto, alla medesima è riconosciuto il diritto ad impugnare il decreto di archiviazione nell'ipotesi di omesso avviso, oltre i limiti della espressa previsione della norma (cfr. Corte Cost., n. 353 del 1991).

Dall'altro lato, nell'ipotesi accoglimento del ricorso proposto dalla parte offesa, pone il problema degli effetti della caduzione del titolo modificativo o di revoca della misura cautelare, annullato dalla Corte senza rinvio. Pare potersi affermare che tale eventualità determinerebbe il ripristino dell'originaria misura illegittimamente revocata o sostituita, così da riportare la situazione cautelare nella situazione originaria, consentendo alla persona offesa di poter esercitare il diritto ad interloquire sull'istanza de libertate.

Dal punto di vista sistematico, tale risultato, che sanziona un comportamento dell'imputato inosservante della regola imposta in tema di informazione alla persona offesa a pena di inammissibilità della richiesta, si pone in continuità con il principio già espresso dalla Corte in tema annullamento del provvedimento del giudice che dichiari erroneamente l'inefficacia della misura cautelare (Sez. 6, n. 42971 del 20/09/2016, P.M., Rv. 267964), secondo il quale: "L'annullamento senza rinvio da parte della Corte di cassazione dell'ordinanza con la quale è stata dichiarata l'inefficacia della misura custodiale, implica l'immediato ripristino della misura cautelare per la cui esecuzione è sufficiente l'iniziativa del pubblico ministero, quale organo cui spetta l'esecuzione delle decisioni del giudice penale.".

Un ultimo profilo che pare opportuno segnalare è la questione se, in sede di ripristinio della originaria misura cautelare, trovi spazio un'autonoma valutazione, da parte del giudice che procede, della persistenza delle esigenze cautelari, eventualmente anche su sollecitazione della parte interessata, in applicazione della regola generale di cui all'art. 299 cod. proc. pen. La soluzione positiva accolta da Sez. 6, n. 42971 del 20/09/2016, P.M., Rv. 267964 è, difatti, riferita alla diversa ipotesi di annullamento senza rinvio di un provvedimento che abbia erroneamente dichiarato inefficace la misura cautelare.

2. Le vittime occasionali dei delitti commessi con violenza alla persona.

Con riferimento alla prima questione, nel perimetrare la categoria dei "delitti commessi con violenza alla persona" in base alla quale individuare il destinatario degli obblighi di notifica previsti dall'art. 299, commi 3 e 4-bis cod. proc. pen., assume rilievo di non poco conto la possibilità di ricomprendervi o meno le vittime del tutto occasionali della violenza.

Sul punto si registra un contrasto di giurisprudenza.

La sentenza Sez. 2, n. 43353 del 14/10/2015, Quadrelli, Rv. 265094, ha accolto una interpretazione restrittiva della citata previsione e in una fattispecie di rapina aggravata in concorso commessa in un istituto di credito ha annullato l'ordinanza che aveva ritenuto inammissibile la richiesta de libertate per omessa contestuale notifica alle persone offese[7].

La Sezione, in base ad una interpretazione teleologicamente orientata della disposizione normativa contenuta nell'art. 299 cod. proc. pen., alla luce del dibattito parlamentare in sede di conversione del d.l. n. 93 del 2013 che l'ha introdotta, ha ritenuto che l'onere di interlocuzione con la persona offesa sia da escludere in tutti i casi di vittima soltanto occasionale del delitto violento. Ed infatti, ha osservato, se il fine perseguito da detto incombente è quello di offrire alle vittime, mediante la possibilità di presentare memorie ai sensi dell'art. 121 cod. proc. pen., uno strumento per partecipare elementi di conoscenza ulteriori - che solo un pregresso rapporto diretto tra vittima e aggressione può presumibilmente consentire di avere - per scongiurare il pericolo di recidiva dalla richiesta di modifica delle misure applicate all'autore del reato, l'interpretazione restrittiva della sua portata applicativa meglio bilancia la tutela delle persone offese, senza rendere eccessivamente gravoso, in assenza di una effettiva ragione giustificativa, il diritto di libertà personale dell'imputato, che impone decisioni quanto più possibile celeri.

In altri termini, estendere l'obbligo informativo in modo indiscriminato a tutte le vittime di reati con violenza alla persona appare ridursi ad mero formalismo, in quanto alla vittima causalmente offesa dall'aggressore non può derivare alcun pregiudizio dalla circostanza che all'imputato si revochi o si modifichi l'originaria misura cautelare. Tale pregiudizio, infatti, sussiste solo nelle ipotesi di delitti in cui la violenza alla persona è diretta in modo mirato, evidentemente in ragione di pregressi rapporti. In base a tale orientamento, dunque, solo in quest'ultima evenienza è giusto e doveroso che la vittima sappia del mutamento del regime cautelare, proprio perché tale mutamento può riflettere i propri effetti sul rischio possibile di recidiva. Per converso, un'informativa indiscriminata, anche per fatti che si caratterizzino per l'occasionalità del rapporto tra l'autore e la vittima (come nell'ipotesi di rapina in banca, ovvero di resistenza a pubblico ufficiale), apparirebbe del tutto ultronea e ingiustificatamente onerosa per l'imputato. In tali situazioni, infatti, il rischio residuo di persistente recidiva riguarda non tanto la vittima occasionalmente coinvolta e sconosciuta all'autore, quanto piuttosto la reiterazione di fatti analoghi in danno di altri.

A sostegno di tale soluzione, inoltre, potrebbe leggersi la previsione che prescrive a carico della polizia giudiziaria la comunicazione immediata dei provvedimenti di revoca o di sostituzione in melius ai servizi socio-assistenziali e al difensore della persona offesa, o in mancanza di questo alla persona offesa, incombente che apparirebbe del tutto inspiegabile se applicato a tutti indistintamente i delitti che si caratterizzino per una condotta violenta posta in essere in danno della persona. In sostanza, si è rilevato come tale adempimento abbia un senso se ed in quanto riferito ai reati di matrice domestica, che come tali esigono un'opera di sostegno alla famiglia, o al più alle violenza di genere, ma non agli innumerevoli reati connotati da violenza alla persona che non meritano una siffatta massiccia ed inutile complicazione burocratica[8].

Sulla stessa linea si pone Sez. 2, n. 25135 del 25/05/2016, Grosso, Rv. 263276, secondo cui, infatti, "Deve escludersi l'inammissibilità dell'istanza di revoca o sostituzione delle misure cautelari coercitive applicate nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, prevista dall'art. 299, comma quarto bis, cod. proc. pen., per l'ipotesi in cui il richiedente non provveda alla contestuale notifica dell'istanza di revoca o di modifica alla persona offesa, qualora quest'ultima sia vittima soltanto "occasionale" del reato." (nel caso all'esame l'imputato era sottoposto a misura cautelare per i reati previsti dagli artt. 416, 624bis, 628 cod. pen.).

Di diverso avviso è, invece, Sez. 1, n. 14831 del 21/12/2015, dep. 11/04/2016, Massidda, che, sulla base del dato testuale, riconosce una portata più ampia a tale categoria, ritenendo non corretta, alcuna delimitazione concettuale volta a valorizzare rapporti pregressi, tipi di relazioni o altri parametri sostanziali cui il legislatore non ha inteso dare ingresso nella selezione dei presupposti operativi dell'istituto.

In particolare, la Prima Sezione, nel rigettare il ricorso dell'imputato avverso l'ordinanza che dichiarava inammissibile la richiesta di revoca o modifica della misura della custodia in carcere in un procedimento per i delitti di cui agli artt. 56, 575 e 582, 585 cod. pen., 4 L. 110/1975, ha affermato che la categoria dei "delitti commessi con violenza alla persona" non richiede quale presupposto aggiuntivo un profilo relazionale-affettivo tra autore e vittima del reato, con la conseguenza che lo statuto di cui all'art. 299, comma 3, cod. proc. pen. trova applicazione anche nei casi di cd. violenza occasionale.

A tale conclusione è giunta sulla base dell'esegesi del testo normativo, secondo quanto prescritto dall'articolo 12 delle disposizioni sulla legge in generale, attribuendo il senso fatto "palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse" e l'intenzione del legislatore.

La Prima Sezione, ha, peraltro, posto in evidenza come tale soluzione emerga proprio dall'evoluzione del testo del d. 1. n. 93 del 2013, in quanto a fronte di un'iniziale relazione "privilegiata" tra cautela e vittima, limitatamente alle ipotesi controllate con le sole misure stabilite agli artt. 282-bis e 282-ter cod. proc. pen., la legge di conversione ha optato per un allargamento, estendendo il nuovo statuto "dialogico" autore-vittima attraverso il richiamo della "violenza alla persona" come elemento sostanziale di discrimine con riferimento, inoltre, a tutte le misure cautelari coercitive (ad eccezione della misura dell'obbligo di presentazione alla p.g. e del divieto di espatrio). E tale scelta si ritiene frutto di un consapevole ripensamento improntato ad un allargamento di modi e forme di tutela della vittima stessa, al cospetto di vicende suscettibili di indurre modifiche nel trattamento cautelare in essere a carico dell'autore del fatto commesso in danno della prima e con violenza alla persona. Si è, cioè, stimato che, al cospetto di delitti commessi con quelle particolari modalità, la vittima avesse titolo ad un'informativa funzionale a rendere effettiva un'interlocuzione sulla vicenda cautelare, configurando, appunto, una forma litisconsortile necessaria che, per le possibili valutazioni da operare de libertate ed incidenter tantum, ha, comunque, una funzione di supporto alla conoscenza informativa verso il decidente.

La Prima Sezione ha, altresì, sottolineato come nel testo normativo non sia richiamato, né implicitamente, né esplicitamente, un pregresso legame relazionale tra autore e vittima, né una "forza" commissiva che si orienti, proprio in ragione d'un pregresso rapporto, in danno di una determinata persona offesa.

Piuttosto il legislatore, aderendo alle sollecitazioni internazionali sul piano della protezione delle vittime del reato, ha inteso operare includendo anche le ipotesi di azioni violente occasionali in quanto centro di tutela è la vittima di qualunque azione violenta contro la persona. Ciò perché allorquando la violenza (nelle sue diverse forme di manifestazione) diventa mezzo commissivo del delitto e si orienta verso la persona è idonea ex se ad instaurare un legame relazionale tra autore e vittima, in guisa da legittimare quest'ultima ad interloquire, nella neointrodotta forma litisconsortile, sulle possibili vicende modificative del trattamento cautelare in essere.

Sulla stessa posizione si pone Sez. 2, n. 19704 dell'1/04/2016, Machì, dep. 12/05/2016 (non massimata sul punto), che ha puntualizzato come la voluntas legis che ha ispirato le novelle dell'art. 299 cod. proc. pen., in sede di conversione del d.l. n. 93 del 2013, sia stata proprio quella di garantire alla vittima di reato commesso con violenza alla persona, anche al di fuori della relazione affettiva, un diritto all'informazione e alla protezione, in ossequio alla Direttiva 2012/29/UE.

Per completezza si ritiene utile menzionare anche Sez. 1, n. 49339 del 29/10/2015, Gallani, Rv. 265732, che ha optato per l'individuazione della tipologia di "delitti con violenza alla persona" non in termini astratti ed in ragione del nomen iuris, bensì sulla base del concreto atteggiarsi delle modalità commissive della condotta, che devono essere connotate in fatto da "violenza alla persona". Sulla base di tale interpretazione, pertanto, è la modalità esplicativa che può caratterizzare un genus indeterminato di delitti, a prescindere dal loro inquadramento sistematico formale e dal bene giuridico protetto in via principale dalla relativa incriminazione. Una corretta esegesi del testo normativo imporrebbe, di conseguenza, di valorizzare, agli effetti di verificare l'insorgenza dell'onere di notificare alla persona offesa del reato la richiesta di revoca o sostituzione della misura coercitiva, l'effettiva manifestazione, nel singolo caso, di una condotta materiale caratterizzata dalla concreta esplicazione di atti di violenza in danno della persona offesa. E ciò risponderebbe, non solo alla lettera della legge, ma anche alla ratio oggettiva della novella normativa.

Ebbene, non può non evidenziarsi, che quest'ultima opzione ermeneutica, se, da un lato, escludendo preclusioni a priori circa la necessità di aprire l'interlocuzione con la parte offesa in materia cautelare, persegue una tutela effettiva e non meramente formale, dall'altro lato, tuttavia, rimettendo la decisione sulla sussistenza dell'onere di informazione alla persona offesa alla valutazione caso per caso delle concrete forme di manifestazione della fattispecie violenta, potrebbe verosimilmente creare situazioni di incertezza applicativa da parte del soggetto gravato della notifica, soprattutto se si considera la grave sanzione processuale dell'inammissibilità della domanda, in un settore, quale quello de libertate, particolarmente delicato che richiede, invece, decisioni tempestive.

2.1. La sentenza Sez. U, n. 10959 del 29/01/2016.

Sulla tematica in esame fondamentale è senza dubbio il riferimento alla pronuncia delle Sezioni Unite, n. 10959 del 29/01/2016, P.O in proc. C., Rv. 265893, che ha affermato il principio così massimato: "La disposizione dell'art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen., che stabilisce l'obbligo di dare avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con "violenza alla persona", è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsti rispettivamente dagli artt. 612-bis e 572 cod. pen., in quanto l'espressione "violenza alla persona" deve essere intesa alla luce del concetto di "violenza di genere", risultante dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario.".

All'esame della Corte era un ricorso avverso un decreto di archiviazione adottato in un procedimento avente ad oggetto il delitto di atti persecutori, previsto dall'art. 612-bis cod. pen., in assenza di preventiva notifica dell'avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa. Le Sezioni Unite erano chiamate a decidere se quest'ultimo delitto possa includersi tra i delitti commessi con "violenza alla persona" per i quali, ai sensi del comma 3-bis dell'articolo 408 cod. proc. pen., come modificato dal d.l. n. 93 del 2013, è obbligatoria la notifica dell'avviso della richiesta di archiviazione alla parte offesa, a prescindere da una sua richiesta.

La Corte ha preso le mosse dalla ricostruzione della ratio legis e si è allargata all'esame della nozione di violenza alla persona secondo le fonti sovranazionali vincolanti per il nostro Paese, per addivenire ad una interpretazione della disposizione conforme al diritto europeo.

In definitiva, le Sezioni Unite hanno adottato una soluzione positiva al quesito "se il reato di cui all'art. 612-bis cod. pen. sia da ritenere incluso fra quelli per i quali l'art. 408 cod. proc. pen. prevede la notifica obbligatoria alla persona offesa dell'avviso della richiesta di archiviazione." con la precipua finalità di estenderne la portata precettiva, in base alle argomentazioni di seguito sinteticamente indicate:

a) l'obbligo di avviso obbligatorio alla persona offesa dai reati commessi con violenza alla persona, di cui all'art. 408, comma 3-bis, c.p.p., è stato introdotto al fine di ampliare i diritti di partecipazione della vittima al procedimento penale;

b) il testo normativo in cui è contenuto si prefigge lo scopo di dare specifica protezione alle vittime della violenza di genere, specie ove si estrinsechi contro le donne o nell'ambito della violenza domestica;

c) il reato di atti persecutori, al pari di quello dei maltrattamenti in famiglia, rappresenta, al di là della sua riconducibilità ai reati commessi con violenza fisica, una delle fattispecie cui nel nostro ordinamento è affidato il compito di reprimere tali forme di criminalità e di proteggere la persona che la subisce;

d) la storia dell'emendamento con cui è stata introdotta la nozione di "delitti commessi con violenza alla persona" dimostra la volontà del legislatore di ampliare il campo della tutela oltre le singole fattispecie criminose originariamente indicate;

e) la nozione di violenza adottata in ambito internazionale e comunitario è più ampia di quella positivamente disciplinata dal nostro codice penale e sicuramente comprensiva di ogni forma di violenza di genere, contro le donne e nell'ambito delle relazioni affettive, sia o meno attuata con violenza fisica o solo morale, tale da cagionare cioè una sofferenza anche solo psicologica alla vittima del reato.

In base al principio affermato, quindi, l'espressione "violenza alla persona" è da intendere alla luce del concetto di "violenza di genere", codificato nelle disposizioni di diritto sovranazionali recepite nel nostro ordinamento. (Per un'analisi più approfondita della sentenza si rimanda al capitolo III della presente sezione).

E che tale principio, affermato in tema di avviso della richiesta di archiviazione, sia applicabile anche con riferimento al contenuto precettivo dell'art 299 cod. proc. pen., è stato espressamente affermato da Sez. 6, n. 6864 del 9/02/2016, P., (non massimata sul punto) che ha, appunto, annullato l'ordinanza che aveva revocato la misura cautelare in assenza della preventiva notifica della richiesta di modifica cautelare, presentata fuori udienza, alla persona offesa dei delitti di cui agli artt. 612-bis e 572 cod. pen.

Ed invero, è indubbio che l'espressione "violenza di genere", alla luce della quale intendere quella di "violenza alla persona", contenuta nel codice processuale, è criterio in grado, da un lato, di estendere i confini della "violenza alla persona", facendovi rientrare anche i delitti caratterizzati dall'estrinsecazione di violenza morale o psicologica ai danni delle vittime, soprattutto nelle relazioni interpersonali (come i reati di atti persecutori e maltrattamenti nei confronti di familiari e conviventi), dall'altro, tuttavia, di circoscrivere l'ambito della categoria delle persone offese, con esclusione, appunto, di una serie di persone offese vittime di violenza non di genere.

In ogni caso, anche accedendo alla nozione di "violenza di genere", non si rinvengono elementi decisivi per la immediata soluzione della problematica circa la possibile esclusione delle vittime occasionali. Il dato reale, infatti, evidenzia l'esistenza di delitti che integrano senza dubbio ipotesi di violenza di genere che non presuppongono necessariamente un rapporto di conoscenza pregressa tra vittima ed autore del reato e che non pare ragionevole escludere dal "litisconsorzio necessario" nella fase dell'incidente cautelare. In altri termini, dalla nozione di "violenza di genere" non pare si possa far discendere inevitabilmente la limitazione dell'obbligo di informazione ai delitti commessi con violenza maturati nell'ambito di rapporti domestici o interpersonali preesistenti tra l'autore del reato e la vittima (basti pensare all'ipotesi di violenza sessuale commessa ai danni di vittima sconosciuta).

3. La questione della sussistenza di un onere della persona offesa di manifestare la volontà di partecipare al procedimento quale condizione per l'esercizio del diritto all'informazione de libertate: gli orientamenti della giurisprudenza.

L'articolo 299, commi 3 e 4-bis, cod. proc. pen., è stato, inoltre, oggetto di diverse interpretazioni, con riferimento alla affermazione della sussistenza o meno di un onere in capo alla parte offesa di manifestare la volontà di partecipare al procedimento, espressa dalla nomina del difensore o dalla dichiarazione ovvero elezione di domicilio, per esercitare il diritto di informazione e partecipazione.

In particolare si registrano due diverse linee interpretative.

Sez. 2, n. 52127 del 19/11/2014, Damian Petru, ha ritenuto non censurabile l'ordinanza che aveva dichiarato inammissibile la richiesta di revoca della misura cautelare in carcere, in un procedimento per tentata estorsione. La Sezione ha affermato che la norma di cui all'art. 299, comma 3, cod. proc. pen., disciplina le modalità della notifica alla persona offesa, chiarendo come la notifica debba essere effettuata quando la persona offesa non abbia nominato un difensore. Di conseguenza, ha osservato, la mancata notifica dell'istanza alla persona offesa, anche nel caso di mancata elezione di domicilio ne comporta comunque l'inammissibilità, ai sensi dell'art. 299, comma 3, cod. proc. pen.

Sulla stessa linea si possono intendere anche Sez. 6, n. 6717 del 5/02/2015, D., (non massimata sul punto) e Sez. 3, n. 13610 del 3/03/2015, D., che hanno puntualizzato come il nuovo testo dell'art. 299, comma 3, cod. proc. pen., introduce a carico della parte che richiede la modifica dello status cautelare l'onere di notificare la richiesta, contestualmente, al difensore della parte offesa e, in mancanza di questo, alla stessa persona offesa, senza condizionare tale onere alla dichiarazione o elezione di domicilio da parte di quest'ultima.

Più di recente, infine, Sez. 2, n. 19704 dell'1/04/2016, Machì, Rv. 267295, ha affermato: "Nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, l'art. 299 cod. proc. pen. prevede, a pena di inammissibilità della richiesta di revoca o di sostituzione delle misure coercitive, distinte modalità di notifica della istanza alla persona offesa a seconda che questa abbia nominato un difensore di fiducia, nel qual caso si considera domiciliata presso di lui (art. 33 disp. att. cod. proc. pen.), o non lo abbia nominato, nel qual caso, invece, la notifica deve essere eseguita personalmente alla stessa persona offesa, salva l'ipotesi in cui essa abbia eletto o dichiarato domicilio, posto che in quest'ultima evenienza la notifica deve essere sempre eseguita in tale luogo, anche se sia già intervenuta la nomina di un difensore. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi l'ordinanza del tribunale dell'appello che aveva confermato l'inammissibilità della istanza di sostituzione della misura cautelare presentata in udienza, in assenza della persona offesa - regolarmente citata e non costituita parte civile - e non notificata).". In sostanza, le contrapposte esigenze di tutela della vittima di reato commesso con violenza alla persona e di aspirazione alla libertà e di difesa dell'imputato, sia nella fase procedimentale che in quella processuale, sono positivamente soddisfatte quando sia adempiuto l'obbligo di notifica dell'istanza sulla libertà alla persona offesa, i cui dati identificativi completi emergano dal fascicolo processuale, senza che possa ricavarsi dalla omessa indicazione del domicilio o della mancata nomina del difensore oppure dalla mancata partecipazione all'udienza la decadenza dal diritto all'informazione.

Le sopracitate pronunce, pertanto, riconoscono il diritto all'informazione e al contraddittorio cartolare sulle misure cautelari della persona offesa, indipendentemente da una manifestazione di volontà partecipativa della stessa, desumibile dalla nomina del difensore ovvero dalla elezione di domicilio; nell'ipotesi negativa i dati anagrafici saranno da reperire negli atti del procedimento.

In senso restrittivo, invece, si sono espresse altre sentenze.

Sez. 2, n. 12325 del 3/02/2016, Spada, Rv. 266435, ha espresso il principio così massimato: "L'istanza di revoca della custodia cautelare in carcere presentata nel corso dell'udienza preliminare non deve essere notificata alla persona offesa, assente in udienza, che non abbia nominato un difensore o eletto domicilio, fermo il diritto dell'offeso di ricevere avviso della revoca o della sostituzione della misura.".

In particolare, la citata pronuncia individua precise condizioni di esercizio del diritto di partecipazione dell'offeso, "essendo soggetto processuale la cui partecipazione non condiziona la progressione processuale", ovvero: a) nella fase procedimentale, nella nomina del difensore o nell'elezione di domicilio; b) nella fase processuale, nella partecipazione alle udienze, anche senza la costituzione di parte civile. In assenza di tali manifestazione di volontà partecipativa, pertanto, l'offeso decade dal diritto alla notifica dell'istanza di revoca, fermo il suo diritto a conoscere l'esito della eventuale revoca o sostituzione della misura previsto dall'art. 299, comma 2-bis, cod. proc. pen., ed ora, anche dall'art. 90-ter cod.proc. pen. introdotto dal d.lgs. 212 del 2015.

Nel caso all'esame la persona offesa non solo non eleggeva domicilio, né nominava un difensore ma, soprattutto, era assente in sede di udienza preliminare (in occasione della quale veniva proposta l'istanza di revoca), pur avendo ricevuto regolare notifica del decreto di fissazione. Ed allora, l'assenza dell'offeso, regolarmente citato, esprimeva una volontà di segno contrario a quella di volersi avvalere del diritto alla partecipazione effettiva al procedimento ed all'eventuale incidente relativo.

In senso conforme a quest'ultima pronuncia si è espressa Sez. 2, n. 21070 del 14/04/2016, Arpino, precisando, appunto, come la disposizione di cui all'art. 299 cod. proc. pen. "obblighi l'istante, a pena di inammissibilità della sua richiesta, a notificare la medesima al difensore della persona offesa (se nominato) ovvero alla persona offesa stessa (in mancanza di nomina di difensore) nel domicilio dichiarato o eletto, salva l'ipotesi che, oltre alla mancata nomina, vi sia stata anche omessa dichiarazione o elezione di domicilio: in questo ultimo caso, infatti, l'obbligo di informativa viene meno.".

In precedenza, Sez. 1, n. 34132 del 13/07/2015, Bisa, ha dichiarato inammissibile il ricorso della parte offesa che non aveva ricevuto preliminare notifica della richiesta di modifica in meluis, affermando che la richiesta di sostituzione della misura della custodia in carcere presentata nell'interesse dell'indagato avrebbe dovuto essere preliminarmente notificata alla persona offesa, sul presupposto che la stessa fosse assistita in giudizio da un difensore o avesse provveduto a dichiarare o a eleggere domicilio. Questa condizione processuale, però, non risultava provata, ne' risultava altrimenti evincibile dagli atti processuali, dai quali non era dato nemmeno desumere se la vittima fosse ritualmente presente nel procedimento penale.

La Sezione, inoltre, a sostegno del proprio convincimento della necessità che la parte offesa abbia adempiuto agli oneri di diligenza imposti dall'ordinamento per esercitare il complesso di facoltà e di garanzie riconosciutigli, ha richiamato la giurisprudenza di legittimità, formatasi in tema di legittimazione della persona offesa a interloquire sul decreto di archiviazione emesso nel procedimento contro ignoti, secondo cui: "In tema di archiviazione per essere rimasti ignoti gli autori del reato, esiste un diritto d'intervento della parte offesa, che abbia adempiuto all'onere di dichiarazione di cui all'art. 408 c.p.p., comma 2, a prendere visione degli atti, a interloquire nel procedimento con la forma specifica dell'opposizione, a fornire materiale probatorio da sottoporre al giudice e a partecipare all'udienza camerale, fissata a norma dell'art. 410 cod. proc. pen., qualora l'opposizione sia ammissibile" (cfr. Sez. 3, n. 5202 del 10/02/2004, Sparviero, Rv. 228154).

Inoltre, sono da ricordare Sez. 6, n. 7636 del 12/12/2014, D.B.G. e Sez. 2, n. 29045 del 20/06/2014, Isoldi, che hanno precisato che l'istanza di revoca o sostituzione di misura cautelare deve essere contestualmente notificata presso il difensore della persona offesa o, in mancanza, alla persona offesa, sempre che la stessa abbia provveduto dichiarare o eleggere domicilio.

Per completezza, si cita anche Sez. 5, n. 24001 del 29/12/2014, dep. 4/06/2015, M.C., che nell'accogliere il ricorso di un'indagata per il delitto previsto dall'art. 612-bis cod. pen., ha annullato con rinvio l'ordinanza del Tribunale che, in fase di appello, aveva annullato il provvedimento che aveva sostituito in melius la misura cautelare, sul presupposto della mancata contestuale notifica, ex art. 299, comma 3, cod. proc. pen., della richiesta alla persona offesa.

In questo caso la Sezione ha affermato che la sanzione della inammissibilità della domanda sul presupposto della mancata notifica ex art. 299, comma 3, cod. proc. pen., inficiando irreversibilmente la richiesta di parte privata di tale ineludibile adempimento, non può pregiudicare il potere ufficioso del giudice di provvedere autonomamente alla verifica della persistenza delle esigenze cautelari, in modo da soddisfare il giusto contemperamento con i diritti e le esigenze di protezione della persona offesa. In definitiva, la Corte ha ritenuto che il giudice di appello avrebbe dovuto comunque svolgere la propria autonoma valutazione circa la fondatezza della determinazione sostitutiva del G.i.p.

Di particolare interesse, inoltre, sono le recenti sentenze Sez. 2, n. 25135 del 25/05/2016 Grosso, e Sez. 2, n. 21070 del 15/04/2016, Arpino, che hanno affrontato il problema dei limiti alla esigibilità di tale obbligo di notifica con riferimento alle ipotesi in cui l'indagato o il suo difensore non abbiano accessibilità ai dati che attengono alla persona offesa, che pur ha nominato un difensore ovvero abbia dichiarato o eletto domicilio. A titolo esemplificativo, vengono in rilievo i casi di richiesta presentata nella fase delle indagini preliminari quando gli atti del processo non sono depositati e sussista l'obbligo di segretezza; oppure, ancora, quando la vittima sia stata posta in località protetta, e sia la legge stessa a prevedere ed imporre un obbligo di copertura e di distanza tra offensore e offeso. Ebbene, nelle ipotesi indicate, sottolinea Sez. 2, n. 21070 del 15/04/2016 Arpino, "non si potrà certo onerare l'istante della prova negativa in ordine alla mancata conoscenza dei dati che riguardano la persona offesa e tantomeno obbligare il pubblico ministero a rendere, di fatto, pubblici dati sensibili in una fase processuale coperta dal segreto, al fine di comporre una situazione che il legislatore non ha adeguatamente previsto". Ed allora, la Corte ha affermato che il giudice, adito in sede di istanza ex art. 299 cod. proc. pen., è tenuto a verificare se detta omissione, tenuto conto della fase processuale di riferimento, possa ritenersi o meno incolpevole, ovvero, se il dato di ricerca potesse o meno essere rilevato dagli atti accessibili alla parte. In questa prospettiva, la non identificabilità incolpevole della persona offesa da parte dell'istante, sarebbe equiparabile alla situazione in cui la persona offesa non ha nominato il difensore o non ha dichiarato o eletto il domicilio e, di conseguenza, l'omesso adempimento informativo non rende l'istanza inammissibile, in quanto obiettivamente inesigibile (Sez. 2, n. 25135 del 25/05/2016 Grosso).

4. Il mutamento delle modalità esecutive della misura cautelare.

È orientamento consolidato quello che ritiene che anche la richiesta di modifica con modalità meno gravose della misura applicata debba essere comunicata, a pena di inammissibilità, alla persona offesa (Sez. 5, n. 18565 dell'8/01/2016, Secci, Rv. 267292; Sez. 6, n. 6864 del 9/02/2016, P., Rv. 266542; Sez. 5, n. 18306 del 24/02/2016, B., Rv. 266524; Sez. 6, n. 27975 del 6/07/2016, Amri Ghalia, Rv. 267131). Di conseguenza, la Corte ha chiarito che tale onere incombe anche nel caso di mutamento del luogo di esecuzione della misura coercitiva, come, appunto, nel caso di trasferimento del luogo del domicilio degli arresti domiciliari. E la riconducibilità del mutamento di domicilio nell'ambito delle modalità meno gravose di attuazione della misura coercitiva, per l'interessato, si fonda sulla considerazione che "In base alle comune regole di logica ed esperienza delle cose . . .deve ritenersi che l'indagato/imputato sia mosso da un interesse specifico alla presentazione della richiesta di modifica del luogo degli arresti domiciliari e che, quindi, il nuovo domicilio, in riferimento alle peculiarità del caso concreto ed alla soddisfazione di sue esigenze di vita, presenti caratteristiche tali da rendergli meno gravose le modalità di applicazione della misura cautelare." (Sez. 5, n. 18565 dell'8/01/2016, Secci, Rv. 267292). In questi casi, pertanto, le aspirazioni dell'imputato devono necessariamente confrontarsi con le ragioni di protezione ed assistenza della persona offesa, che potrebbe avere un interesse contrario all'accoglimento della domanda da parte del giudice, da rappresentarsi tramite lo strumento della memoria di cui all'art. 121 cod. proc. pen.

Tuttavia, proprio la concorrente e pregnante finalità di tutela dell'incolumità della persona offesa ha spinto Sez. 6, n. 27975 del 6/07/2016, Amri Ghalia, Rv. 267131 ad individuare una possibile deroga rispetto alla citata previsione, nel senso che nei casi di mera modifica delle modalità esecutive della misura che di fatto comporti un aumento di garanzie per la vittima, la notifica alla persona offesa potrà anche essere omessa. Nel caso all'esame della Sesta Sezione era il provvedimento del G.i.p. che aveva disposto la modifica dell'obbligo di dimora e di presentazione periodica alla polizia giudiziaria (di cui agli artt. 283 e 282 cod. proc. pen.) dal comune di residenza della parte offesa e di commissione dei fatti oggetto delle imputazioni, ad altro diverso, in assenza di preventiva comunicazione della richiesta alla parte offesa da parte del richiedente. In questo caso la S. C. ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal pubblico ministero sul provvedimento del G.i.p. che non aveva rilevato l'inammissibilità della richiesta per omessa preventiva notifica alla parte offesa, osservando come nei fatti il mutamento delle modalità di esecuzione si era in realtà tradotta in un aumento di garanzie e tutela della persona offesa.

Una soluzione, pertanto, che, in un'ottica di economia processuale, nel bilanciamento tra l'interesse dell'indagato ad una pronta definizione del sub-procedimento de libertate e la effettiva esigenza di protezione della persona offesa, appare attenta ai risultati concreti raggiunti, ma che, tuttavia, potrebbe comportare il rischio di lasciare "scoperte" situazioni di pericolo per la parte offesa non conosciute dall'autorità giudiziaria, che, invece, potrebbero compiutamente emergere soltanto a seguito del provocato contraddittorio con la vittima del reato, previamente informata della richiesta.

5. Osservazioni conclusive.

Cercando di trarre le fila dalla ricostruzione sin qui effettuata, si esprimono le seguenti considerazioni con riferimento alle due questioni che allo stato paiono oggetto di soluzioni ermeneutiche contrastanti.

Quanto alla prima questione, relativa alla possibile limitazione della categoria delle "persone offese dei delitti commessi con violenza alla persona", a quelle individuabili in base alla preesistenza di un rapporto interpersonale con l'autore del reato, deve osservarsi come l'orientamento che sostiene la tesi restrittiva non sembra trovare un fondamento testuale nella vigente previsione normativa: l'art. 299, commi 3 e 4-bis cod. proc. pen., infatti, non opera alcuna distinzione tra le vittime di violenza alla persona.

La ricostruzione della voluntas legis evidenzia, in realtà, come in fase di conversione del decreto legge n. 93 del 2013 il legislatore abbia inteso rafforzare le possibilità di tutela per la persona offesa, estendendo gli obblighi informativi anche con riferimento alle misure che rimandano a reati commessi in ambienti diversi da quelli domestico-familiare (contrariamente, cioè, a quanto inizialmente previsto dal decreto legge che circoscriveva la previsione dell'obbligo di contraddittorio con la persona offesa soltanto con riferimento alle misure di cui agli artt. 282 bis e 283 ter c.p.p.).

Inoltre, un'interpretazione dell'art. 299 cod. proc. pen. sistematicamente coerente non pare non possa tener conto della pronuncia delle Sezioni Unite n. 10959 del 29/01/2016, che richiama il concetto di "violenza di genere" (certamente più ampio di quella di "violenza domestica"), per definire l'espressione "delitti commessi con violenza alla persona" contenuta nella norma. Invero, l'opzione ermeneutica accolta dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite ha inteso allargare, in coerenza con la ratio della novella del 2013 e delle fonti sovranazionali, l'applicazione della disciplina di tutela a favore delle vittime di violenza, facendo rientrare nella categoria delle vittime di violenza alla persona, anche le persone offese di delitti che non si caratterizzano necessariamente dall'estrinsecazione di violenza fisica, ma sono espressione di coercizione psicologica o intimidazione.

Ebbene, aderendo a tale accezione, per individuare le persone offese di "violenza alla persona", non assume nessun rilievo l'esistenza o meno di un loro rapporto pregresso con l'autore del reato, e quindi l'essere o meno vittime occasionali, in quanto è di tutta evidenza che può essere vittima di "violenza di genere" anche la persona sconosciuta all'autore del reato (come ad es. nei casi, spesso registrati nella cronaca, di violenza sessuale); d'altro lato, tuttavia, la nozione di "violenza di genere" potrebbe essere utilizzata per escludere dall'ampia categoria dei delitti di violenza alla persona quelli a base violenta che non concretizzino ipotesi di "violenza di genere", come i delitti di rapina in esercizi commerciali o di resistenza a pubblico ufficiale, all'evidente scopo di ridurre l'ambito applicativo degli oneri informativi introdotti dalle novelle legislative, nel bilanciamento tra i pari diritti alla informazione e partecipazione al procedimento delle vittime, da un lato, e quelli alla celerità del processo e di difesa dell'imputato, dall'altro.

Ed invero, si ritiene utile svolgere le seguenti ulteriori considerazioni.

La tesi che intende restringere la categoria delle vittime a quelle legate da un pregresso rapporto con l'autore del reato, non trova fondamento nemmeno nelle disposizioni della Direttiva 2012/29/UE, recepita, come già accennato, con d.lgs. n. 212 del 2015. In particolare, l'articolo 6, ai par. 5 e 6, prescrive agli Stati membri di garantire alla vittima di qualunque reato la possibilità di essere informata, senza indebito ritardo, previa richiesta, della scarcerazione o dell'evasione della persona posta in stato di custodia cautelare, processata o condannata. Tale norma, inoltre, precisa, quale condizione minimale, che tale diritto all'informazione è da assicurare "almeno nei casi in cui sussista un pericolo o un rischio concreto di danno nei confronti della vittima, salvo che tale notifica comporti un rischio concreto di danno per l'autore del reato."[9]. Il recepimento di suddetta regola, come noto, è avvenuto con l'introduzione dell'articolo 90-ter cod. proc. pen., che ha codificato tale obbligo informativo con riferimento alle persone offese per i delitti commessi con violenza alla persona. Suddetto articolo, inoltre, contiene espressa clausola di salvezza riguardo a quanto già previsto dall'art. 299 cod. proc. pen., che, appunto, stabilisce l'onere informativo oggetto della presente trattazione.

Ebbene, è evidente che la situazione di "pericolo o rischio concreto di danno" nei confronti delle vittime, richiamata nella norma europea, da cui discende l'obbligo per gli Stati membri di garantire, senza eccezioni, il diritto di informazione sulle vicende de libertate dell'autore del reato (cui il nostro legislatore ha dato attuazione con il riferimento alla categoria dei "delitti commessi con violenza alla persona") non può ritenersi sicuramente esclusa nelle ipotesi di reati che abbiano offeso persone preventivamente sconosciute all'aggressore. Tale previsione pare rimandare piuttosto ad una valutazione da compiersi in relazione alle concrete modalità di realizzazione della fattispecie, avendo riguardo alle modalità della condotta, anche successiva alla commissione del reato, alla personalità del reo, ai motivi a delinquere.

Ed ancora, da una lettura della citata direttiva non pare si possano astrattamente considerare estranee da tale diritto le vittime dei reati che non siano manifestazione di "violenza di genere". Quest'ultima nozione, cui fa riferimento la citata pronuncia delle Sezioni unite (n. 10959 del 2016) per interpretare la generica espressione "violenza alla persona", in realtà, pare indirizzata a svolgere una funzione estensiva della tradizionale nozione di "violenza" accolta nel nostro sistema penale, che, incentrata sulla estrinsecazione di energia fisica sulla vittima, porterebbe ad escluderebbe tutte le ipotesi di violenza morale o psicologica. Più problematica, invece, apparirebbe la sua utilizzazione al fine di restringere la categoria dei delitti commessi con violenza alla persona, che il legislatore ha individuato senza eccezioni.

In tale prospettiva, pertanto, anche l'ipotesi di rapina impropria al supermercato potrebbe, giustificare la comunicazione alla vittima della evoluzione dello stato cautelare dell'autore del reato in tutti i casi in cui, in base all'analisi degli elementi del singolo caso, tale pericolo di rischio o di danno si possa ritenere in concreto sussistente (a titolo esemplificativo, si cita il caso dell'addetto alla sicurezza che successivamente all'arresto dell'autore del reato riceva specifiche minacce alla propria incolumità oppure intimidazioni da parte dell'imputato a causa dell'intervento effettuato che ha portato all'arresto di quest'ultimo). Ma appare impensabile ancorare la sussistenza dell'onere informativo, gravante sull'imputato, ad una circostanza concreta (l'esistenza di un pericolo per la vittima del reato) che non può ragionevolmente essere rimesso alla valutazione dello stesso.

In definitiva, allora, dal dato normativo non appaiono rinvenirsi validi elementi che consentano, non solo escludere quali destinatari delle notifiche nel procedimento modificativo dello status libertatis dell'imputato le vittime occasionali, ma, anche, di circoscrivere la violenza alla persona alle sole ipotesi di violenza di genere, ovvero quella maturata in ambienti familiari o basata su pregresse relazioni interpersonali con l'autore del reato.

Per quanto attiene alla seconda problematica, riguardante l'incombente informativo nell'incidente cautelare a favore della persona offesa, dal testo dell'art. 299 cod. proc. pen. e dalla ricostruzione dell'iter parlamentare che ha portato alla sua adozione, emerge come il legislatore abbia voluto introdurre alcune condizioni all'esercizio del diritto all'informazione e partecipazione di tale soggetto processuale, che, in ogni caso, prescinde da una sua preventiva richiesta di ricevere tale informazione.

Per quanto attiene alla fase delle indagini preliminari, in primo luogo, l'onere di informazione contestuale non trova applicazione nell'ipotesi di richiesta proposta in sede di interrogatorio di garanzia, di cui all'articolo 294 cod. proc. pen., e ciò all'evidente fine di non appesantire il sub-procedimento innestato in tale fase e, soprattutto, di non indebolirne la funzione eminentemente difensiva e garantista.

In secondo luogo, l'incombente della notifica contestuale è condizionato alla manifestazione di una volontà partecipativa al procedimento espressa dalla nomina di un difensore o dalla dichiarazione o elezione di domicilio da parte della persona offesa. Tale condizione emerge dall'inciso aggiunto all'art. 299, commi 3 e 4-bis cod. proc. pen. "salvo che in quest'ultimo caso (mancata nomina del difensore) essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio", sicché nelle ipotesi in cui le vittime di violenza non abbiano nominato un difensore nelle forme previste dall'art. 101 cod. proc. pen., oppure non abbiano provveduto a dichiarare o eleggere domicilio, non sarà dovuta alcuna notifica. In altri termini, la formulazione della norma e la chiave di lettura fornita dai lavori parlamentari porta a ritenere che sia stata prevista una eccezione alla regola dell'onere di notifica, al fine di realizzare una tutela proporzionata dei diritti sia della persona offesa alla partecipazione al procedimento che quello della persona indagata a sollecitare un tempestivo ripensamento della situazione cautelare che la riguarda. Per quanto attiene alle formalità richieste per riconoscere la dichiarazione di domicilio ove effettuare le notifiche, pare potersi ragionevolmente sostenere che possa valere, anche la dichiarazione della parte offesa contenuta anche in un verbale di sommarie informazioni, in considerazione della natura meramente dichiarativa della dichiarazione di domicilio rispetto della elezione di domicilio.

Infine, circostanza da valorizzare ai fini della valutazione della inammissibilità della richiesta di modifica cautelare è la verifica da parte del giudice della concreta accessibilità per l'imputato e il suo difensore ai dati identificativi della persona offesa dagli atti processuali e, quindi, in caso negativo, della considerazione della concreta inesigibilità della informazione preventiva.

Dopo la chiusura delle indagini preliminari, l'onere informativo pare previsto soltanto con riferimento alle richieste presentate fuori udienza. Infatti, la configurazione dell'onere di notifica nel secondo periodo del comma 4-bis dello stesso art. 299 - che espressamente disciplina l'ipotesi della domanda avanzata nella fase processuale, ma fuori udienza - lascerebbe propendere per tale soluzione, apparendo peraltro ragionevole che il legislatore abbia ritenuto non gravare ulteriormente l'imputato quando le richieste siano presentate in udienza, giacché la persona offesa ritualmente citata o è presente all'udienza - personalmente o tramite il proprio difensore - o comunque deve essere considerata tale[10].

Nelle ipotesi di richieste presentate fuori udienza, sono previste le stesse condizioni codificate al comma 3, ovvero la nomina del difensore oppure l'elezione o la dichiarazione di domicilio da parte della persona offesa.

  • reato

CAPITOLO II

IL DELITTO DI STALKING PERCORSI DI GIURISPRUDENZA

(di Matilde Brancaccio )

Sommario

1 Il delitto di stalking: genesi e percorsi applicativi nella giurisprudenza di legittimità. - 2 Tracce di lettura ragionata della giurisprudenza sul delitto di stalking. - 2.1 La condotta del reato e la sua natura. - 2.2 L'evento del reato. - 2.3 Il dolo del reato. - 2.4 Casistica. - 2.5 Procedibilità del reato. - 2.6 La prova del reato. - 3 Interesse tutelato, clausola di sussidiarietà e rapporti con altri reati. - 4 Problemi di costituzionalità: la sentenza n. 172 del 2014. - 5 Un primo bilancio "operativo" della nuova fattispecie.

1. Il delitto di stalking: genesi e percorsi applicativi nella giurisprudenza di legittimità.

La nuova fattispecie penale di stalking è stata introdotta nel nostro ordinamento con il d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 ("Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori"), poi convertito con modifiche dalla 1. 23 aprile 2009, n. 38. Il legislatore ha scelto di inserire nel Titolo XII del codice penale, all'art. 612-bis, l'inedito delitto di "Atti persecutori", formula con la quale si è tradotto sinteticamente il complesso fenomeno socio-criminale già enucleato dalla letteratura psichiatrica e da quella criminologica come stalking.

Nonostante la solidità generale dell'impianto codicistico tradizionalmente approntato per la tutela della persona, la cui disciplina ha dimostrato una buona tenuta rispetto ai complicati cambiamenti subiti dalla società, deve sottolinearsi come, guardando agli ultimi dieci anni, le esigenze di intervento del legislatore penale si fossero comunque presentate urgenti, soprattutto sul versante della necessità di conferire rilievo a nuove forme di aggressione personale, molte delle quali legate anche al progresso tecnologico.

Si è fatta strada, inoltre, negli ultimi anni soprattutto, una più elevata percezione del disvalore di alcuni fenomeni criminali.

In tale contesto, si è fatto luogo, ad esempio, ad alcune modifiche in materia di reati sessuali, con la sottolineatura penale della repressione delle condotte nei confronti di minorenni e della pedopornografia[1].

Del resto, lo stesso delitto di stalking aveva conosciuto una doverosa attenzione del legislatore, quanto meno in chiave di proposta normativa per enuclearlo come fattispecie autonoma, ben prima della sua introduzione con il d.l. n.11 del 2009.

Peraltro, è stato giustamente evidenziato che "una migliore definizione dell'ambito applicativo della fattispecie tipizzata dal legislatore è possibile solo cogliendo l'essenza del fenomeno che l'ha ispirata e gli sforzi compiuti per delimitarlo"[2].

In proposito, dunque, deve ricordarsi come, nell'immaginario collettivo e nell'interpretazione del fenomeno fornita da media e studiosi di criminologia, il termine stalking (derivato dall'inglese to stalk, nel significato di fare la posta, braccare, pedinare) sia stato per molto tempo usato per descrivere fenomeni di persecuzione cui venivano sottoposti soprattutto personaggi famosi (sportivi o del mondo dello spettacolo) da parte di alcuni dei loro fans, ai quali interessava ossessivamente avere un contatto con il proprio idolo.

Gli studiosi di medicina-psichiatrica e di criminologia hanno poi costruito scientificamente intorno al termine comune una "gabbia" di significato più precisa, identificando il fenomeno criminale in tutti quei comportamenti caratterizzati dall'attenzione assillante ed ossessiva nei confronti di un soggetto-vittima, realizzate mediante multiformi manifestazioni (tra le più diffuse, pedinamenti o appostamenti nei luoghi frequentati dalla vittima, invio continuativo ed inquietante di sms o e-mail o corrispondenza, molteplici telefonate, recapito ossessivo di doni, forme di denigrazione del soggetto bersaglio attraverso la divulgazione di notizie false o la pubblicazione di falsi annunci che inducano terzi sconosciuti a mettersi in contatto con la stessa vittima; inoltre, si inscrivono nella logica persecutoria anche comportamenti caratterizzati dalla violenza, dalle minacce solo verbali o scritte alle vere e proprie aggressioni fisiche).

Dal punto di vista della vittima, i comportamenti identificabili come ipotesi di stalking si caratterizzano per la percezione soggettiva di una condotta intrusiva e sgradita della propria sfera individuale e privata, tale da produrre nel destinatario uno stato d'ansia o di timore.

Si tratta, secondo le affermazioni di molti, di vere e proprie "patologie relazionali", delle quali è stata anche proposta una specifica classificazione, con relativo catalogo fenomenologico, provando, altresì, in psichiatria e psicologia criminale, ad individuare dal punto di vista scientifico i possibili profili di uno stalker.[3] Anche la dottrina giuridica, peraltro, non si è sottratta ad un'aspirazione catalogatrice di ordine socio-psicologico dei comportamenti dello stalker[4].

A livello normativo, peraltro, se si guarda al fenomeno in chiave comparata, si deve sottolineare che della recente emersione delle istanze di tutela sociale collegate allo stalking sono testimonianza anche i primi esempi normativi di fattispecie, risalenti alla legislazione californiana del 1990 e, via via, di altri Stati degli USA, sino a giungere allo Interstate Stalking Act del 1996, grazie al quale lo stalking è divento un crimine federale.

A livello europeo, è stato istituito, invece, nel 2003, il Modena Group on Stalking (MGS) che raccoglie un gruppo multidisciplinare di studiosi impegnati in progetti di ricerca finalizzati alla prevenzione della violenza nei confronti dei bambini, degli adolescenti e delle donne. In un rapporto di tale organismo, si rileva che, al 2007, i paesi europei provvisti di una specifica normativa sullo stalking erano otto (mentre erano dieci quelli che avevano istituito forme di supporto sociale e psicologico per le vittime di tali condotte).

Preso atto del contesto sociale e scientifico in cui nasce e si sviluppa l'esigenza di prevedere una fattispecie autonoma di "atti persecutori" nell'ordinamento italiano, tornando ora al piano più strettamente giuridico e normativo, deve rammentarsi, come si è già anticipato, che il d.l. n. 11 del 2009 rappresenta la conclusione di un percorso legislativo in realtà già precedente, che aveva visto una prima genesi nella XV legislatura, e, successivamente, la disposizione approvata già dalla Camera dei Deputati il 29 gennaio 2009 all'interno del d.d.l. 1140; nelle more dell'approvazione al Senato, è stato poi presentato ed approvato il decreto legge citato, dal medesimo contenuto del disegno di legge, che ha realmente introdotto l'art. 612-bis cod. pen. nel nostro ordinamento penale.

Ed è, peraltro, proprio nel dibattito parlamentare sviluppatosi per l'approvazione alla Camera del d.d.l. n. C1440 che si rinvengono i contributi più interessanti per comprendere meglio ratio e caratteri della disciplina di nuovo conio, nata anzitutto per stigmatizzare penalmente le intrusioni seriali nella sfera della vita della vittima (poiché è proprio nella reiterazione e serialità dell'offesa che risiede il disvalore specifico della condotta) e certamente ispirata dalla crescente attenzione sociale e scientifica al comportamento dello stalker, spesso prodromico a gravi reati contro la persona, a volte culminati nell'omicidio, anche per prevenire i quali si avvertiva la necessità di una disciplina apposita, più idonea, soprattutto sul fronte degli strumenti cautelari, rispetto ai tradizionali strumenti (quelli dei reati di violenza privata, minaccia e molestia ex artt. 610, 612 e 660 cod. pen.), ad impedire il reiterarsi del reato ed i suoi esiti più gravi[5].

Accanto al delitto di atti persecutori vero e proprio, sono state introdotte, in tale prospettiva, una serie di disposizioni ulteriori, quali l'ammonimento del questore, la misura cautelare specifica del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, l'aumento di durata degli ordini di protezione disposti dal giudice civile, nonché, come strumenti di sostegno per la vittima del reato, le informazioni relative ai centri antiviolenza presenti nella zona di residenza della vittima e il numero verde istituito presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri per offrire assistenza psicologica e giuridica e per comunicare, nei casi d'urgenza, alle forze dell'ordine gli atti persecutori subiti dalla vittima.

Il legislatore penale, correttamente, non ha costruito la fattispecie secondo il tipo d'autore, rischio insito nella tipologia criminologica del reato, bensì secondo parametri oggettivi riferiti alla condotta ed alla natura dell'evento che tali condotte provocano. E così, accanto all'area di punibilità tradizionalmente collegata allo stalking (i rapporti domestici, affettivi o sentimentali), proprio grazie alla formulazione asettica preferita dal legislatore, l'impiego della fattispecie, come vedremo anche nella esemplificazione giurisprudenziale, ha trovato, e potrebbe ancora trovare, più ampi orizzonti. Ovviamente, fatta salva la concreta attitudine delle diverse condotte ad essere inserite tra quelle tipizzate nell'art. 612-bis cod. pen. ovvero l'eventuale configurabilità di altre fattispecie penali più gravi.

L'aggravante degli atti persecutori, prevista nel caso di relazione affettiva dal comma 2 dell'art. 612-bis cod. pen., si applica sia nel caso di relazione affettiva cessata che nel caso in cui il reato venga commesso in costanza di relazione affettiva (sia fuori che nel matrimonio, in quest'ultimo caso, ovviamente, si applica espressamente anche al coniuge separato o divorziato)[6].

Altra aggravante, nello stesso comma, è stata prevista per l'ipotesi in cui il fatto sia commesso attraverso strumenti informatici o telematici.

Deve rilevarsi, inoltre, che, con il d.l. 14 agosto 2013, n. 93[7], convertito in legge n. 119 del 15 ottobre 2013, il legislatore è intervenuto a rimodulare la pena massima, portata a cinque anni di reclusione e, appunto, il regime delle aggravanti previsto nell'originaria formulazione del 2009.

Molte delle disposizioni introdotte dalla novella del 2013 provvedono "di fatto" ad adeguare l'ordinamento interno ai contenuti della Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (ratificata dall'Italia con la 1. 27 giugno 2013, n. 77).

Un'ulteriore, rilevante modifica è stata apportata nel 2013, con il citato atto normativo, al regime di irrevocabilità della querela per il delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen.: nel 2009 si era disposto al quarto comma della norma in esame che il reato fosse procedibile a querela (salvi i casi di connessione con reati procedibili d'ufficio o di persona offesa minorenne o disabile), estendendo però il termine per la sua presentazione fino a sei mesi, così come previsto per i reati sessuali dall'art. 609-septies cod. pen..

Nel 2013, cercando un compromesso tra le opposte esigenze di rispettare la libertà della vittima del reato e di garantirle una tutela effettiva contro il menzionato rischio di essere sottoposta ad indebite pressioni, il legislatore ha reso irrevocabile la querela nel caso in cui il reato sia stato realizzato "mediante minacce reiterate nei modi di cui all'articolo 612, secondo comma" ed inoltre ha disposto che, negli altri casi, la remissione sia esclusivamente "processuale"[8].

La tecnica normativa con cui si è costruito il delitto di "atti persecutori" si rispecchia nelle applicazioni giurisprudenziali dei primi anni che, via via arricchendosi, disegnano alcuni possibili percorsi di analisi dei temi interpretativi principali che hanno caratterizzato la "diagnosi" della fattispecie da parte della Cassazione.

Anche nel 2016, peraltro, ciò che più interessa per la presente Rassegna, si sono avuti arresti importanti su molti dei nodi principali che costituiscono il "dna" del reato.

Si possono così evidenziare percorsi di giurisprudenza volti a tracciare le linee individuatrici della condotta del reato (e, di conseguenza, la sua natura), quelle dedicate all'evento, quelle che si occupano di ricostruire i contorni dell'elemento soggettivo; un importante canale interpretativo si ritrova, poi, in ambito di procedibilità della fattispecie e di revocabilità della querela, aspetto sempre delicatissimo in tutti i reati che coinvolgono o lambiscono la sfera personale ed individuale, soprattutto in contesti domestici o comunque connotati da relazioni sentimentali.

All'analisi di tali percorsi si dedicherà il paragrafo seguente, cercando di delineare, ove possibile, punti di vista che si siano consolidati nella giurisprudenza di legittimità in materia di stalking, rappresentandosi che la disamina sarà circoscritta, prevalentemente, agli aspetti sostanziali della fattispecie penale, riservandosi ad altra parte della Rassegna i temi processuali e procedimentali riferiti ai reati caratterizzati da violenza di genere, per i quali numerosi e rilevanti cambiamenti sono intervenuti, sia sotto l'aspetto cautelare che sul fronte degli avvisi spettanti alla persona offesa dal reato.

In relazione a tali temi, peraltro, deve segnalarsi, tra tutti, l'intervento delle Sezioni Unite, con la sentenza Sez. U, n. 10959 del 29/1/2016, P.O. in proc. C., Rv. 265893, che ha affermato, in caso di archiviazione del reato, come l'obbligo di dare avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con "violenza alla persona" sia riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsti rispettivamente dagli artt. 612-bis e 572 cod. pen., in quanto l'espressione "violenza alla persona" deve essere intesa alla luce del concetto di "violenza di genere", risultante dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale e di diritto comunitario. Primo tra tutti, ovviamente, in tale campo, è il riferimento alla Direttiva 2012/29/UE, sui diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, che ha introdotto ulteriori modifiche al codice di procedura penale tese a rafforzare ancor più i diritti di informazione delle parti offese, con particolare attenzione a quelle coinvolte in delitti commessi con violenza alla persona.[9]

2. Tracce di lettura ragionata della giurisprudenza sul delitto di stalking.

Si sono poc'anzi delineati alcuni binari interpretativi lungo i quali è possibile seguire il percorso della giurisprudenza di legittimità in materia di stalking, dai primi anni dopo l'introduzione della disposizione di cui all'art. 612-bis cod. pen. sino ad oggi.

Per chiarezza espositiva, dunque, si farà riferimento proprio a quelle tracce già disegnate, seguendole nell'analisi della giurisprudenza, segnalandone gli aspetti consolidati e quelli che tali non sono, ovvero le enunciazioni più nuove, sino ad individuare anche l'attività nomofilattica svolta nel 2016.

Anzitutto, però, vanno svolte alcune affermazioni di ordine preliminare sulla natura del reato.

La prima caratteristica, infatti, che si ricava dall'interpretazione della disciplina codicistica, come, peraltro, fatto notare anche in dottrina sin dai primi commenti, è la natura abituale della condotta di reato, il che, come vedremo, non conferisce necessariamente al delitto uno schema di verificazione prolungantesi nel tempo, essendosi affermato che esso può concretizzarsi anche attraverso condotte reiterate, manifestatesi in un ristretto o ristrettissimo arco temporale (una giornata sola, addirittura).

Inoltre, non necessariamente le condotte seriali devono essere dirette nei confronti di una sola vittima e, peraltro, anche due sole condotte enucleabili come rientranti nel paradigma normativo possono costituire quella "serialità" richiesta dalla fattispecie di stalking.

Sul punto, la Cassazione ha fissato alcune posizioni interpretative consolidate, ribadendo la natura di reato abituale di evento, a struttura causale e non di mera condotta, dello stalking.

In particolare, si è sottolineata la doppia manifestazione possibile del delitto dal punto di vista dell'evento: reato con evento di danno o di pericolo, secondo che la vicenda di fatto sia riconducibile ad uno dei due paradigmi normativi contemplati dalla fattispecie.

Il reato, pertanto, si è detto, è "a fattispecie alternative, ciascuna delle quali si presenta idonea ad integrarlo"; esso è reato abituale, a struttura causale e non di mera condotta, che si caratterizza per la produzione di un evento di "danno" consistente nell'alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero, alternativamente, di un evento di "pericolo", consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva.

In tal senso, Sez. 5, n. 34015 del 22/6/2010, De Guglielmo, Rv. 248412; Sez. 5, n. 29872 del 19/5/2011, L. Rv. 250399; Sez. 3, n. 23845 del 7/3/2014, U, Rv. 260083; Sez. 3, n. 9222 del 16/1/2015, G., Rv. 262517; Sez. 3, n. 1629 del 6/10/2015, dep. 2016, V., Rv. 265809, in motivazione, che evidenzia in concreto la sussistenza, nel caso di specie, di un evento di danno e di un evento di pericolo.

Anche secondo la dottrina, la fattispecie incriminatrice richiede, in forma alternativa, la realizzazione di uno tra i tre diversi tipi di evento descritti (due di danno ed uno di pericolo)[10].

2.1. La condotta del reato e la sua natura.

Sugli elementi caratterizzanti la condotta del delitto di atti persecutori (stalking) la giurisprudenza della Cassazione ha sviluppato un'elaborazione articolata, comunque piuttosto coerente nel suo complesso.

A quanto già detto in premessa va, pertanto, aggiunto che:

a) la abitualità del reato è realizzata solo dalla reiterazione necessaria delle condotte (da ultimo, di giurisprudenza costante, cfr. Sez. 5, n. 48268 del 27/5/2016, D. Rv. 268163, che si sofferma sugli effetti di tale natura in tema di procedibilità).

Tuttavia il fattore temporale non viene sopravvalutato dal punto di vista della sua dilatazione, potendo ritenersi sussistente il reato anche là dove la condotta persecutoria si sia manifestata in un brevissimo arco temporale, anche pari ad una sola giornata.

Sez. 5, n. 33563 del 16/6/2015, B., Rv. 264356 e Sez. 5, n. 38306 del 13/6/2016, C., Rv. 267954 evidenziano la configurabilità del delitto di atti persecutori anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto - e precisamente nell'arco di una sola giornata - a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice.

L'orientamento è stato ribadito recentemente anche da Sez. 5, n. 54920 del 8/6/2016, che ha anche evidenziato (sulla scia delle affermazioni per prime proposte da Sez. 5, n. 51718 del 5/11/2014, T., Rv. 262636) come, in tema di abitualità del reato, sia la condotta nel suo complesso ad assumere rilevanza, sicchè l'essenza stessa dell'incriminazione di stalking si coglie non già nello spettro degli atti considerati tipici, bensì nella loro reiterazione, la quale rappresenta l'elemento che li cementa, identificando un comportamento criminale diverso da quelli che concorrono a definirlo sul piano oggettivo. In tal modo, si pone l'accento sulla specificità ontologica dell'atteggiamento persecutorio e sulla sua specifica offensività, sottolineando come, in quest'ottica, l'evento tipico sia quello complessivo, che ben può essere dato - anzi, è normale che ciò sia - dalla consumazione di molteplici e singoli atti persecutori: alla reiterazione degli atti corrisponde, infatti, nella vittima, un progressivo accumulo del disagio, finchè tale disagio degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell'art. 612-bis cod. pen.

Ed invece, poiché non vi è spazio interpretativo, stando alla lettera della norma, per configurare una fattispecie solo eventualmente abituale, la citata sentenza n. 54920 del 2016 ha, altresì, ribadito che un solo episodio, per quanto grave e da solo capace, in linea teorica di determinare il grave e persistente stato d'ansia e di paura (l'evento del reato), non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico protetto dalla disposizione di cui all'art. 612-bis cod. pen. (tale affermazione era stata espressamente svolta da Sez. 5., n. 48391 del 24/9/2014, C., Rv. 261024, mentre sul carattere del reato, abituale a reiterazione necessaria, si esprime pressocchè unanimemente tutta la giurisprudenza citata nella presente Relazione).

b) integra il delitto di atti persecutori anche la condotta di colui che compie atti molesti ai danni di più persone, costituendo per ciascuna motivo di ansia, non richiedendosi, ai fini della reiterazione della condotta prevista dalla norma incriminatrice, che gli atti molesti siano diretti necessariamente ad una sola persona, quando questi ultimi, arrecando offesa a diverse persone, provocano turbamento a tutte le altre (Sez. 5, n. 20895 del 7/4/2011, A. Rv. 250460). Peraltro, sotto il profilo della procedibilità in tale peculiare ipotesi, è stato pure affermato che non vi si applica la disposizione di cui all'art. 122 cod. pen. nel caso di atti persecutori commessi in danno di più persone offese, una sola delle quali aveva proposto querela, poiché nel caso in cui una sola azione comporti più lesioni della stessa disposizione penale, ledendo distinti soggetti, si verifica un concorso formale di reati in danno di più persone, in cui la "reductio ad unum" è preordinata solo ad un più benevolo regime sanzionatorio che non incide sulla autonomia dei singoli reati, di guisa che, in tal caso, la procedibilità di ciascun reato è condizionata alla querela della rispettiva persona offesa (Sez. 5, n. 44392 del 11/6/2015, D., Rv. 266402);

c) integrano il delitto di atti persecutori di cui all'art. 612-bis cod. pen. anche due sole condotte di minaccia o di molestia, come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 46631 del 5/6/2013, D.V., Rv. 257560; conf. Sez. 3, n. 45648 del 23/5/2013, U, Rv. 257287; Sez. 5, n. 6417 del 21/1/2010, Oliviero, Rv. 245881); recentemente il principio è stato ribadito da Sez. 5, n. 54920 del 8/6/2016.

d) la natura e la struttura del reato, abituale a reiterazione necessaria delle condotte, implica, altresì, sotto il profilo del diritto intertemporale, che sia stato ritenuto, dalla giurisprudenza di legittimità, costantemente configurabile il delitto di atti persecutori nella ipotesi in cui, pur essendo la condotta persecutoria iniziata in epoca anteriore all'entrata in vigore della norma incriminatrice, si accerti la commissione reiterata, anche dopo l'entrata in vigore del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, conv. in 1. 23 aprile 2009, n. 38, di atti di aggressione e di molestia idonei a creare nella vittima lo status di persona lesa nella propria libertà morale, in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura (in tal senso, Sez. 5, n. 48268 del 27/5/2016, D., Rv. 268162; conformi in precedenza, Sez. 5, n.10388 del 6/11/2012, dep. 2013, D., Rv. 255330 e Sez. 5, n. 18999 del 19/2/2014, C., Rv. 260410).

Quanto alle possibili, differenti manifestazioni della condotta delittuosa di cui all'art. 612bis cod. pen., si fornirà più avanti una casistica esemplificativa.

2.2. L'evento del reato.

Il reato si è detto, è "a fattispecie alternative, ciascuna delle quali si presenta idonea ad integrarlo" (così, Sez. 5, n. 34015 del 2010, cit.); si può configurare il delitto, dunque, secondo un duplice schema alternativo di evento: uno di danno, previsto dalla prima parte della disposizione (l'alterazione delle proprie abitudini di vita o un perdurante e grave stato di ansia o di paura), l'altro di pericolo, delineato nella seconda parte del testo normativo e consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva; si richiama in proposito la giurisprudenza già esposta nella premessa, al punto 2. Tra quella più recente, non massimata, cfr. Sez. 1, n. 17040 del 2/3/2016, che ha peraltro deciso un interessante conflitto di competenza territoriale tra due GUP.

Sez. 5, n. 29872 del 19/5/2011, L., Rv. 250399, ribadendo che lo stalking si configura come reato ad eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo, si segnala proprio perché ha ritenuto che, ai fini della sua configurazione, non sia essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità.

Ancora sull'evento del reato si è precisato, in generale, che, ai fini della configurabilità della fattispecie delittuosa, è sufficiente la consumazione anche di uno solo degli eventi alternativamente previsti dall'art. 612-bis cod. pen. (Sez. 5, n. 43085 del 24/9/2015, A., Rv. 265231) ed in applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio l'ordinanza del Tribunale del riesame che aveva ritenuto non sussistere il reato per la mancata dimostrazione unicamente del mutamento delle abitudini di vita della vittima.

Sez. 5, n. 16864 del 10/1/2011, C., Rv. 250158 ha affermato che non è necessario che vi sia l'accertamento di uno stato patologico per ritenere sussistente il delitto di stalking, ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori - e nella specie costituiti da minacce e insulti alla persona offesa, inviati con messaggi telefonici o via internet o, comunque, espressi nel corso di incontri imposti - abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima, considerato che l'evento della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 612-bis cod. pen. è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (poiché altrimenti costituirebbe una duplicazione del reato di lesioni).

Centrando un problema applicativo molto frequente nella fenomenologia del reato, Sez. 5, n. 51718 del 5/11/2014, T., Rv. 262636 ha chiarito (come del resto anche giurisprudenza del 2016 citata sulle manifestazioni della condotta: cfr. Sez. 5, n. 59420 del 2016, cit.) che, nel delitto previsto dell'art. 612-bis cod. pen., che ha natura abituale, l'evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell'ennesimo atto persecutorio, in quanto dalla reiterazione degli atti deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, solo alla fine della sequenza, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice.

2.3. Il dolo del reato.

L'elemento soggettivo del delitto di atti persecutori prende le forme del dolo generico il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell'abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte - elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa - potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l'occasione (in tal senso, Sez. 5, n. 43085 del 26/10/2015, A., Rv. 265230); precedentemente, Sez. 5, n. 18999 del 19/2/2014, C., Rv. 260411 aveva nella stessa direzione fatto notare che il dolo generico del reato di stalking, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l'agente si rappresenti e voglia fina dal principio la realizzazione della serie di episodi.

Sez. 5, n. 54920 del 2016, cit. ha messo in evidenza che, avendo il delitto di stalking natura di reato abituale di evento, il dolo deve ritenersi unitario, esprimendo un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, senza che ciò significhi che l'agente debba rappresentarsi e volere fin dall'inizio la realizzazione della serie di episodi criminosi, ben potendo il dolo realizzarsi in modo graduale ed avere ad oggetto la continuità nel complesso delle singole parti della condotta. Si è ribadito, peraltro, trattarsi di dolo generico.

2.4. Casistica.

Poste le coordinate generali declinate dalla giurisprudenza di legittimità circa la natura del reato, la struttura della fattispecie e le condizioni di manifestazione della condotta del delitto di stalking, può essere utile tracciare, altresì, una sorta di percorso fenomenico di esso, seguendo le sentenze più significative della Cassazione tra quelle massimate, rendendo così meglio visibile il modo in cui tali principi interpretativi di ordine generale siano poi applicati nei casi specifici all'attenzione della Suprema Corte.

Si è evidenziato, pertanto, recentemente, che integra il delitto di atti persecutori il sorvegliare o il farsi comunque notare, anche saltuariamente, nei luoghi di abituale frequentazione dalla persona offesa, indipendentemente dal fatto che la stessa si trovi presente o assista a tali comportamenti, nonché il porre in essere una condotta minacciosa o molesta nei confronti di soggetti diversi dalla vittima, ancorché ad essa legati da un rapporto qualificato, ove l'autore del fatto agisca nella consapevolezza che la stessa certamente sarà posta a conoscenza della sua attività intrusiva e persecutoria, volta a condizionarne indirettamente le abitudini di vita così da determinare, quale conseguenza voluta, l'impossibilità o, comunque, la difficoltà per la persona offesa di trovare un lavoro o di frequentare un determinato luogo. In tal senso, Sez., 3, n. 1629 del 6/10/2015, dep. 2016, V., Rv. 265809.

Si è detto, altresì, che anche un "corteggiamento pressante" può integrare il delitto di atti persecutori, nel caso in cui la vittima, per le reiterate molestie subite, manifesti un perdurante e grave stato d'ansia e sia costretta a modificare le proprie abitudini di vita (Sez. 5, n. 45453 del 3/7/2015, M., Rv. 265506). Nella specie la Corte ha ritenuto il reato, escludendo che il "pressante corteggiamento" fosse penalmente irrilevante, in presenza di ripetuti atti molesti, costituiti, tra l'altro, dal seguire la vittima - vicina di casa dell'imputato e amica della figlia di quest'ultimo - in luoghi pubblici, avvicinarla e indirizzarle frasi d'amore.

Sez. 5, n. 24021 del 29/4/2014, G., Rv. 260580 ha ritenuto sussistere il reato anche in un caso in cui il cambiamento delle abitudini di vita della vittima sia consistito in una modifica di mezz'ora dell'uscita di casa, poiché occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione di tali abitudini e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate.

Ed ancora, Sez. 5, n. 29826 del 5/3/2015, P. Rv. 264459 ha ritenuto configurabile il reato in una fattispecie realizzata in danno di una coppia di coniugi, mediante una condotta consistita nella redazione ed invio agli stessi (nella specie, mediante lettere e messaggi sms), nonchè nella reiterata diffusione sul luogo di lavoro delle persone offese e presso la scuola frequentata dai figli, di scritti diffamatori concernenti i rapporti extraconiugali dei predetti, qualora tali molestie cagionino - per l'ampiezza, durata e carica spregiativa della condotta criminosa - un grave e perdurante stato d'ansia nelle persone offese, correlato all'aggravamento e consolidamento, in ambito lavorativo oltre che familiare, della lesione della loro riservatezza e della manipolazione delle rispettive identità personali nel contesto familiare e lavorativo.

Sez. 6, n. 32404 del 16/7/2010, Distefano, Rv. 248285, in una fattispecie di sempre maggior diffusione, ha stabilito che integra il delitto di atti persecutori il comportamento di chi reiteratamente invii alla persona offesa "sms" e messaggi di posta elettronica o postali sui social network, nonché divulghi, attraverso questi ultimi, filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall'autore del reato con la medesima.

Il reato è stato ravvisato, altresì, anche nella condotta del condomino consistente nell'abbandono di escrementi davanti alle porte di ingresso delle abitazioni, nel danneggiamento di autovetture, nel versamento di acido muriatico dei locali comuni, nell'immissione di suoni ad alto volume, nella pronuncia di epiteti gravemente ingiuriosi e nell'inserimento di scritti di contenuto delirante nelle cassette postali (così, Sez. 5, n. 26589 del 9/4/2014, Guerra, Rv. 252559, massimata per altro).

2.5. Procedibilità del reato.

Le conseguenze della natura abituale del reato, e della reiterazione necessaria delle condotte, sul regime di procedibilità sono rappresentate in numerosi arresti della Cassazione. Numerose sentenze, nel corso degli anni, hanno messo in risalto che, nell'ipotesi in cui il presupposto della reiterazione venga integrato da condotte poste in essere oltre i sei mesi previsti dalla norma rispetto alla prima o alle precedenti condotte, la querela estende la sua efficacia anche a tali pregresse condotte, indipendentemente dal decorso del termine di sei mesi per la sua proposizione, previsto dal quarto comma dell'art. 612-bis cod. pen.. In tal senso si esprimono, tra quelle massimate, Sez. 5, n. 20065 del 22/12/2014, dep. 2015, N., Rv. 263552; Sez. 5, n. 48268 del 27/5/2016, D., Rv. 268163; Sez. 5, n. 12509 del 17/11/2105, dep. 2016, M., Rv. 266839 (con cui, peraltro, si è ritenuta tardiva la querela presentata oltre sei mesi dopo il primo atto della "serie" persecutoria, ancorchè presentata in epoca successiva ad un ulteriore episodio che, però, in quanto intervenuto a notevole distanza di tempo dalla precedente serie integrante il reato, è stato ritenuto come un nuovo fatto isolato privo di rilevanza penale).

Significativa, poi, l'affermazione di Sez. 5, n. 41431 del 11/7/2016, R., Rv. 267868, che ha ribadito la rilevanza ai fini della procedibilità del carattere del delitto di atti persecutori, quale reato abituale improprio, a reiterazione necessaria delle condotte, mettendo in risalto la conseguenza che, nell'ipotesi in cui il presupposto della reiterazione venga integrato da condotte poste in essere dopo la proposizione della querela, la condizione di procedibilità si estende anche a queste ultime, poichè, unitariamente considerate con le precedenti, integrano l'elemento oggettivo del reato.

In generale si è anche affermato che, ai fini della proposizione della querela per il delitto di atti persecutori, il termine inizia a decorrere dalla consumazione del reato, che coincide alternativamente con "l'evento di danno" consistente nella alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante stato di ansia o di paura, ovvero con "l'evento di pericolo" consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto (così Sez. 5, n. 17082 del 5/12/2014, dep. 2015, D.L., Rv. 263330).

Quanto alla procedibilità d'ufficio, si rammenti che il comma 4 dell'art. 612-bis cod. pen. 1a prevede nel caso in cui il fatto sia commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all'art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto sia connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio.

Ebbene, proprio in relazione a tale ultima parte della disposizione normativa deve sottolinearsi come la giurisprudenza di legittimità abbia affermato recentemente (Sez. 5, n. 14692 del 12/12/2012, dep. 2013, P., Rv. 255438; Sez. 1, n. 32787 del 24/6/2014, Perrone, Rv. 261429) che l'ipotesi di connessione prevista nell'ultimo comma dell'art. 612-bis cod. pen. si verifica non solo quando vi è connessione in senso processuale (art. 12 cod. proc. pen.), ma anche quando v'è connessione in senso materiale, cioè ogni qualvolta l'indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l'accertamento di quello punibile a querela, in quanto siano investigati fatti commessi l'uno in occasione dell'altro, oppure l'uno per occultare l'altro oppure ancora in uno degli altri collegamenti investigativi indicati nell'art. 371 cod. proc. pen. e purchè le indagini in ordine al reato perseguibile di ufficio siano state effettivamente avviate.

Si è detto, altresì, che è procedibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 612-bis, ultimo comma, cod. pen., il reato di atti persecutori connesso con il delitto di lesioni, anche nel caso in cui la procedibilità d'ufficio di quest'ultimo sia determinata dall'aggravante di cui all'art. 576, comma primo, n. 5.1, cod. pen., per essere stato commesso il fatto da parte dell'autore del reato di atti persecutori nei confronti della medesima persona offesa (Sez. 5, n. 11409 del 18/10/2015, dep. 2016, C., Rv. 266341).

Un problema del quale già si è fatto cenno, per la sua rilevanza anche strategica rispetto alle finalità dell'intervento penale in tema di atti persecutori, è quello riferito alla irrevocabilità/revocabilità della querela già proposta per il delitto di stalking da parte della persona offesa.

Si è sottolineato come, da un regime inizialmente previsto dalla legislazione del 2009 di revocabilità tout court della querela, si sia passati ad una attuale irrevocabilità parziale, nelle ipotesi, specificamente indicate dal comma 4 dell'art. 612-bis cod. pen., in cui il fatto sia stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all'art. 612, comma 2, cod. pen.

Unica cautela, dunque, per la vittima e le possibili manipolazioni alle quali può essere sottoposta dopo la denuncia, nei casi di querela revocabile, appare essere la previsione della necessità di una revoca solo "processuale" e non anche extraprocessuale, con ciò derogandosi al generale criterio stabilito dall'art. 152 cod. pen.: si parlerà a breve dell'interpretazione giurisprudenziale di tale aspetto di disciplina.

Si è fatto notare da molti commentatori che, in tal modo, permane la sensibile differenza tra il regime di irrevocabilità assoluta della querela previsto dall'art. 609-septies per i delitti in materia sessuale e quello di irrevocabilità, invece, solo nell'ipotesi citata, contemplato per il delitto di atti persecutori.

Tuttavia, si è, altresì, evidenziato che probabilmente (e lo dimostra il cambiamento di rotta tra l'iniziale previsione del d.l. n. 93 del 2013 e la legge di conversione, che non ha mantenuto la disposta irrevocabilità in ogni caso della decretazione d'urgenza, bensì l'ha rimodulata parzialmente nel senso predetto) si è voluto, da parte del legislatore, lasciare un margine di libertà alla volontà individuale della vittima, in una materia delicatissima quale è senza dubbio quella dei rapporti interpersonali, spesso alla base di tale tipologia delittuosa.

Nel 2016, Sez. 5, n. 2299 del 17/9/2015, dep. 2016, P F, Rv. 266043, ha confermato il disposto normativo, ritenendo irrevocabile la querela presentata per il reato di atti persecutori quando la condotta sia stata realizzata con minacce reiterate e gravi.

Sul fronte della nozione di revoca "processuale", necessaria perché si producano gli effetti legali del ripensamento circa la querela sporta, la Cassazione ha sinora unanimemente ritenuto che è idonea ad estinguere il reato di atti persecutori anche la remissione di querela effettuata davanti ad un ufficiale di polizia giudiziaria, e non solo quella ricevuta dall'autorità giudiziaria, atteso che l'art. 612-bis, quarto comma, cod. pen., laddove fa riferimento alla remissione "processuale", evoca la disciplina risultante dal combinato disposto dagli art. 152 cod. pen. e 340 cod. proc. pen.

In tal senso si esprimono Sez. 5, n. 2301 del 28/11/2014, T., Rv. 261599 e ben due pronunce del 2016: Sez. 5, n. 18477 del 26/2/2015, DV, Rv. 266528 e Sez. 4, n. 16669 del 8/4/2016, M., Rv. 266643.

Permane in proposito, dunque, anche all'esito della conferma che viene dal pacifico orientamento di legittimità sopra enunciato, il dubbio rappresentato già nella citata Relazione del 16 ottobre 2013 dell'Ufficio del Massimario Penale, svolta all'indomani della legge di conversione n. 119 del 2013: per un delitto la cui ambientazione è frequentemente (ancorchè non esclusivamente) quella domestica, che voglia realmente porsi in linea con l'art. 55 della Convenzione di Instanbul, la repressione non dovrebbe dipendere in nessun caso interamente da una segnalazione o da una denuncia della vittima dei medesimi, tanto più che anche la cautela cui la novella si era affidata per prevenire eventuali illeciti condizionamenti, e cioè la modalità di remissione solo processuale, non sembra particolarmente funzionale allo scopo, poiché non sempre si realizza con il confronto giurisdizionale, bensì, come si è visto - per il combinato disposto degli artt. 152 c.p. e 340 c.p.p. - è remissione processuale della querela anche quella resa alla polizia giudiziaria (o mediante procuratore speciale).

Infine, sul fronte del diritto intertemporale, si è anche affermato (Sez. 5, n. 44390 del 8/6/2015, R., Rv. 265999) che il regime di irrevocabilità della querela previsto dall'art. 612bis, comma quarto, ult. parte, introdotto dal d.l. 14 agosto 2013, n. 93, conv. con mod. dalla legge 15 ottobre 2013 n. 119, non si applica ai fatti preesistenti, la cui perseguibilità e punibilità erano rimesse alla volontà della persona offesa dal reato. In motivazione la Corte ha affermato che il mutamento nel tempo del regime di procedibilità va positivamente risolto, ai sensi dell'art. 2 cod. pen., alla luce della natura mista, sostanziale e processuale, dell'istituto della querela, che costituisce nel contempo condizione di procedibilità e di punibilità.

2.6. La prova del reato.

Strettamente connesso al tema dell'individuazione dei contorni di fattispecie e delle condizioni di manifestazione del reato è l'aspetto solo apparentemente limitato all'ambito processuale della prova del delitto.

E difatti, per un'analisi completa della giurisprudenza di legittimità dedicata allo stalking non può prescindersi dall'esame delle decisioni che hanno ad oggetto proprio il livello di "prova" necessario per poter dire realizzato il delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen.

Alcune decisioni della Sesta Sezione hanno, ad esempio, consentito proprio di meglio comprendere il contenuto dell'evento del reato, attraverso la mediazione del grado di prova utile a verificarne l'effettiva realizzazione e l'indicazione degli elementi sintomatici del danno consistito nel grave e perdurante stato d'ansia della vittima.

Sez. 6, n. 20038 del 19/3/2014, T., Rv. 259458 ha così chiarito che, in tema di atti persecutori, la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.

Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, P.C., Rv. 261535 ha ribadito il principio affermato dalla sentenza poc'anzi richiamata, specificando che, nel caso di specie sottoposto al suo giudizio, si doveva ritenere immune da censure la decisione di merito affermativa della responsabilità di un imputato, il quale aveva posto in essere reiterate condotte aggressive ed ingiuriose nei confronti della ex convivente fino ad introdursi furtivamente in casa della stessa e, dopo averla aggredita in discoteca ed averla indotta a trovare riparo presso amici, a dare fuoco ad una parte dell'abitazione e degli oggetti ivi contenuti.

Sostanzialmente conformi ai principi generali affermati nelle due citate sentenze della Sesta Sezione della Suprema Corte sono anche due ulteriori e precedenti sentenze, già massimate: Sez. 5, n. 14391 del 28/2/2012, S., Rv. 252314 e Sez. 5, n. 24135 del 9/5/2012, G., Rv. 253764.

È stato, altresì, affermato - cfr. Sez.5, n. 18999 del 19/2/2014, C., Rv. 260412 - che, ai fini della prova dello stato d'ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato di stalking, il giudice non deve necessariamente fare ricorso ad una perizia medica, potendo egli argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell'agente sull'equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime di esperienza (e difatti, nella specie, la Corte ha ritenuto congrua la motivazione della sentenza impugnata fondata sulla diagnosi del medico di famiglia e sull'accertato uso di ansiolitici per alcuni mesi).

Molto importante anche l'orientamento che stabilisce canoni di attendibilità attenti alle peculiarità della fattispecie, segnalando che, nell'ipotesi di atti persecutori commessi nei confronti della moglie separata, l'attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non sono inficiate dalla circostanza che all'interno del periodo di vessazione la persona offesa abbia avuto transitori momenti di benevola rivalutazione del passato e di desiderio di pacificazione con il marito persecutore (così Sez. 5, n. 41040 del 17/6/2014, D'A., Rv. 260395). Del resto già anche Sez. 5, n. 5313 del 16/9/2014, dep. 2015, S., Rv. 262655 si era espressa negli stessi termini, mentre, sotto diverso aspetto, sempre collegato alle dichiarazioni della vittima del reato, Sez. 5, n. 47195 del 6/10/2015, S., Rv. 265530 ha affermato che non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell'agente; nella fattispecie sottoposta al suo giudizio, la S.C. ha ritenuto irrilevante il fatto che la persona offesa non avesse riferito espressamente di essere impaurita, alla luce dei certificati medici delle lesioni subite, delle annotazioni di polizia giudiziaria sul suo stato di esasperazione e spavento, e dei messaggi sms di minaccia che già erano sufficienti a rappresentare l'ansia e la paura provate.

Anche Sez. 6, n. 31309 del 13/5/2015, S. Rv. 264334 si è confrontata con la specificità del reato sotto il profilo della prova e della testimonianza della persona offesa, soprattutto per la delicatezza e l'ambiguità dei rapporti che spesso si instaurano tra vittima e persecutore; si è così stabilito che, per la valutazione della prova testimoniale, l'ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell'imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell'analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice. In applicazione del principio, la Corte, pertanto, ha ritenuto che la sentenza impugnata avesse correttamente giudicato credibili le dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa di violenza sessuale in danno del proprio partner, cui, nonostante le violenze subite, aveva dichiarato di essere rimasta accanto (sintomaticamente) "sia per paura, sia perché gli voleva bene".

Ed anche la vulnerabilità della persona offesa, rappresentata nel processo come situazione di criticità della sua valutazione di attendibilità, se ha determinato fratture non decisive della progressione dichiarativa (emersa anche a seguito delle contestazioni), è stata ritenuta inidonea ad inficiare il giudizio di attendibilità, dovendo la credibilità dei contenuti essere valutata anche sulla base della comunicazione non verbale, della quale deve essere verificata la coerenza con le cause della vulnerabilità e, segnatamente, con la relazione che lega il dichiarante con l'accusato; nella specie, la S.C. ha reputato immune da censure la valutazione della Corte territoriale, secondo cui l'atteggiamento particolarmente agitato ed impaurito del testimone ne avvalorava l'attendibilità, in quanto pienamente coerente con il clima di intimidazione causato dal comportamento dell'imputato (in tal senso Sez. 2, n. 46100 del 27/10/2015, Greco, Rv. 265380).

3. Interesse tutelato, clausola di sussidiarietà e rapporti con altri reati.

Il nuovo reato di stalking è stato inserito nella sezione terza del Titolo XII del codice penale, dedicata ai delitti contro la libertà morale; del resto uno degli eventi alternativi del reato risulta coerente con il bene giuridico della categoria di catalogazione. Infatti, il costringimento all'alterazione delle abitudini di vita sembra caratterizzare la nuova fattispecie come una sorta di ipotesi speciale di violenza privata.

Tuttavia gli altri eventi considerati dalla norma incriminatrice sono senza dubbio connessi alla tutela di beni giuridici ulteriori rispetto alla libertà di autodeterminazione dell'individuo.

Così, ad esempio, la causazione di un grave e perdurante stato d'ansia o di paura, inteso come uno stato di alterazione psicologica oggettivamente rilevabile, rappresenta una lesione che attiene alla sfera della salute, mentre tutte le condotte descritte dalla norma incriminatrice sembrano in ogni caso idonee a ledere la tranquillità psichica della vittima.

Il delitto di atti persecutori si atteggia, pertanto, come un reato anche eventualmente plurioffensivo e, in ogni caso, tutela una pluralità di beni giuridici[11].

Parte della dottrina ha sostenuto che esso includa anche i beni giuridici della vita e dell'incolumità individuale, dal momento che la condotta dello stalker può essere tale da ingenerare nella vittima un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto e visto che, purtroppo non raramente, lo stalking si manifesta come una progressione criminosa che, partendo da episodi minimi arriva a gravi forme di violenza, fino a volte all'uccisione della vittima.

Fatta tale premessa, la clausola di riserva prevista dalla norma (salvo che il fatto costituisca più grave reato) presenta una peculiare difficoltà interpretativa, dovendo allinearsi, di volta in volta, alla struttura del reato. Non appare improbabile, infatti, che la fattispecie eventualmente più grave - e che, dunque, dovrebbe assorbire, attraverso il meccanismo della sussidiarietà, il delitto di stalking - da un lato potrebbe non "contenere" porzioni del suo elemento materiale, dall'altro e soprattutto potrebbe non esaurire il disvalore specificamente connesso al suo evento tipico.

Ecco perché la giurisprudenza ha preferito, piuttosto che individuare criteri di operativi tà generali, declinare la clausola di sussidiarietà in concreto, di volta in volta applicandola alle ipotesi reali, limitandone gli effetti, sostanzialmente, ai casi in cui il reato più grave richiamato dalla clausola risulti in grado di assorbire effettivamente il disvalore dell'evento di quello di atti persecutori.

E ciò potrà avvenire solo quando l'offesa arrecata riguardi il medesimo bene giuridico o, quantomeno, beni giuridici omogenei, consegnando all'interprete la riflessione circa la funzione residuale assegnata alla nuova incriminazione nell'ambito dei reati posti a tutela della persona.

Il fatto poi che il legislatore abbia limitato la disposizione alle ipotesi di violenza morale e non anche fisica lascia concludere nel senso che lo stalking non rimanga assorbito dei delitti più gravi caratterizzati dalla violenza fisica, bensì concorra con essi.

Così, ad esempio, il delitto di atti persecutori, avendo oggetto giuridico diverso, può concorrere con quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in cui restano assorbiti solo quei fatti che, pur costituendo astrattamente di per sè reato, rappresentino elementi costitutivi o circostanze aggravanti di esso e non anche quelli che eccedano tali limiti, dando vita a responsabilità autonoma e concorrente (Sez. 5, n. 20696 del 29/1/2016, R., Rv. 267148).

Inoltre, in un'ipotesi peculiare, si è ritenuto che possano concorrere i reati di maltrattamenti in famiglia e di atti persecutori, sul presupposto della diversità dei beni giuridici tutelati, ritenendo integrato quello di maltrattamenti in famiglia fino alla data di interruzione del rapporto di convivenza e poi, dalla cessazione di tale rapporto, quello di atti persecutori: così Sez. 6, n. 30704 del 19/5/2016, D'A., Rv. 267942 (peraltro, già in tal senso Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011, dep. 2012, Frasca, Rv. 252906).

Il delitto di atti persecutori - si è ancora affermato - avendo oggetto giuridico diverso, può concorrere con quello di diffamazione anche quando la condotta diffamatoria costituisce una delle molestie costitutive del reato previsto dall'art. 612-bis cod. pen. (Sez. 5, n. 51718 del 5/11/2014, T., Rv. 262635).

Anche i rapporti tra le aggravanti speciali previste per l'omicidio ed il reato di stalking hanno formato oggetto di un'importante arresto della Cassazione; si è, infatti, affermato che l'aggravante di cui all'art. 576, comma primo, n. 5.1) cod. pen. - e cioè l'aver commesso il fatto da parte di chi sia l'autore del delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen. nei confronti della stessa persona offesa - è configurabile nel caso di improcedibilità del reato di atti persecutori per mancanza di querela ed anche in assenza di una precedente condanna dell'imputato per detto reato (in tal senso Sez. 1, n. 4133 del 15/12/2015, dep. 2016, Baghouri, Rv. 267430).

In precedenza, sempre in tema di lesioni personali, l'aggravante di cui all'art. 576, comma primo, n. 5.1) cod. pen. - e cioè l'aver commesso il fatto da parte di chi sia l'autore del delitto di cui all' art. 612-bis cod. pen. nei confronti della medesima persona offesa - è configurabile anche se sia stata rimessa la querela per il delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen.; nella specie, la Corte ha ritenuto procedibile d'ufficio il reato di lesioni personali lievi anche a seguito della remissione della querela per il delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen. (la pronuncia è Sez. 5, n. 38690 del 12/4/2013, I., Rv. 257091).

Quanto ai rapporti tra la nuova fattispecie e quelle meno gravi - rapporti che non attengono alla clausola di sussidiarietà - la giurisprudenza di legittimità ha enucleato alcune interazioni con i reati di cui agli artt. 610 e 660 cod. pen. e con specifiche ipotesi problematiche riferite ad altre fattispecie che possono configurarsi unitamente al delitto di atti persecutori.

Si è, perciò, detto con una recente sentenza - Sez. 5, n. 12528 del 14/1/2016, N., Rv. 266875 - che, ai fini della configurazione del delitto di atti persecutori, le reiterate molestie non devono essere commesse necessariamente in luogo pubblico, aperto al pubblico, ovvero con il mezzo del telefono, come invece previsto per la contravvenzione di cui all'art. 660 cod. pen. (in una fattispecie nella quale la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, con cui l'imputato era stato assolto dal reato di cui all'art. 612-bis cod. pen., per avere molestato la moglie con condotte commesse in luoghi e con modalità diverse da quelle previste dal citato art. 660).

In precedenza, Sez. 5, n. 2283 del 11/11/2014, dep. 2015, C., Rv. 262727 ha ritenuto configurabile il concorso tra il reato di violenza privata e quello di atti persecutori, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi, in quanto l'art. 610 cod. pen. protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà personale, ovvero la libertà individuale come libertà di autodeterminazione e di azione; mentre l'art. 612-bis cod. pen. è preordinato alla tutela della tranquillità psichica - ed in definitiva della persona nel suo insieme - che costituisce condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della predetta volontà.

Molto rilevante, per la definizione dei beni giuridici protetti dalla disposizione di cui all'art. 612-bis cod. pen., è la pronuncia del 2016 Sez. 5, n. 4011 del 27/10/2015, dep. 2016, Borghini, Rv. 265639, in materia ancora di rapporti con il reato di violenza privata.

Si è, infatti, affermato che è configurabile il concorso tra il reato di cui all'art. 610 cod. pen. e quello di atti persecutori, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi, in quanto il primo protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà personale, ovvero la libertà individuale come libertà di autodeterminazione e di azione; mentre l'art. 612-bis cod. pen. è preordinato alla tutela della tranquillità psichica - ed in definitiva della persona nel suo insieme - che costituisce condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della predetta volontà.

In motivazione, la S.C. ha precisato che l'"alterazione delle abitudini di vita" non può considerarsi una peculiare ipotesi di violenza privata, avendo la prima una ampiezza di molto maggiore rispetto al fare, omettere o tollerare qualcosa per effetto della coartazione esercitata sulla volontà della vittima.

I rapporti tra reato di minaccia e stalking, invece, sembrano improntati all'assorbimento perché gli atti intimidatori rientrano tra gli elementi qualificanti della fattispecie di cui all'art. 612-bis cod. pen. (non così, invece, per le ingiurie, ritenute estranee ad essa e riferite ad un bene della vita diverso da quello tutelato dal reato di atti persecutori); in tal senso Sez. 5, n. 4182 del 10/7/2014, S. Rv. 261033.

4. Problemi di costituzionalità: la sentenza n. 172 del 2014.

La Corte costituzionale, con la sentenza C. Cost. n. 172 del 2014, ha escluso che la norma incriminatrice di cui all'art. 612-bis cod. pen. violi il principio di determinatezza della fattispecie ex art. 25 Cost.

La questione di legittimità che è stata dichiarata infondata (sollevata dal Tribunale di Trapani nei riguardi dell'art. 612-bis cod. pen., per violazione del principio di determinatezza sancito dall'art. 25 co. 2 Cost.) rievocava parzialmente le critiche avanzate da una parte della dottrina penalistica già all'indomani dell'introduzione del delitto di atti persecutori nel nostro sistema penale.

L'obiezione riguardava, in particolare, il contrasto costituzionale dovuto alla presunta, insufficiente determinatezza della fattispecie (sotto il profilo della condotta, della definizione del 'perdurante e grave stato di ansia e di paura', della 'fondatezza' del timore ed anche di quelle 'abitudini di vita', la cui alterazione integra il terzo, alternativo evento del fatto tipico).

La Corte costituzionale, tuttavia, con la sentenza citata davvero sgombra i dubbi di illegittimità e fornisce, al tempo stesso, all'interprete coordinate chiare per valutare la compatibilità della disposizione con il principio costituzionale di determinatezza, ripercorrendo in particolare la descrizione normativa dei tre, alternativi eventi del fatto tipico del delitto in discorso.

Il monito dei giudici costituzionali si rivolge proprio all'interpretazione da riservare agli "eventi" del reato, poiché tanto il "perdurante e grave stato di ansia e di paura", quanto il "fondato timore per l'incolumità", riguardando la sfera emotiva e psicologica dell'individuo, devono essere "accertati attraverso un'accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell'agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima".

Per verificare che tali stati psicologici abbiano, quindi, quel livello dimensionale voluto dalla norma penale la Corte sottolinea che si dovrà far ricorso alle dichiarazioni della vittima, alla verifica dei suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente, nonché alle sue condizioni soggettive, purché note all'agente e quindi 'coperte' dal dolo. In relazione ai due eventi predetti, la Corte evidenzia l'importanza delle aggettivazioni "grave e perdurante" (riferite allo stato d'ansia) e "fondato" (riferito al timore), in quanto si avverte che devono restare fuori dall'area di applicazione della norma incriminatrice le ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonché gli eventuali timori del tutto immaginari o del tutto fantasiosi della vittima.

Si richiama, inoltre, la propria giurisprudenza consolidata sulla costante operatività del principio di offensività quale canone interpretativo cui il giudice deve senz'altro fare sempre ricorso per circoscrivere l'area di tipicità dell'incriminazione.

Infine, secondo la Corte, anche l'interpretazione del terzo, alternativo evento - l'alterazione delle abitudini di vita - deve essere improntata al confronto fra il "complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell'ambito familiare, sociale e lavorativo" e i comportamenti che la vittima è costretta a tenere a seguito dell'attività persecutoria subita.

Deve rammentarsi che la Cassazione, nel 2012, aveva dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità, con riferimento all'art. 25, comma secondo, Cost., dell'art. 612-bis cod. pen., proprio sottolineando l'assenza di vizi di determinatezza e la presenza nella fattispecie incriminatrice di tutte le sue componenti essenziali (Sez. 5, n. 36737 del 13/6/2012, B., Rv. 253534).

5. Un primo bilancio "operativo" della nuova fattispecie.

All'esito dell'analisi svolta è possibile tracciare un bilancio della reale incidenza della nuova fattispecie sul sistema di tutela penale della vittima di reati di stalking.

È stato messo in risalto come nel corso degli ultimi anni si siano evidenziati alcuni dati socio-criminali validi sia nel nostro Paese che in altre realtà.

E così si è constatato come la maggior parte delle vittime di stalking siano donne, mentre gli stalkers risultano essere prevalentemente uomini; a tale dato, si accosta quello della frequenza dell'abbinamento della condotta criminale con la fase successiva alla rottura di legami di natura affettiva o sentimentale; inoltre, si è pure constatato che sono a rischio stalking le categorie professionali impegnate nell'assistenza al prossimo (psichiatri, psicologi, assistenti sociali, ecc.)[12].

Uno studio abbastanza recente della Direzione statistica del Ministero della Giustizia, svolto nel 2014[13] e basato sull'analisi della documentazione relativa ai procedimenti definiti negli anni 2011-2012 presso 14 sedi di tribunale, rappresentative della realtà nazionale per dimensione e ubicazione territoriale, ha preso in esame informazioni che riguardano il reato di cui all'art. 612-bis cod. pen., considerando il fenomeno sotto molteplici aspetti: movente, modalità della condotta, tempi, autori, vittime e relazione tra loro.

L'indagine ha messo in evidenza che, effettivamente, il 91,1% dei reati di stalking è commesso da soggetti di sesso maschile, l'età media dell'autore è di 42 anni contro i 38 della vittima e quasi un terzo degli stalker è disoccupato o con lavoro saltuario. Nel 33,2% dei casi, inoltre, vittima e autore hanno figli in comune e il movente più ricorrente che spinge l'imputato alla condotta contestata è quello di "ricomporre il rapporto" (30,4%), seguito dalla "gelosia" (11,1%) e dalla "ossessione sessuale o psicologica" (3,3%). In poco meno di un quinto dei casi analizzati, inoltre, la nazionalità dei soggetti coinvolti è straniera.

Nella maggior parte dei casi (73,9%) autore e vittima hanno intrattenuto nel corso della loro vita presente o passata, una relazione sentimentale, solo 5 volte su 100 non hanno avuto alcun rapporto pregresso.

La persecuzione si manifesta in svariate modalità e utilizzando tutti i normali canali di comunicazione (verbale di persona, con appostamenti e pedinamenti, verbale via telefono, scritta, tramite sms, mail, lettere, social-web).

Per quanto riguarda l'esito delle sentenze, le condanne (42,5%) e i patteggiamenti (14,9%) sono più frequenti delle assoluzioni (11,5%); il 44% delle vittime si costituisce parte civile.

Di queste, il 71% ottiene il risarcimento danni.

Interessante anche il dato della procedibilità: una vittima su quattro, infatti, ritira la querela; inoltre, sembrerebbe che il delitto di stalking sia uno di quelli con tempi di indagine più rapidi, mentre il 62% degli imputati viene sottoposto ad una misura cautelare personale.

Dal punto di vista delle ricadute sulle vittime, infine, deve rilevarsi come, secondo lo studio statistico, i danni subiti siano soprattutto psicologici (68,9% dei casi), in particolare quando la vittima non ha alcun rapporto con l'autore (77,3%). Molestie e minacce provocano ansia e paura nella vittima rispettivamente nell'86,1% e 92,4% dei casi. Inoltre, ciò che colpisce, è che addirittura nel 42,2% dei casi è stata rilevata una condotta tale da costringere le vittime a cambiare abitudini di vita.

Del resto, anche in precedenza, numerosi studi specifici avevano accertato che l'esposizione prolungata allo stalking può determinare gravi e riconoscibili conseguenze psicologiche, come, ad esempio, lo stress post-traumatico (PTS)[14], potendosi persino enucleare alterazioni dell'equilibrio psicologico in qualche modo oramai tipiche dell'essere stati perseguitati da molestie ossessive.

Si è, dunque, costruito un vero e proprio modello socio-criminale, di tipo empirico, composto da caratteri ben precisi, avuto riguardo ad autori, vittime, tipologie di comportamenti criminali più frequenti, in linea con le esigenze di tutela che avevano portato all'adozione di una disposizione specifica di reato nell'ordinamento penale[15].

Inoltre, con la nuova fattispecie di cui all'art. 612-bis cod. pen., finalmente anche condot te non violente di molestie ossessive, spesso foriere di una escalation ben più allarmante che sfocia in delitti gravissimi, con uso di violenza contro la vittima, hanno potuto vedere applicata una significativa fase cautelare (come rilevato anche dall'indagine statistica del Ministero della Giustizia), volta proprio alla neutralizzazione della pericolosità specifica dell'autore della condotta persecutoria.

In particolare, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa è parso, sotto il profilo dissuasivo, in una percentuale rilevante di casi, utile allo scopo, anche grazie ad una interpretazione ed applicazione giurisdizionale volta a conferire la miglior tutela possibile alla vittima.

Tuttavia, quanto alla motivazione cautelare riferita all'indicazione dei luoghi oggetto del divieto di avvicinamento si registra per ora un significativo contrasto[16], circa la legittimità o meno dell'ordinanza che lo dispone, ex art. 282-ter cod. proc. pen., senza indicare specificamente quelli oggetto di divieto.

Un orientamento, ben rappresentato nel 2016 da Sez. 5, n. 28677 del 14/3/2016, C., Rv. 267371, ritiene la legittimità di una individuazione "per relationem" con riferimento ai luoghi in cui, di volta in volta, si trovi la persona offesa, con la conseguenza che, ove tali luoghi, anche per pura coincidenza, vengano ad essere frequentati anche dall'imputato, costui deve immediatamente allontanarsi dagli stessi. Nella motivazione di tale ultima pronuncia, la Suprema Corte ha precisato che, diversamente ragionando, si consentirebbe all'agente di avvicinarsi alla persona offesa nei luoghi non rientranti nell'elenco tassativo eventualmente definito dal giudice, frustrando così la "ratio" della norma, tesa alla più completa tutela del diritto della persona offesa di poter esplicare la propria personalità e la propria vita di relazione in condizioni di assoluta sicurezza.

Fa eco a tale pronuncia altra sentenza del 2016, Sez. 5, n. 30926 del 873/2016, R., Rv. 267792 che ha posto in risalto come il divieto di avvicinamento debba contenere l'indicazione specifica dei luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa solo quando le modalità della condotta criminosa non manifestino un campo di azione che esuli dai luoghi che costituiscono punti di riferimento della propria quotidianità di vita, dovendo, invece, il divieto di avvicinamento essere riferito alla stessa persona offesa, e non ai luoghi da essa frequentati, laddove la condotta, di cui è temuta la reiterazione, si connoti per la persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima, in qualsiasi luogo questa si trovi.

La sentenza è tra le più recenti pronunciate (e massimate) di un orientamento già significativamente rappresentato (cfr. Sez. 5, n. 19952 del 26/3/2013, D.R., Rv. 255513; Sez. 5, n. 36887 del 16/1/2013, A., Rv. 257184; Sez. 5, n. 48395 del /2014, Rv. 264210).

Del resto, molto chiaramente, Sez. 5, n. 13568 del 16/1/2012, V., Rv. 253296 ha affermato che il divieto di avvicinamento previsto dall'art. 282-ter cod. proc. pen., riferendosi alla persona offesa in quanto tale, e non solo ai luoghi da questa frequentati, esprime una precisa scelta normativa di privilegio della libertà di circolazione del soggetto passivo ovvero di priorità dell'esigenza di consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita sociale in condizioni di sicurezza, anche laddove la condotta di persistenza persecutoria non sia legata a particolari ambiti locali; con la conseguenza che il contenuto concreto della misura in questione deve modellarsi rispetto alla predetta esigenza e che la tutela della libertà di circolazione e di relazione della persona offesa non trova limitazioni nella sola sfera del lavoro, degli affetti familiari e degli ambiti ad essa assimilabili; la misura, pertanto, può contenere anche prescrizioni riferite direttamente alla persona offesa ed ai luoghi in cui essa si trovi, aventi un contenuto coercitivo sufficientemente definito nell'imporre di evitare contatti ravvicinati con la vittima, la presenza della quale in un certo luogo è sufficiente ad indicare lo stesso come precluso all'accesso dell'indagato (Sez. 5, n. 13568 del 16/1/2012, V., Rv. 253297).

A fronte di tale indirizzo, altra opzione sostiene, invece, l'illegittimità dell'ordinanza che dispone il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, senza determinare specificamente quelli oggetto di divieto, considerato che, in tal caso, all'indagato non è consentito - ferma restando la necessità che egli non si accosti fisicamente alla persona offesa ovunque la possa intercettare - di conoscere preventivamente i luoghi ai quali gli è inibito l'accesso in via assoluta, in quanto frequentati dalla persona offesa, luoghi che, pertanto, devono essere specificamente indicati. In tal senso, cfr. Sez. 6, n. 26819 del 7/4/2011, C., Rv. 250728; Sez. 6, n. 14766 del 18/3/2014, F., Rv. 261721; Sez. 5, n. 5664 del 10/12/2014, dep. 2015, B., Rv. 262149; Sez. 6, n. 8333 del 22/1/2015, R., Rv. 262456; Sez. 5, n. 28225 del 26/5/2015, F., Rv. 265297.

Deve segnalarsi, infine, sul tema, anche un'altra pronuncia del 2016, Sez. 6, n. 42021 del 13/9/2016, C., Rv. 267898 che ha stabilito la legittimità dell'ordinanza che dispone, ex art. 282-ter cod. proc. pen., oltre al divieto di avvicinamento all'abitazione e al luogo di lavoro della vittima, anche l'obbligo di mantenere una determinata distanza (nella specie di 300 metri), in caso di incontro occasionale con la persona offesa, in quanto l'indicazione specifica nel titolo cautelare dei luoghi oggetto del divieto atterrebbe solo a quelli in cui l'accesso è inibito in via assoluta all'indagato.

Come prova l'excursus giurisprudenziale evocato, l'utilizzo dello strumento cautelare appositamente coniato dal legislatore per la fattispecie di atti persecutori è stato un momento importante di realizzazione concreta della nuova tutela approntata per la vittima di stalking, che segue il soggetto debole dalla prima fase di inizio della persecuzione (attraverso lo strumento già citato dell'avvertimento del questore) sino agli epiloghi.

La constatazione della buona tenuta del sistema cautelare specifico dinanzi alla giurisprudenza di legittimità e, d'altra parte, della quantità di pronunce registrate per il delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen. in questi anni di prima applicazione, rafforza il convincimento di chi ne riteneva la necessità di previsione autonoma.

Sembra, inoltre, che, come già evidenziato, la disposizione di nuova incriminazione abbia costituito anche una leva per una maggior emersione delle denunce, attraverso un meccanismo di diffusa consapevolezza collettiva del disvalore specifico del comportamento persecutorio, che si riverbera prima di tutto tra le vittime e si traduce in volontà di chiedere e ricevere tutela.

Non può sottacersi, peraltro, che, accanto al numero di processi per il delitto di cui all'art. 612-bis che giungono alla cognizione della Cassazione, esiste una altrettanto, e forse più considerevole, mole di procedimenti pretestuosi, frutto di una mal interpretata sovraespansione dell'area di riferimento della fattispecie penale.

Si sono, così, registrate sinora, negli uffici giudiziari di merito, numerose denunce prive dei caratteri tipici previsti dalla norma ed utilizzate, sovente, strumentalmente per cercare di dirimere situazioni interpersonali conflittuali, di ordine non solo sentimentale ma anche, ad esempio, economico o lavorativo.

Tuttavia, non può essere tale constatazione ad offuscare i meriti di una disciplina penale necessaria e che ha dato, per la parte effettivamente rilevante, buona prova di sé; sarà auspicabile, invece, che proprio il sedimentarsi dell'interpretazione giurisprudenziale di legittimità, e la sua eco nella società, porti sulla giusta rotta la domanda di tutela penale per il delitto di stalking.

  • reato
  • procedura penale

CAPITOLO III

RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE E AVVISO ALLA VITTIMA NEI PROCEDIMENTI PER "STALKING"

(di MariaEmanuela Guerra )

Sommario

1 Premessa. - 2 I riferimenti normativi: brevi cenni. - 3 La difficoltà di individuare un concetto unitario di "violenza alla persona". - 4 Le prime pronunce della giurisprudenza. - 5 Gli orientamenti della dottrina. - 6 Il ragionamento seguito dalle Sezioni Unite. - 6.1 Il reato di atti persecutori. - 6.2 La tutela delle vittime del reato. - 7 La soluzione accolta.

1. Premessa.

Con la sentenza Sez. U, n. 10959 del 29/01/2016, Fossati, Rv. 265893 - 894 le Sezioni Unite hanno risolto una delicata questione interpretativa relativa all'art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen., come modificato dalla Legge 15 ottobre 2013, n. 119.

In particolare, l'ordinanza di rimessione della Quinta Sezione, del 9/07/2015, chiedeva alle Sezioni Unite di chiarire "se l'espressione normativa "violenza alla persona", di cui agli artt. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen., introdotto con l'art. 2, comma primo, lett. G. d.l. 1 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni, con la legge 15 ottobre 2013, n. 119, e 393 e 649, comma terzo, cod. pen., comprenda le sole condotte di violenza fisica o includa anche quelle di minaccia, e se di conseguenza il reato di cui all'art. 612-bis cod. pen. sia da ritenere incluso fra quelli per i quali l'art. 408, prevede la necessaria notifica alla persona offesa dell'avviso della richiesta di archiviazione.".

La Sezione individuava le ragioni della rimessione nella speciale importanza della questio iuris, riguardante l'ambito di applicazione di un istituto di frequente applicazione nella pratica processuale, quale, appunto, quello dell'avviso di deposito della richiesta di archiviazione.

Una tematica particolarmente delicata ed attuale, in quanto involgente quelle più generali, riferite, da un lato, alla determinazione del concetto di "violenza alla persona" rilevante in sede penale, dall'altro alle prospettive di tutela delle persone offese da reato nel processo penale, oggetto di recenti interventi normativi di recepimento del diritto di fonte sovranazionale tesi ad ampliare e rafforzare i diritti, l'assistenza e la protezione delle vittime di reato. Ed invero, la Sezione remittente segnalava come il chiarimento del significato dell'espressione normativa "violenza alla persona" assumeva rilevanza anche ai fini della individuazione dell'ambito di operatività della causa di non punibilità prevista dall'art. 649 cod. pen. per i reati contro il patrimonio, incentrata proprio su tale concetto.

Le Sezioni Unite, nel risolvere la questione, hanno affermato i seguenti principi di diritto:

"La disposizione dell'art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen., che stabilisce l'obbligo di dare avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con "violenza alla persona", è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsti rispettivamente dagli artt. 612-bis e 572 cod. pen., in quanto l'espressione "violenza alla persona" deve essere intesa alla luce del concetto di "violenza di genere", risultante dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario.";

"L'obbligo dell'avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con violenza alla persona, previsto dall'art. 408, comma 3-bis cod. proc. pen., prescinde da ogni eventuale richiesta dell'interessato, con la conseguenza che la sua omissione, determinando la violazione del contraddittorio, è causa di nullità, ex art. 127, comma quinto, cod. proc. pen., del decreto di archiviazione emesso "de plano", impugnabile con ricorso per cassazione.".

2. I riferimenti normativi: brevi cenni.

È utile ricordare che il comma 3-bis dell'art. 408 cod. proc. pen. è stato introdotto dal d. 1. 14 agosto 2013, n. 93, recante "Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province", convertito, con modificazioni, dalla Legge 15 ottobre 2013, n. 119. Con tale disposizione il legislatore ha previsto l'inedita ipotesi della notifica obbligatoria dell'avviso della richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero alla persona offesa dei delitti commessi con "violenza alla persona", che prescinde, appunto, dalla presentazione della apposita richiesta in tal senso. Inoltre, sempre nell'ottica di assicurare un rimedio effettivo alle vittime di tale categoria di reati, ha raddoppiato l'ordinario termine di dieci giorni concesso per prendere visione degli atti e presentare eventuale opposizione.

Si tratta indubbiamente di un momento assai delicato di verifica delle determinazioni del P.M. nel senso del mancato impulso verso l'esercizio dell'azione penale ed in quest'ottica assume rilievo Sez. 3, n. 24432 del 18/02/2016, P.C. in proc. Zelmat, Rv. 267151, che in un caso in cui la stessa persona offesa aveva negato di aver subito le violenze sessuali oggetto di procedimento, ha affermato che "l'obbligo di notifica . . .previsto dall'art. 408, comma terzo-bis, cod. proc. pen. . . . sussiste anche nel caso in cui la richiesta sia basata sull'infondatezza della notizia di reato, poiché tale obbligo attiene alle forme del procedimento da seguire per richiedere l'archiviazione in relazione al titolo di reato per cui si procede e prescinde dalla sussistenza o meno di esso".

È da precisare che il testo vigente è frutto delle modifiche apportate in sede di conversione del decreto legge con il precipuo intento di rafforzare il ruolo processuale delle persone offese, al fine di conformare l'ordinamento alla normativa europea in materia.

Nella decretazione d'urgenza, infatti, gli avvisi della richiesta di archiviazione erano da notificare solo alle parti offese nei procedimenti per il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.). In sede di esame in Commissione giustizia alla Camera dei Deputati venne rilevata la portata troppo ristretta di tale previsione, e, di conseguenza, gli emendamenti approvati in sede di conversione, hanno esteso la novella alla categoria dei "delitti commessi con violenza", proprio al fine di riconoscere maggiore attenzione alla vittima delle violenze di genere, informandola di ogni evoluzione della vicenda processuale nei diversi snodi procedimentali.

Il legislatore della conversione ha introdotto in più occasioni l'espressione "violenza alle persone" che fa scattare gli obblighi informativi a favore delle persone offese, senza, tuttavia, chiarire quali reati siano da includervi; ed infatti, la previsione dei "delitti commessi con violenza alla persona", in realtà non individua con immediatezza e certezza una specifica categoria di delitti ma si presta a ricomprenderne una serie amplissima.

Inoltre, è importante richiamare anche il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212[1] di recepimento della Direttiva 2012/29/UE, sui diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, che ha introdotto ulteriori modifiche nel codice di rito che proseguono lungo il percorso del rafforzamento dei diritti di informazione delle parti offese, confermando la particolare attenzione rivolta alle parte offese dei "delitti commessi con violenza alla persona". In particolare, quest'ultimo testo normativo ha aggiunto al codice di procedura penale: l'art. 90-bis, che declina le informazioni da fornire alla vittima sin dal primo contatto con l'autorità, tra le, quali, alla lettera c) "la facoltà di essere avvisata della richiesta di archiviazione"; l'art. 90-ter, che prevede l'immediata comunicazione alla persona offesa di delitti commessi "con violenza alla persona", che ne faccia richiesta, dei provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misure di sicurezza detentiva ovvero dell'evasione o della volontaria sottrazione all'esecuzione di una misura di sicurezza detentiva. Inoltre, l'art. 90-quater definisce la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa che giustifica l'adozione di forme di protezione in ambito processuale, desumibile da una serie di indici tra i quali tener conto anche se il fatto risulta "commesso con violenza alla persona".

3. La difficoltà di individuare un concetto unitario di "violenza alla persona".

L'ordinanza di rimessione chiedeva al Supremo collegio di chiarire il significato dell'espressione "violenza alla persona" contenuta nelle disposizioni di cui agli articoli 393, 649 cod. pen. e 408, comma 3-bis, cod. proc. pen.: se fosse da ritenersi circoscritta alle ipotesi di violenza fisica oppure comprensiva anche delle forme di violenza psicologica o di minaccia, che caratterizzano tipicamente il delitto di atti persecutori, di cui all'art. 612-bis cod. pen. Segnalava, inoltre, l'esistenza di un contrasto relativo alla estensione applicativa della causa di non punibilità, di cui all'art. 649, comma 3, cod. pen., derivante dalla inclusione o meno anche della violenza morale nei reati commessi con violenza alla persona che ne escludono l'operatività.

Si trattava di un quesito particolarmente complesso stante la difficoltà di ricondurre ad unità un concetto che nel codice assume una valenza poliedrica, poiché il legislatore lo utilizza in una serie di accezioni non sempre fra loro coincidenti, ma funzionali a diverse esigenze di qualificazione normativa[2]. Ed infatti, la perimetrazione della nozione di "violenza alla persona" è operazione che da sempre ha impegnato la dottrina e la giurisprudenza in quanto il codice, pur contenendo numerose norme che richiamano la violenza quale elemento costitutivo della fattispecie o circostanza aggravante, si limita a definire soltanto la "violenza sulle cose" nel secondo comma dell'art. 392 cod. pen. [3].

Ed invero, è da osservare come il termine "violenza" prima che a quello giuridico appartiene al linguaggio comune, e come tale è connotato da variabili storicamente condizionate con riferimento alle forme sempre più sofisticate di aggressione personale e ai mutamenti di sensibilità culturale in merito alla esigenze di tutela della libertà individuale.

Inoltre, manca una fattispecie che incrimini autonomamente la violenza, come invece avviene per la minaccia (art. 612 cod. pen.); l'art. 581, secondo comma, cod. pen., difatti, costituisce esclusivamente una norma di sbarramento poiché, tra le diverse modalità di estrinsecazione della violenza, si limita ad individuare nelle percosse il grado massimo entro cui la condotta violenta viene assorbita come elemento costitutivo o circostanza aggravante di altro reato[4]. Ciò potrebbe apparire rispondente ad una precisa volontà del legislatore di astenersi dal fornire una definizione generale di violenza alla persona, stante la infinita varietà di forme di diversa gravità ed intensità in cui la stessa si manifesta, non riconducibili, pertanto, ad un fatto unico ma integranti diverse fattispecie di rilevanza penale.

Alla luce delle modifiche normative sopra illustrate, tuttavia, la ricostruzione della categoria dei "delitti commessi con violenza alla persona" diventa fondamentale in quanto permette di chiarire quali sono i procedimenti per i quali scattano gli obblighi informativi, al fine di evitare, da un lato, l'effettuazione di comunicazioni e notifiche non dovute e, quindi, dannose per l'efficienza e l'economia processuale, dall'altro, le sanzioni processuali previste in caso di omessa comunicazione.

4. Le prime pronunce della giurisprudenza.

Deve segnalarsi come prima della rimessione alle Sezioni Unite non si erano registrano pronunce delle Sezioni semplici sulla specifica questione dell'ambito applicativo del comma 3-bis dell'art. 408 cod. proc. pen.

Le prime decisioni sulla citata normativa introdotta nel 2013 hanno infatti riguardato l'ambito applicativo degli obblighi informativi nella materia cautelare, imposti dall'art. 299 cod. proc. pen. nei confronti delle parti offese dei delitti commessi con violenza alla persona.

Tuttavia, l'identità dell'espressione utilizzata per identificare i destinatari delle comunicazioni sia nella materia cautelare che in tema di archiviazione rende perfettamente sovrapponibile l'iter argomentativo seguito nel ricostruire la nozione ai fini dell'art. 299 cod. proc. pen. anche con riferimento all'art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen.

In proposito, deve segnalarsi la sentenza, Sez. 1, n. 49339 del 29/10/2015, Gallani, Rv. 265732, che ha optato per verificare, ai fini dell'insorgenza dell'obbligo informativo a favore della parte offesa, non tanto la riconducibilità teorica del delitto contestato ad una fattispecie astratta connotata nel suo schema dommatico dalla violenza alla persona, quanto invece l'effettiva manifestazione nel singolo caso di una condotta materiale caratterizzata dalla concreta esplicazione di atti di violenza anche solo morale in danno della persona offesa. Ed infatti: "L'ampiezza del riferimento lessicale alla "violenza alla persona" che deve connotare le modalità commissiva dell'azione delittuosa non può consentire sul piano ermeneutico alcuna distinzione tra le diverse forme di violenza-fisica, psicologica, morale in cui la stessa può concretizzarsi, né fra fattispecie consumate o tentate, sempre che queste ultime siano pervenute ad uno stadio tale di attuazione della condotta da aver dato luogo alla concreta estrinsecazione di atti di violenza, che costituiscano elemento qualificante imprescindibile dell'insorgenza dell'obbligo di notifica previsto dalla legge, la cui finalità è quella di apprestare uno strumento di tutela sul piano processuale a una platea indifferenziate di persone offese da una ampia gamma di delitti e non permette alcun automatico recepimento, ai relativi effetti, dei risultati dell'elaborazione giurisprudenziale della nozione di "violenza alle persona" operata da questa Corte in tema di delitti contro il patrimonio commessi in danno di congiunti - ai diversi e più limitati effetti di diritto sostanziale di circoscrivere l'operatività della speciale causa di non punibilità prevista dall'art 649 c.p., la cui giustificazione razionale costituisce oggetto di critiche sempre più serrate da parte della dottrina e della giurisprudenza sotto il profilo dei suoi contenuto anacronistici".

Siffatta interpreazione, osserva la predetta decisione, sarebbe coerente non solo con la lettera della legge ma anche con la ratio oggettiva della novella del 2013 che, infatti, prescrive di comunicare immediatamente l'attenuazione del regine cautelare della persona indagata anche ai sevizi socio-assistenziali, al difensore della persona offesa o, in mancanza, direttamente a quest'ultima, proprio al fine di assicurare effettivi strumenti di informazione e protezione dei soggetti deboli vittime di condotte violente suscettibili di reiterazione. In definitiva, conclude la citata sentenza, in assenza del presupposto di fatto costituito dalla concreta esplicazione di una violenza anche solo morale sulla persona offesa deve escludersi l'insorgenza dell'obbligo, previsto dall'art. 299, comma 3, cod. proc. pen., di notificare alla persona offesa la richiesta di revoca o sostituzione della misura coercitiva (nel caso di specie si trattava di un'ipotesi di tentativo di sequestro di persona a scopo di estorsione).

5. Gli orientamenti della dottrina.

Sulla questio iuris oggetto di rimessione in dottrina si sono registrate due posizioni.

In base ad un primo orientamento, si è prospettata un'interpretazione "letterale" dell'espressione "violenza alla persona", nel senso che gli obblighi informativi si configurerebbero solamente con riguardo ai delitti per i quali la violenza costituisce una modalità d'estrinsecazione della condotta penalmente rilevante, con esclusione, pertanto della minaccia. Verrebbero in rilievo, pertanto, i reati di violenza privata (art. 610 cod. pen.), di rapina (art. 628 cod. pen.), d'estorsione (art. 629 cod. pen.), di rissa (art. 588 cod. pen.), di violenza sessuale (art. 609-bis cod. pen.), di violazione di domicilio commessa con violenza alle persone (art. 614, quarto comma, cod. pen.) così come, anche, i delitti di violenza e di resistenza a pubblico ufficiale (artt. 336 e 337 cod. pen.). Tale posizione ritiene che la mancata indicazione legislativa della minaccia, che compare espressamente in innumerevoli fattispecie penali in alternativa alla violenza, deporrebbe per una volontaria esclusione non superabile con una interpretazione estensiva della disposizione[5].

Una seconda linea interpretativa, invece, ha proposto una lettura della disposizione alla luce della ratio legis ispiratrice della riforma del 2013 finalizzata a contrastare, appunto la violenza domestica e di genere, evidenziando come una interpretazione ancorata al tenore letterale della norma comporterebbe effetti bizzarri ed incoerenti con gli obiettivi dichiarati dal legislatore nazionale ed in contrasto con il diritto europeo. Ed infatti, da un lato, risulterebbe troppo ampia poiché individuerebbe quali destinatari delle comunicazioni di cui agli artt. 299, commi 2-bis, 3 e 4-bis e 408, comma 3 bis, cod. proc. pen., persone offese dal reato in cui la violenza, pur trovando la sua finalità nella volontaria aggressione di una determinata persona, ha avuto natura del tutto episodica, oppure non è stata dettata da un interesse dell'agente di ledere l'integrità fisica di quella determinata persona offesa, essendo stata quella violenza puramente strumentale rispetto ad altro scopo (es. sottrazione della cosa); all'opposto, sarebbero esclusi dagli obblighi informativi i delitti di atti persecutori (art. 612-bis cod. pen.) e di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.), poiché per il primo la stessa legge penale individua quale elemento oggettivo dell'illecito le minacce e le molestie ripetute, mentre a perfezionare il secondo basterebbe una serie di atti i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, ecc.) ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), ma che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo[6].

In definitiva, si osserva, per una pletora di reati per i quali la protezione della vittima in quanto tale è di scarso rilievo, opererebbero gli obblighi informativi a suo favore; viceversa, per gli illeciti che, per antonomasia, trovano il loro habitat nella violenza di genere e in quella familiare sarebbero frustrate le esigenze di protezione della vittima vulnerabile.

Alla luce di tale secondo orientamento, inoltre, si è precisato che per assicurare alla norma un significato pertinente soccorre anche il disposto del comma 2-bis del novellato art. 299 cod. proc. pen, laddove prevede che il provvedimento di revoca o di sostituzione in melius della misura cautelare debba essere comunicato, tra gli altri, ai "servizi socio-assistenziali". Da tale prescrizione si ricaverebbe una indicazione importante per desumere che deve trattarsi di delitti commessi con violenza contro la persona che si iscrivano in un contesto di violenza di genere ovvero di violenza domestica. Infatti, interpretando l'art. 299 cod. proc. pen. nel suo complesso, sarebbe inspiegabile la comunicazione ai servizi socio-assistenziali per reati del tutto inconferenti (quali la resistenza a pubblico ufficiale o la rapina) e pur tuttavia qualificati dalla violenza poiché l'adempimento informativo, laddove fosse imposto in tali casi, apparirebbe sostanzialmente inutile nell'ottica di tutela della persona offesa (rispetto principalmente al rischio di recidiva), e pregiudizievole in una materia, quale è quella della libertà personale, che impone decisioni quanto più possibile celeri[7].

Ed ancora, viene puntualizzato che nell'art. 3 dello stesso d.l. n. 93 convertito è contenuta, seppur agli effetti dell'articolo indicato, la nozione di violenza di genere comprensiva della violenza fisica e morale, ovvero: "uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate attualmente o in passato da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva in corso o pregressa, indipendentemente dal fatto che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima".

6. Il ragionamento seguito dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite non affrontano la problematica secondo una ricostruzione ermeneutica finalizzata a definire il concetto di violenza alla persona rilevante per il diritto penale in termini generali, ma si concentrano sulla risoluzione della specifica questione della possibile inclusione del reato di cui all'art. 612-bis cod. pen. tra i reati per i quali deve ritenersi obbligatorio l'avviso l'art. 408 comma 3-bis cod. proc. pen.; e, nel fare ciò, muovono da un'ottica interpretativa ispirata al rispetto della normativa sovranazionale, per arrivare a conclusioni di ampio respiro.

In particolare, la pronuncia prende le mosse da un inquadramento sistematico sia del reato di atti persecutori, sia degli interventi normativi previsti a favore della tutela delle vittime di reato.

6.1. Il reato di atti persecutori.

Il Supremo collegio ricorda come la figura criminosa prevista dall'art. 612-bis cod. pen. (introdotta nel nostro ordinamento dall'art. 7 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n.11, recante "Misure urgenti In materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori", convertito, con modificazioni, dalla Legge 23 aprile 2009, n. 38), abbia inteso reagire contro il peculiare fenomeno criminoso, da tempo conosciuto in molti ordinamenti stranieri sotto il nome di stalking, avente come comune denominatore il carattere assillante e ripetitivo delle condotte di minaccia o molestia esercitate nei confronti della vittima, tali da stravolgere le sue abitudini di vita a causa dello stato di ansia e di paura provocatole.

Il nuovo reato, colmando una lacuna dell'ordinamento, è stato inserito tra i delitti contro la persona, nella sezione dedicata ai delitti contro la libertà morale, atteso che le condotte incriminate, estrinsecantisi solo eventualmente in forme di violenza fisica, sono idonee a incidere sulla tranquillità psichica, sulla libera autodeterminazione e in definitiva, appunto, sulla libertà morale della persona. Ed, infatti, con questa nuova figura incriminatrice il legislatore italiano ha inteso apprestare, attraverso una combinazione di strumenti penalistici, civilistici e amministrativistici, una efficace tutela della vittima contro il rischio della progressione in atti di violenza da parte del molestatore. E la pericolosità di tale fenomeno è emersa con sempre maggiore evidenza dai fatti di cronaca, atteso che i comportamenti persecutori vengono realizzati in prevalenza da partner o ex-partner e che l'occasione delle molestie reiterate spesso é prodromica a condotte di aggressioni fisica, spesso gravissime, da parte del persecutore.

6.2. La tutela delle vittime del reato.

Le Sezioni Unite, quindi, richiamano i provvedimenti più significativi dell'"arcipelago normativo", costituito da fonti interne e internazionali, in materia di tutela delle vittime da reato, sia in termini generali, sia con riferimento a specifici reati particolarmente lesivi dell'integrità fisica e morale delle persone e che colpiscono di frequente vittime vulnerabili.

La Corte sottolinea come sia emergente la cresciuta considerazione della posizione della persona offesa, negli strumenti internazionali generalmente indicata come "vittima", all'interno del processo penale, fenomeno sollecitato, da un lato, dall'allarme sociale provocato dalle varie forme di criminalità violenta via via emergenti (terrorismo, tratta di essere umani, sfruttamento di minori, violenza contro le donne in cui spesso il reato si consuma in contesti dove preesistono legami tra la vittima e il suo aggressore), dall'altro, dagli strumenti internazionali esistenti in materia.

Tra i provvedimenti indirizzati a tutte le vittime assume un posto di assoluta rilevanza la Direttiva 2012/29/UE, in materia di diritti, assistenza e protezione della vittima di reato, che ha sostituito la decisione-quadro 2001/220 GAI, costituente lo statuto per tutte le vittime di reato, dotato dell'efficacia vincolante tipica di questo strumento normativo.

Tale Direttiva, osserva il Supremo collegio, rappresenta un vero e proprio snodo per le politiche criminali, di matrice sostanziale e processuale, dei legislatori europei, non tanto per le singole indicazioni da attuare a livello nazionale (diritti di informazione, assistenza linguistica, accesso alla giustizia, garanzie di protezione), quanto per la necessità, imposta dal testo europeo, di definire una chiara posizione sistemica all'offeso. Ad essa è stata data recente attuazione nell'ordinamento interno con il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212.

Per quanto attiene ai testi incentrati su specifiche forme di criminalità, e correlativamente su particolari tipologie di vittime, vengono richiamate: la Convenzione di Lanzarote del Consiglio d'Europa del 25 ottobre 2007, sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali, ratificata dalla legge 1 ottobre 2012, n. 172; la Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa dell'11 maggio 2011, sulla prevenzione e lotta contro la violenza nel confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata dalla legge 27 giugno 2013, n. 77; la Direttiva 2011/36/UE per la prevenzione e la repressione della tratta degli esseri umani e la protezione delle vittime, recepita con d. lgs. n. 24 del 2014; la Direttiva 2011/99/UE sull'ordine dl protezione penale europeo, recepita con il d.lgs. n. 9 del 2015, tutti provvedimenti normativi, incentrati sulla esigenza di garantire partecipazione, assistenza, informazione e protezione delle vittime di tali specifici reati.

La Corte, quindi, svolge una analitica disamina del concetto di "violenza alla persona" accolto nelle diverse fonti sovranazionali sopracitate, in quanto, essendo state recepite nel nostro ordinamento, alla luce del primo comma dell'art. 117 Cost., influiscono direttamente sulla applicazione del diritto interno.

Viene in rilievo, appunto, l'obbligo di interpretazione conforme al diritto europeo che impone, ove la norma interna si presti a diverse interpretazioni o abbia margini di incertezza, di scegliere quella che consenta il rispetto degli obblighi internazionali. Con particolare riferimento alle norme elaborate nell'Unione europea, il Supremo collegio sottolinea la particolare pregnanza dell'obbligo di interpretazione conforme, atteso "che il principio del primato del diritto comunitario impone al giudice nazionale l'obbligo di applicazione integrale per dare al singolo la tutela che quel diritto gli attribuisce, disapplicando di conseguenza la norma interna confliggente, sia anteriore che successiva a quella comunitaria. Ove sorgano questioni di conflitto con una norma interna, il giudice deve disapplicare la norma interna, mentre se vi sono dubbi sull' interpretazione della norma comunitaria che non può risolvere interpretando tale norma, mal disapplicandola, può sollevare la questione pregiudiziale sull'Interpretazione della stessa davanti alla Corte di Giustizia a norma dell'art. 267 TFUE; rinvio pregiudiziale interpretativo che è obbligatorio per i giudici nazionali di ultima istanza.".

Ed allora, le Sezioni Unite sottolineano come dalla lettura delle fonti sovranazionai emerga come l'espressione "violenza alla persona" sia sempre intesa in senso ampio, comprensiva non solo delle aggressioni fisiche ma anche morali o psicologiche e che lo stalking rientri tra le ipotesi "significative" di violenza di genere che richiedono particolari forme di protezione a favore delle vittime.

In particolare, rilevano le definizioni contenute nell'art. 3 della Convenzione di Istanbul, secondo cui: "a) con l'espressione "violenza nei confronti delle donne" si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili dl provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata; b) l'espressione "violenza domestica" designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o patner, indipendentemente dal fatto che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; c) con il termine "genere" ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini; d) l'espressione "violenza contro le donne basata sul genere" designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato; e) per "vittima" si intende qualsiasi persona fisica che subisce gli atti o i comportamenti di cui al precedenti commi a e b; ".

In sostanza, tale Convenzione descrive tre diverse tipologie di violenza: nei confronti delle donne, domestica e di genere, accomunate dalla completa parificazione tra violenza fisica e psicologica all'interno del più generale concetto di violenza, da cui, conseguentemente, discende una nozione di vittima riferita a qualsiasi persona fisica che subisce tali forme di violenza.

Anche la Direttiva 2012/29/UE fornisce (nella premessa n. 17) la nozione di violenza di genere, definendola come "la violenza diretta contro una persona a causa dei suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere. Può provocare un danno fisico, sessuale o psicologico, o una perdita economica alla vittima. La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (compresi lo stupro, l'aggressione sessuale e le molestie sessuali), la tratta di esseri umani, le schiavitù e varie forme dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i c.d. "reati d'onore". Le donne vittime della violenza di genere e i loro figli hanno spesso bisogno di protezioni speciali a motivo dell'elevato rischio di vittimizzazione secondaria e intimidazione e di ritorsioni connesso a tale violenza.".

Ed ancora, la violenza nelle relazioni strette, nella premessa n. 16, viene a sua volta definita come "quella commessa da una persona che è l'attuale o l'ex partner della vittima ovvero da un altro membro della sua famiglia, a prescindere se l'autore del reato conviva o abbia convissuto con la vittima. Questo tipo di violenza potrebbe includere la violenza fisica, sessuale, psicologica o economica e provocare un danno fisico mentale o emotivo, o perdite economiche."

Inoltre, la Direttiva 2011/36/UE per la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, ha indicato quali "violenze gravi alla persona" la tortura, l'uso forzato di droghe, lo stupro e altre forme di violenza psicologica, fisica o sessuale. Tale disposizione è stata integralmente recepita nel nostro ordinamento dall'art. 1 del decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 24, recante, appunto, "Attuazione della direttiva 2011/36/ UE relativa alla prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e che sostituisce ia decisione-quattro del Consiglio 2002/629/GAI".

Infine, in merito alle politiche di contrasto nei confronti della violenza alle persone, viene citata anche la Direttiva 2011/99/UE, che ha istituito l'Ordine di protezione europeo quale strumento di cooperazione giudiziaria finalizzato a rafforzare la protezione delle vittime di reato nel territorio degli Stai membri. Tale provvedimento normativo individua quali destinatari delle misure di protezione le vittime, anche potenziali, di reati che mettano in pericolo la vita, l'integrità fisica o psichica, la libertà personale, la sicurezza a l'integrità sessuale del soggetto da proteggere e attribuisce una posizione di particolare rilievo alle vittime della violenza di genere o nelle relazioni strette, che si esprime con violenze fisiche, molestie, aggressioni sessuali, stalking, intimidazioni o altre forme indirette di coercizione (considerando n. 9 e n. 11 della Direttiva).

Le suddette indicazioni vengono ritenute dalle Sezioni Unite un fondamentale riferimento per addivenire ad una interpretazione delle norme interne conforme al diritto europeo.

7. La soluzione accolta.

A conclusione dell'iter argomentativo soprarichiamato, il Supremo collegio perviene, come anticipato, alla soluzione positiva del quesito, estendendola pure al reato di maltrattamenti in famiglia, di cui all'art. 572 cod. pen.

L'aspetto particolarmente interessante della decisione in esame è il percorso interpretativo seguito dalla Corte: allontanandosi da una esegesi strettamente letterale del dato normativo ha, infatti, accolto una soluzione teleologicamente orientata, individuando la voluntas legis delle riforme introdotte in tema di protezione delle vittime di reato (tra cui, appunto, l'obbligo di informazione di cui all'art. 408, comma 3-bis cod. proc. pen.), alla luce dei principi di fonte sovranazionale, intesi quali parametri fondamentali per una ricostruzione sistematica della questio iuris, conforme non solo alla Costituzione ma anche al diritto europeo.

In sostanza, le argomentazioni seguite dalle Sezioni Unite possono così sintetizzarsi.

In primo luogo, la analitica ricostruzione dell'iter legislativo che ha portato all'introduzione dell'obbligo di avviso obbligatorio alla persona offesa dai reati commessi con violenza alla persona, di cui all'art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen., consente di valorizzare la precipua volontà di ampliare i diritti di partecipazione della vittima al procedimento penale, in quanto il testo normativo si prefigge proprio lo scopo di dare specifica protezione alle vittime della violenza di genere, specie ove si estrinsechi contro le donne o nell'ambito della violenza domestica;

in secondo luogo, il reato di atti persecutori, al pari di quello dei maltrattamenti in famiglia, rappresenta una tipica fattispecie per la cui integrazione non rileva necessariamente l'estrinsecazione di violenza fisica sulla persona, essendo finalizzata a reprimere la violenza di genere e a proteggere la persona che la subisce, anche in prevenzione delle eventuali progressioni criminose che degenerino in più gravi aggressioni fisiche;

in terzo luogo, la storia dell'emendamento che ha introdotto la nozione di "delitti commessi con violenza alla persona" al comma 3 bis dell'art. 408 cod. proc. pen. dimostra la volontà del legislatore di ampliare il campo della tutela oltre le singole fattispecie criminose originariamente indicate;

infine, la nozione di violenza adottata in ambito internazionale e comunitario è più ampia di quella positivamente disciplinata dal nostro codice penale e sicuramente comprensiva di ogni forma dl violenza di genere, contro le donne e nell'ambito delle relazioni affettive, sia o meno attuata con violenza fisica o solo morale, tale da cagionare cioè una sofferenza anche solo psicologica alla vittima del reato.

Ciò premesso, la Corte ritiene, quindi, che il reato di atti persecutori, al pari di quello di maltrattamenti, indipendentemente dalla loro riconducibilità teorica alle fattispecie di violenza fisica, rientrino a pieno titolo nella categoria dei reati "commessi con violenza alla persona" per i quali, ai sensi del citato art. 408, comma 3 bis cod. proc. pen., è obbligatoria la notifica dell'avviso della richiesta di archiviazione, a prescindere dalla manifestazione di volontà in tal senso della persona offesa.

In definitiva, le Sezioni Unite offrono una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata della disposizione, di cui all'art. 408, comma 3-bis, cod. proc. pen., funzionale alla estensione della categoria dei reati commessi con violenza alla persona anche alle fattispecie criminose di violenza di genere in cui l'estrinsecazione di violenza fisica non è necessariamente elemento costitutivo, con la precipua finalità di assicurare e rafforzare gli strumenti sostanziali di protezione e informazione a favore delle relative vittime.

Tuttavia, pare potersi affermare che suddetta ricostruzione esegetica, comporti due ordini di conseguenza.

In primo luogo, l'aver ancorato la soluzione adottata alle peculiari esigenze di protezione delle vittime della "violenza di genere", non sembra possa consentirne l'utilizzabilità anche per la definizione del concetto di "violenza alla persona" contenuto nelle disposizioni di cui agli artt. 649 e 393 cod. pen., pur richiamate nell'ordinanza di rimessione, stante la profonda differenza di materia e di finalità perseguite da queste ultime norme.

In secondo luogo, non può non rilevarsi come tale operazione ermeneutica non pare possa essere utilizzata in senso restrittivo, ovvero per limitare il concetto di "violenza alla persona" alle sole manifestazioni di violenza originate da motivi di "genere", in assenza di alcun riscontro nel dato normativo nazionale e sovranazionale.

Per completezza, in merito alla riconducibilità alla categoria dei "delitti commessi con violenza alla persona" anche delle condotte criminose estrinsecantesi con minaccia o violenza morale, assume rilievo Sez. 2, n. 30302 del 24/06/2016, Opera, Rv. 267718, che in una fattispecie di estorsione posta in essere con minaccia, ha affermato che "la nozione di 'delitti commessi con violenza alla persona, di cui all'art. 299, comma 2-bis, cod. proc. pen. - per i quali sussiste l'obbligo di notifica, al difensore della persona offesa o a quest'ultima, dell'istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare in atto - include tutti quei delitti, consumati o tentati, che si sono manifestati in concreto con atti di violenza fisica, ovvero morale o psicologica, in danno della vittima del reato".

SEZIONE IV REATI SOCIETARI

Sommario

PREMESSA

PREMESSA.

La crisi finanziaria globale ha negli ultimi anni profondamente inciso sulla funzione e sul significato dell'intervento penale dell'economia.

Le forti aspettative sociali registrate in ordine all'esito di complessi processi, sui quali è confluita una forte attenzione mediatica e un'elevata richiesta di "giustizia" da parte delle vittime di fatti obiettivamente gravi, hanno posto in evidenza la frizione esistente tra la regolamentazione normativa della materia, da molti ritenuta inadeguata in presenza di gravi inosservanze delle regole, e la domanda sociale di una maggiore severità ed efficacia dell'intervento punitivo sulle condotte di opacità in seno alle imprese costituite in forma di società.

In questo contesto si colloca la legge n. 69 del 2015 che, novellando i reati di false comunicazioni sociali, ambisce a far vivere al falso in bilancio "una nuova stagione, finalmente libero dagli irrazionali vincoli che ne limitavano l'operatività", ripristinando una risposta sanzionatoria effettiva in un contesto di inasprimento delle misure di contrasto alla corruzione.

  • reato

CAPITOLO I

LE NUOVE FALSE COMUNICAZIONI SOCIALI E LA RILEVANZA DELLE VALUTAZIONI

(di Piero Silvestri )

Sommario

1 La questione su cui sono intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione. - 2 La ricostruzione storica del dato normativo. - 2.1 (Segue). La riforma del 2002. - 2.2 (Segue) La legge n. 69 del 2015. Cenni. - 3 L'oggetto materiale e le condotte tipiche: esposizione non veritiera/omissione di fatti materiali: il c.d. falso qualitativo. - 4 La giurisprudenza: l'orientamento favorevole all'abrogazione parziale del falso valutativo. - A) Dato testuale. - B) La volontà legislativa. - C) Criterio sistematico. - 4.1 (Segue). La sentenza che esclude l'abrogazione parziale. - A) Criterio interpretativo testuale. - B) Criterio sistematico. - C) I rapporti con l'art. 2638 cod. civ. - 5 La Dottrina: la tesi del falso valutativo penalmente irrilevante. - 5.1 (Segue) La nozione di falsa valutazione e i limiti alla interpretazione del giudice. - 6 La tesi della persistente rilevanza del falso valutativo. Le argomentazioni legate al dato letterale della disposizione di legge. - 6.1 (Segue). Le argomentazioni di tipo sistematico: le clausole generali di redazione del bilancio. - 7 L'intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione. - 8 Gli altri principi affermati dalle Sezioni unite della Corte di cassazione.

1. La questione su cui sono intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione.

La questione su cui le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono state chiamate a pronunciarsi nel 2016 atteneva al "se, in tema di false comunicazioni sociali, la modifica con cui l'art. 9 della legge 27 maggio 2015, n. 69 ha eliminato, nell'art. 2621 cod. civ., l'inciso "ancorché oggetto di valutazioni", abbia determinato o meno un effetto parzialmente abrogativo della fattispecie".

Il tema riguardava, in particolare, se la nozione di fatto, cui gli artt. 2621 e 2622 cod. civ. fanno riferimento, ricomprenda nell'area punitiva della norma incriminatrice soltanto i dati oggettivi della realtà sensibile, oppure possono essere false anche le valutazioni di bilancio, ossia le stime di valore contabile in esso contenute.

Si è trattato di una questione potenzialmente dirompente posto che quasi tutte le voci di bilancio sono frutto di una qualche valutazione.

All'indomani dell'approvazione del nuovo intervento di riforma normativa sul falso in bilancio, attuato con legge 27 maggio 2015, n. 69, e già durante i lavori per l'approvazione della modifica sulla disposizione di cui all'art. 2621 cod. civ. che tale legge recava, erano emersi numerosi dubbi sull'interpretazione del testo "rinnovato" della norma che puniva il reato di falso in bilancio.

La Corte di cassazione è intervenuta immediatamente nel dibattito apertosi sulla portata e sulle conseguenze dell'intervento del legislatore con una prima pronuncia (Sez. 5, n. 33774 del 16/6/2015, Crespi, Rv. 264868) - cui è seguita una vasta eco in dottrina - con la quale si è affermata l'abrogazione parziale del cd. falso valutativo.

A distanza di pochi mesi, una seconda sentenza (Sez. 5, n. 890 del 12/11/2015, dep. 2016, Giovagnoli, Rv. 265491) ha rivisto criticamente tale opzione, affermando, invece, la sostanziale sovrapponibilità normativa tra vecchia e nuova disciplina in tema di falso in bilancio, anche per quel che riguarda il falso estimativo.

A tale seconda sentenza, tuttavia, è seguita, dopo qualche settimana, un'ulteriore pronuncia (Sez. 5, n. 6916 del 8/1/2016, Banca Popolare dell'Alto Adige, Rv. 265492) schierata formalmente a favore della tesi della parziale abrogazione ed irrilevanza penale del falso in bilancio avente ad oggetto "valutazioni".

Il contrasto è stato fondato su ragioni di ordine teorico-interpretativo.

2. La ricostruzione storica del dato normativo.

Sul piano testuale, si è transitati dalla locuzione "fatti falsi" che compariva sia nel codice di commercio Zanardelli del 1882, sia nella 1. n. 660 del 1931, a quella «fatti non rispondenti al vero» impiegata dal legislatore del 1942, per approdare alla formulazione del d. lgs. n. 61 del 2002 «fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni» (la medesima espressione è stata inserita dal citato d. lgs. n. 61 anche nel delitto di ostacolo all'esercizio delle funzioni di vigilanza di cui all'art. 2638 cod. civ.), e, infine, si è giunti alla formula "fatti materiali (rilevanti) non rispondenti al vero" della legge n. 69 del 2015.

L'art. 2621, n. 1, cod. civ. nella sua versione antecedente alla riforma del 2002, puniva l'esposizione di "fatti non rispondenti al vero sulle condizioni economiche della società", cosicché da sempre la dottrina si era interrogata in merito alla rilevanza delle valutazioni presenti in un bilancio, domandandosi se, ed, eventualmente, quando, le stesse potessero essere qualificate come "false".

L'orientamento dottrinale più restrittivo, riferendo il termine "fatti" ai soli dati della realtà obiettiva, poneva al di fuori della sfera di efficacia dell'incriminazione le semplici valutazioni, ritenendosi possibile rispetto ad esse la formulazione di un giudizio di correttezza od erroneità, ma non già di verità o falsità.

Altra impostazione, per sostenere l'impossibilità di includere nella nozione di fatto le valutazioni, faceva leva sulla teoria dell'adeguatezza sociale come criterio di individuazione e qualificazione del penalmente rilevante, secondo il quale le valutazioni non sarebbero state rilevanti.

Risultò peraltro prevalente l'opinione di coloro che ritennero che anche le valutazioni dovessero rientrare nel generico concetto di "fatti", sostenendone quindi la rilevanza penale.

Si osservò che, ravvisandosi negli artt. 2424, 2425 e 2426 cod. civ. (nel testo antecedente alla novella del 1991 "in parte qua") la fissazione di criteri precisi ed inderogabili per la formazione del bilancio e la valutazione delle singole poste, la falsità era da identificarsi con l'alterazione del vero legale, ossia con la violazione del principio di chiarezza e precisione (di cui all'art. 2423 cod. civ. - testo allora vigente), mentre laddove non fossero stati rinvenibili criteri legali, il metro di valutazione avrebbe dovuto essere quello della verità oggettiva.

Oltre a questo, numerosi furono gli argomenti spesi a favore della soluzione affermativa: si considerò, ad esempio, come il discrimine tra i concetti di fatto, di esposizione di un fatto e di valutazione non fosse per nulla "nitido e preciso" così come lo si era voluto prospettare, ma si appalesasse "oltremodo labile, se non addirittura evanescente".

Sempre in tale ottica, venne rilevato come tutte le valutazioni potevano "ad un certo momento sembrare anche esposizioni di fatti materiali", come pure in ogni dichiarazione di fatti si poteva "vedere nascosta una valutazione".

L'argomento maggiormente valorizzato per attribuire rilevanza anche alle valutazioni muoveva da una constatazione: constatato che quasi tutte le voci di bilancio sono frutto di una qualche valutazione, laddove si fosse accolta una interpretazione restrittiva del termine fatti si sarebbe pervenuti ad un'evidente "interpretatio abrogans" della fattispecie penale.

Sul fronte dell'applicazione giurisprudenziale si assunsero e si riproposero le contrapposizioni dottrinali, pervenendosi comunque ad un orientamento largamente maggioritario che rapportava alla fattispecie di cui all'art. 2621, n. 1, cod. civ. le valutazioni contenute nei bilanci (in via d'eccezione alla regola della loro generale irrilevanza) allorquando fossero a tal punto lontane dalla realtà economico/contabile della società da apparire irragionevoli.

Proprio il criterio della ragionevolezza si consolidò nel tempo quale sistematica base degli orientamenti giurisprudenziali relativi alle false comunicazioni sociali: ogniqualvolta la carenza di ragionevolezza dell'apprezzamento discrezionale sfociasse in artifizio, la valutazione veniva considerata alla stregua di un fatto e dunque penalmente rilevante.

In tale contesto - ed in prospettiva analoga a quella parte della dottrina che assumeva a punto di riferimento fondamentale il criterio della verità relativa, da intendersi come adeguamento dei giudizi di valore alle norme tecniche, osservati i principi stabiliti dalla legge e tenuto conto del tipo di impresa e dello "scopo" del bilancio - la valutazione mendace si identificava con la valutazione compiuta discostandosi consapevolmente dai criteri previsti dalla normativa civilistica, in primis dall'art. 2426 cod. civ., nel testo allora vigente.

Insomma, si affermava la sussistenza del reato quando la discrezionalità degli amministratori nella stima delle poste contabili avesse oltrepassato i limiti di ogni ragionevolezza, degenerando in mero arbitrio.

Non risultavano pertanto punibili le opinioni, le previsioni, le aspettative prospettate come tali, in quanto apprezzamenti di natura squisitamente soggettiva, come non risultavano punibili le iper o le ipovalutazioni delle poste contabili inseribili in una variabile logica e comunque ragionevole (seppur magari "non prudenziale") tra verità legale e verità reale, data tra il resto la difficoltà di fissare un valore unico ed assoluto per le varie poste.

In sintesi, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie non avevano dubbi sulla circostanza che l'interpretazione sistematicamente corretta del riferimento ai fatti come oggetto di falsità autorizzasse comunque a comprendere anche le componenti valutative.

Si era ritenuto, ancora, che la falsità dovesse essere apprezzata non già soltanto sulla base di un rapporto tra valutazione delle poste di bilancio e valore reale dei singoli beni, ma avendo - anche od in alternativa - riguardo alla eventuale difformità tra la rappresentazione in bilancio dei valori stimati ed il criterio relazionato che ne aveva informato la stima: con inoltre la rilevanza del cosiddetto falso qualitativo (vera la posta, ma "falso" il contenitore/voce di bilancio) (Cfr., Sez. 5, n. 7918 del 25/5/1993, Corborsiero, Rv. 194877; Sez. 5, n. 8984 del 10/8/2000, Patrucco, Rv. 217767).

2.1. (Segue). La riforma del 2002.

Nel 2002 intervenne la totale riscrittura delle false comunicazioni sociali, con gli artt. 2621 e 2622 cod. civ., unitamente con l'innovativo inserimento della formula sulle valutazioni: si pervenne alla rilevanza penale dei fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni.

La formula "ancorché oggetto di valutazioni" suscitò immediate reazioni negative, attesa la sua possibile ambiguità e la sua "superfetazione", che, si sosteneva, era tecnicamente neutra rispetto ai "fatti" di cui al previgente art. 2621, n. 1, cod. civ.

Il sintagma era considerato ambiguo perché si prestava a due opposte esegesi, quale "supporto" sia alla tesi che, valorizzando il dato, traeva conferma della rilevanza penale delle valutazioni, sia alla opposta ricostruzione di chi riteneva che il dato letterale in questione deponesse nel senso di escludere radicalmente le valutazioni dall'area di rilevanza penale.

Sotto altro profilo il dato normativo era considerato una superfetazione in quanto non offriva alcun apporto significativo sul piano ermeneutico, posto che, alla ricomprensione all'interno della locuzione "fatti materiali non rispondenti al vero" anche delle valutazioni delle poste contabili, si poteva giungere agevolmente con l'interpretazione, attesa l'equivalenza della formulazione dei disposti del 2002 con la tradizionale espressione - vigente per sessant'anni - "fatti non rispondenti al vero".

Fu autorevolmente sostenuto che essendo il falso in bilancio "falso in valutazioni" ed essendo proprio le valutazioni anche gli oggetti privilegiati e più rilevanti sia delle relazioni, sia delle comunicazioni sociali previste dalla legge e dirette ai soci e al pubblico (i tre veicoli necessari per la realizzazione dei reati e degli illeciti amministrativi punitivi di cui agli artt. 2621 e 2622 cod. civ. - testi del 2002/2005), ancora una volta si arrivava alla conclusione che il richiamo alle valutazioni aveva soltanto la portata di escludere le opinioni di natura soggettiva, i pronostici, le previsioni, tanto da legittimare l'osservazione di alcuni per la quale la pregressa formula "fatti non rispondenti al vero" di cui all'art. 2621, n. 1, cod. civ.0. conduceva in modo più semplice alle stesse risultanze.

Con la formula "ancorché oggetto di valutazioni", si affermò, il legislatore aveva voluto solo chiarire che pure la falsità nelle valutazioni di bilancio era penalmente rilevante: si trattava, secondo tale impostazione, solo di una chiarificazione linguistica avente valenza concessiva.

È opportuno osservare che l'espressione "fatti materiali ancorché oggetto di valutazione" comparve nel panorama legislativo per la prima volta nella relazione al Progetto "Mirone", nella parte in cui si forniva una spiegazione del termine "informazioni", utilizzato, dai redattori del Progetto, in luogo del termine "fatti". Nella relazione si spiegava come si sarebbe dovuto interpretare il termine "informazioni", affermando che avrebbe dovuto essere sempre riferito a fatti materiali, ancorché oggetto di valutazioni, esulando dall'ambito della fattispecie le sole previsioni, i soli pronostici, l'enunciazione di progetti o simili: ossia valutazioni di natura schiettamente soggettiva, con le quali non sarebbe stato compatibile un giudizio basato sull'antitesi vero-falso.

Il termine "informazioni" equivaleva, cioè, a quello "fatti materiali, ancorchè oggetto di valutazioni".

Inoltre, nella stessa legge delega per la riforma del diritto societario n. 366 del 3 ottobre 2001, comparve espressamente il termine "informazioni", utilizzato in luogo dell'espressione "fatti materiali"; il legislatore delegante specificò che le «informazioni false od omesse devono essere rilevanti e tali da alterare sensibilmente la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società».

Il dato che il legislatore, in sede di conferimento della delega legislativa, avesse adottato il termine "informazioni", sostanzialmente quale sinonimo dell'espressione poi introdotta nelle fattispecie di cui agli artt. 2621 e 2622 cod. civ. e con lo stesso significato indicato nel progetto "Mirone", poteva far riflettere sull'effettivo significato dell'espressione "fatti materiali non rispondenti al vero" e sulla sua effettiva portata.

Se nel Progetto Mirone, ispiratore della riforma del 2002, il riferimento al termine "informazioni" ed al carattere materiale dei fatti esposti era funzionale all'esclusione del rilievo penale solo di tutti quegli apprezzamenti "schiettamente" soggettivi, pur rinvenibili nei bilanci societari, ma insuscettibili di una considerazione in termini di verità-falsità, la indubbia analogia terminologica con la legge delega parve porre in evidenza come anche il testo del 2002 avesse lo scopo di escludere dall'ambito di applicazione delle fattispecie solo i pronostici, i progetti, le dichiarazioni di intenti, le previsioni, et similia. In tal senso è stato valorizzato un altro argomento[1].

La formula "fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni" piacque ai compilatori della riforma del 2002 al punto che ne fecero uso diffuso, posto che anche il delitto di "Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza" (art. 2638 cod. civ.) punisce l'esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni, nelle comunicazioni previste in base alla legge alle autorità pubbliche di vigilanza.

Nell'anticipare che tale fattispecie non è stata oggetto di considerazione da parte del legislatore del 2015, va ricordato che la Corte di cassazione, nell'attribuire al sintagma "ancorchè oggetto di valutazioni" una valenza semantica concessiva, ritenne configurabile il reato di cui all'art. 2638 cod. civ. anche nel caso in cui la falsità fosse contenuta in giudizi estimativi delle poste di bilancio, "atteso che dal novero dei 'fatti materiali' indicati dalla attuale norma incriminatrice come possibile oggetto di falsità vanno escluse soltanto le previsioni o congetture prospettate come tali, vale a dire quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo e l'espressione, riferita agli stessi fatti, 'ancorché oggetto di valutazioni', va intesa in senso concessivo, per cui, in ultima analisi, l'oggetto della vigente [nel 2005, anno della pronuncia] norma incriminatrice viene a corrispondere a quello della precedente, che prevedeva come reato la comunicazione all'autorità di vigilanza di fatti non corrispondenti al vero" (Sez. 5, n. 44702 del 28/9/2005, Mangiapane, Rv. 232535, in cui, in applicazione di tale principio, la Corte annullò la decisione di merito che aveva escluso la configurabilità del reato in un caso in cui la falsità era stata ravvisata nella dolosa sopravalutazione della posta di bilancio di un istituto bancario relativa ai crediti vantati nei confronti della clientela per avvenuta concessione di mutui e risultati, in effetti, di difficile o impossibile recupero; nello stesso senso, più recentemente, Sez. 5, n. 49362 del 7/12/2012, Consorte).

2.2. (Segue) La legge n. 69 del 2015. Cenni.

La disciplina introdotta con il d.lgs. n. 61 del 2002 era subito apparsa tale da approntare una risposta sanzionatoria da un lato sostanzialmente bagatellare, dall'altro di dubbia effettività e dissuasività, e comunque, nel complesso, incapace di offrire un adeguato argine di tutela alla corposità degli interessi in gioco, anche perché pesantemente condizionata dalla brevità dei termini prescrizionali (specie in relazione all'ipotesi contravvenzionale, art. 2621), dalla procedibilità a querela (prevista nell'ipotesi delittuosa, in relazione alle società "non 41 quotate", ai sensi dell'art. 2622, comma primo), oltre che da scelte tecniche originali, quali il sistema delle "soglie di rilevanza", scandite da precisi riferimenti percentuali al di sotto dei quali la falsità realizzata diveniva "quantità trascurabile".

In questa cornice si colloca la riforma operata dalla 1. 27 maggio 2015, n. 69[2].

La struttura delle nuove fattispecie, si sostiene, sembra restituire centralità alla "trasparenza societaria" come interesse meritevole di tutela, operando una profonda ristrutturazione sul piano della tipicità/offensività delle condotte punite come sul fronte della colpevolezza; si ripristina il regime ordinario di procedibilità d'ufficio (salvo che per le falsità minori realizzate in seno a "società che non superano i limiti indicati dal secondo comma dell'articolo 1 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267" ai sensi dell'art. 2621-bis cod. civ., comma secondo, procedibili a querela); si eliminano, soprattutto, le soglie di rilevanza, che garantivano una sorta di "franchigia" ove la falsità realizzata fosse restata al di sotto di precipui valori percentuali; sul fronte sanzionatorio, soprattutto, si ambisce a restituire effettività ai nuovi presidi penali.

A quest'ultimo riguardo, si è sottolineano come la più ampia area di operatività e le nuove severe cornici edittali che accompagnano gli artt. 2621 e 2622 - consentendo l'applicazione di misure cautelari personali (coercitive ed interdittive) e, nel secondo caso, anche l'impiego di mezzi di ricerca della prova particolarmente penetranti, come le intercettazioni telefoniche e "ambientali" - restituiscano "pregnanza inquisitoria" ai reati in esame, specie nella prospettiva che li collega alle dinamiche corruttive, a partire dal "margine di azione" garantito al pubblico ministero in sede di indagini in punto di acquisizione delle relative prove[3].

Sotto il profilo sistematico, la precedente bipartizione tra contravvenzione di pericolo (art. 2621 nella versione precedente) e delitto di danno (art. 2622) viene superata e sostituita da una diversa distinzione, declinata non più sulla diversa gradazione offensiva della condotta ma sulla differente tipologia del contesto societario ove può realizzarsi la falsità: ad una fattispecie "generale" di "false comunicazioni sociali" dedicata alle società non quotate (art. 2621), di natura delittuosa e punita con la pena della reclusione da uno a cinque anni, si affianca ora una ipotesi speciale, sempre delittuosa, concernente le "False comunicazioni sociali delle società.

È stata confermata l'architettura a "piramide punitiva" degli illeciti in materia di false comunicazioni sociali, ma la struttura dell'impianto è fondata da soli delitti, essendosi abbandonato il modello contravvenzionale che caratterizzava la previgente incriminazione contenuta nell'art. 2621 cod. civ. per le aziende non quotate in Borsa, nonché l'illecito amministrativo introdotto nel 2005 all'interno delle figure in questione (l. n. 262 del 2005).

Al livello più basso della piramide si pongono le due meno gravi figure delittuose dei fatti di lieve entità (art. 2621-bis cod. civ.), la cui cornice edittale è da sei mesi a tre anni di reclusione; per la seconda ipotesi di lieve entità, basata sul concetto di imprenditore commerciale non fallibile, è altresì stabilita la procedibilità a querela della società, soci e altri destinatari della comunicazione sociale.

Al gradino intermedio è stato collocato il delitto di false comunicazioni sociali di cui all'art. 2621 cod. civ.

Al vertice della piramide è posto l'art. 2622 cod. civ., con riferimento alle società quotate in Italia o in altri mercati regolamentati dell'Unione Europea (l'art. 2622, comma 2, cod. civ. equipara alle citate società quotate altre tipologie: le società che hanno fatto richiesta di ammissione alla Borsa, le società che emettono strumenti finanziari in un sistema multilaterale di negoziazione, le società controllanti e quelle che fanno appello al pubblico risparmio o lo gestiscono)[4].

3. L'oggetto materiale e le condotte tipiche: esposizione non veritiera/omissione di fatti materiali: il c.d. falso qualitativo.

Si è sostenuto che l'art. 2621 cod. civ. costituisca il risultato di un lavoro di sottrazioni e di aggiunte rispetto ai primi due commi della corrispondente fattispecie ora sostituita.

La condotta consiste nella esposizione "nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, ( . . . )" di "fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero" ovvero in quella di omettere "fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore".

In sintesi: i "fatti materiali", non ulteriormente qualificati, sono l'oggetto tipico della sola condotta di esposizione contemplata dall'art. 2622 cod. civ.; diversamente i «fatti materiali rilevanti» costituiscono l'oggetto tipico dell'omessa esposizione nel medesimo art. 2622 cod. civ. e rappresentano anche l'oggetto della condotta tipica - sia nella forma commissiva, sia nella forma omissiva - nell'art. 2621 cod. civ.

Entrambe le condotte devono riguardare la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene.

Si è affermato che l'eliminazione delle "franchigie percentuali" elimini i dubbi che - sotto la normativa previgente - si erano assiepati sulla rilevanza penale del falso c.d. qualitativo, cioè di una falsità relativa non all'entità numerica del dato di bilancio, ma alla semplice causale di una appostazione che però rimane "vera" sotto il profilo contabile.[5] Sotto altro profilo, si sottolinea, l'elemento della "rilevanza" è perfettamente in linea con l'autorevole interpretazione del testo del falso in bilancio nella formulazione del 1942, dove si richiedeva che il falso alterasse in misura apprezzabile il quadro d'insieme e fosse, quindi, in grado di sviare le determinazioni dei soci, dei creditori o del pubblico, reputandosi essenziale una componente di "immutazione del vero", in ossequio alla tradizionale concezione del falso penalmente rilevante inteso in chiave di pericolosità concreta.

Resta sullo sfondo il tema della individuazione della soglia di rilevanza.

Secondo la dottrina, si tratta di una soglia mobile: la rilevanza deve essere circoscritta a quei "fatti materiali" capaci in concreto di influenzare il giudizio dei soci o di terzi sullo stato economico o patrimoniale della società. Si sarebbe al cospetto di un giudizio prognostico circa il grado di influenza sulle decisioni economiche che potrebbero essere prese dai destinatari dell'informazione.

In questa prospettiva, dunque, si sostiene che può ritenersi "rilevante" solo la falsità che ricada su dati informativi "essenziali" e che, conseguentemente, risulti atta a modificare le decisioni operative dei destinatari, ad una valutazione necessariamente riferita al caso specifico oggetto di analisi; del resto, è in questa accezione che l'aggettivo è utilizzato anche nel lessico della normativa comunitaria, che definisce "rilevante" lo stato dell'informazione "quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio dell'impresa", precisando che "la rilevanza delle singole voci è giudicata nel contesto di altre voci analoghe"[6].

4. La giurisprudenza: l'orientamento favorevole all'abrogazione parziale del falso valutativo.

In tale contesto si collocano le poche sentenze che hanno preceduto la pronuncia delle Sezioni Unite.

La tesi che per prima si è affacciata nell'interpretazione della nuova formulazione dell'art. 2621 cod. civ. da parte della giurisprudenza della Corte di cassazione ha sostenuto l'abrogazione parziale della precedente fattispecie di reato, con eliminazione dallo stesso dettato normativo delle condotte di falso "valutativo".

La prima delle due pronunce espressione di tale orientamento è Sez. 5, n. 33774 del 16/6/2015, Crespi, Rv. 264868, in tema di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario, di cui all'art. 223, comma 2, n. 1, R.D. 16 marzo 1942 n. 267, là dove si è affermato che: la nuova formulazione degli artt. 2621 e 2622 cod. civ., introdotta dalla L. 27 maggio 2015, n. 69, ha determinato - eliminando l'inciso "ancorchè oggetto di valutazioni", ed inserendo il riferimento, quale oggetto anche della condotta omissiva, ai "fatti materiali non rispondenti al vero" - una successione di leggi con effetto abrogativo, peraltro limitato alle condotte di errata valutazione di una realtà effettivamente sussistente.

In applicazione del principio, la Corte di cassazione ha ritenuto, tuttavia, escluse dall'effetto parzialmente abrogativo l'esposizione di crediti inesistenti perché originati da contratti fittizi, l'esposizione di crediti concernenti i ricavi di competenza dell'esercizio successivo, l'esposizione di crediti relativi ad una fattura emessa per operazioni inesistenti, poiché riferibili a condotte sussumibili nella categoria dei falsi materiali e non già di quelli cd. "valutativi".

Sez. 5, n. 6916 del 8/01/2016, Banca Popolare dell'Alto Adige, Rv. 265492, ha ribadito l'affermazione di parziale abrogazione riferita ai reati di cui agli artt. 2621 e 2622 cod. civ., ritenendo, tuttavia, escluse dall'effetto parzialmente abrogativo l'esposizione di crediti materialmente falsi perché indicati con un valore difforme dal dato reale e perché descritti come certi, laddove, invece, essi avevano natura solo potenziale in quanto oggetto di contenzioso.

A fronte di una pacifica ed espressa adesione al principio di diritto enunciato dalla sentenza "Crespi", la pronuncia n. 6916 del 2016 propone infatti una peculiare specificazione della tesi preferita.

Entrambe le citate pronunce, sviluppano la motivazione analizzando le ragioni che depongono nel senso della parziale abrogazione.

Vengono, in tal modo, individuati alcuni indici ermeneutici:

A). Dato testuale.

Si è constata l'eliminazione dell'inciso "ancorchè oggetto di valutazioni" - presente nel precedente testo -, che seguiva il riferimento ai "fatti materiali non rispondenti al vero", oggi rinominati "fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero", con aggiunta dell'aggettivazione "rilevanti" sia per la condotta omissiva che per quella commissiva di falso in bilancio.

Si è evidenziato che l'espunzione delle "valutazioni" dalla disposizione normativa non può non essere priva di significato, contrariamente a quanto affermato da parte della dottrina.

B). La volontà legislativa.

La modifica della fattispecie omissiva dell'art. 2621 cod. civ. - passata, con la legge del 2015, dalla precedente formulazione di "informazioni", omesse nonostante l'obbligo di legge, a quella, omologa all'ipotesi commissiva, di "fatti materiali rilevanti", la cui comunicazione è imposta dalla legge, sarebbe espressione della volontà legislativa di circoscrivere l'area del penalmente perseguibile alle sole condotte, omissive o commissive che siano, non integranti "falsi valutativi"; le valutazioni erano, secondo la tesi in esame, pacificamente ricomprese nella nozione di "informazioni", espressamente sostituita nella prima versione dell'art. 4 del disegno di legge 13.3.2013 n. 19, lavoro legislativo prodromico all'adozione del testo della legge n. 69 del 2015.

C). Criterio sistematico.

I testi riformati degli artt. 2621 e 2622 cod. civ. si inserirebbero in un quadro normativo in materia di reati societari che vede ancora un esplicito riferimento alle valutazioni nell'art. 2638 cod. civ. (Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza) quale specificazione contenutistica della locuzione "fatti materiali non rispondenti al vero".

Un'interpretazione corretta dal punto di vista sistematico, ancorata al criterio "ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit", avrebbe dovuto valorizzare il contesto complessivo delle modifiche normative intervenute nel sistema della rilevanza penale delle false comunicazioni sociali.

Il legislatore, invece, escludendo il riferimento alle "valutazioni" nell'art. 2621 cod. civ., ma tenendolo fermo nel successivo art. 2638, avrebbe manifestato uno specifico intento mirato ad escludere la rilevanza penale delle stesse dalla sola ipotesi delle false comunicazioni sociali.

Come già anticipato, deve sottolinearsi che, al di là del richiamo espresso alla condivisione della sentenza "Crespi", la successiva pronuncia della Corte fa seguire, alle omogenee affermazioni sull'intervenuta abrogazione parziale del falso in bilancio valutativo e sulle numerose spie interpretative dalle quali desumerla, alcuni significativi, ulteriori, elementi di ragionamento.

Si fa riferimento ad un indice "semantico": l'aggettivo "materiali", riferito ai "fatti" non rispondenti al vero oggetto di false comunicazioni sociali, non sarebbe leggibile solo con valenza contraria a quella di "immateriale", bensì conterrebbe un'accezione riconducibile all'oggettività dei fatti, in quanto tale estranea ai risultati valutativi.

Si rivisita criticamente la tesi dottrinaria che riteneva - in analogia alla realtà del diritto societario angolosassone - la qualificazione di "fatti materiali" omologa a quella di "fatti rilevanti", sminuendo, in tal modo, il carattere di riferimento della disposizione di cui all'art. 2621 cod. civ. ai soli fatti non oggetto di valutazione e, ovviamente, il valore della clausola sulle valutazioni oggi espunta.

Secondo questa decisione sarebbe proprio il testo normativo introdotto dalla legge n. 69 del 2015 a provare come tale argomento sia errato: il legislatore ha indicato i fatti penalmente rilevanti utilizzando l'espressione "fatti materiali rilevanti", sicchè non possono che essere interpretate come due qualificazioni distinte quella della "materialità" e quella della "rilevanza" dei fatti, a meno di non voler ritenere la precisazione normativa del tutto superflua.

Da tali argomentazioni, l'orientamento in esame ha fatto discendere il corollario secondo cui la soppressione del riferimento normativo "ancorchè oggetto di valutazioni" "ha ridotto l'estensione incriminatrice della norma alle appostazioni contabili che attingono fatti economici materiali, escludendone quelle prodotte da valutazioni, pur se moventi da dati oggettivi" (così, Sez. 5, n. 6916 del 2016, cit.).

In entrambe le pronunce in esame, nonostante l'opzione di abrogazione parziale del reato, si è tuttavia precisato come le voci di bilancio direttamente riferibili ai "fatti materiali" siano tutt'altro che esigue.

La sentenza "Crespi" vi ha ricompreso: i ricavi falsamente incrementati, i costi non appostati, le false attestazioni di esistenza di conti bancari, l'annotazione di fatture emesse per operazioni inesistenti, l'iscrizione di crediti non più esigibili per l'intervenuto fallimento dei debitori in mancanza di attivo, la mancata svalutazione di una partecipazione in una controllata della quale sia stato dichiarato il fallimento e l'omessa indicazione della vendita o dell'acquisto di beni o dell'esistenza di un debito per il quale sia in atto un contenzioso nel quale la società è soccombente (e, conformemente a queste indicazioni, individua come punibili, con specifico riguardo alla vicenda processuale trattata, l'iscrizione all'attivo di crediti derivanti da contratti fittizi, da fatture relative ad operazioni inesistenti o da fatture da emettere in violazione dei criteri sulla competenza).

La sentenza "Banca Popolare dell'Alto Adige" ha condiviso il paradigma definitorio riportato nella prima decisione in ordine al falso valutativo: costituisce falso valutativo l'associazione di un dato numerico ad una realtà economica esistente.

Tuttavia, secondo la pronuncia sarebbe necessario distinguere le situazioni nelle quali l'associazione di un valore numerico ad una determinata realtà può essere considerata come il risultato di una valutazione, da quelle in cui attraverso un'operazione di questo genere si fornisce di fatto una rappresentazione difforme dal vero della stessa realtà materiale.

Qualora il valore numerico sia esposto con modalità che ne escludano la percepibilità come esito di una valutazione, e siano pertanto idonee ad indurre in errore i terzi sulla stessa consistenza fisica del dato materiale, potrà ritenersi che il falso cada in realtà su quest'ultimo, venendo pertanto ad essere integrata, anche nella nuova formulazione, la fattispecie incriminatrice.

4.1. (Segue). La sentenza che esclude l'abrogazione parziale.

Contrapposta all'orientamento esaminato, Sez. 5, n. 890 del 12/11/2015 (dep. 12/01/2016), Giovagnoli, Rv. 265691, ha affermato la continuità normativa e la completa sovrapponibilità tra il testo della disposizione di cui all'art. 2621 cod. civ. ante novella del 2015 e quello successivo a tale intervento di modifica.

La pronuncia considera il falso "valutativo" (o estimativo) ancora attualmente ricompreso nell'indicazione normativa di cui all'art. 2621 cod. civ., nonostante l'eliminazione dal testo della disposizione dell'inciso "ancorchè oggetto di valutazioni" ad opera della legge n. 69 del 2015.

In particolare, la sentenza ha enunciato il principio secondo cui, nell'art. 2621 cod. civ., il riferimento ai "fatti materiali" oggetto di falsa rappresentazione non vale a escludere la rilevanza penale degli enunciati valutativi, che sono anch'essi predicabili di falsità quando violino criteri di valutazione predeterminati.

Qualora infatti le valutazioni intervengano in contesti che implichino accettazione di parametri normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi, anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere ad una funzione informativa e possono, quindi, dirsi veri o falsi.

La sentenza è giunta a tale conclusione premettendo un quadro ricostruttivo della disciplina in tema di falso in bilancio e sottolineando come la nuova formulazione letterale dell'art. 2621 cod. civ. costituisca l'epilogo di un processo di continua trasformazione nel tempo del dato positivo, di cui si è già detto.

La motivazione della sentenza, per scelta consapevole, si è confrontata prevalentemente con il dato attuale della norma e del contesto di disposizioni in cui essa si muove, per una lettura "storicizzata" della volontà "della legge" e di natura sistematica, senza che possano assumere alcun valore le contingenti intenzioni "del legislatore".

Il canone ermeneutico di riferimento invocato è l'art. 12 delle preleggi e sono indicati gli elementi che conducono a ritenere punibili anche sotto l'attuale disciplina legislativa i falsi "valutativi", emergenti sulla base di un'indagine testuale cui deve associarsi il richiamo al canone logico-sistematico ed a quello teleologico, ai fini della compiuta focalizzazione dell'impatto della novella sull'assetto normativo preesistente:

A). Criterio interpretativo testuale.

Secondo la sentenza in esame, la rimozione dal testo previgente della locuzione "ancorché oggetto di valutazioni" non potrebbe, di per sé, assumere alcuna decisiva rilevanza.

Tale proposizione avrebbe natura tipicamente "concessiva", introdotta da congiunzione (ancorché) notoriamente equipollente ad altre tipiche e similari ("sebbene", "benché", "quantunque", "anche se" et similia), sicchè le si dovrebbe attribuire una finalità ancillare, meramente esplicativa e chiarificatrice del nucleo sostanziale della proposizione principale.

La proposizione concessiva avrebbe, in tale ottica, una funzione prettamente esegetica e non additiva, di talché la sua soppressione nulla aggiungerebbe o toglierebbe al contesto semantico di riferimento, così come la sua elisione non potrebbe autorizzare la conclusione che si sia voluto immutare l'ambito sostanziale della punibilità dei falsi materiali.

B). Criterio sistematico.

I concetti di "fatto", "materialità", "rilevanza" non avrebbero una accezione comune ma si caratterizzerebbero per il tecnicismo del contesto in cui vengono spesi, con particolare riferimento alle terminologie anglosassoni dalle quali per molta parte promanano, anche per il necessario adeguamento in chiave di omogeneizzazione legislativa tra il nostro ordinamento e quello europeo ed internazionale.

Si è sostenuto che il termine "materialità" sarebbe sostanzialmente sinonimo di essenzialità, nel senso che, nella redazione del bilancio, devono trovare ingresso - ed essere valutati - solo dati informativi "essenziali" ai fini dell'informazione, restandone al di fuori tutti i profili marginali e secondari, per assicurare, ai sensi dell'art. 2423 cod. civ., quella «rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società e del risultato economico di esercizio».

Allo stesso modo, l'aggettivo "rilevante" sarebbe di stretta derivazione dal lessico della normativa comunitaria, riconnettendosi al concetto di rilevanza sancito dall'art. 2, punto 16, della Direttiva 2013/34/UE (relativa ai bilanci di esercizio, ai bilanci consolidati ed alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, recepita nel nostro ordinamento con d.lgs. 14/08/2015, n. 136, entrato in vigore il 16/09/2015), che definisce "rilevante" lo stato dell'informazione «quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio dell'impresa», con la precisazione che «la rilevanza delle singole voci è giudicata nel contesto di altre voci analoghe».

Il concetto di "rilevanza" (al pari della materialità) dovrebbe, dunque, secondo la sentenza in esame, essere apprezzato in rapporto alla funzione precipua dell'informazione, cui sono preordinati i bilanci e le altre comunicazioni sociali dirette ai soci ed al pubblico, nel senso che l'informazione non deve essere "fuorviante", tale, cioè, da influenzare, in modo distorto, le decisioni degli utilizzatori.

"Materialità" e "rilevanza" dei fatti economici da rappresentare in bilancio costituirebbero, allora, facce della stessa medaglia ed entrambe sarebbero postulato indefettibile di "corretta" informazione. In siffatta prospettiva ermeneutica - si dice - anche il lemma "fatto" non potrebbe essere inteso nel significato comune, ossia come fatto/evento del mondo fenomenico, quanto, piuttosto, nell'accezione tecnica, certamente più lata, di dato informativo della realtà che i bilanci e le altre comunicazioni, obbligatorie per legge, sono destinati a proiettare all'esterno.

Alla luce di tali argomentazioni, la Corte ha ritenuto che nessun ostacolo sussista quanto alla configurabilità della falsità riguardante gli enunciati descrittivi - ossia le mendaci esposizioni in bilancio, nelle allegate relazioni od in altre obbligatorie comunicazioni - di "fatti di rilievo" (nel senso anzidetto) verificatisi nel corso della gestione o quant'altro di interesse nella logica della corretta informazione.

L'occultamento ovvero l'esposizione non rispondente al vero di dati "rilevanti" in enunciati descrittivi integra, certamente, l'ipotesi della falsità prevista dall'art. 2621 cod. civ. Il problema, invece, si pone avuto riguardo al falso c.d. valutativo, ossia alla falsa rappresentazione del fatto oggetto di valutazione.

La sentenza, partendo dalla constatazione di ordine comune che il bilancio si compone, per la stragrande maggioranza, di enunciati estimativi o valutativi, frutto di operazione concettuale consistente nell'assegnazione a determinate componenti (positive o negative) di un valore, espresso in grandezza numerica, ha ritenuto che non possa dubitarsi che nella nozione di rappresentazione dei fatti materiali e rilevanti (da intendere nelle accezioni anzidette) siano da ricomprendersi anche - e soprattutto - tali valutazioni.

La Corte ha operato inoltre, un parallelismo con la giurisprudenza in tema di falso ideologico, tema che, si dice, presenta affinità concettuale con quello delle false valutazioni in bilancio.

C). I rapporti con l'art. 2638 cod. civ.

Infine, si individua anche un argomento contrario al rilievo della tesi contrapposta, già esaminato, riferito alla comparazione del nuovo testo dell'art. 2621 cod. civ. con l'attuale testo dell'art. 2638 cod. civ., che comporterebbe l'applicazione di un criterio interpretativo secondo cui il legislatore, dove ha voluto ritenere la punibilità delle valutazioni lo ha fatto esplicitamente e, dove non ha voluto, ha eliminato il riferimento normativo.

Secondo la sentenza "Giovagnoli", tale argomento sarebbe privo di reale significato: esso, si dice, avrebbe valore solo in presenza di identità delle fattispecie di riferimento, ove invece quelle in esame (rispettivamente previste dagli artt. 2621 e 2638 cod. civ.) hanno natura ed obiettività giuridiche diverse e perseguono finalità radicalmente differenti. Ad ulteriore conferma dell'irrilevanza di tale confronto, si propone un'ulteriore argomentazione: a voler seguire la tesi della sentenza Crespi (e della successiva sentenza n. 6916 del 2016) si avrebbe il risultato paradossale - e forse di dubbia costituzionalità - che la redazione di uno stesso bilancio, recante falsi valutativi, sarebbe penalmente irrilevante se diretto ai soci ed al pubblico e penalmente rilevante se rivolto alle autorità pubbliche di vigilanza.

5. La Dottrina: la tesi del falso valutativo penalmente irrilevante.

Anche in dottrina si sono formati, parallelamente a quanto accaduto nella giurisprudenza della Corte di cassazione, due orientamenti contrapposti in ordine agli effetti provocati dalla legge n. 69 del 2015.

Si è già detto di come, a seguito della citata novella, la falsità commissiva consiste nell'esporre "fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero".

Parallelamente, la condotta omissiva, che nella precedente formulazione concerneva le "informazioni" oggetto di doverosa comunicazione ai sensi di legge ("[ . . . ] ovvero omettendo informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge [ . . . ]"), è ora riferita a "fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge" (formulazione analoga sia nell'art. 2621 che nell'art. 2622).

Siffatte modifiche, unitamente alla eliminazione della relativa soglia percentuale, hanno nuovamente aperto la questione interpretativa sul perdurante rilievo delle falsità insinuate nelle cc.dd. "valutazioni estimative".

Secondo una parte della dottrina, le nuove fattispecie non contemplerebbero più le valutazioni di bilancio come veicolo di falsità penalmente significativa, "salvo i casi di interpretazione tanto creativa quanto contra legem".

Si è così ravvisata "una chiara ipotesi di abolitio criminis per discontinuità normativa" rispetto alla disciplina previgente e si è rilevato che "il passaggio tout court alla tipizzazione del mendacio che abbia ad oggetto i (soli) "fatti materiali" pare davvero porre termine alla risalente querelle per erigere un argine, a questo punto davvero invalicabile, all'attribuzione di rilevanza penale a qualsivoglia procedimento valutativo": il rilievo attribuito con il nuovo reato del 2015 ai "fatti materiali" esclude ogni riferimento alle valutazioni[7].

Le varie argomentazioni addotte, che hanno ovviamente preso avvio e spunto della soppressione dell'inciso "ancorché oggetto di valutazioni", si fondano, nello specifico, sia sulla considerazione che nel testo definitivo delle fattispecie il legislatore ha "abbandonato" il termine (adottato nel d.d.l. n. 1921) "informazioni" quale indicatore degli oggetti materiali delle condotte, termine che certamente sarebbe stato idoneo a ricomprendere le valutazioni, sia sulla aggiunta dell'aggettivo "materiali" al termine "fatti".

Si è rafforzata la considerazione che una valutazione può essere non corretta, ma mai falsa, poiché il falso consiste nella non corrispondenza tra un fatto e la sua descrizione, con contenuto e risultato ingannatorio e l'esposizione di fatti materiali falsi non si concilia con la valutazione scorretta.

Si è altresì evidenziato come il legislatore non sia nuovo all'utilizzo del termine fatti materiali: in tale senso si fa riferimento all'ipotesi di frode fiscale prevista dall'art. 4, lett. f), della L. n. 516/1982, così come modificata dalla L. n. 154/1991, a norma della quale veniva punita l'utilizzazione di "documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero", nonché il compimento di "comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento di fatti materiali". Una tale formulazione del dato normativo comportava, secondo l'interpretazione che ne fu data, l'irrilevanza penale di qualsiasi valutazione, anche se assurda, recepita nella dichiarazione dei redditi.

Dunque, la locuzione "fatti materiali", utilizzata dal legislatore, sarebbe particolarmente collaudata, perlomeno in tutte quelle che ne sono le limitazioni, cosicché risulterebbe davvero pregno di significato il passaggio dai "fatti" previsti dal legislatore del 1942 agli odierni "fatti materiali", espressamente lasciati orfani di quell'aggancio alle "valutazioni", che, invece, aveva voluto il legislatore del 2002, anche ricorrendo all'esplicita previsione di una soglia di punibilità calibrata proprio su di esse (art. 2621, comma 4, cod. civ., nonché art. 2622, comma 8, cod. civ.).

5.1. (Segue) La nozione di falsa valutazione e i limiti alla interpretazione del giudice.

Anche tra coloro che ritengono che le "nuove false comunicazioni sociali" non comprendano il falso valutativo, sono state registrate opinioni di Autorevoli commentatori che, seppur rimanendo nel solco dell'affermazione di principio, hanno fortemente ridimensionato lo stesso concetto di falso valutativo e la sua portata operativa.

È diffusa l'affermazione, anche tra i sostenitori dell'"abolitio", che, per quanto attiene direttamente ai bilanci, l'esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero si verificherà ogniqualvolta si iscriveranno attività o passività inesistenti, cioè, quando le varie appostazioni siano relative a fatti privi di riscontro nella realtà oggettiva o perché oggettivamente non esistenti o perché esistenti in forma diversa da quella rappresentata dall'agente; sarà, inoltre, rilevante penalmente la falsità qualora nella nota integrativa si assumano circostanze non vere.

Si tratta di impostazioni che, al di là dell'affermazione di principio e della rivisitazione della sentenza "Giovagnoli" riducono sensibilmente l'area della discontinuità normativa tra la nuova e la vecchia fattispecie di cui all'art. 2621 cod. civ. e che sembrano essere state tenute in considerazioni nella stessa motivazione della sentenza n. 6916 del 2016, Banca Popolare dell'Alto Adige.

Si è sostenuto che la "non rispondenza al vero dei fatti materiali" presuppone la rappresentazione attraverso il bilancio di beni o di fatti di gestione che non trovano corrispondenza - qualitativa o quantitativa - nella realtà fenomenica sottostante; in questo senso, si deve poter esprimere un giudizio di verità/falsità 'in senso forte', cioè nei termini semantici di corrispondenza alla realtà dei fatti empiricamente verificabili: rileverebbe, ad esempio, la rappresentazione di profitti, ricavi, spese, costi registrati ma non realizzati oppure realizzati e non fedelmente riportati, ovvero quella di disponibilità bancarie o finanziarie non corrispondenti a quelle reali, o, ancora, la disponibilità di crediti o debiti inesistenti o comunque quantitativamente alterati rispetto alla realtà sottostante.

Spostando l'attenzione sul processo formativo del bilancio d'esercizio, la "falsità materiale" sarebbe integrata, in sostanza, tutte le volte in cui la rappresentazione di bilancio non traduca fedelmente il contenuto della documentazione contabile che registra l'attività d'impresa (tipicamente, nella fase del recepimento nel bilancio delle fatture commerciali), o quando recepisca documentazione contabile che, a sua volta, abbia alterato la realtà negoziale sottostante (tipicamente, attraverso l'emissione di fatture false)[8].

L'approccio interpretativo indicato è stato richiamato da altra dottrina che, tuttavia, pur nella consapevolezza che è "ragionevole affermare che la disposizione che intenda punire il falso in bilancio deve includere in quell'orbita gli enunciati valutativi", ha sottolineato la assoluta necessità, in nome del principio di legalità, che detto principio prevalga su logica e ragionevolezza, non potendo il giudice "violare la riserva di legge per ricondurre a logica e a ragionevolezza una norma che tale non è"[9].

Un ruolo essenziale per analizzare e chiarire le informazioni contenute nel bilancio dovrebbe riconoscersi alla nota integrativa che ha lo scopo di fornire ogni informazione utile a rendere intellegibile e chiaro ogni valore esposto nello stato patrimoniale e nel conto economico. Nella nota integrativa sono contenuti criteri di valutazione che costituiscono un dato oggettivo, cioè un fatto materiale la cui mancata corrispondenza nella redazione del bilancio darebbe luogo alla esposizione di fatti materiali falsi. In questa maniera, nella mancata corrispondenza tra il prescelto ed il dichiarato potrebbero essere recuperate le valutazioni estimative nel paradigma del falso in bilancio[10].

6. La tesi della persistente rilevanza del falso valutativo. Le argomentazioni legate al dato letterale della disposizione di legge.

Secondo altro indirizzo, il falso c.d. valutativo continuerebbe ad essere invece penalmente rilevante[11].

Sono state valorizzate, argomentazioni legate, da una parte, al dato letterale della legge, e, dall'altra, di tipo sistematico.

In relazione alle prime, si è fatto notare:

A) Quanto alla locuzione "fatti materiali", lo snodo è stato quello concernente l'uso del termine «fatti» legato all'aggettivo «materiali», che tenderebbe, secondo la diversa impostazione, semanticamente a rafforzare il dato della concretezza, della fisicità della cosa.

Si è posto tuttavia in evidenza che:

- l'intenzione del legislatore, qualsiasi essa fosse al momento dell'attuale intervento, non può di per sé sola valere a superare il dato ricavabile dalla norma nella sua lettura sistematica, posto che, il riscontro letterale non ha, di norma, un effetto preclusivo, né, nella specie, appare preclusivo di altra interpretazione;

- il termine "fatto" compariva, come detto, già nell'art. 2621 cod. civ. preesistente alla riforma del 2002 e, al riguardo, come pure detto, sostanzialmente non si dubitava dell'esattezza dell'insegnamento per il quale detto termine «sottintende un'esigenza di specificità e concretezza che consenta una verifica di conformità al vero. . . non sono fatti gli apprezzamenti puramente qualitativi, a meno che nel contesto del discorso siano traducibili in dati oggettivi, come tali verificabili. Non possono invece contrapporsi ai fatti le valutazioni di bilancio, espressive di componenti patrimoniali di cui non è dato negare la consistenza economica ( . . . ) Le previsioni sono fatti in quanto attualizzate nella valutazione di cespiti ( . . . ) o nella rappresentazione di potenzialità di anticipato impatto economico ( . . . ). La prospettazione di sviluppi futuri ( . . . ) non vale come fatto; ma sono fatti gli indici tratti dall'andamento aziendale che supportano le previsioni. Sono fatti anche i programmi aziendali, purché non meramente ipotetici, ma consolidati in precise strategie d'impresa in atto o allo studio» [12].

- tali conclusioni sono state recepite anche dalla riflessione giuridica maturata a quasi dieci anni dalle modifiche del 2002: «il richiamo al fatto materiale ha solo la portata di escludere le opinioni di natura soggettiva, i pronostici, le previsioni, ma non certo quelli che sono i dati di realtà sulla base dei quali le opinioni, i pronostici o le previsioni sono elaborati ed offerti e dai quali traggono la loro attendibilità»[13].

Sulla base di tali presupposti si è affermato che "la locuzione "fatti materiali" e, più precisamente, l'apposizione dell'aggettivo "materiali" non contribuisce in alcun modo a dettagliare il significato del termine "fatti", il cui campo semantico rimane comunque invariato, atteso che non avrebbe senso parlare, ad esempio, di "fatti immateriali" o di "fatti spirituali": l'aggettivo "materiali" sarebbe semanticamente irrilevante e privo di valore specificativo.

Secondo l'impostazione in parola, la nozione di fatto rimarrebbe eguale, sia che si arricchisca il termine con l'aggettivo che ne rafforza la valenza, sia che tale componente grammaticale non compaia: l'espressione "fatti materiali non rispondenti al vero" equivarrebbe a quella "fatti non rispondenti al vero".

Di qui l'impossibilità di far discendere alcun argomento a sostegno della tesi della sopravvenuta irrilevanza delle valutazioni, atteso che, come detto, dubbi non sussistevano sulla loro valenza sotto la vigenza del testo precedente alla modifica del 2002.

D'altra parte, si è evidenziato come "se non tutte, perlomeno la quasi totalità delle poste di bilancio altro non è se non il punto di arrivo di altrettanti procedimenti valutativi e, quindi, non può essere in alcun modo ricondotta nell'alveo dei fatti materiali. Ciò soprattutto con riferimento a quelle poste che, come insegna la prassi, più frequentemente sono oggetto di mendacio"[14].

B) Quanto alla eliminazione del sintagma "ancorchè oggetto di valutazioni", si è affermato che tale espressione fu ritenuta, come già detto, sin dalla sua introduzione "frutto di una superfetazione che nulla aggiunge e nulla toglie ai "fatti" di cui al previgente art. 2621 n. 1 c.c." e che, soprattutto, «nell'economia delle nuove fattispecie [id est: quelle post-riforma del 2002] la locuzione "fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni" finisce col risultare in tutto e per tutto equivalente alla tradizionale espressione "fatti non rispondenti al vero"»[15].

L'ambivalenza e la non decisività del sintagma traeva essenzialmente origine dal duplice valore attribuibile alla congiunzione «ancorché»; si sottolineava come il valore semantico della clausola in questione fosse o pressoché nullo, in quanto nessun incremento apportava al sintagma che lo precedeva, ovvero meramente confermativo dell'approdo ermeneutico cui erano giunte dottrina e giurisprudenza maggioritarie con riguardo alla omologa clausola presente nell'art. 2621 cod. civ. in vigore fino alla riforma del 2002.

Si è affermato che per attribuire alla mera non riproduzione della formula «ancorché oggetto di valutazioni» il significato della portata pretesa dalla tesi che intendeva far discendere dalla eliminazione del sintagma la irrilevanza delle valutazioni, si sarebbe dovuta dare per acquisito un dato di presupposizione ulteriore e cioè che alla clausola in discorso fosse (stato) attribuito dall'ermeneutica delle previgenti disposizioni contenuto semantico pregnante, univoco e certo: ma nessuno di tali requisiti assisteva la formula in questione.

Del resto, proprio sul significato del sintagma in questione si era espressa "in termini non equivoci" la stessa Corte di cassazione, che, in relazione all'art. 2638 cod. civ. aveva statuito che «deve ritenersi tuttora configurabile il reato anche nel caso in cui la falsità sia contenuta in giudizi estimativi delle poste di bilancio, atteso che dal novero dei 'fatti materiali', indicati dall'attuale norma incriminatrice come possibile oggetto della falsità, vanno escluse soltanto le previsioni o congetture prospettate come tali, vale a dire quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo, e l'espressione, riferita agli stessi fatti, 'ancorché oggetto di valutazione', va intesa in senso concessivo, per cui, in ultima analisi, l'oggetto della vigente norma incriminatrice viene a corrispondere a quello della precedente, che prevedeva come reato la comunicazione all'autorità di vigilanza di 'fatti non rispondenti al vero'» (Sez. 5, n. 44702 del 28/9/2005, Mangiapane, Rv. 232535; nello stesso senso, più recentemente, Sez. 5, n. 49362 del 7/12/2012, in motivazione).

C) Per quanto riguarda i limiti dell'interpretazione del giudice, la dottrina ha evidenziato come "l'interpretazione non è in se stessa restrittiva o estensiva; essa può giungere invece a risultati i quali, ricavati muovendo dal significato delle parole alla ricerca del senso autentico della norma nell'ambito della realtà in cui è nata o continua a vivere ( . . . ), possono essere più o meno ampi rispetto a quanto apparirebbe da un semplice esame lessicale del testo normativo"[16].

In tal senso, proprio ricercando il "senso autentico della norma nell'ambito della realtà in cui è nata", non si potrebbe non prendere atto del cambiamento di prospettiva tra la riforma del 2002 e la novella del 2015: l'anticipazione della tutela dal danno al pericolo, il sicuro ritorno del falso "qualitativo", vista la soppressione delle soglie di rilevanza quantitativa, il definitivo abbandono del dolo intenzionale, sarebbero chiari segnali della intenzione di far rinascere le false comunicazioni: tale volontà, si assume, sarebbe stata vanificata se si fosse affermata la irrilevanza del falso valutativo.

D) Quanto, invece, al valore relativo alla mancata modifica dell'art. 2638 cod. civ., si è evidenziato, innanzitutto, come la legge delega non riguardasse l'ambito delle Autorità di vigilanza, e, dunque, l'eliminazione dell'inciso anche nell'art. 2638 cod. civ. avrebbe dato vita a un evidente eccesso di delega da parte del Governo.

Sotto altro profilo, si è sottolineato come: 1) l'art. 2638 cod. civ. ha obiettività giuridica ben diversa da quella delle false comunicazioni sociali e se ne distingue sul versante strutturale; 2) l'intero iter legislativo, che ha portato alle nuove disposizioni qui esaminate, è stato sempre ed esclusivamente circoscritto alle false comunicazioni sociali, senza che mai alcuna delle altre fattispecie (anche quelle maggiormente prossime fra i reati societari) sia stata oggetto dell'interesse riformatore.

In conclusione, secondo l'impostazione dottrinaria in esame:

a) dovendo escludersi la possibilità di accordare alla non riproposizione del sintagma "ancorché oggetto di valutazioni" una qualsiasi valenza idonea ad eliminare le valutazioni dall'ambito di applicabilità delle nuove disposizioni in materia di false comunicazioni sociali;

b) dovendo escludersi la possibilità di attribuire alla locuzione "fatti materiali" un significato più restrittivo rispetto a quello di "informazioni";

c) dovendo escludersi la possibilità di attribuire alla locuzione "fatti materiali" un significato selettivo rispetto a quello di "fatti" il riferimento ermeneutico più affidabile rimane quello elaborato sotto la vigenza dell'originario dettato dell'art. 2621 cod. civ. e cioè, che: «si ha falsità penalmente rilevante solo nei casi in cui le informazioni (offerte dal bilancio) sono il frutto di una valutazione che falsifica o l'entità quantitativa del dato di riferimento ( . . . ) oppure (o anche, poiché sono possibilità non alternative) lo valuta impiegando un criterio difforme da quello dichiarato e oggi trova normalmente riscontro nella nota integrativa, in contrappunto alle disposizioni di legge».[17]

6.1. (Segue). Le argomentazioni di tipo sistematico: le clausole generali di redazione del bilancio.

Come già evidenziato, la dottrina secondo cui il c.d. falso valutativo continuerebbe ad essere penalmente rilevante, ha fatto riferimento anche a considerazioni sistematiche più generali.

Si è osservato che:

- il bilancio è costituito quasi del tutto da valutazioni e si basa su un metodo convenzionale di rappresentazione numerica dei fatti attinenti alla gestione dell'impresa;

- la maggior parte dei numeri che devono essere appostati in bilancio si riferisce non a grandezze certe, bensì solo stimate;

- è quindi ineludibile la rilevanza penale della valutazione degli elementi di bilancio, essendo la sua funzione principale quella di indicare il valore del patrimonio sociale al fine di proteggere i terzi che entrano in rapporto con la società, e costituendo il patrimonio sociale la garanzia per i creditori (e più in generale la misura di questa garanzia per i terzi) e per i soci (soprattutto di minoranza), nonchè lo strumento legale di informazione contabile sull'andamento della compagine sociale;

- nel bilancio confluiscono "dati certi" (ad es., costo di acquisto), "dati stimati" (ad es., presumibile prezzo di acquisto) e "dati congetturali" (ad es., determinazione delle quote di ammortamento);

- con riferimento ai "dati stimati" e ai "dati congetturali" la verità del bilancio consiste per lo più nella corrispondenza tra enunciati e giudizi accurati e sorretti da adeguate conoscenze tecniche;

- non si può non tener conto, per l'esatta interpretazione della fattispecie di false comunicazioni sociali, delle cosiddette regole generali per la redazione del bilancio, cioè, del principio di chiarezza e di quello della rappresentazione veritiera e corretta;

- il principio di chiarezza opera all'interno delle disposizioni che disciplinano la struttura e il contenuto del bilancio, mentre, invece, il principio di verità e correttezza nelle previsioni legislative che stabiliscono i criteri di valutazione dei diversi cespiti patrimoniali. La chiarezza dell'informazione e la rappresentazione veritiera e corretta della complessiva situazione costituiscono delle autentiche "clausole generali" sovraordinate, le quali integrano e completano la relativa disciplina di dettaglio;

- la rappresentazione veritiera e corretta opera dunque con riferimento alla congruità e attendibilità della valutazione di bilancio. È un canone di comportamento per il redattore del bilancio che deve individuare tra i valori attribuibili alle varie poste quello che meglio realizza le finalità di informazione sulla situazione della società ed effettuare la scelta il più possibile conforme a verità.

In tale contesto si afferma che veritiero vuol dire che gli amministratori non sono tenuti a una verità oggettiva di bilancio, impossibile da raggiungere per i dati stimati, ma impone a quest'ultimi di indicare il valore di quei dati che meglio risponde alla finalità e agli interessi che l'ordinamento vuole tutelare. Si afferma che il bilancio è "vero" non già perché rappresenti fedelmente l'obiettiva realtà aziendale sottostante, bensì perché si conforma a quanto stabilito dalle prescrizioni legali in proposito. Si tratta di un "vero legale" stante la presenza di una disciplina legislativa che assegna valore cogente a determinate soluzioni elaborate dalla tecnica ragionieristica.

La decisione circa la falsità di una valutazione di bilancio, rilevante ai sensi delle nuove figure di falso in bilancio, dipende dal rispetto dei criteri legali di redazione del bilancio.[18]

7. L'intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione.

In tale contesto sono intervenute le Sezioni unite della corte di cassazione (Sez. U, n. 22474 del 31/3/2016, Passarelli, Rv. 266802- 266803- 266804- 266805).

Le Sezioni unite, ricostruiti i termini del contrasto giurisprudenziale, la storia del dato normativo e la portata dell'intervento legislativo operato con la 1. n. 69 del 2015, hanno affermato che:

- l'interpretazione letterale altro non è che un "passaggio" funzionale verso la completa ed esaustiva intelligenza del fato normativo, ma l'intenzione del legislatore deve essere "estratta" dall'involucro verbale ("le parole"), attraverso il quale essa è resa nota ai destinatari e all'interprete, anche nel caso in cui detta intenzione non si identifichi con quella dell'Organo o dell'Ufficio che ha predisposto il testo "Nessuna norma può essere presa in considerazione isolatamente, ma va valutata come componente di un "insieme", tendenzialmente unitario e le cui "parti" siano reciprocamente coerenti" essendo invece necessario "soffermarsi, principalmente, a riflettere, da un lato, sul complessivo impianto dell'assetto societario come tracciato nel codice civile (e in parte ridisegnato dalla legge 69/2015), in una visione logicosistematica della materia, dall'altro, sulle conseguenze derivanti dall'una o dall'altra interpretazione, non essendo dubbio che la valutazione di tali conseguenze costituisce una sorta di controprova della (correttezza della) necessaria interpretazione teleologica";

- il bilancio, in tutte le sue componenti (stato patrimoniale, conto economico, rendiconto finanziario, nota integrativa), è un documento dal contenuto essenzialmente valutativo il cui redattore compie essenzialmente valutazioni "guidate";

- tutta la normativa civilistica presuppone e/o prescrive il momento valutativo nella redazione del bilancio, e ne detta, in gran parte i criteri, delineando un vero e proprio metodo convenzionale di valutazione;

- i destinatari della informazione devono essere posti in grado di effettuare le loro valutazioni, cioè di valutare un documento, già in sé di contenuto essenzialmente valutativo. "Ma tale "valutazione su di una valutazione" non sarebbe possibile (ovvero sarebbe assolutamente aleatoria) se non esistessero criteri - obbligatori e/o largamente condivisi - per eseguire tale operazione intellettuale;

- "sterilizzare" il bilancio con riferimento al suo contenuto valutativo significherebbe negarne la funzione e stravolgerne la natura.

Sulla base di tali presupposti, le Sezioni unite hanno rivisitato criticamente l'impostazione secondo cui "i fatti materiali", da esporsi in bilancio possono essere contrapposti alle valutazioni, che pure nel bilancio compaiono; "e ciò per la ragione che un bilancio non contiene "fatti", ma "il racconto" di tali fatti. "Vale a dire: un fatto, per quanto "materiale", deve comunque, per trovare collocazione in un bilancio, essere "raccontato" in unità monetarie e, dunque, valutato (o se si vuole apprezzato)".

Confermativa di tale impostazione è, secondo le Sezioni unite, la circostanza che già sotto la vigenza della precedente normativa, la Corte di legittimità non avesse mai dubitato della valenza meramente concessiva del sintagma "ancorché oggetto di valutazioni"; conseguentemente il reato di cui all'art. 2638 cod. civ. fu ritenuto (con la sentenza Sez. 5, n. 44702 del 28/09/2005, Mangiapane, Rv. 232535) sussistente anche nel caso in cui la falsità fosse contenuta in giudizi estimativi delle poste di bilancio, "atteso che dal novero dei "fatti materiali" indicati dalla attuale norma incriminatrice come possibile oggetto di falsità vanno escluse soltanto le previsioni o congetture prospettate come tali, vale a dire quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo e l'espressione, riferita agli stessi fatti, "ancorché oggetto di valutazioni", va intesa in senso concessivo, per cui, in ultima analisi, l'oggetto della vigente norma incriminatrice viene a corrispondere a quello della precedente, che prevedeva come reato la comunicazione all'autorità di vigilanza di fatti non corrispondenti al vero" (Nello stesso senso, più recentemente, Sez. 6, n. 17290 del 13/01/2006, Marino, Rv 234533; Sez. 5, n. 49362 del 07/12/2012, Banco, in motivazione).

La Corte ha spiegato che o la cancellazione dal testo dell'art. 2621 cod. civ. della espressione "ancorché oggetto di valutazioni" comporta che essa sia considerata tamquam non esset anche nell'art. 2638, ovvero, considerata la natura meramente concessiva/specificativa del sintagma e dunque - sostanzialmente - la sua superfluità, la scomparsa delle ricordate quattro parole dal testo dell'art. 2621 cod. civ. (e dall'art. 2622 e la sua non riproduzione nell'art. 2621-bis) non comporta una diversa (rispetto a quella previgente) configurazione della norma incriminatrice.

Secondo la Corte, se si accedesse alla tesi della non punibilità del falso valutativo, si sarebbe in pratica al cospetto di una "interpretatio abrogans" del delitto di false comunicazioni sociali e il corpus normativo denominato "Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio" finirebbe per presentare una significativa falla nella sua trama costitutiva, prestandosi a una lettura depotenziata proprio nella parte che dovrebbe essere una delle più qualificanti: quella della trasparenza aziendale, quale strumento di contrasto alla economia sommersa e all'accumulo di fondi occulti, destinati non raramente ad attività corruttive.

Per avallare tale conclusione la Corte ha richiamato il consolidato orientamento di legittimità in tema di falsa perizia, falso ideologico, false comunicazioni sociali, secondo cui, "quando intervengano in contesti che implicano l'accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, gli enunciati valutativi assolvono certamente una funzione informativa e possono dirsi veri o falsi" (così Sez. 5, n. 3552 del 9/2/1999, Andronico, Rv. 213366; per l'affermazione dello stesso principio, Sez. 6, n. 8588 del 6/12/2000, dep. 2001, Ciarletta, Rv. 219039; Sez. 5, n. 15773 del 24/1/2007, Marigliano, Rv. 236550; Sez. 1, n. 45373 del 10/6/2013, Capogrosso, Rv. 257895).

In particolare, Sez. 5, Andronico, nel suo percorso argomentativo, premesso che, "movendo dall'interpretazione dell'art. 373 c.p. (falsa perizia o interpretazione), si è constatato che le norme positive ammettono talora la configurabilità del falso ideologico anche in enunciati valutativi e qualificatori, come avviene proprio, ad esempio, nell'art. 2629 cod. civ. (valutazione esagerata dei conferimenti e degli acquisiti della società", aveva osservato che, "Quando faccia riferimento a criteri predeterminati, infatti, la valutazione è un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione, sebbene l'ambito di una sua possibile qualificazione in termini di verità o di falsità sia variabile e risulti, di regola, meno ampio, dipendendo dal grado di specificità e di elasticità dei criteri di riferimento". Ha quindi evidenziato che la falsità della conclusione può dipendere anche dalla "falsità di una delle premesse" ed ha così concluso: "Può dirsi falso, pertanto, l'enunciato valutativo che contraddica criteri di valutazione indiscussi e indiscutibili . . .Come può dirsi falso l'enunciato valutativo posto a conclusione di un ragionamento fondato su premesse contenenti false attestazioni . . . ".

Con riferimento all'attività del consulente tecnico, seppur in relazione al reato di cui all'art. 377 cod. pen., si è affermato che anche per i giudizi di natura squisitamente tecnicoscientifica può essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità (così, Sez. U, n. 51824 del 25/09/2014, Guidi, Rv. 261187).

Sez. 1, Capogrosso, cit., ha "evidenziato che la falsità della consulenza . . .è configurabile in via astratta", riprendendo espressamente il principio di diritto enunciato da Sez. 5, Marigliano, cit., che, a sua volta, richiamava puntualmente le conclusioni di Sez. 5, Andronico; ha poi ritenuto la correttezza logica della conclusione nel merito della pronuncia impugnata (pronuncia emessa in sede cautelare) avendo riguardo, specificamente, al risultato della valutazione: "i consulenti del pubblico ministero, oltre a pervenire a conclusioni diverse da quelle dei periti, hanno escluso una circostanza che non poteva essere esclusa, ossia la compatibilità delle polveri dell'impianto con i campioni d'aria e le matrici alimentari".

Si è fatto rilevare che, in materia di reato di falsa perizia, nei pochissimi precedenti reperibili, l'applicazione delle categorie "vero-falso" sembra essere avvenuta in linea con i principi appena esposti.

Sez. 5, n. 7067 del 12/1/2011, Sabolo, Rv. 249836, in una vicenda relativa all'effettuazione di una stima di azienda da parte di consulenti tecnici nominati dal giudice civile ai sensi dell'art. 2343-bis cod. civ., ha innanzitutto rappresentato che: "A riguardo della presente fattispecie la concorde dottrina ravvisa l'integrazione del reato nel contrasto tra l'intimo convincimento del perito e quanto manifestato, divergenza che costituisce il punctum dolens in sede di accertamento, ciò che spiega come in pratica il mendacio assai difficilmente possa essere appurato. Del resto, tanto è anche dimostrato dall'incertezza del medesimo legislatore che, novellando la fattispecie di false comunicazioni sociali, ha dovuto precisare che l'oggetto del reato è rappresentato da 'fatti materiali non rispedenti al vero, ancorché oggetto di valutazione'". Si è poi immediatamente aggiunto: "Sicché si è ritenuto che il referente a cui riguardare sia il cd. 'vero legale', quella soglia di apprezzamento che risulti indicata espressamente dal legislatore ovvero quando sia possibile affermare che la valutazione contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e sia fondata su premesse contenenti false attestazioni.

Significativa è, secondo le Sezioni unite, anche, Sez. 5, n. 15773 del 24/1/2007, Marigliano, Rv. 236550, a proposito di fattispecie di falso ideologico con riferimento alle valutazioni ed alle diagnosi compiute dal medico, in cui la Corte ha chiarito ancora una volta che nell'ambito di contesti che implichino l'accettazione di parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, le valutazioni formulate da soggetti cui la legge riconosce una determinata perizia possono, non solo configurarsi come errate, ma possono rientrare altresì nella categoria della 57 falsità; e ciò in quanto, laddove il giudizio faccia riferimento a criteri predeterminati, esso è certamente un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione.

Conseguentemente può dirsi falso l'enunciato valutativo che contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e sia fondato su premesse contenenti false attestazioni. (Nello stesso senso, Sez. 5, n. 14283 del 17/11/1999, Pinto ed altri, Rv. 216123; Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999, (dep. 2000), Moro, Rv. 215744; Sez. 5, n. 38153 del 25/9/2006, Bianco, Rv. 236039; Sez. 5, n. 35104 del 22/6/2013, R.C. Istituto Città Studi, Baldini e altri, Rv. 257124). Non diversamente, Sez. F, n. 39843 del 4/8/2015, Di Napoli, Rv. 264364 secondo cui, in tema di falso ideologico in atto pubblico, nel caso in cui il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto; diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, sicchè l'atto potrà risultare falso se detto giudizio di conformità non sarà rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza impugnata che aveva ravvisato il reato in questione con riferimento alla omessa indicazione, in provvedimenti urbanistici di tipo abilitativo, da parte di funzionari e dirigenti comunali, della reale consistenza delle opere, della loro incidenza sulla realtà territoriale e della normativa correttamente applicabile nel caso concreto).

8. Gli altri principi affermati dalle Sezioni unite della Corte di cassazione.

Con la sentenza in esame le Sezioni unite della Corte hanno affermato altri principi di indubbio rilievo.

Nella occasione, si è chiarito che:

- il concetto di "rilevanza" ai fini del falso in bilancio ha la sua riconoscibile origine nella normativa comunitaria (art. 2 punto 16 Direttiva UE 2013/34/UE, relativa ai bilanci di esercizio, ai bilanci consolidati ed alle relative relazioni e tipologie di imprese, recepito con d.lgs. 14 agosto 2015, n. 136), che definisce rilevante l'informazione "quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori, sulla base del bilancio dell'impresa";

- il requisito, pur avendo formalmente sostituito il previgente parametro della idoneità "ad indurre in errore i destinatari" (oltre alle soglie percentuali di punibilità) in relazione alla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società, non è che il riflesso oggettivo del dato normativo sostituito;

- il falso per essere rilevante deve essere tale da alterare in misura apprezzabile il quadro d'insieme e deve avere la capacità di influire sulle determinazioni dei soci, dei creditori o del pubblico, sicchè la rilevanza altro non è che la pericolosità conseguente alla falsificazione; il che suggella la natura, appunto di reato di pericolo (concreto) delle "nuove" false comunicazioni sociali;

- il giudice, eliminato ogni riferimento a soglie percentuali di rilevanza, è tenuto a valutare in concreto la incidenza della falsa appostazione o della arbitraria preterizione della stessa, operando "una valutazione di causalità ex ante, vale a dire che dovrà valutare la potenzialità decettiva della informazione falsa contenuta nel bilancio e, in ultima analisi, dovrà esprimere un giudizio prognostico sulla idoneità degli artifizi e raggiri contenuti nel predetto documento contabile, nell'ottica di una potenziale induzione in errore in incertam personam. Tale rilevanza. . .deve riguardare dati informativi essenziali, idonei a ingannare e a determinare scelte potenzialmente pregiudizievoli per i destinatari";

- la potenzialità ingannatoria può derivare, oltre che dalla esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente, dalla falsa valutazione di un bene che pure è presente nel patrimonio sociale. L'alterazione di tali dati non deve necessariamente incidere solo sul versante quantitativo, ben potendo anche il c.d. "falso qualitativo" avere una attitudine ingannatoria e una efficacia fuorviante nei confronti del lettore del bilancio;

- la impropria appostazione di dati veri, l'impropria giustificazione causale di "voci", pur reali ed esistenti, possono avere effetto decettivo (ad esempio: mostrando una situazione di liquidità fittizia) e quindi incidere negativamente su quel bene della trasparenza societaria, che si è visto costituire il fondamento della tutela penalistica del bilancio.

- il reato è connotato da dolo specifico.

Non diversamente, le Sezioni unite, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, hanno affermato che:

- i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualsiasi momento essi siano stati commessi e quindi anche se la condotta si sia realizzata quando ancora l'impresa non versava in condizioni di insolvenza;

- non è richiesto alcun nesso (causale o psichico) tra la condotta dell'autore e il dissesto dell'impresa, essendo sufficiente che l'agente abbia cagionato il depauperamento dell'impresa destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività;

- l'elemento psicologico della bancarotta distrattiva consiste nel dolo generico per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte.

SEZIONE V LA RIFORMA IN MATERIA CAUTELARE

Sommario

PREMESSA

PREMESSA.

Nella Rassegna illustrativa delle più significative pronunce emesse nello scorso anno dalle Sezioni penali della Corte di cassazione, ampio spazio era stato dedicato alla prima elaborazione interpretativa concernente le plurime modifiche apportate dal legislatore, nel triennio 2013-2015, al c.d. sottosistema cautelare.

Non è difficile scorgere, nella maggior parte di tali interventi di riforma, un denominatore comune, costituito dal chiaro intento di recuperare pienamente la funzione di extrema ratio attribuita, già nell'impianto originario del codice di rito, alla misura cautelare della custodia in carcere: e ciò anche al fine di porre concretamente rimedio al problema del sovraffollamento carcerario, dopo la nota sentenza della Corte EDU 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, ed il conseguente "monito" rivolto al legislatore dalla Corte costituzionale, con la sentenza 9 ottobre 2013, n. 279.

Si sono infatti susseguite, in tale prospettiva, una serie di modifiche aventi peraltro una portata per lo più settoriale: l'innalzamento da quattro a cinque anni di reclusione della soglia edittale necessaria per l'applicazione della custodia in carcere (artt. 280, comma 2 e 274 lett. c, come modificati dal decreto legge 2 luglio 2013, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 94); la riduzione, per il giudice procedente, degli spazi discrezionali nella prescrizione di particolari modalità di controllo - c.d. braccialetto elettronico - in sede applicativa degli arresti domiciliari (art. 275-bis, come modificato dal decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 10); il divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere - fatte salve alcune particolari ipotesi - qualora il giudice ritenga che, all'esito del giudizio, verrà irrogata una pena non superiore a tre anni (art. 275, comma 2-bis, come modificato dal decreto legge 26 giugno 2014, convertito, con modificazioni, in legge 11 agosto 2014, n. 117). A diverse finalità risponde invece, evidentemente, l'introduzione - nei procedimenti incidentali concernenti la revoca o la modifica delle misure cautelari - del coinvolgimento della persona offesa di reati con violenza alla persona (art. 299, commi 2-bis, 3 e 4-bis, come modificati dal decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119).

A tali interventi ha fatto seguito la legge 15 aprile 2015, n. 47, la quale - sempre in un'ottica volta a ricondurre la custodia in carcere in una dimensione meramente residuale - ha ulteriormente modificato la disciplina del c.d. braccialetto elettronico, gravando il giudice della cautela di un particolare onere motivazionale, in caso di ritenuta inidoneità degli arresti domiciliari pur se applicati con tali modalità di controllo (art. 275, comma 3-bis). Nella medesima prospettiva, la legge n. 47 ha anche introdotto alcune importanti novità di più ampio respiro e di notevole impatto sistematico: si allude, anzitutto, alla completa rivisitazione - alla luce dei numerosi interventi della Corte costituzionale - delle disposizioni concernenti la presunzione di adeguatezza della sola misura inframuraria (art. 275, comma 3), nonché alla riduzione degli automatismi che - in presenza di particolari condotte trasgressive (inosservanza degli arresti domiciliari: art. 276, comma 1-ter) o di particolari condizioni personali (condanna per evasione riportata nel precedente quinquennio: art. 284, comma 5-bis) - imponevano l'applicazione della custodia in carcere, sottraendo al giudice ogni valutazione discrezionale circa la possibilità di applicare misure gradate.

Altre disposizioni introdotte dalla stessa legge sono poi intervenute, più in generale, sui presupposti applicativi di tutte le misure personali, per un verso operando in senso restrittivo sulle connotazioni che devono assumere le esigenze cautelari di cui alle lett. b) e c) dell'art. 274 cod. proc. pen., per altro verso ampliando la possibilità di applicazione cumulativa - sia nel momento della scelta iniziale della misura, sia in quello di individuazione della risposta più appropriata in caso di aggravamento delle esigenze cautelari - di misure coercitive e di misure interdittive (artt. 275, comma 3 e 299, comma 4). Queste ultime sono state oggetto di ulteriori specifici interventi modificativi, volti a potenziarne l'efficacia e a creare quindi le condizioni per un più ampio e frequente ricorso ad esse, già in sede di richiesta da parte del pubblico ministero (art. 289, comma 2).

Non meno rilevanti appaiono le modifiche con cui il legislatore del 2015 ha inteso assicurare una tutela effettiva dei diritti della persona sottoposta al trattamento cautelare. Si fa riferimento, anzitutto, a quelle in tema di motivazione dell'ordinanza applicativa delle misure (con particolare riferimento alla necessità di una "autonoma valutazione", da parte del giudice procedente, di quanto indicato dall'art. 292, comma 2, lett. c e c-bis: indizi, esigenze cautelari, elementi forniti dalla difesa, inadeguatezza di misure gradate in caso di applicazione della custodia in carcere), essendo stato espressamente previsto il dovere di annullare l'ordinanza, in sede di riesame, qualora difettino i predetti requisiti motivazionali (art. 309, comma 9). Nella medesima prospettiva, vengono in rilievo anche le modifiche - davvero radicali e di rilevante impatto - apportate al procedimento incidentale relativo alle impugnazioni in materia cautelare personale, specie con riferimento all'introduzione di termini perentori non solo per la trasmissione degli atti e per la decisione, ma anche per il deposito dell'ordinanza, ed al divieto di rinnovare la misura divenuta inefficace per l'inutile decorso dei predetti termini, salvo che ricorrano eccezionali esigenze cautelari (art. 309, comma 10 e - quanto al giudizio di rinvio conseguente alla decisione di annullamento della Corte di cassazione - art. 311, comma 5-bis). La legge n. 47 è infine intervenuta sul regime del procedimento di riesame reale, in parte regolato dalle disposizioni dell'art. 309, modificando la norma di rinvio contenuta nel comma 7 dell'art. 324.

Come già accennato, la Rassegna 2015 aveva cercato di dar conto delle prime reazioni giurisprudenziali, non sempre omogenee, alle predette novità.

L'ulteriore percorso compiuto dalla Suprema corte ha in alcuni casi fatto emergere indirizzi interpretativi che, nel 2016, possono dirsi ormai consolidati: costante è ad es. l'affermazione per cui, in tema di motivazione dell'ordinanza cautelare, la pur necessaria "autonoma valutazione" delle esigenze cautelari e degli indizi, da parte del giudice emittente la misura, non impedisce che l'ordinanza "operi un richiamo, in tutto o in parte, ad altri atti del procedimento, a condizione che il giudice, per ciascuna contestazione e posizione, svolga un effettivo vaglio degli elementi di fatto ritenuti decisivi, senza il ricorso a formule stereotipate, spiegandone la rilevanza ai fini dell'affermazione dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari nel caso concreto" (Sez. 3, n. 28979 del 11/05/2016, Sabounjian, Rv. 267350; sulla persistente possibilità - nei limiti predetti - di una motivazione per relationem, v. in senso conforme, tra le altre, Sez. 5, n. 11922 del 02/12/2015, dep. 2016, Belsito, Rv. 266428).

Si avrà peraltro modo di evidenziare, nelle pagine seguenti, che, in relazione ad altre innovazioni, sono emerse divergenze interpretative che hanno determinato una rapida rimessione della questione controversa alle Sezioni unite della Suprema corte.

Ciò è in particolare avvenuto, da un lato, in relazione al contrasto insorto in tema di arresti domiciliari con il c.d. braccialetto elettronico, con particolare riguardo ai già citati obblighi motivazionali gravanti sul giudice che ritenga inidonea la misura domiciliare corredata dal controllo elettronico, ed alle conseguenze derivanti dall'eventuale indisponibilità del braccialetto al momento dell'adozione della misura: contrasto ricomposto da Sez. U, n. 20769 del 28/04/2016, Lovisi, Rv. 266650-2 (su tale problematica, cfr. infra, cap. II).

D'altro lato, la rimessione alle Sezioni unite è stata disposta, ai sensi dell'art. 618 cod. proc. pen., a seguito della prospettazione di un contrasto interpretativo ancora solo potenziale: ci si riferisce al problema dell'applicabilità anche ai procedimenti di riesame reale, in forza del rinvio di cui al novellato art. 324, comma 7, cod. proc. pen., delle nuove disposizioni introdotte dalla 1. n. 47 in tema di riesame personale. Anche tale questione è stata di recente risolta dal Supremo consesso (Sez. U, n. 18954 del 31/03/2016, Capasso, Rv. 266788-90: cfr. al riguardo infra, cap. III).

Un quadro non omogeneo emerge anche in ordine all'elaborazione giurisprudenziale sulle novità introdotte dalla legge n. 47 in tema di esigenze cautelari, attraverso un duplice intervento sull'art. 274 cod. proc. pen. All'evoluzione interpretativa in materia - con particolare riguardo alle diverse posizioni espresse in ordine al requisito dell'attualità delle esigenze - sarà dedicato il capitolo seguente.

  • procedura penale
  • sanzione sostitutiva

CAPITOLO I

ASPETTI PROBLEMATICI IN TEMA DI "ATTUALITÀ" DELLE ESIGENZE CAUTELARI

(di Vittorio Pazienza )

Sommario

1 Premessa: la diversità delle reazioni giurisprudenziali alla duplice modifica dell'art. 274 cod. proc. pen. - 2 L'attualità del pericolo di reiterazione: in particolare, la tesi della necessaria presenza di "occasioni prossime favorevoli". - 3 (Segue). La tesi contraria: attualità come mero rafforzamento dei già esistenti obblighi motivazionali. - 4 (Segue). Posizioni "intermedie" e tentativi di superare il contrasto. - 5 La sentenza Lovisi e l'opportunità di una rimessione "mirata" alle Sezioni unite. - 6 L'attualità del pericolo di fuga. - 7 Attualità del pericolo e presunzioni ex art. 275, comma 3, cod. proc. pen.

1. Premessa: la diversità delle reazioni giurisprudenziali alla duplice modifica dell'art. 274 cod. proc. pen.

Come già accennato nelle note introduttive alla presente Sezione, la giurisprudenza della Corte di cassazione non si è espressa in termini omogenei sulle novità introdotte dalla legge n. 47 del 2015 in tema di esigenze cautelari. Novità consistite in un duplice, "simmetrico" intervento sulle lettere b) e c) dell'art. 274 cod. proc. pen., ovvero sulle disposizioni che - com'è noto - individuano i requisiti che il pericolo di fuga e quello di reiterazione di condotte criminose devono necessariamente presentare, per poter assurgere a presupposto applicativo di una misura cautelare personale.

In particolare, il nuovo testo dell'art. 274 prevede, per un verso, che il pericolo di fuga - come quello di reiterazione - sia non solo "concreto", ma anche "attuale"; per altro verso, si esclude che le situazioni di concreto e attuale pericolo, di fuga o di reiterazione, possano "essere desunte dalla gravità del titolo di reato per il quale si procede".

La non omogeneità cui si accennava è dovuta al fatto che, da un lato, la giurisprudenza della Suprema corte appare ormai del tutto consolidata nell'affermare - a proposito del secondo requisito - che "l'ultimo periodo della lettera c) dell'art. 274 cod. proc. pen. così come modificato dalla legge n. 47 del 2015, impedisce di desumere il pericolo di reiterazione dalla sola gravità del "titolo di reato", astrattamente considerato, ma non dalla valutazione della gravità del fatto medesimo nelle sue concrete manifestazioni, in quanto le modalità e le circostanze del fatto restano elementi imprescindibili di valutazione che, investendo l'analisi di comportamenti concreti, servono a comprendere se la condotta illecita sia occasionale o si collochi in un più ampio sistema di vita, ovvero se la stessa sia sintomatica di una radicata incapacità del soggetto di autolimitarsi nella commissione di ulteriori condotte criminose" (Sez. 1, n. 37839 del 02/03/2016, Biondo, Rv. 267798; in senso analogo, cfr. Sez. 3, n. 26445 del 01/03/2016, Carbone). In buona sostanza, l'interpretazione costantemente offerta dalla giurisprudenza di legittimità del 2016 è nel senso di ritenere tuttora possibile ed anzi doveroso, nella valutazione del pericolo di recidiva, tener conto delle specifiche modalità e circostanze del fatto ai fini del concreto apprezzamento della personalità dell'indagato. Ha quindi trovato conferma l'indirizzo ripetutamente affermato dalla Suprema corte, sia prima che dopo l'entrata in vigore della 1. n. 47 (cfr. rispettivamente Sez. 2, n. 51843 del 16/10/2013, Caterino, Rv. 258070 e Sez. 2, n. 42746 del 20/10/2015, Femia), in ordine alla possibilità di una duplice valutazione degli elementi fattuali della vicenda nel giudizio prognostico di cui all'art. 274, lett. c): sia quanto alla gravità della vicenda stessa, sia quanto alla capacità a delinquere del destinatario della misura.

Ben diversa è, d'altro lato, la situazione per ciò che riguarda l'altro requisito introdotto nelle lett. b) e c) dell'art. 274.

L'analisi della giurisprudenza del 2016 in tema di attualità delle esigenze cautelari evidenzia infatti il persistere di un marcato contrasto interpretativo - emerso già nei primi mesi successivi alla novella, e ripetutamente segnalato da questo Ufficio[1] - che assume un particolare rilievo anche da un punto di vista statistico, essendo assai numerose le occasioni in cui la Suprema corte viene chiamata a pronunciarsi sulla controversa questione, soprattutto con riguardo al pericolo di reiterazione di ulteriori reati.

Si vedrà infatti tra breve che, ad un orientamento volto a non attribuire un carattere particolarmente innovativo all'introduzione del riferimento all'attualità del pericolo, accanto a quello della concretezza, si è andata contrapponendo una diversa ricostruzione, secondo cui trattasi di requisiti del tutto autonomi e distinti, con la conseguente necessità di arricchire sensibilmente l'oggetto del giudizio prognostico cui è chiamato il giudice emittente la misura.

A tali divergenze interpretative saranno dedicate le pagine seguenti, nelle quali si farà anche riferimento - oltre che ad un passaggio della sentenza delle Sezioni unite che ha ricomposto il contrasto interpretativo emerso in tema di arresti domiciliari con il c.d. braccialetto elettronico (Sez. U, n. 20769 del 28/04/2016, Lovisi, Rv. 266650-2: cfr. sul punto infra, cap. II) - ad alcune pronunce che hanno cercato di superare l'impasse, talora tentando di percorrere una "terza via" ricostruttiva, in altre (più frequenti) occasioni ricercando, su un piano più strettamente empirico ed applicativo, la possibilità di operare una sintesi tra i due indirizzi in contrasto.

Si farà infine cenno alla questione - anch'essa non affrontata in modo uniforme dalla giurisprudenza della Suprema corte - del rilievo da attribuire al requisito dell'attualità nelle ipotesi di in cui vige una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, ai sensi dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.

2. L'attualità del pericolo di reiterazione: in particolare, la tesi della necessaria presenza di "occasioni prossime favorevoli".

Si è già accennato al fatto che, dopo l'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 274, una parte della giurisprudenza ha ritenuto di non attribuire una particolare carica innovativa all'introduzione del requisito dell'attualità del pericolo (di fuga o di reiterazione), in quanto l'elaborazione anteriore alla novella aveva "già considerato l'attualità come necessariamente insita nella concretezza, quindi ritenendola una condizione necessaria al fine di applicazione della misura cautelare" (così ad es. Sez. 6, n. 44605 del 01/10/2015, De Lucia, Rv. 265349).

In chiaro dissenso da questa impostazione (sulla quale si tornerà nel prossimo paragrafo), si è progressivamente affermato un diverso indirizzo, che sembra aver preso spunto da una consolidata affermazione giurisprudenziale, anteriore alla novella, secondo cui il requisito della concretezza del pericolo di reiterazione non doveva identificarsi "con quello dell'attualità, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, ma con quello dell'esistenza di elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l'imputato possa commettere delitti della stessa specie di quello per cui si procede, e cioè che offendano lo stesso bene giuridico" (Sez. 6, n. 28618 del 05/04/2013, Vignali, Rv. 255857).

L'inserimento nell'art. 274 del nuovo requisito ha invero indotto parte della giurisprudenza a ritenere che, dopo la novella, anche l'attualità - nella definizione in precedenza elaborata - debba essere inclusa nella valutazione prognostica, accanto alla concretezza: sicchè, per poter ritenere che un pericolo "concreto" di reiterazione sia anche "attuale", "non è più sufficiente ritenere - in termini di certezza o di alta probabilità - che l'imputato torni a delinquere qualora se ne presenti l'occasione, ma è anche necessario, anzitutto, prevedere - negli stessi termini di certezza o di alta probabilità - che all'imputato si presenti effettivamente un'occasione per compiere ulteriori delitti" (Sez. 3, n. 37087 del 19/05/2015, Marino, Rv. 264688). Nella medesima prospettiva, si è ulteriormente precisato che il riferimento all'attualità delle esigenze specialpreventive, introdotto dalla novella, richiede che l'ordinanza applicativa o confermativa della misura contenga specifiche indicazioni al riguardo, "da ricavare dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati. Occasioni, quindi, non meramente ipotetiche ed astratte, ma probabili nel loro vicino verificarsi" (Sez. 3, n. 49318 del 27/10/2015, Barone, Rv. 265623).

Tale indirizzo ermeneutico, in buona sostanza, sembra teorizzare la necessità di un ulteriore, non lieve sforzo motivazionale a carico del giudice emittente la misura: è infatti indispensabile poter sostenere, sulla base delle risultanze inerenti la gravità del fatto e la personalità dell'imputato, non solo che quest'ultimo si determinerà alla commissione di ulteriori reati, ma anche che egli potrà effettivamente disporre di un'occasione in tal senso. Lo spettro dell'indagine prognostica, in altri termini, appare esteso anche al contesto spazio-temporale in cui l'indagato si trova ad operare, e dal quale dovrà evincersi - in via "non meramente ipotetica ed astratta" - che il predetto, intenzionato a delinquere, abbia ulteriori possibilità di farlo.

L'orientamento in questione è stato ribadito più volte dalla Suprema corte anche nel corso del 2016, con decisioni che in alcuni casi hanno desunto, dalle premesse indicate, conclusioni di particolare rigore.

Può ad es. essere richiamata, al riguardo, Sez. 3, n. 15924 del 01/12/2015, dep. 2016, Gattuso, la quale, in tema di stupefacenti (illecito acquisto di 4 kg di eroina), ha annullato un'ordinanza cautelare che aveva ravvisato un concreto pericolo di reiterazione valorizzando la gravità del fatto (organizzato professionalmente ed indicativo dell'inserimento dell'indagato nel mercato della droga ad alti livelli), l'esistenza di due precedenti specifici, la pregressa applicazione di una misura di prevenzione personale, l'assenza di fonti lecite di guadagno, la lucida accettazione delle conseguenze della propria condotta; quanto all'attualità del pericolo, l'ordinanza aveva richiamato - oltre alla capillarità della diffusione del mercato clandestino della droga - il consolidamento dei rapporti dell'indagato con fornitori e clienti.

Ad avviso della Terza sezione, le considerazioni svolte in punto di attualità risultavano generiche ed astratte, considerando che nel precedente anno e mezzo l'indagato non risultava aver commesso alcun altro reato: circostanza che deponeva "a favore della mancanza di occasioni prossime favorevoli alla sua reiterazione".

Altrettanto significativa appare Sez. 3, n. 44933 del 14/06/2016, Stanzione, in tema di associazione per delinquere finalizzata all'abusivo esercizio on line di giochi d'azzardo (con modalità tali da garantire la sistematica e fraudolenta perdita dei clienti). Nella specie, il giudice di merito aveva escluso che la resipiscenza dell'indagato potesse desumersi dall'ammissione degli addebiti (avvenuta a "carte scoperte"), ed aveva fondato la prognosi di recidiva osservando che l'indagato avrebbe potuto ricollocarsi sul mercato illecito, sfruttando le proprie capacità di webmaster, per migliorare le proprie condizioni di vita. Tale percorso argomentativo non è stato ritenuto dal Collegio rispettoso del requisito dell'attualità, perché l'indagato, nell'ammettere gli addebiti, aveva fatto i nomi dei correi, "rendendosi così 'inaffidabile' agli occhi di ipotizzati futuri 'compari' facendo così svanire la possibilità di incorrere in occasioni prossime favorevoli al delitto".

Tra le decisioni massimate, può farsi riferimento a Sez. 3, n. 11372 del 10/11/2015, dep. 2016, Lori, Rv. 266481, che ha annullato il titolo cautelare emesso per il reato associativo di cui all'art. 74 d.P.R. 309/90, in cui le esigenze cautelari erano state motivate con il riferimento alla imponenza del materiale indiziario ed ai precedenti anche specifici degli indagati. In motivazione, il Collegio ha precisato che "mentre la concretezza del pericolo della reiterazione della condotta illecita consiste nella obbiettiva attitudine del soggetto, laddove se ne presentasse l'occasione, a commettere reati della stessa specie di quelli per cui si procede, l'indagine sull'esistenza del parallelo requisito della attualità di siffatto pericolo impone la dimostrazione, in termini quantomeno di elevata probabilità, della immediata, o comunque cronologicamente vicina, se non addirittura prossima, sussistenza delle condizioni necessarie affinché l'occasione di commettere l'illecito si presenti". Nella specie, per la Suprema corte, tale verifica era stata sostanzialmente omessa, perché al pregresso comportamento degli indagati era stata illegittimamente attribuita una duplice valenza sintomatica (in relazione sia alla concretezza del pericolo, sia alla sua attualità), laddove invece quest'ultima "deve essere verificata con riferimento a dati obbiettivi riferiti alla sussistenza delle condizioni materiali per la reiterazione a breve delle condotte criminose".

Si richiamano infine, nello stesso senso, Sez. 6, n. 1406 del 02/12/2015, dep. 2016, Rubini, Rv. 265916; Sez. 6, n. 19006 del 19/04/2016, Cumbo, Rv. 266568; Sez. 6, n. 24477 del 04/05/2016, Sanzogni, Rv. 267091; Sez. 6, n. 21350 del 11/05/2016, Ionadi, Rv. 266958.

3. (Segue). La tesi contraria: attualità come mero rafforzamento dei già esistenti obblighi motivazionali.

All'orientamento fin qui riassunto si contrappone - come già più volte accennato - una diversa ottica ricostruttiva, che, sin dall'entrata in vigore della legge n. 47 del 2015, ha escluso che l'inserimento dell'attualità - accanto alla concretezza - presenti le implicazioni radicalmente innovative teorizzate dall'opposto indirizzo.

In alcuni casi, è stato anzi sostanzialmente escluso che l'intervento sull'art. 274 abbia avuto effetti realmente modificativi. Particolarmente nette sono apparse, al riguardo, le affermazioni di Sez. 1, n. 5787 del 21/10/2015, dep. 2016, Calandrino, Rv. 265985, la quale - valorizzando la disposizione che, sin dal 1995, impone al giudice emittente la misura di tener conto del tempo trascorso dalla commissione del reato (art. 292, comma 2, lett. c, cod. proc. pen.) - ha osservato che "l'espressa previsione del requisito dell'attualità del pericolo di reiterazione del reato, in aggiunta a quello della concretezza, introdotta dalla legge 16 aprile 25, n. 47 nel testo dell'art. 274 lett. c) cod. proc. pen., si configura come una mera endiadi e rappresenta un richiamo simbolico all'osservanza di una nozione già presente nel sistema normativo preesistente alla novella, poichè insita in quella di concretezza" (negli stessi termini, v. anche Sez. 1, n. 47199 del 26/01/2016, D'Avino).

In una prospettiva sostanzialmente analoga, si è anche rilevato che l'inserimento dell'attualità del pericolo di reiterazione, accanto alla concretezza, "normativizza il principio giurisprudenziale, preesistente alla novella, della necessità che l'attualità del pericolo sia specificamente valutata dal giudice, avendo riguardo alla sopravvivenza del pericolo di recidiva al momento della adozione della misura, in relazione al tempo trascorso dal fatto contestato ed alle peculiarità della vicenda cautelare" (Sez. 3, n. 12477 del 18/12/2015, dep. 2016, Mondello, Rv. 266485). V. anche Sez. 3, n. 40672 del 27/04/2016, Gagliardi, che, in consapevole dissenso dalla teoria delle "occasioni prossime favorevoli", ha evidenziato come non fosse possibile "enfatizzare oltremodo la portata innovativa delle modifiche introdotte", proprio avuto riguardo alla preesistenza dell'obbligo di rigorosa motivazione sull'attualità delle esigenze e sulla scelta della misura, ricavabile dal già citato art. 292, comma 2, lett. c), del codice di rito. Sulla stessa lunghezza d'onda, v. tra le altre Sez. 6, n. 9894 del 16/02/2016, C., Rv. 266421, secondo cui il requisito dell'attualità "costituiva già prima della entrata in vigore della legge in questione un presupposto implicito per l'adozione della misura cautelare, in quanto necessariamente insito in quello della concretezza del pericolo, posto che l'attualità deve essere intesa non come imminenza del pericolo di commissione di ulteriori reati, ma come prognosi di commissioni di delitti analoghi, fondata su elementi concreti - e non congetturali - rivelatori di una continuità ed effettività del pericolo di reiterazione, attualizzata al momento della adozione della misura".

Di particolare rilievo, anche perché recepita da altre successive pronunce, appare la definizione dell'attualità fornita da Sez. 6, n. 3043 del 27/11/2015, dep. 2016, Esposito, Rv. 265618. Tale decisione ha anzitutto precisato che - pur essendo già previsto nell'art. 292 un obbligo motivazionale specificamente correlato al tempo trascorso dai fatti - con l'inserimento dell'attualità il legislatore ha inteso richiedere al giudice "un maggiore e più compiuto sforzo" in tal senso, superando quindi la tendenza a focalizzare il giudizio prognostico essenzialmente sul profilo della concretezza del pericolo. In tale ottica, si è quindi affermato che il requisito dell'attualità "non va equiparato all'imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato, ma sta invece ad indicare la continuità del "periculum libertatis" nella sua dimensione temporale, che va apprezzata sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell'indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a realizzare". Tra le decisioni massimate, che hanno esplicitamente aderito a tale percorso ricostruttivo, possono essere richiamate Sez. 2, n. 18745 del 14/04/2016, Modica, Rv. 266749; Sez. 2, n. 25130 del 14/04/2016, Cappello, Rv. 267232; Sez. 2, n. 26093 del 31/03/2016, Centineo, Rv. 267264. Merita di essere segnalata, per la sostanziale adesione all'ultima parte della massima appena riportata, anche Sez. 2, n. 9501 del 23/02/2016, Stamegna, Rv. 267785, secondo cui "l'attualità e la concretezza delle esigenze cautelari non deve essere concettualmente confusa con l'attualità e la concretezza delle condotte criminose, onde il pericolo di reiterazione di cui all'art. 274, comma primo, lett. c) cod. proc. pen., può essere legittimamente desunto dalle modalità delle condotte contestate, anche nel caso in cui esse siano risalenti nel tempo, ove persistano atteggiamenti sintomaticamente proclivi al delitto e collegamenti con l'ambiente in cui il fatto illecito contestato è maturato".

Tra le decisioni non massimate, che hanno accolto tale accezione di "attualità" in consapevole contrasto con l'indirizzo richiamato nel precedente paragrafo, può farsi riferimento a Sez. 6, n. 26638 del 24/05/2016, Monici, secondo cui la modifica introdotta con la 1. n. 47 ha segnalato la necessità di un più pregnante obbligo motivazionale, "nella sostanza esplicitando e dando veste normativa a un dato già enucleabile dal precedente assetto del sistema cautelare": impegno crescente con l'aumentare della distanza cronologica dai fatti, cui di solito corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari (v. sul punto Sez. U, n. 40538 del 24/09/2009, Lattanzi, Rv. 244377). In tale ottica, la sentenza ha anche valorizzato alcune precisazioni contenute in precedenti arresti della Suprema corte, sia quanto alla difficoltà di "immaginare delle esigenze cautelari di prevenzione rispetto al rischio di recidiva che, nell'essere concrete, non siano anche attuali" (sul punto v. anche, in motivazione, Sez. 6, n. 8211 del 11/02/2016, Ferrante, Rv. 266511), sia quanto alla necessità di tener comunque ferma la distinzione tra "attualità" ed "immediatezza" delle esigenze, "come desumibile dalla stessa, perdurante distinzione codicistica tra 'esigenze cautelari' ed 'eccezionali esigenze cautelari'".

A tale ultimo proposito, deve essere qui ricordata Sez. 3, n. 28957 del 02/02/2016, Tremante Rv. 267472, che ha preso spunto proprio dalla predetta distinzione per ritenere preferibile l'indirizzo qui in esame, nell'ambito di un percorso interpretativo volto a conferire autonoma consistenza a ciascuno dei tre gradi di intensità del periculum libertatis individuati dalla normativa vigente.

Si è in particolare affermato che - tra le "ordinarie" esigenze cautelari di cui all'art. 274 cod. proc. pen. (pericolo concreto e attuale), e le "esigenze cautelari di eccezionale rilevanza" di cui agli artt. 275 cod. proc. pen. e 89 T.U. Stup. (che implicano il necessario ricorso alla custodia in carcere, per la "sostanziale certezza" dell'inidoneità di misure meno afflittive) - si collocano in una posizione intermedia le "eccezionali esigenze cautelari" di cui all'art. 309, comma 10, cod. proc. pen., da individuarsi a livello interpretativo "nella 'elevata probabilità', intesa come 'imminenza', del pericolo, in una prognosi che abbia ad oggetto non soltanto la commissione delle condotte che si intende prevenire (reiterazione di ulteriori reati, fuga, inquinamento probatorio), ma altresì la sussistenza di concrete occasioni per la commissione di tali condotte". In buona sostanza, nella ricostruzione accolta dalla sentenza qui in esame, la presenza di "occasioni prossime favorevoli" (e della conseguente "imminenza" del pericolo) individua una soglia di intensità del pericolo diversa, e più allarmante, di quella evocata con il parametro della "mera" attualità di cui all'art. 274: si tratta della elevata probabilità che connota le "eccezionali esigenze" necessarie, ai sensi del novellato art. 309 comma 10 cod. proc. pen., per il rinnovo di una misura coercitiva divenuta inefficace.

È opportuno infine richiamare una pronuncia (Sez. 2, n. 44946 del 13/09/2016, Draghici, Rv. 267965) che ha seguito un differente percorso argomentativo per escludere che l'attualità del pericolo di cui all'art. 274 debba necessariamente presentare connotazioni di "imminenza". La sentenza ha infatti correlato il predetto requisito "non già all'occasione del delinquere, ma alla sua occasionalità; in questo senso dunque deve ritenersi che il pericolo non è attuale se la condotta criminosa si appalesa del tutto sporadica ed occasionale, mentre sussiste laddove l'illecito possa ripetersi in ragione delle modalità del suo estrinsecarsi, della personalità del soggetto, indipendentemente dalla imminenza di sua verificazione". In tale prospettiva, evidentemente, la valutazione prognostica - da effettuarsi tenendo conto anche della situazione socio-ambientale in cui l'indagato si andrà ad inserire - può avere esito positivo, in ordine alla sussistenza di un pericolo attuale, "a prescindere dalla positiva ricognizione di effettive ed immediate opportunità di ricadute a portata di mano dell'inquisito".

4. (Segue). Posizioni "intermedie" e tentativi di superare il contrasto.

L'esposizione che precede evidenzia che il contrasto interpretativo, insorto all'indomani dell'entrata in vigore della 1. n. 47, non può dirsi superato.

In alcune decisioni, la Suprema corte ha richiamato gli opposti indirizzi, prendendone atto e cercando di pervenire, nel caso concreto, all'adozione di un criterio decisionale soddisfacente. V. ad es. Sez. 4, n. 19187 del 10/03/2016, Di Natale, secondo cui è necessario - "quale che sia l'interpretazione che si voglia adottare a riguardo del requisito dell'attualità" - superare i riferimenti al titolo del reato e alla sua intrinseca gravità, focalizzando la valutazione prognostica su risultanze tanto più specifiche quanto più ampia è la distanza temporale dai fatti, e quindi idonee a comprovare "che le condizioni dell'attività illecita sono ancora persistenti; e ove tali elementi non vengano reperiti la conclusione non può che essere quella dell'assenza di attuali esigenze cautelari" (su tali basi, si è ritenuto sufficiente il riferimento del giudice di merito alla dedizione dell'imputato all'attività di spaccio ed il suo inserimento nella criminalità locale). Anche Sez. 3, n. 39821 12/07/2016, Maule, non ha preso posizione sul contrasto in essere, dopo averlo puntualmente richiamato: si è piuttosto dato rilievo al principio per cui la pericolosità dell'indagato deve essere congiuntamente desunta dalle specifiche modalità e circostanze del fatto e dalla sua personalità, con conseguente annullamento della decisione impugnata, la quale - in tema di sfruttamento della prostituzione - aveva solo parzialmente applicato tale principio, valorizzando i precedenti dell'indagato e "la particolare aura di 'autorevolezza' che avrebbero suscitato" nell'ambito dei rapporti con altri sfruttatori.

In altre pronunce, emerge un'adesione - più o meno esplicita - alla tesi della necessaria sussistenza di "occasioni prossime favorevoli" (cfr. supra, § 2), alla quale non sembra peraltro far seguito, in sede di concreta applicazione del principio, il richiamo di elementi univocamente indicativi del fatto che tali occasioni siano effettivamente "prossime".

Si fa ad es. riferimento a Sez. 4, n. 8607 del 05/02/2016, Sinisi, che - dopo aver definito l'attualità delle esigenze come "riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli" - ha ritenuto esaustivo il riferimento alla gravità del fatto (detenzione di 93 kg di hashish), "di per sé espressiva della prevedibile adesione ad attività illecite strutturate attraverso la partecipazione di più complici, organizzati al fine di realizzare consistenti profitti patrimoniali attraverso lo spaccio di stupefacenti in collegamento con circuiti criminali di elevato spessore, siccome adusi a trafficare sostanze stupefacenti all'ingrosso". In buona sostanza, il problema dell'attualità delle esigenze viene risolto da questa pronuncia attraverso la massima valorizzazione del dato ponderale della droga detenuta, tanto da far ritenere recessiva - ai fini della valutazione prognostica che qui interessa - l'incensuratezza dell'indagato.

Nella medesima prospettiva, vengono altresì in rilievo: Sez. 4, n. 43925 del 03/05/2016, De Simone, che ha ritenuto sufficiente - per una valutazione di "certezza o alta probabilità" di verificazione di occasioni prossime - il riferimento nell'ordinanza impugnata al precedente specifico a carico dell'indagato, alla sua contiguità con ambienti criminali e al quantitativo di droga detenuto; Sez. 2, n. 43657 del 19/07/2016, Pistillo, secondo cui la "riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli" era stata correttamente motivata attraverso la non occasionalità dei contatti con circuiti criminali, la professionalità dimostrata, il precedente specifico, la recente concessione dell'affidamento in prova; Sez. 2, n. 40819 del 10/06/2016, Sansone, che in una fattispecie relativa ad arresto in flagranza per rapina aggravata ha ritenuto esaustivi i riferimenti ai precedenti specifici, al difetto di resipiscenza, alla pervicacia dimostrata nel trattenere la refurtiva: fermo restando che, nelle ipotesi di arresto in flagranza, "i profili di attualità delle esigenze risultano in gran parte resi palesi dalla contestualità dell'accertamento".

Non sembra azzardato affermare, a proposito delle pronunce qui da ultimo richiamate, che i percorsi motivazionali adottati siano correlabili - oltre e forse più che alla teoria delle "occasioni prossime" - all'indirizzo richiamato nel paragrafo precedente, che prende in considerazione "la continuità del "periculum libertatis" nella sua dimensione temporale, che va apprezzata sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell'indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a realizzare" (Sez. 6, n. 3043 del 2016, cit.. Cfr. supra, § 3).

Occorre infine dar conto delle decisioni che, richiamando i termini del contrasto interpretativo, hanno ritenuto di attribuirgli una consistenza più apparente che reale.

Viene in rilievo, anzitutto, Sez. 2, n. 47619 del 19/10/2016, Esposito, Rv. 268508, secondo la quale si tratterebbe appunto di "interpretazioni solo in apparenza divergenti" dell'attualità, essendo quest'ultima ritenuta, da un indirizzo, espressione della necessaria "permanenza della pericolosità personale dell'accusato" fino al momento della valutazione cautelare, e quindi apprezzabile all'esito di un'analisi squisitamente "soggettiva" della sua personalità; laddove invece l'altro indirizzo interpretativo "valorizza la necessità di individuare condizioni, 'esterne' all'accusato non riconducibili alla sua personalità, che possono favorire la ricaduta nel delitto e che giustificano un giudizio prognostico infausto in ordine alla possibilità di 'prossime', ovvero 'imminenti' devianze". Ad avviso della Seconda sezione, "entrambe le dimensioni dell'attualità devono essere prese in considerazione: il pericolo non sarebbe attuale in assenza di indici soggettivi di pericolosità, nondimeno il requisito verrebbe meno in assenza di condizioni esterne idonee a favorire la recidiva". Peraltro, ad avviso del Collegio, la necessità di fondare il giudizio di pericolosità non solo sulla personalità dell'indagato, ma anche sulle sue concrete condizioni di vita, non implica che la valutazione prognostica "si estenda alla previsione di una 'specifica occasione' per delinquere, la cui previsione esula dalle facoltà del giudice. Né si ritiene che la valutazione circa l'alta probabilità di una 'prossima' ricaduta nel delitto debba essere intesa come stringente 'immediatezza', ovvero 'imminenza': il giudizio prognostico non può che fare riferimento alla elevata probabilità che possa verificarsi la recidiva nel periodo di tempo in cui possono essere attive le cautele, cioè un periodo 'prossimo', ma non 'imminente', né 'immediato'". Su tali premesse ermeneutiche, la decisione ha ritenuto sufficientemente motivata, in ordine all'attualità, la decisione di merito che aveva valorizzato l'organizzazione di una rapina in concorso in un luogo distante alcuni chilometri dal luogo di residenza dell'indagato.

Anche Sez. 2, n. 18744 del 14/04/2016, Foti, Rv. 266946, ha affermato che la distinzione tra i due orientamenti sarebbe "componibile e l'apparente contrasto agevolmente superabile: ed infatti, da un lato, la prima opzione sottolinea l'obbligo motivazionale continuativo e perdurante riferito sia all'attualità che alla concretezza del pericolo, quasi desumendolo da una natura intrinseca ed ineludibile della valutazione sulla cautela; d'altro canto, il secondo orientamento, ponendo l'accento sulla "vicinanza" o "imminenza" delle occasioni prossime di reato, come contenuto nuovo del giudizio prognostico cautelare, non fa che ribadire l'attitudine "concreta" ed "attuale" del pericolo". Ad avviso del Collegio, la modifica legislativa va letta come un "rinnovato monito di attenzione" rivolto al giudice, tenuto a motivare compiutamente le proprie decisioni in ambito cautelare: con una particolare attenzione, da un lato, alle modalità del fatto e alla loro incidenza sulla concretezza del rischio di recidiva, e, dall'altro, alla necessità che quest'ultimo sia apprezzato al momento di adozione della misura cautelare, tenendo conto del tempo trascorso dai fatti e delle peculiarità della vicenda.

5. La sentenza Lovisi e l'opportunità di una rimessione "mirata" alle Sezioni unite.

È opportuno porre in evidenza che la sentenza Lovisi delle Sezioni unite - già citata in premessa a proposito del superamento del contrasto concernente gli arresti domiciliari con il c.d. braccialetto elettronico (cfr. supra, § 1) - ha avuto occasione di occuparsi incidentalmente della questione dell'attualità del pericolo di recidiva, estranea al quesito formulato in sede di rimessione ma oggetto di un motivo di ricorso proposto dall'imputato.

In particolare, il Supremo consesso ha ritenuto congruamente motivata la decisione di merito, nella quale era stata "valorizzata l'alta probabilità del determinarsi di occasioni favorevoli alla commissione di nuovi reati, tenuto conto delle circostanze di fatto in cui era maturato il delitto di tentato omicidio (posto in essere a seguito di un litigio fra terze persone) nonché della personalità trasgressiva del prevenuto, la cui condotta pregressa risultava aver già denotato un'apprezzabile ribellione ai precetti dell'autorità". Si era trattato, ad avviso delle Sezioni unite, di una valutazione incensurabile in sede di legittimità, tenendo conto della necessità di un separato apprezzamento della concretezza del pericolo (concernente la capacità a delinquere del reo) e della sua attualità, legata "alla presenza di occasioni prossime al reato, la cui sussistenza, anche se desumibile dai medesimi indici rivelatori (specifiche modalità e circostanze del fatto e personalità dell'indagato o imputato), deve essere autonomamente e separatamente valutata, non risolvendosi il giudizio di concretezza in quello di attualità e viceversa".

Alla luce di quanto esposto in precedenza, anche in relazione al periodo successivo alla sentenza Lovisi, non sembra possibile ritenere che sia ormai venuto meno il contrasto interpretativo insorto nella giurisprudenza delle Sezioni semplici (contrasto che non è stato oggetto di un'esplicita analisi nel percorso motivazionale della predetta decisione). Non appare quindi fuori luogo ipotizzare una rimessione della questione controversa alle Sezioni unite, onde pervenire ad una compiuta declinazione del requisito dell'attualità del pericolo: e ciò anche al fine di evitare - soprattutto in sede di merito - le incertezze interpretative derivanti dalla concreta applicazione dell'uno o dell'altro criterio, talora oggetto di richiami "cumulativi" (cfr. ad es. Sez. 4, n. 45808 del 14/06/2016, Ammirato).

6. L'attualità del pericolo di fuga.

Anche sull'inserimento dell'attualità nella lett. b) dell'art. 274 cod. proc. pen., ad opera della legge n. 47 del 2015, si registrano indirizzi interpretativi non del tutto convergenti, soprattutto quanto alla reale portata innovativa della modifica ai fini dell'apprezzamento del pericolo di fuga.

Nella Rassegna 2015, era stata segnalata la rigorosa posizione assunta da Sez. 2, n. 44526 del 13/10/2015, Castillo Quintana, Rv. 265042, la quale aveva riconosciuto a tale modifica una specifica portata innovativa, affermando - in linea con la relazione di accompagnamento al disegno di legge - la necessità che il pericolo di fuga sia non solo concreto, ma anche attuale, "nel senso che il rischio che la persona possa fuggire debba essere imminente".

Si è peraltro ritenuto (in una fattispecie di ripristino della misura ex art. 307 cod. proc. pen.) che, anche dopo la novella, l'attualità "non debba essere desunta da comportamenti materiali, che rivelino l'inizio dell'allontanamento o una condotta indispensabilmente prodromica (come l'acquisto del biglietto o la preparazione dei bagagli), essendo sufficiente accertare con alto giudizio prognostico - ancorato, oltre che alla concreta situazione di vita del soggetto, alle sue frequentazioni, ai precedenti penali, ai procedimenti in corso (arg. ex Sez. 2, n. 51436 del 05/12/2013), anche a specifici elementi, vicini nel tempo - l'inclinazione del soggetto a sottrarsi all'esecuzione di misure cautelari e, quindi, un reale effettivo, prevedibilmente prossimo pericolo di allontanamento, difficilmente eliminabile con tardivi interventi" (Sez. 5, n. 7270 del 06/07/2015, dep. 2016, Giugliano). In buona sostanza, tale indirizzo sembra aver ritenuto tuttora applicabili - anche dopo l'inserimento dell'attualità nella lett. b) dell'art. 274 cod. proc. pen. - gli insegnamenti di Sez. U, n. 34537 del 11/07/2011, Litteri, Rv. 219600, la quale aveva evidenziato la necessità di una valutazione prognostica del pericolo di fuga basata su elementi concreti (quindi non incentrata sulla sola entità della pena inflitta), "senza che sia necessaria l'attualità di suoi specifici comportamenti indirizzati alla fuga o a anche solo a un tentativo iniziale di fuga".

Altre decisioni hanno invece richiamato la valorizzazione dell'attualità operata dalla sentenza Castillo Quintana, ritenendo che tale requisito si aggiunga a quello della concretezza (intesa come "reale ed effettivo pericolo, difficilmente eliminabile con tardivi interventi"), e richieda quindi "ulteriori obiettivi elementi" da cui desumere l'alta probabilità del pericolo di fuga (Sez. 6, n. 15875 del 16/03/2016, Iamonte, la quale ha annullato un'ordinanza emessa in sede di riesame che aveva ricavato tali elementi dai periodi di latitanza goduti da altri affiliati). V. anche Sez. 1, n. 49284 del 17/03/2016, Grande Aracri, che ha ritenuto correttamente motivata la sussistenza del pericolo di fuga in forza della pena elevata irrogata in appello, della posizione apicale rivestita dall'imputato in un sodalizio criminoso ramificato anche all'estero, e della sua contestuale sottoposizione a misure custodiali nell'ambito di altri procedimenti.

Da segnalare, infine, Sez. 2, n. 45458 del 06/10/2016, Busu, che - all'esito di un percorso motivazionale volto al superamento dei contrasti, del tutto analogo a quello compiuto dalla già citata sentenza Foti per il pericolo di recidiva (cfr. supra, § 4) - ha ritenuto correttamente motivata, quanto all'attualità del pericolo di fuga, la decisione di merito che aveva per un verso valorizzato l'esistenza di una pluralità di "appoggi" in territorio estero a disposizione del sodalizio di cui faceva parte l'indagato, e, per altro verso, aveva osservato che la presentazione spontanea di questi alla polizia giudiziaria, dopo aver appreso del tentativo di eseguire la misura nei suoi confronti, ben poteva esprimere una strategia difensiva volta a superare una condizione di latitanza.

7. Attualità del pericolo e presunzioni ex art. 275, comma 3, cod. proc. pen.

Il problema dell'esatta definizione dei contorni e della portata applicativa dell'attualità delle esigenze cautelari presenta un ulteriore profilo problematico, anch'esso emerso sin dall'entrata in vigore della legge n. 47 del 2015.

Si allude alla questione dell'oggetto e dei limiti della verifica giudiziale di tale presupposto, nelle ipotesi in cui la misura cautelare debba essere disposta per uno dei reati di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., per i quali vige - com'è noto - una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, ed una presunzione di adeguatezza della custodia in carcere, anch'essa relativa (salvo che per i delitti di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis cod. pen., in relazione ai quali la presunzione ha carattere assoluto). Il problema si pone, evidentemente, soprattutto nelle fattispecie caratterizzate dal decorso di un considerevole arco temporale tra i fatti contestati e l'intervento cautelare.

Già nella Rassegna 2015 era stata evidenziata, al riguardo, una netta divergenza interpretativa: si era infatti affermato, da un primo indirizzo, che la predetta distanza temporale "costituisce elemento che impone al giudice di dare adeguata motivazione non solo della sussistenza della pericolosità sociale dell'indagato in termini di attualità, ma anche della necessità di dover applicare la misura di maggior rigore per fronteggiare adeguatamente i pericula libertatis" (Sez. 6 n. 27544 del 10/06/2015, n. 27544, Rechichi, Rv. 263942). Nella medesima prospettiva, la necessità di dover verificare la sussistenza di esigenze cautelari (anche quanto all'attualità), prima di poter ritenere operante la presunzione in sede di scelta della misura, era stata motivata valorizzando il fatto che l'art. 274 precede non a caso l'art. 275, nel senso che la valutazione circa la sussistenza delle esigenze cautelari "deve precedere temporalmente e logicamente quella riferita alla scelta della misura concretamente adottabile" (Sez. 6, n. 42630 del 17/09/2015, Tortora, Rv. 264984).

In un'ottica ermeneutica del tutto diversa, si era invece sostenuto che "l'esistenza di una presunzione relativa ex lege di sussistenza delle esigenze cautelari (art. 275 co. 3 cod. proc. pen.) inverte gli ordinari 'poli' del ragionamento giustificativo, nel senso che il giudice che applica o che conferma la misura cautelare non ha un obbligo di dimostrazione 'in positivo' della ricorrenza dei pericula libertatis [ . . . ] ma ha un obbligo di apprezzamento delle eventuali 'ragioni di esclusione', tali da smentire, nel caso concreto, l'effetto di detta presunzione" (Sez 1, n. 45657 del 06/10/2015, Varzaru).

Tali differenze ricostruttive emergono anche dall'esame delle sentenze depositate nel 2016.

È opportuno far riferimento, anzitutto, alla già citata Sez. 1, n. 5787 del 21/10/2015, dep. 2016, Calandrino, Rv. 265986, la quale ha ribadito e sviluppato le argomentazioni svolte dall'appena richiamata sentenza Varzaru, chiarendo che la natura relativa della presunzione obbliga il giudice ad una ricognizione dei possibili elementi 'neutralizzanti', dedotti dalle parti o direttamente evincibili dagli atti (recesso dall'associazione, ridimensionamento del ruolo svolto, occasionalità della condotta, ecc.). Tra tali elementi, deve peraltro annoverarsi - secondo la Prima sezione - anche "il dato di 'scissione cronologica' tra l'epoca della condotta e quella dell'applicazione della misura", di per sé inidoneo a vincere la presunzione, ma che obbliga il giudicante a valutarne le ricadute: egli, in buona sostanza, è tenuto a compiere "non già una dimostrazione del fondamento della prognosi di pericolosità (dato che tale compito è affidato alla presunzione) quanto una sorta di 'prova di resistenza' circa il suo mantenimento in essere, a fronte di dati dal potenziale contenuto dimostrativo contrario" (in senso conforme, v. tra le altre Sez. 1, n. 37839 del 02/03/2016, Biondo; Sez. 5, n. 34969 del 24/06/2016, Panzariello).

Nella medesima prospettiva si collocano anche altre pronunce, che hanno risolto il problema del rapporto tra l'art. 274 e l'art. 275 cod. proc. pen. in termini del tutto antitetici rispetto alla citata sentenza Tortora del 2015 (cfr. supra). Si è infatti affermato che, con la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari 'salvo prova contraria', di cui all'art. 275 comma 3, il legislatore ha formulato un giudizio in astratto ed ex ante di attualità e concretezza del pericolo, "tale, cioè, da fondare una valutazione di costante ed invariabile pericolo 'cautelare', salvo prova contraria. L'apparente antonomia tra l'art. 275, comma 3, e l'art. 274 cod. proc. pen., del resto, non può essere risolta interpretativamente in favore della prevalenza della seconda norma, che è generale, laddove la prima norma, che sancisce la presunzione relativa, è speciale" (Sez. 3, n. 38856 del 03/05/2016, Miano). In definitiva, secondo tale opinione, "la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari deve ritenersi, salvo 'prova contraria' (recte, salvo che emergano elementi di segno contrario), integrare i caratteri di attualità e concretezza del pericolo". V. anche Sez. 3, n. 28957 del 2016, Tremante, cit., la quale ha affermato - all'esito di un percorso argomentativo anche qui imperniato sul principio di specialità - che la presunzione di sussistenza delle esigenze ex art. 275 comma 3 consente di ritenere integrate le 'eccezionali esigenze cautelari' richieste dall'art. 309, comma 10, cod. proc. pen., per rinnovare l'ordinanza applicativa della misura che ha perso efficacia.

L'esistenza di un obbligo motivazionale sull'attualità delle esigenze è stato radicalmente escluso anche da Sez. 5, n. 44644 del 28/06/2016, Leonardi, Rv. 268197, secondo cui dall'esistenza della presunzione discende che "spetta all'indagato confutare i presupposti e dunque dimostrare l'inesistenza in radice delle esigenze cautelari. Soltanto nel caso in cui l'indagato o la sua difesa abbiano allegato elementi di segno contrario, il giudicante sarà tenuto a giustificare la ritenuta inidoneità degli stessi a superare la presunzione". V. anche Sez. 1, n. 17624 del 17/12/2015, dep. 2016, S., Rv. 266984.

Non mancano peraltro decisioni diversamente orientate, soprattutto quanto alla necessità - anche nelle ordinanze cautelari emesse in relazione a reati per i quali vige la presunzione - di motivare adeguatamente in ordine all'attualità delle esigenze.

Particolarmente nette appaiono le affermazioni di Sez. 3, n. 15927 del 18/12/2015, dep. 2016, Rappazzo, che - nel riaffermare la tesi delle "occasioni prossime favorevoli" in una fattispecie di illecito trasporto di kg. 160 di marijuana, aggravato ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 - ha evidenziato l'impossibilità di ancorare una valutazione di attualità delle esigenze specialpreventive sulla sola base della pur incontroversa gravità del fatto, alla luce del tempo trascorso (nella specie: un anno) e del ruolo meramente operativo dell'indagato. Né tale lacuna motivazionale poteva essere colmata - ad avviso della Terza sezione, in piena consonanza di vedute con la sentenza Rechichi del 2015 (cfr. supra) - con il riferimento al predetto art. 7 e alla conseguente operatività della presunzione, perché la considerevole distanza temporale dai fatti imponeva un rigoroso obbligo di motivazione anche in ordine all'attualità delle esigenze.

In altri casi, si è posta in evidenza la necessità che il giudice chiamato ad emettere la misura cautelare effettui "un'opera di ragionato bilanciamento" tra la presunzione e l'attualità, in quanto anche un significativo iato temporale, se correlato ad altre specifiche risultanze, può assumere rilievo quale elemento in grado di superare la presunzione (Sez. 4, n 20987 del 27/01/2016, C., Rv. 266962; in senso analogo, cfr. anche Sez. 4, n. 25256 del 20/05/2016, Paciotti).

V. anche Sez. 6, n. 12669 del 02/03/2016, Mamone, Rv. 266784, che ha affermato la necessità di accertare, anche per i reati di criminalità organizzata, la sussistenza di un pericolo non solo concreto, ma anche attuale: principio che "va riferito in termini cogenti anche alle ipotesi di obbligatoria custodia in carcere previste dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., per le quali, quindi, la presunzione di esistenza di ragioni cautelari viene del tutto vanificata qualora sia dimostrata la inattualità di situazioni di pericolo cautelare". (Nella specie - relativa ad un ingegnere accusato di far parte di un'associazione mafiosa, operando organicamente ad essa attraverso le cariche rivestite in due società - il Collegio ha annullato con rinvio l'ordinanza emessa in sede di riesame, osservando che le dimissioni dalle predette cariche e la sospensione dall'ordine professionale dovevano essere adeguatamente valutate, unitamente alla circostanza che i fatti addebitati risalivano al 2011). Nella medesima prospettiva, sempre in una fattispecie associativa ex art. 416-bis cod. pen., v. da ultimo Sez. 5, n. 36569 del 19/07/2016, Cosentino, Rv. 267995, secondo cui, atteso il carattere relativo della presunzione di sussistenza delle esigenze di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., deve conferirsi "peso specifico anche al tempo trascorso dagli ultimi fatti attribuiti all'indagato", onde valutare compiutamente il pericolo di ulteriori suoi contributi all'operatività del sodalizio.

  • arresto

CAPITOLO II

ARRESTI DOMICILIARI E BRACCIALETTO ELETTRONICO

(di Assunta Cocomello )

Sommario

1 Premessa. L'evoluzione normativa della prescrizione del braccialetto elettronico. - 2 Il contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulle conseguenze della indisponibilità dello strumento cautelare. - 3 La soluzione delle Sezioni Unite Lovisi.

1. Premessa. L'evoluzione normativa della prescrizione del braccialetto elettronico.

Nel nostro ordinamento la possibilità di utilizzare dispositivi elettronici o altri strumenti tecnici per controllare persone sottoposte agli arresti domiciliari risale all'introduzione nel codice di rito dell'art. 275 bis, comma 1, cod. proc. pen., dall'art. 16, comma 2, D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito nella legge 19 gennaio 2000, n. 4 e successivamente modificato dal d.l. 23 dicembre 2013 n. 146, convertito nella legge 21 febbraio 2014 n. 10. Con tale ultima modifica, il legislatore, chiamato a ripristinare "efficacia" ed "efficienza" alla giustizia (come si legge nella rubrica dello stesso D.L.) mirava, tra l'altro, a far fronte alle gravi difficoltà di effettuare un efficace controllo sui soggetti ammessi alle misure diverse dalla custodia in carcere, senza peraltro ampliare il ricorso a quest'ultima ed, anzi, rafforzando il sistema di misure alternative previsto dal codice. In tale prospettiva l'art. 275-bis cod proc. pen., nella sua prima formulazione, offriva al giudice "la possibilità" di applicare, "se lo riteneva necessario", in relazione al grado ed alla natura delle esigenze cautelari, particolari modalità di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici definiti, con espressione più immediata ed efficace, "braccialetto elettronico", previo accertamento della disponibilità da parte della polizia giudiziaria. Inoltre, al fine di evitare il sospetto che il monitoraggio elettronico possa costituire una indebita ingerenza nella vita privata e familiare, protetta sia dall'art. 2 Cost. che dalle fonti sovranazionali (art. 8 Cedu e art. 17 Patto internazionale dei diritti civili e politici) l'art. 275-bis cod. proc. pen. prevede che il soggetto sottoposto alla misura presti il consenso in forma espressa all'utilizzo del dispositivo. Altro presupposto applicativo, oltre al consenso, è quello della "disponibilità dei mezzi di controllo elettronico da parte della polizia giudiziaria", la cui verifica è, ai sensi dell'ultimo inciso del primo comma dell'art. 275-bis cod. proc. pen., oggetto di specifico accertamento del giudice. Ma, mentre in relazione all'assenza del consenso del soggetto all'applicazione del dispositivo, la norma ne disciplina le conseguenze, il testo normativo è silente in relazione alla circostanza dell'assenza di una concreta disponibilità del dispositivo elettronico da parte della polizia giudiziaria, ipotesi, invece, diffusissima nella prassi che ha contribuito allo scarsissimo utilizzo limitatissimo di tale sistema. Proprio in ragione di tale lento e faticoso avvio e, non da ultimo, a seguito della pronuncia della Corte EDU dell' 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, che ha condannato il nostro Paese per violazione dell'art. 3 della Convenzione EDU, in particolare, per la violazione del divieto di "trattamenti inumani e degradanti" come quello inflitto ai detenuti a causa del sovraffollamento carcerario, il legislatore è stato costretto ad intervenire nuovamente sulla materia al fine di ridurre il numero dei detenuti mediante l'applicazione di pene alternative e il minimo ricorso alla custodia cautelare. A partire dal 2013, infatti, si sono susseguiti una serie di interventi urgenti, comunemente denominati decreti "svuota carceri", parte dei quali incidenti sull'ordinamento penitenziario (mirando a limitare l'ingresso in carcere dei condannati, favorendo la sospensione della esecuzione della pena e ampliando l'applicazione delle misure alternative, dei benefici penitenziari e della liberazione anticipata) altra parte, invece, riguardanti, più specificatamente, la riduzione del numero dei detenuti in custodia cautelare in carcere, mediante la modifica di disposizioni del codice di procedura penale (tra cui l'innalzamento da quattro a cinque anni del limite di pena stabilito dall'art. 280 comma 2 cod. proc. pen. per i delitti che consentono l'applicazione della custodia in carcere, l'ampliamento del divieto di custodia cautelare di cui al comma 2-bis dell'art. 275 cod. proc. pen. che subordina l'applicabilità della misura ad una prognosi di effettiva esecuzione della pena detentiva, con l'intento di saldare questo presupposto alla previsione dell'art. 656 comma 5 cod. proc. pen.) ed, in particolare, l'ulteriore modifica dell'art. 275-bis comma 1 cod. proc. pen., apportata dall'art. 1, comma 1, lett. a) del D.L. 23 dicembre 2013 n. 146, convertito nella legge n.10 del 2014. In particolare, tale disposizione sostituisce, nel primo periodo del primo comma dell'art. 275 bis, la locuzione "se lo ritiene necessario" con "salvo che le ritenga non necessarie", ribaltando, in tal modo, i termini della valutazione del giudice in ordine all'applicazione della speciale forma di controllo. Mentre prima della novella l'operatività dei meccanismi di cui all'art. 275-bis cod. proc. pen. era subordinata alla circostanza che il giudice "li ritenesse necessari", nella nuova formulazione della norma, essi devono essere sempre ordinati a meno che si ritengano "non necessari" in relazione al grado ed alla natura delle esigenze da soddisfare nell'ipotesi specifica. Nel panorama di evoluzione normativa va ricordata, infine, anche la recentissima riforma in materia di misure cautelari che, pur non intervenendo direttamente sull'art. 275-bis cod. proc. pen, dispone, all'art. 4 comma 3, legge 16 aprile 2015 n. 47, l'inserimento nell'art. 275 cod. proc. pen. del comma 3 bis, il quale prevede che il giudice che dispone la custodia cautelare in carcere deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all'art. 275 bis, comma 1 cod. proc. pen. Attualmente, a seguito delle suddette modifiche normative, l'applicazione degli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico è stata notevolmente incrementata.

2. Il contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulle conseguenze della indisponibilità dello strumento cautelare.

Nella giurisprudenza di legittimità si era sviluppato un contrasto di orientamenti, riguardante la particolare, ma frequente, ipotesi, in cui la misura di cui all'art. 275-bis cod. proc. pen. - disposta dal giudice in sede di prima applicazione ovvero a seguito di istanza di sostituzione della misura cautelare in carcere, ai sensi dell'art. 299 cod. proc. pen. - non può essere eseguita per indisponibilità del braccialetto elettronico da parte della polizia giudiziaria. Un primo orientamento (Sez. 2, n. 28115 del 19 giugno 2015, Candolfi Rv. 264230; Sez. 2, n. 46328/15, Pappalardo ed altro; Sez. 2, n. 520/15, Borchiero; Sez. 5, n. 5065 del 29 dicembre 2015, dep. 2016, Berti), partendo dal presupposto che l'impossibilità di effettuare il controllo elettronico a distanza per carenza di strumenti tecnici, pur non essendo ascrivibile all'indagato, costituisce una circostanza di fatto che "deve essere valutata ai fini del giudizio di adeguatezza della misura degli arresti domiciliari", concludeva, per la necessità dell'applicazione della custodia in carcere nella ipotesi di indisponibilità del dispositivo, precisando, altresì, sotto un profilo di conformità ai principi costituzionali, che tale soluzione ermeneutica non configura alcun vulnus ai principi di cui agli artt. 3 e 13 Cost., in quanto la impossibilità di concedere gli arresti domiciliari per carenza degli strumenti di controllo a distanza dipende comunque dalla "intensità delle esigenze cautelari" e deve ritenersi, pertanto, riconducibile alla persona dell'indagato, alla sua personalità ed alla sua condotta di vita. Un secondo orientamento (Sez. 2, n. 50400 del 23/09/2014, Rv. 261439; Sez. 3, n. 2226 del 01/12/2015, dep. 2016, Caredda, Rv. 265791; Sez. 4, n. 35571 del 3 luglio 2015; Sez. 1, n. 39529 del 10 settembre 2015, Quici, Rv. 264943), precisando che l'indisponibilità e l'inidoneità del congegno elettronico non possono condizionare l'effettività della misura prescelta, frutto della valutazione di merito effettuata dal giudice sulla pericolosità dell'indagato ed indirizzata, senza subordinate, ad una delle figure tipiche di misura, giungeva alla conclusione che, "una volta valutata l'adeguatezza della misura domiciliare secondo i criteri di cui all'art. 275 cod. proc. pen.", il detenuto deve essere controllato con i mezzi tradizionali, ove risulti l'indisponibilità degli strumenti elettronici.

In particolare, tale giurisprudenza riteneva illegittimo il provvedimento con il quale il giudice, pronunciandosi sulla richiesta di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico, ordini la sospensione della esecuzione della misura degli arresti domiciliari e della scarcerazione dell'indagato, subordinandole alla futura disponibilità del dispositivo elettronico. A favore della correttezza ermeneutica di tale soluzione, inoltre, deporrebbe, secondo tale orientamento, la soppressione, operata in sede di conversione del d.l. 26 giugno 2014 n. 92 ad opera della legge 11 agosto 2014 n. 117, delle modifiche apportate dal citato decreto all'art. 97-bis disp. att. cod. proc. pen. che disciplina "le modalità di esecuzione del provvedimento di applicazione degli arresti domiciliari", nella parte in cui prevedeva che, nel caso di provvedimento di sostituzione della misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, il direttore dell'istituto penitenziario, nel trasmettere la dichiarazione del detenuto di accettazione dei mezzi di controllo, potesse rappresentare l'impossibilità di dare esecuzione immediata alla scarcerazione "in considerazione di specifiche esigenze di carattere tecnico e che, in tal caso il giudice avesse la possibilità di autorizzare il differimento dell'esecuzione del provvedimento di sostituzione sino alla materiale disponibilità del dispositivo elettronico da parte della polizia giudiziaria".

3. La soluzione delle Sezioni Unite Lovisi.

La sentenza delle S.U, n. 20769 del 28 aprile 2016, Lovisi, intervenuta a dirimere tale contrasto, ha risolto i principali nodi interpretativi della disciplina in tema di arresti domiciliari, ma soprattutto ha fatto chiarezza sul percorso che il giudice deve seguire ove, chiamato ad applicare la misura in esame in prima istanza o in sostituzione della misura cautelare in carcere, debba confrontarsi con la realtà della indisponibilità dello strumento elettronico di controllo, affermando in merito che:

- gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico non costituiscono una nuova ed autonoma misura cautelare, configurando il mezzo tecnico previsto dall'art. 275-bis cod. proc. pen., un nuovo strumento di controllo applicabile, nei casi previsti dal legislatore, alle misure cautelari esistenti;

- all'accertata indisponibilità del congegno elettronico non può conseguire alcuna automatica applicazione né della custodia cautelare in carcere, né degli arresti domiciliari tradizionali e, pertanto, il giudice investito di una richiesta di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari con il c.d. braccialetto elettronico o di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la predetta misura, deve, preliminarmente, accertare la disponibilità del congegno elettronico presso la polizia giudiziaria e, in caso di esito negativo, dato atto della impossibilità di adottare tale modalità di controllo, valutare la specifica idoneità, adeguatezza e proporzionalità di ciascuna delle misure, in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto;

- a seguito della riforma introdotta dalla legge n. 47 del 2015, ove non si sia al cospetto di una delle ipotesi di presunzione assoluta di adeguatezza, il giudice deve sempre motivare sulla inidoneità della misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico.

Il percorso ermeneutico seguito dalla Suprema Corte per la soluzione della quaestio iuris, muove dall'individuazione della ratio normativa delle riforme che hanno interessato la materia cautelare e, più in particolare, la disciplina degli arresti domiciliari controllati. Preliminarmente la sentenza in esame pone in evidenza come il d.l. n. 146 del 2013, che ha modificato il comma 1 dell'art. 275-bis cod. proc. pen., sia espressione della volontà del legislatore di favorire un maggior utilizzo dello strumento del controllo elettronico, rafforzando, tramite detto incremento, il principio della custodia cautelare quale extrema ratio. Nello stesso senso, osserva la Corte, si muove l'intervento riformatore della legge 16 aprile 2015 n. 47, con il quale il legislatore mira a garantire che, "effettivamente", le misure cautelari siano ispirate al principio del "minimo sacrificio per la libertà personale", facendo leva sul principio cardine di adeguatezza in base al quale la misura deve essere commisurata alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddisfare, le quali devono essere espressamente indicate nella motivazione del provvedimento.

In particolare, con l'inserimento del comma 3-bis nel corpo dell'art. 275 cod. proc. pen., il legislatore giunge a considerare, in astratto, gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico "ugualmente idonei, rispetto alla custodia in carcere, a tutelare le esigenze cautelari poste alla base della misura" e, restituendo un ruolo centrale alla motivazione del giudice, impone a quest'ultimo di considerare tutte le alternative possibili per escludere il ricorso alla custodia carceraria, motivando "sempre (ad eccezione delle, ormai limitate, ipotesi di presunzione assoluta di adeguatezza di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis cod. pen.) sulla inidoneità degli arresti domiciliari controllati a soddisfare le esigenze del caso concreto". Entrando più nello specifico della questione controversa oggetto di rimessione, le Sezioni Unite affrontano, inoltre, il problema della individuazione della natura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, escludendo che ad essi possa essere attribuita una natura di misura cautelare autonoma, così come chiaramente si evince dalla lettera della relazione al disegno di legge relativo alla conversione del decreto n. 341 del 2000, nonchè dalla collocazione sistematica dell'art. 275-bis cod. proc. pen., inserito a ridosso delle "Disposizioni generali" in materia di misure cautelari, subito dopo l'enunciazione dei criteri di scelta delle misure cautelari contenute nell'art. 275 cod. proc. pen. e immediatamente prima degli articoli che prevedono i singoli tipi di misure cautelari, contenuti nel Capo II.

L'art. 275-bis cod. proc. pen. disciplina pertanto, secondo le Sezioni Unite, una "modalità di controllo", applicabile, tra l'altro, anche a misure coercitive diverse dagli arresti domiciliari, come avviene ad esempio con la misura dell'allontanamento della casa familiare prevista dall'art. 282-bis comma 6 cod. proc. pen.

Ed è alla luce della natura meramente modale degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, nonchè degli obiettivi perseguiti dal legislatore con le riforme del 2013 e 1015, che la Suprema Corte fornisce la soluzione alla questio iuris rimessa alla sua decisione, evidenziando come debba ritenersi inaccettabile un'interpretazione della disciplina in esame che comporti l'automatica applicazione della misura cautelare in carcere nel caso di accertata indisponibilità del congegno elettronico ma, al contempo, come non sia possibile neanche affermare la necessaria applicazione degli arresti domiciliari tradizionali, poiché anche tale soluzione contrasterebbe con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, "introducendo un favor non commisurato al convincimento del decidente ed alle valutazioni da questo operate in ordine alla individuazione ed alla tutela delle esigenze cautelari".

Le Sezioni Unite, pertanto, dopo aver affermato la necessità che il giudice, investito della richiesta, proceda preliminarmente ad accertare la disponibilità del braccialetto presso la polizia giudiziaria, escludono che alla accertata indisponibilità dello stesso faccia seguito "qualsiasi forma di automatismo" nella individuazione della misura da applicare, quanto piuttosto la necessità per il giudice di valutare, anche alla luce della nuova circostanza di fatto della indisponibilità del particolare mezzo di controllo, la specifica idoneità, adeguatezza e proporzionalità di ciascuna delle altre misure, in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, che il giudice dovrà evidenziare nella motivazione.

  • sanzione penale
  • sanzione sostitutiva

CAPITOLO III

I LIMITI DI APPLICABILITÀ AL RIESAME REALE DELLA NUOVA DISCIPLINA

(di Vittorio Pazienza )

Sommario

1 Inquadramento della questione. - 2 Le contrastanti soluzioni interpretative e la rimessione alle Sezioni unite. - 3 La soluzione offerta dalle Sezioni unite. - 4 Le pronunce più recenti.

1. Inquadramento della questione.

La legge 15 aprile 2015, n. 47, com'è noto, ha ampiamente rivisitato il sottosistema cautelare personale, introducendo tra l'altro modifiche assai significative sia quanto alla struttura motivazionale dell'ordinanza cautelare, sia quanto al procedimento di riesame avverso provvedimenti applicativi di misure personali. Per quanto interessa specificamente in questa sede, vengono in particolare rilievo: l'inserimento, tra i requisiti dell'ordinanza applicativa previsti dall'art. 292 cod. proc. pen., dell'"autonoma valutazione" delle esigenze cautelari, degli indizi e dei motivi alla base della ritenuta irrilevanza degli elementi addotti dalla difesa; la previsione dell'annullamento del titolo cautelare in caso di motivazione mancante o priva della predetta autonoma valutazione (art. 309, comma 9, ultima parte); l'introduzione della facoltà, per l'imputato, di chiedere il differimento dell'udienza camerale, con proroga per ugual numero di giorni dei termini per il deposito dell'ordinanza e per la decisione (art. 309, comma 9-bis); l'introduzione di un termine perentorio anche per il deposito dell'ordinanza (accanto a quello, già esistente, per la decisione), nonché del divieto di rinnovazione della misura divenuta inefficace per la scadenza dei termini, salva l'esistenza di esigenze eccezionali (art 309, comma 10).

La predetta legge n. 47 è peraltro intervenuta anche sul procedimento di riesame avverso i provvedimenti di sequestro preventivo, conservativo e probatorio, delineato dall'art. 324 cod. proc. pen., il cui comma 7, prima della novella, richiamava - quali disposizioni applicabili anche nel procedimento di riesame reale - i commi 9 e 10 dell'art. 309. L'intervento modificativo è consistito nel richiamo anche del comma 9-bis dell'art. 309: sicchè, nel testo novellato, il comma 7 dell'art. 324 dispone che nel procedimento di riesame reale "si applicano le disposizioni dell'art. 309, commi 9, 9-bis e 10".

Quella che potrebbe apparire, a prima vista, una modifica con effetti di mero coordinamento (conseguente alla richiamata introduzione, da parte della stessa legge n. 47, del comma 9-bis all'interno dell'art. 309), ha finito invece per riproporre - da un angolo visuale inedito - una delle problematiche più controverse e dibattute in ambito processualpenalistico: quella della compiuta identificazione della disciplina regolatrice delle misure cautelari reali, il cui statuto è notoriamente assai più scarno di quello che regola le misure personali.

Tale questione vede fronteggiarsi, non da oggi, due approcci ermeneutici in netto contrasto: da un lato, la tesi - sostenuta anche da un risalente intervento della Consulta, e fatta propria anche da recenti pronunce delle Sezioni unite della Suprema corte (Sez. U, n. 26268 del 28/03/2013, Cavalli, Rv. 255581-255584; Sez. U, n. 51207 del 17/12/2015, Maresca, Rv. 265112-265113) - che ritiene del tutto legittima, anche costituzionalmente, l'esistenza di discipline differenziate per i due settori, essendo diverso il rilievo costituzionale dei valori rispettivamente presi in considerazione (inviolabilità della libertà personale; libera disponibilità dei beni). Dall'altro, la tesi - sostenuta da più parti in dottrina, e non priva di riscontri in giurisprudenza, soprattutto nell'elaborazione favorevole ad un progressivo abbandono della tradizionale concezione del fumus commissi delicti - che nega sia l'esistenza del predetto differente livello di copertura costituzionale dei valori in gioco, sia la legittimità di un regime meno garantito per le misure cautelari reali, rispetto a quello codificato per le misure personali.

Per ciò che riguarda la disciplina del procedimento di riesame - che si è visto essere in parte regolato attraverso il rinvio contenuto nel comma 7 dell'art. 324 ad alcune disposizioni dell'art. 309 - la questione dei rapporti tra il sistema cautelare reale e quello personale aveva trovato un punto fermo nei principi affermati dalla sentenza Cavalli del 2013, poc'anzi citata, e recepiti senza incertezze dalla successiva giurisprudenza delle Sezioni semplici.

Tale pronuncia aveva risolto negativamente il problema dell'applicabilità, anche ai riesami reali, del termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti (previsto per i procedimenti di riesame personale dal comma 5 dell'art. 309, come modificato dalla 1. n. 332 del 1995) e della relativa "sanzione" costituita dalla perdita di efficacia della misura, ai sensi del comma 10 del medesimo art. 309 (anch'esso all'uopo novellato dal legislatore del 1995). A tali conclusioni il Supremo consesso era pervenuto, tra l'altro, attribuendo natura recettizia al rinvio contenuto nel comma 7 dell'art. 324, che doveva cioè intendersi riferito ai commi 9 e 10 dell'art. 309 nella rispettiva formulazione originaria. In altri termini, per le Sezioni unite, la disciplina del procedimento di riesame reale era rimasta "insensibile" alle modifiche introdotte nel 1995, sia perché queste ultime avevano riguardato la sola materia cautelare personale, sia perché, in assenza di formule chiarificatrici, il rinvio doveva intendersi statico, sia perché un rinvio "dinamico" - che segue cioè le "sorti evolutive" della disposizione richiamata - può venire in rilievo nel diritto penale sostanziale, e comunque solo con riferimento ad istituti complessivamente considerati, e non (come nella specie) a singole disposizioni.

L'entrata in vigore della legge n. 47 ha suscitato un duplice ordine di quesiti, quanto alla "tenuta" dell'assetto delineato dalla sentenza Cavalli. Ci si è infatti chiesti se le conclusioni raggiunte da tale pronuncia dovessero o meno essere confermate anche dopo la novella, sia quanto alla inapplicabilità ai riesami reali del termine perentorio ex art. 309 commi 5 e 10, sia quanto alla natura recettizia del rinvio dell'art. 324 ai commi 9 e 10 dell'art. 309.

Sul primo aspetto, la giurisprudenza di legittimità ha assunto un orientamento del tutto costante, nell'affermare che "anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 47 del 2015 che ha novellato l'art. 324, comma settimo, cod. proc. pen., non è applicabile il termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti al tribunale, previsto dall'art. 309, comma quinto, cod. proc. pen., con conseguente perdita di efficacia della misura cautelare impugnata in caso di trasmissione tardiva, bensì il diverso termine indicato dall'art. 324, comma terzo, cod. proc. pen., che ha natura meramente ordinatoria, per cui, nel caso di trasmissione frazionata degli atti, il termine perentorio di dieci giorni, entro cui deve intervenire la decisione a pena di inefficacia della misura, decorre dal momento in cui il tribunale ritiene completa l'acquisizione degli atti" (Sez. 3, n. 44640 del 29/09/2015, Zullo, Rv. 265571. In senso analogo, tra le altre, Sez. 3, n. 35244 del 12/07/2016, Roncone; Sez. 2, n. 18748 del 22/04/2016, Boglia).

Quanto al secondo aspetto, si vedrà tra breve che, in dottrina, sono emersi almeno tre diversi indirizzi ermeneutici: del resto, la questione è da subito apparsa tutt'altro che teorica, essendo in gioco l'applicazione, anche ai procedimenti di riesame reale, del rafforzamento delle garanzie per l'impugnante che caratterizza l'intervento normativo del 2015. Un rafforzamento perseguito non solo agendo sul fronte della celerità del procedimento (con l'introduzione di un termine perentorio anche per il deposito della motivazione), ma anche, e forse soprattutto, cercando di assicurare un risultato effettivo all'imputato o indagato che lamenti fondatamente l'esistenza di un grave difetto motivazionale del titolo cautelare (con l'obbligo per il collegio di annullare l'ordinanza con motivazione mancante o priva dell'autonoma valutazione), ovvero che sia stato vittima di un'altra grave disfunzione del sistema, quale il mancato rispetto di uno dei termini perentori (con il divieto di rinnovare la misura, salvo che ricorrano esigenze cautelari eccezionali).

La delicatezza della questione è stata ben avvertita dalla Terza sezione, che l'ha rimessa al Supremo collegio, ai sensi dell'art. 618 cod. proc. pen., evidenziando la possibilità di contrastanti soluzioni da parte delle Sezioni semplici.

2. Le contrastanti soluzioni interpretative e la rimessione alle Sezioni unite.

Come già accennato, la questione della natura del rinvio contenuto nell'art. 324, dopo l'inserimento nel comma 7 del richiamo anche al comma 9-bis dell'art. 309, ha dato luogo a divergenti soluzioni. In particolare, secondo un primo indirizzo, la natura recettizia doveva essere integralmente confermata anche dopo la novella, non avendo il legislatore del 2015 fornito indicazioni diverse, ed essendo la modifica consistita nel solo rinvio anche al comma 9-bis, senza alcun richiamo del novellato comma 10.

In un'ottica diametralmente opposta, volta tra l'altro a ritenere superata l'idea che una disciplina meno garantita potesse giustificarsi con una diversa copertura costituzionale della sfera patrimoniale rispetto a quella personale (cfr. supra, § 1), si è invece sostenuto che il rinvio dell'art. 324 doveva ormai intendersi dinamico (ovvero riferito ai commi 9 e 10 dell'art. 309, come modificati dalla legge n. 47) in quanto il legislatore era questa volta intervenuto - a differenza del 1995 - anche sulla materia cautelare reale; inoltre, è stato posto in evidenza che il comma 9-bis, certamente applicabile al riesame reale, non poteva che postulare l'operatività anche del comma 10 novellato, prevedendo la possibilità di proroga di un termine (quello per il deposito dell'ordinanza) che era stato introdotto nel comma 10 dell'art. 309 dalla 1. n. 47 (cfr. supra, § 1). È stato infine ritenuto irrilevante l'argomento di carattere formale imperniato sul fatto che il legislatore del 2015, intervenendo sull'art. 324, non aveva richiamato il comma 10 dell'art. 309, perché detto comma era già oggetto del rinvio anche nella formulazione precedente.

A tale aspetto ha invece attribuito un centrale rilievo un terzo indirizzo "intermedio", secondo cui il rinvio era da considerare ancora recettizio solo quanto al comma 10 dell'art. 309. A sostegno di tale assunto, è stato valorizzato il fatto che la 1. n. 47 non aveva integralmente riformulato il comma 7 dell'art. 324, né (all'opposto) si era limitata ad inserirvi il rinvio al comma 9-bis: l'intervento modificativo era infatti consistito nello stabilire che "le parole: 'articolo 309 commi 9'" fossero "sostituite dalle seguenti: 'articolo 309, commi 9, 9-bis". L'aver sostituito il solo comma 9, e non anche il comma 10, è stato ricondotto da una parte dei commentatori - sia per il silenzio dei lavori parlamentari, sia perché si trattava di una modalità operativa "altrimenti incomprensibile" - proprio alla questione della natura del rinvio: si è cioè ritenuto che il ricorso a tale tecnica legislativa esprimesse la scelta di ritenere applicabile, al riesame reale, il solo comma 9 novellato, lasciando ferma invece - quanto al comma 10 - l'applicabilità della originaria formulazione. Tali conclusioni sono state avvalorate anche da considerazioni di ordine sistematico (per la sicura inapplicabilità al riesame reale delle nuove disposizioni dettate in tema di giudizio di rinvio nel nuovo comma 5-bis dell'art. 311, le quali prevedono anch'esse il nuovo termine perentorio per il deposito e il divieto di rinnovazione) e di complessiva ragionevolezza del sistema (essendo difficile equiparare - ai fini specifici del divieto di rinnovazione della misura salvo esigenze eccezionali - la tutela della libertà personale rispetto alla sfera patrimoniale dell'individuo).

Le divergenze interpretative fin qui riassunte sono state prese in considerazione dall'or dinanza con cui la Terza sezione ha rimesso la questione alle Sezioni unite, evidenziando la possibilità di un contrasto potenziale nella giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, ord. n. 50581 del 26/11/2015, Capasso).

In particolare, il Collegio - dopo aver ripercorso le linee argomentative della sentenza Cavalli - ha preso in esame, da un lato, le argomentazioni valorizzabili per sostenere la persistente natura recettizia (o statica) del rinvio: il diverso grado di copertura costituzionale della libertà personale rispetto alla sfera patrimoniale; il carattere "non proporzionato" del divieto di rinnovare la misura, "potenzialmente idoneo ad annullare - senza alcuna possibilità di recupero - la funzione conservatrice e preventiva propria del vincolo"; la sicura inapplicabilità al riesame reale delle corrispondenti nuove disposizioni dettate per il giudizio di rinvio; l'aver richiamato - nell'intervento modificativo del comma 7 dell'art. 324 - il solo comma 9, e non anche il comma 10 dell'art. 309.

D'altro lato, l'ordinanza di rimessione ha richiamato gli argomenti di possibile sostegno alla tesi volta a riconoscere natura "dinamica" al rinvio, dando anzitutto rilievo al fatto che la legge n. 47 è intervenuta (a differenza che nel 1995) anche nel settore del riesame reale, proprio con la modifica dell'art. 324: l'inserimento del comma 9-bis dell'art. 309, accanto ai commi 9 e 10, consentirebbe anzi di interpretare tali disposizioni come un corpus unico posto a tutela dei diritti di difesa, indipendentemente dall'oggetto (personale o reale) del giudizio di riesame. Inoltre, si è posto in evidenza che il riferimento alla possibilità di differire anche il termine per il deposito della decisione, contenuto nel comma 9-bis, avrebbe senso solo applicando il novellato comma 10 dell'art. 309. Infine, quanto alla tecnica di modifica legislativa, si è richiamato l'argomento per cui l'omessa menzione del comma 10 da parte della 1. n. 47 non sarebbe decisiva, perché era stato necessario richiamare il solo comma 9, per collegare ad esso il comma 9-bis.

3. La soluzione offerta dalle Sezioni unite.

Le ricostruzioni dottrinali proposte nei mesi successivi alla novella, pur giungendo a conclusioni divergenti, avevano sostanzialmente preso le mosse dall'impianto argomentativo della sentenza Cavalli, imperniato sulla distinzione tra rinvio statico e dinamico: nella stessa ottica ricostruttiva, come si è appena ricordato, è parsa muoversi anche l'ordinanza di rimessione.

Il contrasto interpretativo è stato risolto da Sez. U, n. 18954 del 31/03/2016, Capas- so, Rv. 266789-266791, che ha ritenuto applicabile, nella nuova formulazione, il solo comma 9 dell'art. 309, e non anche il comma 10: pervenendo peraltro a tali conclusioni all'esito di un percorso motivazionale del tutto diverso da quello adottato dalla sentenza Cavalli.

Il Supremo consesso ha infatti espressamente chiarito, anzitutto, di voler prescindere dai principi e dalle conclusioni di quella pronuncia, intendendo piuttosto riferirsi - attraverso un'analisi letterale e logico-sistematica delle nuove disposizioni - al criterio della compatibilità o meno di queste ultime con l'istituto del riesame reale: un criterio al quale, del resto, le stesse Sezioni unite si erano ispirate, alcuni anni prima della sentenza Cavalli (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239698; Sez. U, n. 25933 del 29/05/2008, Malgioglio), per escludere l'applicabilità del termine perentorio per la trasmissione degli atti, previsto dal comma 5 dell'art. 309. In quella sede, la valutazione di incompatibilità era stata formulata conferendo decisiva rilevanza al difetto di coordinamento causato dalla modifica legislativa del 1995, che - senza operare alcun richiamo nell'art. 324 al predetto nuovo termine, introdotto per il riesame personale - aveva lasciato immutata la disposizione di cui al comma 3 dello stesso art. 324, che per il riesame reale prevedeva (e prevede tuttora), per la trasmissione degli atti, il termine ordinatorio di giorni uno.

Poste tali premesse, le Sezioni unite hanno peraltro evidenziato che una siffatta valutazione in termini di compatibilità non poteva essere effettuata quanto alle disposizioni di cui al novellato comma 10 dell'art. 309, avuto riguardo alla tecnica di interpolazione utilizzata.

In particolare, per il Supremo consesso, l'aver modificato il comma 7 dell'art. 324 non attraverso il semplice inserimento del comma 9-bis, bensì sostituendo le parole "art. 309, commi 9" con le parole "art. 309, commi 9, 9-bis", impone all'interprete di rilevare che il legislatore del 2015 ha inteso estendere al riesame reale solo le nuove disposizioni di cui ai predetti commi 9 e 9-bis dell'art. 309, e non anche quelle di cui al novellato comma 10 (cfr. anche supra, § 2).

Le Sezioni unite hanno poi chiarito che tali conclusioni risultavano confortate, sul piano sistematico, dalla diversa graduabilità dei valori costituzionali in gioco, in grado di giustificare una disciplina del riesame reale non integralmente allineata alle rigide regole del riesame personale, come più volte chiarito dalla Corte costituzionale, oltre che dalle stesse Sezioni unite (cfr. supra, § 1): ciò era del resto confermato dalla scelta, operata dal legislatore del 2015, di non estendere al riesame reale le nuove disposizioni in tema di giudizio di rinvio introdotte per il riesame personale, anch'esse imperniate sul termine perentorio per la decisione e per il deposito dell'ordinanza (cfr. supra, § 2). Sotto altro profilo, le Sezioni unite hanno sottolineato il "difficile abbinamento" alla materia reale del divieto di rinnovare la misura divenuta inefficace, di cui al novellato comma 10 dell'art. 309, anche perché in diverse ipotesi (sequestro probatorio; sequestro finalizzato alla confisca) "non sono nemmeno richieste specifiche esigenze cautelari e tantomeno, dunque, potrebbe pretendersi la motivazione su esigenze eccezionali". In definitiva, ad avviso del Supremo consesso, per il riesame reale deve ritenersi "preponderante e proporzionata la scelta ordinaria di consentire che la sola sanzione per il mancato rispetto dei termini del procedimento sia il relativo riconoscimento e la inefficacia del titolo, cui ben possa seguire la rinnovazione dello stesso, con il seguito di una procedura emendata da vizi".

Concludendo sul punto, le Sezioni unite hanno espressamente disatteso il rilievo dottrinale secondo cui la possibilità di proroga del termine per il deposito dell'ordinanza, prevista dal comma 9-bis (certamente applicabile al riesame reale), implicherebbe la necessità di riferirsi al novellato comma 10 (cfr. supra, § 2): e ciò in quanto "il disposto del comma 9-bis è perfettamente leggibile alla luce dell'art. 128 cod. proc. pen. che è la norma, come sopra già ricordato, che dà corpo, per il riesame delle misure reali, al precetto sul tempo per il deposito della ordinanza e lo rende certo e passibile (oggi) di differimento per comprovate esigenze difensive, senza che in relazione ad esso debbano operare anche le norme sulla perentorietà, sulla prorogabilità per la difficoltà del caso e sulla sanzione di inefficacia introdotte per la prima volta con la legge n. 47 del 2015".

Con riferimento invece al novellato comma 9 dell'art. 309, oggetto dell'intervento sostitutivo operato sull'art. 324 da parte del legislatore del 2015, le Sezioni unite hanno adottato una soluzione "inclusiva", utilizzando - come già accennato - non il criterio della natura fissa o mobile del rinvio, bensì quello della compatibilità delle nuove disposizioni, relative al potere di annullare l'ordinanza per motivazione mancante o difettosa dell'autonoma valutazione (cfr. supra, § 1), con il procedimento impugnatorio cautelare reale. Invero, si è affermato che l'obiettivo di fondo perseguito dalla legge n. 47 (sanzionare qualsiasi prassi di automatico recepimento giudiziale delle tesi di accusa, precludendo la sanatoria del vizio motivazionale attraverso l'intervento surrogatorio del tribunale del riesame) non può non informare le regole di controllo anche nel settore reale: ferma peraltro la necessità di coor dinare al predetto settore - "nei limiti dell'adattamento possibile" - i riferimenti codicistici all'oggetto dell'autonoma valutazione, individuati nelle esigenze cautelari, negli indizi e di elementi forniti dalla difesa.

In tale verifica, per le Sezioni unite, non deve aversi riguardo al contenuto dell'art. 292 cod. proc. pen. (il quale regola il contenuto dell'ordinanza cautelare personale collegandosi strettamente agli artt. 273 e 274 dello stesso codice): occorre piuttosto far riferimento, quanto al tema degli "indizi", all'accertamento che oggi è demandato al giudice in una visione moderna del fumus commissi delicti (compatibilità e congruità degli elementi addotti dall'accusa con la fattispecie contestata, tenendo conto degli elementi addotti dalla difesa fino a dar rilievo all'insussistenza dell'elemento soggettivo, se rilevabile ictu oculi), e alle condizioni che legittimano la confisca, spesso delineate dalla giurisprudenza di legittimità con il riferimento appunto agli "indizi" (ad es. dimostrativi della sproporzione dei beni rispetto al reddito o alle attività economiche del soggetto). Anche il riferimento all'esposizione ed autonoma valutazione delle "esigenze cautelari" nel provvedimento applicativo della misura può trovare riscontro nella materia reale, pur con le eccezioni rappresentate dalle ipotesi di sequestro che prescindono dalla motivazione su tali esigenze (sequestri probatori, finalizzati alla confisca obbligatoria anche a norma dell'art. 12-sexies).

4. Le pronunce più recenti.

Le successive pronunce delle Sezioni semplici che si sono occupate dei limiti di applicabilità, nei procedimenti di riesame reale, delle disposizioni contenute nei novellati commi 9 e 10 dell'art. 309 sembrano aver compattamente recepito i principi formulati dalle Sezioni unite, all'esito del percorso motivazionale sintetizzato nel paragrafo precedente.

In particolare, quanto alla inapplicabilità del novellato comma 10, ed alla conseguente necessità di far riferimento alla formulazione originaria del predetto comma, si richiamano Sez. 3, n. 45468 del 05/05/2016, Capodarca; Sez. 5, n 44112 del 23/06/2016, Russo; Sez. 3, n. 43533 del 08/04/2016, El Hazza; Sez. 3, n. 42746 del 28/06/2016, Abrusci; Sez. 3, n. 40670 del 12/04/2016, Franzosi.

In relazione invece alla ritenuta applicabilità, anche al procedimento di riesame reale, delle disposizioni in tema di annullamento per mancanza di autonoma valutazione del provvedimento applicativo della misura, può qui farsi riferimento - oltre all'appena citata sentenza Franzosi - a Sez. 2, n. 46382 del 21/09/2016, Porta; Sez, 3, n. 41089 del 04/05/2016, Mio; Sez. 3, n. 37170 del 05/07/2016, Giacomuzzi; Sez. 3, n. 35296 del 14/04/2016, Elezi.

In tali decisioni, si è peraltro inteso sottolineare, con varietà di accenti, che l'applicabilità della predetta disposizione non preclude di per sé il ricorso alla motivazione per relationem da parte del giudice chiamato ad emettere il provvedimento, "non essendo tale tecnica incompatibile con un'autonoma valutazione critica del materiale indiziario da parte dello stesso Gip" (cfr. Sez. 3, n. 35296 del 2016, cit.)