Introduzione

INTRODUZIONE

La rassegna del Massimario per l’anno 2014 si sviluppa seguendo gli itinerari tracciati dalle Sezioni unite penali di questa Corte e operando una selezione delle principali questioni affrontate dalla giurisprudenza di legittimità, ricomprendendo nelle materie così individuate anche le più significative decisioni delle Sezioni semplici.

Si tratta di una scelta che si giustifica in relazione al sempre più rilevante ruolo svolto dalle Sezioni unite, determinato dal numero abnorme di sentenze prodotte dalla Corte di cassazione in risposta al continuo e inarrestabile aumento dei ricorsi, che quest’anno hanno raggiunto e superato la quota di 55.000: è evidente che una Corte di legittimità che in un anno pubblica in media oltre 50.000 provvedimenti, tra sentenze ed ordinanze (nel 2014 i provvedimenti sono stati 53.840), non è in grado di assolvere alla funzione nomofilattica che ad essa è pure assegnata, ma vede valorizzato, inevitabilmente e naturalmente, il suo ruolo di giudice di terza istanza, con l’ulteriore effetto di produrre una giurisprudenza in cui sempre più spesso emergono contrasti interpretativi, talvolta inconsapevoli.

Da qui la necessità di ricomporre tali fratture attraverso l’intervento delle Sezioni unite, che in questa situazione, di vera e propria patologia, appare l’unico organo della Cassazione in grado di assicurare l’uniforme interpretazione della legge, cui si riferisce, ancora, l’art. 65 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 sull’ordinamento giudiziario.

La lettura dei percorsi, così come rappresentati nella Rassegna, offre il quadro di un giudice di legittimità in affanno nell’assicurare attraverso le sue decisioni lo “jus constitutionis”, ma che nello stesso tempo vede valorizzata la sua vocazione di garanzia dei diritti delle persone. In altri termini, la realtà di una Corte di cassazione, che necessariamente tende verso un modello di giudice dello “jus litigatoris”, conduce alla sua conformazione come “giudice dei diritti”, in quanto tale più vicino alla società e alle sue trasformazioni divenendo, come è stato sottolineato, la “Cassazione del diritto vissuto”.

E che questa sia la sua attuale vocazione lo prova anche il fatto che sempre più spesso la Corte di cassazione, non solo nella sua composizione più autorevole, è chiamata a risolvere questioni di immediato impatto – talvolta innescate da decisioni delle Corti europee ovvero della Corte costituzionale –, questioni che hanno una ricaduta significativa sull’ordinamento giuridico, sostanziale e processuale, tale da aprire nuovi scenari in settori per i quali sembrava che gli assetti tradizionali non dovessero subire sconvolgimenti, come è accaduto, negli ultimi tempi, per le controversie che hanno riguardato il tema del giudicato e del superamento della sua assoluta intangibilità.

Proprio con riferimento al complesso tema dei rapporti tra legge penale e giudicato si apre la presente Rassegna, ricostruendo una giurisprudenza innovativa delle Sezioni unite che ha portato ad un ripensamento articolato del principio dell’intangibilità del giudicato in una prospettiva equilibrata, attenta ai valori costituzionali e sovranazionali, in funzione dell’affermazione dei diritti dell’imputato e del condannato.

Sempre nella parte dedicata alle questioni di diritto sostanziale la Rassegna si occupa poi di un tema molto controverso come quello della definizione del dolo eventuale e degli elementi differenziali rispetto alla colpa con previsione e, inoltre, fa il punto sul percorso giurisprudenziale in merito alle modifiche di alcuni delitti contro la pubblica amministrazione, per verificare se sono state ricomposte le divergenze affiorate all’interno della stessa Corte di cassazione nella delimitazione degli ambiti applicativi delle due fattispecie della concussione e della induzione indebita.

Molti altri sono i temi toccati dalle pronunce delle Sezioni unite di cui si tratta nella Rassegna e che qui possono essere solo accennati, tra cui il concetto di induzione nella prostituzione minorile, i confini del reato di intralcio alla giustizia, il mai sopito dibattito sul furto nel supermercato, in particolare sulla distinzione tra tentativo e furto consumato.

Ancora, a seguito della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale che, come è noto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, inseriti in sede di conversione dalla legge n. 49 del 2006, il giudice di legittimità si è dovuto misurare con una serie di problematiche aventi ad oggetto, tra l’altro, il tema della illegalità della pena applicata per i reati di detenzione illecita di sostanze stupefacenti in base ai limiti edittali previsti dalla normativa abrogata per effetto della sentenza sopra menzionata, che ha fatto rivivere le sanzioni originariamente previste nel d.P.R. n. 309 del 1990. Gli orientamenti decisamente diversificati espressi dalle Sezioni della Corte di cassazione hanno determinato l’esigenza di rimettere ben quattro questioni alle Sezioni unite.

Anche in materia di criminalità organizzata vi sono state significative decisioni: in particolare le Sezioni unite hanno avuto modo di meglio definire il collegamento tra i delitti di cui agli artt. 416-bis, 648-bis e 648-ter c.p., riconoscendo tra l’altro che anche il reato associativo può costituire presupposto del riciclaggio o del reimpiego di capitali. In questo stesso settore si segnalano alcune pronunce delle Sezioni semplici sul reato di scambio elettorale politico mafioso, che hanno offerto le prime letture sul reato introdotto con la legge n. 62 del 2014, precisando il rapporto di successione tra la nuova fattispecie e quella in vigore precedentemente.

L’illustrazione della giurisprudenza di quest’anno dà anche conto delle importanti affermazioni sulla responsabilità da reato degli enti: si tratta di materia ancora piuttosto inesplorata, sicché merita di essere segnalato che le Sezioni unite hanno preso posizione sulla natura del sistema previsto dal d.lgs. 231 del 2001, escludendo che violi il principio della responsabilità per fatto proprio e cimentandosi nella ricostruzione del contenuto della c.d. colpa di organizzazione.

Molti i temi processuali. Dalla rilevanza dell’astensione del difensore nelle udienze penali alle questioni sull’interpretazione e traduzione degli atti processuali, dai limiti dell’utilizzo dell’intercettazione come corpo di reato al sequestro conservativo, dal delicato settore della custodia cautelare al regime delle prove. Importanti alcuni interventi in materia di giudizi speciali a cui, nonostante tutto, il codice continua ad assegnare un ruolo fondamentale per il funzionamento complessivo del processo.

Sul tema dei sequestri e delle confische si sono registrate nel 2014 quattro interventi delle Sezioni unite e una serie di pronunce di indubbio, elevato, rilievo delle Sezioni semplici a conferma di come quello della sottrazione dei proventi delle attività criminose continui ad assumere una fondamentale importanza per la società.

L’aggressione ai patrimoni illeciti rappresenta un modello di contrasto essenziale non solo nell’ambito delle misure di prevenzione patrimoniali e nel contrasto ai gruppi appartenenti alla criminalità organizzata, ma, più in generale, nei confronti della c.d. criminalità di impresa, intendendosi con questa espressione quei soggetti – in prevalenza società – che operano sul mercato in maniera del tutto lecita e che nel corso della loro attività pongono in essere crimini economici, eventuali e contingenti.

In tale quadro di riferimento, un istituto appartenente da sempre alla nostra tradizione giuridica, come la confisca – ed il sequestro ad essa strumentale – continua a dimostrare una vitalità e una duttilità tali da renderlo oggi lo strumento più efficace per fronteggiare la criminalità del profitto. Di questo la Corte di cassazione ha mostrato di essere perfettamente consapevole, prendendo atto dell’importanza di tali strumenti nel contrasto alla criminalità economica e organizzata, senza mai abdicare al ruolo di garante della legalità e dei diritti, come dimostrano alcune pronunce sulla buona fede dei terzi e dei creditori.

A conclusione di questa breve illustrazione del contenuto della Rassegna va detto che si è trattato, anche quest’anno, di un lavoro collettivo a cui hanno preso parte tutti i magistrati del settore penale dell’Ufficio del Massimario, nello sforzo comune di fornire una ricostruzione dinamica dei percorsi interpretativi della giurisprudenza di legittimità, perseguendo l’obiettivo di fotografare il diritto vivente in continuo divenire: ad essi va il nostro ringraziamento, unito a quello rivolto a tutto il personale della Cancelleria, per il prezioso contributo che giornalmente fornisce al lavoro dell’Ufficio.

Infine, questa è anche l’occasione per rivolgere un saluto affettuoso alla dirigente del servizio penale, Signora Graziella Paiella, vero pilastro organizzativo dell’Ufficio, che lascia la Corte di cassazione dopo anni di lavoro dedicati con passione e dedizione all’attività del Massimario.

Roma, 20 gennaio 2015

Giuseppe Maria Berruti – Giorgio Fidelbo

PRIMA PARTE QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE

  • verifica di costituzionalità
  • giurisdizione penale
  • sanzione penale
  • Convenzione europea dei diritti dell'uomo
  • circostanza aggravante

CAPITOLO I

I COMPLESSI RAPPORTI TRA LEGGE PENALE E GIUDICATO

(di Antonio Corbo )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il limite del giudicato all'applicazione della disposizione sopravvenuta più favorevole. - 3 Il giudicato e l'applicazione della disposizione più favorevole a seguito di dichiarazione di incostituzionalità conseguente a violazione della CEDU. - 3.a Il caso esaminato. - 3.b Il percorso argomentativo delle Sezioni Unite: la giurisprudenza della Corte EDU sul principio della retroattività in mitius e la sua rilevanza di 'sistema'. - 3.c (segue): portata sostanziale e profili processuali della disposizione di cui all'art. 442, comma 2, cod. proc. pen. - 3.d (segue): il superamento del limite del giudicato. - 3.e (segue): lo strumento processuale per la 'correzione' del giudicato. - 3.f Le conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite. - 4 Il giudicato e la rideterminazione della pena fissata con sentenza irrevocabile di condanna sulla base di norma successivamente dichiarata incostituzionale. - 4.a Il percorso argomentativo delle Sezioni Unite: gli orientamenti delle Sezioni semplici sull'eseguibilità della porzione di pena inflitta in applicazione dell'aggravante prevista dall'art. 61, primo comma, n. 11-bis), cod. pen. - 4.b (segue): la differenza tra il fenomeno della successione di leggi nel tempo e quello della dichiarazione di incostituzionalità. - 4.c (segue): il fondamento valoriale del giudicato e la progressiva erosione della sua intangibilità nel percorso evolutivo dell'ordinamento giuridico italiano. - 4.d (segue): le sollecitazioni provenienti dal sistema della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e le osservazioni conclusive sui limiti all'intangibilità del giudicato. - 4.e (segue): gli strumenti per intervenire sul giudicato. - 4.f (segue): i poteri di intervento del giudice dell'esecuzione e i residui limiti derivanti dal principio del giudicato.

1. Premessa.

Il tema relativo ai rapporti tra legge penale e giudicato è stato oggetto di ripetuti interventi nella giurisprudenza di legittimità nel corso del corrente anno.

In particolare, hanno costituito materia di approfondimento e di puntualizzazione da parte delle Sezioni Unite i profili dell'applicazione della legge più favorevole, dei limiti alla cd. retroattività in mitius, e degli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di disposizioni penali incidenti esclusivamente sul trattamento sanzionatorio. Segnatamente, Sez. Un., 27 marzo 2014, n. 16208, C., Rv. 258654, ha esaminato il tema dei limiti di applicazione della disposizione più favorevole sopraggiunta in conseguenza di modifica legislativa, con riferimento al giudicato parziale; Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 18821/2014, Ercolano, Rv. 258649-258651, ha affrontato la questione dell'applicazione della disposizione più favorevole in relazione a condanna divenuta irrevocabile prima della dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione più rigorosa, pronunciata per violazione dell'art. 117 Cost. in riferimento alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo; Sez. Un., 29 maggio 2014, n. 42858, Gatto, Rv. 260695-260700, ha analizzato il problema delle conseguenze della dichiarazione di incostituzionalità di disposizioni rilevanti ai soli fini della commisurazione della pena sulle sentenze coperte da giudicato, anche avendo riguardo all'efficacia attribuibile a modifiche legislative sopravvenute dopo l'irrevocabilità.

Dal tenore complessivo e coordinato di queste decisioni risulta essere derivato un ripensamento strutturale ed articolato del principio dell'intangibilità del giudicato, in una prospettiva di equilibrio e di stabilità relativa, permeabile all'affermazione dei valori costituzionali e sovranazionali, e, però, insuperabile per effetto di mutamenti normativi dettati da mere ragioni di opportunità politica.

2. Il limite del giudicato all'applicazione della disposizione sopravvenuta più favorevole.

Una puntuale ed inequivocabile precisazione del limite derivante dal giudicato all'applicazione della disposizione più favorevole è stata offerta da Sez. Un., 27 marzo 2014, n. 16208, C., Rv. 258654.

Il problema, nella specifica regiudicanda sottoposta all'esame della Corte, era emerso perché, dopo la sentenza emessa dal giudice di rinvio in relazione a più episodi di violenza sessuale e concussione unificati dal vincolo della continuazione, era sopraggiunta la modifica dell'art. 317 cod. pen. ad opera della legge 6 novembre 2012, n. 190, la quale, com'è noto, ha 'spacchettato' la previgente fattispecie della concussione nelle due distinte ipotesi della concussione per costrizione (contemplata a tutt'oggi dall'art. 317 cod. pen.) e della induzione indebita (prevista dal 'nuovo' art. 319-quater cod. pen.), prevedendo per quest'ultima figura un trattamento sanzionatorio meno severo di quello stabilito, unitariamente per entrambe le condotte, dalla vecchia disciplina. In altri termini, si prospettava, "astrattamente", la questione "se le condotte, o parte di esse, ascritte all'imputato a titolo di concussione, rientr[assero] nel perimetro della meno grave ipotesi ora descritta dall'art. 319-quater".

La Corte, tuttavia, ha ribadito che il principio della necessaria applicazione della lex mitior, fissato dall'art. 2, quarto comma, cod. pen., trova un "limite - ed è questo il profilo che assume carattere dirimente ai fini dell'odierno scrutinio - rappresentato dall'eventuale intervento del giudicato".

A questo specifico proposito, le Sezioni Unite hanno evidenziato che "la preclusione del giudicato come limite alla applicazione retroattiva della lex mitior" è stata più volte ritenuta dalla Corte costituzionale compatibile con la Costituzione e con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, per come interpretati dalla Corte di Strasburgo. In particolare, il supremo organo di nomofilachia ha richiamato, in termini testuali, la sentenza n. 230 del 2012 del Giudice delle leggi per rappresentare che il principio di retroattività della lex mitior ha un fondamento ben diverso da quello relativo alla irretroattività della norma penale sfavorevole: mentre quest'ultimo costituisce "uno strumento di garanzia del cittadino contro persecuzioni arbitrarie, espressivo dell'esigenza di 'calcolabilità' delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale", il primo ripone il suo "fondamento piuttosto nel principio di eguaglianza, che richiede, in linea di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva di un mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore". Questo diverso fondamento valoriale della retroattività in mitius determina, ad avviso della Corte di legittimità, "l'ovvia conseguenza di rendere non incompatibile con quel principio proprio il limite del giudicato, secondo quanto affermato sul punto dalla stessa Corte EDU, nel caso Scoppola contro Italia".

Muovendo da questa premessa di fondo, le Sezioni Unite hanno osservato che, "nella specie, essendo intervenuta prima della novella legislativa la pronuncia rescindente di questa Corte proprio sul tema della individuazione del reato più grave in quello di concussione, e poiché il tema della relativa qualificazione giuridica e della responsabilità non ha formato oggetto di censure da parte del giudice della legittimità, il relativo profilo ha ormai assunto l'autorità del giudicato, a norma dell'art. 624, comma 1, cod. proc. pen. " Hanno anche aggiunto, ad ulteriore esplicazione, che, "in questa prospettiva, appare logicamente consequenziale ritenere che, ove il punto irretrattabilmente risolto attenga alla ritenuta sussistenza di responsabilità penale in ordine ad una determinata fattispecie, le vicende del reato e della sua riferibilità all'imputato si 'cristallizzano', con la ragionevole conseguenza di rendere il reato stesso ormai processualmente insensibile rispetto al sopravvenire di ipotesi estintive, come la prescrizione, o modificative, agli effetti di quanto previsto dall'art. 2, quarto comma, cod. pen.".

In altri termini, il limite del giudicato alla retroattività della disposizione più favorevole è stato ritenuto applicabile anche nel caso di giudicato cd. parziale. Al riguardo, e procedendo ad un ulteriore approfondimento del tema, la Corte ha preliminarmente ribadito e riaffermato i principi ormai consolidati in tema di formazione progressiva del giudicato derivanti dall'annullamento parziale pronunciato in sede di legittimità, ricollegandone l'affermazione alle disposizioni di cui agli artt. 624, 627 e 628 cod. proc. pen.: la prima, perché, al comma 1, riconosce esplicitamente "autorità di cosa giudicata" alle parti della sentenza (del giudice di merito) che non hanno connessione essenziale con la parte annullata, e, al comma 2, demanda al giudice del rescindente il compito di dichiarare quali parti della sentenza del giudice a quo diventano irrevocabili; la seconda, in quanto, al comma 4, stabilisce che nel giudizio di rinvio non possono essere proposte nullità, anche assolute, o inammissibilità, verificatesi in precedente; l'ultima, siccome espressamente consente l'impugnabilità della sentenza del giudice del rinvio solo in relazione ai punti non decisi in sede di giudizio rescindente. Una volta rilevato che il giudicato parziale determina l'irrevocabilità dei 'punti' della decisione impugnata da esso coperti, è stato lineare concludere che in ordine a tali 'punti' non può più porsi il problema dell'applicazione della disposizione più favorevole. Queste le testuali affermazioni delle Sezioni Unite: "Posto, dunque, che nella vicenda in esame la lex mitior è intervenuta dopo la pronuncia rescindente della Corte di cassazione che ha determinato la irrevocabilità della decisione sulla responsabilità penale e sulla qualificazione giuridica dei fatti ascritti all'imputato, ne deriva che, a norma dell'art. 2, quarto comma, cod. pen., la le legge modificativa non può trovare applicazione".

3. Il giudicato e l'applicazione della disposizione più favorevole a seguito di dichiarazione di incostituzionalità conseguente a violazione della CEDU.

Un diverso problema è stato affrontato da Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 18821/2014, Ercolano, Rv. 258649-258651.

Questa decisione, infatti, ha sì esaminato la questione dell'applicazione retroattiva della disposizione più favorevole avendo riguardo a sentenze già divenute irrevocabili, ma con riferimento ad una vicenda in cui la "lex mitior" era sopravvenuta prima della formazione del giudicato e ad essa non era stata data attuazione per la precisa ragione che l'effetto della retroattività favorevole era stato impedito da una previsione di legge successivamente dichiarata incostituzionale in quanto in contrasto con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, per come interpretati dalla Corte di Strasburgo. In altri termini, il tema sottoposto a scrutinio non è stato quello dei rapporti tra disposizione più favorevole e limite del giudicato, bensì quello dell'incidenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale per violazione della Convenzione EDU sulle pene irrogate con sentenza ormai irrevocabile.

Può essere utile sottolineare, inoltre, che l'occasione ha anche consentito alla Corte di cassazione, per un verso, di precisare la nozione di "disposizione penale", e di attribuire alla stessa un ambito applicativo più vasto di quello formale, parametrato piuttosto sugli effetti sostanziali, così da ricomprendervi anche disposizioni contenute nel codice di procedura penale, nonché, per altro verso, di indicare gli strumenti processuali attraverso i quali poter intervenire sul trattamento sanzionatorio irrogato da una sentenza irrevocabile di condanna, al fine di rideterminarlo.

3.a. Il caso esaminato.

Per una più chiara esposizione della questione esaminata dalle Sezioni Unite e dei principi affermati nella sentenza, è utile indicare i profili fattuali che hanno caratterizzato la regiudicanda oggetto di concreta cognizione.

In primo grado, il ricorrente era stato condannato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno. Nel corso del giudizio di appello, era entrato in vigore l'art. 4-ter della legge 5 giugno 2000, n. 144, di conversione del decreto legge 7 aprile 2000, n. 82, il quale aveva esteso anche in relazione ai processi in corso davanti al giudice di secondo grado il diritto dell'imputato di essere giudicato, a sua esclusiva richiesta, nelle forme del rito abbreviato, e di conseguire, per effetto di tale scelta, la sostituzione della pena dell'ergastolo con quella della reclusione di anni trenta, secondo quanto stabilito, in generale, dall'art. 30, comma 1, lett. b) della legge 16 dicembre 1999, n. 479; l'interessato, in applicazione e nella vigenza di tale disciplina, aveva chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato. Tuttavia, prima che il giudizio di appello fosse definito, era sopraggiunto, il decreto legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito con modificazioni, dalla legge 4 gennaio 2001, n. 4, il quale, all'art. 7, aveva precisato, in linea generale, che, nel giudizio abbreviato, la sostituzione della pena dell'ergastolo con quelle della reclusione di anni trenta deve "intendersi riferita all'ergastolo senza isolamento diurno", mentre quella dell'ergastolo con isolamento diurno è sostituita da quella dell'ergastolo; in conseguenza di ciò, l'interessato era stato successivamente condannato alla pena dell'ergastolo, in applicazione del citato art. 7 del d.l. n. 341 del 2000, e la sentenza era divenuta irrevocabile. Era quindi intervenuta la sentenza della Corte EDU del 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, la quale, esaminando analoga vicenda relativa ad un altro condannato, aveva affermato che l'indicato art. 7 del d.l. n. 341 del 2000 si poneva in violazione del principio di legalità della pena garantito dall'art. 7 della Convenzione EDU, vulnerando il diritto alla retroattività "in mitius". Sulla base della pronuncia della Corte di Strasburgo, e prospettando di versare in una situazione identica a quella esaminata in tale sede, l'interessato, aveva chiesto al giudice dell'esecuzione di rideterminare la pena a lui inflitta, sostituendo quella dell'ergastolo con quella di anni trenta di reclusione.

La vicenda, approdata davanti alla Corte di legittimità a seguito del ricorso proposto avverso il rigetto dell'istanza di rideterminazione della pena da parte del giudice dell'esecuzione, era stata rimessa alle Sezioni Unite per la speciale importanza delle questioni implicate. Le Sezioni Unite, con ordinanza del 19 aprile 2012, n. 34472, Rv. 252933-252934, avevano poi dichiarato di ufficio rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del d.l. n. 341 del 2000, come convertito dalla legge n. 4 del 2001, in riferimento agli artt. 3 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU. La Corte costituzionale, con sentenza n. 210 del 2013, a sua volta, aveva dichiarato: a) l'illegittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000, come convertito dalla legge n. 4 del 2001, per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU, avendo riguardo alla disciplina in malam partem introdotta per i processi per i quali la richiesta di definizione nella forme del rito abbreviato era stata formulata prima dell'entrata in vigore del medesimo art. 7 d.l. n. 341 del 2000; b) inammissibili le questioni relative all'art. 7, comma 1, citato, in riferimento all'art. 3 Cost., e all'art. 8 del medesimo decreto-legge, in riferimento agli artt. 3 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU.

3.b. Il percorso argomentativo delle Sezioni Unite: la giurisprudenza della Corte EDU sul principio della retroattività in mitius e la sua rilevanza di 'sistema'.

Punto di partenza dell'analisi delle Sezioni Unite è la ricognizione del principio, affermato dalla Corte EDU nella sentenza del 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, e ribadito nella successiva sentenza del 27 aprile 2010, Morabito c. Italia - così superando l'opposto indirizzo precedentemente seguito -, secondo cui l'art. 7, § 1, della Convenzione EDU "non soltanto garantisce il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successive adottate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo".

Il giudice di legittimità ha poi rilevato che l'approdo ermeneutico della Corte di Strasburgo - che riferisce, peraltro, il principio di retroattività in mitius, ad un campo di applicazione più ristretto di quello previsto dall'art. 2, quarto comma, cod. pen., limitato alle sole "disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono" - ha un significato sistemico: la sentenza Scoppola, infatti, esplicita il significato della disposizione CEDU ed enuncia una regola di giudizio di portata generale, che individua una violazione a livello normativo ed impone di rimuovere gli effetti da questa prodotti nei confronti di tutti i condannati che versano nelle medesime condizioni di quello la cui posizione era stata oggetto di esame, al fine di rimediare alla lesione di un diritto fondamentale determinata nell'esercizio della giurisdizione penale.

3.c. (segue): portata sostanziale e profili processuali della disposizione di cui all'art. 442, comma 2, cod. proc. pen.

Posta questa premessa, le Sezioni Unite hanno esaminato la natura della disposizione posta dall'art. 442, comma 2, cod. proc. pen.

Il risultato dell'indagine è stato il riconoscimento della natura sostanziale di questa previsione, poiché essa, "pur disciplinando aspetti processuali connessi", regola "la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato".

A tal proposito, la Corte ha richiamato, come significativo precedente, la sentenza Sez. Un., 6 marzo 1992, n. 2977, Piccillo, Rv. 189398-189399, la quale, proprio argomentando dalla natura sostanziale della disciplina di cui all'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., aveva ritenuto intangibile il trattamento sanzionatorio più favorevole inflitto in applicazione del testo dichiarato incostituzionale successivamente alla condanna.

Le Sezioni Unite hanno peraltro evidenziato che l'individuazione della disposizione più favorevole "deve avvenire coordinando il dato normativo relativo alla prevista sostituzione di pena con le modalità e i tempi di accesso al rito, da cui direttamente deriva, in base alla legge vigente al momento, il trattamento sanzionatorio da applicare". In altri termini, dato lo stretto collegamento tra profili sostanziali e profili processuali, e così come osservato nella sentenza Sez. Un., 19 aprile 2012, n. 34233, Giannone, Rv. 252932, "l'individuazione della pena sostitutiva da applicare, in sede di giudizio abbreviato, per i reati puniti in astratto con l'ergastolo, con o senza l'isolamento diurno, è condizionata al verificarsi, per così dire, di una fattispecie complessa, integrata dalla commissione di tale tipo di reato in una determinata epoca e dalla richiesta di accesso al rito speciale da parte dell'interessato", sicché "è tale richiesta, in definitiva, a cristallizzare, nell'ipotesi considerata, il più favorevole trattamento sanzionatorio vigente al momento di essa". In conseguenza di ciò, con riferimento alla vicenda normativa in esame, secondo la Corte, è fondamentale che, nel periodo di tempo di vigenza dell'art. 4-ter della legge 5 giugno 2000, n. 144, di conversione del decreto legge 7 aprile 2000, n. 82, e, quindi, fino alla data di entrata in vigore del decreto legge 24 novembre 2000, n. 341, l'interessato avesse richiesto l'accesso al rito abbreviato. Allo stesso modo, per il giudice di legittimità, assume significato decisivo il mancato esercizio della facoltà prevista dall'art. 8 del medesimo d.l. n. 341 del 2000, che consentiva all'imputato per reati punibili con la pena dell'ergastolo con isolamento diurno di revocare la richiesta di definizione del processo nelle forme semplificate: l'esercizio della facoltà di revoca, infatti, ha irretrattabilmente determinato il venir meno del "presupposto processuale della celebrazione del rito abbreviato", e, quindi, la rilevanza del "tema della successione di leggi penali che regolano, nel caso di ammissione a tale rito, il trattamento sanzionatorio dei reati punibili in astratto con la pena perpetua".

3.d. (segue): il superamento del limite del giudicato.

Riconosciuta la natura sostanziale della disposizione di cui all'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nei limiti sopra indicati, e preso atto della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, decreto legge 24 novembre 2000, n. 341, come convertito dalla legge 4 gennaio 2001, n. 4, laddove esso produceva effetti retroattivi "in malam partem" per i processi in corso alla data della sua entrata in vigore, per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione della "vulnerabilità del giudicato", con riguardo "alla legittimità dell'esecuzione della pena inflitta".

La Corte, infatti, ha evidenziato che, per chi non ha proposto tempestivamente ricorso alla Corte EDU contro la condanna all'ergastolo in abbreviato per effetto dell'applicazione dell'art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000, "il 'decisum' nazionale non è più suscettibile del rimedio giurisdizionale previsto dal sistema convenzionale europeo".

Ciò posto, la sentenza ha rilevato che "la portata valoriale del giudicato, nel quale sono insite preminenti ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell'assetto dei rapporti giuridici, è presidiata costituzionalmente e non è, del resto, neppure estranea alla CEDU, tanto che la stessa Corte di Strasburgo ha ravvisato nel giudicato un limite all'espansione della legge penale più favorevole (…)".

Ha, però, osservato che "la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l'intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (artt. 13, comma secondo, 25, comma secondo) e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall'art. 27, comma terzo, Cost., profili che vengono sicuramente vanificati dalla declaratoria d'incostituzionalità della normativa nazionale di riferimento, perché ritenuta in contrasto con la previsione convenzionale, quale parametro interposto dell'art. 117, comma primo, Cost.", e che, quindi, "s'impone un bilanciamento tra il valore costituzionale della intangibilità del giudicato e altri valori, pure costituzionalmente presidiati, quale il diritto fondamentale e inviolabile alla libertà personale, la cui tutela deve ragionevolmente prevalere sul primo".

In conseguenza di tali considerazioni, secondo il giudice di legittimità, l'inflizione della pena dell'ergastolo in danno di "un determinato soggetto, la cui posizione è sostanzialmente sovrapponibile a quella di Scoppola", collegandosi ad "una carenza strutturale dell'ordinamento interno rilevata dalla Corte EDU", dà luogo ad una situazione di violazione del "diritto fondamentale della libertà", che, "anche a costo di porre in crisi il 'dogma' del giudicato, deve essere scongiurata, perché legittimerebbe l'esecuzione di una pena ritenuta, oggettivamente e quindi ben al di là della species facti, illegittima dall'interprete autentico della CEDU e determinerebbe una patente violazione del principio di parità di trattamento di condannati che versano in identica posizione".

Le Sezioni Unite, a tal proposito, rappresentano che, se "il titolo per l'esecuzione della pena è integrato dalla sentenza irrevocabile di condanna, che si atteggia … quale «norma del caso concreto»", tuttavia, "non può ignorarsi la «base giuridica» su cui riposano la sentenza di condanna e, assieme ad essa, la specie e l'entità della pena da eseguire", ossia "la norma generale e astratta, sulla quale il giudice della cognizione ha fatto leva per giustificare la pronuncia di condanna".

A conferma di questo assunto, la Corte evidenzia l'esistenza di "ipotesi di flessione dell'intangibilità del giudicato" previste dal legislatore per assicurare la prevalenza di altri valori. In particolare, la pronuncia richiama: la disciplina fissata dall'art. 673 cod. proc. pen., che dispone la revoca della sentenza di condanna per effetto di abolitio criminis o di dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice; la previsione dell'art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, che dispone la cessazione dell'esecuzione e di tutti gli effetti penali della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in applicazione della norma dichiarata incostituzionale; la regola di cui all'art. 2, terzo comma, cod. pen. (inserito dall'art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 85), secondo la quale la pena detentiva inflitta con condanna irrevocabile deve essere convertita immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, se la legge posteriore prevede esclusivamente quest'ultima. La sentenza, inoltre, indica quest'ultima ipotesi come particolarmente vicina a quella derivante dall'esigenza di garantire l'attuazione dei principi affermati dalla Corte EDU in materia di legalità della pena: "in entrambi i casi … è l'esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti negativi dell'esecuzione di una pena contra legem a prevalere sulla tenuta del giudicato, che deve cedere alla più «alta valenza fondativa» dello statuto della pena, la cui legittimità deve assicurata anche in executivis, fase in cui la sanzione concretamente assolve la sua funzione rieducativa, in una dimensione ovviamente dinamica e, quindi, in termini di attualità".

3.e. (segue): lo strumento processuale per la 'correzione' del giudicato.

Una volta superato "lo scoglio del giudicato", le Sezioni Unite individuano lo strumento processuale idoneo a consentire l'intervento correttivo nell'incidente di esecuzione.

In proposito, la Corte - dopo aver evidenziato l'impraticabilità del procedimento di revisione ex art. 630 cod. proc. pen., come integrato dalla sentenza additiva di principio n. 113 del 2011 della Consulta, di quello del ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen., o di quello della restituzione in termini per la proposizione dell'impugnazione ex art. 175, comma 2, cod. proc. pen. - osserva che la questione sottoposta alla sua attenzione non implica la necessità di "un nuovo accertamento di merito che imponga la riapertura del processo", bensì richiede di "semplicemente incidere sul titolo esecutivo, per sostituire la pena inflitta con quella conforme alla CEDU, corretta costituzionalmente e già determinata, nella specie e nella misura dalla legge". La sentenza, inoltre, sottolinea l'ampiezza dei poteri riconosciuti al giudice dell'esecuzione dall'ordinamento processuale, in particolare dagli artt. 665, 666 e 670 cod. proc. pen., e la loro attitudine ad incidere anche sul contenuto del titolo esecutivo; in particolare, una conferma di questa latitudine della sfera di intervento della giurisdizione esecutiva può essere colta nell'attribuzione di specifici poteri istruttori a norma dell'art. 666, comma 5, cod. proc. pen.

Nel quadro delineato da queste coordinate, le Sezioni Unite rilevano che, ai fini della "non eseguibilità del giudicato di condanna nella parte concernente la specie e l'entità della pena irrogata, perché colpita da sopravvenuta declaratoria d'illegittimità costituzionale per contrasto con l'art. 117, comma primo, Cost., integrato - quale parametro interposto - dall'art. 7, § 1, CEDU", non può costituire un utile strumento la previsione contenuta nell'art. 673 cod. proc. pen.: questa attiene specificamente ai "fenomeni della depenalizzazione e della incostituzionalità di una determinata fattispecie penale, oggetto della pronuncia irrevocabile"; la stessa "non lascia spazio, però, per essere interpretata anche nel senso di legittimare un intervento selettivo del giudice dell'esecuzione sul giudicato formale nella sola parte relativa all'aspetto sanzionatorio ad esso interno e riferibile al titolo di reato non attinto da perdita di efficacia".

La previsione di cui all'art. 673 cod. proc. pen., comunque, ad avviso della Corte, non preclude la rilevanza di situazioni diverse che impongono comunque una modifica parziale del giudicato: una precisa conferma è derivabile da quanto statuisce l'art. 2, terzo comma, cod. pen., che dispone la conversione della pena detentiva inflitta con sentenza irrevocabile con la pena pecuniaria introdotta in sostituzione da una legge posteriore, ma nella stessa direzione offre una decisiva indicazione il dettato dell'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

Le Sezioni Unite, infatti, rilevano che il quarto comma di tale disposizione, nel recitare "Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali", compie un "riferimento generico" alla "norma dichiarata incostituzionale", e non è, quindi, circoscritto alla sola norma incriminatrice, ma consente di incidere anche sulla sanzione. Questa soluzione, del resto, risulta già sperimentata da più decisioni che hanno affermato l'ineseguibilità della porzione di pena riferibile a circostanza aggravante incostituzionale e precisamente da: Sez. I, 25 maggio 2012, n. 26899, Harizi, Rv. 253084; Sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361, Teteh, Rv. 253338; Sez. I, 27 ottobre 2012, n. 977/2012, Hauohu, Rv. 252062. Né, per il collegio, è condivisibile l'opposta tesi sostenuta da Sez. I, 19 gennaio 2012, n. 27640, Hamrouni, Rv. 253383, secondo la quale l'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 dovrebbe ritenersi implicitamente abrogato a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 673 cod. proc. pen., poiché non appare plausibile che quest'ultima, in quanto norma di natura processuale, determini la "abrogazione implicita di una disposizione sostanziale ad ampio spettro". Inoltre, secondo le Sezioni Unite, il testo dell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, laddove fa riferimento alla cessazione di "tutti gli effetti penali", non limita l'area di operatività della disposizione alla dichiarazione di incostituzionalità delle sole norme incriminatrici: "È agevole obiettare che il riferimento volutamente generico, contenuto nel richiamato art. 30, quarto comma, è certamente comprensivo di queste ultime norme (il che spiega il riferimento alla cessazione anche di «tutti gli effetti penali), ma nulla indice a ritenere che sia circoscritto soltanto alle medesime".

La conclusione, allora, è la seguente: "in tanto il meccanismo di aggressione del giudicato, nella parte relativa alla specie e alla misura della pena inflitta dal giudice della cognizione, è attivabile con incidente di esecuzione, in quanto ricorrano le seguenti condizioni: a) la questione controversa deve essere identica a quella decisa dalla Corte EDU; b) la decisione sovranazionale, alla quale adeguarsi, deve avere rilevato un vizio strutturale della normativa interna sostanziale, che definisce le pene per determinati reati, in quanto non coerente col principio di retroattività in mitius; c) la possibilità di interpretare la normativa interna in senso convenzionalmente orientato ovvero, se ciò non è praticabile, la declaratoria d'incostituzionalità della medesima normativa (com'è accaduto nella specie); d) l'accoglimento della questione sollevata deve essere l'effetto di una operazione sostanzialmente ricognitiva e non deve richiedere la riapertura del processo".

3.f. Le conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite.

All'esito del complesso "iter" argomentativo svolto, e tenendo conto della specificità della vicenda processuale, la Corte ha provveduto direttamente, con annullamento senza rinvio, pronunciato a norma dell'art. 620, comma 1, lett. l), cod. proc. pen., a sostituire la "pena dell'ergastolo con quella di anni trenta di reclusione, legislativamente prevista dal comma 2 dell'art. 442 cod. proc. pen. nel testo risultante dalla disposizione di cui all'art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999".

In sintesi, secondo l'enunciazione dei principi di diritto, le Sezioni Unite hanno ritenuto possibile procedere, ed hanno direttamente proceduto, ad incidere sul giudicato, nell'ambito di un procedimento di esecuzione, per rideterminare il trattamento sanzionatorio irrogato con sentenza irrevocabile in applicazione di una norma (precisamente, l'art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000), "essendo stata quest'ultima norma ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità convenzionale di cui all'art., § 1, CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, e dichiarata incostituzionale per contrasto con l'art. 117, comma primo, Cost."

4. Il giudicato e la rideterminazione della pena fissata con sentenza irrevocabile di condanna sulla base di norma successivamente dichiarata incostituzionale.

La sentenza Sez. Un., 29 maggio 2014, n. 42858, Gatto, Rv. 260695-260700, infine, ha affrontato il più generale tema dell'efficacia della dichiarazione di incostituzionalità - quale che ne sia la causa - di una norma incidente sul (solo) trattamento sanzionatorio, quando questo è stato determinato con sentenza irrevocabile.

L'occasione è stata offerta da vicenda avente ad oggetto la richiesta di rideterminazione della pena in relazione ad una fattispecie di detenzione illecita di sostanza stupefacente, per la quale il giudice della cognizione aveva ritenuto equivalenti l'attenuante del fatto di lieve entità e la recidiva reiterata specifica. Nella concreta regiudicanda, infatti, il giudizio di equivalenza costituiva il risultato dell'applicazione del divieto di riconoscere prevalenza all'attenuante di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, cod. pen., fissato dall'art. 69, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, del quale, tuttavia, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, era stata dichiarata l'illegittimità costituzionale con sentenza della Consulta n. 251 del 2012.

Le Sezioni Unite, muovendo da un'analisi delle differenze tra il fenomeno della successione di leggi nel tempo e quello della dichiarazione di incostituzionalità, nonché della funzione e del valore del giudicato penale, sono pervenute ad affermare che la porzione di pena inflitta sulla base di disposizione censurata dal Giudice delle leggi, ove sia ancora in corso di espiazione, deve essere rideterminata dal giudice dell'esecuzione, e che quest'ultimo, al fine di eseguire detta rimodulazione, è legittimato a compiere tutte le valutazioni 'discrezionali' necessarie, fermi restando i limiti derivanti tanto dalla sentenza di cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali, quanto dai principi posti dall'art. 2 cod. pen., con conseguente preclusione dell'applicabilità di norme più favorevoli eventualmente approvate "medio tempore" dal legislatore dopo l'intervenuta irrevocabilità.

Sembra così possibile cogliere, nella decisione della Corte, la composizione di due esigenze: quella di evitare l'applicazione di una pena (rectius: frazione di pena) costituzionalmente illegittima, e quella, comunque, di assicurare la stabilità del giudicato nonostante i mutamenti normativi introdotti dal legislatore.

4.a. Il percorso argomentativo delle Sezioni Unite: gli orientamenti delle Sezioni semplici sull'eseguibilità della porzione di pena inflitta in applicazione dell'aggravante prevista dall'art. 61, primo comma, n. 11-bis), cod. pen.

Prima tappa dell'ordito motivazionale della sentenza è l'analisi della giurisprudenza di legittimità in tema di eseguibilità della parte di pena irrogata in applicazione dell'aggravante prevista dall'art. 61, primo comma, n. 11-bis), cod. pen., a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della disposizione, pronunciata dal Giudice delle Leggi con sentenza n. 249 del 2010.

Le Sezioni Unite evidenziano l'emersione di due orientamenti contrapposti.

Precisamente, secondo un indirizzo, facente capo a Sez. I, 27 ottobre 2012, n. 977/2012, Hauohu, Rv. 252062, e, poi, seguito, in particolare, da Sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361, Teteh, Rv. 253338, da Sez. I, 25 maggio 2012, n. 26899, Harizi, Rv. 253084, e da Sez. I, 12 giugno 2012, n. 40464, Kabi, non è eseguibile il giudicato di condanna per la parte in cui esso è riferibile alla circostanza aggravante colpita da declaratoria d'illegittimità costituzionale. A fondamento di tale soluzione, le decisioni appena citate - dopo aver rilevato l'inapplicabilità dell'art. 673 cod. proc. pen., il quale si riferisce ai fenomeni di depenalizzazione e di illegittimità costituzionale aventi ad oggetto l'intera fattispecie oggetto della condanna - richiamano l'art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, poiché questa disposizione "non circoscrive in alcun modo, né direttamente, né indirettamente, il divieto di dare esecuzione alla condanna pronunziata «in applicazione» di una norma penale dichiarata incostituzionale", e perciò, in conformità dei principi di personalità, proporzionalità e rimproverabilità, che investono la funzione della pena a norma dell'art. 27 Cost., consente al giudice dell'esecuzione "di individuare la porzione di pena corrispondente e di dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione ove la sentenza del giudice della cognizione abbia omesso di individuarla specificamente, ovvero abbia proceduto … al bilanciamento tra le circostanze".

Secondo il contrapposto indirizzo, affermato da Sez. I, 19 gennaio 2012, n. 27640, Hamrouni, Rv. 253383, e poi ribadito nell'ordinanza di rimessione, invece, la pena inflitta all'esito del giudizio di cognizione è comunque immodificabile. Questa conclusione poggia, da un lato, sulla sicura compatibilità con il principio di eguaglianza del differente trattamento sanzionatorio riservato alle condotte accertate con sentenza passata in giudicato prima della dichiarazione d'incostituzionalità, "perché la res iudicata costituisce fondamento affatto ragionevole del discrimen tra situazioni uguali, come risulta anche dalla disciplina dell'art. 2, quarto comma, cod. pen. …."; dall'altro, sulla inapplicabilità alla specifica vicenda giuridica tanto dell'art. 673 cod. proc. pen., quanto dell'art. 30, commi terzo e quarto, della legge n. 87 del 1953. In particolare, si osserva, quanto all'inapplicabilità del terzo comma dell'art. 30 cit., che la pronuncia della sentenza irrevocabile di condanna esaurisce la "applicazione" di ogni norma penale incidente sul trattamento sanzionatorio, sicché "l'esecuzione della pena trova esclusivamente titolo nel relativo provvedimento di irrogazione della sanzione"; quanto all'inapplicabilità del quarto comma della medesima disposizione, che lo stesso si riferisce alle sole norme incriminatrici, anche in ragione della previsione della cessazione non solo dell'esecuzione, ma anche di "tutti gli effetti penali" della sentenza irrevocabile di condanna, e, comunque, deve ritenersi abrogato dall'art. 673 cod. proc. pen. Ancora, l'ordinanza di rimessione, nel dare atto delle affermazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale n. 210 del 2013, pronunciata a seguito di questione sollevata dalle Sezioni Unite penali nell'ambito del processo cd. Ercolano, ha aggiunto che è stato sì "supposto tuttora vigente" il quarto comma dell'art. 30 della legge n. 87 del 1953, ed è stata sì affermata la recessività del giudicato, ma solo per la necessità di rispettare un principio derivante da una norma pattizia di diritto internazionale, quale l'art. 7 della CEDU, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo.

4.b. (segue): la differenza tra il fenomeno della successione di leggi nel tempo e quello della dichiarazione di incostituzionalità.

Le Sezioni Unite, a conclusione dell'analisi della giurisprudenza sul tema della eseguibilità della porzione di pena irrogata in applicazione di norma dichiarata costituzionalmente illegittima, prendono espressamente posizione in favore dell'orientamento che sostiene la soluzione negativa e ne traggono spunto per dare ordine all'esame dei problemi da affrontare.

Esse osservano, in linea generale, che l'affermazione secondo cui il quarto comma dell'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, si riferisce alle sole norme incriminatrici, ripetuta nella giurisprudenza più risalente, risulta "fondata sull'erronea parificazione tra il fenomeno della successione di leggi nel tempo … e quello derivante dalla declaratoria di illegittimità costituzionale".

A tal proposito si evidenzia che "gli istituti giuridici dell'abrogazione e dell'illegittimità costituzionale delle leggi non sono identici fra loro, si muovono su piani diversi, con competenze diverse e con effetti diversi". In particolare, si rileva che, mentre "la dichiarazione d'illegittimità costituzionale inficia fin dall'origine (o, per le leggi a questa anteriori, fin dalla emanazione della Costituzione) la disposizione impugnata", "l'abrogazione non tanto estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la sfera materiale di efficacia, e quindi l'applicabilità, ai fatti verificatisi sino ad un certo momento", rispondendo a "motivi di opportunità politica, liberamente valutata dal legislatore", e "costituisce, pertanto, fenomeno diverso dall'accertamento, ad opera dell'organo a ciò competente, dell'illegittimità costituzionale di una certa disciplina legislativa". Si aggiunge, ancora, che, in conseguenza di ciò, il fenomeno della dichiarazione d'incostituzionalità "impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza [della Corte costituzionale], che le norme stesse siano comunque applicabili anche ad oggetti ai quali sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulle successioni di leggi nel tempo", così marcando, anche sotto il profilo degli effetti, una netta differenza rispetto alla vicenda dell'abrogazione.

Esattamente perché "il succedersi dei leggi" consegue ad "una rinnovata e diversa valutazione del disvalore penale di un fatto", mentre la dichiarazione d'incostituzionalità "attesta che quella norma mai avrebbe dovuto essere introdotta nell'ordinamento repubblicano, che è Stato costituzionale di diritto", la Corte ritiene di dover concludere che il "limite invalicabile" del giudicato può valere solo per l'applicazione della disposizione penale più favorevole: "la norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall'ordinamento proprio perché affetta da una invalidità originaria" e deve, quindi, "considerarsi tamquam non fuisset", con la conseguenza che "tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall'universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perché già compiuti e del tutto consumati".

Le Sezioni Unite, anzi, sottolineano che il principio generale della cessazione di efficacia della norma di legge dichiarata incostituzionale riceve, in materia penale, "una portata ben maggiore", per effetto del disposto dell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, che "costituisce attuazione del principio di cui all'art. 25, secondo comma, Cost.", e si riferisce anche alle norme "che stabiliscono una differenza di pena in conseguenza di una determinata condotta".

4.c. (segue): il fondamento valoriale del giudicato e la progressiva erosione della sua intangibilità nel percorso evolutivo dell'ordinamento giuridico italiano.

Sottolineata la differenza tra i fenomeni dell'abrogazione e della dichiarazione d'incostituzionalità, le Sezioni Unite hanno esaminato il tema dell'intangibilità del giudicato.

L'analisi muove da una premessa di tipo sostanziale: "La Costituzione della Repubblica e, successivamente, il nuovo codice di procedura penale hanno ridimensionato profondamente il significato totalizzante attribuito all'intangibilità del giudicato quale espressione della tradizionale concezione autoritaria dello Stato e ne hanno, per contro, rafforzato la valenza di garanzia individuale". La conseguenza è la seguente: "la forza della cosa giudicata" in ambito penale, se "nasce dall'ovvia necessità di certezza e stabilità giuridica e della stessa funzione del giudizio", "deriva soprattutto dall'esigenza di porre un limite all'intervento dello Stato nella sfera individuale e si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem, al fine di impedire la celebrazione di un nuovo processo per il medesimo fatto nei confronti della stessa persona.

La sentenza rileva che questo approdo è il frutto di una lenta elaborazione dottrinale, legislativa e giurisprudenziale.

Ad avviso della Corte, le tappe iniziali di questo percorso possono essere individuate nelle sollecitazioni della dottrina, attenta a sottolineare il "forte legame tra il problema dei limiti del giudicato ed organizzazione democratica dello Stato", e nelle riforme legislative in tema di ampliamento dei casi di revisione (il riferimento è alla legge 14 maggio 1961, n. 481), e dell'ambito applicativo del reato continuato (il riferimento è all'art. 8 del decreto legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito con modificazioni, dalla legge 7 giugno 1974, n. 220).

La decisione, poi, rappresenta che, per quanto riguarda la successiva evoluzione, un ruolo decisivo fu assunto dalla giurisprudenza, di legittimità e costituzionale. In particolare, un momento di grande importanza fu segnato dalla sentenza Sez. Un. 21 giugno 1986, n. 7682, Nicolini, Rv. 173419: questa pronuncia affermò che, nel reato continuato, la pena complessiva doveva essere determinata sulla base di quella da infliggersi per il reato più grave, anche se per quest'ultimo il giudizio è ancora in corso, mentre per il reato già giudicato, in quanto meno grave, è possibile rideterminare la sanzione, in modo da apportare un aumento nei termini ritenuti equi; veniva così ribaltato il consolidato orientamento secondo cui, in caso di sentenza irrevocabile di condanna per un reato meno grave rispetto a quello sottoposto all'esame del giudice, l'applicazione dell'istituto della continuazione doveva ritenersi precluso proprio dal principio di intangibilità del giudicato, in quanto inibente qualsiasi modifica delle statuizioni contenute nella sentenza irrevocabile. Le parole delle Sezioni Unite, in quella occasione, furono chiarissime: "la norma statuisce in modo inequivocabile solo l'immodificabilità del giudizio sul fatto costituente reato, …. sicché nulla consente di ricavare dalla norma l'immodificabilità in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna"; "la pena può subire, invece, quelle modificazioni necessarie imposte dal sistema", ed, anzi, "non può essere escluso che il giudice ricavi per interpretazione un'ulteriore facoltà di incidere sulla pena", anche fine di assicurare il rispetto dei "principi di civiltà giuridica - riaffermati in considerazione del 'favor rei' - e della giustizia sostanziale altrimenti vulnerata da eventi accidentali e indipendenti dal fatto del reo". La sentenza Gatto, a questo punto, aggiunge, che la svolta della giurisprudenza di legittimità trovò piena rispondenza nella giurisprudenza costituzionale, e in particolare delle sentenze n. 115 del 1987 e n. 267 del 1987; segnatamente, la prima di queste due decisioni, affermò che "il principio del giudicato deve essere rettamente inteso" e che "è proprio l'ordinamento stesso che è tutto decisamente orientato a non tenere conto del giudicato, e quindi a non mitizzarne l'intangibilità, ogniqualvolta dal giudicato resterebbe sacrificato il buon diritto del cittadino".

Le Sezioni Unite, quindi, sottolineano che il successivo impulso alla riflessione sui limiti del giudicato, è stato offerto dalla nuova disciplina del codice di procedura penale del 1988. Questa, infatti, da un lato, ha previsto "una nutrita serie di poteri del giudice dell'esecuzione più o meno incidenti sul giudicato", in particolare agli artt. 669, 672, 673, 674 e 676 cod. proc. pen. e 188 disp. att. cod. proc. pen. Dall'altro, ha "rafforzato la valenza garantistica del giudicato penale, tendenzialmente ispirato al favor rei", in particolare escludendone la validità erga omnes, riducendone fortemente l'efficacia nei giudizi civili e amministrativi, e prevedendo una norma, l'art. 238-bis cod. proc. pen., la quale consente l'acquisizione in dibattimento di sentenze divenute irrevocabili, ma dispone che le stesse siano valutate a norma degli artt. 187 e 192, comma 3, stesso codice "ai fini della prova del fatto in esse accertato". Sulla base di questo assetto normativo, e cogliendo la necessità di "privilegiare le esigenze di giustizia rispetto a quelle formali dell'intangibilità del giudicato", la giurisprudenza ha ritenuto di poter ampliare la possibilità del ricorso al rimedio della revisione, estendendo la nozione di "prove nuove" anche a quelle già esistenti all'epoca del precedente giudizio e non acquisite, o acquisite, ma non valutate neanche implicitamente.

La sentenza Gatto, ancora, aggiunge che, anche in tempi ormai recenti, il tema dei limiti dell'efficacia del giudicato è stato interessato da ulteriori riforme legislative e da nuovi sviluppi giurisprudenziali. In particolare, con riguardo alle prime, si richiamano: l'introduzione degli istituti del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto (art. 625-bis cod. proc. pen.), della rescissione del giudicato (art. 625-ter cod. proc. pen.); la previsione della possibilità di modificare il giudicato nel caso in cui la legge successiva abbia sostituito la pena detentiva con quella pecuniaria (art. 2, terzo comma, cod. pen.); l'istituzione di sempre più incidenti poteri di intervento sul concreto trattamento sanzionatorio in relazione alla condotta del condannato nella fase di espiazione della pena (cfr. le varie riforme dell'ordinamento penitenziario). Con riferimento ai secondi, si citano, segnatamente, gli sviluppi sul controllo "in executivis" della legalità della pena, quando la stessa eccede per specie o quantità i limiti legali, o, addirittura, è inflitta al di là di ogni previsione ordinamentale, e l'affermazione del principio che riconosce al giudice dell'esecuzione il potere di concedere la sospensione condizionale della pena in caso di revoca per "abolitio criminis" di altre sentenze di condanna che avevano impedito, nel giudizio di cognizione, la concessione del beneficio.

4.d. (segue): le sollecitazioni provenienti dal sistema della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e le osservazioni conclusive sui limiti all'intangibilità del giudicato.

Le Sezioni Unite, al termine dell'analisi relativa alla progressiva evoluzione del "processo di erosione dell'intangibilità del giudicato", rilevano che un impulso decisivo - precisamente "una forte accelerazione" - si è verificato in conseguenza della "necessità di dare esecuzione all'obbligo di ripristinare i diritti del condannato, lesi da violazioni delle norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali".

Secondo i giudici di legittimità, una prima manifestazione di tale 'emergenza' si può individuare nella sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2011, che ha dichiarato l'incostituzionalità, per violazione dell'art. 117, primo coma, Cost., e dell'art. 46 CEDU, dell'art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna, quando ciò sia necessario per conformarsi una sentenza definitiva della Corte di Strasburgo che abbia accertato la violazione delle garanzie attinenti ai diritti fondamentali della persona.

Una seconda, e più importante, evidenza richiamata è quella offerta dall'approdo giurisprudenziale della sentenza Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 18821/2014, Ercolano, Rv. 258649258651, della quale si è dato conto in precedenza, e che la sentenza Gatto richiama più volte testualmente nella parte in cui la stessa ha affermato la recessività del giudicato rispetto alle esigenze di tutela della libertà personale, siccome ristretta sulla base di una norma incriminatrice dichiarata incostituzionale (cfr., supra, spec. § 3.d.). Certo, la sentenza Gatto precisa che "nella sentenza Ercolano i principi di diritto affermati (e particolarmente le conclusioni) appaiono specificamente riferiti alla anomala situazione conseguente alla sentenza pronunciata dalla Corte EDU nel caso Scoppola"; tuttavia, si osserva, i principi affermati nella sentenza Ercolano "hanno valenza generale", perché "non esiste alcuna ragione per ritenere flessibile e cedevole il giudicato (quanto al trattamento sanzionatorio) fondato su norme nazionali violatrici della CEDU e, per contro, intangibile quello fondato su norme dichiarate illegittime per violazione della Costituzione".

Le Sezioni Unite, inoltre, rappresentano come il valore dell'intangibilità del giudicato è stato scalfito anche con riferimento ai rapporti di tipo civilistico dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, la quale ha più volte affermato la recessività della cosa giudicata quando la stessa si pone in contrasto con norme di diritto comunitario (oggi 'euro-unitario') imperative, come è avvenuto con la sentenza del 18 luglio 1007, Lucchini, causa C-119/05, e con la sentenza del 3 settembre 2009, Olimpiclub, causa C-2/08.

All'esito di questo percorso argomentativo, e insieme ricostruttivo, l'unico - indiscutibile - limite individuato all'impermeabilità del giudicato, anche rispetto alla declaratoria di illegittimità costituzionale, è costituito dalla non reversibilità degli effetti, come si desume dal testo dell'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87: "l'esecuzione della pena, infatti, implica l'esistenza di una rapporto esecutivo che nasce dal giudicato e si esaurisce soltanto con la consumazione o l'estinzione della pena".

In linea generale, allora, e conclusivamente, il giudicato penale di condanna, di per sé, determina sì "la delimitazione dell'azione od omissione punibile che viene a coincidere con quella punita", "ma ciò non può in alcun modo implicare che la sentenza che genera il comando punitivo del caso concreto si sottragga per questo solo alla gerarchia delle fonti e che gli effetti da essa prodotti possano resistere indenni alla declaratoria di illegittimità costituzionale della sanzione applicata".

4.e. (segue): gli strumenti per intervenire sul giudicato.

Posta la premessa della possibilità di incidere sul giudicato, la Corte ha esaminato le possibili soluzioni.

Esclusa la praticabilità del ricorso alla disposizione di cui all'art. 673 cod. proc. pen., perché la stessa, così come osservato nella sentenza Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 18821/2014, Ercolano, Rv. 258649-258651, presuppone il venir meno dell'illecito penale, si è però osservato che tale situazione non esclude la sperimentabilità di altri rimedi: si richiama, indicativamente, la vicenda della sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, nei casi previsti dal 'nuovo' art. 2, terzo comma, cod. pen., che deve essere assicurata atteso il disposto di legge, ma che non è, in tutta evidenza, attuabile a norma dell'art. 673 cod. proc. pen.

La soluzione individuata, allora, ancora una volta in linea con gli enunciati della sentenza Ercolano, è quella del ricorso alla previsione di cui all'art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1957, n. 87. La sentenza Gatto, invero, anche per escludere ipotesi di abrogazione implicita, ventilate nella sentenza Sez. I, 19 gennaio 2012, n. 27640, Hamrouni, Rv. 253383, e poi nell'ordinanza di rimessione, sottolinea le differenze tra la previsione contenuta nell'art. 673 cod. proc. pen., e quella di cui all'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953: la prima cancella il dictum del giudice della cognizione; la seconda, invece, "esaurisce la sua valenza demolitoria sull'esecuzione della sentenza, invalidandone parzialmente il titolo esecutivo, senza alcuna efficacia risolutiva sulla decisione divenuta irrevocabile", e, perciò, "copre uno spettro più ampio" di vicende. La medesima sentenza delle Sezioni Unite, ancora, si preoccupa pure di precisare che il riferimento dell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 alla cessazione di "tutti gli effetti penali" non esclude la sua applicabilità alle "altre norme penali sostanziali incidenti soltanto sul trattamento sanzionatorio".

Sotto il profilo strettamente processuale, ad avviso della Corte, il procedimento per l'attuazione di quanto dispone l'art. 30, quarto comma, legge n. 87 del 1953, è quello dell'incidente di esecuzione, a norma dell'art. 666 cod. proc. pen., così come "nessuno dubita" debba avvenire quando occorre procedere alla sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, nei casi previsti dal 'nuovo' art. 2, terzo comma, cod. pen.

Le Sezioni Unite, ancora, rilevano che, "a prima apparenza, la questione in esame sembra diversa da quella della «vicenda Ercolano»", nella quale al giudice dell'esecuzione era "richiesta l'adozione di un provvedimento a contenuto predeterminato". Aggiungono, però, che la questione implicata nella «vicenda Gatto» è simile a quella della condanna per un reato aggravato dalla circostanza di cui all'art. 61, n. 11-bis), cod. pen., quando quest'ultima sia stata computata nel contesto del giudizio di equivalenza o prevalenza delle aggravanti sulle attenuanti, e, quindi, si avvicina alla situazione oggetto della sentenza Sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361, Teteh, Rv. 253338, la quale, pronunciandosi su ricorso di un condannato per reato commesso in concorso dell'aggravante citata con le attenuanti generiche, aveva annullato l'ordinanza di rigetto dell'istanza di rideterminazione della pena, rinviando al giudice dell'esecuzione proprio per una nuova fissazione del trattamento sanzionatorio da eseguire. Osservano, quindi, che "sarebbe del tutto irrazionale consentire la sostituzione della pena dell'ergastolo con quella di trenta anni reclusione (come nel caso Ercolano) e ritenere 'intangibile' la porzione di pena applicata per effetto di norme che mai avrebbero dovuto vivere nell'ordinamento".

4.f. (segue): i poteri di intervento del giudice dell'esecuzione e i residui limiti derivanti dal principio del giudicato.

A questo punto la sentenza Gatto afferma che nessun ostacolo sussiste alla rideterminazione della pena "in executivis" all'esito della dichiarazione d'incostituzionalità, pronunciata con sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, del divieto posto dall'art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte in cui inibiva al giudice di ritenere, all'esito delle proprie autonome valutazioni della vicenda sottoposta al suo esame, il giudizio di prevalenza dell'attenuante di cui al quinto comma dell'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma, cod. pen.

In particolare, le Sezioni Unite evidenziano che, ai fini della riconduzione della pena ai parametri di legalità costituzionale, il compito di attivare l'incidente di esecuzione compete al Pubblico Ministero, ai sensi degli artt. 655, 656 e 666 cod. proc. pen., e dell'art. 73, primo comma, dell'ordinamento giudiziario, "sia all'atto di promovimento dell'esecuzione sia … nel corso di questa", mentre spetta al giudice dell'esecuzione "procedere a quel giudizio di valenza che era stato illegittimamente inibito al giudice della cognizione dal divieto [successivamente] ritenuto costituzionalmente illegittimo".

La sentenza Gatto, a questo punto, sottolinea che al giudice dell'esecuzione sono stati attribuiti dal legislatore "penetranti poteri di accertamento e valutazione, ben più complessi di quelli richiesti da un giudizio di comparazione tra circostanze" in materia di concorso formale e reato continuato, ex art. 671 cod. proc. pen. Aggiunge poi che "la possibilità di avvalersi di poteri valutativi", per il giudice dell'esecuzione, si fonda non semplicemente sulle previsioni di cui agli artt. 671 e 675 cod. proc. pen., ma, più in generale, "sulla razionalità del sistema processuale", alla luce dell'insegnamento di Sez. Un., 20 dicembre 2005, n. 4687/2006, Catanzaro, Rv. 232610, secondo la quale, una volta "che la legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all'esercizio di quella medesima funzione".

La decisione del 2014 rileva, ancora, che "le valutazioni del giudice dell'esecuzione non potranno contraddire quelle del giudice della cognizione risultanti dal testo della sentenza irrevocabile", e che le stesse potranno "essere assunte, se necessario, mediante l'esame degli atti processuali, ai sensi dell'art. 666, comma 5, cod. proc. pen., che autorizza il giudice ad acquisire i documenti e le informazioni necessari e, quando occorre, ad assumere prove nel rispetto del principio del contraddittorio".

Le Sezioni Unite osservano, quindi, che, nel caso di specie, venendo in applicazione la disciplina in materia di stupefacenti, il giudice dovrà tenere conto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, che ha dichiarato l'incostituzionalità degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni, dall'art. 1 della legge 21 febbraio 2006, n. 49, determinando la 'reviviscenza' del testo originario dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, in quanto mai validamente abrogato, il quale prevedeva pene edittali notevolmente più lievi: "Ciò significa che all'esito del giudizio di bilanciamento tra la recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, cod. pen., e la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. cit., occorrerà tenere conto di quest'ultima disposizione come ripristinata a seguito della predetta sentenza".

Peraltro, proprio in considerazione delle argomentazioni svolte sulla differenza tra effetti della successioni di leggi penali ed effetti della dichiarazione di incostituzionalità, e chiudendo la trama del discorso complessivamente svolto, la Corte di legittimità rappresenta "che, intervenuta l'irrevocabilità della sentenza di condanna, al giudice dell'esecuzione è inibito, ai sensi dell'art. 2, quarto comma, cod. pen., applicare norme più favorevoli eventualmente medio tempore applicate dal legislatore".

  • alcolismo
  • omicidio
  • circolazione stradale
  • responsabilità penale
  • trasfusione di sangue
  • reato colposo

CAPITOLO II

DOLO EVENTUALE E COLPA CON PREVISIONE

(di Pietro Silvestri )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il dolo eventuale e la teoria della rappresentazione. - 3 Le teorie volitive: il consenso, l'accettazione del rischio. - 4 (segue). Le teorie volitive e la critica alla distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente fondata sulla distinzione tra prevedibilità astratta e prevedibilità concreta dell'evento. - 5 La compatibilità del dubbio con la colpa cosciente. Il dolo eventuale come accettazione del danno a seguito di una deliberazione comparativa. - 6 Le teorie normative: il problema della prova del momento volitivo del dolo eventuale. Le formule di Frank. - 7 Dai concetti generali agli indicatori di settore. - 8 L'accertamento: la questione. Gli indicatori del dolo. Il ricorso alla formula di Frank. - 9 La giurisprudenza richiamata dalla sentenza "Thyssen": il dolo eventuale nei contesti classici omicidiari. - 10 (segue). Le Sezioni unite "Nocera" in tema di ricettazione. - 11 (segue) La giurisprudenza sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente. - 12 (segue) Il dolo eventuale e le attività lecite di base; il ricorso alle pratiche emotrasfusionali e il conflitto tra legge religiosa e legge dello Stato. - 13 (segue) I casi problematici: dolo eventuale e relazioni sessuali con contagio del virus HIV. - 14 (segue) La guida spericolata o in stato di ubriachezza tra dolo e colpa. - 15 (segue) Il dolo eventuale e l'assenza di "movente". - 16 I principi affermati dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza "Thyssen". - 17 La prova del dolo eventuale. - 18 (segue) Il contro fattuale alla stregua della prima formula di Frank e le considerazioni conclusive.

1. Premessa.

Il tema del dolo eventuale, della sua struttura, dei suoi criteri di accertamento e della sua distinzione dalla colpa con previsione è stato diffusamente affrontato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nel processo avente ad oggetto i tragici fatti della "Thyssenkrupp". (Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343, Imp., PG., RC., Espenhahn e altri, Rv. 261104-105).

La questione della individuazione dei criteri distintivi del dolo eventuale e della sua differenziazione dalla colpa cosciente è storicamente ritenuta tra le più difficoltose del diritto penale ed è indubbio che non sono molte le tematiche che possano esibire un dibattito dottrinario altrettanto vasto ed articolato.

Il dolo eventuale costituisce il luogo in cui, dopo secolare riflessione, si confrontano con le esigenze applicative, le dispute teoriche tra rappresentazione e volontà del dolo e quelle relative alla definizione della struttura del dolo e della colpa.

Con il dolo eventuale viene storicamente configurata una figura di dolo caratterizzata dalla possibilità di diminuire il coefficiente volontaristico del dolo intenzionale o diretto, e, quindi, idonea a ricomprendere i casi in cui l'evento non sia perseguito, sul piano della volontà, come fine, ma vi sia tuttavia la prova di una decisione interiore, di un assenso prestato alla sua verificazione, oltre che di una rappresentazione piena del fatto medesimo.

Il codice penale vigente non valorizza il dolo eventuale come figura autonoma di volontà "minore" e rappresentazione "piena", riportandolo, invece, nello schema principale dell'evento preveduto e voluto come conseguenza dell'azione o omissione (art. 43 cod. pen.), e tuttavia la storia dell'applicazione del dolo nella seconda metà del Novecento registra una ampliamento sempre maggiore della categoria del dolo eventuale che, da sottospecie della regola generale, è divenuta una figura basica del dolo e, dunque, della responsabilità penale nei delitti.

È opportuno evidenziare subito come gli innumerevoli criteri utilizzati per distinguere il dolo eventuale dalla colpa cosciente siano sostanzialmente riconducibili a due orientamenti di fondo.

In base al primo, volto ad una ricostruzione puramente normativa del dolo, si tratterebbe di operare un giudizio sul tipo di rischio prodotto e sul contesto situazionale in cui esso è attivato.

L'altro indirizzo muove dal rifiuto, sul piano teorico, di una ricostruzione normativa del dolo, e tende ad individuare un quid pluris psicologico ulteriore rispetto alla rappresentazione dell'evento, sebbene non identificabile con l'intenzione di cagionarlo.

Nell'ambito di detto indirizzo, le diverse teorie possono essere a loro volta distinte per il minore o maggiore rilievo attribuito al momento della rappresentazione e per lo spazio lasciato alla concreta indagine sull'atteggiamento interiore dell'agente, ovvero sulla componente volitiva ed emozionale.

Il tema peraltro risente della emersione di nuove tipologie di rischi, non sempre allocabili con sicurezza nei territori "già" penalmente illeciti oppure ab origine autorizzati o anche disciplinati dall'ordinamento giuridico.

L'apparizione di fenomenologie di rischio di incerta classificazione e l'espansione del rimprovero penale verso settori tradizionalmente inquadrati nell'ambito delle attività lecite (attività economiche - produttive, lavorative, ma anche sanitarie, sportive) ha prodotto, da una parte, la diffusa percezione della esigenza di superare le impostazioni che muovevano sempre dall'analisi congiunta della coppia concettuale "dolo eventuale/colpa con previsione" con l'abbinamento, in sede applicativa, alle due classi di attività "già penalmente illecite/ab origine autorizzate", e, dall'altra, la produzione di nuove impostazioni dogmatiche che non si limitano a definire il dolo e la colpa come mere forme di colpevolezza, ma attribuiscono ad esse una doppia posizione, vale a dire un ruolo determinante già a livello di fatti tipico, in coerenza con l'idea di una costruzione separata delle diverse tipologie delittuose.

L'assunto costitutivo di tali impostazioni è costituito dal frequente ricorso al concetto di rischio nella veste di elemento fondante la struttura del dolo eventuale: ciò conduce ad attribuire alla valutazione della natura del pericolo, prodotto dal comportamento del reo, una funzione decisiva per stabilire l'estensione delle regioni del dolo eventuale e della colpa con previsione.

In prosieguo, seguendo le indicazioni fornite delle Sezioni unte della Corte di cassazione nella sentenza "Thyssen", si proverà succintamente a rappresentare il quadro di riferimento, dottrinario e giurisprudenziale, entro il quale la Corte di Cassazione è intervenuta, al fine poi di evidenziare i principi affermati dal Supremo Consesso con la importante sentenza emessa nel corso del 2014.

2. Il dolo eventuale e la teoria della rappresentazione.

In un quadro così articolato e complesso, è utile sul piano del metodo, riportare, seppur brevemente, le linee di pensiero della dottrina - richiamata dalla sentenza delle Sezioni unite in esame - che, in relazione al dolo eventuale, valorizza innanzitutto il ruolo della rappresentazione.

Secondo l'impostazione in parola, sono imputati a titolo di dolo sia gli eventi presi di mira direttamente, siano essi previsti come certi o soltanto come possibili, sia quelli previsti come certi ma non presi di mira direttamente; quando, invece, il risultato dannoso, non preso di mira direttamente, è previsto solo come probabile o possibile è necessario qualcosa di ulteriore rispetto alla sola previsione, attesa l'esigenza di individuare un criterio discretivo dalla cosciente, caratterizzata anch'essa dalla previsione dell'evento.

Per l'indirizzo in esame, l'unico criterio idoneo a individuare quale sia stato l'atteggiamento interiore del soggetto nei confronti dell'evento rappresentato è costituito dal tipo di comportamento in concreto tenuto; se un soggetto si rappresenta e prevede che da una sua condotta possa derivare un fatto di reato e, ciò nonostante, si determina a tenere proprio quella condotta, ciò significa che quel soggetto ha accettato il rischio implicito del verificarsi dell'evento, atteso che, ove avesse voluto sottrarsi a tale rischio, e quindi non avesse voluto acconsentire all'evento, non avrebbe agito.

Lo stato di dubbio, per la tesi in questione, non esclude il dolo: "finché l'agente si rappresenta la possibilità positiva del prodursi di un fatto di reato lesivo di un interesse tutelato dal diritto, il rimprovero che gli si muove non è di aver agito con leggerezza, bensì di essersi volontariamente determinato ad una condotta, nonostante la previsione di realizzare un illecito penale".

In tali situazioni, si assume, è presente dunque una previsione concreta del fatto di reato che, invece, manca nella colpa cosciente, in cui vi è sì una previsione della possibilità di cagionare, per effetto della propria condotta, un evento dannoso, ma tale previsione è accompagnata dalla convinzione che il pregiudizio non si verificherà; in tali casi, cioè, l'agente esclude dalla propria coscienza la possibilità positiva che l'evento si verifichi.

L'elemento caratterizzante la colpa cosciente sarebbe costituito, quindi, dalla previsione dell'evento come possibile "in astratto", come conseguenza, cioè, non già della condotta propria dell'agente, ma della condotta in sé, considerata nella sua dimensione impersonale.

Dalla previsione generica sulla idoneità di una condotta a sfociare in astratto in un reato si giunge solo in seguito ad una previsione concreta: la colpa cosciente si caratterizza per una previsione astratta che si evolve nel superamento del dubbio, nel senso che il soggetto si determina a tenere una determinata condotta, dopo aver superato lo stato di dubbio che si risolve in una previsione negativa sulla verificazione dell'evento.

Nel caso in cui il dubbio derivante dalla previsione astratta, facente riferimento alla condotta come impersonale, non venga superato o rimosso, il fatto sarà invece imputato a titolo di dolo eventuale, se il soggetto compia il fatto nonostante la previsione concreta dell'evento conseguente alla sua condotta.

3. Le teorie volitive: il consenso, l'accettazione del rischio.

Affermata la essenzialità della volizione anche nel dolo eventuale, quale scelta soggettiva personale che mette in conto la lesione dei beni, la teoria della accettazione del rischio risponde storicamente all'esigenza di ricollegare il dolo eventuale a un atteggiamento interiore del soggetto agente che si avvicini il più possibile a una presa di posizione della volontà in grado di influire sullo svolgimento degli accadimenti.

Secondo la tesi dell'accettazione del rischio, il dolo eventuale indica l'atteggiamento psicologico di chi si rappresenta la concreta possibilità della realizzazione del fatto di reato e ne accetta il rischio della sua verificazione: agendo senza aver superato lo stato di dubbio, sulla possibile concreta verificazione del fatto, nonostante la sua rappresentazione, il soggetto vuole il fatto medesimo.

In tal senso, si assume, "la consapevole accettazione del rischio si approssima, in sede penalistica, alla vera e propria volizione del fatto"; diversamente, quando il soggetto si rappresenta la possibilità dell'evento lesivo, ma confida nella sua concreta non verificazione, si avrà colpa cosciente o con previsione.

Pertanto, il dolo eventuale si caratterizzerebbe per la mancanza di un rapporto di contraddizione tra volontà ed evento: il soggetto agente decide di agire anche a costo di provocare un evento criminoso. Nella colpa cosciente, invece, l'agente, nonostante preveda che il suo comportamento è idoneo a cagionare un evento illecito, lo pone in essere ugualmente, essendo pervenuto a una «previsione negativa» circa la possibilità che l'evento si realizzi effettivamente, nello specifico contesto delle circostanze in cui egli opera. Se non avesse superato lo stato di dubbio circa il verificarsi dell'evento, il soggetto sarebbe stato in dolo.

La teoria del consenso, collegandosi a quella della rappresentazione pura, ne costituisce, per così dire, un logico sviluppo.

La teoria dell'accettazione del rischio si differenzia in qualche modo da quelle del consenso perché in queste ultime l'oggetto del consenso, cioè dell'approvazione, non è costituito formalmente dal rischio, ma dall'offesa, dall'evento, dalla lesione del bene protetto; affinché vi sia il dolo eventuale non sono richieste la rappresentazione e l'accettazione di un rischio soltanto, ma di un evento o del reato nella sua compiutezza.

Si evidenzia peraltro come la differenza tra la tesi dell'accettazione del rischio e quella del consenso, se trasposta sul piano probatorio, assuma contorni non chiarissimi:

"I passaggi logici ulteriori dalla previsione del rischio all'accettazione dell'evento sono perfino più agevoli. Basta calarsi nella concretezza del fatto: se agisci in una situazione di rischio concreto, incombente, come fai a dire che non hai accettato il rischio. E se il rischio è reale e palpabile, come fai a dire che hai rimosso l'evento, lo hai rifiutato? . . .

Accettare il rischio significa voler correre un rischio, decidendo di agire in un certo modo….ma cosa significa "accettare l'evento"? Nelle espressioni "accettare il rischio" e "accettare l'evento" il termine accettazione ha significati diversi.

«Accettare il rischio» significa dolo intenzionale di rischio: io ho l'intenzione di accettare il rischio, voglio correrlo.

«Accettare l'evento» significa che sono disposto a subire le conseguenze della mia azione: è un dolo di (eventuale) evento.

L'equivoco è semantico e riguarda la parola "accettare". L'evento accade e non può essere accettato o rifiutato come un pacco postale. Prima che accade posso volere l'evento, dopo non posso farci più niente, ne prendo atto e basta… È inutile distinguere accettazione del rischio e accettazione dell'evento se poi bastano le stesse prove per provare tanto la prima che la seconda… se io agisco anche a costo di provocare l'evento, che significa "anche a costo"? Significa che- fatti i miei calcoli - sono disposto a correre il rischio che l'evento si verifichi, cioè sono disposto a provocare l'evento. Mi auguro di non, ma se accade, pazienza. Se io accetto il rischio, accetto l'evento".

4. (segue). Le teorie volitive e la critica alla distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente fondata sulla distinzione tra prevedibilità astratta e prevedibilità concreta dell'evento.

In tale contesto si pone la dottrina, lungamente richiamata dalla Corte di cassazione, che, rivisitando criticamente la tesi dell'accettazione del rischio, e, comunque, le impostazioni che valorizzano la distinzione tra prevedibilità astratta e prevedibilità in concreto della verificazione dell'evento, ha osservato come la radice fondante di tali teorie, cioè l'assunto secondo cui il dolo eventuale sussisterebbe quando il soggetto si rappresenti in concreto l'evento collaterale causabile dalla propria condotta, sarebbe in realtà comune ad ogni persona che preveda, come possibile, un risultato negativo derivabile dal proprio agire: dunque, il requisito in esame non sarebbe caratteristico del solo dolo eventuale, ma anche della colpa cosciente. Si assume, cioè, che la colpevolezza per previsione concreta dell'evento non programmato corrisponde alla colpevolezza propria del reato colposo e non alla più grave colpevolezza che caratterizza il reato doloso.

Si evidenzia che, ai fini della colpa con previsione, l'art. 61 n. 3 cod. pen. esige la previsione dell'evento e non la previsione negativa dello stesso, come invece affermato dalle teorie della rappresentazione, sicchè il concetto di prova negativa, da cui si fa discendere la colpa cosciente, sarebbe quanto mai equivoco: "sotto il profilo dell'oggetto, la previsione di un non evento finisce col postulare come oggetto del nesso psichico un requisito che non fa parte del fatto tipico; del fatto tipico fa parte l'evento, non la sua negazione. Tale incongruenza si riverbera anche sulla strutta della sua previsione. Perché ritenendo che in questo, come in tutti gli altri casi, oggetto della previsione sia proprio l'evento, non la sua negazione, il momento negativo della sua previsione non potrebbe che riferirsi alla sua struttura. Non si tratterebbe della previsione di un non evento, bensì di un evento negativamente previsto: in questo modo però il concetto di previsione negativa finirebbe con l'identificarsi con quello di non previsione".

Ne deriva, secondo l'impostazione in parola, che se anche nella colpa, la previsione, pur negativa, ha ad oggetto l'evento, tale previsione finisce con il rappresentare un elemento che si aggiunge ai coefficienti propri della colpa e che si avvicina alla previsione dell'evento concreto caratteristica del dolo: nel concetto di previsione dell'evento (deve) essere proiettata la fondamentale dimensione cautelare della regola di diligenza la cui trasgressione dà luogo alla colpa. Allorché si afferma che nella colpa cosciente l'evento deve essere positivamente previsto, parrebbe logico richiedere cioè l'esigenza cautelare postulata dalla situazione concreta, da oggetto di riconoscibilità potenziale, diventi oggetto di una consapevolezza attuale, che cioè nella psiche dell'agente si ponga in termini di effettiva percezione la stessa valutazione preventiva che è alla base della regola violata. In questa prospettiva, il concetto di previsione dell'evento non rappresenta più un elemento preso a prestito dal dolo, ma invece il frutto di una proiezione teleologica, per cui l'evento diviene oggetto di una attività intellettiva che investe il significato cautelare della regola rispetto al risultato.

Anche chi agisce con colpa cosciente, si sostiene, mette in relazione l'evento, oggetto di previsione, con la propria condotta, rapportandolo al carattere prognostico interno alla regola cautelare da osservare.

Da tale angolo visuale, sembra allora emergere la rilevanza di un profilo ulteriore, quello, cioè, del significato assunto dalla condotta dell'agente nel quadro del suo collegamento sul piano causale con il risultato offensivo.

Nel dolo la volontà del fatto appare come il necessario "derivato", per così dire, di una sintesi, di un "incontro" tra l'atto deliberativo ed il complessivo quadro delle conoscenze in cui la deliberazione è maturata; tali conoscenze riguardano, per l'appunto, la percezione dell'influenza della propria condotta sulla realizzazione del fatto, con la conseguenza che quest'ultimo potrà considerarsi "voluto", proprio perché il soggetto ha deciso di operare in modo tale da determinarlo e "cagionarlo".

Le diverse forme del dolo, si sostiene, riposano tutte su tale presupposto di fondo e si limitano unicamente ad articolarne le dinamiche psicologiche e i corrispondenti livelli di gravità.

Il dolo è, certamente, più o meno grave a seconda che il soggetto abbia o meno "finalizzato" la sua condotta alla realizzazione del risultato. Ma ciò non significa che si possa rinvenire gli estremi della "volontà" del fatto soltanto nella forma più grave di dolo: né significa che la volontà, in quanto tale, debba essere concepita in maniera sostanzialmente diversa in una piuttosto che in un'altra forma del dolo. Secondo l'indirizzo in esame, la volontà - la decisione di agire in forza della predetta rappresentazione in forma "sinergica" degli elementi del fatto - è sempre presente nel dolo, e la sola differenza riguarda l'intensità del rapporto che intercede tra la scelta dell'autore e l'atteggiarsi o meno dell'offesa come meta preminente della condotta da lui tenuta. Ne deriva, in ultima analisi, che l'intenzione di cagionare il risultato - come pure la certezza o l'alta probabilità dell'evento - si rivelano sì più strettamente "aderenti" alla realizzazione del fatto di quanto non accada nel dolo c.d. "eventuale", ma senza tuttavia impedire il riconoscimento, in tutte le forme del dolo, di quell'unitario momento volontaristico che qualifica l'imputazione secondo il titolo corrispondente: e cioè di quella "decisione consapevole" di attivare un processo causale in direzione dell'offesa, la quale permette di affermare che il fatto, nel suo insieme, è stato pur sempre voluto dall'autore della condotta.

Alla luce di tali considerazioni, il dolo, secondo la tesi in esame, implica una "decisione" da parte dell'autore, maturata nel contesto di un'effettiva rappresentazione del collegamento causale con l'evento; la percezione del rischio - o del pericolo - non sarebbe quindi decisiva, in quanto la sola constatazione che il soggetto si sia prefigurato un rischio concreto più o meno elevato (o comunque superiore a quello "consentito" per quel genere di attività), non basterebbe a far concludere ch'egli abbia reputato concretamente possibile uno sviluppo causale verso l'offesa ricollegabile alla condotta da lui tenuta hic et nunc.

Una volta che si sottolinei che il dolo non può discostarsi, per così dire, dalle proprie "leggi psicologiche", che sono quelle della concretezza del rapporto con il fatto rappresentato e rispetto al quale è maturata la decisione consapevole di porlo in essere, tale assunto resta pienamente valido anche rispetto al dolo eventuale, perché - e purché - il processo causale in direzione dell'offesa si presenti, anche qui, oggetto di una percezione attuale del suo possibile verificarsi, come tale destinata a costituire il fulcro della verifica probatoria inerente a tale forma di colpevolezza.

I rilievi sinora svolti, secondo l'indirizzo in esame, non esauriscono il proprio significato al fine della individuazione degli estremi del dolo; essi sarebbero di particolare rilevanza anche ai fini di un'adeguata impostazione del problema dei rapporti tra dolo e colpa.

Nella colpa cosciente verrebbe a realizzarsi un fenomeno antitetico rispetto al dolo, proprio perché in essa si manifesta uno "scollamento", uno "iato" sotto il profilo psicologico con riguardo agli elementi costitutivi del fatto: una mancata percezione, in altri termini, della predetta connessione "causale" tra gli stessi, e, di conseguenza, l'impossibilità di ricondurli a quella sintesi unitaria in cui si esprime la deliberazione tipica dell'agire doloso.

Si sostiene che chi opera con colpa cosciente, prevede sì l'evento come proiezione teleologica di quelle regole cautelari ch'egli consapevolmente viola e disattende, ma, tuttavia, mal valutando il contesto complessivo delle circostanze, viene pur sempre ad incorrere in un errore sulla stessa possibilità di un decorso causale in direzione dell'offesa, il quale impedisce di ravvisare gli estremi del dolo rispetto al fatto realizzato. La scelta di tenere la condotta non esprime, insomma, data la presenza di un simile errore, quella "risoluzione" di commettere il fatto, che può riscontrarsi unicamente laddove egli fosse realmente consapevole degli sviluppi causali che la sua condotta avrebbe potuto determinare nelle circostanze date.

Alla stregua di simili premesse, si comprende, allora, come il problema fondamentale della delimitazione tra dolo e colpa debba essere affrontato, secondo la dottrina in esame, sulla base di una verifica sostanzialmente analoga a quella che il giudice deve compiere allorché si trovi ad indagare la presenza o meno di un errore rilevante alla stregua della norma generale dell'art. 47 c.p. "Oggetto di accertamento dovranno essere, in altri termini, non già situazioni soggettive di incerto fondamento psicologico - quali, rispettivamente, il "consenso" o l'"accettazione" del rischio, oppure, in caso di colpa cosciente, l'interiore "fiducia" in ordine al mancato realizzarsi dell'offesa -; ciò che occorrerà verificare è, invece, più precisamente, la presenza (o meno) di una relazione con gli elementi del fatto colti nel loro reciproco collegamento, alla luce di un insieme di circostanze tali da far apparire verosimile - al di fuori di qualsiasi arbitraria "presunzione" o semplificazione probatoria - l'ipotesi che l'agente non si fosse ingannato sul modo di presentarsi del rapporto causale tra la condotta e l'evento che ne è scaturito".

5. La compatibilità del dubbio con la colpa cosciente. Il dolo eventuale come accettazione del danno a seguito di una deliberazione comparativa.

Sviluppando le considerazioni esposte, altra dottrina, anch'essa espressamente richiamata dalle Sezioni unite della Corte, ha ritenuto che le teorie della rappresentazione dell'evento non programmato, ovvero dell'accettazione del rischio, sarebbero in contrasto con l'art. 61 n. 3 cod. pen. nella parte in cui pongono a proprio fondamento, da una parte, la distinzione tra previsione astratta/previsione concreta dell'evento e, dall'altra, l'assunto secondo cui il mancato superamento dello stato di dubbio sarebbe compatibile solo con il dolo eventuale.

Si è già detto come l'art. 61 n. 3 cod. pen. faccia riferimento a un'azione compiuta "nonostante" la previsione dell'evento: il dato testuale sembrerebbe quindi richiedere che la previsione dell'evento sussista al momento della condotta e che non debba essere sostituita da una non-previsione o da una contro-previsione, come quella che invece sarebbe implicita nella rimozione del dubbio.

Lo stato di dubbio nel quale il soggetto si trova al momento della condotta andrebbe ricondotto, dunque, al campo della colpa cosciente, non a quello del dolo.

Ne discende, secondo l'impostazione in parola, che l'accettazione del rischio, in questo modo, diventa elemento comune al dolo eventuale e alla colpa cosciente e per distinguerli occorrerà, si assume, fare leva sulle differenti modalità di accettazione: vi sarebbe dolo eventuale quando il rischio venga accettato a seguito di un'opzione, di una deliberazione con la quale consapevolmente l'agente subordini un determinato bene ad un altro; colpa cosciente, invece, quando l'accettazione del rischio, da parte del soggetto agente, abbia luogo per effetto di un atteggiamento soggettivo riconducibile al concetto di mera imprudenza o negligenza, e quindi da ritenersi ricompreso nel rimprovero per colpa.

In questo modo, la previsione dell'evento costituisce sì un coefficiente psicologico che si aggiunge agli elementi costitutivi anche dell'illecito colposo, rendendo più forte l'adesione del soggetto al fatto, ma solo nel dolo eventuale, invece, oltre all'accettazione del rischio, vi sarebbe, sia pure in forma eventuale, anche l'accettazione del danno, della lesione, considerata come possibile prezzo di un risultato desiderato.

Ciò giustificherebbe una più elevata risposta sanzionatoria da parte dell'ordinamento e renderebbe più adeguata la configurazione della previsione dell'evento come circostanza aggravante.

Secondo l'indirizzo in esame l'accertamento del dolo eventuale suppone una vera deliberazione comparativa, una sorta di opzione tra un bene e un altro, che viene subordinato al primo: prevale il momento razionale e calcolatore della consapevole scelta del "prezzo" dell'illecito.

A tale impostazione si obietta che il riferimento al fine ultimo perseguito dall'agente e all'evento collaterale, la cui probabile realizzazione sia percepita ed accettata come eventuale prezzo dell'azione necessaria per conseguire i propri obiettivi, sembra dover orientare l'accertamento del dolo verso la verifica della esistenza di precisi elementi fattuali che, da un lato, individuino lo scopo primario dell'agente e, dall'altro, siano sintomatici dell'effettivo svolgimento di un processo di bilanciamento da parte dell'imputato.

Così, per avere la certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la possibilità di verificazione di un determinato evento sia stata realmente soppesata dall'agente nel proprio ragionamento, potrà essere dirimente la prova della rappresentazione, da parte di questi, che il proprio comportamento avrebbe dato luogo alla significativa, seria probabilità di realizzare l'evento non programmato, tale da non poter essere accantonata, se non in virtù di una c.d. "intenzionale cecità".

Ancora, si obietta che ai fini dell'accertamento, sebbene l'operazione di bilanciamento possa essere di per sé compiuta in pochi secondi, può assumere rilievo determinante, nel senso del dolo, l'aver maturato la decisione di agire in un ampio lasso di tempo; viceversa, in caso di risoluzione adottata "d'impeto", il criterio in esame sarebbe più difficilmente applicabile perché saranno necessari elementi probatori particolarmente consistenti affinché si possa concludere che una cosciente deliberazione abbia concretamente avuto luogo.

Inoltre, si sostiene, una ponderata decisione di agire per raggiungere il proprio obiettivo sarà non qualificabile come volizione del fatto di reato ogniqualvolta sia accompagnata dall'individuazione, da parte dell'agente, di un fattore concreto che si ritenga idoneo a scongiurarne la verificazione; la carente individuazione di un elemento ostativo alla consumazione del reato - cioè la ragionevole speranza di evitare l'evento - potrà rilevare soltanto ove sia stato provato l'effettiva esistenza di una deliberazione.

Avere una ragionevole speranza che l'evento non si verifichi equivale infatti a individuare un fattore concreto ostativo al prodursi del fatto di reato, dunque al non volere quest'ultimo. Ciò non potrà affermarsi, invece, allorché il soggetto "chiuda gli occhi per non vedere ciò che sa e teme di vedere", ovvero agisca avendo individuato un fattore concreto non in grado di scongiurare ragionevolmente la prevista lesione del bene giuridico come conseguenza della propria azione.

La valutazione sulla ragionevole speranza che l'evento non si verifichi andrà parametrata soltanto rispetto al soggetto agente e non all'agente modello, atteso che in quest'ultimo caso si instaurerebbe il giudizio normativo tipico della colpa, che un elemento soggettivo dal contenuto eminentemente psicologico quale il dolo non può in alcun caso tollerare.

Peraltro, non sarà possibile, si assume, inferire di per sé la sussistenza di un elemento psicologico, quale il dolo, dalla sola non individuazione di specifiche circostanze impeditive (tradizionalmente elemento costitutivo della colpa con previsione): in tal caso, nell'ottica dell'agente, verrebbe meno la stessa correlazione tra il conseguimento del proprio scopo e la possibilità di cagionare un fatto di reato. Il "nonostante la previsione dell'evento" (come recita l'art. 61 n. 3 c.p.), non assurge a "prezzo" della condotta, giacché il soggetto ne ha ragionevolmente escluso la produzione: costui in definitiva esclude che la condotta in grado di portarlo al proprio obiettivo possa dare luogo ad un fatto criminoso.

Il criterio c.d. economicistico, secondo parte della dottrina, si presta a ricomprendere nel dolo le ipotesi nelle quali la realizzazione del fatto di reato rappresenta la frustrazione del piano dell'agente. Si afferma che anche nei casi in cui l'azione capace di portare al conseguimento del fine perseguito sia suscettibile altresì di vanificare il programma dell'agente, nel caso di verificazione dell'evento non programmato, il soggetto possa nondimeno, scientemente deliberare di agire, pur di non rinunciare alla possibilità di raggiungere il risultato che gli sta a cuore (desistendo dal perseguimento dello stesso), così "accettando il rischio", insieme, di precludersene definitivamente l'ottenimento e di dare luogo al fatto di reato. A ben vedere, in questi casi, si assume, il soggetto sceglie di tenere una determinata condotta bilanciando tra loro il conseguimento del proprio scopo e la probabilità di cagionare un evento criminoso: entrambi trovano la propria matrice nella stessa condotta e risultano soppesati nella decisione di agire.

6. Le teorie normative: il problema della prova del momento volitivo del dolo eventuale. Le formule di Frank.

Si è storicamente sostenuto che, essendo dirimente, per l'identificazione del dolo eventuale, un criterio di tipo soggettivo, esso deve offrire garanzie in termini di certezza probatoria: il tema è quello di come sia possibile raggiungere la prova del momento volitivo del dolo eventuale.

Si ritiene infatti che "anche chi sorpassa in modo azzardato" "accetta" un rischio di incidente che non dipende totalmente solo da lui, così come chi mette una bomba in piazza non può non accettare il rischio che la sua esplosione provochi morti o feriti, anche se non fosse questo il suo scopo. Eppure, nel primo caso, si è quasi sempre in presenza di colpa (con previsione), e nel secondo caso in presenza, di regola, di dolo almeno eventuale. Altra cosa è accettare un rischio, altra cosa è consentire all'evento."

In tale quadro di riferimento, nella consapevolezza della difficoltà di accertamento nel dolo eventuale, in termini psicologici, di quanto l'agente si configura in sede di rappresentazione del fatto e della esistenza di un "vero" momento volitivo (atteso che, come già detto, le conseguenze accessorie di un comportamento non possono considerarsi intenzionali e non rientrano, quindi, nel concetto di volizione in senso naturalistico) parte della dottrina equipara in senso normativo alla volizione una serie di situazioni.

Si ricorre ad un accertamento ipotetico così articolato: il dolo eventuale sussiste quando si accerti che il soggetto avrebbe ugualmente agito anche se si fosse rappresentato l'evento lesivo come certamente connesso alla sua azione.

Si tratta del "criterio di prova" della prima formula di Frank, recentemente riscoperto dalla prassi applicativa anche, come si dirà, nel processo "ThyssenKrupp", che muove dalla domanda relativa a quale condotta avrebbe assunto il reo se fosse stato certo della realizzazione dell'evento tipico.

In altri termini: quando dall'esame del fatto, del carattere e del comportamento del soggetto agente risulti che egli avrebbe agito ugualmente, si deve affermare il dolo eventuale; laddove, invece, la sicura previsione della conseguenza lesiva avrebbe determinato l'astensione dall'azione, si deve configurare la colpa cosciente.

La seconda formula di Frank ritiene invece sussistente il dolo eventuale nel comportamento di chi opera così ragionando "può essere così o altrimenti, succedere così o altrimenti, in ogni caso agisco".

La formula non propone il riferimento a una mera «predisposizione d'animo» del soggetto agente rispetto all'evento o a «una graduazione tutta interiore dei valori in gioco», ma, piuttosto, guida la valutazione del giudice al riscontro, tramite un giudizio ipotetico, di un ben determinato atteggiamento psicologico: lo stato mentale rileva, per il dolo, se è tale da indurre il soggetto ad agire anche di fronte ad un cambiamento sostanziale dei fattori che rilevano ai fini della decisione, come sarebbe «il passaggio dalla possibilità alla certezza» del verificarsi dell'evento lesivo.

La formula di Frank consentirebbe, si sostiene, di ricostruire il dolo eventuale nei termini di un'indagine intesa a verificare l'attitudine che avrebbe avuto, nel contesto in cui si è mosso l'agente, «una particolare ragione per non agire, più intensa di quella effettivamente operativa (la sostanziale certezza, piuttosto che la mera possibilità di cagionare l'evento preveduto), rispetto alla ragione per agire (la prospettiva di ottenere un certo risultato) che abbia dato causa alla condotta tenuta dall'agente». In altri termini, viene in considerazione un bilanciamento dei fattori rilevanti nella scelta individuale di tenere o meno una certa condotta e acquista maggiore rilievo il momento decisionale.

A questo criterio si obietta innanzitutto di sostituire indebitamente un atteggiamento psichico ipotetico a quello reale; si assume che un giudizio presuntivo, cioè ciò che il soggetto "avrebbe fatto", non sarebbe infatti adatto ad identificare una forma del dolo che, invece, deve fondarsi su una relazione psicologica effettiva tra agente e fatto.

A tali argomentazioni si replica, tuttavia, che il ricorso a un accertamento ipotetico non può meravigliare, poiché la formula di Frank non vuole offrire la definizione in termini cognitivi del dolo eventuale, ma, piuttosto, un criterio per determinare il contenuto del concetto normativo di dolo.

Altra parte della dottrina ha evidenziato che il riferimento ipotetico viene utilizzato come il mezzo induttivo più idoneo per cogliere una situazione psicologica effettiva: la circostanza che l'agente avrebbe agito nonostante la certezza del risultato, indica, in chi abbia agito rappresentandosi la possibilità di cagionare l'evento, un atteggiamento psicologico particolare, diverso da quello del soggetto che, pur avendo deciso di agire nella consapevolezza del rischio, di fronte alla certezza, si sarebbe astenuto.

Sulla formula di Frank vengono espressi ulteriori dubbi circa la reale utilità di un giudizio ipotetico in tutti quei casi concreti in cui per l'agente non vi sia una sostanziale differenza tra volere conseguire un certo risultato e il timore di cagionare un evento lesivo.

Può ritenersi ammissibile, infatti, ricostruire in termini ipotetici attendibili la decisione che il soggetto avrebbe assunto nel caso in cui avesse avuto la certezza che dalla propria condotta sarebbe conseguito l'evento non programmato nei casi in cui la sproporzione tra i valori in pericolo si mostri evidente, tenendo comunque presente che, ai fini dell'individuazione dell'elemento soggettivo del reato, ciò che rileva non è la gerarchia di valori dell'uomo medio, ma, piuttosto, quella dell'individuo specificamente considerato il quale, nel caso concreto, potrebbe anche perseguire un fine oggettivamente futile.

Quando, invece, una rilevante sproporzione tra gli interessi in gioco manchi, si ritiene arduo sostenere di poter pervenire a un giudizio attendibile circa la decisione del soggetto agente, ben avendo potuto questi avere incertezze nel decidere se agire o meno, pur rappresentandosi come certa la conseguenza accessoria.

Si osserva infine che l'applicazione della formula di Frank porterebbe a incongrue esclusioni del dolo in casi in cui l'evento collaterale si presenti in rapporto di totale o parziale antagonismo con il risultato perseguito dal soggetto agente, come, ad esempio, nel caso della morte della persona dalla quale, tramite sevizie, si volevano ottenere determinate informazioni.

L'adesione alla formula di Frank, non facendo leva su scelte effettivamente verificatesi nella realtà e richiedendo, piuttosto, un giudizio ipotetico circa le eventuali scelte del soggetto agente, porterebbe ad affermare il dolo eventuale o la colpa cosciente a seconda del grado di insensibilità dell'autore rispetto al bene offeso dall'evento non intenzionale, sulla base di una valutazione della personalità del reo. Ciò però causerebbe un'estensione dell'oggetto del giudizio di colpevolezza, in direzione di una sorta di dolo "d'autore", ai fini non solo della commisurazione della pena, ma della stessa imputazione soggettiva del fatto.

7. Dai concetti generali agli indicatori di settore.

La riflessione sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa con previsione dell'evento ha ricevuto negli ultimi anni ulteriore impulso da parte di chi, non limitandosi a "mettere alla prova" la validità delle teorie sul dolo, ha teso a spostare il fulcro dell'analisi sul momento applicativo, favorendo un approfondimento delle problematiche scaturenti dall'accostamento dell'istituto "astratto" al caso concreto.

La nuova prospettiva di analisi, anch'essa oggetto di analisi da parte delle Sezioni unite della Corte di cassazione, ha riscosso il consenso degli studiosi, essendosi rafforzato il convincimento che, per quanto pienamente definite sul piano concettuale, le categorie penalistiche assumono forza compiuta solo nel momento in cui entrano in contatto con la materialità e l'irripetibilità del fatto, superando, per così dire, quella condizione di instabilità che deriva dolo per l'essere concepite per il fatto, ma in assenza di esso.

In tal senso la dottrina ha coniato il termine "processualizzazione" del dolo, con ciò intendendo porre l'accento sulla sede - il processo penale - nella quale si realizza questo incontro tra teoria e prassi.

Indagato dapprima con riguardo al rapporto di causalità, all'indomani della svolta realizzatasi con la sentenza "Franzese", il legame con la dimensione probatoria si è rivelato particolarmente serrato proprio rispetto agli istituti per il cui tramite si realizza l'imputazione psicologica dei reati: in tal senso la sostanziale impossibilità di cogliere con precisione fatti che non appartengono ad una dimensione esteriore, bensì psichica, quindi interiore, ne rende inevitabilmente problematica la concettualizzazione, risultando gravoso lo sforzo di dare veste giuridica ad una realtà che è essa stessa incerta, in quanto non osservabile.

Le esigenze probatorie in tal senso mettono alla prova le elaborazioni concettuali, suggeriscono questioni sconosciute alla elaborazione teorica, richiedono risposte che tendono a sovvertire i termini del rapporto con il piano sostanziale.

Si evidenzia, quindi, la tendenza della giurisprudenza a superare l'unità interpretativa della distinzione tra il dolo eventuale e la colpa con previsione in favore di una pluralità di orientamenti, tanti quanti sono le attività interessate dalla distinzione medesima; alla base di questa tendenza vengono individuate ragioni connesse sia al diffondersi di nuove tipologie di criminalità non intenzionale, quanto - e soprattutto- al mutamento della sensibilità sociale verso forme di delinquenza preesistenti, dei giudizi di valore collettivi.

Si assume che, incrinatasi nel tempo la fiducia incondizionata riposta nel criterio dell'accettazione dl rischio, della ragionevole speranza del non verificarsi dell'evento e nella capacità ordinatrice dell'indice - oggettivo- della liceità/illiceità del contesto, si è sempre più affermata la consapevolezza di come l'accertamento dell'elemento psicologico passi necessariamente attraverso la valorizzazione degli elementi di fatto che connotano il caso concreto.

8. L'accertamento: la questione. Gli indicatori del dolo. Il ricorso alla formula di Frank.

L'accertamento del dolo è considerato in giurisprudenza un procedimento conoscitivo e logico complesso, perché volto a ricostruire un fatto essenzialmente psichico, non percepibile sensorialmente.

Tale fatto psichico, tuttavia, non può essere assunto in termini puramente "intimistici", ma deve essere necessariamente "oggettivizzato", cioè "esteriorizzato" dalla sequenza di fatti esterni come storicamente emersi nell'accertamento.

È consolidata l'affermazione secondo cui l''accertamento del dolo avviene fondamentalmente secondo due direttrici: la prima è rappresentata dagli elementi della fattispecie legale obiettiva; la seconda dagli elementi che, pur essendo posti al di fuori della fattispecie, attengono alla personalità dell'agente, alla sua figura intellettiva e morale, al suo carattere. Il primo profilo, il comportamento descritto nella fattispecie arricchito da tutte quelle modalità di tempo, spazio e luogo che lo caratterizzano in concreto, è ovviamente il termine di confronto primario dell'indagine sulla sussistenza del dolo. «L'altro binario che può essere utile percorrere» nella ricostruzione del dolo è la considerazione della "personalità dell'agente" e della "sua figura morale e intellettiva": si assume che elementi come l'accettazione, il desiderio, l'interesse, ecc., possono rappresentare "indici rivelatori" del dolo, ma non suoi "elementi costitutivi".

Senza pretesa di completezza, sono considerati indicatori attinenti alla condotta: a) le modalità di svolgimento, b) la durata e il reiterarsi, c) i comportamenti antecedenti, d) i presupposti, e) i comportamenti successivi. Indicatori invece attinenti alla persona possono essere ritenuti, tra gli altri: a) la qualifica, b) il movente, c) l'assenza di un ragionevole movente, d) la mancanza di interesse alla realizzazione del fatto, e) l'irrazionalità del mezzo per il conseguimento dell'obiettivo, f) le precedenti esperienze, g) il contesto lecito o illecito del processo motivazionale, h) la mancata adozione di cautele, i) la messa in pericolo di interessi proprio.

Le due categorie di indicatori avrebbero poi un peso differente nelle diverse forme di dolo.

Si è infatti precisato che - per la sua intrinseca natura - la prova del dolo diretto si ricava essenzialmente dagli elementi obiettivi del fatto, dalle concrete manifestazioni della condotta, mentre le motivazioni della condotta stessa, così come le affermazioni del reo, hanno una funzione meramente sussidiaria; al contrario nel dolo eventuale sono proprio gli elementi estrinseci al fatto, e di carattere prettamente soggettivo (personali), ad assumere un ruolo pressoché determinante.

9. La giurisprudenza richiamata dalla sentenza "Thyssen": il dolo eventuale nei contesti classici omicidiari.

In tale articolato quadro di riferimento, sono intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza "Thyssen": la Corte, dopo aver fatto riferimento alle diverse impostazioni dottrinarie - di cui si è in sintesi detto- che, nel corso del tempo, si sono succedute per la individuazione degli elementi strutturali del dolo eventuale e per la sua distinzione rispetto alla colpa con previsione, ha ricostruito la giurisprudenza sul tema.

In giurisprudenza, sul piano definitorio, il dolo intenzionale, è caratterizzato dal suo connotato finalistico, che non è escluso dalla previsione dell'evento come meramente possibile, poiché l'incertezza sulla sua verificazione può derivare dal carattere indiretto dei mezzi usati, che, tuttavia, non incide sull'intenzione effettivamente perseguita (cfr., Sez. I, 18 dicembre 1991, n. 2269/92, Austria, RV. 191119).

Quanto al dolo diretto, ed alla sua distinzione rispetto a quello eventuale, esiste una consolidata giurisprudenza di legittimità, formatasi storicamente - in modo quasi esclusivo- sulle problematiche della volontà omicida e del suo accertamento.

Il tema è analizzato in una pronunzia delle Sezioni Unite, richiamata dalla Sentenza "Thyssen", che propone una completa messa a punto della definizione dell'area di confine tra le diverse forme di dolo. (Sez. un, 12 ottobre 1993, n. 748/94, Cassata, Rv. 195804).

La sentenza in questione rivisita criticamente l'orientamento giurisprudenziale che tende a ridurre il dolo diretto al solo dolo intenzionale, inteso come volontà specificamente mirata a realizzare l'evento tipico, in diretta attuazione del movente, e che al contempo estende eccessivamente la categoria del dolo eventuale, comprendendovi tutti gli atteggiamenti psichici caratterizzati dalla volontà dell'evento, certo o altamente probabile, ed escludendo la sola intenzione di perseguire l'evento.

Tale indirizzo - si osserva - tende ad utilizzare il dolo eventuale come strumento per evitare difficoltà nell'accertamento e nella motivazione della volontà omicida.

Secondo l'impostazione in parola, l'osservazione della realtà psicologica, sottesa all'amplissima casistica giurisprudenziale, consente di individuare e classificare livelli crescenti di intensità della volontà dolosa: il dolo eventuale sarebbe caratterizzato dalla consapevolezza che l'evento, non direttamente voluto, ha la probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione, nonché dall'accettazione volontaristica di tale rischio; nel caso di accettazione del rischio dell'evento si chiederebbe all'autore una adesione di volontà, maggiore o minore, a seconda che egli consideri maggiore o minore la probabilità di verificazione dell'evento.

Quando, invece, l'evento è ritenuto dall'agente altamente probabile o certo l'autore non si limita ad accettarne il rischio, ma accetta l'evento stesso, cioè lo vuole e con un'intensità evidentemente maggiore che nel dolo eventuale.

In tale caso si ha dolo diretto.

Se l'evento, oltre che accettato, è perseguito, la volontà si colloca in un ulteriore livello di gravità e potrà distinguersi fra un evento voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale e un evento perseguito come scopo finale.

Si tratta del dolo specifico.

Secondo la sentenza in esame, nei casi ricorrenti di uso delle armi per sottrarsi alla reazione della vittima ovvero per sfuggire all'inseguimento della polizia, il tipo di arma, la reiterazione e la direzione dei colpi, la zona del corpo attinta, fanno ritenere certo o altamente probabile il verificarsi di eventi lesivi o mortali, accanto a quello primariamente perseguito dell'intimidazione del soggetto reagente ovvero accanto a quello di costringere l'inseguitore a fermarsi o a desistere.

In tali casi, che maggiormente evidenziano l'esigenza repressiva, sarebbe ingenuo parlare di mera accettazione del rischio e di dolo eventuale, essendo evidenti gli estremi dell'accettazione di eventi certi o altamente probabili e quindi della volontà di essi, ovvero gli estremi della volontà, sia pure strumentalmente ad un fine ulteriore, di perseguire l'evento che connotano il dolo diretto in entrambi i casi.

Secondo la sentenza "Cassata", dunque, nel dolo eventuale occorre una situazione di probabilità dell'evento, che - tuttavia - deve essere riguardata sotto il profilo soggettivo, del modo cioè in cui il concreto agente ha ravvisato la possibilità di verificazione di un risultato della condotta.

Oltre a tale probabilità occorre altresì un profilo deliberativo, costituito dalla "accettazione volontaristica del rischio".

Tale profilo volontaristico, tuttavia, riguarda- secondo la sentenza "Cassata" richiamata dalle Sezioni unite "Thyssen" - non l'evento, ma il rischio dell'evento.

Invece, nei casi in cui l'evento è certo o altamente probabile, sempre nella prospettiva soggettiva dell'agente, vi è l'accettazione dell'evento medesimo e, quindi, la sua volizione.

In tal caso non occorre - secondo la Corte - andare alla ricerca dell'atto deliberativo nel quale si estrinseca la direzione della volontà: la presenza del profilo volitivo del dolo sarebbe derivante dalla stessa elevata probabilità, sia pure sogguardata nella prospettiva dell'agente; sotto altro profilo, la volontà andrebbe accertata sulla base di indicatori obiettivi connessi precipuamente alle modalità del fatto.

Tali enunciazioni si rinvengono, sia pure con qualche lieve variante, in altre pronunzie delle Sezioni unite, tutte focalizzate sulla volontà omicida (Sez. un, 6 dicembre 1991, n. 3428/92, Casu, Rv. 189405; Sez. un, 14 febbraio 1996, n. 3571, Mele, Rv. 204167).

L'indirizzo in questione che tende ad estendere l'area del dolo diretto legandola essenzialmente alla presenza di una rilevante, elevata probabilità di verificazione dell'evento, guardata dal punto di vista dell'agente, è presente in numerose altre pronunzie (tra le tante, Sez. I, 29 gennaio 1996, n. 3277, Giannette, Rv. 204188; Sez. I, 3 luglio 1996, n. 7770, Garbin, Rv. 205534; Sez. I, 25 giugno 1999, n. 10795, Gusinu, Rv. 214112; Sez. I, 26 ottobre 2006, n. 1367, Biscotti, Rv. 235789; Sez. I, 29 gennaio 2008, n. 12954, Li, Rv. 240275).

10. (segue). Le Sezioni unite "Nocera" in tema di ricettazione.

Rispetto a tali consolidati orientamenti riferiti a contesti omicidiari, assume indubbio rilievo, secondo le Sezioni unite "Thyssen", altra pronunzia delle stesse Sezioni Unite emessa in tema di ricettazione (Sez. Un. 26 novembre 2009, n. 12433/10, Nocera, Rv. 246323).

La sentenza, che si riferisce al delitto di ricettazione e alla distinzione con la contigua fattispecie di incauto acquisto, considera che il dolo eventuale non forma oggetto di una testuale previsione legislativa e che la sua costruzione è rimessa all'interprete e può assumere per particolari reati caratteristiche specifiche.

In relazione al reato di ricettazione in cui, diversamente dal reato di evento lesivo, rileva anche il presupposto della condotta - costituito dalla provenienza della cosa da delitto- la Corte ha innanzitutto chiarito che la componente rappresentativa del dolo deve investire il fatto nel suo complesso, non solo quindi l'evento, ma tutti gli elementi della fattispecie.

Sotto altro profilo, si è osservato, che proprio la necessità di una nitida linea di demarcazione tra la fattispecie di ricettazione e quella di incauto acquisto, dovrebbe indurre a ritenere che il dolo eventuale richieda, nel reato di ricettazione, circostanze più consistenti di quelle che danno semplicemente motivo di sospettare che la cosa provenga da delitto, sicchè un ragionevole convincimento che l'agente abbia consapevolmente accettato il rischio della provenienza delittuosa può trarsi solo dalla presenza di dati di fatto inequivoci, che rendano palese la concreta possibilità di una tale provenienza.

Secondo l'impostazione in parola, in termini soggettivi il dolo eventuale nella ricettazione richiederebbe un atteggiamento psicologico che, pur non attingendo il livello della certezza, si colloca su un gradino immediatamente più alto di quello del mero sospetto, configurandosi in termini di rappresentazione da parte dell'agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto: perchè possa ravvisarsi il dolo eventuale non basterebbe allora un semplice dubbio, ma si richiederebbe una situazione fattuale di significato inequivoco, che impone all'agente una scelta consapevole tra l'agire, accettando l'eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire.

Nella occasione, la Corte di cassazione, richiamando un criterio elaborato in dottrina, ritenne che il dolo eventuale nel delitto di ricettazione sarebbe ravvisabile quando l'agente, rappresentandosi l'eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuta la certezza.

Si tratta di una affermazione che evoca la "prima formula di Frank", cui si è già fatto cenno in precedenza.

Le Sezioni unite con la sentenza "Thyssen" rimarcano come proprio dalla pronunzia "Nocera" sarebbe derivata una consapevole valorizzazione della componente psicologica, volitiva, del dolo eventuale: il tratto di scelta consapevole.

11. (segue) La giurisprudenza sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente.

Sulla base di tale articolato quadro di riferimento, dottrinario e giurisprudenziale, la Corte, valorizzando i principi affermati nella sentenza "Nocera", ha affrontato l'ulteriore controverso tema del "confine" tra dolo eventuale e colpa cosciente.

La Corte, richiamando i vari orientamenti formatisi nel tempo, ha evidenziato come in alcune pronunzie la linea di demarcazione sia individuata nel diverso atteggiamento psicologico dell'agente che, nel primo caso, accetta il rischio che si realizzi un evento diverso non direttamente voluto, mentre nel secondo, nonostante l'identità di prospettazione, respinge il rischio, confidando nella propria capacità di controllare l'azione, sicchè esso non è voluto e non è accettato per il caso che si verifichi.

Comune sarebbe, pertanto, la previsione dell'evento diverso da quello voluto, mentre ciò che diverge è l'accettazione o l'esclusione del rischio relativo: si tratterebbe di atteggiamenti psicologici da ricostruire facendo riferimento agli elementi sintomatici evidenziati dal comportamento del soggetto (Cfr., fra le altre, Sez. IV, 10 ottobre 1996, n. 11024, Boni, Rv. 207333).

Secondo l'indirizzo in esame, sarebbe in sostanza la consapevole accettazione di tale possibilità che trasferisce nella volontà ciò che era nella previsione (Sez. I, 12 novembre 1987, n. 761/98, Pelissero, Rv. 177455).

In altre pronunzie, invece, la linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente è stata maggiormente orientata verso il profilo rappresentativo.

Nel dolo eventuale, infatti, la verificazione dell'evento si presenterebbe come una concreta possibilità e l'agente, attraverso la volizione dell'azione, ne accetterebbe il rischio, mentre nella colpa con previsione la verificabilità dell'evento rimarrebbe un'ipotesi astratta che nella coscienza dell'agente non sarebbe concepita come concretamente realizzabile e, pertanto, non sarebbe in alcun modo voluta.

Si tratta della trasposizione puntuale in giurisprudenza della dottrina, della quale si è detto, che distingue tra la previsione astratta della colpa cosciente e la previsione concreta del dolo eventuale (Sez. I, 26 giugno 1987, n. 2192, Arnone, Rv. 177670; Sez. I, 3 giugno 1993, n. 7382, Piga, Rv. 195270; Sez. I, 24 febbraio 1994, n. 4583 Giordano, Rv. 198272; Sez. I, 8 novembre 1995, n. 832/96, Piccolo, Rv. 203484).

Nella colpa cosciente vi sarebbe, quindi, una controvolontà che, invece, non sarebbe presente nel dolo eventuale (Sez. I, 20 ottobre 1986, n. 13260, Amante, Rv. 174405; Sez. I, 21 aprile 1987, n. 8211, De Figlio, Rv. 176382).

Il dolo eventuale si configurerebbe, quindi, quando gli esiti previsti siano probabili e anche solo possibili se, malgrado ciò, perseverando nella sua azione, l'agente ne accetta il rischio, così dando un'adesione di volontà al loro verificarsi e pur se egli speri il contrario.

Il limite del dolo eventuale sarebbe cioè dato dalla certezza del non verificarsi degli eventi possibili rappresentati (Sez. I, 17 marzo 1980, n. 5786, Siniscalchi, Rv. 145219).

Non univoca è la giurisprudenza sulla possibile rilevanza dell'atteggiamento interiore a sfondo emotivo, costituito dalla speranza della non verificazione dell'evento non programmato; in qualche sentenza la si ammette: la rappresentazione delle conseguenze delle proprie azioni probabili o solo possibili in modo apprezzabile configurano il dolo eventuale, a meno che l'agente abbia agito nel ragionevole convincimento o almeno nella speranza di una sua mancata realizzazione (tra le tante, Sez. I, 24 maggio 1984, n. 12644, Albergo, Rv. 165106; Sez. IV, 8 gennaio 1988, n. 27, Margheri, Rv. 177326; Sez. I, 7 aprile 1989, n. 4916, Parrella, Rv. 180981).

In una pronunzia, tuttavia, si afferma che in presenza della concreta rappresentazione della probabilità di verificazione dell'evento, quando malgrado ciò si persevera nell'azione, accettandosene il rischio e dando così adesione di volontà al verificarsi dell'evento, il dolo eventuale non è escluso dalla speranza che il risultato non abbia luogo (Sez. V, 27 aprile 1984, n. 6750, Bottelli, Rv. 165360).

In altra giurisprudenza la speranza è stata ritenuta rilevante quando presenti il carattere della ragionevolezza.

Si è infatti affermato che sussiste il dolo eventuale e non la colpa aggravata dalla previsione dell'evento se l'agente, pur non volendo l'evento, ne accetta il rischio di verificazione come risultato della sua condotta, anche a costo di determinarlo; la Corte ha precisato che l'agente risponde, invece, a titolo di colpa con previsione se, pur rappresentandosi l'evento come possibile risultato della sua condotta, agisce nella ragionevole speranza che esso non si verifichi (Sez. I, 7 aprile 1989, n. 4912, Calò, Rv. 180978; Sez. V, 17 ottobre 1986, n. 13274, Asquino, Rv. 174418; Sez. Fer., 24 luglio 2008, n. 40878, Dell'Avvocato, Rv. 241984).

12. (segue) Il dolo eventuale e le attività lecite di base; il ricorso alle pratiche emotrasfusionali e il conflitto tra legge religiosa e legge dello Stato.

Le Sezioni unite della Corte di cassazione, dopo aver dato conto delle numerose impostazioni giurisprudenziali, rivisitano le stesse in senso critico, attribuendovi una scarsa significatività; esse focalizzano il loro esame nei casi complessi in cui l'imputazione dell'evento a titolo di dolo eventuale si profila nell'ambito di condotte posto in essere nell'esercizio di attività lecite di base.

In tal senso la Corte fa riferimento a Sez. I, 13 dicembre 1983, n. 667/84 Oneda, Rv. 162316.

Il caso riguardava una piccola talassemica, bisognevole, per poter sopravvivere, di continue trasfusioni di sangue. I genitori diedero corso alle pratiche emotrasfusionali sino a quando non aderirono alla fede religiosa dei testimoni di Geova che, come è noto, vieta tale terapia. In un primo momento le trasfusioni poterono proseguire regolarmente avendo il servizio sociale ospedaliero segnalato la situazione al Tribunale per i minorenni, che adottò un provvedimento per imporre la cura in forma coatta. Nel prosieguo, invece, si verificarono problemi dovuti anche ad una grave carenza delle strutture sanitarie che, dopo un iniziale attivismo, si disinteressarono del caso, nonostante il Tribunale dei minori avesse emesso un provvedimento per risolvere in maniera definitiva il problema concernente l'assistenza terapeutica della minore. In conseguenza, le trasfusioni furono fortemente rallentate e ciò comportò un degrado biologico degli organi vitali che divenne letale.

La Corte di legittimità non dubitò che l'inerzia delle pubbliche strutture non potesse valere ad esimere da responsabilità i genitori quali portatori di uno specifico obbligo giuridico di assistenza verso la prole, ma reputò che si imponesse la valutazione dell'incidenza dei provvedimenti autoritativi sull'elemento psicologico del reato, potendo essi determinare, per così dire, l'affidamento, cioè la speranza che, per effetto di una volontà diversa dalla loro, potessero essere praticate le cure dovute, così evitando un loro attivo interessamento, ritenuto peccaminoso. Alla stregua di tali considerazioni la pronunzia della Corte di merito, che aveva ritenuto l'esistenza di dolo eventuale, fu cassata con rinvio.

Secondo le Sezioni unite "Thyssen" tale sentenza presenterebbe elevato interesse per lo spazio offerto alla disamina delle più profonde motivazioni dei genitori, sintomatico di una lettura del dolo eventuale in cui è fortemente valorizzato il profilo volitivo.

13. (segue) I casi problematici: dolo eventuale e relazioni sessuali con contagio del virus HIV.

La Corte si è soffermata anche su un altro ambito che mostra problematiche applicazioni del dolo eventuale.

Il caso tipico è quello della persona che, consapevole di essere portatrice del virus HIV, intrattiene un rapporto sessuale non protetto a seguito del quale trasmette il virus al partner, non informato dell'esistenza della patologia.

La ragione della emblematicità di casi del genere sta, a parere delle Sezioni unite, soprattutto nel fatto che il rapporto si colloca solitamente in una relazione personale affettiva e che la possibilità di trasmissione del virus per effetto di un rapporto isolato è assai bassa.

Tali situazioni possono indurre stati emotivi di fiducia, speranza, desiderio che il contagio non abbia luogo. Questi stati psichici, tuttavia, contrastano con l'oggettiva certezza che il rischio, drammatico, incombe.

La soluzione di tali complessi casi dipenderà, secondo la Corte, dall'adesione all'una o all'altra delle impostazioni dogmatiche, di cui si è detto; l'accoglimento, infatti, di teoriche che valorizzano il profilo cognitivo, rappresentativo del dolo eventuale, implicherà che l'imputazione si configuri senza incertezze, giacché - considerando le cose dal punto di vista puramente razionale - l'agente avrebbe previsto senza dubbio la possibilità del contagio. La soluzione sarebbe invece meno scontata nel caso di adesione a configurazioni del dolo che ne valorizzano la considerazione del profilo volitivo e delle intenzioni, dei moti interni, reali.

In un caso, assai emblematico, vi erano stati reiterati rapporti sessuali non protetti con il coniuge, che avevano determinato la trasmissione del virus ed un'evoluzione assai rapida della malattia a seguito delle continue cariche virali immesse nell'organismo del partner. A tali condotte attive si aggiungeva una condotta omissiva, contrassegnata dal tacere alla moglie qualunque informazione e dal trascurare la benché minima forma d'intervento che avrebbe, quantomeno, allungato le aspettative di sopravvivenza della donna.

L'agente aveva piena consapevolezza della propria condizioni di soggetto sieropositivo e delle modalità di trasmissione del contagio.

Il Tribunale affermò la responsabilità per omicidio volontario a titolo di dolo eventuale; tale valutazione non fu però condivisa dalla Corte di appello che considerò configurabile la colpa cosciente.

Si affermò nel giudizio di appello che:

- assiomaticamente il primo giudice avesse ritenuto, in assenza di qualsiasi sostegno probatorio, che l'imputato ben conoscesse i rischi e le possibili conseguenze delle proprie scelte e che quindi fosse disponibile ad accettarne i rischi; - la volontà dell'evento non poteva farsi derivare automaticamente dalla sua previsione;

- nel caso di specie la condotta non poteva essere ricondotta alla sfera della volontà in assenza di una adeguata consapevolezza culturale dei rischi.

Secondo la Corte d'appello, l'agente aveva maturato un atteggiamento di sottovalutazione e rimozione del pericolo, favorito dallo scarso livello culturale e dalla constatazione che il suo stato di salute non aveva subito modifiche peggiorative.

La Corte Suprema non rinvenne vizi nella pronunzia d'appello (Sez. I, 14 giugno 2001, n. 30425, Lucini, Rv. 219952).

Il giudice di legittimità affermò che, quale che fosse la teoria accolta in tema di confine tra dolo e colpa, era sempre indispensabile un'indagine sull'effettiva volontà dell'agente e sul modo in cui questi si era rapportato all'evento; si affermò la necessità che fosse riscontrato un atteggiamento psicologico che riconducesse in qualche modo l'evento nella sfera della volizione.

Quando invece il soggetto, pur essendosi rappresentato l'evento come possibile, abbia agito nella convinzione, giusta o sbagliata che sia, che l'evento stesso non si sarebbe comunque verificato, esso non potrebbe essere attribuito alla sfera volitiva e si cadrebbe nel versante della colpa aggravata dalla previsione dell'evento.

Nel caso di specie, secondo la Corte, non era censurabile la valutazione del giudice d'appello che aveva escluso il dolo per effetto di un atteggiamento psicologico di rimozione e di allontanamento psicologico dell'eventualità del contagio. Tale valutazione era frutto di un'operazione d'introspezione in cui, scandagliando le dinamiche interne e considerando la modesta condizione culturale, si era addivenuti alla conclusione che l'agente si era convinto che alla moglie non sarebbe accaduto nulla.

Il medesimo principio fu riaffermato in altra occasione da Sez. V, 17 settembre 2008, n. 44712, Dall'Olio, Rv. 242610; nella occasione fu ritenuta immune da censure la decisione con cui il giudice di merito aveva affermato la responsabilità, a titolo di dolo, per il reato di lesioni personali gravissime, di una donna che, consapevole di essere affetta da sindrome di HIV, aveva ciò nonostante intrattenuto per lunghi anni rapporti sessuali con il proprio partner, senza avvertirlo del pericolo e così finendo per trasmettergli il virus e causarne la morte.

Nella specie si argomentò che la donna era pienamente consapevole dello stato di sieropositività e che tale consapevolezza era dimostrato da vari documenti clinici attestanti il fatto che essa si era sottoposta nel corso degli anni a controlli medici, nonché dalla significativa circostanza che il suo precedente marito era deceduto proprio per AIDS.

Nello stesso senso si era espressa la Suprema Corte in altro caso simile (Sez. V, 16 aprile 2012, n. 38388, A.L.N.).

La vicenda riguardava un uomo che, avendo acquisito contezza della propria malattia solo dopo aver trasmesso il virus alla propria partner, si era adoperato affinchè essa non ne venisse a conoscenza, impedendole così di sottoporsi ai necessari esami e alle cure del caso, determinando l'aggravamento e l'irreversibilità del morbo. Si è ritenuta responsabilità dell'imputato a titolo di dolo eventuale per il reato di lesioni gravissime, valorizzando il ricorso a stratagemmi volti a tenere la vittima all'oscuro della propria sieropositività.

14. (segue) La guida spericolata o in stato di ubriachezza tra dolo e colpa.

Le Sezioni unite "Thyssen" hanno fatto anche riferimento ad un'altra tipologia di fatti che mettono in discussione l'incerto confine tra dolo e colpa: quella della guida spericolata o in stato di ubriachezza seguita dalla causazione di eventi letali.

Sebbene si sia in presenza, normalmente, di tipica fattispecie colposa, caratterizzata dalla palese violazione di regole cautelari, in alcuni casi è accaduto che la guida fosse talmente lontana dallo standard dell'ordinaria prudenza da ipotizzare l'accettazione concreta dell'evento che caratterizza il dolo eventuale.

Di ciò la Corte di cassazione ha avuto occasione di occuparsi ripetutamente.

In un caso si è considerato che i giudici del merito avevano dato contezza del percorso argomentativo seguito nel configurare una fattispecie colposa: la giovane età del conducente e la sua disponibilità di un veicolo di grossa cilindrata rendevano evidente il quadro di un soggetto spericolato ed eccitato, indotto ad una condotta di guida estremamente imprudente e negligente e intesa a dimostrare la propria sicurezza, la padronanza dell'auto e della strada. Si era considerato che, non essendo provata una volontà diversa, non era possibile ritenere che l'agente avesse voluto l'evento, altrimenti si sarebbe finito per sostenere l'esistenza di un dolo in re ipsa per il solo fatto della condotta rimproverabile, con conseguente inversione dell'onere della prova (Sez. IV, 10 febbraio 2009, n. 13083, Bodac, Rv. 242979).

Nei medesimi termini si era espressa altra pronunzia, in un caso in cui un soggetto, guidando ad alta velocità una moto di grossa cilindrata e ponendola in posizione di impennamento, aveva invaso l'opposta corsia, collidendo con un'altra moto che proveniva dall'opposta direzione. Si era evidenziato che, nonostante la condotta fosse indubbiamente sconsiderata ed imprudente, non ricorrevano tuttavia elementi tali da far ritenere che l'imputato avesse inteso scagliare la sua grossa moto contro qualcuno, accettando - sia pure in forma eventuale - l'incidente lesivo, che avrebbe potuto arrecare danno anche a se stesso (Sez. IV, 9 luglio 2009, n. 28231, Montalbano, Rv. 244693).

Di particolare interesse, secondo le Sezioni unite, sarebbe Sez. IV, 24 marzo 2010, n. 11222, Lucidi, Rv. 249492, relativa ad un caso in cui l'imputato, benché privato della patente di guida e alterato a seguito di una lite con la fidanzata, aveva condotto la sua auto ad alta velocità in un centro abitato, in una situazione di traffico intenso, e attraversava un incrocio nonostante il semaforo rosso, così cagionando la morte di una coppia di motociclisti.

In primo grado l'imputato era stato condannato per omicidio con dolo eventuale. La sentenza di secondo grado, aveva ritenuto, di contro, che il fatto fosse sussumibile nella diversa ipotesi di omicidio colposo aggravato dalla previsione dell'evento.

Tale impostazione era stata accolta dalla Suprema Corte che aveva proposto enunciazioni di principio espressamente riprese dalla sentenza "Thyssen".

Nella occasione fu evidenziato che:

- l'accettazione non deve riguardare solo la situazione di pericolo posta in essere, ma deve estendersi anche alla possibilità che si realizzi l'evento non direttamente voluto;

- il dolo eventuale è pur sempre una forma di dolo e l'art. 43 cod. pen. richiede non soltanto la previsione, ma anche la volontà di cagionare l'evento, giacché altrimenti si avrebbe la inaccettabile trasformazione di un reato di evento in reato di pericolo, con la estrema ed improponibile conclusione che ogni qualvolta il conducente di un autoveicolo attraversi col rosso una intersezione regolata da segnalazione semaforica, o non si fermi ad un segnale di stop, in una zona trafficata, risponderebbe, solo per questo, degli eventi lesivi eventualmente cagionati sempre a titolo di dolo eventuale, in virtù della violazione della regola cautelare e della conseguente situazione di pericolo scientemente posta in essere;

- perchè sussista il dolo eventuale, ciò che l'agente deve accettare è proprio l'evento: è, cioè, il verificarsi della morte che deve essere stato accettato e messo in conto dall'agente, pur di non rinunciare all'azione che, anche ai suoi occhi, aveva la seria possibilità di provocarlo;

- occorre, quindi, accertare, per ritenere la sussistenza del dolo eventuale, che l'agente abbia accettato come possibile la verificazione dell'evento, non soltanto che abbia accettato una situazione di pericolo genericamente sussistente.

Altra sentenza espressamente richiamata dalle Sezioni unite è stata Sez. IV, 30 luglio 2012, n. 39898, Giacalone, Rv. 254673, attinente ad un caso di un automobilista, che, pur versando in condizione di astinenza da assunzione di stupefacenti, aveva causato la morte di quattro pedoni investendoli sul marciapiede, posto che l'agente, benché conscio di poter causare incidenti in ragione del suo stato mentale, non si era rappresentato l'evento tipico effettivamente realizzato.

Il dolo è stato pure escluso in un caso in cui l'imputato dopo aver assunto hashish e una pastiglia di ansiolitico, si era messo alla guida di notte cagionando un incidente mortale (Sez. I, 13 maggio 2013, n. 20465, Mega).

Il primo giudice aveva ravvisato il reato di omicidio colposo; la Corte d'appello invece quello di omicidio con dolo eventuale.

La pronunzia era stata cassata dalla Suprema Corte.

Si era considerato che la sentenza d'appello, nell'intento di dare una risposta giudiziaria ritenuta più adeguata a condotte del tipo di quella oggetto del processo, avesse di fatto forzato il confine giuridico tradizionalmente tracciato tra dolo e colpa, tra volontà dell'evento (volontà dell'azione a costo di causare l'evento e quindi volontà - anche - del detto evento) e colpa cosciente (volontà dell'azione nella convinzione che l'evento - sia pur prevedibile - non si verificherà).

La Corte di cassazione ritenne che nella specie non potesse affermarsi che l'agente - ove si fosse concretamente rappresentato l'investimento e la morte di un'altra persona (paradossalmente anche di sé stesso) - avrebbe deciso di mettersi alla guida anche a costo di ciò.

A conclusioni diverse, pur applicando i medesimi principi, in fase cautelare, era giunta, Sez. I, 30 maggio 2012, n. 23588, Beti Ilir, in una vicenda che riguardava un gravissimo incidente stradale, nel quale il conducente di un SUV aveva percorso l'autostrada contromano per diversi chilometri e a fortissima velocità, andando ad impattare frontalmente contro altro veicolo che procedeva nel giusto senso di marcia, ed aveva cagionato la morte di quattro persone. Anche in tal caso la Corte aveva ritenuto adeguatamente motivata l'ordinanza del Tribunale del riesame che aveva ricostruito l'elemento psicologico sulla base di un rigoroso esame del fatto nelle sue concrete modalità esecutive, evidenziando come non si rinvenisse nel comportamento dell'imputato alcun elemento dal quale dedurre che, in qualche modo, egli contava di poter evitare l'evento, perché, invece, aveva continuato a marciare ad elevatissima velocità per circa dieci minuti senza porre in essere - e questo era il dato più significativo - alcuna manovra che, per quanto spericolata, potesse far pensare alla sua intenzione di evitare l'urto con altri veicoli, contando sulla sua abilità.

In senso simmetrico, le Sezioni Unite hanno richiamato anche Sez. I, 1 febbraio 2011, n. 10411, Igniatiuc, Rv. 258021, relativa ad un caso assai controverso.

Il primo giudice aveva ritenuto colpevole di omicidio volontario e lesioni volontarie l'imputato che, alla guida di un furgone rubato, per sottrarsi al controllo da parte della polizia che lo inseguiva, si era dato alla fuga in pieno centro urbano ad una velocità pari a 100-110 chilometri all'ora, oltrepassando, senza decelerare, una serie di semafori che segnavano luce rossa nella sua direzione di marcia. Giunto, ad una velocità superiore ai centro chilometri, ad un incrocio, lo attraversava senza rallentare - sebbene il semaforo segnasse rosso - ed urtava violentemente contro un'altra auto che in quel momento impegnava lo stesso incrocio cagionando gli eventi lesivi di cui si è detto.

Nel caso di specie, una pluralità di elementi (l'elevatissima velocità serbata dall'imputato; il numero degli incroci impegnati prima dell'impatto mortale, sebbene il semaforo segnasse la luce rossa; le caratteristiche del furgone, del peso accertato di due tonnellate; le particolari condizioni di luogo in cui era avvenuto il fatto; la situazione del traffico ancora intenso) erano univocamente indicativi del fatto che l'agente si era rappresentato di poter cagionare con il suo comportamento un incidente anche con esiti mortali, ma aveva accettato il rischio della sua verificazione, pur di sottrarsi al controllo della Polizia.

La Corte di assise di appello non aveva condiviso tale decisione e tale valutazione era stata censurata dalla Suprema Corte che aveva affermato che il criterio distintivo tra dolo eventuale e colpa cosciente doveva essere ricercato sul piano della volizione: nel dolo eventuale il rischio deve essere accettato a seguito di una deliberazione con la quale si subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro.

La Corte chiarì che l'autore del reato, che si prospetta chiaramente il fine da raggiungere e coglie la correlazione che può sussistere tra il soddisfacimento dell'interesse perseguito e il sacrificio di un bene diverso, effettua in via preventiva una valutazione comparata tra tutti gli interessi in gioco - il suo e quelli altrui - e attribuisce prevalenza ad uno di essi. L'obiettivo intenzionalmente perseguito per il soddisfacimento di tale interesse preminente attrae l'evento collaterale, che viene dall'agente posto coscientemente in relazione con il conseguimento dello scopo perseguito. Non è quindi sufficiente, si assume, la previsione della concreta possibilità di verificazione dell'evento lesivo, ma è indispensabile l'accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno che costituisce il prezzo (eventuale) da pagare per il conseguimento di un determinato risultato.

Nella occasione la Corte evidenziò come la delicata linea di confine tra il dolo eventuale e la colpa cosciente e l'esigenza di non svuotare di significato la dimensione psicologica dell'imputazione soggettiva, connessa alla specificità del caso concreto, impongano al giudice di attribuire rilievo centrale al momento dell'accertamento e di effettuare una penetrante indagine in ordine al fatto unitariamente inteso, alle sue probabilità di verificarsi, alla percezione soggettiva della probabilità, ai segni della percezione del rischio, ai dati obiettivi capaci di fornire una dimensione riconoscibile dei reali processi interiori e della loro proiezione finalistica.

La pronunzia concretamente indicò gli elementi di giudizio da ponderare, ponendoli in correlazione logica fra loro: le modalità e la durata dell'inseguimento; il lasso di tempo intercorso tra l'inizio dello stesso e la sua trasformazione in mero controllo a distanza del furgone rubato; le complessive modalità della fuga e la sua protrazione pur dopo che la Polizia aveva adottato una differente tipologia di vigilanza; le caratteristiche tecniche del mezzo rubato in rapporto a quanto in esso contenuto; la conseguente energia cinetica in relazione alla velocità serbata; le caratteristiche degli incroci impegnati con luce semaforica rossa prima del raggiungimento di quello in cui si verificò l'urto; la conformazione dei luoghi; l'assenza di tracce di frenata o di elementi obiettivamente indicativi di tentativi di deviazione in rapporto al punto d'impatto; il comportamento serbato dall'imputato dopo la violenta collisione, consistito in un estremo tentativo di fuga.

L'impostazione delineata fu poi confermata, successivamente al giudizio di rinvio, dalla stessa Corte di cassazione (Sez. V, 27 settembre 2012, n. 42973, Ignatiuc, Rv. 258022).

15. (segue) Il dolo eventuale e l'assenza di "movente".

Secondo le Sezioni unite, l'apparente assenza di una tangibile, plausibile motivazione determina una situazione tra le più intense e meno facilmente risolubili, attesa la enorme difficoltà a comprendere il senso degli accadimenti, ad investigare la sfera interiore, a sceverare i tratti del dolo, anche quello più tenue ed eventuale.

Il tema del movente e la regola di giudizio da applicare nei casi dubbi si è drammaticamente posto in un noto caso giudiziario: una pistola venne manovrata alla finestra di un istituto universitario quando venne esploso un colpo che colpì ed uccise una ragazza che passava in strada.

La Corte d'assise, dando atto che le ipotesi ricostruttive avevano sin dall'inizio ondeggiato tra dolo e colpa, tra accettazione del rischio, visto che l'arma era stata puntata ad altezza d'uomo, ed esplosione accidentale di un colpo, era pervenuta alla conclusione che i dubbi non fossero stati sciolti ed aveva affermato la responsabilità in ordine al reato di omicidio colposo (Ass. Roma, 13 settembre 1999, Scattone).

Tale approccio è stato confermato dalle successive pronunzie.

Secondo le Sezioni unite, dalla sentenza in questione deriverebbero numerosi insegnamenti, quali: a) la necessità della lettura coordinata delle emergenze indiziarie di segno opposto; 2) l'attribuzione di un peso preponderante all'assenza di una riconosciuta motivazione per la realizzazione dell'evento non programmato.

Proprio la situazione di assenza di un movente congruo si sarebbe rivelato di indubbia importanza, secondo le Sezioni unite, in un altro discusso caso giudiziario.

Un agente di polizia aveva sparato in direzione dell'auto in cui si trovavano alcuni giovani che avevano partecipato ad una rissa per ragioni sportive e che si stavano dando alla fuga ed aveva colpito mortalmente uno dei fuggitivi.

Il primo giudice aveva individuato il movente dell'intervento di polizia nel proposito di fermare ed identificare i giovani in considerazione della loro condotta illecita ed aveva considerato "veramente arduo" ipotizzare che un tale risultato potesse essere perseguito con tale accanimento da mettere in conto anche l'evento letale. La morte si poneva come risultato incongruo rispetto alle finalità dell'intervento di polizia.

Tale apprezzamento era stato successivamente ribaltato in appello con motivazione in seguito ritenute immune da vizi dalla Corte di cassazione.

La Corte aveva affermato che il movente, costituito dalla causa psichica della condotta umana e dallo stimolo che induce l'individuo ad agire, è distinto dal dolo, che è l'elemento costitutivo del reato e riguarda la sfera della rappresentazione e volizione dell'evento.

Le cause psichiche dell'agire umano, poi, non sono necessariamente razionali, ma al contrario sono aperte alle ispirazioni e impulsi più vari e misteriosi, insondabili come la complessità dell'animo umano.

Correttamente, secondo la Corte di cassazione, la Corte territoriale aveva tenuto distinto, nel caso in esame, il movente con la sua apparente irrazionalità, attinente al foro interno dell'agente conoscibile solo nella misura in cui trovi riscontro in una rappresentazione esterna, dal dolo, quale elemento psicologico del fatto reato storicamente accaduto e, perciò, fenomenicamente rilevabile, escludendo che dall'irrazionalità del primo potesse di per sé dedursi l'inesistenza del secondo e l'involontarietà della stessa condotta (Sez. I, 14 febbraio 2012, n. 31449, Spaccarotella, Rv. 254143).

16. I principi affermati dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza "Thyssen".

Alla luce della lunga ricostruzione effettuata, le Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza che si esamina, hanno evidenziato come, al di là delle varie impostazioni dogmatiche, la giurisprudenza, quando il contesto è davvero controverso, prediliga l'approccio volontaristico e si dedichi con grande attenzione alla lettura dei dettagli fattuali che possono orientare alla lettura del moto interiore che sorregge la condotta.

Sulla base di tale premessa, la Corte ha affermato che:

a) un dato testuale, desunto dall'art. 43 cod. pen., è decisivo per distinguere tra dolo e colpa: "l'essere o non essere della volontà. Noi non sappiamo esattamente cosa sia la volontà: la psicologia e le neuroscienze hanno fino ad ora ha fornito informazioni e valutazioni incerte, discusse, allusive. Tuttavia, la comune esperienza interiore ci indica in modo sicuro che nella nostra vita quotidiana sviluppiamo continuamente processi decisionali, spesso essenziali per la soluzione di cruciali contingenze esistenziali: il pensiero elaborante, motivato da un obiettivo, che si risolve in intenzione, volontà";

b) tali processi hanno un andamento assai variabile, che tuttavia culmina in un inelimi- nabile momento decisorio, in cui ci si determina ad agire o meno in vista di un determinato conseguimento;

c) tale andamento si conclama nel dolo intenzionale, diretto verso uno scopo in cui solitamente la condotta mostra la volontà finalistica senza incertezze e nessuna speciale indagine è richiesta;

d) diversa è la situazione nel dolo diretto in cui il momento cognitivo in ordine agli elementi di fattispecie ed alle conseguenze del proprio agire è talmente netto che dal solo fatto di tenere una certa condotta sulla base di alcune informazioni sullo sviluppo degli accadimenti si inferisce, normalmente, una determinazione nel senso dell'offesa del bene giuridico protetto;

e) nel caso di dolo diretto si è in presenza di una sfera dell'agire umano dominata dalla rappresentazione: il dolo, cioè la volontà, è documentato dalla conoscenza delle conseguenze, dalla rappresentazione appunto.

f) più complessa ed oscura è la contingenza che si designa come dolo eventuale, caratterizzata, come si è visto dall'accettazione delle possibili conseguenze collaterali, accessorie delle proprie condotte; nel dolo eventuale il momento rappresentativo riguarda un evento dal coefficiente probabilistico non tanto significativo da risolvere il dubbio sull'essere o meno dell'atteggiamento doloso;

g) in tali casi non vi sono segni tangibili, significativi, che consentano di inferire subi-taneamente e chiaramente la direzione della volontà, l'andamento del processo decisionale, l'atteggiamento psichico rispetto all'evento illecito non direttamente voluto ma costituente conseguenza concretamente possibile della propria condotta. Tale evento collaterale non è propriamente oggetto di volizione. Il quadro è senza dubbio aperto all'incertezza e richiede di definire quale sia, in tali contingenze, l'atteggiamento psichico rispetto all'evento collaterale che possa essere considerato equivalente della volontà, ad essa assimilabile.

Sulla base di tali considerazioni, secondo le Sezioni unite, il dolo eventuale deve dunque essere configurato "in guisa tale che possa esser letto sensatamente e senza forzature come una forma di colpevolezza dolosa; in ossequio al fondante principio di legalità".

Secondo la Corte, l'idea di una sfumata contiguità tra il dolo eventuale e la colpa cosciente è sostanzialmente errata, trattandosi di forme di colpevolezza radicalmente diverse e, per certi versi, antitetiche, attesa la diversità strutturale della previsione "diverso è l'evento; diverso è lo scenario dell'agire umano; diverso infine è l'animus".

In tal senso la Corte ha rivisitato criticamente le impostazioni che individuano nella colpa cosciente una previsione seguita da una controprevisione, cioè da una previsione negativa sulla verificazione dell'evento, mentre, invece, nel dolo eventuale, per conseguenza, un dubbio irrisolto "il Codice parla, a proposito della colpa cosciente, di reale previsione dell'evento e non fa per nulla cenno al processo di negazione dell'accadimento elaborato dall'indirizzo che si critica".

In particolare, quanto all'assunto secondo cui il dubbio irrisolto non escluderebbe il dolo eventuale, la Corte ritiene che una tale soluzione interpretativa svuoterebbe tale imputazione soggettiva di ogni reale contenuto volitivo che coinvolga la relazione tra condotta ed evento "Certamente il dubbio accredita l'ipotesi di un agire che implichi una qualche adesione all'evento, ma si tratta appunto solo di un'ipotesi che deve confrontarsi con tutte le altre contingenze del caso concreto".

Secondo le Sezioni unite il dubbio descriverebbe una situazione irrisolta, di incertezza, che, tuttavia, è difficilmente compatibile con una presa di posizione volontaristica in favore dell'illecito, con una decisione per l'illecito: solo ove esso fosse concretamente superato, avendo l'agente optato per la condotta anche a costo di cagionare l'evento, volitivamente accettandolo quindi nella sua prospettata verificazione, sarebbe configurabile il dolo eventuale (Sez. I, 11 luglio 2011, n. 30472, Braidic, Rv. 251484; Sez. IV, 5 settembre 2013, n. 36399 M., Rv. 256342).

Da tale premessa la Corte fa discendere un corollario, e cioè che, ai fini della configurazione del dolo eventuale, è dirimente l'esistenza di un atteggiamento psichico che indichi una qualche adesione all'evento per il caso che esso si verifichi quale conseguenza non direttamente voluta della propria condotta "chi agisce dubitando a volte si determina in condizioni di irrazionalità motivazionale, oppure versa in uno stato di opacità che rapporta il rimprovero giuridico alla sfera della colpa".

Ne consegue, secondo la Corte, che:

- nel dolo eventuale non può mancare la puntuale, chiara conoscenza di tutti gli elementi del fatto storico propri del modello legale descritto dalla norma incriminatrice e, quindi, è necessario che anche l'evento non programmato sia oggetto della rappresentazione, costituisca cioè una prospettiva sufficientemente concreta, sia caratterizzato da un apprezzabile livello di probabilità;

- l'evento deve essere descritto in modo caratterizzante e come tale deve essere oggetto, "di chiara, lucida rappresentazione; quale presupposto cognitivo perchè possa, rispetto ad esso, configurarsi l'atteggiamento di scelta d'azione antigiuridica tipica di tale forma d'imputazione soggettiva";

- se è vero che il codificatore ha ritenuto di configurare nella colpa, accanto all'istanza di prevedibilità dell'evento, implicitamente postulata da tale istituto, anche la situazione di concreta previsione dell'esito antigiuridico che caratterizza la colpa cosciente, è altrettanto vero che nella colpa cosciente si verifica una situazione più definita: "la verificazione dell'illecito da prospettiva teorica diviene evenienza concretamente presente nella mente dell'agente… L'agente ha concretamente presente la connessione causale rischiosa; il nesso tra cautela ed evento. L'evento diviene oggetto di una considerazione che disvela tale istanza cautelare, ne fa acquisire consapevolezza soggettiva. Di qui il più grave rimprovero nei confronti di chi, pur consapevole della concreta temperie rischiosa in atto, si astenga dalle condotte doverose volte a presidiare quel rischio. In questa mancanza, in questa trascuratezza, è il nucleo della colpevolezza colposa contrassegnata dalla previsione dell'evento: si è, consapevolmente, entro una situazione rischiosa e per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altra biasimevole ragione ci si astiene dall'agire doverosamente";

- tale situazione è però del tutto diversa da quella prima delineata a proposito della puntuale conoscenza del fatto quale fondamento del rimprovero doloso, basato sulla positiva adesione all'evento collaterale che, ancor prima che accettato, è chiaramente rappresentato;

- il dolo eventuale, quindi, non coincide "con l'accettazione del rischio", atteso che " trovarsi in una situazione di rischio, avere consapevolezza di tale contingenza e pur tuttavia regolarsi in modo malaccorto, trascurato, irrazionale, senza cautelare il pericolo, è tipico della colpa che, come si è visto, è malgoverno di una situazione di rischio e perciò costituisce un distinto atteggiamento colpevole, rimproverabile" ma nella essenziale relazione tra la volontà e la causazione dell'evento "qui è il nucleo sacramentale dell'istituto.

Un atteggiamento interno in qualche guisa ad esso assimilabile va rinvenuto pure nel dolo eventuale. In tale figura, come si è accennato, non vi è finalismo, non vi è rappresentazione di un esito immancabile o altamente probabile, in breve, traspare poco della sfera interna, non vi è volontà in azione, esteriorizzata. Si tratta allora di andare alla ricerca della volontà o meglio di qualcosa ad essa equivalente nella considerazione umana, in modo che possa essere sensatamente mosso il rimprovero doloso e la colpevolezza quindi si concretizzi. Tale essenziale atteggiamento difetta assolutamente nella mera accettazione del rischio, che trascura l'essenziale relazione tra condotta volontaria ed evento; e, come è stato osservato, finisce col trasformare gli illeciti di evento in reati di pericolo";

- essenziale, quindi, è il momento dell'accertamento dell'evocato atteggiamento psichico dell'agente, dovendosi cercare "sulla scena i segni dai quali inferire la sicura accettazione degli effetti collaterali della propria condotta…..Occorrerà comprendere se l'agente si sia lucidamente raffigurata la realistica prospettiva della possibile verificazione dell'evento concreto costituente effetto collaterale della sua condotta, si sia per così dire confrontato con esso e infine, dopo aver tutto soppesato, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia consapevolmente determinato ad agire comunque, ad accettare l'eventualità della causazione dell'offesa";

- ciò che è di decisivo rilievo "è che si faccia riferimento ad un reale atteggiamento psichico che, sulla base di una chiara visione delle cose e delle prospettive della propria condotta, esprima una scelta razionale; e, soprattutto, che esso sia rapportato allo specifico evento lesivo ed implichi ponderata, consapevole adesione ad esso, per il caso che abbia a realizzarsi… è che nella scelta d'azione sia ravvisabile una consapevole presa di posizione di adesione all'evento, che consenta di scorgervi un atteggiamento ragionevolmente assimilabile alla volontà, sebbene da essa distinto: una volontà indiretta o per analogia, si potrebbe dire";

- a tal fine non rilevano, in quanto tali, gli atteggiamenti della sfera emotiva, gli stati d'animo.

17. La prova del dolo eventuale.

Le Sezioni unite della Corte di cassazione, dopo aver fissato i principi indicati, hanno altresì affrontato il tema della prova del dolo eventuale, con particolare riguardo alla individuazione degli indizi o degli indicatori di tale forma di colpevolezza.

Al riguardo la Corte ha affermato che possono assumere valenza indiziante del dolo:

- con riferimento agli ambiti governati da discipline cautelari, la condotta "Quanto più grave ed estrema è la colpa tanto più si apre la strada ad una cauta considerazione della prospettiva dolosa… Emblematico il contesto della circolazione stradale. Qui è naturale pensare allo schema normativo della colpa cosciente; e questa è stata infine la soluzione accreditata dalla giurisprudenza della Suprema Corte. L'opposta soluzione nel senso del dolo eventuale ha preso corpo in alcuni casi davvero peculiari nei quali l'agente ha mostrato una determinazione estrema, la volontà di correre, per diverse ragioni, rischi altissimi senza porre in essere alcuna misura per tentare di governare tale eventualità; in breve ha realmente, tangibilmente accettato l'eventualità della verificazione dell'evento illecito";

- la personalità, la storia e le precedenti esperienze, se rivelatrici della "piena, vissuta consapevolezza delle conseguenze lesive che possono derivare dalla condotta e della conseguente accettazione dell'evento";

- in particolare, la personalità, "esaminata in concreto e senza categorizzazioni moralistiche, può mostrare le caratteristiche dell'agente, la sua cultura, l'intelligenza, la conoscenza del contesto nel quale sono maturati i fatti; e quindi l'acquisita consapevolezza degli esiti collaterali possibili. Insomma, essa ha un peso indiscutibile, soprattutto nell'ambito del profilo conoscitivo del dolo… Nel caso, cui si è già fatto cenno, dell'uomo che trasmette alla moglie il virus HIV, il dolo è stato infine escluso facendo leva sul basso livello culturale e sull'incompleta comprensione delle drammatiche conseguenze delle sue azioni";

- la durata e la ripetizione della condotta "Un comportamento repentino, impulsivo, accredita l'ipotesi di un'insufficiente ponderazione di certe conseguenze illecite. In generale la bravata e l'atto compiuto d'impulso in uno stato emotivo alterato indiziano un atteggiamento di grave imprudenza piuttosto che la volontaria accettazione della possibilità che si verifichino eventi sinistri. Per contro, una condotta lungamente protratta, studiata, ponderata, basata su una completa ed esatta conoscenza e comprensione dei fatti, apre realisticamente alla concreta ipotesi che vi sia stata previsione ed accettazione delle conseguenze lesive. Sempre a proposito del contagio del virus HIV, la frequenza dei rapporti sessuali non solo incrementa le probabilità, ma mostra solitamente un atteggiamento risoluto, determinato. Lo si è visto nella giurisprudenza esaminata: nel caso di rapporti lungamente protratti con la partner tale significativo dato indiziario aveva inizialmente condotto all'affermazione di responsabilità per dolo eventuale. Tale dato, lungi dall'essere svalutato nel prosieguo del giudizio, è stato ritenuto sopravanzato da carenze culturali e da altre discusse contingenze cui si è qui sopra fatto cenno. Si tratta di uno dei casi più controversi dell'esperienza giuridica in materia";

- la condotta successiva al fatto, ben potendo, ad esempio, da una parte, la fattiva e spontanea opera soccorritrice aver peso nell'accreditare un atteggiamento riconducibile alla colpa e non al dolo eventuale, e, dall'altra, l'estremo tentativo di fuga del ladro, pur dopo il disastroso urto mortale, mostrare appieno la estrema determinazione del tentativo di sottrarsi a qualunque costo all'intervento di polizia e, dunque, l'adesione alla drammatica prospettiva poi realizzatasi.

- il fine della condotta, la sua motivazione di fondo e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali, cioè la congruenza del "prezzo" connesso all'evento non direttamente voluto rispetto al progetto d'azione;

- la probabilità di verificazione dell'evento, atteso che "quanto più ci si allontana dall'umana certezza sui sentieri incerti della probabilità, tanto più il giudice attento a cogliere le movenze dell'animo umano deve investigare profondamente lo scenario complessivo per scorgervi i segni di un atteggiamento riconducibile alla sfera del volere. Mai dimenticando che la probabilità non va considerata in astratto, ma sogguardata dal punto di vista dell'agente, della percezione che questi ne ha avuta";

- le conseguenze negative o lesive anche per l'agente in caso di verificazione dell'evento "Si tratta di un tema ricorrente nell'infortunistica stradale, che accredita fortemente l'ipotesi colposa. Tale indirizzo è stato ribaltato, come si è visto solo in situazioni estreme, in presenza di concrete emergenze che conducevano a ritenere che le motivazioni dell'elevata velocità e le peculiarità della condotta di guida implicavano l'accettazione dell'eventualità di subire conseguenze personali negative, dando così consistenza dolosa all'azione";

- il contesto lecito o illecito "Una situazione illecita di base indizia più gravemente il dolo, mentre un contesto lecito solitamente mostra un insieme di regole cautelari ed apre la plausibile prospettiva dell'errore commesso da un agente non disposto ad accettare fino in fondo conseguenze che lo collocano in uno stato di radicale antagonismo rispetto all'imperativo della legge, tipico del dolo. Naturalmente tale criterio, al pari del resto di tutti gli altri cui si è fatto riferimento, va utilizzato con cautela, ed in accordo con le altre emergenze del caso concreto. Qui si tratta, in particolare, di evitare che il giudizio sulla colpevolezza per il fatto concreto possa nascondere un giudizio sul tipo d'autore".

18. (segue) Il contro fattuale alla stregua della prima formula di Frank e le considerazioni conclusive.

Le Sezioni, infine, sono tornate ad occuparsi del "più importante e discusso indicatore del dolo eventuale" che si configura quando, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, è possibile ritenere che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (prima formula di Frank).

Si tratta, come detto, di un indicatore utilizzato per cogliere il momento volitivo nel dolo eventuale.

In tale quadro di riferimento, la Corte di cassazione, da una parte, ha confermato l'utilità del riferimento a tale indicatore, poiché tale giudizio controfattuale riconduce virtualmente l'atteggiamento dell'agente a quello proprio del dolo diretto e, dunque, riduce l'area occupata dalla figura soggettiva in esame, ma, dall'altra, evidenzia la necessità che si sia in possesso di informazioni altamente affidabili che consentano di esperire il controfattuale e di rispondere con sicurezza alla domanda su ciò che l'agente avrebbe fatto se avesse conseguito la previsione della sicura verificazione dell'evento illecito collaterale.

Ciò evidenziato, la Corte, mostrando di essere assolutamente consapevole del fatto che in molte situazioni il dubbio rimane irrisolto, precisa "Vi sono casi in cui neppure l'interessato saprebbe rispondere ad una domanda del genere. Allora, guardando le cose con il consueto, sensato realismo della giurisprudenza, occorre ritenere che la formula in questione costituisca un indicatore importante ed anzi sostanzialmente risolutivo quando si abbia modo di esperire in modo affidabile e concludente il relativo controfattuale. L'accertamento del dolo eventuale, tuttavia, non può essere affidato solo a tale strumento euristico; ma deve avvalersi di tutti i possibili, alternativi strumenti d'indagine".

In conseguenza, in tutte le situazioni probatorie irrisolte alla stregua della regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, occorre attenersi al principio di favore per l'imputato e rinunziare all'imputazione soggettiva più grave a favore di quella colposa, se prevista dalla legge.

E conclude: "Di certo, infine, il tema dell'accertamento del dolo eventuale mette in campo la figura del giudice. Questi potrà affrontare un'indagine tanto delicata e difficile come quella cui si è sin qui fatto cenno solo se abbia matura consapevolezza del proprio ruolo di professionista della decisione; e sia determinato a coltivare ed esercitare i talenti che tale ruolo richiedono: assiduo impegno a ricercare, con le parti, i fatti fin nei più minuti dettagli; e ad analizzarli, soprattutto, con un atteggiamento di disinteresse, cioè di purezza intellettuale che consenta di accogliere, accettare senza pregiudizi il senso delle cose; di rifuggire da interpretazioni precostituite, di maniera; di vagliare e ponderare tutte le acquisizioni con equanimità".

  • pubblico ufficiale
  • corruzione
  • servizio pubblico
  • pubblica amministrazione

CAPITOLO III

VECCHIE E NUOVE FATTISPECIE NEI REATI CONTRO LA PUBBLICAAMMINISTRAZIONE:IL DIFFICILE RAPPORTO TRA CONCUSSIONE E INDUZIONE INDEBITA

(di Vittorio Pazienza )

Sommario

1 Premessa: l'oggetto dell'indagine. - 2 I termini del contrasto interpretativo insorto, nella giurisprudenza di legittimità, sulla distinzione tra concussione ed induzione indebita. - 3 La sentenza "Maldera" delle Sezioni unite. Concussione ed induzione indebita: aspetti comuni, profili differenziali, criteri distintivi per i casi dubbi. - 4 (segue): la costrizione di cui all'art. 317 cod. pen. - 5 (segue): l'induzione di cui all'art. 319-quater cod. pen. - 6 (segue): la necessaria indagine anche sulle "spinte motivanti" ed i criteri orientativi per l'esame dei casi border line. - 7 Le questioni di diritto intertemporale. - 8 I rapporti con le fattispecie corruttive. - 9 Le pronunce successive all'intervento delle Sezioni unite. - 10 L'applicazione dei criteri orientativi fissati dalle Sezioni unite in fattispecie prive di aspetti fattuali problematici. - 11 Le decisioni concernenti i casi border line. - 12 L'orientamento tuttora imperniato sulla tipologia del male prospettato. - 13 Le sentenze sui rapporti tra induzione indebita ed altre figure di reato.

1. Premessa: l'oggetto dell'indagine.

La sentenza Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 12228/2014, Maldera ed altri, Rv. 258470258476, può certamente essere annoverata tra le più attese e rilevanti decisioni depositate nel 2014 dal Supremo consesso, chiamato nell'occasione a ricomporre le marcate divergenze interpretative registratesi, nella giurisprudenza della Corte di cassazione oltre che in dottrina, sin dall'entrata in vigore della legge 6 novembre 2012, n. 190. Con tale intervento normativo, com'è noto, sono state tra l'altro introdotte (art. 1, comma 75) alcune rilevanti modifiche al sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione.

In particolare, per quanto direttamente rileva in questa sede, si è da un lato proceduto ad una completa rivisitazione strutturale del delitto di concussione di cui all'art. 317 cod. pen., attraverso sia la rimozione dell'incaricato di pubblico servizio dal novero dei soggetti attivi (che oggi comprende quindi il solo pubblico ufficiale), sia l'espunzione dell'induzione quale modalità alternativa della condotta volta a farsi dare o promettere danaro o altra utilità (condotta che oggi può quindi consistere nella sola costrizione), sia l'innalzamento del minimo edittale (passato da quattro a sei anni, mentre il massimo di dodici anni è rimasto invariato).

D'altro lato, la condotta di induzione è stata fatta confluire nella nuova fattispecie introdotta all'art. 319-quater cod. pen. (rubricata, appunto, "Induzione indebita a dare o promettere utilità", e punita con la reclusione da tre a otto anni), che per un verso annovera tra i soggetti attivi sia il pubblico ufficiale che l'incaricato di pubblico servizio, e, per altro verso, sanziona con la reclusione fino a tre anni anche il comportamento dell'extraneus, indotto a dare o promettere danaro o altra utilità.

La ricerca di una certa ed affidabile linea di demarcazione tra le due fattispecie criminose scaturite dalla novella (ovvero tra la "nuova" concussione per costrizione e l'induzione indebita) ha dato luogo, nella giurisprudenza di legittimità, ad almeno tre diversi indirizzi interpretativi, che verranno sinteticamente richiamati nel paragrafo seguente (cfr. infra, § 2).

Si vedrà anche che, da un lato, le Sezioni unite non hanno ritenuto di poter accogliere integralmente alcuno di tali orientamenti, ed hanno preferito percorrere, per dirimere il contrasto, una complessa ed articolata "quarta via" interpretativa (cfr. infra, § 3-6); d'altro lato, il Supremo consesso ha fornito, con la sentenza che si andrà ad analizzare, ulteriori importanti puntualizzazioni per ciò che riguarda sia le problematiche di diritto intertemporale (cfr. infra, § 7), sia i criteri distintivi tra la nuova induzione indebita e le contigue fattispecie di corruzione ed istigazione alla corruzione (cfr. infra, § 8).

L'ultima parte della presente esposizione sarà invece dedicata ad una sintetica disamina della giurisprudenza di legittimità successiva all'intervento delle Sezioni unite, in cui si cercherà di verificare l'effettivo grado di recepimento, da parte delle Sezioni semplici, delle coordinate interpretative proposte dal Supremo consesso per distinguere la concussione per costrizione dall'induzione indebita (cfr. infra, § 9-13).

2. I termini del contrasto interpretativo insorto, nella giurisprudenza di legittimità, sulla distinzione tra concussione ed induzione indebita.

Come si è accennato in premessa, il problema dell'individuazione della portata applicativa delle due richiamate fattispecie incriminatrici, scaturite dalla novella del 2012, ha trovato, nell'elaborazione giurisprudenziale della Corte di cassazione, tre diverse soluzioni ermeneutiche:

- secondo un primo indirizzo, volto a ricostruire l'intervento legislativo come un'operazione di mero "sdoppiamento" dell'unica figura di concussione preesistente, il criterio distintivo dovrebbe tuttora essere individuato nell'intensità della pressione prevaricatrice esercitata dall'agente, da valutarsi congiuntamente agli effetti spiegati sul destinatario che, da quella pressione, riceve comunque un danno. In tale prospettiva, la concussione ricorre nelle ipotesi in cui la pressione abbia connotazioni marcatamente intimidatorie, tali da provocare uno stato di soggezione ed una grave limitazione alla libertà di autodeterminazione del destinatario dell'indebita pretesa, mentre il delitto di cui all'art. 319-quater cod. pen. è integrato nelle ipotesi di persuasione, suggestione o pressione morale più blande, tali da non condizionare gravemente la sfera psichica dell'indotto, che diviene punibile proprio perché rimasto in possesso di un ampio margine di libertà di non accedere all'indebita richiesta, e quindi in grado di resistere a quest'ultima; nessun rilievo viene attribuito, secondo tale opzione ricostruttiva, al fatto che il pregiudizio prospettato dal soggetto agente, abbia o meno carattere antigiuridico (in tal senso, tra le altre, cfr. Sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 8695/2013, Nardi, Rv. 254114; Sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 16154, Pierri, Rv. 254539; Sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 11942, Oliverio, Rv. 254444; Sez. VI, 8 marzo 2013, n. 28412, Nogherotto, Rv. 255607);

- in una diversa prospettiva, che prende le mosse dalle difficoltà di attribuire una ben definita portata applicativa al termine "induzione", il criterio distintivo tra le due figure di reato dovrebbe invece essere individuato nell'oggetto della prospettazione effettuata dal soggetto agente, nel senso che quest'ultimo risponde di concussione se prospetta un danno ingiunto per ricevere indebitamente danaro o altra utilità, mentre, qualora venga prospettata al destinatario una conseguenza dannosa non contraria alla legge, si avrà induzione indebita. A sostegno di tale impostazione, si sottolinea la razionalità di un sistema che, per un verso, punisce più gravemente la prospettazione di un danno ingiusto rispetto a quella di un pregiudizio conseguente all'applicazione della legge e, per altro verso, prevede la punizione anche del destinatario che, aderendo alla pretesa indebita dell'agente, persegue un proprio interesse, agisce per un proprio tornaconto personale (in tale ottica, cfr. tra le altre Sez. VI, 3 dicembre 2012, n. 3251/2013, Roscia, Rv. 253938; Sez. VI, 15 febbraio 2013, n. 17943, Sammatrice, Rv. 254730; Sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 13047, Piccinno, Rv. 254466; Sez. VI, 23 maggio 2013, n. 29338, Pisano, Rv. 255616;

- per un terzo orientamento "intermedio", che pur muove dalla condivisione dell'approccio interpretativo fondato sulla intensità della pressione psicologica, la difficoltà di orientarsi nelle situazioni-limite (in cui la pretesa dell'agente è formulata in modo subdolo o allusivo, ovvero implicito o indiretto) impone di integrare il predetto criterio distintivo con un ulteriore elemento, costituito dall'esistenza o meno di un qualche tipo di vantaggio perseguito dal destinatario che aderisce alla indebita pretesa. In particolare, se questi è comunque posto dinanzi ad un'alternativa "secca" di condividere la richiesta indebita o subire un pregiudizio ingiusto, deve essere considerato vittima di una concussione, perché l'adesione alla pretesa sarà determinata esclusivamente dall'intento di evitare il pregiudizio minacciato (certat de damno vitando); se invece il privato risulta destinatario di una pressione più blanda ed ha comunque un proprio interesse a soddisfare la pretesa del pubblico funzionario per ottenere un indebito beneficio (certat de lucro captando), egli deve ritenersi coautore del reato di induzione indebita (in tal senso, cfr. tra le altre Sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 11794, Melfi, Rv. 254440; Sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 11944, De Gregorio, Rv. 254446; Sez. III, 8 maggio 2013, n. 26616, M., Rv. 255620; Sez. VI, 8 maggio 2013, n. 20428, Milanesi, Rv. 255076).

È utile fin d'ora precisare, peraltro, che - come già accennato in premessa - nessuno dei criteri indicati è stato ritenuto soddisfacente dalle Sezioni unite, nella sentenza che di qui a poco si andrà ad analizzare. Non il primo, che pur muovendo da condivisibili nozioni di costrizione e di induzione, "non ne coglie i reali profili contenutistici ed affida la sua scelta ad un'indagine psicologica dagli esiti improbabili, che possono condurre ad una deriva di arbitrarietà"; non il secondo, che pur avendo il pregio di individuare indici di valutazione oggettivi e pertinenti, presenta il limite della "nettezza argomentativa" che mal si concilia con l'esigenza di apprezzare l'effettivo disvalore delle situazioni "ambigue", tutt'altro che infrequenti; non il terzo, che nel tentativo di superare gli inconvenienti dei primi due, finisce per "riservare un'autonoma valenza alla verifica "soggettivizzante", replicando così, per questa parte, i limiti del primo orientamento".

3. La sentenza "Maldera" delle Sezioni unite. Concussione ed induzione indebita: aspetti comuni, profili differenziali, criteri distintivi per i casi dubbi.

Dopo aver ripercorso l'evoluzione storica del delitto di concussione, ed aver chiarito che la ratio della riforma del 2012 risiede nell'esigenza - manifestatasi non solo in sede internazionale - di "chiudere ogni possibile spazio d'impunità al privato che, non costretto ma semplicemente indotto da quanto prospettatogli dal pubblico funzionario disonesto, effettui in favore di costui una dazione o una promessa indebita di danaro o altra utilità", le Sezioni unite hanno anzitutto posto in rilievo i tratti comuni ai reati di cui agli artt. 317 e 319-quater, costituiti non solo dall'evento (dazione o promessa dell'indebito), ma anche dalla modalità di realizzazione, ovvero dall'abuso della qualità o dei poteri da parte del pubblico funzionario, da intendersi come "strumentalizzazione da parte del soggetto pubblico di una qualità effettivamente sussistente (abuso della qualità) o delle attribuzioni ad essa inerenti (abuso dei suoi poteri) per il perseguimento di un fine immediatamente illecito".

A tale ultimo proposito, il Supremo consesso ha sottolineato che l'abuso di qualità o di poteri (quest'ultimo configurabile anche in forma omissiva, a differenza dell'abuso di qualità) non costituisce un presupposto del reato, ma "un elemento essenziale e qualificante della condotta di costrizione o di induzione", trattandosi di un "mezzo imprescindibile per ottenere la dazione o la promessa dell'indebito". In altri termini, abuso da un lato e costrizione/induzione dall'altro non sono condotte distinte e contrapposte, ma elementi che si integrano e fondono tra loro, qualificando il disvalore espresso negli artt. 317 e 319-quater cod. pen.

Entrando poi in quel che nella stessa sentenza viene definito "il vero cuore del problema" (ovvero l'individuazione della linea di confine tra i reati appena richiamati), le Sezioni unite hanno anzitutto inteso porre in evidenza che il tradizionale criterio distintivo tra concussione ed induzione, imperniato sulla maggiore o minore intensità della pressione intimidatoria esercitata sul privato, poteva risultare appagante nella vigenza dell'art. 317 ante riforma, ai sensi del quale il delitto di concussione veniva indifferentemente integrato dalla costrizione o dall'induzione, con la conseguente scarsa importanza pratica rivestita dalla distinzione in parola (al punto che, nell'attività giudiziaria, i due termini venivano utilizzati non di rado come un'endiadi: "costringeva o comunque induceva…").

Il predetto criterio, ad avviso delle Sezioni unite, non può invece essere oggi ritenuto idoneo, da solo, a delimitare l'ambito applicativo delle nuove fattispecie incriminatrici modellate dal legislatore del 2012, avuto riguardo: al differente trattamento sanzionatorio riservato all'agente pubblico; al ben diverso ruolo rivestito dal privato (tuttora vittima nella concussione, ma concorrente nell'induzione indebita); alla non coincidenza dei beni giuridici tutelati (che nel delitto plurioffensivo di concussione vanno individuati sia nell'imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, sia nella libertà di autodeterminazione e nel patrimonio del privato; mentre, nel delitto monoffensivo di induzione indebita, assume rilevanza la sola dimensione pubblicistica del buon andamento ed imparzialità della p.a.). In particolare, il sensibile mutamento del quadro normativo - con specifico riguardo al concorso necessario del privato nell'induzione indebita - deve indurre a ricercare un criterio "più affidabile ed oggettivo" ponendo l'attenzione, più che sulle modalità espressive del pubblico funzionario e sui riflessi di tali modalità sul privato, sugli aspetti contenutistici della prospettazione ricevuta da quest'ultimo: "la maggiore o minore gravità della pressione, quindi, deve essere apprezzata in funzione, più che della forma in cui viene espressa, del suo contenuto sostanziale, il solo idoneo ad evidenziarne oggettivamente la natura costrittiva o induttiva".

4. (segue): la costrizione di cui all'art. 317 cod. pen.

Dopo aver chiarito che l'espressione "costringe" deve essere intesa in senso non meramente naturalistico, ma normativo (ricavato cioè dai principi fondamentali del diritto penale e dai principi e valori costituzionali), le Sezioni unite hanno ribadito che quel che caratterizza la fattispecie di cui all'art. 317 cod. pen. è "l'abuso costrittivo" posto in essere dal pubblico ufficiale, che pone il privato dinanzi all'alternativa secca di aderire alla indebita richiesta o subire le conseguenze di un rifiuto. Deve trattarsi quindi di una costrizione psichica relativa (c.d. vis compulsiva) che restringe notevolmente la libertà di autodeterminazione del privato, senza annullarla (si avrebbe altrimenti, con la vis absoluta, un totale annullamento di quest'ultima, che darebbe luogo ad altro titolo di reato, quale ad es. la rapina).

Per il Supremo consesso, tale abuso costrittivo contiene un implicito riferimento - quali mezzi di coazione realmente idonei a comprimere la libertà di autodeterminazione - alla violenza e alla minaccia. Quest'ultima, di gran lunga più ricorrente nella pratica, deve essere intesa (c.d. minaccia - mezzo) nel senso di una prospettazione - non necessariamente attraverso espressioni esplicite e brutali - di un danno ingiusto, contra ius, per scongiurare il quale il privato finisce per aderire alla richiesta dell'indebita dazione o promessa (a tali conclusioni, per la sentenza, deve pervenirsi valorizzando una nozione tendenzialmente unitaria di minaccia all'interno dell'ordinamento, ricavabile con un'interpretazione sistematica degli artt. 1435, 1322 cod. civ. e 612 cod. pen., il quale prevede e sanzione la c.d. minaccia - fine). In altri termini, anche una minaccia veicolata con toni apparentemente morbidi e concilianti ricade nell'alveo dell'art. 317 cod. pen., se pone il soggetto passivo "in una condizione di sostanziale mancanza di alternativa, vale a dire con le spalle al muro: evitare il verificarsi del più grave danno minacciato, che altrimenti si verificherà sicuramente, offrendo la propria disponibilità a dare o promettere una qualche utilità (danno minore) che sa non essere dovuta (certat de damno vitando)".

In buona sostanza, l'antigiuridicità del danno prospettato dal pubblico ufficiale deve necessariamente combinarsi - per ritenere integrato il delitto di concussione - con l'assenza di "un movente opportunistico" in capo al privato, nel senso che alla sua sfera psichica ed alla sua spinta motivazionale deve rimanere estraneo qualsiasi scopo determinante di vantaggio indebito (dovendo altrimenti escludersi che tale soggetto possa essere considerato una vittima, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 317 cod. pen.). In questa prospettiva, il c.d. metus publicae potestatis, che non integra un elemento strutturale dell'illecito, finisce per "tipizzare, sia pure indirettamente" la fattispecie rappresentando "l'altra faccia dell'abuso della qualità o dei poteri da parte del pubblico agente".

Tale quadro ricostruttivo della "nuova concussione" ha infine indotto le Sezioni unite a manifestare perplessità sull'esclusione dell'incaricato di pubblico servizio dal novero dei soggetti attivi, dal momento che anche tale figura, pur priva di poteri autoritativi, può dare ben luogo - "nell'odierna realtà variegata della pubblica amministrazione e con l'esponenziale sviluppo dei servizi pubblici" - a prevaricazioni idonee a determinare uno stato di soggezione del privato. Del resto, se è vero che l'abuso costrittivo commesso dall'incaricato di pubblico servizio può integrare il delitto di estorsione aggravato ai sensi dell'art. 61, n. 9, cod. pen., è anche vero - si osserva in sentenza - che ciò determina "rilevanti effetti in tema di consumazione (la concussione si consuma anche con la sola promessa dell'utilità, l'estorsione esclusivamente con la realizzazione del profitto) e di trattamento sanzionatorio, potenzialmente più elevato rispetto a quello riservato al pubblico ufficiale concessore".

5. (segue): l'induzione di cui all'art. 319-quater cod. pen.

Passando ad esaminare la fattispecie criminosa introdotta nel 2012, le Sezioni unite hanno evidenziato che il problema della scarsa valenza significante del termine "induzione" - utilizzato in numerosi articoli del codice penale (tra loro del tutto eterogenei) ed evocativo per il linguaggio comune di un più tenue valore condizionante dell'altrui sfera psichica - deve essere superato, anzitutto, attribuendo a detto termine una funzione di "selettività residuale" rispetto alla costrizione, nel senso di coprire gli spazi non riferibili all'art. 317, ovvero quei comportamenti "pur sempre abusivi e penalmente rilevanti, che non si materializzano però nella violenza o nella minaccia di un male ingiusto e non pongono il destinatario di essa di fronte alla scelta ineluttabile ed obbligata tra due mali parimenti ingiusti". Ciò troverebbe conferma, per il Supremo consesso, nella clausola di riserva con cui si apre l'art. 319-quater ("Salvo che il fatto costituisca più grave reato"), clausola peraltro ritenuta "di non facile intelligibilità" e frutto di "una tecnica di codificazione alquanto approssimata", avuto riguardo alla piena autonomia che, per i tratti peculiari che la caratterizzano, deve conferirsi alla nuova fattispecie.

In secondo luogo, le Sezioni unite hanno affermato che - come per la costrizione ex art. 317 (cfr. supra, § 4) - anche la nozione di induzione va intesa in senso normativo più che naturalistico, valorizzando gli altri elementi della fattispecie incriminatrice, vale a dire l'abuso del pubblico funzionario e la previsione della punibilità del soggetto privato, la quale costituisce "il vero indice rivelatore del significato dell'induzione": l'indotto è infatti complice dell'induttore, e questo incide "sulla dimensione teleologica della fattispecie, confinandone il raggio in ambito strettamente pubblicistico".

Muovendo da siffatte premesse, il Supremo consesso ha ulteriormente sottolineato la necessità di analizzare non solo la condotta del pubblico agente, ma anche gli effetti da questa derivanti sul privato, dovendo in particolare accertarsi se la sua volontà sia stata "piegata" dall'altrui sopraffazione, ovvero semplicemente "condizionata" od "orientata" dalle altrui pressioni psichiche, diverse dalla violenza o dalla minaccia evocate dalla costrizione: queste ultime, che integrano la condotta tipica del delitto di concussione, sono invece necessariamente estranee al delitto di induzione indebita, perché "mai nell'ordinamento penale…il destinatario di una minaccia, intesa in senso tecnico giuridico, è considerato un correo".

In tale ottica ricostruttiva, quindi, il criterio distintivo tra concussione ed induzione indebita deve per le Sezioni unite essere individuato - più che nella dicotomia male ingiusto/ male giusto, foriera di possibili equivoci interpretativi (cfr. supra, § 2) - "nella dicotomia minaccia/non minaccia": sicchè l'induzione può concretizzarsi in forme (anche combinate tra loro) di persuasione, suggestione, allusione, silenzio, inganno (quest'ultimo deve peraltro riguardare profili diversi dalla doverosità della pretesa, configurandosi in tal caso il delitto di truffa: cfr. sul punto infra, § 13), "purchè tali atteggiamenti non si risolvano nella minaccia implicita di un danno antigiuridico, senza alcun vantaggio indebito per l'extraneus". A tale ultimo proposito, le Sezioni unite hanno avuto cura di precisare che il vantaggio indebito assurge a vero e proprio "criterio di essenza" dell'art. 319-quater, perché giustifica la punibilità dell'indotto: un'interpretazione rispettosa dell'art. 27 Cost. deve infatti necessariamente ricondurre detta punibilità al fatto di aver approfittato dell'abuso del pubblico funzionario per perseguire un proprio vantaggio ingiusto, più che nel fatto di non aver resistito all'abuso stesso. In buona sostanza, l'induzione "non costringe ma convince", nel senso che l'agente pubblico "opera comunque da una posizione di forza e sfrutta la situazione di debolezza psicologica del privato, il quale presta acquiescenza alla richiesta non certo per evitare un danno contra ius, ma con l'evidente finalità di conseguire un vantaggio indebito (certat de lucro captando)".

L'analisi del Supremo consesso si è conclusa, sul punto, con significative puntualizzazioni di ordine sistematico e con annotazioni critiche di non minore rilievo: si è per un verso osservato, che l'induzione indebita si colloca in una posizione intermedia tra la "condotta sopraffattrice" propria della concussione (nell'ottica dell'agente pubblico, una "concussione attenuata") e lo scambio corruttivo (nell'ottica del privato, una "corruzione mitigata dall'induzione"). Per altro verso, è stato sottolineato che nei tentativi del legislatore di dare autonomo rilievo a tali situazioni intermedie, e di calibrarne il regime sanzionatorio, "si colgono una qualche approssimazione ed una conseguente scarsa coerenza della riforma, aspetti questi ai quali è auspicabile che lo stesso legislatore ponga rimedio, prevenendo l'eventuale intervento sussidiario del Giudice delle leggi".

6. (segue): la necessaria indagine anche sulle "spinte motivanti" ed i criteri orientativi per l'esame dei casi border line.

Dopo aver enucleato il "danno ingiusto" e il "vantaggio indebito" quali elementi costitutivi impliciti, rispettivamente, dei delitti di concussione ed induzione indebita, le Sezioni unite hanno peraltro inteso precisare, su un piano generale, che l'approccio "oggettivistico" con cui apprezzare tali requisiti deve "necessariamente coniugarsi con la valutazione della proiezione di tali elementi nella sfera conoscitiva e volitiva delle parti". In altri termini, l'accertamento deve prendere in considerazione "l'intreccio" tra la oggettiva prospettazione e la soggettiva percezione, al fine di stabilire l'effettiva consistenza e natura del condizionamento psichico subito e ricostruire - "sulla base dell'elemento oggettivo del danno ingiusto o del vantaggio indebito" - l'effettivo rapporto intersoggettivo instauratosi tra il pubblico funzionario e il destinatario dell'abuso (tale indagine sulle rispettive "spinte motivanti" potrebbe risultare di particolare rilievo, per le Sezioni unite, nelle ipotesi in cui il destinatario dell'abusiva pretesa sia anch'egli, a propria volta, un soggetto titolare di una qualifica pubblicistica).

Il Supremo consesso ha peraltro ritenuto di dover sottolineare che l'affidarsi "quasi in automatico" al modello interpretativo proposto può dar luogo a difficoltà nel'esame dei casi "più ambigui, border line, che si collocano al confine tra concussione ed induzione indebita", nei quali i parametri del danno ingiusto e del vantaggio indebito possono coesistere o risultare in sé poco significanti: è dunque necessario, in tale ipotesi, cogliere gli aspetti più qualificanti del fatto adeguatamente ricostruito, "lasciandosi guidare, alla luce comunque dei parametri rivelatori dell'abuso costrittivo o di quello induttivo, verso la soluzione applicativa più giusta".

In tale prospettiva, le Sezioni unite hanno preso in esame alcuni tra i casi "più problematici", in cui il criterio distintivo imperniato esclusivamente sulla ingiustizia o meno del danno (cfr. supra, § 2) mostra, ad avviso del Supremo consesso, i suoi limiti applicativi:

- abuso di qualità privo di riferimenti al compimento di atti del proprio ufficio o servizio (es. dell'appartenente alle forze di polizia che, dopo aver pranzato al ristorante con amici, pretenda di non saldare il conto, o di farlo simbolicamente). Essendo un siffatto abuso suscettibile di una duplice lettura - per la possibilità di determinare nel ristoratore una totale soggezione, ovvero una disponibilità ad assecondare la pretesa per acquisire in futuro i favori del poliziotto - sarà necessario "contestualizzare la complessiva vicenda", per comprendere se il pubblico agente abbia veicolato un "univoco messaggio di sopraffazione" ovvero se tra i due si sia instaurata "una dialettica utilitaristica";

- prospettazione di un danno generico da parte del pubblico agente: in tal caso, tanto più il danno è indeterminato, tanto più l'intento intimidatorio ed i suoi riflessi gravemente condizionanti sul privato dovranno emergere in modo lampante, per poter ritenere integrata la concussione;

- situazioni "miste" di minaccia-offerta o minaccia-promessa (es. in cui il pubblico agente prospetti al privato la sua arbitraria esclusione da una gara di appalto, ma contestualmente lo alletti con la prospettiva di un'aggiudicazione certa dell'appalto a scapito dei concorrenti). In questa ipotesi, sarà necessario "accertare se il vantaggio indebito annunciato abbia prevalso sull'aspetto intimidatorio, sino al punto di vanificarne l'efficacia, e se il privato si sia perciò convinto di scendere a patti, pur di assicurarsi, quale ragione principale e determinante della sua scelta, il lucroso contratto, lasciando così convergere il suo interesse con quello del soggetto pubblico";

- indebita pretesa sollecitata dall'agente pubblico per evadere una legittima richiesta del privato, lasciando implicitamente intendere, in caso contrario, l'insorgere di difficoltà. In tale ipotesi, la valutazione della dinamica relazionale dovrà cogliere se l'eventuale disponibilità del privato sia dettata non solo dall'intento di superare la difficoltà contingente, ma anche dalla volontà di ingraziarsi la benevolenza, per il futuro, del pubblico funzionario;

- indebita pretesa correlata dal pubblico agente all'esercizio del suo potere discrezionale. Dovrà in questo caso distinguersi tra la prospettazione pretestuosa di un esercizio sfavorevole del potere discrezionale (riconducibile ad una minaccia di danno ingiusto che "piega" il privato ai sensi dell'art. 317 cod. pen.) e la prospettazione di un atto discrezionale sfavorevole nell'ambito di una legittima attività amministrativa, facendo comprendere che dall'adesione alla pretesa potrebbe derivare un illegittimo vantaggio per il privato (vicenda riconducibile all'art. 319-quater cod. pen.);

- situazioni da risolvere attraverso il confronto e bilanciamento dei beni giuridici coinvolti nel conflitto decisionale (es. del primario ospedaliero che richiede al malato una somma di danaro per operarlo con precedenza su altri pazienti, allarmandolo sul carattere "salvavita" dell'intervento): in una siffatta ipotesi, il processo volitivo del privato deve ritenersi guidato non dall'indebito vantaggio conseguibile accondiscendendo alla richiesta (precedenza su altri pazienti in lista), ma dalla "componente coercitiva" connessa all'esposizione a grave rischio della vita, in assenza dell'intervento chirurgico. In una prospettiva analoga - volta a valorizzare la prevaricazione costrittiva insita nel coinvolgimento della libertà sessuale del destinatario della pretesa indebita - deve essere affrontato anche il caso della prostituta straniera che, risultata al controllo priva di documenti e di permesso di soggiorno, venga invitata perentoriamente a seguire l'operante per consumare con lui un rapporto gratuito.

7. Le questioni di diritto intertemporale.

Dopo aver individuato, nei termini sin qui sintetizzati, i criteri interpretativi cui attenersi nella distinzione tra la concussione e l'induzione indebita, per come "modellate" dal legislatore del 2012, le Sezioni unite hanno affrontato l'ulteriore profilo, strettamente connesso, loro devoluto con l'ordinanza di rimessione, concernente le problematiche connesse alla successione di leggi nel tempo.

Al riguardo, il Supremo consesso ha anzitutto espresso adesione alla teoria del confronto strutturale tra fattispecie astratte, richiamando i propri precedenti arresti Sez. Un., 26 febbraio 2009, n. 24468, Rizzoli, Rv. 243585, e Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 25887, Giordano, Rv. 224607, ed ha concluso per l'esistenza di una totale continuità normativa, quanto al soggetto agente chiamato a rispondere - prima della novella - del delitto di cui al previgente art. 317 cod. pen.

In particolare, i fatti "costrittivi" anteriormente commessi dal pubblico ufficiale continueranno ad essere puniti secondo il più lieve quadro sanzionatorio previsto dal previgente art. 317 cod. pen., in applicazione del generale principio di cui all'art. 2, comma quarto, dello stesso codice; quanto a quelli commessi dall'incaricato di pubblico servizio, non più compreso tra i soggetti attivi dal novellato art. 317, si è dinanzi ad un fenomeno di c.d. abrogatio sine abolitione, con la conseguente "riespansione" della portata applicativa degli artt. 629 e 610 cod. pen., che troveranno applicazione (aggravati ai sensi dell'art. 61, comma primo, n. 9, dello stesso codice) a seconda che vi sia stata o meno una deminutio patrimonii, ovvero dell'art. 609-bis cod. pen., applicabile qualora la vittima sia stata costretta a prestazioni sessuali. Anche in questo caso, ovviamente, dovrà essere individuato il regime sanzionatorio più favorevole in sede di diritto intertemporale: fermo restando che il quadro sanzionatorio "a regime" presenta, per le Sezioni unite, "aspetti paradossali ed irragionevoli per le sproporzioni in eccesso o in difetto che lo attraversano a seconda che il fatto incriminato sia commesso dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio".

Ad analoghe conclusioni di piena continuità normativa - con i "consueti" problemi intertemporali di individuazione della lex mitior, ai sensi dell'art. 2, comma quarto, cod. pen. - il Collegio è pervenuto per ciò che riguarda il rapporto tra la previgente concussione per induzione ed il nuovo reato di cui all'art. 319-quater (con riferimento, ovviamente, al solo pubblico agente, dato che l'indotto non potrà che essere punito per i fatti successivi all'entrata in vigore della novella).

Sul punto, il Supremo consesso ha precisato di non poter condividere l'indirizzo giurisprudenziale (Sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 17285, Vaccaro, Rv. 254620) che aveva sostenuto la sussistenza della continuità normativa ricostruendo l'art. 319-quater come norma a più fattispecie di reato monosoggettivo (da un lato, l'induzione qualificata dell'intraneus, identica sul punto al previgente art. 317; dall'altro, la promessa o dazione indotta del- l'extraneus): infatti, la necessaria convergenza dei "processi volitivi" dei soggetti coinvolti in un rapporto pur squilibrato, e la punibilità di entrambi, impongono di considerare l'induzione indebita un reato plurisoggettivo proprio.

Ponendosi in tale ottica ricostruttiva, e pur riconoscendo che "la correità necessaria insita nell'illecito di cui all'art. 319-quater cod. pen ha certamente innovato, sotto il profilo normativo, lo schema della vecchia concussione per induzione", le Sezioni unite hanno comunque escluso la sussistenza di un'abolitio criminis ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 2, comma secondo, cod. pen., avuto riguardo: al "volto strutturale dell'abuso induttivo", rimasto immutato; al fatto che la punibilità dell'indotto "non investe la struttura tipica del reato, ma interviene, per così dire, solo al suo esterno", dato che la vecchia descrizione tipica già contemplava la dazione o promessa del privato, delineando un reato plurisoggettivo improprio; al fatto che, "finanche sul piano assiologico, la nuova incriminazione è in linea con quella previgente, anche se ne restringe la portata offensiva alla sola dimensione pubblicistica del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione".

8. I rapporti con le fattispecie corruttive.

Le Sezioni unite hanno conclusivamente inteso puntualizzare i tratti che, dopo la riforma del 2012, distinguono concussione ed induzione indebita dalle fattispecie corruttive.

Si è anzitutto osservato che la riforma, dando rilievo nell'art. 317 alle sole condotte costrittive, ha reso "più netta e chiara" la distinzione tra concussione e corruzione, essendo quest'ultima configurabile, com'è noto, "in presenza di una libera contrattazione, di un accordo delle volontà liberamente e consapevolmente concluso su un piano di parità sinallagmatica".

Quanto invece al più delicato rapporto tra le fattispecie corruttive e la "figura intermedia" dell'induzione indebita (cfr. supra, § 5), le Sezioni unite hanno sottolineato la necessità di accertare la sussistenza o meno di una soggezione psicologica dell'extraneus causata dall'abuso del pubblico agente, "che volge a suo favore la posizione di debolezza psicologica del primo". In altri termini, è proprio tale condotta prevaricatrice dell'intraneus a connotare l'induzione indebita dal contesto di parità sinallagmatica che, come ricordato, caratterizza la corruzione, nella quale l'abuso del pubblico agente ha connotazioni "di risultato" della condotta, e non come strumento indefettibile per ottenere la prestazione indebita.

Infine, con specifico riguardo al rapporto tra il tentativo di induzione indebita e l'istigazione alla corruzione attiva di cui all'art. 322, commi terzo e quarto, cod. pen., il Supremo consesso ha posto in evidenza che, anche in questo caso, la condotta induttiva deve "coniugarsi dinamicamente con l'abuso" ed esercitare una pressione superiore a quella derivante da una mera sollecitazione: deve trattarsi quindi di una richiesta di "carattere perentorio ed ultimativo", e di "natura reiterata ed insistente".

9. Le pronunce successive all'intervento delle Sezioni unite.

Nelle pagine seguenti si cercherà di passare sinteticamente in rassegna alcune pronunce che sono state emesse dopo la decisione delle Sezioni unite, ed hanno espressamente richiamato quest'ultima in senso adesivo.

In via di prima approssimazione, sembra possibile individuare un primo gruppo di sentenze (cfr. infra, § 10) in cui si è fatta applicazione dei principi fondamentali enunciati dal Supremo consesso in fattispecie apparse, sul piano fattuale, del tutto lineari; altre pronunce (cfr. infra, § 11) hanno invece avuto ad oggetto affrontato fattispecie riconducibili ai casi border line individuati dalle Sezioni unite; un terzo gruppo di decisioni (cfr. infra, § 12) sembra aver privilegiato il criterio orientativo fondato sulla natura (giusta o ingiusta) del danno prospettato dal pubblico agente, in una prospettiva analoga a quella sostenuta da una parte della giurisprudenza dopo l'entrata in vigore della L. n. 190 (cfr. supra, § 2). Infine, alcune sentenze hanno affrontato il problema dei rapporti tra la nuova figura dell'induzione indebita e altre fattispecie di reato (cfr. infra, § 13).

10. L'applicazione dei criteri orientativi fissati dalle Sezioni unite in fattispecie prive di aspetti fattuali problematici.

Sono state le stesse Sezioni unite a sottolineare che l'individuazione della linea di confine tra l'abuso costrittivo riconducibile alla concussione, e quello induttivo concretante il reato di cui all'art. 319-quater cod. pen., può risultare del tutto agevole nelle fattispecie prive di incertezze sul piano fattuale, in cui risulta chiaro "l'effetto perentoriamente coartante ovvero quello persuasivo che l'abuso del pubblico agente cagiona sulla libertà di autodeterminazione della controparte".

A tal proposito, sembra possibile richiamare, anzitutto, Sez. VI, 7 novembre 2013, n. 5496/2014, Moretti, Rv. 259055, relativa ad una fattispecie in cui un ispettore del lavoro aveva prospettato al titolare di un'autorimessa la possibilità di risolvere, con il pagamento in suo favore della somma di mille euro e la messa a punto della sua autovettura, i problemi relativi alle violazioni riscontrate nell'officina (impiego di dipendenti "in nero"; autocertificazione inidonea). Richiamando l'informazione provvisoria relativa alla sentenza Maldera delle Sezioni unite (sentenza all'epoca non ancora depositata), il Collegio ha ritenuto sussistere il reato di cui all'art. 319-quater cod. pen., osservando che la strumentalizzazione delle funzioni dell'ufficio, da parte dell'ispettore, non era stata di certo idonea ad annientare la libertà di autodeterminazione del privato (il quale, se avesse deciso di accettare invece di sporgere denuncia all'autorità giudiziaria, avrebbe mirato ad ottenere un provvedimento illegittimo a lui favorevole).

Viene poi in rilievo Sez. VI, 12 giugno 2014, n. 45060, Di Fonzo, relativa ad una fattispecie in cui due funzionari dell'Agenzia delle Entrate, dopo aver riscontrato gravi violazioni nell'operato della società concessionaria del servizio di riscossione tributi, avevano prospettato ad un esponente di tale società sia le gravissime conseguenze che avrebbe comportato la rilevazione dei fatti, sia la loro disponibilità ad occultarli in cambio di una forte somma di danaro. Con ampi richiami al percorso motivazionale delle Sezioni unite, il Collegio ha ricondotto tale fattispecie nell'alveo dell'induzione indebita, osservando che nelle sentenze di merito - al di là di richiami discorsivi ad una condotta mirata alla costrizione del privato - non era stata "evocata, neppure per implicito, una «minaccia» diversa da quella di compiere il proprio dovere, e cioè segnalare le irregolarità riscontrate" esponendo la società alle conseguenze sanzionatorie del caso. In altri termini, alla società concessionario era stata "prospettata, mediante l'abuso dell'ufficio, l'opportunità di conseguire un vantaggio indebito, lucrando, attraverso il pagamento, l'elusione di un provvedimento che sarebbe stato doveroso per gli interlocutori".

Altrettanto lineare, ma nel senso dell'abuso costrittivo rilevante ex art. 317 cod. pen., appare la fattispecie affrontata da Sez. VI, 1 aprile 2014, n. 25255, R.C., Rv. 259973, in cui un docente di scuola media aveva tentato di imporre agli alunni delle sue classi (riuscendovi in un caso) l'acquisto di un libro di poesie scritte dal proprio padre, con la minaccia di esprimere, in caso contrario, valutazioni insufficienti agli scrutini trimestrali. Il Collegio, richiamandosi alla sentenza delle Sezioni unite, ha tenuto ferma la qualificazione giuridica di concussione tentata e consumata, ponendo in evidenza sia la prospettazione di una minaccia ingiusta (le valutazioni insufficienti minacciate erano risultate non corrispondenti all'effettivo profitto degli studenti, ed anzi del tutto incongrue rispetto alla benevola valutazione riservata all'unico acquirente), sia l'assenza di valide scelte alternative a disposizione delle persone offese.

In una prospettiva in parte analoga può essere richiamata Sez. VI, 19 dicembre 2013, n. 2305/2014, Panarello, Rv. 258655, relativa ad una fattispecie in cui un imprenditore era stato costretto, dal sindaco e dall'assessore all'urbanistica di un piccolo comune, a nominare quale "direttore dei lavori" un soggetto a loro vicino - in realtà destinato a funzioni di mero collegamento tra l'impresa e l'amministrazione comunale - per evitare di soggiacere ai continui ricatti ed ostacoli prospettatigli. Il Collegio, richiamando l'informazione provvisoria della sentenza Maldera, ha escluso la fondatezza del ricorso difensivo secondo cui l'assunzione del "direttore dei lavori" era stata scevra da qualsiasi metus, osservando che, al contrario, l'imprenditore si era trovato in una situazione di "aut-aut" (accollarsi il predetto costo aggiuntivo o subire le illecite pretese), senza avere di mira alcun personale tornaconto. È interessante notare che il Collegio ha comunque tenuto a valorizzare lo specifico contesto fattuale in cui si era inserita la condotta in contestazione (come espressamente raccomandato, in motivazione, dalle Sezioni unite: cfr. supra, § 6), evidenziando - a sostegno della configurabilità della concussione - il fatto che uno degli imputati aveva "spiegato" al privato che il pregiudizio immobiliare che egli aveva appena subito (costituito da una "rinuncia forzosa" ai suoi terreni, già oggetto di un'opzione onerosa), altro non era che la conseguenza del suo atteggiamento attendista rispetto all'assunzione del "direttore dei lavori".

11. Le decisioni concernenti i casi border line.

Si è avuto modo di ricordare, esponendo il percorso motivazionale della sentenza Maldera, che le Sezioni unite hanno evidenziato la difficoltà che può sorgere, nella distinzione tra concussione ed induzione indebita, nei casi in cui la relazione tra pubblico agente e privato presenta aspetti "di ambiguità e di opacità", enucleando alcune ipotesi particolarmente problematiche e dettando alcuni criteri orientativi di massima (cfr. supra, § 6).

Al riguardo (e con specifico riferimento all'ipotesi dell'abuso di qualità privo di riferimenti, da parte del pubblico agente, ad atti specifici del proprio ufficio o servizio), può farsi riferimento a Sez. VI, 1 aprile 2014, n. 28978, Albanesi, Rv. 259823, relativa ad una fattispecie in cui un ispettore di P.S. aveva assiduamente frequentato un locale notturno anche in compagnia di persone estranee al suo ufficio, esibendo il suo tesserino (benché la sua presenza non fosse riconducibile ad attività di polizia) ed usufruendo delle prestazioni offerte, e tuttavia omettendo sistematicamente di pagare il ragguardevole conto di ogni serata. Il Collegio ha escluso la configurabilità del delitto di concussione, osservando che l'esibizione del tesserino da parte dell'ispettore, in assenza di elementi di collegamento al concreto esercizio della sua funzione, ben conosciuta dal titolare (anche quanto alla sua potenziale pregiudizievole incidenza, in caso di verifica della correttezza della gestione del locale), e la continuità di comportamenti abusivi da lui tenuti, configurassero un quadro sintomatico "di un comportamento induttivo indebitamente volto ad ottenere dal privato la gratuità di una serie di prestazioni, attraverso l'abuso delle prerogative funzionali tipicamente riconnesse alla sua qualifica di pubblico ufficiale". Tale condotta, lungi dall'aver "piegato" la volontà del titolare, l'aveva semplicemente "condizionata" al fine di ottenere la non dovuta gratuità delle prestazioni, senza peraltro "porre il destinatario di fronte alla scelta ineluttabile ed obbligata tra due mali parimenti ingiusti".

Occorre poi segnalare Sez. II, 24 aprile 2014, n. 19654, Surace, relativa ad una fattispecie in cui due appartenenti alla Guardia di Finanza avevano "indotto e/o costretto" - secondo un capo di imputazione modellato secondo il previgente art. 317 cod. pen. - il titolare di due attività commerciali a versare una ingente somma di danaro e a trasferire la proprietà di due appartamenti, "quale compenso per la sua illecita attività volta a scongiurare o mitigare comunque gli effetti degli accertamenti espletati nel corso della verifica fiscale". Il Collegio ha ritenuto decisivo, per una corretta qualificazione giuridica, il fatto (accertato in sede di merito) che durante la verifica, connotata da modalità di estrema durezza e da atteggiamenti vessatori e persecutori, fosse stato detto al privato che le cose si stavano mettendo male, tanto da rischiare di essere arrestato. Tali circostanze, per la Seconda sezione, consentivano di escludere non solo la fondatezza del ricorso difensivo volto a ricondurre il fatto nell'alveo della corruzione, ma anche qualsiasi possibilità di qualificare d'ufficio il fatto come induzione indebita, alla luce dell'insegnamento delle Sezioni unite secondo cui, nei casi border line, deve sempre ravvisarsi la concussione quando il privato è posto nell'alternativa tra cedere alla richiesta indebita e mettere in pericolo un bene primario, quale la vita o la libertà sessuale (cfr. supra, § 6): principio applicabile anche nella specie, in cui il privato si era trovato nell'alternativa tra versare quanto richiesto o sacrificare la propria libertà personale. In altri termini, il rischio dell'arresto, prospettato al titolare delle imprese soggette a verifica, doveva ritenersi comunque dirimente per il Collegio, indipendentemente dall'eventualità che la misura restrittiva potesse risultare legittimata dalle violazioni riscontrate: "quand'anche la vittima ottenga un vantaggio indebito, tuttavia, ciò che rileva è che il processo volitivo sia stato piegato dalla prospettiva di esporre un proprio bene primario a grave rischio".

Di sicuro interesse appare anche Sez. VI, 11 aprile 2014, n. 32246, Sorge, relativa a due episodi contestati come tentata concussione ad un sindaco, il primo dei quali riconducibile alla tipologia della "minaccia-offerta" enucleata dalle Sezioni unite (cfr. supra, § 6): il sindaco aveva infatti rappresentato ad un imprenditore, interessato alla gara per l'affidamento di un lavoro per conto del comune, il proprio interesse a che l'incarico venisse conferito ad una sua impresa ("ho io la ditta che lo fa"), precisandogli anche che, se avesse fatto lavorare quest'ultima, anche lui ne avrebbe tratto un tornaconto economico. Nel secondo episodio, il sindaco aveva detto ad un altro imprenditore che, se voleva l'affidamento dei lavori di bonifica cui era interessato, avrebbe dovuto versargli un contributo attraverso la locale squadra di calcio ("si sa come funziona, si sa che le percentuali sono intorno al 10% dell'importo dell'appalto"). La Sesta sezione ha ritenuto di dover ricondurre entrambi gli episodi, alla luce dell'insegnamento delle Sezioni unite, nell'alveo dell'induzione indebita tentata, ponendo l'attenzione - a differenza di altre pronunce che verranno esaminate nel paragrafo seguente: cfr. infra, § 12) - sulle concrete modalità della condotta del pubblico agente (secondo la dicotomia "minaccia/non minaccia" su cui cfr. supra, § 5), più che sull'ingiustizia del male prospettato: infatti, ad avviso del Collegio, dal racconto delle persone offese "si evince che non vi fu da parte dell'indagato un comportamento costrittivo ma una condotta di pressione e di persuasione, che non attinse la soglia della minaccia e che lasciò ai privati una certa libertà di autodeterminazione, incompatibile con la con la configurabilità del tentativo di concussione". La sentenza si segnala anche per la rilevante affermazione secondo cui l'integrazione del tentativo di induzione indebita non implica la necessità dell'ulteriore requisito del perseguimento di un indebito vantaggio da parte dei privati: tale elemento - che assurge a "criterio di essenza" nella fattispecie consumata, essendo necessario assicurare alla punibilità del privato un adeguato fondamento ex art. 27 Cost. - "esula dal paradigma delineato dalla norma incriminatrice", nelle ipotesi in cui il privato non ceda alle richieste indebite del pubblico ufficiale.

Appare infine utile richiamare, in questa sede, Sez. VI, 10 aprile 2014, n. 41110, Banchetti e altri, Rv. 260369, relativa ad alcuni episodi, contestati come concussione tentata e consumata, a carico di due consiglieri comunali membri della Commissione per l'assetto del territorio, relativi a richieste di danaro e altre utilità rivolte, ai soggetti interessati alla definizione di pratiche urbanistiche, come condizione (implicita o esplicita) per l'inserimento delle pratiche stesse all'ordine del giorno della Commissione e per ottenere da quest'ultima il rilascio del parere favorevole. Applicando l'insegnamento delle Sezioni unite relativo alla necessità, nei casi ambigui, di procedere ad una valutazione approfondita ed equilibrata del fatto, per coglierne i dati più qualificanti, la Sesta sezione ha tenuto ferma la qualifica ex art. 317 cod. pen. per gli aspetti intimidatori riconducibili alle concrete modalità operative poste in essere dai soggetti agenti: in particolare, è stata valorizzata l'instaurazione, da parte degli imputati, di una prassi del tutto arbitraria nella trattazione in commissione delle pratiche urbanistiche, che venivano inserite all'ordine del giorno e trattate senza il rispetto di alcun criterio logico o cronologico, e spesso anche senza l'espletamento di alcuna preventiva istruttoria da parte degli uffici tecnici comunali.

12. L'orientamento tuttora imperniato sulla tipologia del male prospettato.

Si è avuto modo di osservare, nelle pagine precedenti, che alcune decisioni della Corte di cassazione hanno manifestato adesione agli insegnamenti delle Sezioni unite ponendo particolare attenzione alle modalità della condotta del soggetto agente, più che all'ingiustizia o meno del danno prospettato.

Quest'ultimo è stato invece valorizzato in modo pressoché esclusivo da altre decisioni depositate di recente che, nel dichiararsi in linea con la sentenza Maldera, si sono anche espressamente richiamate ad uno degli indirizzi formatisi prima dell'intervento delle Sezioni unite (cfr. supra, § 2).

Viene in rilievo, anzitutto, Sez. VI, 21 gennaio 2014, n. 37475, Salvatori e altro, Rv. 260793, relativa ad una particolare fattispecie così ricostruita dai giudici di merito: un agente di P.S., recatosi presso un imprenditore nel settore del trasporto inerti, gli aveva fatto capire con giri di parole che, "pagando qualcosa", sarebbe stato possibile rendere i controlli dei suoi automezzi "meno pressanti" rispetto a quanto pochi giorni prima, quando lo stesso agente aveva sottoposto a controllo un suo autoarticolato più volte nella stessa giornata, ed aveva detto all'autista "il tuo padrone sa cosa fare"; da quel giorno, e per alcuni anni fino alla denuncia dell'imprenditore, erano giunti presso quest'ultimo numerosi agenti di polizia che ricevevano ogni volta piccole somme dal privato, erogate per spirito di sottomissione e per timore di ritorsioni ("…magari si mettono lì ogni mattina, fanno perdere del tempo agli operai che io devo pagare comunque"). Nell'escludere la riconducibilità della fattispecie nell'alveo corruttivo (per le connotazioni marcatamente abusive della condotta), il Collegio ha osservato che "il solo criterio differenziale" tra concussione ed induzione, idoneo a spiegare la punibilità del privato indotto, deve essere individuato nella natura del danno minacciato: si avrà quindi concussione, laddove il danno presenti "connotazioni di ingiustizia (produttive di danno emergente o lucro cessante) tipiche della minaccia nel senso suo proprio", indipendentemente da "modi e forme che ne hanno esteriorizzato la serietà"; si avrà invece induzione indebita, quando al privato venga prospettato un danno "giusto", ovvero conforme alla legge e alla disciplina di settore, "di guisa che il privato finisca - con l'aderire alla pretesa intimidatoria del soggetto agente - per conseguire, in tutto o in parte o in forma diretta o indiretta, un suo personale beneficio o vantaggio". Ad avviso della Sesta sezione, aderendo a tale orientamento (già affermato a partire dalla sentenza Roscia e "in buona sostanza condiviso" anche dalle Sezioni unite), diviene irrilevante sia il fatto (pacifico) che all'imprenditore non era stata rivolta, dai vari poliziotti, alcuna esplicita richiesta di remunerazione, sia l'analisi dell'intensità della pressione costrittiva da costoro esercitata. Su tali basi, il Collegio ha ritenuto sussistente la concussione, atteso che il privato aveva soltanto inteso evitare la "pretestuosità e assillante ripetitività dei controlli" dei poliziotti sui suoi mezzi, costituenti "un danno ingiusto e grave per l'intera sua azienda, perché in grado di creare pesanti e non rimediabili disservizi organizzativi": nessuna prova, infatti, era emersa del fatto che l'imprenditore temesse i controlli per l'irregolarità dei suoi mezzi, ed avesse pagato per non incorrere in sanzioni.

Un percorso argomentativo del tutto analogo è stato proposto anche da Sez. VI, 6 febbraio 2014, n. 48034, Capriglia, Rv 261198, relativa ad una fattispecie in cui un carabiniere aveva chiesto (ed in un caso ottenuto) a due diversi agricoltori il versamento di una somma di danaro, asseritamente destinata ad aiutare il figlio malato di un collega, con la "minaccia tacita" che, in caso contrario, avrebbe assunto iniziative vessatorie nei confronti loro e delle rispettive imprese agricole. Anche in questo caso, il Collegio ha tenuto ferma la qualificazione giuridica di concussione (consumata e tentata), essendo emersa nel giudizio di merito la pretestuosità delle ragioni umanitarie addotte, di cui i privati si erano subito resi conto percependo il carattere intimidatorio delle allusioni alla loro attività: in entrambi i casi, il "male" minacciato dal pubblico agente aveva "sempre e soltanto assunto carattere di minaccia di un danno ingiusto, incidente sulla regolare gestione e amministrazione delle imprese agricole ad entrambe facenti capo".

Da ultimo, tali linee interpretative sono state riaffermate da Sez. VII, 12 novembre 2014, n. 50482, Castellani, Rv 261200, relativa ad una fattispecie in cui il direttore generale di un'agenzia territoriale di edilizia residenziale aveva costretto diversi imprenditori, legati da rapporti contrattuali con la predetta agenzia, a corrispondergli somme di danaro e ad acquistare quadri, a prezzi maggiorati, da una galleria d'arte gestita dalla moglie. Nel dichiarare inammissibile il ricorso avverso la sentenza di condanna per concussione, il Collegio ha tra l'altro ribadito che la sentenza delle Sezioni unite ha "in sostanza condiviso" l'orientamento imperniato sulla ingiustizia o meno del danno, precisando che, da tale pronuncia, "è ben chiaro che, se l'elemento strutturale della riformata fattispecie della concussione ex art. 317 cod. pen. è costituito da una forma di pressione integrante una violenza morale nei confronti del soggetto passivo costruita sulla prospettazione di una vera e propria minaccia che (per la risalente accezione recepitane dal codice penale) altro non può essere se non la rappresentazione di un danno ingiusto, le manifestazioni esteriori della condotta costrittiva-concussiva non tollerano estemporanee distinzioni connesse al modularsi della minaccia o, in altri termini, alle modalità ovvero alla maggiore o minore intensità con cui questa viene proposta al soggetto passivo".

13. Le sentenze sui rapporti tra induzione indebita ed altre figure di reato.

Appare utile segnalare, al riguardo, Sez. VI, 21 maggio 2014, n. 39088, Sorrentino, relativa ad una fattispecie in cui alcune ipotesi di concussione per induzione - ascritte ad appartenenti alla Guardia di Finanza in relazione ad episodi avvenuti nel corso di alcune verifiche fiscali - erano state riqualificate, in appello, ai sensi dell'art. 319-quater cod. pen. Dopo aver puntualmente ripercorso, in parte qua, le argomentazioni delle Sezioni unite (cfr. supra, § 8), il Collegio ha escluso che i fatti potessero essere qualificati in ambito corruttivo, dato che "le condotte si incuneavano sistematicamente nel corso delle verifiche fiscali, quindi giovandosi di quella situazione di supremazia che di norma connota siffatto intervento di controllo; si concretavano nella sistematica prospettazione di mali maggiori o comunque indeterminati rispetto al tenore delle inosservanze riscontrate, da concretare anche attraverso la prosecuzione dell'attività di controllo con modalità tali da danneggiare l'ulteriore corso dell'attività commerciale così da indurre i terzi privati al pagamento di quanto richiesto".

La coeva Sez. VI, 21 maggio 2014, n. 39089, Theodoridis, Rv. 260794, ha invece fatto applicazione del criterio distintivo indicato dalle Sezioni unite, per ciò che riguarda i rapporti tra induzione indebita e truffa (cfr. supra, § 5), in una fattispecie in cui un medico necroscopo della A.S.L. aveva richiesto ed ottenuto, dai congiunti di una persona appena deceduta, una somma di danaro per espiantare il pace maker, rappresentando loro che vi erano difficoltà operative per il luogo non consono e la mancanza di attrezzatura adeguata, e che, in mancanza, non avrebbe eseguito l'intervento. Il Collegio ha escluso che la condotta del medico - originariamente qualificata come concussione per induzione - potesse essere ricondotta nell'alveo del reato di cui all'art. 319-quater (come ritenuto dalla sentenza di secondo grado), in quanto, da un lato, difettava completamente in capo ai congiunti il perseguimento di un vantaggio indebito; dall'altro, questi ultimi erano stati indotti a pagare dietro la falsa rappresentazione della doverosità del versamento per le difficoltà operative ecc., "dunque dietro la rappresentazione di una situazione non rispondente al vero, tesa ad indurre in errore le vittime circa la doverosità della prestazione economica". In buona sostanza, la condotta del medico A.S.L. nei confronti delle persone offese si era concretata in un inganno proprio sulla doverosità della dazione, ipotesi da ricondurre nell'alveo della truffa aggravata ai sensi dell'art. 61, n. 9, cod. pen.

  • pubblico ministero
  • testimonianza

CAPITOLO IV

IL REATO DI INTRALCIO ALLA GIUSTIZIA COMMESSO DAL CONSULENTE DEL PUBBLICO MINISTERO

(di Antonio Corbo )

Sommario

1 Delitto di intralcio alla giustizia e consulente tecnico del pubblico ministero. - 2 La previsione normativa in tema di fattispecie di "intralcio alla giustizia". - 3 L'esclusione della possibilità di combinare la disposizione di cui all'art. 377 cod. pen. con quella di cui all'art. 373 cod. pen. - 4 La possibilità di combinare la disposizione di cui all'art. 377 cod. pen. con quelle di cui agli artt. 371-bis e 372 cod. pen.: profili generali. - 5 (segue): il problema delle valutazioni tecnico-scientifiche. - 6 L'inapplicabilità di altre disposizioni incriminatrici.

1. Delitto di intralcio alla giustizia e consulente tecnico del pubblico ministero.

Le Sezioni Unite, con la sentenza del 25 settembre 2014, n. 51824, Guidi, Rv. 261187, hanno risolto il complesso problema della qualificazione giuridica attribuibile alla condotta di offerta o promessa di denaro o di altra utilità rivolta al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza.

La vicenda, caratterizzata dalla pluralità di soluzioni prospettate e dall'intervento della Corte Costituzionale, cui la questione era stata rimessa proprio dalle Sezioni Unite, è stata risolta con l'affermazione del principio secondo cui l'offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza integra il delitto di intralcio alla giustizia previsto dall'art. 377 cod. pen. in relazione alle ipotesi di cui agli art. 371-bis o 372 cod. pen., secondo la fase procedimentale o processuale in cui viene avanzata la proposta illecita, anche quando l'attività demandata all'ausiliario implica la formulazione di giudizi di natura tecnico-scientifica.

La problematica si era posta in relazione ad una fattispecie in cui un consulente tecnico, nominato dal pubblico ministero ex art. 359 cod. proc. pen. nel corso delle indagini preliminari relative ad un incidente aereo che aveva causato la morte del pilota e del copilota dell'apparecchio interessato, era stato contattato per conto del rappresentante legale della società cui apparteneva il velivolo, perché, in cambio della consegna di una cospicua somma di denaro, predisponesse una relazione asserente, contrariamente ai dati emergenti dalle investigazioni, la idoneità dell'addestramento impartito dalla medesima società al pilota deceduto.

2. La previsione normativa in tema di fattispecie di "intralcio alla giustizia".

L'analisi delle Sezioni Unite muove dall'esame del dato letterale del testo normativo dell'art. 377 cod. pen. e della sua progressiva evoluzione.

Si osserva, in particolare, che il delitto di "intralcio alla giustizia", introdotto dalla legge 16 marzo 2006, n. 46, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell'ONU contro il crimine organizzato transnazionale, in particolare per sanzionare le condotte di violenza, minaccia, intimidazione, promessa, offerta di vantaggi considerevoli per indurre alla falsa testimonianza o comunque interferire nella produzione di prove anche testimoniali nel corso di processi relativi ai reati oggetto della Convenzione medesima, presenta un evidente legame di continuità con la previgente fattispecie della "subornazione", anch'essa prevista dall'art. 377 cod. pen. Si rappresenta, poi, che l'art. 377 cod. pen., rimasto inalterato nei primi suoi due commi per effetto dell'intervento legislativo del 2006 - il quale ha solo modificato la rubrica (sostituendo alla parola "subornazione" quelle di "intralcio alla giustizia") ed introdotto il terzo ed il quarto comma (per punire le condotte di violenza e minaccia) - è stato interpolato altre tre volte rispetto alla formulazione originaria del codice: nel 1992, nel 2000 e nel 2012. Si aggiunge, inoltre, che, mentre la novella di cui alla legge 20 dicembre 2012, n. 237, ha avuto un significato limitato, poiché è servita ad estendere la portata della previsione all'ipotesi in cui l'offerta o la promessa sia rivolta a persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti alla Corte dell'Aja nei processi per il crimine di genocidio, molto importante è stato l'intervento effettuato con l'art. 11, comma 6, del decreto legge 8 giugno 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356: questo intervento, infatti, ha portato alla formulazione attuale del testo del primo comma dell'art. 377 cod. pen., salvo la precisazione introdotta nel 2000. Si evidenzia, precisamente, che, per adeguare il testo originario del codice penale del 1930 ai mutamenti introdotti nella procedura penale, e, in particolare, alla posizione del testimone, qualifica configurabile nel nuovo codice di rito solo in relazione al dibattimento o all'incidente probatorio, ma non anche alla fase delle indagini preliminari, il legislatore, dopo l'introduzione della nuova fattispecie di cui all'art. 371-bis cod. pen., riguardante il reato di false informazioni al pubblico ministero, ha così sostituito la disposizione normativa: "chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all'autorità giudiziaria ovvero a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371-bis, 372 e 373, soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli articoli medesimi, ridotte dalla metà ai due terzi". Si rileva, infine, che la novella di cui alla legge 7 dicembre 2000 n. n. 397, ha inserito, nel medesimo primo comma dell'art. 377, dopo il riferimento all'art. 371-bis e prima del riferimento all'art. 372, il richiamo all'art. 371-ter cod. pen., relativo al reato, contestualmente introdotto, di false informazioni al difensore.

3. L'esclusione della possibilità di combinare la disposizione di cui all'art. 377 cod. pen. con quella di cui all'art. 373 cod. pen.

Compiuta questa ricostruzione del dato normativo, le Sezioni Unite hanno sottolineato che il problema della corretta qualificazione della condotta di offerta o promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza trae origine dal difetto di coordinamento tra le norme incriminatrici relative ai delitti contro l'amministrazione della giustizia, contenute nel codice penale del 1930, e il nuovo assetto processuale introdotto dal codice di procedura penale del 1988.

Si osserva, in primo luogo, che l'attuale sistema normativo impedisce di ritenere la configurabilità, nell'ipotesi in esame, del reato di intralcio alla giustizia con riferimento all'art. 373 cod. pen., che attiene alla "falsa perizia o interpretazione": risulta "dirimente" l'osservazione per la quale il consulente tecnico del pubblico ministero "non è equiparabile, nell'attuale sistema processuale, al perito nominato dal giudice (come invece lo era il perito nominato dal pubblico ministero nel corso dell'istruzione sommaria, ai sensi dell'art. 391, secondo comma, cod. proc. pen. del 1930)".

4. La possibilità di combinare la disposizione di cui all'art. 377 cod. pen. con quelle di cui agli artt. 371-bis e 372 cod. pen.: profili generali.

Le Sezioni Unite, a questo punto, hanno segnalato che la soluzione percorribile è quella della combinazione tra l'art. 377 e gli artt. 371-bis e 372 cod. pen.

Si premette che il consulente tecnico è esaminato in dibattimento come testimone, a norma dell'art. 501 cod. pen., e, precedentemente, può essere chiamato a rendere dichiarazioni al pubblico ministero che lo ha nominato.

Si rileva, quindi, che la figura del consulente tecnico del pubblico ministero si distingue nettamente da quella del consulente tecnico di una parte privata. Quest'ultimo, infatti, è concepito in termini di ausilio della difesa, ed è quindi equiparato, quanto a funzione e garanzie, al difensore: il legislatore, agli artt. 380 e 381 cod. pen., accomuna patrocinio e consulenza infedele, e, con l'art. 103 cod. proc. pen., estende al consulente della difesa le garanzie attribuite al difensore in tema di sequestri ed intercettazioni; la giurisprudenza costituzionale, da ultimo, nella sentenza n. 33 del 1999, ricollegando le prestazioni del consulente tecnico della parte privata all'esercizio del diritto di difesa, ha riconosciuto ai meno abbienti la facoltà di farsi assistere a spese dello Stato da un consulente per ogni accertamento tecnico ritenuto necessario. Il consulente tecnico del pubblico ministero, invece, nello svolgimento dell'attività commessagli dal magistrato inquirente: riveste natura di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio a norma degli artt. 357 e 358 cod. pen., come risulta dalla costante giurisprudenza di legittimità (cfr., in particolare, Sez. VI, 5 dicembre 1995, n. 2675/1996, Tauzilli, Rv. 204516; Sez. VI, 9 gennaio 1999, n. 4062, Pizzicaroli, Rv. 214142; Sez. VI, 22 gennaio 2013, n. 5901, Anello, Rv. 254308); concorre oggettivamente all'esercizio della funzione giudiziaria con il connesso dovere di agire al fine dell'accertamento della verità; non può rifiutare la sua opera ex art. 359 cod. proc. pen.; può beneficiare della causa di non punibilità prevista dall'art. 384, secondo comma, cod. pen.

Si aggiunge, ancora, che l'applicabilità al consulente del pubblico ministero delle disposizioni incriminatrici di cui agli artt. 371-bis e 372 cod. pen., in caso di false dichiarazioni, è confermato proprio dal testo dell'art. 377 cod. pen., che, a seguito dell'interpolazione del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, fa espresso riferimento al "consulente tecnico". Tale richiamo, infatti, non può essere circoscritto al consulente tecnico nominato dal giudice civile, sia perché la lettera della legge non contiene alcuna specificazione, sia perché tale limitazione renderebbe l'inciso dell'art. 377 cod. pen. superfluo, in quanto l'applicabilità al consulente tecnico del giudice civile delle disposizioni penali relative ai periti è espressamente prevista già dall'art. 64, primo comma, cod. proc. civ.

Si rappresenta, infine, che la configurabilità della fattispecie di cui all'art. 377 cod. pen. in riferimento alla offerta o promessa indebita al consulente tecnico del pubblico ministero non può ritenersi esclusa quando lo stesso non è stato ancora citato come testimone o come persona informata sui fatti. Si osserva, infatti, che, se la giurisprudenza ritiene, in prevalenza, che il reato previsto dall'art. 377 cod. pen. presuppone che il destinatario della condotta subornatrice abbia già assunto la qualifica processuale richiesta, tanto che con riferimento ai testimoni è ritenuto configurabile solo a partire dal momento in cui il giudice ha autorizzato la citazione del soggetto (così, tra le altre, Sez. Un., 30 ottobre 2002, n. 37503, Vanone, Rv. 222347, nonché, da ultimo, con riferimento all'omologa fattispecie di cui all'art. 377-bis cod. pen., Sez. VI, 25 novembre 2010, n. 45626, Z., Rv. 249321; v., però, per una diversa conclusione, Sez. I, 10 dicembre 2009, n. 6297/2010, Pesacane, Rv. 246107), questa soluzione trova un limite con riferimento all'attività induttiva o violenta indirizzata nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero. A fondamento di tale assunto, si richiama "la peculiarità della figura" dell'ausiliario in discorso, che, nello svolgimento della funzione, è pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, e che ha il dovere di "dire la verità": in conseguenza di ciò, deve ritenersi che il medesimo soggetto, per effetto della nomina da parte del pubblico ministero, "riveste già una precisa veste processuale, potenzialmente destinata a rifluire sull'assunzione della qualità 'testimoniale' ex artt. 371bis o 372 cod. pen. ", la quale "può dunque ritenersi immanente, in quanto prevedibile e necessario sviluppo della funzione assegnata" allo stesso.

5. (segue): il problema delle valutazioni tecnico-scientifiche.

Le Sezioni Unite, a conclusione della loro indagine ermeneutica, hanno affrontato, e risolto positivamente, il profilo della applicabilità delle fattispecie di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero (e, quindi, mediatamente, di quella di intralcio alla giustizia in relazione a tali fattispecie) anche a dichiarazioni contenenti valutazioni tecnico-scientifiche.

In proposito, il supremo organo di risoluzione dei contrasti interpretativi premette di accedere ai rilievi operati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 163 del 2014, che ha fatto seguito ad ordinanza di rimessione delle Sezioni Unite nell'ambito del medesimo processo (Sez. Un., 27 giugno 2013, n. 43384, Guidi, Rv. 256408).

È utile rappresentare che le Sezioni Unite, nell'ordinanza appena indicata, avevano preliminarmente affermato di ritenere inapplicabile la disposizione di cui all'art. 377 cod. pen. con riferimento a proposte o promesse illecite indirizzate al consulente tecnico del pubblico ministero quando l'attività affidatagli implica la formulazione di valutazioni tecnico-scientifiche, poiché queste, costituendo il risultato di "personali opinioni, non sono qualificabili in termini di verità o di falsità", e avevano ravvisato, di conseguenza, l'astratta configurabilità del reato di istigazione alla corruzione, in linea con quanto già affermato da Sez. VI, 7 gennaio 1999, n. 4062, Pizzicaroli, Rv. 214146: si era osservato, infatti, che la figura criminosa di cui all'art. 322 cod. pen. costituisce il paradigma generale rispetto al quale il delitto di intralcio alla giustizia si pone comunque in rapporti di specialità, e che, in quanto norma generale, opera "mancando i presupposti di operatività della previsione punitiva speciale". Le stesse Sezioni Unite avevano tuttavia rilevato che questa soluzione, pur se rispettosa del principio di tipicità, determinava, sotto il profilo del trattamento sanzionatorio, una disparità di trattamento per il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero rispetto al perito nominato dal giudice, al consulente tecnico nominato dal giudice civile, e allo stesso consulente tecnico nominato dal pubblico ministero quando l'ausiliario è chiamato semplicemente a descrivere i fatti accertati: in tutte queste ultime ipotesi, infatti, era applicabile la fattispecie di cui all'art. 377 cod. pen., nel secondo e nel terzo caso in riferimento all'art. 373 cod. pen., e nel quarto in riferimento all'art. 372 cod. pen., e conseguentemente la pena irrogabile poteva oscillare da otto mesi a tre anni di reclusione, mentre l'art. 322 cod. pen. consente di infliggere una pena variabile da un minimo di un anno e quattro mesi ad un massimo di tre anni e quattro mesi di reclusione. Sulla base di questi rilievi, e ritenendo violato il principio di eguaglianza, era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 322, secondo comma, cod. pen., nella parte in cui assoggetta la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero ad una pena superiore a quella prevista dall'art. 377, primo comma, in relazione all'art. 373 cod. pen., per la subornazione del perito.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 163 del 2014, ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità. Ha osservato, a fondamento di tale conclusione, che: a) nel caso di specie, il contenuto degli accertamenti demandati richiedeva comunque "un accertamento di natura oggettiva"; b) la dichiarazione d'incostituzionalità richiesta non avrebbe comunque assicurato il rispetto del principio di eguaglianza, poiché, a tacer d'altro, sarebbe stato irragionevole, ed in contrasto con il modello accusatorio del processo penale, equiparare nel trattamento sanzionatorio la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero e quella del perito del giudice; c) la dichiarazione d'incostituzionalità richiesta, ancora, avrebbe avallato la "incongrua" soluzione del concorso formale di reati, con conseguente "duplicazione della risposta punitiva", qualora al consulente tecnico del pubblico ministero fosse stato chiesta "una attività di accertamento che postuli sia il riscontro di dati oggettivi sia profili valutativi".

Muovendo dalla dichiarata condivisione dei rilievi formulati dalla Corte costituzionale, le Sezioni Unite hanno ritenuto che andassero "ripensate" sia le conclusioni assunte nell'ordinanza di rimessione sulla configurabilità del reato di istigazione alla corruzione, sia, in particolare, la premessa secondo cui alle valutazioni tecnico-scientifiche non sono predicabili le categorie di 'verità' o di 'falsità'.

Il Collegio, precisamente, ha osservato, richiamandosi ad un orientamento giurisprudenziale "significativamente esteso", che "quando intervengano in contesti che implicano l'accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, gli enunciati valutativi assolvono certamente una funzione informativa e possono dirsi veri o falsi" (così Sez. V, 9 febbraio 1999, n. 3552, Andronico, Rv. 213366, ma anche: Sez. VI, 6 dicembre 2000, n. 8588/2001, Ciarletta, Rv. 219039; Sez. V, 24 gennaio 2007, n. 15773, Marigliano, Rv. 236550; Sez. I, 10 giugno 2013, n. 45373, Capogrosso, Rv. 257895). Ha evidenziato, a fondamento di questo assunto, che anche le norme positive ammettono espressamente la configurabilità del falso ideologico anche in enunciati valutativi e qualificatori, come avviene nel caso dell'art. 373 cod. pen., relativo alla falsa perizia, ma anche in quello dell'art. 2629 cod. pen., che sanziona(va) penalmente la valutazione esagerata dei conferimenti e degli acquisti della società. Ha poi osservato che: a) la valutazione, quando fa riferimento a criteri predeterminati, "è un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione", la cui maggiore o minore vincolatività dipende dal grado di elasticità o di specificità dei criteri di riferimento; b) la falsità della conclusione può anche dipendere dalla "falsità di una delle premesse". È per queste ragioni che "può dirsi falso l'enunciato valutativo che contraddica criteri di valutazione indiscussi e indiscutibili ovvero che sia posto a conclusione di un ragionamento fondato su premesse contenenti false attestazioni".

Le Sezioni Unite, ancora, hanno trovato ulteriore conferma della plausibilità di questo approdo ermeneutico sia nella giurisprudenza che ha ritenuto configurabile il falso ideologico in atto pubblico ex art. 479 cod. pen. con riferimento alle valutazioni esposte da un consulente tecnico del pubblico ministero nell'elaborato redatto su incarico del magistrato inquirente (così, Sez. I, Capogrosso, cit.), sia nell'elaborazione relativa al delitto di falsa perizia (si citano, in particolare, Sez. V, 12 gennaio 2011, n. 7067, Sabolo, Rv. 249836, nonché Sez. VI, 24 ottobre 2013, n. 45633, Piazza).

Sulla base di queste osservazioni, la Corte di legittimità ha osservato: "deve concludersi che anche in relazione ai giudizi di natura squisitamente tecnico-scientifica può essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità", e che, di conseguenza, "il consulente tecnico del pubblico ministero va equiparato al testimone anche quando formula giudizi tecnico-scientifici". Sotto il profilo applicativo, allora, il comportamento di chi formula una proposta illecita per influire sul contenuto della consulenza tecnica del pubblico ministero "deve essere inquadrato, a seconda delle fasi processuali in cui viene fatta l'offerta (rifiutata), nel combinato disposto di cui agli artt. 377 e 371-bis cod. pen. (intralcio alla giustizia per far rendere false dichiarazioni al pubblico ministero) o in quello di cui agli artt. 377 e 372 cod. pen. (intralcio alla giustizia per far rendere una falsa testimonianza)".

6. L'inapplicabilità di altre disposizioni incriminatrici.

Per completezza, è opportuno rappresentare che il discorso giustificativo delle Sezioni Unite, laddove ha ripercorso tutte le tappe della complessa vicenda processuale, ha anche escluso inequivocabilmente la sussumibilità in altre fattispecie incriminatrici della condotta di chi formula una proposta illecita per influire sul contenuto della consulenza tecnica del pubblico ministero.

Si è già detto che la Corte ha escluso la configurabilità del reato di istigazione alla corruzione e si è data indicazione delle ragioni poste a base di tale conclusione. Si può solo esplicitare, per maggior chiarezza, che, una volta ritenuta applicabile la fattispecie di intralcio alla giustizia in riferimento agli artt. 371-bis o 371 cod. pen. alle condotte subornatrici indirizzate al consulente tecnico del pubblico ministero, anche quando ciò avvenga per influire sui giudizi tecnico-scientifici allo stesso richiesti, la fattispecie prevista dall'art. 322 cod. pen. è fuori gioco già per ragioni formali, essendo la stessa lex generalis, come tale derogata da quella speciale di cui all'art. 377 cod. pen.

Le Sezioni Unite, richiamando puntualmente la loro precedente ordinanza di rimessione della questione alla Corte costituzionale, hanno anche escluso l'ipotizzabilità della fattispecie del tentativo di corruzione in atti giudiziari o dell'istigazione non accolta (e, quindi, non punibile) a commettere una consulenza infedele. Quanto alla prima ipotesi, ammessa da Sez. VI, 6 febbraio 2007, n. 12409, Sghinolfi, Rv. 2336830, si è osservato che la configurabilità della stessa è preclusa in radice dalla mancanza di accordo corruttivo. In ordine alla seconda, si è rilevato che l'attività svolta dal consulente tecnico del pubblico ministero non può essere definita come attività di parte, alla quale soltanto, invece, si riferisce l'art. 380 cod. pen.

  • prostituzione
  • responsabilità penale dei minori

CAPITOLO V

L'INDUZIONE NELLA PROSTITUZIONE MINORILE

(di Pietro Molino )

Sommario

1 I caratteri della condotta induttiva nella "vecchia" giurisprudenza. - 2 La giurisprudenza formatasi sull'art. 600-bis c.p. - 3 L'intervento delle Sezioni unite.

1. I caratteri della condotta induttiva nella "vecchia" giurisprudenza.

Le Sezioni Unite, 19 dicembre 2013, n. 16207/2014, S., Rv. 258757 - si sono pronunciate in materia di prostituzione minorile, affermando il principio per cui "la condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca una persona di età compresa tra i quattordici ed i diciotto anni ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integra gli estremi della fattispecie di cui al comma secondo e non al comma primo dell'art. 600-bis cod. pen. ".

La sezione terza aveva richiesto al supremo collegio di chiarire se il concetto di induzione alla prostituzione minorile sia integrato dalla sola condotta di promessa o dazione o altra utilità posta in essere nei confronti di persona minore di età convinta così a compiere una o più volte atti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, e se il soggetto attivo del reato previsto dall'art. 600-bis cod. pen. possa essere anche colui che si limita a compiere gli atti sessuali con minore.

Nella giurisprudenza della Corte formatasi nel vigore della cd. legge "Merlin" (legge 20 febbraio 1958, n. 75), l'induzione si caratterizza per lasciare alla persona offesa un margine di scelta (Sez. III, 19 dicembre 2004, n. 21019, X., Rv. 229037); peraltro, la circostanza che la persona non sia aliena da precedenti esperienze sessuali o che sia addirittura già dedita alla vendita del proprio corpo (Sez. I, 13 marzo 1986, n. 7947, R., RV. 173482; Sez. I, 26 maggio 2010, n. 24806, T., Rv. 247805) non costituisce elemento decisivo per escludere che la stessa possa essere "indotta" alla prostituzione, in presenza di una condotta che ne coarti la volontà e ne superi le resistenze di ordine morale, ivi incluse le ipotesi di rafforzamento del soggetto passivo nella determinazione di prostituirsi ovvero di convincimento a persistere nella attività di prostituzione dalla quale il soggetto abbia più volte manifestato la volontà di allontanarsi (Sez. III, 13 maggio 1987, n. 7424, C., Rv. 176185).

2. La giurisprudenza formatasi sull'art. 600-bis c.p.

L'utilizzo del concetto di "induzione" anche con riferimento alla prostituzione minorile, per effetto del disposto di cui all'art. 600-bis cod. pen. (introdotto dall'art. 2 della legge 3 agosto 1998, n. 269 e poi modificato prima con legge 6 febbraio 2006, n. 38 ed infine con l'art. 4 della legge 1 ottobre 2012, n. 172), generava tuttavia uno scostamento della giurisprudenza di legittimità rispetto alle linee interpretative maturate con riguardo alla legge n. 75 del 1958: nel caso di maggiorenne, la mera proposta con la quale si prospetta la partecipazione ad incontri sessuali a pagamento con il proponente non costituisce condotta induttiva se non è accompagnata da condotte ulteriori, sotto forma di pressioni fisiche e psicologiche che, superando le resistenze di ordine morale (o di altra natura) che trattengono la persona dall'attività di prostituzione, incidono sulla libertà fisica e/o psichica della persona che viene spinta a prostituirsi (Sez. III, 3 giugno 2004, n. 36156, P.M. in proc. N. ed altri, Rv. 229389); nell'ipotesi di vittima minorenne, invece, è stato ritenuto che la condotta induttiva può consistere nella semplice dazione di denaro che persuada il minore a consentire agli atti sessuali, non essendo peraltro necessario che la persona sia "non iniziata e non dedita alla vendita del proprio corpo" (Sez. III, 14 aprile 2010, n. 18315, R.S., Rv. 247163).

Nell'ordinanza di rimessione il collegio dava dunque conto dell'evoluzione del percorso interpretativo, segnato dalla riaffermazione del principio secondo cui anche gli atti sessuali a pagamento con minore, posti in essere in unica occasione con il solo autore del reato, possono integrare la fattispecie di induzione alla prostituzione, con la precisazione tuttavia della necessità che la dazione del corrispettivo sia accompagnata da una opera di convincimento finalizzata a vincerne la resistenza (Sez. III, 4 luglio 2006, n. 33470, C., Rv. 234787; Sez. III, 19 maggio 2010, n. 216, P.M. in proc. A., Rv. 247696).

Esposti i nuclei essenziali degli orientamenti di legittimità, il collegio remittente sottolineava come l'attuale formulazione dell'art. 600-bis cod. pen. - per effetto delle ultime modificazioni dalla legge n. 172 del 2012 - palesa una ancora più marcata differenziazione fra la più grave ipotesi di cui al primo comma, fattispecie destinata a punire coloro che avviano i minori all'attività di prostituzione, li trattengono in tale attività e ne traggono vantaggio, e quella di cui al capoverso, funzionale alla punizione di coloro che si limitano a compiere atti sessuali a pagamento con soggetti minorenni, indipendentemente dal fatto che questi ultimi siano o meno già dediti ad attività di mercimonio sessuale del proprio corpo; di qui la domanda, a fronte di un concetto di "prostituzione" riferito a soggetti maggiorenni che si collega tradizionalmente alla messa a disposizione del proprio corpo in cambio di denaro o altra utilità nei confronti di un numero almeno tendenzialmente indiscriminato di persone, se le esigenze di tutela dei minori possano giustificare invece un approccio differenziato, sino al punto di ritenere che il concetto giuridico di "prostituzione minorile" sia integrato anche nella ipotesi che la relazione sessuale dietro compenso sia limitata ad un unico adulto in assenza di intermediari e/o sfruttatori e, successivamente, che l'attività di "induzione" nei confronti del/della minorenne possa essere configurata anche nella sola condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, così da convincere la vittima a compiere una o più volte atti sessuali esclusivamente con il soggetto agente.

3. L'intervento delle Sezioni unite.

Al quesito le Sezione Unite hanno fornito risposta negativa, statuendo che la condotta consistente nel promettere o dare denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca una persona di età compresa tra i quattordici ed i diciotto anni ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integra gli estremi della fattispecie di cui al comma secondo dell'art. 600-bis cod. pen., e non quella di induzione alla prostituzione minorile di cui al comma primo dello stesso articolo.

Il supremo consesso nomofilattico giunge a tale conclusione innanzitutto precisando che il concetto di "induzione alla prostituzione", anche con riferimento alla fattispecie di "prostituzione minorile", non può essere diverso dalla nozione tradizionalmente accolta con riferimento alle fattispecie di prostituzione fra adulti, che ha da sempre consentito pacificamente di escludere la punibilità del "cliente".

Le Sezioni Unite ricordano poi che l'atto sessuale compiuto dal minore prostituito, a differenza di quanto avviene per i maggiorenni, non può essere inquadrato in un'area di libertà e che proprio da tale assenza di libertà della prostituzione minorile - di cui il fruitore della prestazione sessuale non può non essere a conoscenza - discende, in forza della precisa incriminazione prevista dal comma secondo dell'art. 600-bis cod. pen., la punibi lità della condotta del cliente medesimo, che diversamente è immune da sanzione penale quando viene in rapporto, sempre da cliente, con la prostituzione del soggetto adulto.

In tale logica punitiva del "cliente" del minorenne, la condotta di induzione alla prostituzione minorile di cui al primo comma della disposizione citata è necessariamente sganciata dal rapporto sessuale singolo, dovendosi avere riguardo alla prostituzione esercitata nei confronti di terzi, anche identificabili in un solo soggetto purché diverso dall'induttore.

Il supremo collegio osserva infatti che la nozione di "induzione alla prostituzione" fa riferimento a condotte che vanno inserite nel versante dell'offerta della prostituzione altrui, e non già nel diverso versante della domanda di prostituzione, al quale va tipicamente ricondotto il c.d. "fatto del cliente"; diversamente, ove si ritenesse cioè che il mero pagamento di una prestazione sessuale sia di per sé una condotta di "induzione alla prostituzione", si finirebbe per abrogare implicitamente la fattispecie di cui al comma secondo dell'art. 600bis cod. pen.

Militano a favore della soluzione adottata anche considerazioni di natura sistematica: la collocazione della fattispecie di "induzione alla prostituzione" nel comma primo dell'art. 600bis cod. pen. - così equiparata a condotte di indubbia maggiore offensività (reclutamento, sfruttamento, favoreggiamento, organizzazione e gestione della prostituzione minorile) che ben giustificano, a fronte dell'inserimento delle due fattispecie all'interno del medesimo articolo, il diversissimo quadro edittale di pena - impone un'interpretazione che esclude dall'ambito di operatività del primo comma la mera fruizione di una prestazione sessuale a pagamento.

Infine, le Sezioni Unite escludono che l'interpretazione accolta possa determinare alcun vulnus alle esigenze di maggior tutela del minore rispetto all'adulto, affermate anche a livello sovranazionale "… poiché la valenza persuasiva strutturalmente insita nel pagamento del minore per ottenere una prestazione sessuale diretta è già assorbita dal disvalore tipico del fatto descritto nel secondo comma dell'art. 600-bis cod. pen.".

Il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite ha trovato, nel 2014, immediata condivisione nella giurisprudenza della sezioni semplici - cfr. Sez. III, 14 maggio 2014, n. 39433, B, Rv. 260601 - in una fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto che l'offerta di denaro ad una minore per convincerla a compiere atti sessuali, poi non effettivamente compiuti, integra il tentativo del reato di cui all'art. 600-bis, comma secondo, cod. pen.

  • furto

CAPITOLO VI

ANCORA SUL FURTO NEL SUPERMERCATO: LA DISTINZIONE TRA CONSUMAZIONE E TENTATIVO

(di Valeria Piccone )

Sommario

1 La questione rimessa alle Sezioni Unite. - 2 Il momento consumativo nel delitto di furto. - 3 La sorveglianza dell'azione delittuosa. - 4 La rapina impropria e l'impossessamento della cosa altrui.

1. La questione rimessa alle Sezioni Unite.

Con sentenza del 30 aprile 2013, la Sezione Quarta ha rimesso alle Sezioni Unite, rilevando la sussistenza di un contrasto interpretativo, la questione inerente al se la condotta di sottrazione di merce all'interno di un supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, sia qualificabile come furto consumato o tentato, allorché l'autore sia stato fermato dopo il superamento della barriera delle casse con la merce sottratta.

Il tema, secondo il Collegio, formava oggetto da tempo di contrasto giurisprudenziale, attenendo alla qualificazione della condotta di sottrazione di beni dai banchi di un supermercato, avvenuta sotto il controllo del personale di sicurezza, nei casi in cui il responsabile venga fermato con la refurtiva dopo il superamento delle casse.

Con sentenza, 17 aprile 2014, n. 52117, Prevete, le Sezioni Unite hanno espresso il principio di diritto così massimato: "In caso di furto in supermercato, il monitoraggio nella attualità della azione furtiva avviata, esercitato sia mediante la diretta osservazione da parte della persona offesa - o dei dipendenti addetti alla sorveglianza, ovvero delle forze dell'ordine - sia mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce ed il conseguente intervento difensivo in continenti, impediscono la consumazione del delitto di furto che resta allo stadio del tentativo, non avendo l'agente conseguito, neppure momentaneamente, l'autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo del soggetto passivo".

Il contrasto viene ricostruito, nell'indicata sentenza, muovendo dall'esame dell'orientamento secondo il quale il momento consumativo del reato è ravvisabile con l'apprensione della merce, che si realizza certamente quando l'agente abbia superato la barriera delle casse senza pagare il prezzo, ma, addirittura, secondo alcune pronunzie, anche prima, allorché la merce venga dall'agente nascosta in tasca o nella borsa, sì da predisporre le condizioni per passare dalla cassa senza pagare.

2. Il momento consumativo nel delitto di furto.

Fra le più recenti decisioni richiamate in tal senso va citata la Sez. V, 23 ottobre 2013, n. 1701/2014, P.G. in proc. Nichiforenco e altro, Rv. 258671, nella quale il Collegio ravvisa il momento consumativo del delitto di furto nell'impossessamento realizzato dall'autore mediante l'occultamento della merce, in modo da eludere i controlli del personale abilitato, ovvero asportando le placche antitaccheggio, talché il superamento delle casse vale esclusivamente a rivelare la volontà di non effettuare il pagamento dovuto.

Negli stessi termini si pone la sentenza Sez. V, 10 luglio 2013, n. 41327, Caci, Rv. 257944, secondo la quale, in base al condiviso orientamento della Corte, costituisce furto consumato e non tentato quello che si commette all'atto del superamento della barriera delle casse di un supermercato con merce prelevata dai banchi e sottratta al pagamento, a nulla rilevando che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato, incaricato della sorveglianza.

3. La sorveglianza dell'azione delittuosa.

Osserva il Supremo Collegio che in Sez. V, 2 ottobre 2013, n. 8395/2014, La Cognata, si nega che il concomitante "controllo" dello sviluppo dell'azione delittuosa da parte del personale di vigilanza impedisca la consumazione del furto; nella pronunzia si precisa che il superamento della linea delle casse, accompagnato dal mancato pagamento della "res", rende manifesta l'intenzione del soggetto, a nulla rilevando la circostanza che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato, incaricato della sorveglianza, trattandosi di circostanza del tutto estranea all'operato dell'agente che semplicemente dà all'avente diritto la possibilità di intervenire nella fase post delictum per il recupero della refurtiva.

In termini non dissimili si sono quindi pronunziate le decisioni Sez. IV, 9 gennaio 2014, n. 7062, Bergantino, Rv. 259263; Sez. V, 13 dicembre 2013, n. 3260/2014, Xhafa e Sez. V, 21 novembre 2013, n. 677/2014, Flauto e altro.

Già in precedenza, Sez. V, 7 febbraio 2013, n. 20838, Fornella, Rv. 256499, richiamata nell'ordinanza di rimessione, aveva affermato che integra il reato di furto consumato, e non tentato, la condotta di colui che si impossessi, superando la barriera delle casse, di merce prelevata dai banchi, sottraendola al pagamento, a nulla rilevando che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato incaricato della sorveglianza.

In termini sostanzialmente adesivi, anche se con riferimento al diverso caso di sottrazione di una somma di danaro nonché di merce non esposta, ma collocata dietro il bancone di un negozio, si pone la sentenza Sez. V, 4 ottobre 2013, n. 584/2014, Romano, Rv. 258711, che ribadisce che costituisce furto consumato, e non tentato, quello che si commette all'atto del superamento della barriera delle casse con merce prelevata dai banchi e sottratta al pagamento, a nulla rilevando che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del negozio incaricato della vigilanza.

Conformi a tale orientamento sono le decisioni Sez. V, 19 gennaio 2011, n. 7086, P.G. in proc. Marin, Rv. 249842; Sez. V, 13 luglio 2010, n. 37242, Nasi e altro, Rv. 248650; Sez. V, 8 giugno 2010, n. 27631, Piccolo, Rv. 248388; Sez. V, 9 maggio 2008, n. 23020, Rissotto, Rv. 240493.

In particolare, il Collegio richiama la citata pronuncia Sez. V, 19 gennaio 2011, n. 7086, P.G. in proc. Marin, Rv. 249842, oltre che la Sez. II, 24 maggio 1966, n. 938, Delfino, Rv. 102532 come esempi, nell'ambito dell'indirizzo in oggetto, di quell'orientamento secondo cui si avrebbe consumazione del furto ancor prima del superamento della barriera delle casse, allorché l'agente, prelevata la merce dal banco, "l'abbia nascosta sulla propria persona oppure in una borsa o, comunque, l'abbia occultata", sulla base della considerazione che la condotta in parola "oltre alla amotio, … determina l'impossessamento della res, (non importa se per lungo tempo o per pochi secondi) e, dunque, integra, in presenza del relativo elemento psicologico gli elementi costitutivi del delitto di furto".

Osserva la Corte come la tesi della consumazione sia sostenuta, in generale, dalla duplice affermazione: a) del perfezionamento della condotta tipizzata dello impossessamento della refurtiva, per effetto del prelievo della merce, senza il successivo pagamento dovuto all'atto del passaggio davanti alla cassa; b) della irrilevanza della circostanza "che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato incaricato della sorveglianza".

In tale contesto, la Corte si sofferma sull'articolata decisione Sez. V, 15 giugno 2012, Magliulo, la quale ribadisce che costituisce furto consumato e non tentato quello che si commette all'atto del superamento della barriera delle casse di un supermercato con merce prelevata dai banchi e sottratta al pagamento, a nulla rilevando che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato incaricato della sorveglianza. Secondo tale pronunzia, le decisioni apparentemente contrastanti con tale impostazione (come, fra le altre, Sez. V, 28 settembre 2005, n. 44011, Valletti, Rv. 232806; Sez. IV, 16 gennaio 2004, n. 7235, Coniglio, Rv. 227347; Sez. V, 21 gennaio 1999, n. 3642, Inbrogno, Rv. 213315), non pongono in dubbio la circostanza che il superamento della barriera delle casse senza provvedere al pagamento della merce prelevata dai banchi integri un'ipotesi di furto, ma aggiungono che la consumazione può verificarsi addirittura prima di tale momento, qualora l'agente occulti su di se la merce e limitano, quindi, la configurabilità del tentativo alla sola ipotesi in cui tale attività venga compiuta in presenza di personale addetto alla sicurezza. Secondo il Collegio, commettendosi il reato di furto in danno di colui che materialmente "detiene" la cosa, è necessario e sufficiente, perché il reato possa dirsi consumato, che la persona offesa sia stata privata illecitamente della detenzione e, per ciò stesso, sia stata posta nella condizione di doversi attivare, se vuole recuperarla, nei confronti del soggetto che l'ha acquisita. Sarebbe proprio quanto accade nel caso di furto in danno di supermercati, quando l'agente abbia oltrepassato la barriera delle casse senza pagare la merce, della quale egli verrebbe così ad acquisire, in quel momento, la detenzione esclusiva ed illecita mentre, in precedenza, salvo il caso dell'occultamento, la detenzione stessa non avrebbe potuto dirsi né esclusiva né illecita, talché non vi sarebbe stato luogo all'effettuazione di interventi preventivi da parte del personale di vigilanza.

Le Sezioni Unite richiamano, a questo punto, il diverso orientamento secondo il quale, ove l'avente diritto o persona da lui incaricata o le forze dell'ordine sorveglino la fase dell'azione furtiva con la possibilità di interromperla in ogni momento, come avviene nei supermercati, l'eventuale sottrazione, seguita dall'intervento nei confronti dell'autore della stessa, non eliminando la signoria sulla cosa dell'avente diritto, fa sì che non si abbia furto consumato, ma soltanto tentato (cfr., fra le altre, Sez. V, 30 ottobre 1992, n. 11947, Di Chiara, Rv. 192608). In particolare, si osserva che, essendo "in re ipsa" l'intervento, in qualsiasi momento dell'azione, dell'avente diritto o di un suo incaricato ed essendo, altresì, l'intervento delle forze dell'ordine atto dovuto, non potrà mai configurarsi, nei casi di specie, il binomio sottrazione-impossessamento consumati arrestandosi, invece, il delitto alla soglia del tentativo. Alla medesima soluzione non può pervenirsi in caso di intervento di un terzo estraneo, e la giurisprudenza, sul punto dell'esclusione del rilievo dell'intervento del terzo, può dirsi costante, ravvisandosi, negli stessi termini, la già citata Sez. V, 21 gennaio 1999, n. 3642, Inbrogno, Rv. 213315; nonché le pronunce Sez. V, 29 ottobre 1992, n. 2622/1993, Demirov Zvonko, Rv. 194318; Sez. V, 3 novembre 1992, n. 837/1993, Zizzo, Rv. 193486; Sez. V, 27 ottobre 1992, n. 398/1993, De Simone ed altro, Rv. 193177).

Secondo tale impostazione, quindi, il prelevamento della merce dai banchi di vendita di un grande magazzino a sistema "self service" e l'allontanamento senza pagare, realizzano il reato di furto consumato, ma allorché l'avente diritto o persona da lui incaricata sorvegli l'azione furtiva, sì da poterla interrompere in ogni momento, il delitto non può dirsi consumato neanche con l'occultamento della cosa sulla persona del colpevole, perché la stessa non è ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto dell'offeso (così, Sez. V, 20 dicembre 2010, n. 7042/2011, D'Aniello, Rv. 249835; Sez. IV, 22 settembre 2010, n. 38534, Bonora e altri, Rv. 248863; Sez. V, 6 maggio 2010, n. 21937, Pg. in proc. Lazaar e altri, Rv. 247410; Sez. V, 28 gennaio 2010, n. 11592, Finizio, Rv. 246893; Sez. V, 28 settembre 2005, n. 44011, Valletti, Rv. 232806; nonché le già citate Sez. V, 21 gennaio 1999, n. 3642, Inbrogno, Rv. 213315 e Sez. V, 30 ottobre 1992, n. 11947, Di Chiara Rv. 192608).

Nella più recente pronuncia Sez. V, 20 dicembre 2010, n. 7042/2011, D'Aniello, Rv. 249835 si legge testualmente che la giurisprudenza di legittimità, ad assoluta maggioranza, ha affermato, nella materia, il principio secondo cui il prelevamento della merce dai banchi di vendita di un grande magazzino a sistema self service e l'allontanamento senza pagare realizzano il reato di furto consumato, ma allorché l'avente diritto o persona da lui incaricata sorvegli l'azione furtiva, sì da poterla interrompere in ogni momento, il delitto non può dirsi consumato neanche con l'occultamento della cosa sulla persona del colpevole, perché la cosa non è ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto dell'offeso.

Le Sezioni Unite ritengono, quindi, di comporre il contrasto insorto fra le Sezioni semplici mediante la riaffermazione di tale secondo orientamento, nel senso della qualificazione giuridica della condotta in esame in termini di furto tentato.

Osserva la Corte che tale soluzione si colloca, peraltro, in linea di continuità con il "dictum" della sentenza Sez. Un., 19 aprile 2012, n. 34952, Reina, Rv. 253153.

4. La rapina impropria e l'impossessamento della cosa altrui.

Nel risolvere positivamente la questione della configurabilità della rapina impropria (anche) in difetto della materiale sottrazione del bene all'impossessamento del quale l'azione era finalizzata, tale pronunzia ha affermato, infatti, proprio con riguardo al furto che "finché la cosa non sia uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore, questi è ancora in grado di recuperarla", circostanza, questa, che fa "degradare la condotta di apprensione del bene a mero tentativo".

Secondo il Supremo Collegio, la questione involge il tema più ampio della definizione giuridica dell'azione di impossessamento della cosa altrui, tipizzata dalla norma.

La norma incriminatrice ha espunto, infatti, il criterio della "amotio", talchè la descrizione della condotta criminosa risulta scandita dal sintagma impossessamento - sottrazione.

In tale prospettiva, la condotta dell'agente il quale oltrepassi la cassa, senza pagare la merce prelevata, rende difficilmente contestabile, ad avviso del Collegio, l'intento furtivo, ma lascia impregiudicata la questione se la circostanza comporti per sé sola la consumazione del reato qualora l'azione delittuosa sia stata rilevata nel suo divenire dalla persona offesa ovvero dagli addetti alla vigilanza.

Secondo le Sezioni Unite, allora, è decisiva la premessa che, in difetto del perfezionamento del possesso della refurtiva in capo all'agente, debba senz'altro escludersi che il reato possa definirsi consumato, considerazione, questa, che assorbe la disamina del controverso rapporto tra la sottrazione e l'impossessamento.

Non appare revocabile in dubbio, secondo il Collegio, la circostanza che l'impossessamento postuli il conseguimento della signoria del bene sottratto, intesa come piena, autonoma ed effettiva disponibilità della cosa.

Conseguentemente, laddove esso debba ritenersi escluso dalla concomitante vigilanza, attuale ed immanente, della persona offesa e dall'intervento esercitato "in continenti" a difesa della detenzione del bene materialmente appreso, ma ancora non uscito dalla sfera di controllo del soggetto passivo, la incompiutezza dell'impossessamento osta alla consumazione del reato e circoscrive la condotta delittuosa nell'ambito del tentativo.

Tale conclusione, ad avviso delle Sezioni Unite, riceve conforto dalla considerazione dell'oggetto giuridico del reato alla luce del principio di offensività, prospettiva, questa, valorizzata di recente quale canone ermeneutico di ricostruzione dei "singoli tipi di reato", dalle Sezioni Unite in Sez. Un., 18 luglio 2013, n. 40354, Sciuscio, alla luce della quale il fondamento della giustapposizione fra il delitto tentato e quello consumato (e del differenziato regime sanzionatorio) risiede nella compromissione dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice.

Coerente con tale assunto è, allora, la Sez. II, 5 febbraio 2013, n. 8445, Niang, per la quale deve ritenersi preferibile la tesi che tende a privilegiare un connotato di "effettività" che deve caratterizzare l'impossessamento quale momento consumativo del delitto di furto, rispetto al semplice momento sottrattivo, con la conseguenza che l'autonoma disponibilità del bene potrà dirsi realizzata solo ove sia stata correlativamente rescissa la altrettanto autonoma signoria che sul bene esercitava il detentore. Conseguentemente, in caso di oggetti esposti per la vendita in un esercizio commerciale ai quali sia stata applicata la cosiddetta placca antitaccheggio, il titolare del bene non può dirsi ne perda il possesso se non dopo il superamento o l'elusione dell'apparato destinato ad operare il relativo controllo.

Conclusivamente, la Corte, formulando il principio di diritto che opta per la configurabilità del tentativo in caso di perdurante sorveglianza della persona offesa o di personale addetto, nonché di intervento difensivo "in continenti", ha reputato anacronistica la teoria della amotio non confortata dall'addentellato normativo offerto in precedenza dall'art. 402, comma 1, del codice Zanardelli del 1889, ritenendo, altresì, non concludente, né pertinente, l'argomento secondo cui la sorveglianza dell'offeso non impedisce la violazione della norma penale e non calzanti, infine, gli ulteriori argomenti espressi dal contrario orientamento con riguardo al rilievo della attivazione della persona offesa per il recupero della refurtiva ed in ordine alla collocazione dell'attività nella fase post delictum.

  • reato tributario
  • prova

CAPITOLO VII

CRISI ECONOMICA E REATI IN MATERIA TRIBUTARIA E PREVIDENZIALE

(di Pietro Molino, Luigi Cuomo )

Sommario

1 Le fattispecie incriminatrici e la (debole) incidenza della crisi d'impresa nella giurisprudenza della Cassazione. - 2 Le possibili situazioni di inesigibilità della condotta: il regime probatorio.

1. Le fattispecie incriminatrici e la (debole) incidenza della crisi d'impresa nella giurisprudenza della Cassazione.

Nel corso del 2014, la tematica del rapporto tra crisi d'impresa e mancato adempimento degli obblighi tributari e previdenziali è stata oggetto di particolare approfondimento da parte della giurisprudenza della Corte di cassazione, in particolare della Terza sezione, più volte sollecitata a pronunciarsi sulla invocata possibilità che situazioni di gravissima illiquidità finanziaria incidano sulla punibilità dei reati di cui agli artt. 10-bis e 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000, nonché sul reato previsto dall'art. 2 del decreto legge n. 463 del 1983, convertito nella legge n. 638 del 1983.

È stato innanzitutto ribadito - Sez. III, 8 aprile 2014, n. 40526, Gagliardi, Rv. 260091 - che il reato di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis) si consuma con il mancato versamento per un ammontare superiore ad euro cinquantamila delle ritenute complessivamente risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti entro la scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale; termine che non coincide con quello richiesto dalla normativa fiscale per l'adempimento dell'obbligazione tributaria, ma è ad esso successivo, avendo il legislatore ritenuto di lasciare al contribuente uno spazio temporale per poter sanare il proprio debito tributario prima che la condotta omissiva integri la fattispecie penalmente rilevante.

L'elemento soggettivo è, poi, integrato dal dolo generico - Sez. III, 8 gennaio 2014, n. 3663, P.G. in proc. De Michele, Rv. 259097 - richiedendosi la mera consapevolezza della condotta omissiva ed essendo dunque irrilevante il fine perseguito dall'agente, in particolare non essendo necessario, a differenza di altre fattispecie, che il comportamento illecito sia dettato dalla scopo specifico di evadere le imposte.

Analoghe considerazioni sulla natura del reato valgono per la fattispecie di cui all'art. 10-ter del D.Lgs. n. 74 del 2000 - così, da ultimo, Sez. III, 22 gennaio 2014, n. 12248, P.M. in proc. Faotto ed altri, Rv. 259807 - posto che la sanzione prevista dall'art. 10-bis, per il delitto di omesso versamento di ritenute certificate, si applica anche a chiunque non versi l'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo: cosicché il momento consumativo del reato è individuato alla scadenza del termine previsto per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo (termine fissato dalla legge n. 405 del 1990, art. 6, comma 2, al 27 dicembre).

Anche per il caso del mancato versamento dell'Iva il reato è punibile a titolo di dolo generico, essendo sufficiente a integrarlo la coscienza e volontà di non versare all'erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, nella consapevolezza che il tributo evaso supera la soglia di punibilità di euro cinquantamila individuata dalla disposizione incriminatrice (così Sez. III, 22 gennaio 2014, n. 12248, cit., Rv. 259806).

A fronte di tale ricostruzione, ben poco margine di manovra sussiste secondo la giurisprudenza della Terza Sezione - in consonanza con quanto già affermato, in importanti passaggi motivazionali, in precedenti arresti "gemelli" delle Sezioni Unite (Sez. Un., 28 marzo 2013, n. 37424, Romano, Rv. 255757 e Sez. Un., 28 marzo 2013, n. 37425, Favellato, Rv. 255759) - per ritenere indenni da responsabilità penale i soggetti inadempienti nei versamenti dovuti.

Quanto al reato di omesso versamento delle ritenute certificate, la premessa teorica della Corte consiste nel ritenere che il sostituto, nel momento in cui procede al versamento della retribuzione in favore del dipendente sostituito, deve trattenere una percentuale dell'emolumento (cd. "ritenuta alla fonte") per poi versarlo all'Erario entro il sedici del mese successivo a quello nel quale ha operato la trattenuta: ogni qualvolta il sostituto d'imposta effettua tali erogazioni, insorge, quindi, a suo carico l'obbligo di accantonare le somme dovute all'Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all'obbligazione tributaria.

L'introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale, per cui non può essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta.

Analogo il ragionamento in tema di fattispecie di omesso versamento Iva: il debito verso il fisco relativo ai versamenti dell'imposta sul valore aggiunto è collegato al compimento delle operazioni imponibili: ogni qualvolta il soggetto d'imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall'acquirente del bene o del servizio) l'IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l'Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all'obbligazione tributaria.

Partendo da tale ricostruzione e volta per volta rapportandosi all'una o all'altra delle due fattispecie, la Cassazione ha più volte ribadito - Sez. III, 6 novembre 2013, n. 2614/2014, Saibene, Rv. 258595 - che non può essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta; in un altro arresto - Sez. III, 27 novembre 2013, n. 3124/2014, Murari, Rv. 258842 - la Corte ha statuito che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente non sono riconducibili al concetto di forza maggiore, che per la sua integrazione pretende l'esistenza di un fatto imprevisto ed imprevedibile e del tutto avulso dalla condotta dell'agente, così da rendere ineluttabile il verificarsi dell'evento; inserendosi nello stesso solco interpretativo, la Corte - Sez. III, 19 dicembre 2013, n. 3705/2014, PG in proc. Casella, Rv. 258056 - ha proceduto all'annullamento di sentenza che aveva escluso il dolo per le difficoltà economiche della società amministrata dall'imputato, desunte dai decreti ingiuntivi e dai protesti ai quali aveva fatto seguito la dichiarazione di fallimento, osservando che i reati sono configurabili anche nel caso in cui si accerti l'esistenza del successivo stato di insolvenza dell'imprenditore, poiché è onere di quest'ultimo ripartire le risorse in modo da poter adempiere all'obbligo del versamento delle ritenute e dell'Iva, anche se ciò possa riflettersi sull'integrale pagamento delle retribuzioni ai lavoratori, ovvero sul soddisfacimento di altri partners essenziali per la vita dell'impresa.

In ulteriori decisioni - Sez. III, 27 novembre 2013, n. 3123/2014, Truzzi; Sez. III, 11 dicembre 2013, n. 3639/2014, Petrilli - la Cassazione sembra chiudere ogni spazio alla possibilità che una crisi di liquidità, anche grave, giustifichi sul piano penale l'omesso versamento dell'Iva attraverso l'esclusione dell'elemento soggettivo, ribadendo che questa dolosa omissione scaturisce da una consapevole ed originaria decisione del soggetto attivo del reato di destinare le somme (che ha ricevuto da terzi) verso una direzione diversa da quella dovuta.

Ancora, la rigida posizione assunta dalla Terza sezione si è spinta a censurare la volontaria omissione dei versamenti dovuti anche quando non ricollegata ad un omesso accantonamento delle relative somme da parte dello stesso soggetto autore dell'inadempimento tributario: secondo un recente avviso - Sez. III, 9 ottobre 2013, n. 3636/ 2014, Stocco, Rv. 259092 - versa infatti in dolo eventuale, e non in mera colpa, il soggetto che, subentrando ad altri dopo la dichiarazione di imposta e prima della scadenza del versamento, abbia acquistato le quote sociali e abbia assunto la carica di amministratore, senza compiere il previo controllo, di natura puramente documentale, sugli ultimi adempimenti fiscali.

Nella fattispecie esaminata, la Corte ha escluso il carattere "colposo" dell'addebito in ragione della particolare semplicità delle verifiche che avrebbero consentito di appurare l'incombenza dell'obbligo tributario: premettendo che l'acquisto di quote della società e la conseguente assunzione della carica di amministratore comportano, per comune esperienza, una minima verifica della contabilità, dei bilanci e delle ultime dichiarazioni dei redditi e che pertanto, ove ciò non avvenga, colui che subentra nelle quote e assume la carica si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze, la Corte ha escluso la ricorrenza di un debito verso l'erario particolarmente remoto o nascosto, trattandosi dell'IVA dovuta sulla base dell'ultima dichiarazione, di modo che sarebbe bastato che prima di acquistare le quote ed assumere la carica di amministratore il soggetto chiedesse di visionare la dichiarazione e l'attestato di versamento all'erario dell'IVA a debito che la stessa evidenziava, effettuando così quei minimi riscontri d'obbligo che debbono essere eseguiti prima del subentro nella carica; anche ammettendo poi che l'imputato non avesse eseguito neppure tale elementare riscontro, si tratterebbe - proseguono i giudici di legittimità - comunque di un fatto-reato addebitabile a titolo di dolo eventuale, quale sarebbe l'elemento psicologico di colui che (in ipotesi) acquista quote sociali e diviene amministratore di una s.r.l. senza alcun previo controllo di natura puramente documentale almeno sugli ultimi adempimenti fiscali.

La stessa posizione restrittivo ha trovato conferma - nel corso dell'anno - anche con riferimento al reato "parallelo" di cui all'art. 2 decreto legge n. 463 del 1983, convertito nella legge n. 638 del 1983: in Sez. III, 19 dicembre 2013, n. 3705/2014, P.G. in proc. Casella, Rv. 258056, la Corte ha ribadito che la fattispecie di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti è integrata, siccome a dolo generico, dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, sicché non rileva, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, la circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità - nella fattispecie, desunta dai decreti ingiuntivi e dai protesti ai quali aveva fatto seguito la dichiarazione di fallimento - e destini risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti (in senso conforme, Sez. III, 17 gennaio 2014, n. 5755, Morini).

In Sez. III, 21 novembre 2013, n. 19574/ 2014, Assirelli, Rv. 259741, la Corte ha affermato che, per la contemporaneità dell'obbligo retributivo e di quello contributivo, il datore di lavoro è tenuto a ripartire le risorse esistenti all'atto dell'erogazione degli emolumenti in modo da poter assolvere al debito para-fiscale, anche se ciò comporti l'impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare, precisando altresì che, ai fini della condizione di punibilità di cui al comma primo-bis dell'art. 2 della L. 638 del 1983, l'impossibilità di adempiere conseguente alla situazione di fallimento non può definirsi assoluta, nel senso che l'imprenditore fallito è tenuto a sollecitare il curatore frattanto nominato - o, in alternativa, il giudice - affinché adempia al pagamento nel termine trimestrale decorrente dalla contestazione o della notifica dell'avvenuto accertamento della violazione.

2. Le possibili situazioni di inesigibilità della condotta: il regime probatorio.

Non di meno, la severa posizione della giurisprudenza di legittimità non ha impedito, nell'ultimo periodo, l'emersione di qualche segnale di apertura verso possibili differenti soluzioni.

Partendo dall'osservazione che una condotta di mancato accantonamento mese per mese al momento della erogazione degli stipendi ai dipendenti (ovvero, quanto all'Iva, volta per volta al momento della percezione dei pagamenti) non è già di per sé penalmente rilevante, poiché l'organizzazione previdente del datore di lavoro deve configurarsi "su scala annuale", ovvero più ampia ma anche più elastica, in un arresto - Sez. III, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014, Maffei - la Corte sostiene che, quantomeno in via teorica ed in ragione di una completa analisi delle condizioni operative dell'impresa dell'imputato, le difficoltà economiche possano integrare una ipotesi di forza maggiore.

L'affermazione è stata precisata, e in qualche misura parzialmente ridimensionata, in un altro precedente - Sez. III, 8 gennaio 2014, n. 15416, Tonti - ove la Corte si limita a censurare, giudicandola apodittica, l'affermazione contenuta in alcune sentenze di merito secondo le quali, una volta pagate le retribuzioni nette o incassate le somme a titolo di IVA, il fatto che poi il soggetto non abbia avuto la disponibilità per i versamenti dovuti alla scadenza dei termini previsti sarebbe "cosa priva di rilievo".

Secondo i giudici di legittimità, infatti, una tale conclusione, se intesa in rapporto al dettato dell'articolo 45 c.p., manifesta una violazione di legge, poiché non può essere considerata tout court irrilevante la causa della indisponibilità del denaro occorrente ai versamenti delle ritenute o delle somme IVA: l'esimente della forza maggiore configura infatti una ipotesi generale in cui la causa della condotta criminosa non è attribuibile a chi materialmente espleta la condotta stessa, per cui anche nei reati in esame non può escludersi, in assoluto, che l'omissione possa derivare in toto da una causa di forza maggiore e, in specie, da una imprevista e imprevedibile indisponibilità del necessario denaro che non sia correlata in alcun modo alla condotta gestionale dell'imprenditore.

Anche sulla possibilità di ritenere che una determinata circostanza abbia inciso sul momento della volizione si segnala qualche apertura: in una recentissima occasione - Sez. III, 28 agosto 2014, Scaletta - la Corte ha sottolineato come proprio in ragione della "genericità" del dolo richiesto nelle fattispecie criminose in esame, la punibilità del soggetto non può dipendere da un'automatica equazione fra l'omesso versamento cosciente e volontario e il reato, per cui il giudice di merito deve valutare se la sopravvenienza dell'evento del tutto esterno alla volontà dell'agente (si pensi al caso tipico del fallimento sopravvenuto in prossimità della scadenza del debito tributario) abbia o meno inciso sulla sussistenza dell'elemento soggettivo.

L'ostacolo maggiore alla configurazione di una possibile incidenza esimente della crisi di liquidità si riscontra peraltro a livello applicativo, dal momento in cui la Corte - così Sez. III, 5 dicembre 2013, n. 5467/2014, Mercutello, Rv. 258055 - rimarca l'esigenza di un regime probatorio particolarmente arduo, in forza del quale il soggetto (che la invoca) deve dimostrare tanto che la difficoltà economica non sia a lui imputabile, quanto di aver posto in essere tutte le possibili azioni dirette a recuperare la necessaria provvista per provvedere all'adempimento con opportuni interventi sul cd. "flusso di cassa" (così Sez. III, 25 febbraio 2014, n. 14953, Magri; in materia di omesso versamento di ritenute certificate, v. anche Sez. III, 8 aprile 2014, n. 20266, P.G. in proc. Zanchi, Rv. 259190), anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale; paradigmatica, in tal senso, Sez. III, 17 luglio 2014, n. 42003, Pacchiarotti, nella quale è stata esclusa la rilevanza esimente di una crisi di liquidità dell'impresa, in presenza di cospicue immobilizzazioni finanziarie indicate nel bilancio della società ancorché oggetto di difficile smobilizzo, valorizzandosi il dato saliente riguardante la stessa scelta pregressa di operare tali immobilizzazione in un momento che, in quanto caratterizzato dal mancato pagamento dei crediti vantati dalla società, poteva oggettivamente rivelarsi critico quanto agli adempimenti tributari cui la stessa società era comunque tenuta.

Una prova soggetta ad una valutazione estremamente rigorosa, dunque, che investe l'idoneità di tutte le possibili azioni riparatrici da effettuarsi in concreto, tenuto conto degli strumenti effettivamente a disposizione del contribuente e delle specifiche modalità con le quali la condizione di crisi economica si è manifestata: si tratta insomma di dimostrare sia che il versamento dell'imposta evasa è direttamente riferibile all'ammontare di talune fatture che non gli sono state pagate, sia che egli non aveva altre risorse a disposizione per adempiere agli obblighi fiscali, nonostante la tempestiva attivazione per procurarsele ad esempio attraverso ripetuti ma infruttuosi tentativi di ricorrere al credito bancario - così Sez. III, 25 febbraio 2014, n. 13019, Allegrini - o al factoring, ovvero eseguendo i pagamenti dovuti subito dopo aver incassato le somme di cui era creditrice (di recente, Sez. III, 26 giugno 2014, n. 41689, Di Staso).

Una prova tuttavia non impossibile: in Sez. III, 6 febbraio 2014, n. 15176, P.G. in proc. Iaquinangelo, la Corte ha reputato ritenuto corretta la decisione di assoluzione del giudice del merito, adottata sulla base di risultanze probatorie che dimostravano come l'imputato - titolare di un'impresa che aveva sviluppato rapporti con pochi grossi clienti che pagavano con sistematico e grave ritardo le loro prestazioni - oltre ad aver assolto parzialmente l'onere di versamento mensile dell'Iva, pagato i dipendenti e i relativi debiti contributivi, avesse fatto un ricorso massiccio allo sconto bancario delle fatture; strumento risultato tuttavia insufficiente a ragione esclusiva dell'ulteriore massiccio ritardo nella pagamento delle fatture vantate dall'impresa, così da far registrare (nell'esercizio di bilancio relativo al periodo in contestazione) disponibilità liquide modestissime, a fronte di un'impennata dei crediti esigibili.

In questo frangente, la Corte ha ritenuto sorretta da adeguate evidenze probatorie la decisione del giudice di escludere il dolo del delitto contestato o quanto meno di ritenere che vi fosse un ragionevole dubbio sulla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato.

In motivazione, la Terza sezione ricorda che la volontà di non effettuare nei termini il versamento dovuto (che costituisce un segmento indefettibile del dolo richiesto dalla fattispecie) presuppone - secondo la struttura tipica dei reati omissivi - la possibilità di assolvere il dovere di pagamento, dovendosi invece escludere la volontà dell'omissione in presenza di una sorta di causa di impossibilità relativa, da valutarsi in relazione a quanto umanamente esigibile dal soggetto su cui incombe il dovere di adempiere.

Secondo la Corte, non si tratta di porre in discussione la natura generica del dolo né il principio che sul soggetto tenuto al versamento incombe un obbligo di accantonamento, evidenziando tuttavia sotto tale ultimo e specifico profilo che, ove pure si superassero le obiezioni circa i tratti ontologicamente colposi che rivelerebbe un giudizio fondato sulla "imprudente gestione" delle proprie risorse (facendo ricorso alla categoria del dolo eventuale, con riferimento alla rappresentazione dell'evento costituito dal mancato pagamento come risultato possibile a fronte di un modo di agire illecito), occorre comunque ricercare, e dimostrare, l'esistenza di profili di rimproverabilità: profili certamente da escludersi quando - a fronte di un obbligo tributario che, all'epoca dei fatti, sorgeva dalla semplice emissione della fattura (a prescindere, quindi, dall'effettiva riscossione del credito per la prestazione eseguita) ed a fronte dei sistematici, gravissimi ritardi dei fornitori nel pagamento delle fatture stesse - il ricorso massiccio al credito bancario e, per certi versi, anche a causa dell'ulteriore, conseguente aggravamento degli oneri passivi determinati dalle percentuali trattenute dalle banche per lo sconto delle fatture, ha comportato l'insorgere di una gravissima carenza di liquidità, sicuramente non ascrivibile a colpa del soggetto tenuto all'adempimento, ma derivante dalla micidiale combinazione dei due fattori sopraindicati.

Identico approdo è raggiunto in un'altra occasione - Sez. III, 6 febbraio 2014, n. 9264, P.G. in proc. Garanzini - anche in tema di omesso versamento delle ritenute fiscali certificate.

Qui la Corte ha reputato esente da vizi l'assoluzione di soggetto, nominato come liquidatore, cui era stato contestata l'omesso versamento delle ritenute previdenziali risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti per l'annualità d'imposta immediatamente successiva alla sua nomina: le "particolari circostanze" nel cui contesto maturò l'omesso versamento - l'aver cioè dovuto fronteggiare una situazione di grave crisi dell'impresa, attribuibile alla precedente amministrazione (che aveva portato con sé una fortissima carenza di liquidità, la presenza di crediti per lo più inesigibili e di debiti particolarmente onerosi, tra l'altro essendo in corso accordi sindacali per la tutela dei lavoratori e un impegno di rientro rateale del debito verso l'Inps), uniti all'accertato tentativo del soggetto di acquisire liquidità provando infruttuosamente a vendere l'unico immobile di proprietà della società - dimostrano, secondo la Corte, che l'imputato "non aveva un'alternativa ragionevolmente esigibile rispetto alla condotta tenuta".

Quanto infine al reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali (art. 2 decreto legge n. 463 del 1983, conv. in legge n. 638 del 1983), profili di interesse, per le possibili ricadute sulle situazioni di "crisi d'impresa", presenta Sez. III, 8 gennaio 2014, n. 3663, P.G. in proc. De Michele, Rv. 259097 - dove la Corte, pur ribadendo che la fattispecie delittuosa in esame richiede, per la sua configurabilità, il dolo generico, consistente nella volontarietà dell'omissione, con la conseguenza che, accertata tale volontarietà, non è necessaria una esplicita motivazione sull'esistenza del dolo, precisa tuttavia che la mera mancanza di diligenza nell'adempimento degli obblighi contributivi e la colposa discontinuità nei versamenti periodici all'istituto previdenziale, non integrano la fattispecie del dolo generico, l'accertamento del quale è rimesso alla valutazione del giudice di merito che, esaminando le peculiarità del caso di specie (quali, in ipotesi, l'importo contenuto delle somme non versate o l'episodicità delle inadempienze) può pervenire al convincimento della mancanza dell'elemento soggettivo, attribuendo la condotta inadempiente a comportamento colposo, sanzionato in sede civile.

  • nuova tecnologia
  • Internet

CAPITOLO VIII

INTERNET E NUOVE TECNOLOGIE

(di Luigi Cuomo )

Sommario

1 Premessa. - 2 I nuovi diritti nell'epoca della rete globale. - 3 Le questioni processuali.

1. Premessa.

La Suprema Corte, prendendo atto della espansione dei nuovi modelli informativi e delle potenzialità comunicative della rete Internet, è intervenuta con diverse pronunce a regolamentare il settore del web, che si connota per l'accesso facilitato a risorse elettroniche e a piattaforme di condivisione di informazioni anche da dispositivi mobili, con evidenti riflessi sull'individuazione dei responsabili di eventuali condotte criminose e sui criteri di determinazione della competenza territoriale.

2. I nuovi diritti nell'epoca della rete globale.

In una delle decisioni più importanti, originata da un episodio di cyberbullismo, la Suprema Corte ha esaminato la responsabilità dell'Internet Hosting Provider per i contenuti multimediali caricati su piattaforme digitali alimentate dagli utenti (come ad esempio Google-video, You-tube o gli stessi Social-Network), affermando il principio secondo il quale l'operatore che professionalmente mette a disposizione uno "spazio web" perché gli altri vi pubblichino dei video, non può considerarsi titolare del trattamento dei dati personali contenuti nel materiale caricato online dagli utenti e, di conseguenza, non può ritenersi obbligato ad alcun adempimento a tutela della privacy dei terzi.

La Terza Sezione, con la sentenza 17 dicembre 2013, Drummond, n. 5107/2014, Rv. 258520, ha affermato che «non è configurabile il reato di trattamento illecito di dati personali a carico degli amministratori e dei responsabili di una società fornitrice di servizi di Internet hosting provider che memorizza e rende accessibile a terzi un video contenente dati sensibili (nella specie, un disabile ingiuriato e schernito dai compagni in relazione alle sue condizioni), omettendo di informare l'utente che immette il file sul sito dell'obbligo di rispettare la legislazione sul trattamento dei dati personali, qualora il contenuto multimediale sia rimosso immediatamente dopo le segnalazioni di altrui utenti e la richiesta della polizia. (In motivazione, la Corte ha evidenziato che l'attività svolta dal provider, anche secondo quanto dispone il D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70, consiste nell'offrire una piattaforma sulla quale i destinatari del servizio possono liberamente caricare i loro video senza che il gestore abbia alcun potere decisionale sui dati sensibili in essi inclusi, e, quindi, possa essere considerato titolare del trattamento degli stessi, finché non abbia l'effettiva conoscenza della loro illiceità, non incombendo a suo carico un obbligo generale di sorveglianza, di ricerca dei contenuti illeciti o di avvertimento della necessità di rispettare la disciplina sulla privacy)».

Alcuni importanti principi sono stati affermati dalla Suprema Corte nel settore dei social network e delle reti sociali, che costituiscono uno dei fenomeni più emblematici dell'impatto di Internet sulle relazioni interpersonali tra soggetti di ogni età, professione, estrazione sociale e, in particolar modo, tra i giovani, che ha determinato notevoli cambiamenti dei modi di comunicazione e diffusione delle idee e delle informazioni, dei tempi e contenuti del confronto generale, del costume e dei comportamenti collettivi o individuali.

In particolar modo, nella casistica giurisprudenziale della Suprema Corte si registra l'incremento dell'uso della rete sociale denominata Facebook per la commissione di furti di identità o di diffamazioni virtuali: il problema della tutela dell'identità personale sulla rete Internet si è posto prepotentemente atteso che, con il numero di utenti in costante aumento, sono cresciuti anche gli attacchi informatici volti a carpire l'identità altrui con possibilità di impiego illecito e, in particolare, per finalità patrimoniali, emulative o diffamatorie.

Sul tema, la Terza Sezione, con sentenza 23 aprile 2014, Sarlo, n. 25774, Rv. 259303, ha affermato che «integra il delitto di sostituzione di persona (art. 494 cod. pen.) la condotta di colui che crea ed utilizza un "profilo" su social network, utilizzando abusivamente l'immagine di una persona del tutto inconsapevole, associata ad un nickname di fantasia ed a caratteristiche personali negative (In motivazione, la Corte ha osservato che la descrizione di un profilo poco lusinghiero sul social network evidenzia sia il fine di vantaggio, consistente nell'agevolazione delle comunicazioni e degli scambi di contenuti in rete, sia il fine di danno per il terzo, di cui è abusivamente utilizzata l'immagine)».

Nel solco delle decisioni che ammettono la configurabilità del reato di diffamazione telematica, la Prima Sezione, con sentenza 22 gennaio 2014, Sarlo, n. 16712, non massimata, ha riconosciuto la punibilità degli insulti in forma anonima su Facebook, in quanto «ai fini della integrazione della fattispecie è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è stata lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa».

Nel settore della tutela del diritto d'autore, la Terza Sezione, con sentenza 9 gennaio 2014, Scotto, n. 6988, Rv. 258933, ha chiarito che «la detenzione di programmi per elaboratore elettronico abusivamente duplicati dagli originali da parte di soggetto esercente professionalmente l'attività di assistenza in campo informatico può integrare il reato previsto dall'art. 171-bis, comma primo, della legge 22 aprile 1941, n. 633, poiché la finalità di commercio della detenzione medesima non deve essere valutata esclusivamente con riguardo alla vendita diretta dei programmi, ma anche alla installazione dei medesimi sugli apparecchi affidati in assistenza e, più in generale, alla loro utilizzazione in favore dei clienti».

Per quanto riguarda i reati contro il patrimonio, va segnalato il pronunciamento della Quinta Sezione, che, con sentenza 12 novembre 2013, Gargiulo, n. 654, Rv. 257957, ha affermato che «integra il reato di truffa l'alterazione di un documento informatico preordinata a simulare l'esistenza di un credito di imposta così da conseguire l'ingiusto profitto derivante dalla riduzione dell'imposta effettivamente dovuta; né, ai fini della consumazione del reato, è necessaria l'emissione della cartella esattoriale riportante l'indebita compensazione, in quanto, in tal caso, il delitto di truffa si consuma con l'alterazione del documento informatico, considerato che l'informatizzazione delle procedure tributarie attribuisce immediata efficacia all'iscrizione nel sistema informatico della situazione debitoria del contribuente, nel senso che ad essa occorre aver riguardo ai fini dell'illecito arricchimento del contribuente e del correlativo depauperamento del patrimonio dell'amministrazione conseguito all'eliminazione del debito tributario».

In altra decisione, la Suprema Corte ha esaminato la questione relativa alla possibilità di attribuire ad un impiegato comunale, addetto all'inserimento di pratiche nel sistema informativo e sul portale elettronico di un ente pubblico, la qualità di incaricato di pubblico servizio.

Al riguardo, la Sesta Sezione ha affermato che «non riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio il dipendente comunale preposto ad inserire, nel sito Internet del Comune, le pratiche edilizie già esaminate ed istruite dai funzionari addetti al settore, trattandosi dell'esercizio di una attività meramente esecutiva che esclude il possesso di specifiche competenze tecniche o informatiche, nonché priva del carattere dell'autonomia e della discrezionalità tipiche delle mansioni di concetto (Sez. VI, sentenza 22 maggio 2014, Artuso, n. 33845, Rv. 260174).

In materia di falsità documentali, inoltre, è stato affermato che «integra gli estremi del delitto previsto dall'art. 469 cod. pen. 1a riproduzione, mediante un programma informatico, dell'impronta dell'ufficio postale su una falsa ricevuta attestante l'avvenuto pagamento relativo ad una imposizione tributaria» (Sez. V, sentenza 16 gennaio 2014, Zammarano, n. 6352, Rv. 258885).

Un ulteriore interessante contributo è stato offerto dalla giurisprudenza di legittimità in una materia del tutto nuova, che riguarda l'eccessiva dipendenza da Internet e la sua influenza sui processi cognitivi e di elaborazione mentale dell'utente.

Tale dipendenza, denominata Internet Addiction Disorder, è una condizione psicologica che si connota per un accentuato ed insistente bisogno di connettersi al Web, che determina una alterazione del comportamento che ingenera nella vittima, a seguito di un uso compulsivo del computer, l'esasperata e incontrollata ricerca di contatti o relazioni virtuali.

La Suprema Corte, quindi, è stata chiamata a pronunciarsi sulla incidenza di tale "dipendenza" da Internet o dalla tecnologia sulla capacità di intendere e volere e, quindi, sull'imputabilità di un soggetto responsabile della detenzione e della divulgazione di un ingente quantitativo di materiale pedopornografico.

In argomento, la Terza Sezione, con sentenza 20 novembre 2013, D., n. 1161/2014, Rv. 257923, ha affermato che «ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, acquistano rilievo solo quei "disturbi della personalità" che siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale».

Sulla base di tali presupposti la Suprema Corte ha escluso la rilevanza del disturbo derivante dalla "dipendenza da Internet", perché si tratta non solo di un quadro sintomatico non ancora compiutamente classificabile, ma soprattutto perché l'incidenza dei turbamenti psichici sulle facoltà mentali è priva dei prescritti connotati di gravità.

In materia di trattamento illecito dei dati personali, la Suprema Corte ha riconosciuto la illiceità penale di una banca-dati, contenente informazioni di particolare interesse investigativo (tra cui dati anagrafici, relazioni di parentela e societarie, dati di traffico telefonico, elenco degli intestatari di utenze, rubriche ed altro), abusivamente formata attraverso la conservazione e l'incrocio di dati personali acquisiti da un ausiliario in virtù del pregresso espletamento dell'incarico di consulente tecnico per conto dell'autorità giudiziaria.

La Sesta Sezione, con sentenza 12 febbraio 2014, Genchi, n. 10618, Rv. 259781, ha ritenuto configurabile «il reato di cui all'art. 167 D.Lgs. n. 196 del 2003 nella condotta di chi, acquisiti nel tempo innumerevoli dati personali relativi anche al traffico telefonico, in conseguenza dell'attività svolta come consulente tecnico del pubblico ministero, trattiene ed "incrocia" gli stessi senza il consenso né dell'A.G. che aveva conferito l'incarico, né degli interessati, e successivamente li utilizza per lo svolgimento di ulteriori incarichi retribuiti di consulenza e per la pubblicazione di libri ed articoli.

3. Le questioni processuali.

La Suprema Corte ha anche affrontato, con distinte decisioni, alcune questioni processuali relative alla confisca di materiale illecito, all'acquisizione delle fonti di prova elettroniche e all'oscuramento di risorse telematiche per impedire che eventuali reati potessero essere portati ad ulteriori conseguenze.

In tal senso, è stato stabilito che il giudice, nell'ipotesi di archiviazione indistinta di file leciti e materiale multimediale illecito all'interno di un supporto di memorizzazione, deve limitare la confisca soltanto alle risorse elettroniche la cui detenzione costituisce reato.

la Terza Sezione, con sentenza 2 aprile 2014, Malagoli, n. 20429, Rv. 259631, ha affermato che «le "cose che servirono a commettere il reato" sono suscettibili di confisca in funzione di evitare che la loro disponibilità possa favorire la commissione di ulteriori reati e tale prognosi va effettuata attraverso l'accertamento, in concreto, del nesso di strumentalità fra la cosa e il reato, in relazione sia al ruolo effettivamente rivestito dalla res nel compimento dell'illecito sia alle modalità di realizzazione del reato medesimo (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto carente di motivazione la confisca di un personal computer, di alcuni hard-disk esterni e di altri supporti di memorizzazione all'interno dei quali erano stati promiscuamente archiviati materiali leciti e immagini pedopornografiche)».

Alcune pronunce hanno ribadito il consolidato orientamento che ammette l'acquisizione delle impronte elettroniche e delle tracce telematiche mediante il sequestro, che può ricadere sul sistema informatico utilizzato per commettere l'illecito penale, su tablet del tipo Ipad o su sistemi di elaborazione di informazioni utilizzabili per la commissione di violazioni finanziarie (Sez. III, sentenza 16 aprile 2014, Garritani, n. 19886, non massimata; Sez. III, 8 gennaio 2014, Ligorio, n. 11393, non massimata).

In tema di sequestro di risorse informatiche, la Corte ha avuto altresì modo di chiarire che «è inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso per cassazione proposto avverso l'ordinanza del tribunale del riesame che abbia disposto la restituzione al ricorrente degli originali dei documenti e dei supporti informatici sottoposti a sequestro probatorio previa estrazione di copia, in quanto avverso di essa, che costituisce provvedimento autonomo rispetto al decreto di sequestro, non è ammissibile alcuna forma di gravame, stante il principio di tassatività delle impugnazioni» (Sez. III, sentenza 30 maggio 2014, Peselli, n. 27503, Rv. 259197).

È stato, inoltre, affermato che «è legittimo il sequestro probatorio di supporti informatici disposto per svolgere accertamenti sui dati in essi contenuti, pur se la legge 18 marzo 2008, n. 48, nel modificare le disposizioni del codice di procedura penale, ha previsto la possibilità di estrarre copia degli stessi con modalità idonee a garantire la conformità dei dati acquisiti a quelli originali, in quanto questa disciplina non impedisce di imporre un vincolo su tali "cose", ma si limita a consentire la presentazione di una successiva richiesta di restituzione a norma dell'art. 263 cod. proc. pen.» (Sez. VI, sentenza 12 febbraio 2014, Genchi, n. 10618, Rv. 259782).

In attesa del definitivo pronunciamento delle Sezioni Unite sulla ammissibilità del sequestro preventivo, mediante "oscuramento", anche parziale, di un sito Internet e di una pagina web di una testata giornalistica telematica registrata (cfr. ordinanza di rimessione della Prima Sezione, 3 ottobre 2014, Fazzo, n. 45053, non massimata), la giurisprudenza delle Sezioni Semplici ha riconosciuto la legittimità dell'ordine impartito dall'autorità giudiziaria all'Internet Service Provider di disabilitare o inibire l'accesso a contenuti informativi, musicali o "audio-video" digitali su piattaforma elettronica.

In argomento, la Quinta Sezione, sentenza 5 novembre 2013, Montanari, n. 10594/2014, Rv. 259887-259889, ha analizzato il problema dell'estensione dello statuto previsto in tema di disciplina della stampa anche alle manifestazioni del pensiero trasmesse in via telematica: dalla soluzione data allo stesso, infatti, si sono fatte discendere dirette conseguenze circa la responsabilità del direttore e i limiti ai poteri di sequestro da parte dell'autorità giudiziaria e di polizia. Segnatamente, Sez. V, Montanari, cit., ha escluso che le garanzie costituzionali previste dall'art. 21, terzo comma, Cost. in tema di sequestro della stampa possano trovare applicazione estensiva, e, quindi, essere riferite a blog, mailing list, chat, news-letter, e-mail, newsgroup, mailing list, osservando che il termine "stampa" è stato assunto dalla norma costituzionale nella sua accezione tecnica che fa riferimento alla "carta stampata": a tacer d'altro, infatti, al momento dell'entrata in vigore della Costituzione poteva concretamente prospettarsi il problema delle garanzie da riservare all'attività giornalistica svolta attraverso il servizio radiofonico; in conseguenza di ciò, la Corte ha affermato la ammissibilità del sequestro di copie di articoli di un quotidiano già stampati, che erano state pubblicate sul sito web del giornale. Tuttavia, la sentenza in esame, pur escludendo l'operatività dei limiti previsti dall'art. 21, terzo comma Cost., ha osservato che il giudice di merito, per ritenere legittimamente eseguito il sequestro di un articolo di giornale pubblicato su un sito "web", deve tenere conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali e della effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, al fine di accertare se emerga la probabile sussistenza della causa di giustificazione dell'esercizio del diritto di cronaca e di critica; questo, perché tale attività, seppure non qualificabile tecnicamente come "stampa", rientra nell'ambito dell'esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, tutelata, in generale, dall'art. 21, primo comma, della Costituzione. Sez. V, Montanari, infine, ha escluso la responsabilità del direttore di un periodico on-line per il reato di omesso controllo previsto dall'art. 57 cod. pen., proprio negando l'inquadramento del periodico on-line nella nozione di "stampa", oltre che per l'impossibilità per tale soggetto di impedire le pubblicazioni di contenuti diffamatori "postati" direttamente dall'utenza.

  • verifica di costituzionalità
  • stupefacente

CAPITOLO IX - LA DISCIPLINA DEGLI STUPEFACENTI DOPO GLI INTERVENTI DELLA CORTE COSTITUZIONALE E DEL LEGISLATORE DEL 2014 - - - SEZIONE I

La sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014: effetti sui processi in corso e sulle pene inflitte.

(di Matilde Brancaccio, Roberta Zizanovich )

Sommario

1 Premessa. - 2 Incidenza della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 e del d.l. 36 del 2014 sulla configurabilità della circostanza aggravante dell'ingente quantità. - 3 Incidenza della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 sul consumo personale di sostanze stupefacenti. - 4 Incidenza della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 sulle misure cautelari personali in atto. - 4.1 La rivalutazione delle esigenze cautelari per effetto dell'intervento della lex mitior. - 4.2 Effetti della sentenza di incostituzionalità di una norma sanzionatoria sui termini di durata massima della misura cautelare per le fasi esaurite prima della pubblicazione della sentenza stessa: la questione dell'efficacia retroattiva cd."ora per allora".

1. Premessa.

La giurisprudenza di legittimità venuta in essere in tema di detenzione illecita di sostanze stupefacenti a seguito sia della pronuncia di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 32 del 2014 (di cui alla Prima Parte) sia delle modifiche normative al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 introdotte, prima, con il d.l. 23 dicembre 2014, n. 146, convertito con modificazioni nella legge 21 febbraio 2014, n. 10 e, poi, con il d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni nella legge 16 maggio 2014, n. 79 (di cui alla Seconda Parte), si presenta copiosa e decisamente variegata.

Come è noto con la sentenza n. 32 del 2014, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli articoli 4-bis e 4-vicies ter del decreto legge 30 dicembre 2005, n. 272, inseriti, in sede di conversione, dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49 (nota come "legge Fini-Giovanardi"), con i quali era stata radicalmente modificata la normativa in tema di sostanze stupefacenti e psicotrope, contenuta nel citato d.P.R.

In particolare, per quanto specificamente interessa in questa sede, l'art. 4-bis aveva modificato l'art. 73 del testo unico, unificando il trattamento sanzionatorio per le condotte di produzione, traffico e detenzione illeciti, indipendentemente dalla tipologia di sostanza stupefacente trattata: si prevedeva infatti in ogni caso, al comma primo, la reclusione da sei a venti anni, e la multa da euro 26.000 a euro 260.000. Il previgente art. 73, invece, era caratterizzato da una netta distinzione della risposta sanzionatoria, a seconda che i reati avessero avuto ad oggetto le sostanze inserite nelle tabelle I e III (cosiddette "droghe pesanti"), per i quali l'originario art. 73, comma 1, aveva previsto la reclusione da otto a venti anni e la multa da cinquanta a cinquecento milioni di lire (da euro 25.822 a euro 258.228), ovvero le sostanze inserite nelle tabelle II e IV (cosiddette "droghe leggere"), per i quali l'art. 73, comma 4, aveva previsto, nell'originaria formulazione, la reclusione da due a sei anni e la multa da dieci a centocinquanta milioni (da euro 5.164 a euro 77.468).

Il medesimo art. 4-bis del citato decreto legge aveva, altresì, provveduto a modificare anche il comma quinto del medesimo art. 73 del testo unico coerentemente all'adottata indifferenza sanzionatoria rispetto alla tipologia di sostanze: in tal modo, l'ipotesi attenuata del fatto di lieve entità era stata ricondotta ad un delta punitivo unico previsto nella misura da uno a sei anni di reclusione, con multa da 3.000 a 26.000 euro.

D'altro lato, l'art. 4-vicies ter aveva "coerentemente" modificato il sistema tabellare disciplinato dai previgenti articoli 13 e 14 del testo unico, raggruppando all'interno di un'unica tabella I tutte le sostanze stupefacenti o psicotrope precedentemente ripartite, come accennato, in gruppi differenti (gli artt. 13 e 14, nel testo modificato dall'art. 4-vicies ter, prevedevano anche l'inserimento, all'interno della tabella II, dei medicinali contenenti sostanze ad azione stupefacente o psicotropa).

Gli articoli 4-bis e 4-vicies ter della "legge Fini-Giovanardi" sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi per violazione dell'art. 77, comma secondo, Cost., avendo la Corte costituzionale riscontrato un "difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto legge e quelle impugnate, introdotte dalla legge di conversione". Il carattere prettamente procedurale del vizio ha comportato, per espressa indicazione della Consulta, la declaratoria di illegittimità costituzionale dei due articoli nella loro interezza, anziché delle sole disposizioni relative all'impianto sanzionatorio e al sistema tabellare, specificamente oggetto della questione incidentale sollevata dalla Corte di cassazione (con ordinanza emessa in data 11 giugno 2013 dalla Terza Sezione).

Altrettanto esplicita è stata la Consulta nell'affermare che "in considerazione del particolare vizio procedurale accertato in questa sede, per carenza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost., deve ritenersi che, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate, tornino a ricevere applicazione l'art. 73 del d.P.R. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate" (cfr. punto 5 del Considerato in diritto).

Con riferimento all'art. 73, comma 5, del Testo Unico deve precisarsi che la disposizione introdotta dalla legge cd. Fini-Giovanardi del 2006 era stata già oggetto di modifica normativa poco prima dell'intervento demolitorio della Corte costituzionale: era intervenuto, infatti, l'art. 2, comma 1, lett. a) del decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modifiche in legge 21 febbraio 2014, n. 10, che aveva previsto una sola differenza rispetto all'impianto normativo precedente e cioè la riduzione del massimo edittale di pena, individuato in cinque (e non più sei) anni di reclusione. Ebbene, nella sentenza della Corte costituzionale è espressamente dato atto che "nessuna incidenza sulle questioni sollevate (innanzi ad essa) possono esplicare le modifiche apportate all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 dall'art. 2 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n. 10". Tale affermazione si fonda sulla considerazione che si tratta di ius superveniens riguardante disposizioni già valutate non applicabili nel giudizio a quo e, comunque, non influenti sullo specifico vizio procedurale lamentato dal giudice rimettente in ordine alla formazione della legge di conversione n. 49 del 2006, con riguardo a disposizioni differenti.

Il Giudice delle leggi, inoltre, ha esplicitamente escluso che gli effetti della pronuncia di incostituzionalità potessero riguardare la citata modifica normativa, in quanto stabilita con disposizione successiva a quella censurata e indipendente da quest'ultima. Sotto diverso aspetto ha rimesso al giudice comune, quale interprete delle leggi, il compito sia di verificare gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale sui singoli imputati, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 cod. pen.; sia di individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non fossero più applicabili perché divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, dovessero continuare ad avere applicazione in quanto non presupponenti la vigenza degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, oggetto della decisione de qua.

Le rilevanti modifiche che hanno interessato l'art. 73 d.P.R. 309/1990, sia per intervento legislativo (di cui si dirà nella Parte seconda) sia per censura di incostituzionalità, hanno determinato l'insorgere di una serie di questioni attinenti, non solo, l'individuazione della disciplina applicabile al caso concreto ma anche la possibilità di considerare "illegale" la pena inflitta facendo applicazione delle forbici edittali contenute nelle disposizioni caducate ex tunc per effetto della più volte citata sentenza della Consulta.

La Corte di cassazione ha indicato i percorsi ermeneutici da seguire nella risoluzione di esse, non sempre mostrando unanimità nelle soluzioni prescelte, la cui individuazione risulta fisiologicamente dipendente dalle peculiarità del caso di specie.

La finalità, dunque, del presente capitolo della Rassegna è quella di rappresentare, seppure in via sintetica, un quadro delle decisioni di legittimità in ordine alle suddette questioni, non senza segnalare che trattasi di giurisprudenza tutt'ora in evoluzione.

Una delle prime questioni che la Corte di cassazione ha dovuto affrontare, all'indomani della pubblicazione della sentenza n. 32/2014, è stata quella relativa alla possibilità o meno di configurare l'illegalità sopravvenuta della pena, ove il giudice di merito avesse utilizzato per il calcolo i parametri edittali non più in vigore, perché previsti dalla norma attinta dalla censura di incostituzionalità. In altri termini, si è trattato di verificare se ed in che termini la sanzione irrogata, anche ove rientrante nella ripristinata forbice sanzionatoria, potesse considerarsi non più legale e, in caso di ravvisata illegalità, a chi spettasse il compito di rideterminare la pena ed, eventualmente, entro quali limiti.

La questione si è posta in relazione sia alle sentenze di condanna sia a quelle di applicazione concordata della pena, avuto riguardo anche alla pena irrogata a titolo di continuazione ove la condotta illecita aveva ad oggetto le cosiddette "droghe leggere". Infatti, come sopra già indicato, è per esse che, per effetto della citata sentenza della Consulta, si è determinata la reviviscenza di un trattamento sanzionatorio più favorevole per il reo, contrariamente a quanto, invece, accaduto per le "droghe pesanti".

Nell'affrontare detta questione, la Corte si è pure pronunciata sulla rilevabilità d'ufficio della stessa, anche in caso di inammissibilità del ricorso.

I molteplici orientamenti formatisi in merito hanno determinato la necessità di rimettere alle Sezioni Unite, per l'udienza già fissata per il prossimo 26 febbraio 2015, le seguenti questioni:

- "se, a seguito della dichiarazione d'incostituzionalità degli artt. 4-bis e 4-vicies-ter, del d.l. n. 272 del 2005, come modificato dalla legge n. 49 del 2006, pronunciata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 32 del 2014, debbono ritenersi penalmente rilevanti le condotte che, poste in essere a partire dall'entrate in vigore di detta legge (27.2.2006) e fino all'entrata in vigore del decreto legge n. 36 del 2014 (21.3.2014), abbiano avuto ad oggetto sostanze stupefacenti incluse nelle tabelle solo successivamente all'entrata in vigore del d. P.R. n. 309 del 1990";

- "se sia rilevabile d'ufficio, nel giudizio di cassazione, l'illegalità della pena conseguente a dichiarazione d'incostituzionalità di norme attinenti al trattamento sanzionatorio, anche in caso di inammissibilità del ricorso e se per i delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. 309 del 1990, in relazione alle droghe c.d. leggere, la pena applicata con sentenza di "patteggiamento" sulla base della normativa dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale debba essere rideterminata anche nel caso in cui la stessa rientri nella nuova cornice edittale applicabile";

- "se, e in presenza di quali condizioni, l'aumento di pena irrogato a titolo di continuazione per i delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 in relazione alle "droghe leggere", quando gli stessi costituiscono reati-satellite, debba essere oggetto di specifica rivalutazione alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile per tali violazioni in conseguenza della reviviscenza della precedente disciplina determinatasi per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014";

- "se e in quali casi la pena applicata con sentenza di "patteggiamento" divenuta irrevocabile, per i delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 in relazione alle "droghe leggere", debba essere rideterminata in sede di esecuzione a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 e, in caso di risposta affermativa, quale procedura vada utilizzata dal giudice per l'adeguamento della pena alla mutata e più favorevole cornice edittale".

È apparso, conseguentemente, opportuno non soffermarsi sulle ragioni che hanno dato origine ai diversi contrasti in relazioni ai quali è sorta la necessità che si pronunciassero le Sezioni Unite, attesa la prossimità dell'udienza e, quindi, la risoluzione delle questioni controverse.

Nei paragrafi che seguono, pertanto, viene illustrata la giurisprudenza di legittimità delle Sezioni semplici in ordine a temi della trattazione dei quali, ad oggi, non risultano investite le Sezioni Unite.

2. Incidenza della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 e del d.l. 36 del 2014 sulla configurabilità della circostanza aggravante dell'ingente quantità.

La Corte di cassazione si è occupata dell'incidenza della pronuncia di incostituzionalità e delle modifiche introdotte con il d.l. 36/2014 sui criteri individuati dalla medesima giurisprudenza di legittimità per la configurabilità della circostanza aggravante dell'ingente quantità e, in due distinte pronunce, vale a dire in Sez. IV, 20 giugno 2014, n. 32126, Jitaru ed altro, Rv. 260123 e in Sez. IV, 2 luglio 2014, n. 43465, Gallizzi ed altri, Rv. 260307, afferma che per effetto dell'espressa reintroduzione della nozione di quantità massima detenibile, ai sensi del comma 1-bis, dell'art. 75, d.P.R. n. 309/1990, come modificato dalla legge 16 maggio 2014, n. 79, di conversione, con modificazioni, del decreto legge 20 marzo 2014, n. 36, mantengono validità i criteri basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo tabellarmente detenibile - come individuati in Sez. U. 24 maggio 2012, n. 36258, P.G. e Biondi, Rv. 253150 - al fine di verificare la sussistenza della circostanza aggravante della ingente quantità, di cui all'art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990.

In motivazione è, infatti, rilevato che la cornice normativa vigente, come emergente dalle plurime interpolazioni della disciplina in materia di sostanze stupefacenti, opera comunque riferimento alla quantità massima detenibile, tenuto conto anche del fatto che il citato d.l. prevede espressamente che gli atti amministrativi - attuativi della fonte di rango primario di cui al d.P.R. 309/1990 - adottati sino alla data di pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale riprendono a produrre effetti.

Diverso è l'approdo interpretativo di Sez. III, 21 maggio 2014, n. 25176, Amato ed altri, Rv. 259397, in cui la Corte, seguendo un diverso orientamento, sostiene, invece, che la modifica del sistema tabellare realizzata per effetto del citato d.l. 36/2014 impone una nuova verifica in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'applicazione della circostanza aggravante della ingente quantità, in considerazione dell'accresciuto tasso di modulazione normativa, difficilmente compatibile con un'interpretazione tendenzialmente solo aritmetica di tale aggravante.

In motivazione è considerato che, a seguito della sentenza di incostituzionalità degli articoli 4-bis e 4-vicies ter L. 49/2006, di cui alla sentenza n. 32 del 2014, il legislatore ha modificato il sistema tabellare che ne era conseguito, introducendo con il d.l. 36/2014, quattro nuove tabelle classificatorie delle sostanze stupefacenti. È, quindi, valutato che la determinazione dei presupposti per l'applicazione della aggravante della ingente quantità non può prescindere dalla modificata impostazione normativa, differente rispetto a quella vagliata dal giudice di merito. È, conclusivamente, rilevato che, in un quadro che smentisce la ratio della normativa vigente all'epoca dello sviluppo giurisprudenziale posto alla base di Sez. Un. 24 maggio 2012, n. 36258, P.G. e Biondi, Rv. 253150, tale giurisprudenza necessita di una rimeditazione, in considerazione dell'accresciuto tasso di modulazione normativa, difficilmente compatibile con una interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque "automatica" dell'aggravante dell'ingente quantità.

3. Incidenza della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 sul consumo personale di sostanze stupefacenti.

In Sez. VI, 9 aprile 2014, n. 19263, Iaglietti, Rv. 258912, è espressamente escluso che la caducazione, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, dell'art. 4-bis del D.L. 272/2005, conv. con mod. nella legge n. 49/2006 - che aveva introdotto il comma 1-bis dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, contenente specifici parametri quantitativi o dosimetrici per delimitare l'ambito dell'uso esclusivamente personale integrante l'illecito amministrativo di cui all'art. 75 del citato d.P.R. - abbia determinato la sopravvenuta punibilità in sede penale del consumo personale di sostanze stupefacenti ovvero, conseguentemente, la abrogazione delle disposizioni di cui agli artt. 75 e 75-bis, correlate alla detenzione di sostanza drogante per personale consumo, non assoggettata a sanzione penale.

È, infatti, considerato che, pur essendo venuti meno gli specifici parametri quantitativi o dosimetrici fissati dal citato comma 1-bis quali indici della latitudine dell'uso/consumo personale non punibile, cui rinviavano per relationem i vigenti artt. 75 e 75-bis d.P.R. 309/1990, che questi ultimi non sono comunque divenuti privi del loro specifico "oggetto", correlato per l'appunto ad una detenzione di sostanza stupefacente per uso personale.

4. Incidenza della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 sulle misure cautelari personali in atto.

Qualsiasi trattazione delle questioni che si pongono in caso di successione di leggi penali nel tempo ed individuazione della lex mitior ai fini del computo dei termini di durata delle misure cautelari, nonché della valutazione degli stessi presupposti di applicabilità e proporzionalità di esse, non può prescindere dal considerare le pronunce della Consulta e quelle della giurisprudenza di legittimità (anche a Sezioni Unite), che hanno evidenziato la natura esclusivamente processuale delle norme che regolano le misure cautelari personali.

Ci si riferisce, nello specifico, ai principi contenuti nella sentenza Corte cost. n. 15 del 1982 e alla sentenza Sez. Un., 31 marzo 2011, n. 27919, Ambrogio, che, nel richiamare le Sez. Un., 1 ottobre 1991, n. 20, Alleruzzo ed altri, Rv. 188525 e Sez. Un. 27 marzo 1992, n. 8, Di Marco, Rv. 190246, hanno affermato l'assoluta necessità di rispettare la regola del tempus regit actum in un caso in cui si discuteva del se la misura in esecuzione, per effetto di normativa sopravvenuta che allargava il numero di reati per i quali valeva la presunzione di adeguatezza della sola custodia in carcere, possa subire modifiche solo per effetto del nuovo e più sfavorevole trattamento normativo. La sentenza Ambrogio ha optato per la soluzione negativa, operando quello che è stato definito[1] un revirement rispetto alla precedente, univoca giurisprudenza di legittimità (valga, per tutte le pronunce, la sentenza Sez. unite Di Marco cit.) che invece voleva tale effetto (di applicazione del regime processuale peggiorativo) quale conseguenza della revoca per fatto sopravvenuto, proprio in ragione di una piena adesione al principio del tempus regit actum processuale che non "sopporta" un vulnus costituito dall'incidere retroattivamente lo statuto normativo che aveva presieduto all'applicazione del provvedimento originario, con effetti in peius, quando invece la revoca della misura, per mancanza dei suoi presupposti applicativi, ex art. 299 cod. proc. pen. può intervenire solo perché il fatto sopravvenuto legittimi la cessazione della misura custodiale.

Alcune importanti affermazioni sono state svolte dalla pronuncia Ambrogio "sullo specifico tema afferente alle possibili interazioni tra la disciplina delle misure cautelari ed i principi che regolano la legalità penale, desunti dall'art. 25 Cost., dall'art. 7 della Convenzione EDU e dagli artt. 1 e 2 cod. pen., la giurisprudenza costituzionale e quella sovranazionale fanno registrare precise prese di posizione …per la giurisprudenza costituzionale la pena e la misura cautelare detentiva sono somiglianti quanto alla loro materialità, alla limitazione di libertà ed al carico di sofferenza che comportano, ma diverse quanto agli scopi ed ai presupposti. Queste diversità chiamano in campo principi costituzionali importanti ma distinti." Ciò ha indotto a non accogliere la tesi della natura di diritto sostantivo dell'istituto della carcerazione preventiva. La tesi è stata ripresa anche da altra sentenza della Corte cost. (n. 265 del 2010), pure riportata dalla sentenza Ambrogio, che ha sottolineato, come il giudice delle leggi abbia affermato che affinché la restrizione della libertà personale nel corso del procedimento sia compatibile con la presunzione di non colpevolezza, è necessario che essa assuma connotazioni differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l'accertamento definitivo della responsabilità.

Quanto all'ambito internazionale, le Sezioni unite Ambrogio registrano che la giurisprudenza della Corte EDU ha "fortemente valorizzato la centralità dell'art. 7 della Convenzione, che sancisce il principio di legalità dei reati e delle pene. Da ultimo la stessa Corte (sent. 17 settembre 2009, Scoppola) si è pronunziata sulla controversa costituzionalizzazione del principio di retroattività della lex mitior enunciato nell'art. 2 cod. pen. ed ha affermato che il richiamato art. 7 "non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge meno severa. Questo principio si traduce nelle norme secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronunzia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all'imputato". Ebbene, si afferma "tale principio enunciato quale riconosciuto frutto di un lento progresso del pensiero giuridico non diviene, però, per ciò solo, al contempo, un principio dell'ordinamento processuale, tanto meno nell'ambito delle misure cautelari", mentre le Sezioni unite pongono in risalto come la stessa Corte EDU chiarisca "che resta ragionevole l'applicazione del principio tempus regit actum per quanto riguarda l'ambito processuale, pur dovendosi accuratamente definire di volta in volta se le norme di cui si discute appartengano o meno alla sfera del diritto penale materiale". Pertanto, si afferma che, in tema di successione di leggi processuali nel tempo, il principio secondo il quale, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all'imputato, non costituisce un principio dell'ordinamento processuale, nemmeno nell'ambito delle misure cautelari, poiché non esistono principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell'ordinamento processuale.

Si iscrive nello stesso orientamento interpretativo circa la inapplicabilità del principio di retroattività della lex mitior sancito dalle norme CEDU in ambito processuale, Sez. I, 27 novembre 2013, n. 8350 (dep. 21/02/2014 ), Rv. 259543, Gaddone, che espressamente sostiene che il principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza CEDU del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola contro Italia, non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali, che è regolata dal principio tempus regit actum. Inoltre, da ultimo, Sez. unite n. 44895 del 17 luglio 2014, Pinna, egualmente affermano la non riferibilità all'ambito processuale dei principi interpretativi collegati dalla Corte europea alla legge più favorevole retroattiva. La pronuncia delle Sezioni unite, peraltro, come qui si anticipa, si riferisce proprio ad una fattispecie relativa agli effetti della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata l'incostituzionalità degli articoli 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, convertito con modifiche dalla legge n. 49 del 2006[2].

4.1. La rivalutazione delle esigenze cautelari per effetto dell'intervento della lex mitior.

Evidentemente, anche i fenomeni di successione di leggi penali nel tempo che incidono non direttamente bensì in via mediata sulle norme processuali, attraverso una rimodulazione del delta edittale di riferimento - vuoi che siano dovute all'intervento delle scelte legislative, frutto di opzioni differenti di politica criminale, ovvero conseguano alla reviviscenza di regimi normativi, in ragione di dichiarazioni di illegittimità costituzionale - comportano effetti sulle prospettive cautelari per i procedimenti in corso, incidendo, pertanto, sui presupposti del ragionamento applicativo della misura da parte del giudice o sui termini di durata della stessa.

In questa ottica, è necessario determinarsi in relazione a se, in ragione della diversa quantificazione della forbice sanzionatoria, vi sia necessità di procedere in ogni caso ad una rivalutazione delle stesse esigenze cautelari, con una rimeditazione sul piano del merito e della stessa necessità di sottoposizione alla custodia carceraria come extrema ratio, anche alla luce della dovuta prognosi sulla concedibilità della sospensione condizionale della pena, imposta dall'art. 275, comma 2-bis, cod. proc. pen.

La giurisprudenza di legittimità, in occasione di precedenti situazioni analoghe di applicabilità di una lex mitior per successione di leggi nel tempo o per declaratoria di incostituzionalità e reviviscenza di regime normativo previgente, non aveva raggiunto arresti omogenei.

Un primo orientamento afferma la necessità di procedere in ogni caso alla rivalutazione dei presupposti e delle condizioni applicative della misura ed è stato confermato in seguito alla sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale da alcune pronunce delle sezioni semplici e anche dalle Sezioni unite, che in motivazione di una pronuncia (17 luglio 2014, n. 44895, Pinna, in corso di mass.) riferita agli effetti "ora per allora" sui termini di fase della pronuncia di incostituzionalità, formulano un passaggio in tal senso. Tale opzione maggioritaria, alla quale può ascriversi anche la pronuncia delle Sezioni unite Pinna, cit.[3], ha ritenuto che la natura processuale della disciplina che regola l'applicazione delle misure cautelari non impedisce di considerare gli effetti delle modifiche normative che comportino, ai sensi dell'art. 2 cod. pen., per il caso di successione di leggi penali nel tempo, la possibilità di applicare un trattamento sanzionatorio più favorevole, rispetto alla data di commissione del reato indicato nell'imputazione. Gli argomenti posti a sostegno di tale tesi si rinvengono in considerazioni di ordine sistematico, riferite alla constatazione che la modifica della norma sostanziale presupposta dalla misura cautelare "incide direttamente sui criteri legali di scelta e di applicabilità del presidio di contenimento", dovendosi parametrare il permanere delle esigenze cautelari di una misura custodiale in carcere ai criteri di proporzionalità ex art. 275, comma secondo, cod. proc. pen. e verificare la sua stessa applicabilità, stante la necessaria valutazione in ordine alla concedibilità della sospensione condizionale della pena (così si esprime Sez. IV, 1 aprile 2014, n. 15187, Giunta, Rv. 259056, all'indomani della dichiarazione di incostituzionalità delle oramai note disposizioni del t.n. stup. e per ipotesi non di lieve entità, nonché, nello stesso senso, subito dopo, Sez. IV, 15 aprile 2014, n. 21600, Bissicé, Rv. 259378. Nello stesso senso, in precedenza, Sez. I, 24 marzo 1995, n. 1783, P.M. in proc. Faccini, Rv. 201363; Sez. I, 7 aprile 1995, n. 2144, P.M. in proc. Pastora, Rv 201187; Sez. I, 11 aprile 1995, n. 2239, Tomba Rv 201288; Sez. IV 18 dicembre 1997, n. 3522/98, P.M. in proc. Sartor, Rv 210582). In verità, la sentenza Giunta cit. si sofferma anche sul carattere sostanzialmente afflittivo delle misure cautelari, che spinge la Corte ad affermare che "la materia non possa essere esclusivamente regolata dal principio del tempus regit actum", affermazione che, come vedremo, rinnova la sua eco anche nella pronuncia delle Sezioni unite Pinna, benché nella specie la Corte si sia determinata ad applicare in toto il ben noto principio regolatore, cardine del sistema processuale.

In base ad un secondo orientamento, più risalente, ai fini del calcolo del termine di durata massima della custodia cautelare occorre fare riferimento esclusivamente alla contestazione contenuta nel capo d'imputazione e non alla eventuale diversa quantificazione della pena conseguente a modifiche normative; infatti, il principio del "favor rei" contenuto nell'art. 2, comma primo, non si estende al diritto processuale ed in particolare alle norme che disciplinano le materie delle misure cautelari (in tal senso, Sez. VI, 30 maggio 1995, n. 2181, Accordino, Rv 202452; Sez. VI, 29 maggio 1995, n. 2172, Gardoni, Rv 202337).

4.2. Effetti della sentenza di incostituzionalità di una norma sanzionatoria sui termini di durata massima della misura cautelare per le fasi esaurite prima della pubblicazione della sentenza stessa: la questione dell'efficacia retroattiva cd."ora per allora".

Un tema quanto mai spinoso con il quale si sono dovute confrontare le Sezioni unite della Cassazione ha riguardato la possibilità o meno che, in ragione del più mite trattamento sanzionatorio conseguente alla caducazione delle norme incostituzionali, si producano effetti sui termini di fase della custodia cautelare "ora per allora", nel caso sia già avvenuto il passaggio alla fase successiva.

Appare opportuno trattare sinteticamente dei contenuti della sentenza Pinna (Sez. Un. n. 44895 del 17 luglio 2014), già citata in relazione ad alcuni importanti aspetti motivazionali, per le implicazioni di ordine ermeneutico generale sulle quali si pronuncia.

Il quesito specificamente proposto alle Sezioni unite era: "Se la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 produca i suoi effetti, incidenti sul calcolo dei termini di fase di durata della misura cautelare, 'ora per allora' sui rapporti processuali cautelari per i quali la fase cui si riferisce il termine ridotto per effetto di tale declaratoria si sia esaurita prima della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale". Il caso riguardava un soggetto sottoposto alla custodia cautelare in carcere per condotte continuate di detenzione illecita di sostanza stupefacente, nell'ambito di un procedimento per il quale la pronuncia di incostituzionalità era intervenuta, con la sua pubblicazione, in data successiva al passaggio dalla fase delle indagini preliminari a quella dibattimentale, introdotta con giudizio immediato; al momento della decisione delle Sezioni unite, era stato chiesto il rito abbreviato condizionato dalla difesa dell'imputato. L'ordinanza di rimessione della Quarta sezione della Cassazione ha ritenuto assorbente il primo motivo d'impugnazione proposto dal ricorrente (riferito proprio alla scadenza dei termini di fase "ora per allora" in conseguenza della illegittimità costituzionale delle norme sanzionatorie sulla base delle quali era stato calcolato il termine durante la fase delle indagini preliminari), rilevando l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale, segnalato anche nell'ordinanza impugnata, relativo alla questione interpretativa sorta con riferimento a un caso diverso, ma per molti aspetti assimilabile: quello degli effetti della sentenza della Corte cost. n. 253 del 2004 che aveva esteso ai termini di fase la disciplina dettata dall'art. 722 cod. proc. pen. in tema di custodia cautelare all'estero.

Ebbene, le Sezioni unite, risolvono il contrasto (mai in realtà sul punto specifico determinatosi) affermando che, in tema di custodia cautelare, la sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata l'incostituzionalità degli articoli 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, convertito con modifiche dalla legge n. 49 del 2006, non determina effetti retroattivi "ora per allora" in relazione ai termini di durata massima per le fasi esaurite prima della pubblicazione della sentenza stessa, attesa l'autonomia di ciascuna fase.

Per arrivare a tale affermazione i giudici "passano" anche attraverso la nozione di rapporto cautelare, precisando che esso si struttura come un'attività complessa composta da segmenti autonomi, costituenti le fasi, sicché deve ritenersi esaurito in relazione a ciascuna di esse[4].

Come già trattato nel paragrafo specificamente dedicato alla pronuncia Sez. Un. Pinna, citando la stessa Corte EDU nella sentenza Scoppola, le Sezioni unite ritengono, come detto, che la retroattività "illimitata" della lex mitior non sia un principio assoluto dell'ordinamento processuale, tanto meno nell'ambito delle misure cautelari, ove, pertanto, resta ragionevole l'applicazione del principio tempus regit actum, con la precisazione, svolta dalla Corte, che le situazioni esaurite o il passaggio in giudicato della sentenza di condanna "potranno sopportare il vaglio di ulteriori valutazioni attraverso l'analisi del filtro di ragionevolezza riconducibile alla considerazione di ulteriori interessi confliggenti, come affermato, positivamente, in tema di prescrizione con la sentenza n. 393 del 2006 della Corte cost., in modo tale che l'esegesi applicativa delle norme aventi valore procedurale potrà trovare una ponderazione di sistema nelle previsioni cui per il cittadino sono legati interessi di natura prettamente sostanziale, primo fra tutti quello alla libertà, che trova il suo presidio costituzionale nell'art. 13 Cost." Tale affermazione circa la necessità di una verifica dell'interprete che bilanci il principio del tempus regit actum[5] con "ulteriori interessi confliggenti", si ripropone, peraltro, in sentenza quando si afferma, nel solco della giurisprudenza costituzionale (citando Corte cost., sent. n. 381 del 2001 con riferimento alla successione di leggi penali nel tempo), che, se non sono penalizzate l'autonomia di azione e il diritto di difesa della parte processuale interessata, non può ritenersi violato "il punto minimo di compatibilità costituzionale". E proprio ricostruendo gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale sul tema (Corte cost., n. 15 del 1982 e n. 265 del 2010), i giudici di legittimità riaffermano la natura eminentemente processuale, e non sostanziale, delle norme che regolano la custodia cautelare, pur con le precisazioni di sistema predette in relazione all'incidenza di esse su un interesse individuale fondamentale quale è quello alla libertà personale.

  • circostanza attenuante

SEZIONE II

Le novelle legislative intervenute sul fatto di lieve entità.

(di Matilde Brancaccio, Roberta Zizanovich )

Sommario

1 Premessa. - 2 La trasformazione della fattispecie di lieve entità di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990 da circostanza attenuante a reato autonomo. - 3 Le pronunce che hanno affermato la natura di reato autonomo. - 4 Effetti della modifica normativa sui caratteri costitutivi della fattispecie e sua conformità al quadro costituzionale. - 5 Individuazione della norma più favorevole.

1. Premessa.

L'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990, nel testo già novellato dalla legge cd. Fini-Giovanardi del 2006, era stato oggetto di modifica normativa poco prima dell'intervento demolitorio della Corte costituzionale: era intervenuto, infatti, l'art. 2, comma 1, lett. a) del decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modifiche in legge 21 febbraio 2014, n. 10, che aveva previsto due profili di modifica: in primo luogo, riduceva il massimo edittale della pena detentiva (la reclusione è stata ricompresa nel compasso da uno a cinque anni); in secondo luogo, quella che era una circostanza attenuante ad effetto speciale era configurata come fattispecie autonoma di reato, con la conseguenza che il quadro edittale ivi previsto non può essere eliso (con conseguente ritorno al ben più severo quadro edittale previsto per il reato-base) nel caso, assai frequente, di concorso con l'aggravante della recidiva.

Nella sentenza della Corte costituzionale è, peraltro, espressamente dato atto che "nessuna incidenza sulle questioni sollevate (innanzi ad essa) possono esplicare le modifiche apportate all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 dall'art. 2 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n. 10". Tale affermazione si fonda sulla considerazione che si tratta di ius superveniens riguardante disposizioni già valutate non applicabili nel giudizio a quo e, comunque, non influenti sullo specifico vizio procedurale lamentato dal giudice rimettente in ordine alla formazione della legge di conversione n. 49 del 2006, con riguardo a disposizioni differenti.

Il Giudice delle leggi, inoltre, ha esplicitamente escluso che gli effetti della pronuncia di incostituzionalità potessero riguardare la citata modifica normativa, in quanto stabilita con disposizione successiva a quella censurata e indipendente da quest'ultima. Sotto diverso aspetto ha rimesso al giudice comune, quale interprete delle leggi, il compito sia di verificare gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale sui singoli imputati, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 cod. pen.; sia di individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non fossero più applicabili perché divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, dovessero continuare ad avere applicazione in quanto non presupponenti la vigenza degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, oggetto della decisione de qua.

È in questa situazione di piena reviviscenza della normativa illegittimamente abrogata dalla legge "Fini-Giovanardi" che è intervenuto il decreto legge n. 36/2014, con il quale non si è comunque inciso sul sistema sanzionatorio, nuovamente imperniato sulla distinzione tra "droghe pesanti" e "droghe leggere" contenuta nell'originaria formulazione dell'art. 73, tornato in vigore grazie alla sentenza n. 32 della Consulta: un sistema che, ovviamente, ha posto una serie di problematiche di diritto intertemporale, sia in relazione ai procedimenti penali in corso, sia a quelli definiti con sentenza irrevocabile.

La scelta governativa è stata quella di porre rimedio alle criticità conseguenti alla espunzione, con efficacia ex tunc, di numerose disposizioni del testo unico introdotte dalla "Fini-Giovanardi": criticità relative, tra l'altro, ai numerosi provvedimenti amministrativi adottati in forza di quelle disposizioni (autorizzazioni alla produzione, fabbricazione ecc. delle sostanze; approvazione dei ricettari utilizzabili per prescrivere medicinali con effetti stupefacenti; registrazione informatica e trasporto dei predetti medicinali, ecc.).

In tale prospettiva, attraverso le disposizioni contenute nell'art. 1 del decreto legge, si è inteso ripristinare sostanzialmente la normativa in vigore alla data di pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale; mentre, con l'art. 2, il Governo si è preoccupato di assicurare la continuità degli effetti degli atti amministrativi adottati sino alla sentenza della Consulta, prevedendo appunto che gli atti amministrativi in questione "continuano" a produrre effetti dalla data di entrata in vigore del decreto legge (peraltro, in sede di conversione, l'art. 2 è stato assai significativamente modificato, essendosi disposto che i predetti atti amministrativi "riprendono" a produrre effetti).

Con i commi 2 e 3 dell'art. 1, il Governo è intervenuto sul sistema tabellare di classificazione delle sostanze stupefacenti - che assume ovviamente un centrale ed assoluto rilievo anche ai fini penalistici, avuto riguardo alla nozione prettamente legale di sostanza stupefacente accolta nel nostro ordinamento, ed alla conseguente rilevanza penale delle sole condotte concernenti sostanze incluse in tabella - e risulta rimessa alle Sezioni Unite la questione in ordine alla perdurante rilevanza penale delle condotte di detenzione di sostanze stupefacenti introdotte per la prima volta nelle tabelle seguite alla legge 21 febbraio 2006 n. 49, commesse prima dell'entrata in vigore del decreto legge n. 36/2014 (fattispecie concernente sostanza del tipo nandrolone).

In sede di conversione del decreto, il Parlamento ha introdotto ulteriori rilevanti disposizioni, anche in ordine all'apparato sanzionatorio su cui, come accennato, il Governo aveva invece scelto di non intervenire.

In particolare, con il comma 24-ter inserito nell'art. 1, la legge è intervenuta sull'art. 73 del testo unico, sia modificando le pene previste per le condotte illecite di lieve entità di cui al comma 5, sia reintroducendo nello stesso articolo il comma 5-bis, relativo alla possibilità di applicare per tali condotte, in luogo delle pene detentive e pecuniarie, il lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 54 del D.Lgs. n. 274 del 2000 (anche a tale ultimo proposito, può parlarsi di un intervento "ripristinatorio", avendo il comma 5-bis dell'art. 73 un contenuto sovrapponibile a quello a suo tempo introdotto dall'art. 4-bis della legge "Fini-Giovanardi" e venuto meno per effetto della sentenza n. 32 della Corte costituzionale). Tali modifiche hanno ulteriormente complicato il compito rimesso all'interprete di individuazione della norma più favorevole, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 2, comma 4, cod. pen.

Inoltre, con il comma 24-quater, la legge di conversione ha introdotto alcune modifiche anche all'art. 75 del testo unico, che disciplina il sistema delle sanzioni amministrative. Si tratta di disposizioni che appaiono di assoluto interesse e rilievo anche ai fini di un'esposizione, come quella odierna, dedicata ai soli riflessi penalistici della nuova legge: infatti, pur con una tecnica legislativa diversa da quella utilizzata dalla "Fini-Giovanardi", la novella ha espressamente reintrodotto, nel testo unico, la rilevanza solo amministrativa delle condotte finalizzate all'uso personale dello stupefacente (delle quali faceva menzione il solo comma 1-bis dell'art. 73, travolto dalla declaratoria di illegittimità costituzionale), dettando anche alcuni parametri cui riferirsi nell'accertamento della sussistenza di tale destinazione.

La Corte di cassazione si è quindi trovata ad affrontare problemi analoghi a quelli già accennati sopra con riguardo ai quesiti sottoposti alle Sezioni Unite, con la differenza relativa all'applicabilità della disciplina di favore venuta in essere per legislazione successiva piuttosto che di quella nuovamente vigente a seguito della sentenza di incostituzionalità.

Nell'affrontare dette questioni e, segnatamente, quella riguardante la rilevabilità d'ufficio dell'illegalità della pena inflitta, la Corte si è preliminarmente pronunciata sulla rilevabilità d'ufficio della stessa.

Distinta è invece la prospettiva nel caso in cui vi sia stato il passaggio in giudicato della sentenza, atteso che nelle ipotesi in esame non può farsi luogo all'applicazione dello ius superveniens più favorevole ostandovi il disposto dell'art. 2, comma 4, cod. pen., ferma la possibilità di rivalutare la sanzione inflitta in ragione dell'intervento demolitorio della Corte costituzionale.

2. La trasformazione della fattispecie di lieve entità di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990 da circostanza attenuante a reato autonomo.

In premessa si è anticipato dell'intervento normativo riferito all'ipotesi di lieve entità prevista dall'art. 73, comma 5, del testo unico, attuato con il d.l. n. 146 del 2013, convertito poi con modifiche nella L. n. 10 del 2014, del quale ora deve più specificamente trattarsi, per verificare le ricadute sui procedimenti in corso della novella legislativa, poi confermata dal successivo d.l. n. 36 del 2014, conv. in L. n. 79 del 2014, che, quanto alla citata disposizione del comma quinto, ha operato solo sul fronte sanzionatorio, lasciandola inalterata nei suoi caratteri principali riferiti alla struttura della fattispecie.

Il legislatore, con il d.l. 23 dicembre 2013 n. 146, non modificato sul punto in sede di conversione in legge 21 febbraio 2014, n. 10, ha introdotto una nuova formulazione del fatto di lieve entità previsto dall'art. 73, comma 5, del testo unico, con un intervento che, rispetto alla versione antecedente riferita alla riforma attuata con il d.l. n. 272 del 2005, conv. in L. n. 49 del 2006, si è proposto attraverso due profili: - in primo luogo, quella che era una circostanza attenuante ad effetto speciale è stata configurata come fattispecie autonoma di reato, con il dichiarato intento di sottrarre la fattispecie agli effetti del bilanciamento in caso di concorso con aggravanti eventualmente contestate; - in secondo luogo è stato ridotto il massimo edittale della pena detentiva (la reclusione è stata ricompresa nel compasso da uno a cinque anni).

Successivamente all'intervento della Corte costituzionale, che non ha comportato alcun effetto caducante della novella riferita al d.l. n. 146 del 2013, il legislatore ha sostituito la disposizione come riformulata dal citato d.l. n. 146, adottando il d.l. 20 marzo 2014, n. 36 (recante disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché di impiego di medicinali meno onerosi per il Servizio sanitario nazionale), convertito nella legge 16 maggio 2014, n. 79. Il testo attuale, dunque, dell'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 risulta quello modificato dall'art. 24-ter, lett. a) del d.l. n. 36 del 2014, conv. con mod. in L. n. 79 del 2014, con cui, in sintesi, deve rilevarsi che il legislatore ha confermato la scelta di rendere fattispecie autonoma di reato e non più circostanza attenuante il c.d. fatto di lieve entità, pur tenendo ferma la sanzione omogenea per condotte riferite a droghe pesanti e droghe leggere. Si deve sottolineare come, però, ancora una volta, è stato rimodulato il quadro edittale di riferimento, passando dalla pena della reclusione da uno a cinque anni (e della multa da 3.000 a 26.000 euro) a quella della reclusione da sei mesi a quattro anni (e della multa da 1.032 a 10.329 euro).

I primi percorsi interpretativi della giurisprudenza di legittimità si sono disegnati, pertanto, nell'alveo delle pronunce sul problema della successione di leggi nel tempo all'indomani dell'entrata in vigore del citato d.l. n. 146 del 2013, conv. in L. n. 10 del 2014, dovendo quasi sempre la Corte di cassazione confrontarsi con il pressoché coevo intervento demolitorio della Corte costituzionale sul dettato normativo riferito al comma quinto ante modifica derivata dal d.l. n. 146 del 2013, e, successivamente, con il d.l. n. 36 del 2014.

3. Le pronunce che hanno affermato la natura di reato autonomo.

La Suprema Corte si è determinata, sin dalle prime pronunce successive alla novella, nel senso di riconoscere alla nuova fattispecie normativa (derivata dalla modifica del comma quinto dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 ad opera del d.l. n. 146 del 2013, convertito poi con modifiche nella legge n. 10 del 2014) natura di figura autonoma di reato e non più di circostanza attenuante.

La prima di tali pronunce (Sez. VI, 8 gennaio 2014, n. 14288, Cassanelli, Rv. 259057) ha affermato che l'ipotesi lieve di condotta illecita in tema di sostanze stupefacenti, così come riformulata dall'art. 2, comma primo lett. a) del D.L. n. 146 del 2013, configura, appunto, una fattispecie autonoma di reato rispetto a quella contemplata dal primo comma dello stesso articolo, secondo le indicazioni desumibili dal criterio testuale, da quello sistematico e dall'analisi dell'intentio legis, non contrastate da decisivi argomenti di segno opposto. Tali elementi consistono sostanzialmente in indici lessicali, nel riferimento alla clausola di sussidiarietà iniziale, nelle ulteriori modifiche normative, di ordine processuale, collegate (tutte dal tenore univocamente indirizzato a configurare l'ipotesi lieve come fattispecie di reato autonoma), nonché nell'espressa volontà legislativa, dichiarata in rubrica dell'art. 2, comma 1, lett. a) del d.l. n. 146 del 2013 e nelle ragioni di adozione del testo di legge. La motivazione della sentenza, ha richiamato: l'espressa indicazione in tal senso nella Relazione governativa al decreto legge n. 146 del 2013, che, in un'ottica deflattiva dell'eccessivo sovraffollamento del sistema carcerario, alla quale tendono il complesso degli interventi di modifica attuati con tale atto legislativo[6], esplicitamente ritiene di trasformare la condotta in esame da circostanza attenuante a figura autonoma di reato, con il principale scopo di sottrarla al bilanciamento delle circostanze e, in particolare, al caso assai frequente del concorso con l'aggravante della recidiva. Anche la rubrica dell'art. 2, comma 1, lett. a) del decreto legge n. 146 del 2013, norma che ha introdotto la novella, contribuisce, secondo la Corte, a determinare l'interpretazione della volontà legislativa in tal senso, laddove titola: «Modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. Delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità». Quanto agli indici riferibili direttamente al dettato normativo modificato, la motivazione individua: la clausola di sussidiarietà con cui si apre oggi il comma quinto ("Salvo che il fatto costituisca più grave reato"), testualmente e logicamente compatibile solo con il carattere di autonomia della previsione; il lessico normativo utilizzato per costruire la fattispecie quanto alla condotta e alla sanzione ("chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo".. "è punito con la pena"), del tutto omogeneo rispetto a quello normalmente proprio delle fattispecie di reato vere e proprie e riferibile solo a tale categoria dogmatica; il tenore della modifica apportata in tema di arresto obbligatorio in flagranza (in sede di legge di conversione) al comma 2, lett. h dell'art. 380 cod. proc. pen., che parla di "delitti" di cui al medesimo comma 5 dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, per escludere i casi in cui non si applica la norma procedurale. Analogamente, nel corpo della norma che regola l'adozione di misure cautelari per i minorenni (art. 19 del d.P.R. 22/09/1998, n. 448), dopo la modifica introdotta con il comma 1-ter del citato art. 2 del d.l. n. 146 del 2013, si sottolinea come le ipotesi lievi sono citate come «delitti di cui all'articolo 73, comma 5, del testo unico» in materia di stupefacenti. Di contro, gli argomenti che militano per la conservazione della natura circostanziale non sono convincenti secondo la Corte che, riferendosi al criterio topografico, ne constata l'insicurezza degli approdi, essendovi casi nei quali reati autonomi sono previsti in un medesimo articolo di legge, così come fattispecie circostanziali sono istituite in articoli diversi; d'altra parte anche le considerazioni circa il bene giuridico non appaiono risolutive, molti essendo i casi di moltiplicazione delle figure destinate alla protezione d'un medesimo interesse.

Ulteriori, numerose pronunce sono successivamente intervenute, del tutto coerenti e concordi nel sostenere l'approdo normativo sopradetto, tra queste: Sez. IV, 24 aprile 2014, n. 20225, De Pane e altro, Rv. 259379; Sez. IV, n. 10514 del 28 febbraio 2014, Verderamo, Rv. 259360; Sez. III, n. 11110 del 25 febbraio 2014, Kiogwu, Rv. 258354; Sez. VI, 16 gennaio 2014, n. 5143, Skiri, Rv. 258773; Sez. VI, 28 gennaio 2014, n. 9892, Bassetti ed altro, Rv. 259352. Deve segnalarsi, altresì, che sull'approdo concordano anche tutte le ulteriori sentenze che si analizzeranno nel corso dell'individuazione delle differenti questioni problematiche di diritto intertemporale (cfr., tra le altre, Sez. IV, n. 10514 del 28 febbraio 2014, Verderamo, Rv. 259360, Sez. IV, 24 aprile 2014, n. 20225, De Pane e altro, Rv. 259379 e Sez. IV, 28 febbraio 2014, n. 13903).

4. Effetti della modifica normativa sui caratteri costitutivi della fattispecie e sua conformità al quadro costituzionale.

Deve premettersi che il confronto tra i differenti testi normativi riferibili al comma quinto dell'art. 73 del testo unico pacificamente depone per l'identità diacronica della previsione normativa quanto alla individuazione dei caratteri oggettivi che connotano il fatto di lieve entità.

Sulla scia di tale constatazione la giurisprudenza della Cassazione si è determinata nel senso di ritenere che non siano mutate le opzioni interpretative relative all'individuazione delle condizioni oggettive che individuano il fatto di lieve entità di cui al comma quinto dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, anche se è mutata la natura stessa dell'ipotesi lieve, passata dall'essere circostanza del reato a fattispecie autonoma per effetto dell'intervento normativo dapprima operato con il d.l. n. 146 del 2013 (conv. in legge 21 febbraio 2014, n. 10) e, successivamente, con il d.l. n. 36 del 2014 (conv. in legge 16 maggio 2014, n. 79, proprio in ragione dell'immutata formulazione degli elementi normativi che la fattispecie richiede ai fini della sua configurabilità, nei diversi regimi sanzionatori succedutisi dal 1990 in poi.

Si è detto, infatti, che l'avvenuta trasformazione della fattispecie prevista dall'art. 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, da circostanza attenuante ad ipotesi autonoma di reato non ha comportato alcun mutamento nei caratteri costitutivi del fatto di lieve entità, che continua ad essere configurabile nelle ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell'azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio (in tal senso una delle prime pronunce è la già richiamata Sez. VI, 28 gennaio 2014, n. 9892, Bassetti ed altro, Rv. 259352). La fattispecie di lieve entità di cui all'art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990, anche all'esito della formulazione normativa introdotta dall'art. 2 del D.L. n. 146 del 2013 (conv. in legge n. 10 del 2014), pertanto, può essere riconosciuta solo nella ipotesi di minima offensività penale della condotta, desumibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati espressamente dalla disposizione (mezzi, modalità e circostanze dell'azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio. In tal senso si esprime, tra quelle massimate, Sez. III, n. 27064 del 19/03/2014, Rv. 259664, Fontana, in un caso in cui è stato ritenuto illegittimo il riconoscimento del fatto di lieve entità per avere il giudice attribuito rilievo decisivo soltanto alla condizione di tossicodipendente dell'imputato, senza considerare i precedenti penali specifici e il quantitativo non modesto di sostanza stupefacente detenuta. Conformemente a tale orientamento si sono espresse anche Sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 15020, Bushi, Rv. 259353 e, inoltre, non massimate, le sentenze Sez. III, 30 maggio 2014, n. 27480 e Sez. IV, 25 febbraio 2014, n. 29260. Nel merito le pronunce confermano i presupposti di configurabilità rilevati da pacifici orientamenti di legittimità (cfr., ex multis, Sez. VI, n. 39977 del 19 settembre 2013, Rv. 256610, Tayb e, ovviamente, Sez. Un. 24 giugno 2010 n. 35737, Rv. 247911, Rico), con riferimento all'ipotesi che vedeva il fatto lieve atteggiarsi a circostanza attenuante del reato.

Altro profilo di rilievo del quale quasi immediatamente si è dovuta occupare la Suprema Corte, nel medesimo contesto interpretativo riferito alla questione sulla nuova natura di reato autonomo dell'art. 73, comma 5, del testo unico, ha riguardato la compatibilità del regime di omogeneità sanzionatoria per le diverse tipologie di stupefacenti previsto per il fatto di lieve entità con il sistema "a trattamento diversificato" vigente per le ipotesi non lievi. Sez. IV, n. 10514 del 28 febbraio 2014, Verderamo, Rv. 259360 (ma si esprimono negli stessi termini anche Sez. IV, 24 aprile 2014, n. 20225, De Pane e altro, Rv. 259379, e Sez. IV, 28 febbraio 2014, n. 13903) segnala come l'avvenuta modifica normativa della fattispecie di lieve entità da circostanza attenuante in reato autonomo conserva una propria giustificazione sistematica anche nel mutato quadro di riferimento generale, conseguente alla dichiarazione di incostituzionalità operata con sentenza n. 32 del 2014 dal giudice delle leggi e, dunque, al vigente sistema sanzionatorio diversificato in base alla tipologia di sostanze stupefacenti ("droghe pesanti" o "droghe leggere"), tale da non risultare contrastante con l'art. 3 Cost. La Corte esprime sul punto osservazioni importanti, in considerazione anche del fatto che da più parti in dottrina[7] erano stati proposti dubbi di ragionevolezza[8] della differenziazione di disciplina punitiva derivante dalla combinazione degli effetti della sentenza n. 32 del 2014, con la reviviscenza del regime diversificato della legge Iervolino - Vassalli, e della disposizione del comma quinto conseguente alla novella del d.l. n. 146 del 2013 (confermata in questi aspetti dall'intervento del successivo d.l. n. 36 del 2014 che ha disposto, a seguito della legge di conversione n. 79 del 2014, l'attuale formulazione definitiva del comma quinto dell'art. 73 cit.), che invece propone una fattispecie "unica" per droghe leggere e droghe pesanti. Il quesito al quale ha inteso dare soluzioni la Corte era riferito, infatti, a se l'uniforme trattamento sanzionatorio relativo a ogni ipotesi di reato concernente sostanze stupefacenti (indipendentemente dalla relativa classificazione quali droghe c.d. leggere o pesanti), là dove le stesse siano riconducibili al paradigma della tenuità ("lieve entità') del fatto (coerente rispetto al disegno generale della disciplina in vigore al tempo di emanazione della novella del dicembre del 2013), conservi una propria giustificazione anche in relazione a un quadro di riferimento generale (quale quello rinvenibile nella disciplina di cui all'art. 73 d.p.r. n. 309/90, tornata in vigore a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32/2014) incline a distinguere con decisione il grado di offensività connesso alla commissione di reati concernenti il traffico di droghe c.d. leggere, rispetto a quello riguardante le droghe c.d. pesanti. Sul punto, il collegio di legittimità ha ritenuto che le discipline così risultanti, in forza dei testi 'tornati' o 'rimasti' in vigore, ancora si prestino a un giudizio di persistente vicendevole compatibilità, non apparendo, il quadro complessivo offerto alla lettura dell'interprete minato da un'irragionevolezza tale da prospettare un presumibile conflitto della norma introdotta per il comma quinto dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 dalla novella del dicembre 2013 con il parametro costituzionale di cui all'art. 3 della Costituzione. La Corte, riconducendo lo sforzo ricostruttivo richiesto all'interprete istituzionale ad un'elaborazione che prescinda da quelle che vengono definite "prevedibili irrazionalità politico-culturali predicabili con riguardo alla contestuale vigenza di testi normativi che appartengono a tempi, storie e pensieri diversi", si orienta verso la ricerca della forma del possibile coordinamento dei materiali normativi disponibili e, in questo orizzonte, ritiene legittima la scelta legislativa di svalutare il rilievo della natura della sostanza stupefacente trattata (sia essa droga c.d. 'leggera' o 'pesante'), a fronte di specifiche modalità del fatto criminoso, tali da rivelarne la concreta e obiettiva ridotta idoneità offensiva. Si arriva così a ritenere non irragionevole, dal punto di vista del parametro costituzionale citato, l'affermazione normativa secondo cui alle modalità, natura, mezzi dell'azione o ad altre circostanze ad essa pertinenti, sia possibile predicare la capacità di degradare il fatto a una misura di tale sfumata offensività da rendere del tutto secondario o marginale il riscontro dell'identità della sostanza stupefacente. Ciò anche perché, si dice, il quadro normativo attualmente in vigore deve ritenersi ancora obiettivamente dotato di tali margini di flessibilità da consegnare, "alle accorte mani del giudice di merito, un largo spettro di soluzioni sanzionatorie, la cui ampiezza appare tale da consentirne, con un soddisfacente grado di duttilità, l'agevole adattamento al singolo episodio di vita o all'occasionale frammento di esperienza volta a volta condotto al suo esame, senza che le diverse cornici edittali astrattamente considerate in relazione ai trattamenti sanzionatori riservati alle differenti ipotesi disciplinate valgano a dar luogo a un sistema sanzionatorio da ritenere obiettivamente ingiustificabile per le evidenti forme di irrazionalità che lo connoterebbero".

Sotto differente prospettiva, e specificamente in merito alla non incidenza dell'intervento della sentenza n. 32 della Corte costituzionale sulle novelle normative attuate con i due consecutivi decreti legge n. 146 del 2013 e n. 36 del 2014, deve rilevarsi come alcune delle pronunce già citate si sono espresse per affermare il risultato interpretativo già anticipato, e a cui la stessa Corte costituzionale fa dichiarato riferimento, dell'esclusione di qualsiasi fenomeno di caducazione implicita della disciplina di nuovo conio per i fatti di lieve entità del testo unico, dovuta all'intervento del d.l. n. 146 del 2013, conv. in L. n. 10 del 2014. Sul punto chiaramente si esprime, ancora una volta, Sez. VI, 8 gennaio 2014, n. 14288, Cassanelli, Rv. 2599058 che afferma come, dichiarando l'illegittimità per motivi procedurali degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del D.L. n. 272 del 2005 (conv. in legge n. 49 del 2006), il giudice delle leggi abbia ripristinato il testo originario dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, senza coinvolgere la modifica del comma quinto, stabilita con disposizione successiva a quella colpita da censura e da essa indipendente (Conformi, tra le altre, Sez. III, 25 febbraio 2014, n. 11128, Grasso e Sez. IV, 28 febbraio 2014, n. 13903, entrambe non massimate, nonché Sez. IV, 28 febbraio 2014, n. 10514, Verderamo, Rv. 259360 e Sez. IV, 24 aprile 2014, n. 20225, De Pane e altro, in motivazione).

5. Individuazione della norma più favorevole.

Per l'individuazione della lex mitior da applicare al caso concreto, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha proposto opzioni che, partendo dalla questione specificamente sottoposta al giudizio di legittimità, mettono in campo la complessa multivalenza della valutazione da operare, non limitata al solo confronto del quadro edittale differente, ma ampliata a considerazioni che, di volta in volta, riguardano i tempi di prescrizione del reato ovvero il bilanciamento (possibile o non) con le circostanze aggravanti, in base alla sua configurazione come fattispecie autonoma piuttosto che come circostanza attenuante, l'operare o non della disciplina della continuazione.

Il quadro di orientamento che viene fuori dall'analisi di tale materiale giurisprudenziale è quello di una Corte di cassazione che cerca di ricomporre un mosaico, spesso pletorico, per numero di ricorsi e questioni proposte, necessariamente dovendo ancorare i propri pronunciamenti alla molteplicità della quale si è fatto cenno, quanto ai casi sottoposti a giudizio ed alle norme succedutesi nel tempo.

A) Ipotesi nelle quali regime più favorevole è stato individuato in quello che consentiva la prescrizione del reato: immediatamente dopo l'entrata in vigore della (prima) disciplina di modifica del comma quinto dell'art. 73 t.u.stup., la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di successione di leggi penali nel tempo, ai fini dell'applicazione del principio di prevalenza della disciplina in concreto più favorevole sancita dall'art.2, comma quarto, cod. pen., devono essere considerate non solo le modificazioni concernenti la pena, ma anche l'incidenza del novum sulla prescrizione del reato, quando quest'ultima, in seguito all'applicazione della disciplina sopravvenuta, risulti già maturata: così Sez. VI, 8 gennaio 2014, n. 14288, Cassanelli, Rv. 259060, in una fattispecie relativa alle modifiche del regime della prescrizione derivate dalla nuova configurazione quale reato autonomo dell'ipotesi lieve di condotta illecita in tema di sostanze stupefacenti. Ed ancora si è più volte sottolineata la necessità che vi sia stretta aderenza tra caso concreto sottoposto a giudizio e valutazione operata ai fini dell'individuazione della lex mitior da applicare: Sez. IV, 14 marzo 2014, n. 15048, Conter, Rv. 259369 afferma, infatti, che in tema di stupefacenti, stante la modifica normativa realizzata dall'art. 2 d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, e la trasformazione della fattispecie di lieve entità del comma quinto dell'art. 73 del t.n. stup. da circostanza attenuante ad ipotesi autonoma di reato, con differente regime sanzionatorio, spetta al giudice di merito, ai sensi dell'art. 2 cod. pen., individuare quale sia la disposizione più favorevole all'imputato tra quelle succedutesi nel tempo e determinare il trattamento sanzionatorio irrogabile. Sez. III, 13 marzo 2014, n. 23904, Mariotti ed altro, Rv. 259377 insiste ancora sulla necessità di operare una valutazione "in concreto" tra le diverse discipline succedutesi nel tempo, ai fini dell'individuazione del regime normativo più favorevole. Nello stesso senso Sez. IV, n. 42233 del 20 giugno 2014, Bongiovanni, Rv. 260730, che, in motivazione, ha rilevato come, in materia di stupefacenti, in relazione alla fattispecie di lieve entità del fatto di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990, per i fatti commessi durante la vigenza degli artt. 4-bis e 4-vicies ter D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla Legge 21 febbraio 2006, n. 49, dichiarati incostituzionali dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, deve tenersi conto, nell'individuazione della legge più favorevole, anche di tali norme, per il valore assoluto del principio di irretroattività della norma meno favorevole.

Sotto il profilo dei tempi di prescrizione del reato, Sez. VI, 8 gennaio 2014, n. 14288, Cassanelli, Rv. 2599058 e Sez. VI, 26 marzo 2014, n. 14994, Desideri ed altri, Rv. 259357 hanno affermato che, in conseguenza della trasformazione della fattispecie di lieve entità in ipotesi autonoma di reato, i termini prescrizionali devono determinarsi in sei anni, quello ordinario, e in sette anni e sei mesi quello massimo. Nello stesso senso si è espressa anche Sez. IV, 15 aprile 2014, n. 22277, Cortese, Rv. 259373.

In particolare, la motivazione della pronuncia n. 14994 del 2014 rileva come, nel caso dell'attenuante del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, il massimo della pena detentiva, limitatamente alle droghe pesanti, anche prima della modifica apportata con il d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, era di sei anni di reclusione, e pertanto il termine prescrittivo - secondo la disposizione dell'art. 157 c.p., comma 1, lett. c), nella versione antecedente alla novella del 2005, da ritenersi applicabile perché più favorevole - corrispondeva ad anni dieci di reclusione, aumentato fino al massimo della metà per le interruzioni ai sensi dell'art. 160 c.p., u.c., sicchè i reati ascritti ai ricorrenti non erano ancora prescritti all'epoca della sentenza di secondo grado. Poste tali premesse, la Corte perviene ad una conclusione diversa quanto alla prescrizione alla luce della novella apportata al comma quinto dell'art. 73 d.P.R. n. 309/90 dal d.l. n. 146 del 2013 e sempre guardando alla data di decisione assunta in secondo grado; infatti, il mutamento dell'ipotesi normativa da attenuante a reato autonomo (peraltro punito con pena edittale inferiore e pari a cinque anni sulla base del decreto legge n. 146) rende più favorevole il tenore dell'art. 157 cod. pen., nella versione post-novella del 2005, con termine pari a 6 anni invece di 10 per il calcolo della prescrizione, e conseguente individuazione del termine lungo in anni sette e mesi sei ex art. 161 c.p.p. attualmente vigente. Da qui l'annullamento in parte qua della sentenza impugnata per intervenuta estinzione dei reati per prescrizione.

Anche la motivazione di Sez. III, 13 marzo 2014, n. 23904, Mariotti ed altro, Rv. 259376 appare interessante, per un'ipotesi riferita a fatti commessi sino al 21 marzo 1999, laddove la Corte ha affermato che, pur essendo stata emessa la sentenza di primo grado prima dell'entrata in vigore della legge n. 251/2005, non potesse trovare più applicazione quella giurisprudenza di legittimità secondo la quale i reati previsti dal d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, relativi a sostanze stupefacenti inserite nelle vecchie tabelle 1 e 3 allegate al citato decreto, commessi prima dell'entrata in vigore della legge 5 dicembre 2005, n. 251, o per i quali a tale data risulta emessa la sentenza di condanna in primo grado, si prescrivono, ove sia stata ritenuta la circostanza attenuante di cui all'art. 73 comma quinto d.P.R. n. 309 del 1990, nel termine ordinario di dieci anni ed in quello massimo di quindici anni (Sez. III, n. 444 del 28/09/2011 - dep. 11/01/2012, P.G. in proc. Fauizi, Rv. 251872). Ed invero, si è partiti dall'assunto, pacificamente ammesso dalla giurisprudenza di legittimità, circa il regime più favorevole da applicarsi secondo i principi generali di successione delle leggi nel tempo che deve essere individuato in concreto comparando le discipline sostanziali succedutesi, e ciò anche in ambito di verifica dei termini prescrizionali. Nel caso in esame, trattandosi di condotta di "lieve entità" commessa con riferimento alle "droghe pesanti" si sono ritenute più favorevoli le disposizioni conseguenti all'applicazione della combinazione di norme "prescrizione-fattispecie di reato autonoma ex d.l. 146/2013 e successiva legge di conversione", che prevedono un massimo edittale parametrabile al tempo di prescrizione stabilito in 5 anni per l'ipotesi consumata (e dunque sei anni ai fini della prescrizione ex art. 157 cod. pen.), piuttosto che entrambe le precedenti discipline che configuravano la fattispecie in termini di ipotesi non autonoma ma solo attenuata, dunque non valutabile ai fini del computo della prescrizione ai sensi del comma 2 dell'art. 157 cod. pen. Si è stabilito quindi il principio che la valutazione del maggior favore dell'uno o dell'altro regime applicabile va effettuata anche avendo presente che, a norma del vigente art. 157 comma 2, cod. pen., la diminuzione della pena per effetto della concessione delle circostanze attenuanti ad effetto speciale non rileva ai fini del computo del termine di prescrizione. Pertanto, considerando la pena massima pari a cinque anni di reclusione prevista sia per le droghe leggere sia per le droghe pesanti dalla nuova fattispecie autonoma di reato introdotta dal citato d.l. n. 146 del 2013, quest'ultima disposizione sembra maggiormente favorevole in tale prospettiva rispetto alle due precedenti discipline contenute nel comma 5 dell'art. 73 d.P.R. 309/90, le quali, pur comportando una diminuzione di pena, non avrebbero potuto incidere sul calcolo del termine di prescrizione[9].

Infine, si è ritenuto termine prescrizionale più favorevole quello risultante dalla pena prevista a seguito delle modifiche di cui al d.l. n. 36 del 2014: in tal senso Sez. III, 8 luglio 2014, n. 40223, Lunardi, che ha rilevato la prescrizione di parte dei reati contestati in continuazione e rideterminato la pena complessiva, annullando senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai capi relativi ai reati prescritti.

B) Ipotesi nelle quali regime più favorevole è stato individuato in quello che non consente il bilanciamento tra circostanze ai fini della determinazione della pena: seguendo il criterio generale della comparazione in concreto tra discipline succedutesi nel tempo al fine di individuare la norma più favorevole, la Suprema Corte ha individuato nel regime derivante dal mancato soggiacere dell'attenuante di cui all'art. 73, comma 5, del testo unico al giudizio di bilanciamento tra circostanze la disciplina più favorevole, applicando dunque la nuova disciplina del fatto di lieve entità quale ipotesi autonoma di reato, prevista dal d.l. n. 146 del 2013, conv. in L. n. 10 del 2014. Si sono espresse in tal senso Sez. IV, 28 maggio 2014, n. 27619, Taiek ed altro, Rv. 259388; Sez. VI, 24 gennaio 2014, n. 6142, Di Donato, Rv. 259351. Quest'ultima pronuncia ha applicato d'ufficio la novella legislativa del comma quinto, giacché in tal modo non si dava luogo al bilanciamento con la recidiva, sulla base del quale la pena inflitta nel merito era stata commisurata all'ipotesi base e non in relazione al comma quinto. Nello stesso senso anche Sez. IV, 11 febbraio 2014, n. 11525, Sotgiu, Rv. 258189, che, con efficace sintesi, annullando con rinvio per la rideterminazione della pena in una fattispecie in cui era stato ritenuto un giudizio di equivalenza tra l'attenuante del comma quinto e le contestate aggravanti, ricorda come, nella nuova disciplina del fatto di lieve entità voluta dal d.l. n. 146 del 2013 "sono stati integralmente confermati gli elementi caratterizzanti che contribuiscono alla individuazione dei fatti di minor gravità, ma la fattispecie è stata trasformata da circostanza attenuante a reato autonomo... Oltre a ciò, la novella ha diminuito l'entità della pena massima. Si tratta di innovazione mossa dall'evidente proposito di sottoporre a trattamento sanzionatorio meno severo illeciti di più lieve entità, da un lato revisionando la pena edittale e dall'altro configurando un distinto reato, così escludendo che il giudizio di bilanciamento tra l'attenuante stessa e circostanze aggravanti, compresa la recidiva, possa frustrare le istanze di minore rigore nei confronti di illeciti di modesta gravità. La norma nuova è dunque per diversi aspetti più favorevole rispetto a quella previgente e deve trovare applicazione alla fattispecie in esame ai sensi dell'art. 2 cod. pen. ".

C) Ipotesi nelle quali il regime più favorevole è stato individuato in quello che con-sente il bilanciamento tra circostanze ai fini della determinazione della pena: si è altresì formato un orientamento che in alcuni casi ha individuato il regime più favorevole in quello che consente il bilanciamento tra circostanze, e dunque si è applicata la disciplina della vecchia legge cd. Iervolino-Vassalli e non il nuovo dettato normativo previsto finanche dal più favorevole d.l. n. 36 del 2014, conv. in legge n. 79 del 2014, laddove, per le sole droghe cosiddette leggere (per le quali il delta punitivo è identico tra le due normative), si riveli di maggior favore l'originaria previsione della circostanza attenuante ad effetto speciale, nel caso in cui essa sia giudicata prevalente rispetto ad eventuali circostanze aggravanti nonché alla recidiva. In tal senso si è espressa Sez. III, 12 giugno 2014, n. 27952, Brunitto, Rv. 259399. La pronuncia chiarisce che, di volta in volta, il giudice chiamato a verificare quale sia in concreto la disciplina più favorevole, nella maggior parte dei casi, si troverà dinanzi ad una valutazione che propende per la norma innovata con il d.l. n. 36 del 2014, in quanto in ogni caso, trattandosi di reato autonomo, le diminuzioni o gli aggravamenti di pena, dovuti alla presenza della recidiva o di altre aggravanti, si applicheranno sulla pena base determinata ai sensi del quinto comma, anziché sulla pena base di cui al quarto comma (che contemplava la reclusione da due a sei anni e la multa da 5164 a 77.468 euro), come sarebbe potuto accadere nel regime previgente in caso di ritenuta prevalenza e equivalenza delle aggravanti. I giudici, però, precisano che ci si dovrà orientare diversamente in tutti quei casi in cui il giudice del merito ritenga quella che era pacificamente una circostanza attenuante quale il quinto comma dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 prevalente su eventuali aggravanti e sulla recidiva. Va ricordato sul punto, peraltro, - e la sentenza non manca di sottolinearlo - che tale giudizio di prevalenza è possibile anche per la recidiva reiterata prevista dall'art. 99 co. 4 cod. proc. pen. dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 251/2012 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 69 cod. pen. 1addove non lo consentiva. In tal caso, infatti, la norma previgente, secondo la quale il quinto comma dell'art. 73 cit. aveva natura circostanziale, risulta per le droghe leggere in concreto più favorevole, e deve trovare applicazione ex art. 2 co. 4 cod. pen., in quanto consente al giudice, pur in presenza di circostanze aggravanti o di recidiva, di applicare la sola pena di cui al quinto comma.

Recentemente sulla questione è intervenuta una pronuncia Sez. IV, 26 settembre 2014, n. 44119, Calogero, Rv. 260642, che ha ricostruito nei medesimi termini il possibile maggior favore della disciplina del comma quinto della legge cd. Iervolino-Vassalli, anche in tema di droghe pesanti, rispetto alla nuova fattispecie autonoma prevista dal d.l. n. 36 del 2014, conv. in L. n. 79 del 2014, nel caso di giudizio di prevalenza della attenuante sulle aggravanti contestate. Ciò nondimeno, nel caso di specie - detenzione a fine di spaccio di sostanza stupefacente del tipo cocaina, riconosciuta dai giudici di merito come fatto di lieve entità, commesso sotto la vigenza della legge n. 49 del 2006 - si è ritenuto applicabile, quanto al trattamento sanzionatorio, quale lex mitior retroattiva nei riguardi dei fatti pregressi non coperti da giudicato ai sensi dell'art. 2, comma quarto, cod. pen., la norma di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. cit. nel testo da ultimo sostituito all'art. 1, comma 24-ter, d.l. 20 marzo 2014, n. 36, conv. con modif. dalla legge n. 79 del 2014. Ciò perché, nel giudizio di merito di rinvio per la determinazione della misura della sanzione, non potrebbe comunque determinarsi l'applicazione dell'aumento di pena previsto per la recidiva, in conseguenza dell'esito favorevole al reo del giudizio di comparazione tra le attenuanti generiche e la recidiva, in sé non rivedibile in pejus, fissandosi, così, le possibilità di pena in concreto da irrogarsi in una forbice edittale (compresa tra un minimo di sei mesi di reclusione ed 1.032,00 di multa e un massimo di quattro anni di reclusione ed C 10.329 di multa) nettamente meno severa rispetto a quella tenuta presente dai giudici del merito nella determinazione della pena inflitta.

D) Ipotesi nelle quali il regime più favorevole è stato individuato in quello della disciplina originariamente prevista, per le droghe leggere, dal comma quinto dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, come rientrata in vigore per effetto dell'intervento della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, rispetto al d.l. n. 146 del 2013: in ulteriori e differenti casi la Suprema Corte si è determinata, nella vigenza del d.l. n. 146 del 2013, a ritenere più favorevole la disciplina originariamente prevista per le droghe leggere ed attualmente vigente per gli effetti di reviviscenza dovuti alla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014.

Sez. VI, 20 marzo 2014, n. 14293, Antonuccio, Rv. 259061, ha infatti affermato la prevalenza della lex mitior riferita alla disciplina contenuta nella legge cd. Iervolino-Vassalli, in ragione della previsione di massimi e minimi edittali inferiori anche rispetto alla novella del 2013, con riferimento a fatti commessi nella vigenza delle sanzioni di cui al d.l. n. 272 del 2005, dichiarato incostituzionale. Il caso riguardava un soggetto condannato dai giudici di merito in base all'ipotesi attenuata dell'art. 73, comma 5, d.P.R. cit. secondo i parametri edittali previsti nella versione ora abrogata, nei confronti del quale l'effetto della dichiarazione di illegittimità comportava la reviviscenza della vecchia disciplina del medesimo art. 73, comma 5, relativa alle droghe 'leggere' (pena da sei mesi a quattro anni di reclusione, oltre alla pena pecuniaria corrispondente a quella originariamente fissata da due milioni a venti milioni di vecchie lire). La Corte qualifica tale modifica del trattamento sanzionatorio come senza dubbio in melius - dovendosi escludere nella fattispecie l'operatività della più rigorosa disciplina (che prevedeva una pena della reclusione da uno a cinque anni) introdotta, nello stesso art. 73, comma 5, d.P.R. cit., dal decreto legge n. 146 del 2013, ius superveniens non 'toccato' dalla sentenza della Consulta, ma applicabile solo ai reati commessi dal 24 dicembre 2013 - che non può non avere effetti favorevoli anche per il ricorrente, la cui responsabilità ha comportato l'irrogazione di una sanzione sulla base di parametri oggi non più "legali". E difatti, solo l'intervento del successivo d.l. n. 36 del 2014, conv. in legge n. 79 del 2014, ha comportato una parificazione del trattamento sanzionatorio per l'ipotesi del fatto lieve rispetto alla disciplina della legge Iervolino-Vassalli quanto alle droghe leggere.

E) Ipotesi nelle quali il regime più favorevole è stato individuato in quello che conse-gue alla perdurante applicazione della disciplina normativa dichiarata incostituzionale: alcune pronunce, in considerazione della peculiarità dei casi concreti in esame, hanno concluso, altresì, individuando la disciplina più favorevole in quella dichiarata incostituzionale, applicabile solo ai fatti commessi durante la sua vigenza (con esclusione, ovviamente, delle condotte commesse prima della sua entrata in vigore e successivamente alla sua abolizione ex tunc ad opera della Corte costituzionale, in quanto il principio di retroattività della norma penale più favorevole, di rango costituzionale e convenzionale, trova un limite nell'ipotesi in cui la legge più favorevole sopravvenuta sia stata dichiarata illegittima, come stabilito dalla sent. 394 del 2006 della C. cost.)[10]. In una pronuncia la Cassazione, dichiarando l'inammissibilità del ricorso proposto per il riconoscimento dell'ipotesi di lieve entità, negata nel giudizio di merito, ha ritenuto non vi fosse problema di illegalità della pena, applicata sotto il vigore della legge incostituzionale, per fattispecie non lievi relative a droghe leggere e droghe pesanti, poiché la disposizione della legge nel testo previgente alla Fini-Giovanardi avrebbe comportato un effetto peggiorativo del trattamento sanzionatorio, stante il minimo edittale più elevato (pari ad otto anni di reclusione a fronte dei sei previsti dalla disciplina incostituzionale): cfr. Sez. IV; n. 41601 del 11 luglio 2014, Desogus.

Si è inoltre ritenuto, come si ricorderà successivamente anche in tema di reato continuato, che, in ossequio al principio della irretroattività della legge penale meno favorevole, la norma incriminatrice dichiarata incostituzionale può continuare a trovare applicazione per le condotte realizzate nel corso della sua vigenza, ove la sua disciplina conduca in concreto ad un trattamento più favorevole per l'imputato e, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto validamente applicato l'art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come modificato dall'art. 4-bis d.l. 30 dicembre 2005, n, 272, conv. con mod., dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, norma dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 32 del 2014, perché in concreto più favorevole, proprio in quanto, equiparando le droghe leggere a quelle pesanti, impediva la configurabilità di più reati in relazione a condotta di detenzione simultanea sia delle une che delle altre (cfr. Sez. IV, n. 44808 del 26 settembre 2014, Madani e altro, Rv. 260735).

F) Ipotesi nelle quali si è posta la questione del reato continuato: la giurisprudenza di legittimità si è ulteriormente espressa in materia di reati continuato e individuazione della norma più favorevole a seguito della sentenza n. 32 del 2014: Sez. IV, 5 febbraio 2014, n. 22257, Guernelli ed altro, Rv. 259203, ha affermato che il principio dell'applicazione della disciplina più favorevole, determinatasi per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 con riferimento al trattamento sanzionatorio relativo ai delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 in relazione alle "droghe leggere", trova attuazione anche quando gli stessi costituiscono reati-satellite, in quanto i mutati e più favorevoli limiti edittali impongono una nuova valutazione in ordine alla pena da irrogare, e, nel giudizio di legittimità, l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, fermo restando che, all'esito della rinnovata disamina, il giudice può ritenere la sanzione precedentemente inflitta equamente commisurata al caso concreto. In coerenza con tale ritenuta esigenza, si è concluso che la reintroduzione per le droghe cosiddette "leggere" di un trattamento sanzionatorio più favorevole per il reo, comporta l'annullamento con rinvio della sentenza di condanna che abbia inflitto una pena utilizzando, quale riferimento per il calcolo dell'aumento per la ritenuta continuazione, i parametri edittali previsti dalla disciplina incostituzionale. Nello stesso orientamento si iscrivono Sez. IV, 12 marzo 2014, n. 24606, Rispoli, Rv. 259366 e Sez. IV, 28 febbraio 2014, n. 25211, Pagano, Rv. 259361).

Viceversa, opposto orientamento ha affermato che tale rideterminazione della pena incontra alcuni limiti, laddove i delitti in materia di droghe leggere, per i quali il mutamento normativo conseguente alla pronuncia n. 32 del 2014 C.cost. comporta l'individuazione della disciplina più favorevole, costituiscano reati-satellite, poiché, nell'istituto della continuazione, una volta individuata la "violazione più grave", i reati meno gravi perdono la loro autonomia sanzionatoria, e si applica una pena unica inflitta per tutte le fattispecie concorrenti (Così, Sez. III, 30 aprile 2014, n. 27066, Frattolino ed altri, Rv. 259392 in una fattispecie in cui la pena base era stata determinata avendo riguardo al delitto associativo previsto dall'art. 74, comma sesto, d.P.R. n. 309 del 1990).

In ragione dell'impostazione sanzionatoria differenziata del regime previgente alle modifiche dichiarate incostituzionali - laddove, invece, la legge n. 49 del 2006 optava per un'omologa quantificazione del delta punitivo sia per le droghe leggere che per quelle pesanti -, possono in concreto porsi questioni di applicabilità o meno della disciplina del reato continuato. Ebbene, in una peculiare ipotesi sottoposta alla Corte, significativa per il valore ricostruttivo dei confini entro i quali il principio del "favor rei" può invocarsi, Sez. VI, 6 marzo 2014, n. 24376, Cordone, Rv. 259154, ha ritenuto non fosse possibile annullare con rinvio la sentenza che - applicando erroneamente l'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, nel testo introdotto dalla legge n. 49 del 2006, e all'epoca vigente - abbia ravvisato, in caso di contestuale detenzione di "droghe leggere" e "droghe pesanti", la sussistenza di una pluralità di reati in continuazione tra loro, ed abbia perciò disposto un aumento di pena, a tale titolo, poiché tale trattamento sanzionatorio risulta conforme alla previsione del citato art. 73, nel testo di cui la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 ha determinato la reviviscenza. In motivazione, la Cassazione ha precisato che l'applicazione della norma dichiarata incostituzionale può essere invocata per rendere intangibile la già avvenuta irrogazione di un trattamento sanzionatorio più mite, ma non anche per beneficiare di tale trattamento, non applicato per errore dal giudice di merito.

Parallelamente, si è ritenuto che, in ossequio al principio della irretroattività della legge penale meno favorevole, la norma incriminatrice dichiarata incostituzionale può continuare a trovare applicazione per le condotte realizzate nel corso della sua vigenza, ove la sua disciplina conduca in concreto ad un trattamento più favorevole per l'imputato (cfr., Sez. IV, 28 febbraio 2014, n. 13903, Spampinato) e, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto validamente applicato l'art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come modificato dall'art. 4-bis d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, conv. con mod., dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, norma dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 32 del 2014, perché in concreto più favorevole, proprio in quanto, equiparando le droghe leggere a quelle pesanti, impediva la configurabilità di più reati in relazione a condotta di detenzione simultanea sia delle une che delle altre (cfr. Sez. IV, n. 44808 del 26 settembre 2014, Madani e altro, Rv. 260735).

G) Ipotesi in cui la disciplina più favorevole è stata individuata in quella che consen-tiva l'accesso alla sanzione sostituiva del lavoro di pubblica utilità: in altri casi l'individuazione della norma più favorevole si è svolta seguendo considerazioni riferite alla possibilità o meno di poter sostituire la pena principale con il lavoro di pubblica utilità. La sentenza della Sez. IV, 25 settembre 2014, n. 44115, Luzietti, Rv. 260733 ha, infatti, stabilito che, in tema di stupefacenti, la disciplina di maggior favore per la fattispecie di lieve entità di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sia per le "droghe leggere" sia per le "droghe pesanti", è da individuarsi in quella introdotta dal d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla legge 16 maggio 2014, n. 79, in considerazione del trattamento sanzionatorio applicabile, avuto riguardo anche alla sostituibilità della pena principale con il lavoro di pubblica utilità. In applicazione del principio la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, rimettendo al giudice di merito la rideterminazione della pena, fermo restando il giudizio di responsabilità dell'imputato. La Corte rammenta che la disciplina sanzionatoria vigente è rinvenibile nel disposto dell'articolo 73, comma 5, del dpr n. 309 del 1990, come da ultimo modificato dal decreto legge n. 36 del 2014, convertito dalla legge n. 79 del 2014, in base al quale la sanzione è stata ulteriormente ridotta, rispetto al precedente intervento realizzato con il decreto legge n. 146 del 2013, convertito dalla legge n. 10 del 2014, intervento con cui, peraltro, l'ipotesi attenuata era stata trasformata in un reato autonomo. Tale novum normativo più favorevole, si dice, deve trovare applicazione, ai sensi dell'articolo 2, comma 4, c.p., onde evitare l'applicazione di una sanzione divenuta "illegale", anche per i fatti commessi sotto il vigore della previgente disciplina, laddove non definiti con sentenza irrevocabile. E non vi è dubbio a giudizio della Corte che tale norma più favorevole sia proprio quella più recente, per la natura di reato autonomo che la sottrae al bilanciamento con eventuali circostanze aggravanti, per il computo dei termini di custodia cautelare, per il computo della prescrizione, nonché sotto il profilo sanzionatorio (le pene, già ridotte, con il decreto legge n. 146 del 2013, convertito nella legge n. 10 del 2014, sono state ulteriormente abbassate e sono decisamente più favorevoli a quelle previste dalla Fini-Giovanardi e dallo stesso d.P.R. n. 309 del 1990, nel testo originario, relativamente alle pene ivi previste per le droghe "pesanti"). Infine, viene indicato un significativo indice di maggior favore nell'avvenuta reintroduzione della sostituibilità della pena principale con quella del lavoro di pubblica utilità (prevista dalla legge n. 49 del 2006, ma "dimenticata" nel decreto legge n. 146 del 2013, convertito nella legge n. 10 del 2014) che rende in concreto la norma da ultimo introdotta dal legislatore quella più favorevole.

Conformi a tale orientamento anche Sez. IV, 25 settembre 2014, n. 44112 e Sez. IV, 25 settembre 2014, n. 44136.

  • mafia

CAPITOLO X

REATI DI PARTECIPAZIONE AD ASSOCIAZIONE MAFIOSA E RICICLAGGIO

(di Matilde Brancaccio )

Sommario

1 La questione sottoposta alle Sezioni unite. - 2 La ricostruzione del quadro normativo operato dalle Sezioni unite. - 3 La natura della clausola di riserva, l'associazione mafiosa come possibile reato presupposto e la soluzione alla questione controversa. - 4 Le affermazioni in tema di aggravante ex art. 416-bis comma 6 cod. pen. - 5 Autoriciclaggio e reimpiego: la disciplina di cui all'art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992.

1. La questione sottoposta alle Sezioni unite.

Le Sezioni Unite nel 2014 sono state chiamate a risolvere una rilevante questione riguardante il quesito "se sia configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648 ter cod. pen. e quello di cui all'art. 416-bis cod. pen., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa".

Nel caso sottoposto al massimo collegio della Corte di cassazione, la condotta contestata a soggetto partecipe dell'associazione camorristica denominata "clan dei casalesi", nell'ambito di un procedimento cautelare con il quale era stata disposta la custodia cautelare in carcere, veniva ricollegata alla fattispecie delittuosa di cui all'art. 648-ter c.p. e ritenuta configurabile a suo carico in concorso con lo stesso delitto di associazione i cui proventi illeciti si erano reimpiegati. L'affermazione di compatibilità veniva fondata dal giudice di merito sulla base della considerazione che l'autore della condotta di reimpiego dei proventi dell'associazione camorristica risultava sì partecipe anche dello stesso reato associativo presupposto, ma con un ruolo di mero esecutore di direttive altrui e non con quello di capo, promotore, organizzatore o reggente del sodalizio camorristico.

La questione circa la possibilità di configurare il concorso di reati tra il delitto di associazione mafiosa e quelli di ricettazione, riciclaggio o reimpiego dei proventi del medesimo delitto associativo era già oggetto di contrasto nella giurisprudenza di legittimità, tanto che la Prima sezione penale, una volta prospettatasi, l'ha rimessa alle Sezioni Unite con ordinanza n. 47221 del 1 ottobre 2013 (depositata il 28 novembre 2013), evidenziando l'esistenza di due orientamenti interpretativi.

Secondo il primo indirizzo tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere non esiste alcun rapporto di presupposizione e non opera la clausola di riserva ("fuori dei casi di concorso nel reato") che qualifica la disposizione incriminatrice del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall'attività associativa. Pertanto, il concorrente nel delitto associativo di stampo mafioso può essere chiamato a rispondere di quello di riciclaggio dei beni provenienti dall'attività associativa, sia quando il delitto presupposto sia da individuarsi nei delitti - fine, attuati in esecuzione del programma criminoso (Sez. II, 14 febbraio 2003, n. 10582, Bertolotti, Rv. 223689; Sez. II, 23 settembre 2005, n. 40793, Carciati ed altri, Rv. 232524; Sez. II, 8 novembre 2007, n. 44138, Rappa, Rv. 238311), sia quando esso sia costituito dallo stesso reato associativo, di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, rientrando tra gli scopi dell'associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo del metodo mafioso. Rientrano in questo filone interpretativo: Sez. I, 27 novembre 2008, n. 6930/2009, Ceccherini, Rv. 243223; Sez. I, 27 novembre 2008, n. 1439/2009, Benedetti, Rv. 242665; Sez. I, 27 maggio 2011, n. 40354, Calabrese e altro, Rv. 251166 e Sez. II, 4 giugno 2013, n. 27292, Aquila e altro, Rv. 255712.

Tali principi, si afferma nell'ordinanza di rimessione riprendendo la giurisprudenza citata, conservano validità anche con riguardo all'art. 648-ter cod. pen., data la sostanziale identità del fatto.

Il secondo orientamento si fonda, invece, su un unico arresto giurisprudenziale (Sez. VI, 24 maggio 2012, n. 25633, Schiavone, Rv. 253010: a questa sentenza si può aggiungere una ulteriore pronuncia sul punto: Sez. V, 14 gennaio 2010, n. 17694, Errico e altro, Rv. 247220), che ha contrastato l'evidenziato indirizzo, ritenendo che, una volta che il delitto associativo di tipo mafioso si consideri per sé potenzialmente idoneo a costituire il reato presupposto dei delitti di riciclaggio e di illecito reimpiego, non sono ravvisabili ragioni ermeneutiche che consentano, già in linea di principio, di escludere anche per esso l'operatività della cosiddetta clausola di riserva "fuori dei casi di concorso nel reato".

2. La ricostruzione del quadro normativo operato dalle Sezioni unite.

Prima di affrontare la questione principale e, come si vedrà, prima di soffermarsi anche su ulteriori connesse questioni, egualmente di estrema rilevanza, i giudici hanno compiuto un efficace excursus degli interventi legislativi che hanno introdotto nell'ordinamento penale i delitti previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter così come oggi ne conosciamo la formulazione, sino ad arrivare alla legge 9 agosto 1993 n. 328 che ratificava e dava esecuzione alla Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca di proventi del reato, adottata dal Consiglio d'Europa a Strasburgo l'8 novembre 1990, per effetto della quale il testo dell'art. 648-bis cod. pen. subiva rilevanti modifiche: veniva eliminata la categoria "chiusa" dei reati-presupposto, estesa a tutti i delitti non colposi; la condotta materiale del reato veniva estesa non solo alla sostituzione dei beni, bensì anche al trasferimento dei proventi illeciti - evocativo di meccanismi traslativi di occultamento della genesi delle ricchezze - e al compimento di «altre operazioni in modo da ostacolare l'identificazione», comportamento che - afferma la Cassazione - è indicativo di uno scopo, più che di un evento, a differenza di quanto in precedenza previsto («ostacola l'identificazione»).

La Corte ricostruisce come, per tale via, il legislatore abbia assicurato la tutela penale a tutte e tre le fasi attraverso le quali si realizza il riciclaggio: a) il "collocamento" (placement), consistente nell'insieme delle operazioni intese a trasformare il denaro contante in moneta scritturale ovvero in saldi attivi presso intermediari finanziari; b) la stratificazione (layering), comprendente qualsiasi operazione che fornisce alla ricchezza proveniente da reato una copertura tale da renderne apparentemente legittima la provenienza; c) l'integrazione (integration), consistente nella reimmissione della ricchezza ripulita nel circuito economico legale. Giova ricordare che, con l'art. 24 della legge 19 marzo 1990, n. 55, era poi stato introdotto nel codice penale l'art. 648-ter («Impiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita»), che configurava come illecito penale l'impiego in attività economiche o finanziarie di quegli stessi proventi illeciti (denaro, beni e altre utilità) richiamati nella descrizione dell'oggetto materiale del delitto di riciclaggio, mentre la ratio della disposizione, individuata dalle Sezioni Unite, era proprio quella di non lasciare vuoti di tutela a valle dei delitti di riciclaggio e ricettazione e di sanzionare anche la fase terminale delle operazioni di recycling (il quarto stadio c.d. integration stage), ossia l'integrazione del denaro di provenienza illecita nei circuiti economici attraverso l'immissione nelle strutture dell'economia legale dei capitali previamente ripuliti. La fattispecie, configurata in forma residuale rispetto ai delitti di ricettazione e riciclaggio (come si evince dalla doppia clausola di riserva posta nella parte iniziale della norma), viene ricostruita dalla pronuncia delle Sezioni unite come plurioffensiva perchè, pur se collocata tra i delitti contro il patrimonio, appare maggiormente orientata alla tutela dalle aggressioni al mercato e all'ordine economico e ad evitare l'inquinamento delle operazioni economico-finanziarie (si cita quale termine precedente di tale orientamento Sez. IV, 23 marzo 2000, n. 6534, Aschieri, Rv. 216733).

Ed ancora si afferma che la plurioffensività dei delitti disciplinati dagli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. costituisce uno dei profili che giustificano l'affermazione che il delitto di riciclaggio è speciale rispetto alla ricettazione (cfr., tra le molte sentenze richiamate dalle Sezioni unite, Sez. II, 19 febbraio 2009, n. 19907, Abruzzese, Rv. 244879), ferma restando la loro reciproca distinzione anche per l'elemento materiale e per quello soggettivo (Sez. II, 12 febbraio 2013, n. 25940, Bonnici, Rv. 256454; Sez. II, 9 maggio 2012, n. 35828, Acciaio, Rv. 253890; Sez. II, 14 ottobre 2003, n. 47088, Di Capua, Rv. 227731; Sez. II, 23 febbraio 2005, n. 13448, De Luca, Rv. 231053), e che analogo rapporto di specialità esiste tra il delitto di riciclaggio e quello di reimpiego (Sez. II, 10 gennaio 2003, n. 18103, Sirani, Rv. 224394; Sez. II, 17 maggio 2007, n. 29912, Porzio, Rv. 237262; Sez. IV, 23 marzo 2000, n. 6534, Aschieri, Rv. 216733).

Infine, il Supremo collegio mette in luce come si sia realizzata, in una lettura diacronica della giurisprudenza di legittimità, "una progressiva e sempre più accentuata autonomia dei reati di riciclaggio e di reimpiego rispetto al reato presupposto, una loro chiara emancipazione rispetto ad ipotesi di partecipazione post delictum al reato precedentemente commesso, un loro netto affrancamento concettuale e strutturale dalla categoria della complicità criminosa".

3. La natura della clausola di riserva, l'associazione mafiosa come possibile reato presupposto e la soluzione alla questione controversa.

Le Sezioni unite, con la sentenza 27 febbraio 2014, n. 25191, Iavarazzo, Rv. 259587 ritengono di escludere la possibilità che all'associato del delitto di cui all'art. 416-bis c.p. possano contestarsi anche i reati di riciclaggio o reimpiego dei proventi illeciti dello stesso delitto associativo e, con chiarezza definitoria, affermano che la previsione che esclude l'applicabilità dei delitti di riciclaggio e reimpiego di capitali nei confronti di chi abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto costituisca una deroga al concorso di reati basata sulla valutazione, tipizzata dal legislatore, di ritenere l'intero disvalore dei fatti ricompreso nella punibilità del solo delitto presupposto.

Affermata la natura di clausola di riserva della previsione normativa con la quale esordiscono le fattispecie di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter cod. pen., la Cassazione si interroga su un passaggio preliminare indispensabile per risolvere la questione sottoposta, e cioè se il delitto di associazione di tipo mafioso possa costituire di per sé una fonte di ricchezza illecita suscettibile di riciclaggio o di reimpiego, indipendentemente dalla commissione di singoli reati fine.

La soluzione proposta è positiva, condividendosi l'orientamento giurisprudenziale maggioritario che ritiene il delitto di associazione di tipo mafioso autonomamente idoneo a generare ricchezza illecita, a prescindere dalla realizzazione di specifici delitti, rientrando tra gli scopi dell'associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività lecite per mezzo del metodo mafioso (si richiamano in tema Sez. VI, 30 ottobre 2009, n. 45643, Papale; Sez. I, 27 novembre 2009, n. 6930, Ceccherini, Rv. 243223; Sez. I, 27 novembre 2008, n. 2451, Franchetti, Rv. 242723; Sez. I, 27 novembre 2008, n. 1439, Benedetti, Rv. 242665; Sez. I, 27 novembre 2008, n. 1024, Di Cosimo, Rv. 242512; Sez. I, 27 novembre 2008, n. 6931, Diana). A sostegno dell'approdo, finalmente chiarito dalla Corte a fronte di un contrasto che sino ad oggi non aveva brillato per chiarezza di argomentazioni, si propongono plurimi elementi interpretativi:

- la rubrica e il dato testuale dell'art. 416-bis cod. pen. («Associazioni di tipo mafioso anche straniere») rispetto all'art. 416 cod. pen. («Associazione per delinquere») che rispecchia la differenza ontologica delle due fattispecie, delle quali la seconda preordinata esclusivamente alla commissione di reati, la prima contraddistinta da una maggiore articolazione del disegno criminoso e tale in ragione dei mezzi usati e dei fini perseguiti, individuando il "metodo mafioso" mediante la fissazione di tre parametri caratterizzanti necessari: forza intimidatrice del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e condizione di omertà;

- la maggiore ampiezza degli scopi perseguiti dal sodalizio di stampo mafioso, delineati nel terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen. in modo alternativo. In tal modo, nello schema della fattispecie penale, si esprimono le più recenti dinamiche delle organizzazioni mafiose, che cercano il loro arricchimento non solo mediante la commissione di azioni criminose, ma anche in altri modi, quali il reimpiego in attività economico-produttive dei proventi derivanti dalla pregressa perpetrazione di reati, il controllo delle attività economiche attuato mediante il ricorso alla metodologia mafiosa, la realizzazione di profitti o vantaggi non tutelati in alcun modo, né direttamente né indirettamente, dall'ordinamento e conseguiti avvalendosi della particolare forza d'intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano;

- il dato normativo offerto dal settimo comma dell'art. 416-bis cod. pen. che, nel prevedere la confisca obbligatoria, nei confronti del condannato per tale reato, delle cose costituenti il prezzo, il prodotto, il profitto del reato o l'impiego dei predetti proventi, presuppone che l'associazione in quanto tale sia produttiva di ricchezze illecite.

Riconosciuto il ruolo di reato presupposto della fattispecie associativa ex art. 416-bis cod. pen. - premessa che, come detto, rappresenta l'antecedente logico della questione riguardante l'applicabilità della clausola di riserva al concorrente nell'associazione o al partecipe - la Cassazione traccia il percorso del contrasto interpretativo che forma l'oggetto della questione, segnalando come al fondo si rinvenga piuttosto un equivoco che una difformità di indirizzi vera e propria. E difatti, le decisioni ricondotte al primo dei due indirizzi giurisprudenziali, ritenuti espressione del contrasto, non hanno, secondo la ricostruzione delle Sezioni unite, affrontato la specifica questione circa la non applicabilità della clausola di riserva all'autore del delitto presupposto di associazione mafiosa che commetta anche la condotta di ricettazione, riciclaggio o reimpiego. In altre parole, non si erano preoccupate di interrogarsi effettivamente sulla non applicabilità del beneficio di autoriciclaggio all'autore del reato presupposto qualora questo fosse dato dall'associazione mafiosa di cui il soggetto fosse partecipe, confondendo peraltro i piani di ragionamento ed ingenerando l'equivoco interpretativo alla base del contrasto.

Diversamente, altre due pronunce, facenti capo a quello che veniva rilevato essere l'opposto orientamento, (Sez. VI, 24 maggio 2012, n. 25633, Schiavone, Rv. 253010; Sez. V, 14 gennaio 2010, n. 17694, Errico) hanno ritenuto non configurabile il reato previsto dall'art. 648ter cod. pen. ovvero quello di riciclaggio, quando tali contestazioni riguardino denaro, beni o utilità la cui provenienza illecita trovi la sua fonte nell'attività costitutiva dell'associazione per delinquere di stampo mafioso e siano rivolta ad un associato cui quell'attività sia concretamente attribuibile. Si argomenta in tali pronunce che, ove si ritenga che il delitto associativo di tipo mafioso sia da considerare per sé potenzialmente idoneo a costituire il reato presupposto dei delitti di riciclaggio e di illecito reimpiego, «non sono ravvisabili ragioni ermeneutiche che consentano, già in linea di principio, di escludere l'operatività della cd. clausola di riserva - "fuori dei casi di concorso nel reato" - anche per esso».

A tale orientamento aderiscono le Sezioni unite con la pronuncia Iavarazzo.

Le condizioni e i limiti della configurabilità del concorso fra il delitto associativo ex art. 416-bis cod. pen. e quelli di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.) e reimpiego (art. 648-ter cod. pen.), oggetto della questione controversa, difatti, vengono ricondotti ad una precisa e schematica ricostruzione casistica da parte delle Sezioni unite, una volta chiarito il quadro di riferimento dogmatico sui caratteri delle fattispecie delittuose in gioco e i criteri per poter configurare il concorso nel reato. E così:

a) il soggetto estraneo sia all'organizzazione mafiosa che ai delitti fine, che ripulisce o reimpiega il denaro, i beni o le altre utilità, vede possibile nei suoi confronti, in presenza dei rispettivi elementi costitutivi, la configurabilità delle contestazioni di riciclaggio o reimpiego, essendo da escludere qualsiasi suo apporto alla commissione dei reati presupposto;

b) il soggetto, non appartenente all'associazione mafiosa, che concorra nei soli reati-fine espressione dell'operatività della stessa, rende possibile nei suoi riguardi la configurabilità della responsabilità in ordine agli stessi, aggravati ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, quando l'oggetto dell'attività di riciclaggio o di reimpiego sia costituito da denaro, beni o altre utilità conseguiti proprio grazie alla commissione dei suddetti reati;

c) qualora il soggetto non fornisca alcun apporto all'associazione mafiosa, ma si occupi esclusivamente di riciclare o reimpiegare il denaro, i beni, le altre utilità prodotti proprio dalla stessa, sono integrati i presupposti applicativi delle sole fattispecie previste, rispettivamente, dall'art. 648-bis cod. pen. o dall'art. 648-ter cod. pen., non sussistendo alcun contributo alla commissione del reato presupposto;

d) all'associato che "ripulisca" o reimpieghi il denaro, i beni, o le altre utilità riconducibili ai soli delitti-scopo, alla cui realizzazione egli non abbia fornito alcun apporto, non si applica la clausola di esclusione della responsabilità prevista dall'art. 648-bis cod. pen., in quanto l'oggetto dell'attività tipica del delitto di riciclaggio non è direttamente ricollegabile al reato cui egli concorre;

e) il partecipe del sodalizio di stampo mafioso che, nella ripartizione dei ruoli e delle funzioni all'interno dell'associazione, abbia il compito di riciclare o reimpiegare la ricchezza prodotta dall'organizzazione in quanto tale, non è punibile per autoriciclaggio, in quanto oggetto della sua condotta sono il denaro, i beni, le altre utilità provenienti dall'associazione cui egli fornisce il suo consapevole e volontario contributo. In tale ultima ipotesi, con la quale si chiude il cerchio intorno alla questione controversa, "non è configurabile il concorso fra i delitti di cui gli artt. 648-bis o 648-ter cod. pen. e quello di cui all'art. 416-bis cod. pen., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa";

f) inoltre (in adesione ai principi espressi dalle Sezioni Unite in tema di concorso esterno in associazione mafiosa: Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino, Rv. 231670 e 231679), risponde del delitto previsto dagli artt. 110, 416-bis cod. pen. il soggetto che, pur se non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione di stampo mafioso e privo dell'affectio societatis, fornisca, mediante l'attività di riciclaggio o di reimpiego dei relativi proventi, un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che esplichi un'effettiva rilevanza causale e si configuri, quindi, come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione o, quanto meno, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale, se si tratta di un sodalizio particolarmente articolato. In tale ipotesi, infatti, l'apporto di colui che pone in essere le condotte di riciclaggio o reimpiego caratterizzate, in base ad una valutazione ex post, da effettiva efficienza causale in relazione alla concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo, costituisce un elemento essenziale e tipizzante della condotta concorsuale, di natura materiale o morale.

Le Sezioni unite, infine, respingono ogni valenza dirimente del criterio, utilizzato dai giudici di merito, riferito al ruolo di partecipe del delitto associativo presupposto, piuttosto che a quello di capo, promotore ed organizzatore, quale discrimine tra la condotta associativa che possa concorrere con i delitti di riciclaggio e reimpiego e quella per cui, invece, operi la clausola di riserva.

4. Le affermazioni in tema di aggravante ex art. 416-bis comma 6 cod. pen.

Le Sezioni unite, con la pronuncia Iavarazzo, compiono ulteriori rilevanti affermazioni in tema di aggravante prevista dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., contestata al ricorrente nel procedimento parallelo per il reato associativo, presupposto di quello di reimpiego oggetto della rimessione e, pertanto, ritenuta rilevante.

Si chiarisce come essa sia configurabile nei confronti dell'associato che abbia commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto, da parte sua, di successivo reimpiego. Tale conclusione viene fondata sull'interpretazione letterale dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., in cui sono assenti forme di esclusione o limitazione della responsabilità per tale ipotesi, e sulla ratio giustificatrice della disposizione che - si dice - rappresenta una sorta di "progressione criminosa" rispetto al reato-base e denota la maggiore pericolosità di un'organizzazione che, mediante il conseguimento degli obiettivi prefissati, produce una più intensa lesione degli interessi protetti, influendo sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza mediante la penetrazione in settori di attività imprenditoriale lecita.

Le Sezioni unite, d'altra parte, chiariscono come il necessario coordinamento sistematico tra l'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. e l'art. 648-ter cod. pen. porti, al contrario, ad escludere che, in questo caso, l'associato possa autonomamente rispondere anche del delitto di reimpiego, non consentendolo la clausola personale di esclusione della responsabilità avente valenza generale.

La lettera dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. osta, infine, a che l'associato possa essere chiamato a rispondere ad alcun titolo del post-fatto di autoriciclaggio.

5. Autoriciclaggio e reimpiego: la disciplina di cui all'art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992.

All'imputato era contestato, altresì, nel giudizio dal quale proviene la questione sottoposta alle Sezioni unite, il delitto di trasferimento fraudolento di valori previsto dall'art. 12-quinquies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356.

La Corte, chiamata a pronunciarsi anche in tale ambito dai motivi di ricorso, compie importanti affermazioni chiarendo come lo spazio di illiceità delineato dalla norma in esame, in relazione a manovre di occultamento giuridico o di fatto di attività e beni, altrimenti lecite, si connota per il fine perseguito dall'agente, individuato alternativamente nell'elusione delle disposizioni in tema di misure di prevenzione patrimoniali ovvero nell'agevolazione nella commissione dei delitti di ricettazione, riciclaggio o reimpiego. Sotto tale profilo la disposizione in esame - si dice - consente di perseguire penalmente anche i fatti di "auto" ricettazione, riciclaggio, reimpiego, che non sarebbero altrimenti punibili per la clausola di riserva presente negli artt. 648-bis e 648-ter, che ne esclude l'applicabilità agli autori dei reati presupposti (così, peraltro, si era già espressa Sez. II, 5 ottobre 2011, n. 39756, Ciancimino, Rv. 251193). Di conseguenza, l'autore del delitto presupposto il quale attribuisca fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità di beni o di altre utilità, di cui rimanga effettivamente dominus, al fine di agevolarne una successiva circolazione nel tessuto finanziario, economico e produttivo, è punibile anche ai sensi dell'art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992. A sua volta, colui che, mediante la formale titolarità o disponibilità dei beni o delle attività economiche, si presta volontariamente a creare una situazione apparente difforme dal reale, così contribuendo a ledere il generale principio di affidamento, risponde di concorso nel medesimo delitto, ove abbia la consapevolezza che colui che ha effettuato l'attribuzione è motivato dal perseguimento di uno degli scopo tipici indicati dalla norma (cfr. ex plurimis Sez. I, 26 aprile 2007, n. 30165, Di Cataldo, Rv. 237595; Sez. I, 10 febbraio 2005, n. 14626, Pavanati, Rv. 231379; Sez. II, 9 luglio 2004, n. 38733, Casillo, Rv. 230109).

Sulla base di tale analisi normativa, si giunge ad affermare, pertanto, il principio di diritto secondo cui "i fatti di "auto" riciclaggio e reimpiego sono punibili, sussistendone i relativi presupposti, ai sensi dell'art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356".

  • frode elettorale
  • mafia

CAPITOLO XI

IL REATO DI SCAMBIO ELETTORALE POLITICO-MAFIOSO

(di Luigi Barone )

Sommario

1 Il reato di cui all'416-ter cod. pen. come modificato dalla L. n. 62 del 2014. - 2 Le modalità "mafiose", quale elemento qualificante della promessa di procurare voti: le prime pronunce della Cassazione.

1. Il reato di cui all'416-ter cod. pen. come modificato dalla L. n. 62 del 2014.

Ad esito di un travagliato iter parlamentare, il legislatore ha, con la legge 17 aprile 2014, n. 62, ridisegnato il delitto di scambio politico-mafioso, modificando il primo comma dell'art. 416-ter cod. pen., con la previsione di una autonoma pena edittale nei confronti di chiunque accetti la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell'art. 416-bis in cambio dell'erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità e prevedendo, con l'introduzione di un secondo comma, la punizione, alla stessa sanzione penale prevista per l'ipotesi di cui al primo comma, di "chi promette di procurare voti con le modalità di cui al primo comma".

Rispetto alla originaria formulazione letterale, le innovazioni apportate alla fattispecie possono schematicamente riassumersi nei seguenti punti:

a) Inserimento, nella tipizzazione della condotta materiale del reato, delle modalità mafiose attraverso cui il promittente si impegna a procacciare i voti.

b) Ampliamento dell'oggetto della controprestazione del candidato, comprendendo, oltre il denaro, di cui all'originaria previsione, anche ogni altra utilità.

c) Estensione della punibilità al promittente voti.

d) Previsione di un autonomo più attenuato regime edittale (da quattro a dieci anni), non più ancorato alla previsione di cui all'art. 416-bis, comma 1, cod. pen. (da sette a dodici anni).

Per cogliere, però, nella sua effettività l'ampiezza della novella occorre raffrontarla agli insegnamenti esegetici che della fattispecie originaria negli anni aveva offerto la giurisprudenza di legittimità, la cui elaborazione ne aveva, per l'appunto, riscritto l'ambito applicativo, nell'ottica di un inquadramento che fosse maggiormente in linea con la ratio fondante della previsione delittuosa.

In particolare, in merito alla nozione di denaro, cui il legislatore sembrava aver voluto circoscrivere la tipizzazione dell'oggetto della controprestazione offerta dal politico, la Cassazione ne aveva fornito una interpretazione estensiva, comprensiva di ogni altro bene traducibile in un valore di scambio immediatamente quantificabile in termini economici, come, ad esempio, mezzi di pagamento diversi dalla moneta, preziosi, titoli, valori mobiliari, restando invece escluse dalla portata precettiva altre "utilità", che solo in via mediata possono essere trasformati in "utili" monetizzabili e, dunque, economicamente quantificabili (Sez. II, 30 novembre 2011, n. 46922, P.M. in proc. Marrazzo Rv. 251374; Sez. VI, 11 aprile 2012, n. 20924, Gambino, Rv. 252788).

A fondamento di tale affermazione, la Corte osservava che ridurre la definizione concettuale di "denaro" a sinonimo di "moneta" avrebbe comportato una sostanziale "sterilizzazione" del precetto, che invece trovava una applicazione più confacente alla propria ratio fondante in una accezione che comprendesse nel concetto di "denaro", qualsiasi bene che rappresentasse un "valore" - appunto di scambio - in termini di immediata commisurazione economica, restando invece escluse dalla portata precettiva altre "utilità", che solo in via mediata potessero essere trasformate in "utili" monetizzabili e, dunque, economicamente quantificabili.

In relazione, poi, alla punibilità del promittente voti, ora espressamente prevista al secondo comma dell'art. 416-ter cod. pen., già sotto il vigore della precedente disciplina, la Suprema Corte, in taluni suoi arresti, era pervenuta sostanzialmente al medesimo risultato, ricorrendo allo schema dell'art. 110 cod. pen.

In particolare, la giurisprudenza, pur condividendo l'inquadramento della fattispecie tra i reati a concorso necessario improprio, nel quale cioè all'essenziale intervento di più persone nella consumazione del reato corrisponde la punibilità solo di alcuni, ha ritenuto che ciò non impedisce di ricercare, per via interpretativa, una voluntas legis favorevole alla punibilità ex art. 110 cod. pen. del concorrente extraneus, che, nel caso in esame, può essere individuata nell'obiettivo perseguito dal legislatore di sottoporre tutte le condotte idonee a compromettere il libero esercizio del diritto di voto, poste in essere da associazioni mafiose, tra cui il patto elettorale politico-mafioso assume una posizione pregnante, ad una disciplina sanzionatoria (quella prevista dall'art. 416-bis cod. pen., il cui primo comma è richiamato dall'art. 416-ter cod. pen.) più grave di quella prevista dagli artt. 96 e 97 T.U. leggi elettorali, approvato con d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, attraverso le modifiche apportate al terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen. e la creazione del nuovo art. 416-ter cod. pen.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte, già nel vigore dell'originario art. 416-ter cod. pen., era, così, pervenuta ad affermare il principio, secondo cui concorre nel delitto di scambio elettorale politico-mafioso, di cui all'art. 416-ter cod. pen. ed è sanzionato ex art. 110 cod. pen. il soggetto che, in cambio della erogazione di denaro o di ogni altro bene traducibile in un valore di scambio immediatamente qualificabile in termini economici, prometta ad un candidato, in occasione di consultazioni elettorali, di procurare voti in suo favore, attraverso la forza di intimidazione del vincolo associativo tipico delle organizzazioni a delinquere di stampo mafioso e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, di cui all'art. 416-bis cod. pen. (Sez. V, 22 gennaio 2013, n. 23005, Alagna ed altri, Rv. 255502).

2. Le modalità "mafiose", quale elemento qualificante della promessa di procurare voti: le prime pronunce della Cassazione.

Più problematico si presenta il confronto esegetico tra vecchia e nuova disciplina, in relazione alla descrizione della condotta materiale.

In particolare, nella originaria previsione la promessa di voti incriminata era quella prevista dal terzo comma dell'art. 416-bis, terzo comma, cod. pen.; nel novellato art. 416ter cit. è, invece, quella (di procurare voti) mediante le modalità di cui al terzo comma dell'art. 416-bis cit..

Sul piano letterale, le due formulazioni differiscono per l'espresso riferimento, contenuto solo nella vigente disciplina, alle "modalità" attraverso cui il "mafioso promittente" si impegna a procacciare i voti.

È stata sufficiente questa modifica lessicale per sollevare il problema esegetico sulla portata della successione normativa e segnatamente se questa abbia configurato, relativamente a tale segmento della fattispecie, una abolitio criminis o una semplice modificazione della disciplina.

La questione risulta, sin ora, affrontata ex professo da Sez. VI, 3 giugno 2014, n. 36382, Antinoro, Rv. 260168, che si è espressa apertamente a favore della tesi dell'abolitio criminis parziale, affermando il principio (così massimato dall'ufficio), secondo cui in tema di delitto di scambio elettorale politico-mafioso, la L. 17 aprile 2014, n. 62, modificando l'art. 416-ter cod. pen. ha introdotto un nuovo elemento costitutivo nella fattispecie incriminatrice, relativo al contenuto dell'accordo, che deve contemplare l'impegno del gruppo malavitoso ad attivarsi nei confronti del corpo elettorale anche dispiegando concretamente, se necessario, il proprio potere di intimidazione, con la conseguenza che sono penalmente irrilevanti le condotte pregresse consistenti in pattuizioni politico-mafiose, che non abbiano espressamente previsto le descritte modalità di procacciamento dei voti.

Nella fattispecie, il giudice di appello aveva condannato l'imputato per il reato di cui all'art. 416-ter cod. pen. (vecchia formulazione), ripristinando così l'originaria imputazione, che era stata invece derubricata dal giudice di primo grado nel reato di cui all'art. 96 d.P.R. n. 361 del 1957.

In applicazione del principio sopra enunciato, la Cassazione ha annullato con rinvio la decisione della Corte territoriale affinché rivalutasse la fattispecie in base allo ius superveniens, onde stabilire se fosse ancora possibile sussumere la condotta contestata - e quale risultante dal compendio probatorio acquisito - nell'ambito di applicazione del nuovo art. 416-ter cod. pen. o se invece dovesse o meno ricondursi ad altra figura di reato.

Nel percorso argomentativo seguito, la Corte ha ritenuto che la rimodulazione della fattispecie incriminatrice non si sia limitata all'estensione della punibilità nei confronti del promittente voti, ma avrebbe anche inciso, modificandolo, sul contenuto della promessa oggetto di pattuizione, con l'introduzione della locuzione "procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell'art. 416-bis".

Ne deriva, a giudizio della Corte, che il reato di cui all'art. 416-ter cod. pen., nella sua nuova formulazione, prevede quale ulteriore elemento costitutivo la previsione nell'oggetto dell'accordo di scambio politico-mafioso delle modalità di procacciamento dei voti, che consentono al candidato di poter contare, ove necessario, sul dispiegamento del potere di intimidazione proprio del sodalizio mafioso.

In altri termini, tanto sul piano oggettivo quanto su quello soggettivo, occorrerebbe, ora, ai fini della configurazione della fattispecie, la piena rappresentazione e volizione da parte dell'imputato di aver concluso uno scambio politico-elettorale, implicante l'impiego da parte del sodalizio mafioso della sua forza di intimidazione e costrizione della volontà degli elettori.

La conseguenza della ritenuta aggiunta di un nuovo elemento costitutivo nella fattispecie incriminatrice è la penale irrilevanza di condotte pregresse, consistenti in pattuizioni politico-mafiose, che non abbiano espressamente contemplato le concrete modalità di procacciamento dei voti.

Occorre tuttavia osservare che, in altro passaggio della motivazione, la Corte sembra, invece, minimizzare la portata innovativa del "nuovo 416-ter", che avrebbe di fatto normativizzato quel filone ermeneutico, affermatosi nella giurisprudenza di legittimità precedente alla novella del 2014, che riteneva necessario ai fini della configurazione del reato che la promessa avesse ad oggetto il procacciamento di voti nei modi, con i metodi e secondo gli scopi dell'organismo mafioso.

Ci si riferisce, in particolare, a Sez. I, 24 gennaio 2012, n. 27655, Macrì, Rv. 253387, secondo cui nel reato di cui all'art. 416-ter cod. pen. 1a promessa di voti viene fatta, in cambio di erogazione di denaro, da un aderente ad associazione mafiosa mediante l'assicurazione dell'intervento di membri della medesima, sì che in esso è tipico il ricorso alla forza d'intimidazione derivante dal vincolo associativo mafioso.

Negli stessi termini, si erano pronunziate anche Sez. I, 25 marzo 2003, n. 27777, Cassata, Rv. 225864 e Sez. VI, 13 aprile 2012, n. 18080, Diana, Rv. 252641, secondo cui per la configurabilità del reato di cui all'art. 416 ter cod. pen. non basta l'elargizione di denaro, in cambio dell'appoggio elettorale, ad un soggetto aderente a consorteria di tipo mafioso, ma occorre anche che quest'ultimo faccia ricorso all'intimidazione ovvero alla prevaricazione mafiosa, con le modalità precisate nel terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen. (cui l'art. 416 ter fa esplicito richiamo), per impedire ovvero ostacolare il libero esercizio del voto e per falsare il risultato elettorale; elementi, questi ultimi, da ritenersi determinanti ai fini della distinzione tra la figura di reato in questione ed i similari illeciti di cui agli artt. 96 e 97 T.U. delle leggi elettorali approvato con d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361.

L'indirizzo esegetico appena richiamato non risulta, nel vigore della normativa modificata, smentito da arresti di segno contrario, non potendosi ritenere tali quelle pronunzie che, ad una prima lettura, sembrano voler affermare la sufficienza ai fini della configurazione del reato di cui all'art. 416-ter cod. pen. della semplice stipula del patto di scambio, contemplante la promessa di voti contro l'erogazione di denaro (Sez. I, 2 marzo 2012, n. 32820, Battaglia, Rv. 253740; Sez. VI, 9 novembre 2011, n. 43107, P.G. in proc. Pizzo ed altro, Rv. 251370, Sez. V, 13 novembre 2002 - dep. 2003 -, n. 4293, Gorgone FP., Rv. 224274), ma che in realtà, come precisato dagli stessi giudici della "Antinoro", non si pongono in contrapposizione all'orientamento consolidato, limitandosi ad escludere rilevanza penale alla concretizzazione del patto di scambio tramite la materiale erogazione del denaro o la conclusione di accordi aggiuntivi, vincolanti l'uomo politico ad operare in favore dell'associazione in caso di vittoria elettorale.

Anche nel vigore della precedente disciplina, per come interpretata ed applicata dalla giurisprudenza, il richiamo del terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen. implicava, pertanto, l'incriminazione della promessa di procurare voti, solo se qualificata dalla prospettazione del ricorso alla forza di intimidazione del vincolo associativo ed alla condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva; con la conseguenza che, già allora, ai fini della configurabilità del delitto in esame non era sufficiente il mero patto di scambio elettorale politico-mafioso, necessitando la promessa di procurare voti di essere, sia pure implicitamente, sostenuta dalla forza di intimidazione e di prevaricazione tipica del sodalizio mafioso.

Scorrendo la giurisprudenza successiva all'entrata in vigore della novella, in epoca sostanzialmente concomitante alla "Antinoro", sempre la sesta sezione (6 maggio 2014, n. 37374, P.M. in proc. Polizzi, Rv. 260167), ha affrontato il tema del 416-ter cod. pen., senza, però, a differenza dell'arresto appena esaminato, rilevare, con riferimento al contenuto del patto di scambio, profili di discontinuità tra vecchia e nuova disciplina, come autorizzano a desumere i ripetuti richiami in sentenza ai risultati dell'elaborazione giurisprudenziale precedente alla novella del 2014.

Nello specifico, nell'arresto ora in esame, la Corte, individuata la ratio fondante del delitto nel rischio di alterazione del processo democratico, per via dell'intervento del potere mafioso nella competizione elettorale, ribadisce (in linea con la consolidata giurisprudenza di legittimità) che la fattispecie si atteggia a reato di pericolo e non richiede, pertanto, né l'attuazione né l'esplicita programmazione di una campagna singolarmente attuata mediante intimidazioni, che rispetto al reato costituirebbero dei post factum, punibili semmai con riguardo a diverse ed ulteriori ipotesi criminose, bastando invece l'assoggettamento di aree territoriali e corpi sociali alla forza del vincolo mafioso per determinare, nel momento in cui il sodalizio decida di intervenire nella competizione elettorale a sostegno di un determinato candidato, alterazioni del libero esercizio del diritto di voto.

Ne consegue che, secondo questa diversa impostazione, è dirimente, ai fini della configurazione della fattispecie, la serietà dell'accordo, da misurare sulla base della personalità dei contraenti e, in particolare, della caratura mafiosa del soggetto che promette la campagna di reclutamento voti, nella quale, secondo la Corte, risiede l'elemento differenziale tra il reato di cui si discute e quelli di cui agli artt. 96 e 97 T.U. delle leggi elettorali, approvato con d.P.R. n. 361 del 1957.

In continuità con il consolidato orientamento antecedente alla novella del 2014 (ex multis, Sez. I, 14 gennaio 2004, n. 3859, P. M. in proc. Milella, Rv. 227476; Sez. II, 5 giugno 2012, n. 23186, P.G. in proc. Costa, Rv. 252843), la Corte giunge così ad affermare che, ai fini della configurazione della fattispecie, è sufficiente che la promessa provenga da un sodalizio, la cui natura sia tale da determinare la percezione esterna delle successive indicazioni di voto come provenienti dal clan e sorrette, pertanto, dalla forza intimidatrice del vincolo associativo.

A differenza, dunque, della sentenza "Antinoro", che aveva elevato ad elemento costitutivo del reato l'esplicitazione nell'accordo dell'impegno del gruppo mafioso ad operare secondo le tipiche modalità previste dal richiamato terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen., nella pronunzia ora in esame si ritiene sufficiente per la configurazione del delitto che la promessa di voti provenga (direttamente o indirettamente) da un sodalizio, la cui azione sia percepita nel territorio sostenuta dalla forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva (art. 416-bis comma terzo).

Dall'attualità che i giudici della "Polizzi" riconoscono alle richiamate affermazioni in diritto, sembra poter desumersi il principio secondo cui, sul piano dell'elemento materiale e più precisamente della porzione di condotta ascrivibile al promittente voti, la nuova formulazione dell'art. 416-ter cod. pen. nulla ha aggiunto o modificato rispetto al testo previgente.

In definitiva, le due pronunzie sin ora intervenute in materia di 416-ter (nuova formulazione) convergono nella ricostruzione della natura e della struttura della fattispecie (configurata, ora al pari che nella originaria formulazione, come reato di pericolo, che si consuma al momento della stipula dell'accordo); convergono altresì sulla necessità che l'accordo sia qualificato (non differenziandosi altrimenti la fattispecie da quella ordinaria punita dall'art. 96 d.P.R. 361/57); divergono, invece, sui termini in cui detta qualificazione si concretizzerebbe, in quanto secondo la "Antinoro" sarebbe necessaria l'esplicitazione alla stipula del patto delle modalità esecutive di procacciamento dei voti, che, invece, secondo i giudici della "Polizzi" possono desumersi implicitamente dalla serietà del patto; conseguentemente sotto il profilo intertemporale la successioni di leggi avrebbe determinato, secondo la "Antinoro", una parziale abolitio criminis, rientrante nell'ipotesi di cui all'art. 2, comma 2, cod. pen.; secondo la "Polizzi", invece, una semplice modificazione della disciplina, che troverebbe regolamentazione ai commi 3 e 4 dell'art. 2 cit., con applicazione della nuova previsione, da considerarsi più favorevole in ragione dell'attenuato regime edittale.

  • mafia

CAPITOLO XII

AGGRAVANTE DELL'ART. 7 DEL D.L. 152/1991 E CONDOTTE AGEVOLATIVE DELLA LATITANZA DEI MAFIOSI

(di Luigi Barone )

Sommario

1 Inquadramento della questione controversa. - 2 L'orientamento favorevole alla configurazione dell'aggravante mafiosa sulla sola base dell'aiuto fornito al capo clan. - 3 L'orientamento contrario. - 4 Una nuova recente soluzione interpretativa.

1. Inquadramento della questione controversa.

Il tema in oggetto riguarda la possibilità di configurare l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 203 del 1991 unicamente sulla base della accertata condotta volta a favorire la latitanza di un personaggio di spicco di un'organizzazione mafiosa e presuppone evidentemente il principio di diritto sostanziale, ormai pacifico nell'insegnamento della Suprema Corte, secondo cui sussiste, in via teorica, piena compatibilità tra l'aggravante suindicata e quella di cui all'art. 378, comma secondo, cod. pen., avente natura oggettiva, configurabile nell'ipotesi in cui l'aiuto sia prestato a soggetto che ha commesso il delitto previsto dall'art. 416bis cod. pen. (cfr. al riguardo Sez. VI, 10 giugno 2005, n. 35680, Patti, Rv. 232577; Sez. V, 24 giugno 2009, n. 41063, C. ed altri, Rv. 245386; Sez. V, 14 ottobre 2009, n. 16556, Virruso e altri, Rv. 246952).

Sul versante della concreta applicabilità dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa in ipotesi di favoreggiamento, si registra, invece, ormai da anni, un contrasto di orientamenti, in seno alla giurisprudenza di legittimità, già segnalato, peraltro, dall'Ufficio del Massimario nella relazione di contrasto n. 39/2004 ed in quella di orientamento n. 70/2014).

2. L'orientamento favorevole alla configurazione dell'aggravante mafiosa sulla sola base dell'aiuto fornito al capo clan.

Un primo indirizzo esegetico, cui nell'ultimo anno si è conformata Sez. II, 12 febbraio 2014, n. 15082, Cuttone, Rv. 259558, sostiene che nell'ipotesi di favoreggiamento personale sussiste l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. cit., qualora la condotta favoreggiatrice, diretta ad aiutare taluno a sottrarsi alle ricerche dell'Autorità, sia posta in essere a vantaggio del capo clan, operante in un ambito territoriale, nel quale la sua notorietà si presuma diffusa; ciò in quanto l'azione anzidetta, sotto il profilo oggettivo, concretizza un aiuto all'associazione, la cui operatività sarebbe compromessa dall'arresto dell'apice dirigenziale, mentre, sotto il profilo soggettivo, sarebbe sorretta dalla consapevolezza e dall'intenzione che, tramite l'aiuto prestato al capo mafia, si favorisca anche l'associazione.

Sulla medesima linea interpretativa si collocano, tra gli arresti della Suprema Corte maggiormente significativi:

Sez. II, 26 maggio 2011, n. 26589, Laudicina, Rv. 251000, secondo la quale l'aggravante dell'agevolazione mafiosa ricorre quando l'attività dell'agente sia diretta in favore delle risorse personali o materiali della organizzazione stessa, agevolandone, così, in tutto o anche solo in parte, l'attività o il suo mantenimento funzionale; di conseguenza, l'aver favorito la latitanza di "elementi di assoluto spicco" di una determinata cosca mafiosa, non può che integrare i requisiti della suddetta aggravante, proprio perché, avendo contribuito alla preservazione del vertice, quell'attività finisce per favorire l'intera associazione criminale.

Sez. V, 30 novembre 2010 (dep. 2011), n. 6199, Mazzola e altri, Rv. 249297, che ha applicato il principio di cui sopra in una fattispecie, nella quale i favoreggiatori avevano ospitato, per rilevanti periodi di tempo, presso immobili di loro pertinenza, esponenti di spicco di "Cosa Nostra", favorendone così la latitanza.

Sez. V, 24 giugno 2009, n. 41063, C ed altri, Rv. 243386, che ha evidenziato la sussistenza dell'aggravante di cui art. 7 d.l. cit., nell'ipotesi in cui "l'aiuto al capo per dirigere da latitante l'associazione concretizzi un aiuto all'associazione, la cui operatività sarebbe compromessa dal suo arresto, mentre, sotto il profilo soggettivo, non può revocarsi in dubbio l'intenzione del favoreggiatore di favorire anche l'associazione allorché risulti che abbia prestato consapevolmente aiuto al capomafia" (negli stessi termini si veda anche Sez. V, 6 ottobre 2004, n. 43443, Monteriso, Rv. 229786).

Sez. V, 5 marzo 2013, n. 17979, Iamonte e altri, Rv. 255517, che, pur soffermandosi su una fattispecie relativa ad una diversa tipologia di reato (estorsione), ha ribadito la validità dell'automatismo, secondo cui l'aiuto fornito al "capo" si concretizza in agevolazione anche dell'associazione stessa, di talché la posizione di vertice del "favorito", se operante in un ambito territoriale nel quale la sua notorietà si presume diffusa, finisce per essere elemento valido e sufficiente ai fini della sussistenza della aggravante in questione.

Sez. VI, 2 luglio 2014, n. 45065, Bidognetti ed altri, Rv. 260834-839, ha ritenuto applicabile l'aggravante dell'art. 7 cit. in una fattispecie di rapina di un'autovettura, finalizzata a favorire la latitanza del soggetto apicale di un sodalizio mafioso, che avrebbe in tal modo potuto utilizzare il mezzo per l'eventuale fuga. Anche in questa circostanza, la Corte ha osservato che l'azione criminosa, pur sostanziandosi nell'apporto ad un singolo per la conservazione del relativo ruolo di vertice e di guida della consorteria, si traduce di fatto in un contributo all'organizzazione criminale, la cui sopravvivenza ed affermazione sono direttamente riconducibili all'azione guida e di iniziativa del capo.

In definitiva, secondo questa prima opzione interpretativa, innanzi all'accertato aiuto prestato ad un esponente di spicco di una organizzazione mafiosa, per favorirne la latitanza, si configura automaticamente l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. cit. sia sul piano oggettivo, stante il beneficio che ne deriva all'associazione nel permanere di un proprio leader in stato di libertà, sia sotto il profilo soggettivo, stante la sicura rappresentazione da parte del favoreggiatore di agevolare il clan attraverso la preservazione del ruolo dirigenziale del latitante.

3. L'orientamento contrario.

All'indirizzo appena esaminato, se ne contrappone altro, cui negli anni si sono conformate un numero non inferiore di pronunzie della Suprema Corte, secondo il quale sarebbe da escludere quell'automatismo di cui si è detto sopra, in quanto il fatto di favorire la latitanza di un personaggio di vertice di un'associazione mafiosa non può valere a determinare, in ragione solo dell'importanza di questi all'interno dell'associazione e del predominio esercitato dal sodalizio sul territorio, la sussistenza dell'aggravante, dovendosi, piuttosto, distinguere l'aiuto prestato alla persona da quello offerto all'associazione, di guisa che il primo potrà rilevare ai fini dell'aggravante in esame, solo quando si accerti la oggettiva funzionalità della condotta di aiuto al capomafia rispetto all'agevolazione dell'attività riconducibile alla relativa organizzazione criminale.

In questi termini, risultano orientate: Sez. VI, 27 ottobre 2005, n. 41261, Turco, Rv. 232766; Sez. VI, 8 novembre 2007 (dep. 2008), n. 294, Volpe, Rv. 238399 (ambedue relative a fattispecie in materia di favoreggiamento personale); Sez. VI, 28 febbraio 2008, n. 13457, Sirignano, Rv. 239412 e Sez. VI, 11 febbraio 2008, n. 19300, Caliendo, Rv. 239556 (relative entrambe a fattispecie in tema di procurata inosservanza di pena).

Ciò che, in buona sostanza, in questo secondo gruppo di pronunzie, non si condivide, rispetto ai contrapposti arresti, è la tesi fondata sull'automatismo valutativo, che ritiene provata la sussistenza dell'aggravante in questione, sulla base della semplice presunzione che la protezione della latitanza di un personaggio di vertice del sodalizio criminoso avrebbe diretta influenza sull'esistenza del medesimo organismo, che, privato del capo, verrebbe a subire una crisi funzionale.

Al contrario, si sostiene, qui, che l'aggravante in esame ricorre soltanto nel caso in cui si accerti il nesso teleologico tra l'azione in favore del personaggio mafioso di spicco ed il potenziale vantaggio che ne possa derivare all'organizzazione criminale.

In epoca recentissima, questa seconda opzione esegetica ha trovato seguito in Sez. V, 22 novembre 2013 (dep. 2014), n. 4037, B. e altro, Rv. 258868, che, pur in relazione a reati di falso, ha ritenuto necessaria, ai fini della sussistenza dell'aggravante in questione, la verifica in concreto dell'effettiva ed immediata coincidenza degli interessi del capomafia con quelli dell'organizzazione e, proprio in applicazione di tale principio, la Corte ha escluso che la circostanza aggravante potesse essere ravvisata in relazione ad una serie di falsificazioni di atti, complessivamente preordinate a consentire il riconoscimento della paternità ad un soggetto latitante, censurando la validità di una argomentazione fondata solo sulla posizione apicale ricoperta dal "favorito" nella consorteria mafiosa di appartenenza, atteso che la condotta risultava diretta esclusivamente a sottrarre il predetto al rischio della personale sua esposizione negli uffici comunali.

4. Una nuova recente soluzione interpretativa.

Il tema di cui si dibatte, risulta, da ultimo, affrontato dalla sesta sezione (10 dicembre 2013 - dep. 2014, n. 9735, Megale, Rv. 259106), la quale, soffermandosi sulla apparente insuperabile contrapposizione dei due orientamenti affermatisi negli anni, ne stempera i profili di effettiva divergenza ed offre una autonoma soluzione esegetica, che della questione distingue il piano sostanziale da quello probatorio.

Nello specifico, la Corte rileva che i contrastanti indirizzi giurisprudenziali, non disconoscono, entrambi, la necessità che una condotta di favoreggiamento (quale che sia la posizione associativa del favorito), affinché possa dirsi aggravata a norma dell'art. 7 d.l. cit., valga oggettivamente ad agevolare anche l'attività dell'organizzazione mafiosa di riferimento e che di tale obiettiva funzionalità l'agente sia consapevole.

Questo comune dato di partenza non consente, tuttavia, di individuare un criterio valutativo unico, valido per tutte le fattispecie, in quanto la questione in esame costituisce, a dire della Corte, un tipico caso ove non sempre è agevole distinguere l'opzione interpretativa, della cui correttezza si discute in sede di legittimità, dalla regola di esperienza che può governare l'identificazione di aspetti rilevanti del fatto.

E così, per esemplificare, se non si può dubitare che il prolungato ed indispensabile sostegno alla latitanza di un capo si risolve in condizione indispensabile per l'esercizio della sua funzione direttiva e, dunque, in un ausilio per l'attività dell'organizzazione; di contro, un contributo episodico, magari pertinente ad aspetti personali della vita del favorito, potrebbe essere considerato in senso opposto.

L'arresto in esame non prende, dunque, posizione a favore né del primo né del secondo dei due indirizzi esegetici sopra esaminati e risolve la questione affermando il principio generale, secondo cui per la configurabilità nel reato di favoreggiamento dell'aggravante speciale di cui all'art. 7 d.l. cit. è necessario - quale che sia la posizione associativa del favorito - che la condotta valga oggettivamente ad agevolare anche l'attività dell'associazione mafiosa di riferimento e che di tale obiettiva funzionalità l'agente sia consapevole; demandando, poi, alla valutazione del caso concreto, la verifica della funzionalità della condotta di favoreggiamento rispetto alla agevolazione dell'attività del sodalizio, potendo soccorrere, in questo caso, nel ragionamento probatorio del giudice, taluni criteri, quali il ruolo direttivo eventualmente svolto dal soggetto favorito e la natura della prestazione offerta dall'agente.

  • diritto di soggiorno

CAPITOLO XIII

UN CASO DI VIOLAZIONE DELL'OBBLIGO DI SOGGIORNO

(di Maria Meloni )

Sommario

1 Violazione dell'obbligo di esibizione della carta di permanenza da parte della persona sottoposta a sorveglianza speciale. - 2 La soluzione delle Sezioni unite.

1. Violazione dell'obbligo di esibizione della carta di permanenza da parte della persona sottoposta a sorveglianza speciale.

Le Sezioni Unite penali - Sez. Un. 29 maggio 2014, n. 32923, PG in proc. Sinigaglia, Rv. 260019 - hanno affermato il principio di diritto così massimato da quest'Ufficio: "In tema di misure di prevenzione, la condotta del soggetto, sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, che ometta di portare con sé e di esibire, agli agenti che ne facciano richiesta, la carta di permanenza di cui all'art. 5, ultimo comma, della legge n. 1423 del 1956 (attualmente art. 8 D.Lgs. n. 159 del 2011), integra la contravvenzione prevista dall'art. 650 cod. pen. - e non il delitto di cui all'art. 9, comma 2, della legge n. 1423 del 1956 (attualmente art. 75, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 2011) - perché costituisce inosservanza di un provvedimento della competente autorità per ragioni di sicurezza e di ordine pubblico, preordinato soltanto a rendere più agevole l'operato delle forze di polizia".

La questione era dibattuta nella giurisprudenza di legittimità, al cui interno si confrontavano due diversi indirizzi ermeneutici, i quali richiedono, ai fini di una corretta lettura, un rapido cenno al travagliato excursus normativo in materia.

Fino all'entrata in vigore della legge 13 settembre 1982, n. 646 l'inosservanza del divieto o dell'obbligo di soggiorno costituiva contravvenzione. Con la legge n. 646 del 1982 venne introdotta la distinzione tra la violazione degli obblighi, qualificata come delitto, e la violazione delle prescrizioni inerenti agli obblighi, integrante una contravvenzione. Questa distinzione, ribadita con il decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356, non venne tuttavia riproposta con il decreto legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito con modificazioni dalla legge n. 155 del 2005, in quanto l'art. 9, comma 2, unifica per i sorvegliati speciali con obbligo o divieto di soggiorno, la violazione degli obblighi e quella delle prescrizioni, sanzionandole con la pena della reclusione da uno a cinque anni, e ricomprendendole, pertanto, entrambe nell'ambito dei delitti.

La disciplina in esame è stata poi trasfusa nell'art. 75 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. codice antimafia) che riproduce il contenuto dell'art. 9 come modificato dalla legge n. 155 del 2005, con la conseguenza che l'art. 75, comma 2, sanziona con la reclusione la violazione degli obblighi e delle prescrizioni poste in essere dal sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno; mentre l'art. 75, comma 1, (come già l'art. 9, comma 1) prevede l'arresto da tre mesi a un anno per il sorvegliato speciale senza obbligo di soggiorno.

La novità venne colta, già all'indomani dell'entrata in vigore della legge n. 155 del 2005, dalla giurisprudenza dominante, la quale afferma che "il reato di violazione agli obblighi imposti al sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno è stato diversamente qualificato dal d.l. 25 luglio 2005, n. 144, convertito dalla L. 31 luglio 2005, n. 155, nel senso che la violazione di un qualunque obbligo, anche diverso dal divieto di recarsi fuori del comune del soggiorno, integra l'ipotesi delittuosa e non già come previsto in precedenza, quella contravvenzionale" (così Sez. I, 21 dicembre 2005, n. 1485/2006, Manno, Rv. 233436; Sez. I, 13 dicembre 2006, n. 2217/2007, Laurendino, Rv. 235899; Sez. I, 6 novembre 2008, n. 47766, Lungari, Rv. 242748). Il superamento della distinzione tra la violazione degli obblighi e quella delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno, ricondotte e unificate nell'area della fattispecie delittuosa sanzionata dall'art. 9, comma 2, L. n. 155 del 2005 (ora integralmente trasfuso nell'art. 75, comma 2°, del D.Lgs. n. 159 del 2011), porta la giurisprudenza dominante ad affermare, quale ulteriore corollario, che anche la violazione dell'obbligo, imposto al sorvegliato speciale c.d. qualificato (o con obbligo di soggiorno) di portare con sé e di esibire, agli agenti che ne facciano richiesta, la carta di permanenza o carta precettiva configura un delitto, sanzionato anch'esso dal predetto art. 9, comma 2, L. n. 155 del 2005. In tal senso si pronunciano le sentenze Sez. I, 21 dicembre 2005, n. 1485/2006, Manno, Rv. 233436, cit.; Sez. I, 21 ottobre 2009, n. 42874, Abate, Rv. 245302; Sez. I, 18 giugno 2013, n. 35567, Sangiorgio, Rv. 257014; Sez. I, 5 dicembre 2011, 1366/2012, Nicolosi, Rv. 251673; Sez. I, 7 aprile 2011, n. 21210, C.G.N.

Secondo un diverso orientamento, rappresentato da Sez. VI, 7 luglio 2003, n. 36787, Comberiati, Rv. 226337, la condotta del sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno, consistente nell'omessa esibizione della carta di permanenza può essere ricondotta alla fattispecie di cui all'art. 650 cod. pen., trattandosi di violazione "distinta da tutte le altre e non … espressamente sanzionata" e, pertanto, estranea all'ambito di operatività dell'art. 9 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423; conclusione che, secondo la sentenza Comberiati, si impone alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata, pertanto, rispettosa del principio di proporzionalità. Nello stesso senso conclude Sez. I, 18 ottobre 2011, n. 2648/2012, Labonia Rv. 251822, in cui si afferma che "integra la contravvenzione prevista dall'art. 650 cod. pen. 1a violazione dell'obbligo, da parte della persona sottoposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, di portare con sé la carta di permanenza".

2. La soluzione delle Sezioni unite.

Le Sezioni Unite ritengono corrette le conclusioni cui perviene l'orientamento minoritario, pur con alcune precisazioni che meglio ne evidenziano il fondamento.

Il punto di partenza è la distinzione delle generiche prescrizioni rientranti nell'ambito previsionale dell'art. 5 della legge n. 1423 del 1956 (ora interamente trasfuso nell'art. 8 del D.Lgs. n. 159 del 2011), le quali, almeno per una parte della giurisprudenza di legittimità, a partire da quella più risalente "non sono tutte idonee ad integrare la condotta punibile ai sensi dell'art. 9 della stessa legge", essendo tali "solo quelle che si risolvono nella vanificazione sostanziale della misura imposta" (in tal senso, Sez. I, 20 marzo 1985, n. 793, De Silva, Rv. 170592, sia pure in sede di obiter).

L'analisi testuale dell'art. 5 della legge n. 1423 del 1956 rivela, infatti, che esso elenca gli obblighi imposti al sorvegliato semplice o senza obbligo di soggiorno e al sorvegliato qualificato o con obbligo di soggiorno e che detta elencazione "si chiude … con il comma sesto". Pertanto, la previsione di cui al comma settimo - statuendo che alle persone di cui al comma sesto (i sorvegliati qualificati) è consegnata una carta di permanenza, da portare con sé e da esibire ad ogni richiesta degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza - non rientra nell'orbita degli obblighi né in quella delle prescrizioni ma costituisce "una norma organizzativa, con la quale viene indicata una modalità esecutiva … diretta (a differenza delle prescrizioni di cui ai commi precedenti), in primis, non al sorvegliato, ma all'ufficio, che deve confezionare e consegnare il documento", cui "consegue per il sorvegliato l'obbligo di portarlo con sé e di mostrarlo, quando richiestone, da chi ne ha titolo". Ulteriore svolgimento di questa impostazione è che la sanzione di cui all'art. 9, comma 2, applicabile indistintamente alla violazione di obblighi e prescrizioni, entrambi, come già detto, sanzionati con la reclusione e, pertanto, qualificati delitti, "non appare collegata ad un facere dell'ufficio … ma unicamente alle condotte direttamente ascrivibili al soggetto, vale a dire quelle di cui ai commi precedenti rispetto a quello che prevede la consegna della carta di permanenza".

Esclusa, quindi, l'operatività della sanzione di cui all'art. 9, comma 2, nella specie, le Sezioni Unite si allineano con la giurisprudenza minoritaria configurando la condotta di omessa esibizione della carta di permanenza o carta precettiva come una contravvenzione, posto che, comunque, si è davanti ad "un provvedimento della competente autorità", di guisa che "il vincolo comportamentale che viene (indubbiamente per ragioni di sicurezza ed ordine pubblici) imposto al soggetto sottoposto a sorveglianza non può non essere presidiato dalla sanzione contravvenzionale di cui all'art. 650 cod. pen. ".

A queste conclusioni il supremo consesso nomofilatttico perviene sulla base di due criteri guida, il principio di offensività, ex art. 13 e 25 Cost. e il principio di proporzionalità, ex art. 3, comma 1, Cost. e 27, comma 3, Cost..

Il principio di offensività - alla luce del quale deve essere letta la condotta del sorvegliato che non si conformi alle direttive impartitegli dalla competente autorità - esige che si tratti "di condotte eloquenti, in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all'obbligo o al divieto di soggiorno, vale a dire alle significative misure che detto obbligo o divieto accompagnano, caratterizzano o connotano, misure la cui elusione comporterebbe quella sostanziale vanificazione" dell'obbligo o del divieto di soggiorno, come già affermato dalla sentenza De Silva. Corollario di questo principio è l'affermazione delle Sezioni Unite secondo cui "il porto e l'eventuale esibizione della carta di permanenza, benché condotte doverose, non costituiscono un obbligo nel senso dell'art. 9, comma secondo, della legge 1423 del 1956 come successivamente modificata (l'obbligo è quello di soggiornare o non soggiornare in un determinato luogo)". Nemmeno costituiscono una prescrizione "perché non si traducono né in una restrizione (spaziale o temporale) della libertà di circolazione, né nell'impegno di assumere l'habitus del bonus civis, con una stabile dimora e un onesto lavoro".

Quid iuris, allora? Con il supporto dell'interpretazione teleologica le Sezioni Unite affermano che la disposizione che contempla la condotta del porto e dell'esibizione della carta di permanenza è preordinata "a rendere più agevole l'operato delle forze di polizia", trattandosi "di una sorta di cooperazione forzosa del controllato con i suoi controllori, i quali, per altro, in considerazione della diffusione - ormai massiccia - delle moderne tecnologie informatiche di comunicazione, hanno ben altri mezzi per verificare in tempo reale identità, precedenti penali e giudiziari del soggetto che intendono controllare, nonché la esistenza di eventuali prescrizioni e vincoli sullo stesso gravanti". In altri termini, ed è quel che importa rilevare, si tratta di condotta che non comportando alcuna sostanziale vanificazione dell'obbligo principale imposto al sorvegliato speciale qualificato, non irrompe nell'area sanzionatoria dell'art. 9, comma 2, più volte richiamato, collocandosi in una zona distante dall'area dell'obbligo principale, se si vuole "di cornice", meramente accessoria e pertanto, presidiata da una sanzione ad essa estranea.

Conclusioni che si rendono necessarie anche alla luce del principio di proporzionalità, ex art. 3, comma 1, Cost., sotto il profilo del principio di eguaglianza-ragionevolezza, il quale "non consente, in sede ermeneutica, di equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a un soggetto 'qualificatamente' pericoloso".

Infine, le Sezioni Unite evidenziano che "la correttezza della conclusione così raggiunta trova riscontro, a contrario, nell'esame della giurisprudenza maggioritaria" che, pur qualificando come delitto la fattispecie in esame, ha incoerentemente confermato decisioni dei giudici di merito sulla responsabilità del sorvegliato per omesso porto della carta di permanenza "sulla base della semplice condotta, senza adeguata valutazione dell'elemento soggettivo", come nei casi di mancata esibizione del documento in questione dovuta a mera dimenticanza o trascuratezza, e, quindi, in ragione di un atteggiamento squisitamente colposo, senza considerare, da un lato, che "se fosse delitto, non essendo espressamente prevista l'ipotesi colposa, il dolo deve essere puntualmente provato" e, dall'altro, senza considerare, vulnerando così il principio di proporzionalità delle pene, che trattandosi di "una condotta omissiva certamente bagatellare … sarebbe del tutto sproporzionato punire detta omissione con una pena detentiva".

  • responsabilità
  • sequestro di beni
  • confisca di beni
  • reato colposo

CAPITOLO XIV

LA RESPONSABILITÀ DA REATO DEGLI ENTI

(di Pietro Silvestri )

Sommario

1 Premessa. - 2 I principi fissati dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nel processo "Thyssen": sulla natura giuridica della responsabilità dell'ente e sulla compatibilità del sistema con i principi costituzionali. - 3 Sui criteri di imputazione oggettivi del reato della persona fisica all'ente. - 4 Sui criteri di imputazione oggettivi del reato colposo di evento all'ente. - 5 Le altre questioni trattate dalla Corte di cassazione: sui presupposti del sequestro finalizzato alla confisca. - 6 Sulla nozione di profitto confiscabile. - 7 Sui rapporti tra sequestro finalizzato alla confisca in danno di un ente e procedure concorsuali. - 8 Responsabilità da reato degli enti e sospensione condizionale della pena. - 9 Reato presupposto commesso da soggetti in posizione apicale ed elusione fraudolenta dei modelli organizzativi e di gestione. - 10 Revoca delle misure cautelari interdittive e avvenuta esecuzione delle condotte riparatorie.

1. Premessa.

In questa parte della Rassegna, si farà riferimento alle pronunce della Corte di cassazione, anche a Sezioni unite, emesse in tema di responsabilità da reato degli enti, delle quali non si è in precedenza detto allorchè si sono affrontati i temi della confisca diretta del profitto e del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente.

2. I principi fissati dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nel processo "Thyssen": sulla natura giuridica della responsabilità dell'ente e sulla compatibilità del sistema con i principi costituzionali.

Nel corso del 2014 le Sezioni unite della Corte di cassazione nell'ambito del processo per i fatti tragici della "Thyssen" sono intervenute sul tema affrontando e risolvendo, anche per la prima volta, numerose questioni giuridiche di indubbio rilievo (Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343, Imp., PG., R.C., Espenhanhn e altri, Rv. 261112-113-114-115-116-117).

Quanto alla natura giuridica della responsabilità dell'ente, la Corte, dopo aver richiamato l'orientamento dottrinario secondo cui il sistema normativo delineato dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 configurerebbe una responsabilità di tipo amministrativo, in aderenza, del resto, all'intestazione della normativa, nonché l'indirizzo che ravvisa una responsabilità sostanzialmente di tipo penale, ovvero, le tesi che fanno riferimento ad un tertium genus, ha ricostruito la giurisprudenza che si è pronunciata sul tema.

La sentenza ha evidenziato, in particolare, come anche in giurisprudenza si riscontrino indirizzi diversi.

Secondo una prima impostazione, recepita - sia pure solo incidentalmente - dalle stesse Sezioni unite della Corte, la responsabilità da reato dell'ente avrebbe natura amministrativa (Sez. Un., 23 gennaio 2011, n. 34476, Deloitte, Rv. 250347; Sez. un, 30 gennaio 2014, n. 10561, Gubert, Rv. 258647; Sez. VI, 25 gennaio 2013, n. 21192, Barla, Rv. 255369; Sez. IV, 25 giugno 2013, n. 42503, Ciacci, Rv. 257126).

Un'altra sentenza delle Sezioni unite sembrava, invece, orientata in senso diverso, cioè a riconoscere natura penale alla responsabilità degli enti. (Sez. Un., 27 marzo 2008, n. 26654, Fisia Italimpianti, Rv. 239922-923-924-925-926-927).

In tale sentenza le Sezioni unite rimarcarono l'architettura normativa complessa del nuovo istituto, che segna l'introduzione nel nostro ordinamento di uno specifico ed innovativo sistema punitivo per gli enti collettivi, dotato di apposite regole quanto alla struttura dell'illecito, all'apparato sanzionatorio, alla responsabilità patrimoniale, alle vicende modificative dell'ente, al procedimento di cognizione e a quello di esecuzione, il tutto finalizzato ad integrare un efficace strumento di controllo sociale.

Nella occasione la Corte evidenziò come:

- la responsabilità della persona giuridica sia aggiuntiva e non sostitutiva rispetto a quella delle persone fisiche, che resta regolata dal diritto penale comune;

- il criterio d'imputazione del fatto all'ente sia la commissione del reato "a vantaggio" o "nell'interesse" del medesimo da parte di determinate categorie di soggetti e come, quindi, vi sia una convergenza di responsabilità, nel senso che il fatto della persona fisica, cui è riconnessa la responsabilità anche della persona giuridica, deve essere considerato "fatto" di entrambe, per entrambe antigiuridico e colpevole, con l'effetto che l'assoggettamento a sanzione sia della persona fisica che di quella giuridica s'inquadra nel paradigma penalistico della responsabilità concorsuale;

- pur avendo la responsabilità dell'ente una sua autonomia, sia imprescindibile il suo collegamento alla oggettiva realizzazione del reato, integrato in tutti gli elementi strutturali che ne fondano lo specifico disvalore, da parte di un soggetto fisico qualificato (Nello stesso senso, Sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615, D'Azzo, Rv. 232957).

Altro filone della giurisprudenza (Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735, Scarafia, Rv. 247665-666; Sez. VI, 9 luglio 2009, n. 36083, Mussoni, Rv. 244256) ha ritenuto, invece, che il D.Lgs. n. 231 del 2001 abbia introdotto un "tertium genus" di responsabilità rispetto ai sistemi tradizionali di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa, prevedendo un'autonoma responsabilità dell'ente in caso di commissione, nel suo interesse o a suo vantaggio, di uno dei reati espressamente elencati da parte un soggetto che riveste una posizione apicale, sul presupposto che il fatto-reato "è fatto della società, di cui essa deve rispondere".

Ciò detto, le Sezioni unite della Corte - con la sentenza "Thyssen" - hanno considerato il sistema previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001 come un "corpus" normativo di peculiare impronta, un "tertium genus" che coniuga i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo - nel tentativo di contemperare le ragioni dell'efficienza preventiva con quelle della massima garanzia- e che si rivela del tutto compatibile con i principi costituzionali.

La Corte ha innanzitutto escluso che il sistema delineato dal D.Lgs. n. 231 del 2001 violi il principio della responsabilità per fatto proprio atteso che "Il reato commesso dal soggetto inserito nella compagine dell'ente, in vista del perseguimento dell'interesse o del vantaggio di questo, è sicuramente qualificabile come "proprio" anche della persona giuridica, e ciò in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega il primo alla seconda: la persona fisica che opera nell'ambito delle sue competenze societarie, nell'interesse dell'ente, agisce come organo e non come soggetto da questo distinto; né la degenerazione di tale attività funzionale in illecito penale è di ostacolo all'immedesimazione (in tal senso, particolarmente, Sez. 6, Scarafia, cit.).

Sotto altro profilo, la Corte ha escluso che il sistema violi il principio costituzionale di colpevolezza, considerato alla stregua delle peculiarità della fattispecie, strutturalmente diversa da quella che si configura quando oggetto dell'indagine sulla riprovevolezza è direttamente una condotta umana.

Sul punto, la Corte ha evidenziato come nel sistema normativo in esame il rimprovero riguardi l'ente e non il soggetto, che per esso ha agito, e ciò in particolar modo quando l'illecito presupposto sia colposo, presentando la stessa colpa connotati squisitamente normativi che ne segnano il disvalore.

Sulla base di tali considerazioni le Sezioni unite hanno ricostruito il contenuto della c.d. colpa di organizzazione:

"Si deve considerare che il legislatore, orientato dalla consapevolezza delle connotazioni criminologiche degli illeciti ispirati da organizzazioni complesse, ha inteso imporre a tali organismi l'obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati, adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale. Tali accorgimenti vanno consacrati in un documento, un modello che individua i rischi e delinea la misure atte a contrastarli. Non aver ottemperato a tale obbligo fonda il rimprovero, la colpa d'organizzazione".

Ed ancora, con specifico riferimento alla prova della responsabilità dell'ente:

"la responsabilità dell'ente si fonda sulla indicata colpa di organizzazione. Il riscontro di tale deficit organizzativo consente la piana ed agevole imputazione all'ente dell'illecito penale. Grava sull'accusa l'onere di dimostrare l'esistenza dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell'interesse di questa; tale accertata responsabilità si estende "per rimbalzo" dall'individuo all'ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno all'interesse dell'altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell'ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo ente. … militano a favore dell'ente, con effetti liberatori, le previsioni probatorie di segno contrario di cui al D.Lgs. n. 231, art. 6, afferenti alla dimostrazione di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Nessuna inversione dell'onere della prova è, pertanto, ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato dell'ente, gravando comunque sull'accusa la dimostrazione della commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui al D.Lgs. n. 231, art. 5, e la carente regolamentazione interna dell'ente, che ha ampia facoltà di offrire prova liberatoria".

Sotto ulteriore profilo, analoghe considerazioni sono state compiute dalla Corte in ordine alla compatibilità del sistema afferente la responsabilità degli enti con il principio di determinatezza della fattispecie, essendo l'obbligo organizzativo e gestionale imposto all'ente è ben delineato dalla normativa.

3. Sui criteri di imputazione oggettivi del reato della persona fisica all'ente.

Con la stessa sentenza "Thyssen" la Corte ha affermato rilevanti principi anche per quel che concerne i criteri di imputazione oggettivi dell'illecito all'ente, con particolare riguardo ai reati colposi di evento.

L'art. 5 del D.Lgs. n. 231 del 2001 detta la regola d'imputazione oggettiva dei reati all'ente: si richiede che essi siano commessi nel suo interesse o vantaggio.

La L. 3 agosto 2007, n. 123, art. 9, ha introdotto nella normativa l'art. 25-septies, che ha esteso l'ambito applicativo della disciplina ai reati di omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime, commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

L'articolo in questione è stato successivamente riscritto dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 300, senza differenze rilevanti.

Secondo l'impostazione prevalente, ispirata anche dalla Relazione governativa al D.Lgs., i due criteri d'imputazione dell'interesse e del vantaggio si porrebbero tra loro in rapporto di alternatività, come confermato dalla congiunzione disgiuntiva "o" presente nel testo della disposizione.

Si ritiene che il criterio dell'interesse esprima una valutazione teleologia del reato, apprezzabile ex ante, al momento della commissione del fatto, e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre il criterio del vantaggio abbia una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito.

Secondo altra impostazione, i due criteri avrebbero, invece, natura unitaria: il criterio d'imputazione sarebbe costituito dall'interesse, mentre il vantaggio potrebbe al più rivestire un ruolo strumentale, probatorio, volto alla dimostrazione dell'esistenza dell'interesse.

La tesi dualistica ha trovato accoglimento in giurisprudenza (Sez. II, 20 dicembre 2005, D'Azzo, Rv. 232957; Sez. V, 28 novembre 2013, n. 10265/14, Banca Italease s.p.a., Rv. 258577; Sez. VI, 22 maggio 2013, n. 24559, House Building s.p.a., Rv. 255442).

È utile richiamare il contenuto della motivazione di Sez. V, 28 novembre 2013, n. 10265/14, Banca Italease s.p.a., Rv. 258577, che a affrontato dettagliatamente il tema.

Nella occasione la Corte di cassazione ha chiarito che:

- la formula normativa contenuta nell'art. 5 del D.Lgs. n. 231 del 2001 non contiene un'endiadi, perché i termini hanno riguardo a concetti giuridicamente diversi, potendosi distinguere un interesse "a monte" in funzione di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell'illecito, da un vantaggio obbiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato "ex ante", con la conseguenza che l'interesse ed il vantaggio devono ritenersi criteri imputativi concorrenti, ma alternativi (Sez. 2, n. 3615/06 del 20 dicembre 2005, D'Azzo, Rv. 232957). "In tal senso si è voluto dunque soprattutto respingere l'opinione, pur autorevolmente espressa, per cui i due vocaboli utilizzati dal legislatore sarebbero termini, per l'appunto, di una endiadi che additerebbe in realtà all'interprete un criterio ascrittivo unitario della responsabilità da reato, riducibile ad un "interesse" dell'ente inteso in senso obiettivo";

- se, infatti, non può sussistere dubbio alcuno circa il fatto che l'accertamento di un esclusivo interesse dell'autore del reato o di terzi alla sua consumazione impedisca di chiamare l'ente a rispondere dell'illecito amministrativo ex D.Lgs. n. 231 del 2001 (in questo senso, anche Sez. VI, 9 luglio 2009, n. 36083, Mussoni, Rv. 244256), ciò peraltro non significa che il criterio del vantaggio perda automaticamente di significato. Infatti, ai fini della configurabilità della responsabilità dell'ente, è sufficiente che venga provato che lo stesso abbia ricavato dal reato un vantaggio, anche quando non è stato possibile determinare l'effettivo interesse vantato ex ante alla consumazione dell'illecito e purché non sia, come detto, contestualmente stato accertato che quest'ultimo sia stato commesso nell'esclusivo interesse del suo autore persona fisica o di terzi;

- è corretto attribuire alla nozione di interesse accolta nel comma 1 dell'art. 5 una dimensione non propriamente od esclusivamente soggettiva, che determinerebbe una deriva "psicologica" nell'accertamento della fattispecie che, invero, non trova effettiva giustificazione nel dato normativo: la legge non richiede necessariamente che l'autore del reato abbia voluto perseguire l'interesse dell'ente perché sia configurabile la responsabilità di quest'ultimo, ne' è richiesto che lo stesso sia stato anche solo consapevole di realizzare tale interesse attraverso la propria condotta. "Per converso, la stessa previsione contenuta nell'art. 8, lett. a) del decreto - per cui la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è identificato o non è imputabile - e l'introduzione negli ultimi anni di ipotesi di responsabilità dell'ente per reati di natura colposa, sembrano negare una prospettiva di tal genere";

- il concetto di interesse mantiene una sua caratterizzazione oggettiva, evidenziata proprio dal disposto del comma 2 dell'art. 5, il che consente per l'appunto di conservare autonomia concettuale al termine "vantaggio", pure contemplato dalla norma menzionata tra i criteri ascrittivi della responsabilità. "In altri termini l'interesse dell'autore del reato può coincidere con quello dell'ente (rectius: la volontà dell'agente può essere quella di conseguire l'interesse dell'ente), ma la responsabilità dello stesso sussiste anche quando, perseguendo il proprio autonomo interesse, l'agente obiettivamente realizzi (rectius: la sua condotta illecita appaia ex ante in grado di realizzare, giacché rimane irrilevante che lo stesso effettivamente venga conseguito) anche quello dell'ente. In definitiva, perché possa ascriversi all'ente la responsabilità per il reato, è sufficiente che la condotta dell'autore di quest'ultimo tenda oggettiva mente e concretamente a realizzare, nella prospettiva del soggetto collettivo, "anche" l'interesse del medesimo" (in senso analogo, Sez. 5, n. 40380 del 26 aprile 2012, Sensi, Rv. 253355, in motivazione);

- le disposizioni menzionate, oltre a confermare che "interesse" e "vantaggio" sono termini che nel lessico normativo evocano concetti distinti, evidenziano in maniera inequivocabile che il reato presupposto può essere funzionale al soddisfacimento dell'interesse concorrente di una pluralità di soggetti, può, cioè, essere un interesse "misto".

- tale interpretazione non è contrastante con la previsione dell'art. 25-ter del D.Lgs. n. 231 che, a differenza del già citato comma 1 dell'art. 5, menziona il solo "interesse" quale criterio ascrittivo dell'illecito "L'art. 25-ter, infatti, è stato introdotto dalla riforma del diritto penale societario realizzata attraverso il D.Lgs. n. 61 del 2002, la cui Relazione, a proposito della disposizione in esame, espressamente precisa come la responsabilità degli enti collettivi per i reati societari sia stata configurata "nel rispetto dei principi contenuti nella L. 29 settembre 2000, n. 300 e nel D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231", ribadendo in tal modo l'identica direttiva contenuta nella legge delega del D.Lgs. n. 61 del 2002 (L. n. 366 del 2001, art. 11). E sì vero che proprio la legge delega per prima ha poi menzionato esclusivamente l'interesse per descrivere il contesto imputativo dell'illecito, ma proprio la premessa da cui il legislatore delegante ha preso le mosse evidenzia l'assenza della volontà di configurare all'interno del D.Lgs. n. 231 del 2001 una sorta di sottosistema dedicato alla responsabilità da reato societario governato da regole autonome rispetto a quelle dettate nella parte generale del decreto".

4. Sui criteri di imputazione oggettivi del reato colposo di evento all'ente.

L'art. 25-septies ha segnato l'ingresso dei delitti colposi nel catalogo dei reati costituenti presupposto della responsabilità degli enti, senza tuttavia modificare il criterio d'imputazione oggettiva, di cui si è detto, per adattarlo alla diversa struttura di tale categoria di illeciti.

È sorto il problema della compatibilità logica tra la non volontà dell'evento che caratterizza gli illeciti colposi ed il finalismo che è sotteso all'idea di interesse; nei reati colposi di evento sembra infatti difficilmente ipotizzabile un caso in cui l'evento lesivo corrisponda ad un interesse o vantaggio dell'ente.

Proprio tale singolare situazione ha indotto una parte della dottrina a ritenere che, in mancanza di un esplicito adeguamento normativo, la nuova, estensiva, disciplina sarebbe inapplicabile.

Le Sezioni unite con la sentenza "Thyssen" sono intervenute chiarendo che la tesi appena indicata condurrebbe alla radicale caducazione di un'innovazione normativa di grande rilievo, successivamente confermata dal D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121, col quale è stato introdotto nella disciplina legale l'art. 25-undecies, che ha esteso la responsabilità dell'ente a diversi reati ambientali.

Secondo la Corte, invece, nei reato colposi di evento i concetti di interesse e vantaggio devono necessariamente essere riferiti alla condotta e non "all'esito antigiuridico".

Tale soluzione, si aggiunge, "non determina alcuna difficoltà di carattere logico: è ben possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell'interesse dell'ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio. Il processo in esame ne costituisce una conferma. D'altra parte, tale soluzione interpretativa, oltre a essere logicamente obbligata e priva di risvolti intollerabili dal sistema, non ha nulla di realmente creativo, ma si limita ad adattare l'originario criterio d'imputazione al mutato quadro di riferimento, senza che i criteri d'ascrizione ne siano alterati. L'adeguamento riguarda solo l'oggetto della valutazione che, coglie non più l'evento bensì solo la condotta, in conformità alla diversa conformazione dell'illecito; e senza, quindi, alcun vulnus ai principi costituzionali dell'ordinamento penale. Tale soluzione non presenta incongruenze: è ben possibile che l'agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell'ente. A maggior ragione vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l'ente".

5. Le altre questioni trattate dalla Corte di cassazione: sui presupposti del sequestro finalizzato alla confisca.

Rinviando in generale a quanto detto nella parte riservata alla confisca diretta del profitto del reato, Sez. VI, 20 dicembre 2013, n. 2658/14, Saà e altri, Rv. 257791 ha ribadito il principio secondo cui l'applicazione del sequestro postula come indefettibile presupposto la domanda del pubblico ministero.

Quanto al "fumus", Sez. II, 16 settembre 2014, n. 41435, Assoc. Italiana Immigrati e altri, Rv. 260043, ha affermato che in tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, per il sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca, eventualmente anche per equivalente, e quindi, secondo il disposto dell'art. 19 D.Lgs. n. 231 del 2001, dei beni che costituiscono prezzo e profitto del reato, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il "periculum" richiesto per il sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma primo, cod. proc. pen., essendo sufficiente accertarne la confiscabilità una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato.

Si tratta di un principio non simmetrico con quanto ritenuto da Sez. VI, 31 maggio 2012, n. 34505, Codelfa S.p.a., Rv. 252929 secondo cui, invece, in tema di responsabilità da reato degli enti non sarebbe consentita una automatica trasposizione dei presupposti legittimanti il sequestro preventivo previsto dall'art. 321 cod. proc. pen., in quanto, nel caso dell'art. 53 del D.Lgs. n. 231 del 2001 il sequestro è direttamente funzionale ad anticipare, in via cautelare, la confisca di cui all'art. 19 del D.Lgs. cit. che è sanzione principale, obbligatoria e autonoma e, come tale, si differenzia non solo dalle altre ipotesi di confisca disciplinate dal codice penale e da leggi speciali, ma anche dalle altre tipologie di confisca cui si riferisce lo stesso D.Lgs. (ad esempio, negli artt. 6 comma 5 e 15 comma 4).

Sulla base di tale considerazione la Corte di cassazione ha osservato che anche nel D.Lgs. n. 231 del 2001 si prevede un duplice sistema cautelare: il primo relativo alle misure interdittive, l'altro riferito al sequestro preventivo, e tuttavia, a differenza di quanto accade nella disciplina codicistica, le diverse misure cautelari non si differenziano per i beni che mirano a tutelare, in quanto nessuna di esse viene ad incidere sulla libertà personale, ma hanno ad oggetto o l'attività dell'ente, nel caso delle misure cautelari interdittive, ovvero "cose" che in qualche modo sono riferibili all'ente, come, appunto, nel caso del sequestro preventivo, il profitto (o il prezzo) derivante dal reato.

Il corollario che se ne fa discendere è che la sostanziale omogeneità dei beni presi in considerazione dovrebbe portare ad escludere ogni differenziazione dei presupposti applicativi delle due tipologie di misure cautelari previste nel D.Lgs. n. 231 del 2001, come invece avviene per le misure cautelari personali e reali nel sistema del codice.

Nella disciplina della responsabilità da reato delle persone giuridiche, si osserva, le misure cautelari interdittive e quelle c.d. reali sono poste sul medesimo piano, non solo perché intervengono su oggetti analoghi, ma anche in quanto entrambe sono destinate ad anticipare l'applicazione di sanzioni principali e obbligatorie, sanzioni subordinate all'accertamento della responsabilità dell'ente.

Per quanto concerne la confisca, il giudice non deve compiere alcuna valutazione in ordine alla pericolosità intrinseca della cosa (nella specie il profitto o il prezzo), perché una volta dimostrata la responsabilità dell'ente, l'eventuale profitto (o prezzo) derivante dal reato è obbligatoriamente oggetto di apprensione coattiva, a titolo sanzionatorio, per effetto della commissione del reato. Ne consegue che in questo caso, ai fini dell'applicazione dei sequestro, il profilo della colpevolezza rientra nella valutazione del fumus delícti, in quanto la funzione preventiva riguarda direttamente l'ente quale autore del fatto illecito e non solo il bene (profitto o prezzo), la cui libera disponibilità può costituire una situazione di pericolo.

Se la valutazione cautelare del giudice non attiene più alla pericolosità della cosa oggetto di confisca, ma è subordinata all'accertamento della responsabilità dell'ente, la verifica dei giudice non può che riguardare, secondo la Corte, gli indizi a suo carico.

In questa materia, cioè, un controllo dei presupposti del sequestro limitato alla sola sussumibilità della fattispecie concreta nell'ipotesi delittuosa individuata dal pubblico ministero appare, secondo l'orientamento in esame, del tutto inadeguato proprio in quanto la misura cautelare è diretta ad anticipare gli effetti di una sanzione principale.

Ha aggiunto la Corte che, in base a questa ricostruzione di carattere sistematico, appare irrilevante la mancanza di ogni riferimento nell'art. 53 D.Lgs. n. 231 del 2001 ai presupposti legittimanti il sequestro preventivo, laddove nel precedente art. 45 D.Lgs. cit., che disciplina i presupposti per l'emanazione delle misure cautelari interdittive, compare il riferimento espresso ai "gravi indizi" in ordine alla responsabilità dell'ente.

Si tratterebbe di una diversità che non può essere considerata sintomo di una radicale differenziazione nei presupposti di misure cautelari che, come si è visto, presentano caratteri omogenei in riferimento ai beni cui si riferiscono; piuttosto, l'apparente diversità di formule è dipesa da una tecnica di formazione da parte del legislatore del 2001, ispirata pedissequamente alle norme codicistiche sul sequestro preventivo: il dato letterale, tuttavia, non sarebbe sufficiente a giustificare un'applicazione acritica dell'intera disciplina codicistica del sequestro preventivo in una materia che presenta significative peculiarità

"D'altra parte, lo stesso art. 53 D.Lgs. 231/2001 non richiama tutte le norme sul sequestro preventivo di cui all'art. 321 c.p.p., ma solo alcune disposizioni di natura prevalentemente processuali, peraltro subordinandone l'applicazione alla clausola di compatibilità, sicché i presupposti sostanziali del sequestro devono essere ricercati all'interno della disciplina contenuta nel decreto legislativo del 2001, quindi tenendo conto della specificità della confisca cui la misura cautelare in questione si riferisce.

In conclusione, presupposto per il sequestro preventivo di cui all'art. 53 D.Lgs. 231/2001 è un fumus detteti "allargato", che finisce per coincidere sostanzialmente con il presupposto dei gravi indizi di responsabilità dell'ente, al pari di quanto accade per l'emanazione delle misure cautelar' interdittive. Sicché i gravi indizi coincideranno con quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, anche indiretti, che sebbene non valgono di per sé a dimostrare oltre ogni dubbio l'attribuibilità dell'illecito all'ente con la certezza propria del giudizio di cognizione, tuttavia globalmente apprezzati nella loro consistenza e nella loro concatenazione logica, consentono di fondare, allo stato, una qualificata probabilità di colpevolezza. L'apprezzamento dei gravi indizi deve portare il giudice a ritenere l'esistenza di una ragionevole e consistente probabilità di responsabilità, in un procedimento che avvicina la prognosi sempre più ad un giudizio sulla colpevolezza, sebbene presuntivo in quanto condotto allo stato degli atti, ma riferito alla complessa fattispecie di illecito amministrativo attribuita all'ente indagato (cfr., Sez. VI, 23 giugno 2006, La Fiorita).

Soltanto dopo avere verificato la sussistenza dei gravi indizi il giudice potrà procedere ad accertare il requisito del periculum, che, come si è visto, coincide con la confiscabilità del profitto (o del prezzo) derivante dal reato, senza alcuna prognosi di pericolosità. E in questo caso l'accertamento in ordine ai periculum riguarda esclusivamente l'individuazione e la quantificazione dei profitto (o del prezzo) assoggettabile a confisca, secondo i criteri stabiliti dalla sentenza delle Sezioni unite di questa Corte (Sez. Un., 27 marzo 2008, n. 26654, Impregno ed altri)".

6. Sulla nozione di profitto confiscabile.

Con specifico riferimento al sistema previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001 Sez. V, 3 aprile 2014, n. 25450, P.M. in proc. Ligresti e altri, Rv. 260749, che "la nozione di profitto confiscabile derivante dal delitto di manipolazione del mercato si qualifica per i connotati della immediata derivazione e della concreta effettività, ma non coincide necessariamente, quanto alla posizione dell'ente collettivo, con il solo profitto conseguito dall'autore del reato, potendo consistere anche in altri vantaggi di tipo economico che l'ente abbia consolidato e che siano dimostrati. (Nella specie, la Corte ha ritenuto che il profitto, così come individuato nel provvedimento di sequestro e consistente nel consolidamento dell'immagine della società nel mercato azionario, non fosse stato provato né fosse riferibile a fatti dimostrativi di una utilità economica conseguita dalla società indagata)".

7. Sui rapporti tra sequestro finalizzato alla confisca in danno di un ente e procedure concorsuali.

Sez. II, 12 marzo 2014, n. 25201, House Building s.p.a., Rv. 260352 ha affermato il principio così massimato:

"È legittimo il mantenimento del sequestro preventivo finalizzato alla confisca di beni di una società nei cui confronti pende un procedimento per responsabilità amministrativa nascente da reato anche quando sopravviene a carico dell'ente una procedura concorsuale, poiché tale vicenda giuridica non sottrae al giudice penale il potere di valutare, all'esito del procedimento se disporre la confisca, e, in caso positivo, con quale estensione e limiti. (Fattispecie in tema di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di società ammessa, dopo l'applicazione della misura, alla procedura di concordato preventivo)."

Nella specie, in cui il decreto di sequestro era stato emesso prima dell'ammissione alla procedura concorsuale dell'ente, la Corte ha chiarito che:

- nella fase cautelare fase, non si conosce alcunché in ordine all'esito della procedura concorsuale e, in particolare, se vi sia un residuo attivo o vi siano finti creditori dietro i quali si celano gli autori del reato;

- i profili appena indicati devono essere accertati solo dal Giudice di merito che, alla fine del procedimento, deve valutare se disporre la confisca e il "quantum", tenendo conto anche di quanto emerge dalla procedura concorsuale;

- il curatore potrà far valere gli interessi della massa dei creditori all'interno del procedimento penale, atteso che l'art. 19 D.Lgs. precisa proprio che sono salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede;

- il fallimento della società non determina l'estinzione dell'illecito previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001 o delle sanzioni irrogate a seguito del suo accertamento (in senso conforme, fra le altre, Sez. V, 16 novembre 2012, n. 4335/13, Franza e altro, Rv. 254326; Sez. V, 26 settembre 2012, n. 44824, P.M. in proc. Magiste International S.A., Rv. 253482).

Il tema è strettamente connesso alla esatta individuazione della funzione del curatore fallimentare, in relazione alla quale Sez. V, 9 ottobre 2013, n. 48804, Curatore Fallimento Infrastrutture e Servizi, Rv. 257553, ha ritenuto che il curatore fallimentare è legittimato, quale terzo in buona fede, a proporre istanza di revoca del sequestro preventivo disposto, ex art. 19 D.Lgs. n. 231 del 2001, ai fini di confisca in misura equivalente al profitto derivante dal reato, nei confronti di una società fallita, nella cui disponibilità siano confluiti i proventi di un'attività criminosa.

Sul tema la Corte, nell'affermare il principio indicato, ha evidenziato come il curatore non faccia uso dei beni illeciti esistenti nell'attivo fallimentare ma è, viceversa, incaricato dell'amministrazione di detto attivo e dei beni che ne fanno parte nell'esclusivo interesse dei creditori ammessi alla procedura concorsuale, i quali, d'altro canto, in virtù di detta ammissione, sono portatori di diritti alla conservazione dell'attivo, nella prospettiva della migliore soddisfazione dei loro crediti, che - pur convivendo fino alla vendita fallimentare con quelli di proprietà del fallito e con il vincolo destinato alla realizzazione della par condicio creditorum - trovano riconoscimento e tutela, nel corso della procedura, attraverso l'azione del curatore.

8. Responsabilità da reato degli enti e sospensione condizionale della pena.

Sez. IV, 25 giugno 2013, n. 42503, Ciacci, Rv. 257126 ha affermato che l'istituto della sospensione condizionale della pena non è applicabile alle sanzioni inflitte agli enti a seguito dell'accertamento della sua responsabilità da reato ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, la cui natura amministrativa non consente l'applicabilità di istituti giuridici specificamente previsti per le sanzioni di natura penale.

9. Reato presupposto commesso da soggetti in posizione apicale ed elusione fraudolenta dei modelli organizzativi e di gestione.

Sez. V, 18 dicembre 2013, n. 4677/14, P.G. in proc. Impregilo S.p.a., Rv. 257987 ha affermato che la elusione fraudolenta del modello organizzativo, ex art. 6, comma primo, lett. c) del D.Lgs. n. 231 del 2001, che esonera l'ente dalla responsabilità per l'illecito amministrativo dipendente dal reato commesso da soggetti in posizione apicale, richiede necessariamente una condotta ingannevole e subdola, di aggiramento e non di semplice "frontale" violazione delle prescrizioni adottate. (Fattispecie relativa al reato di aggiotaggio, in cui la Corte ha annullato con rinvio escludendo che la condotta del presidente e dell'amministratore delegato di una società, consistita semplicemente nel sostituire i dati elaborati dai competenti organi interni e nel diffondere un comunicato contenente notizie false ed idonee a provocare una alterazione del valore delle azioni della stessa società, possa costituire una elusione fraudolenta del modello organizzativo).

La stessa sentenza ha ritenuto non idoneo ad esimere l'ente dalla responsabilità da reato, il modello organizzativo che prevede la istituzione di un organismo di vigilanza sul funzionamento e sulla osservanza delle prescrizioni adottate che non sia provvisto di autonomi ed effettivi poteri di controllo, ma, invece, sottoposto alle dirette dipendenze del soggetto controllato. (Fattispecie in cui la Corte, relativamente al reato di aggiotaggio commesso dai soggetti apicali attraverso la diffusione di un comunicato contenente notizie false ed idonee a provocare una alterazione del valore delle azioni della stessa società, ha annullato con rinvio al fine di accertare se l'organo di vigilanza fosse dotato del potere di esaminare il testo definitivo del messaggio e di rendere manifesta la propria contrarietà al contenuto dello stesso, in modo da allertare i destinatari della informazione).

10. Revoca delle misure cautelari interdittive e avvenuta esecuzione delle condotte riparatorie.

Sez. II, 28 novembre 2013, n. 326/14, P.M. in proc. Vescovi, Rv. 258218 - 219 ha statuito che per ritenersi integrato il requisito del risarcimento integrale del danno e dell'eliminazione delle conseguenze dannose del reato - di cui all'art. 17 lett. a), del D.Lgs. n. 231 del 2001, ai fini della revoca delle misure cautelari interdittive eventualmente disposte, è necessaria la diretta consegna alla persona offesa della somma costitutiva del risarcimento del danno prodotto o comunque l'attuazione di condotte che garantiscano la presa materiale della somma da parte del danneggiato senza la necessità di un'ulteriore collaborazione dell'ente ai fini della traditio. (Nella fattispecie non è stata ritenuta idonea a tal fine la previsione nel bilancio della società di un fondo di accantonamento costitutivo di una riserva indisponibile certificata dal collegio sindacale e comunicata alle persone offese). Conf. n. 327/2014, non mass.".

Nella occasione si è aggiunto che ai fini dell'effettività del risarcimento e delle condotte funzionali a realizzarlo, è necessario che l'ente si impegni ad individuare le persone offese e danneggiate dal reato, anche a prescindere dalla costituzione di parte civile nel giudizio eventualmente instaurato nei confronti della persona fisica responsabile del reato.

SECONDA PARTE QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE

  • spazio marittimo
  • competenza extraterritoriale

CAPITOLO I

L'ESTENSIONE DELLA GIURISDIZIONE PENALE NELLO SPAZIO

(di Antonio Corbo )

Sommario

1 L'estensione della giurisdizione penale nello spazio.

1. L'estensione della giurisdizione penale nello spazio.

Significative decisioni sono state emesse in ordine al tema dell'applicazione della legge penale e processuale italiana nello spazio.

La sentenza Sez. I, 4 marzo 2014, n. 28807, Bobaker, Rv. 260497, occupandosi del reato di traffico di migranti previsto dall'art. 12 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, ha affermato che il delitto commesso all'estero da cittadino straniero è perseguibile dall'autorità giudiziaria italiana secondo la legge penale italiana, se il soggetto è presente nel territorio dello Stato, e risulti una o più delle seguenti, ulteriori, condizioni: la richiesta del Ministro della Giustizia; l'istanza della persona offesa; la mancata concessione dell'estradizione, oppure la sua omessa accettazione da parte del Governo dello Stato in cui la persona ha commesso il delitto, ovvero del Governo cui la persona appartiene. Precisazione significativa è stata quella attinente agli effetti della richiesta del Ministro della Giustizia: questa, infatti, non solo è condizione indispensabile nel caso di reati lesivi dell'interesse esclusivo dello Stato odi reati commessi in danno dell'Unione Europea, di uno Stato estero o di un cittadino straniero, ma è condizione sufficiente anche in caso di delitti lesivi esclusivamente di interessi di privati, sicché la formulazione di detta richiesta esclude, in ogni caso, la necessità dell'istanza o querela della persona offesa.

Sempre in riferimento a fattispecie relativa a reati di immigrazione clandestina, Sez. I, 23 maggio 2014, n. 36052, Arabi, Rv. 260040, ha definito l'ambito spaziale di possibile esercizio dei poteri coercitivi da parte delle Autorità nazionali nell'ambito di un procedimento penale. La sentenza, esattamente, ha enunciato il principio secondo cui le Autorità italiane, giudiziarie e di polizia, possono esercitare poteri coercitivi personali e reali nei confronti di chiunque, cittadino o straniero, si trova in alto mare a bordo di una nave non riconducibile a nessuno Stato, anche quando l'imbarcazione non è mai entrata in acque nazionali, se il soggetto ha violato le leggi della Repubblica ed è assoggettato alla sua giurisdizione in base all'ordinamento interno e in conformità delle convenzioni internazionali.

Il problema posto, nella vicenda esaminata da Sez. I, Arabi, non atteneva tanto alla sussistenza della giurisdizione italiana, quanto, piuttosto, ai poteri direttamente esercitabili dalle Autorità italiane in un luogo sicuramente estraneo al territorio nazionale.

La decisione, in proposito, ha innanzitutto evidenziato che l'esercizio di poteri coercitivi in alto mare trova "giustificazione e legittimazione" nelle previsioni di cui agli artt. 98 e 100, § 1, comma d), della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982, e nell'art. 8, §§ 2 e 7, del Protocollo contro il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, fatta a Palermo il 15 novembre 2000, che autorizzano l'abbordaggio di navi che non battono alcuna bandiera in alto mare, e che tali Accordi internazionali sono stati entrambi ratificati ed in vigore nell'ordinamento italiano. Ha poi aggiunto che, per effetto di detti strumenti pattizi, "i singoli non godono..., in linea di principio, di diritti e di libertà autonome": "Essi possono fruire della libertà di navigazione solamente in quanto stabiliscano tra la loro nave e uno Stato che attribuisce a questa la sua nazionalità, divenendo così il suo Stato di bandiera, uno stretto rapporto giuridico e di fatto"; è, perciò, del tutto irrilevante anche la "appartenenza della nave a talune persone fisiche o giuridiche".

La sentenza, quindi, ha osservato che nessun limite all'esercizio di poteri coercitivi può derivare dal fatto che l'imbarcazione si trovava in alto mare, ossia in un luogo non soggetto alla giurisdizione italiana: la giurisdizione degli Stati sovrani ha una "aspirazione universalistica", che solo "per reciproco riconoscimento ed autolimitazione dei diversi Stati sovrani, è di norma legata alle condizioni di non extraterritorialità della condotta e dell'agente". In questa prospettiva, fondata sulla "concezione dualista della sovranità che trova radice nei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale", e al fine di prevenire la commissione di gravi delitti escludendo la speranza di zone franche, la cooperazione tra gli Stati mira ad evitare l'esistenza di un "lembo di terra che assicura l'impunità". Pertanto, l'ipotesi della libertà dell'alto mare per i singoli, che configurerebbe questo come "terra di nessuno", non soggetta di fatto all'Autorità di alcuno Stato, deve essere esclusa: "la libertà dell'alto mare attiene al mutuo riconoscimento tra Stati di pari potestà e facoltà e alla connessa reciproca autolimitazione dei poteri e dei diritti sovrani: costituisce, in altri termini, criterio di regolazione collegato al principio par in parem non habet imperium".

La conclusione è stata la seguente: "l'assenza di un rapporto, tramite la nave, tra il navigante in alto mare e altro Stato, non consente al singolo in quanto tale di rivendicare alcuna generalizzata esclusione da ogni esercizio di tali diritti e poteri nei suoi confronti e rende, al contrario, costui soggetto senza limiti esterni alla potestà coercitiva e punitiva di qualsiasi Stato le cui leggi abbia violato e alla cui giurisdizione, in base all'ordinamento interno e in conformità alle norme convenzionali, è assoggettato".

Per completare l'argomento dell'efficacia della legge penale e processuale italiana, è utile un riferimento a Sez. VI, 15 maggio 2014, n. 39777, Ferrari, Rv. 260942. Questa decisione, nel richiamare espressamente Sez. VI, 8 aprile 2008, n. 15004, Pallante, Rv. 239426, ha messo in luce che la disciplina fissata dall'art. 9 cod. pen., la quale sottopone alla legge penale italiana il cittadino italiano che abbia commesso un delitto all'estero punito con una sanzione non inferiore nel minimo a quella di tre anni di reclusione, alla sola condizione della presenza del soggetto nel territorio dello Stato, riceve una deroga per effetto del regime introdotto dalla legge 22 aprile 2005, n. 69, in tema di mandato di arresto europeo. Precisamente, la pronuncia rileva che l'art. 19, lett. c), della legge n. 69 del 2005, consente l'esercizio dell'azione penale da parte dell'Autorità giudiziaria di uno Stato membro dell'Unione Europea nei confronti di un cittadino italiano, sebbene lo stesso sia presente nel territorio della Repubblica, prevedendo la consegna del medesimo. La conseguenza è, allora, che, in ipotesi di questo tipo, una volta intervenuto il mandato di arresto europeo, e perché lo stesso possa avere esecuzione, deve escludersi l'opponibilità del motivo di rifiuto previsto dall'art. 18, comma 1, lett. n), che riguarda i fatti i quali "potevano essere giudicati in Italia e si sia già verificata la prescrizione del reato o della pena". Ulteriore corollario è, quindi, che l'emissione del mandato di arresto europeo determina la cessazione della giurisdizione del giudice italiano (di qui la deroga all'art. 9 cod. pen.) e l'interruzione del periodo valutabile ai fini della prescrizione del reato.

  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO II

RILEVABILITÀ DEL DIFETTO DI COMPETENZA DEL GIUDICE NEL CORSO DELLE INDAGINI PRELIMINARI

(di Francesca Costantini )

Sommario

1 Rilevabilità del difetto di competenza del giudice nel corso delle indagini preliminari.

1. Rilevabilità del difetto di competenza del giudice nel corso delle indagini preliminari.

Le Sezioni unite, con sentenza 17 luglio 2014, n. 42030, Giuliano, Rv. 260242, hanno affermato il principio secondo il quale "è inoppugnabile, salvo che sia abnorme, l'ordinanza con la quale, nel corso delle indagini preliminari, il giudice, ai sensi dell'art. 22, comma primo, cod. proc. pen., riconosce la propria incompetenza e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero."

Alla cognizione delle Sezioni unite era stata sottoposta la diversa questione relativa ai limiti di operatività della connessione teleologica prevista dall'art. 12, lett. c) cod. proc. pen. ed in particolare se, ai fini della configurabilità della connessione, sia necessario il requisito della identità fra gli autori del reato fine e quelli del reato mezzo. La Corte, tuttavia, non ha avuto la possibilità di risolvere il contrasto formatosi sul punto nella giurisprudenza di legittimità dovendo dichiarare inammissibile il ricorso. Quest'ultimo, infatti, risultava proposto dal pubblico ministero avverso un'ordinanza del Tribunale con la quale era stato rigettato un appello presentato ai sensi dell'art. 322-bis, cod. proc. pen. nei confronti di una ordinanza del G.i.p. che, con pronuncia dichiarativa di sola incompetenza ai sensi dell'art. 22, comma 1, cod. proc. pen., aveva disatteso una richiesta di sequestro preventivo.

Ad avviso del Supremo Collegio, dovendosi rilevare la inoppugnabilità dell'ordinanza di incompetenza del G.i.p., la stessa ordinanza del Tribunale risultava delegittimata per mancanza di un valido atto propulsivo e non poteva pertanto essere esaminata nel merito ma doveva essere espunta dal procedimento con annullamento senza rinvio.

Nell'affermare il principio di diritto sopra esposto le Sezioni Unite hanno preliminarmente richiamato il generale principio di tassatività dei casi e dei mezzi di impugnazione sancito dall'art. 568, comma 1, cod. proc. pen. secondo il quale la legge stabilisce i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti ad impugnazione e determina il mezzo con cui possono essere impugnati, evidenziando nel contempo come l'art. 22 cod. proc. pen. non contenga alcuna previsione di impugnabilità dell'ordinanza dichiarativa di incompetenza pronunciata nel corso delle indagini preliminari.

La Corte ha, conseguentemente, ribadito un orientamento ormai da tempo consolidato in giurisprudenza che, prendendo le mosse proprio dal citato principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, esclude la impugnabilità di tutti i provvedimenti dichiarativi di incompetenza sia funzionale che per territorio a prescindere dalla loro forma, sia essa di sentenza che di ordinanza (cfr. Sez. VI, 14 novembre 2013, n. 9729/2014, Federici, Rv. 259251; Sez. I, 17 gennaio 2011, n. 15792, Campanella, Rv. 249962; Sez. VI, 8 novembre 1995, n. 619/1996, Burali, Rv. 203373 e Sez. I, 15 giugno 1990, n. 1746, Desiderio, Rv. 184954).

Si tratta di una giurisprudenza già affermatasi nel vigore del vecchio codice che fa leva, altresì, sulla disposizione di cui al secondo comma dell'art. 568 cod. proc. pen. che stabilisce la inoppugnabilità delle sentenze sulla competenza che possono dare luogo a conflitto di competenza a norma dell'art. 28 cod. proc. pen., la cui ratio è stata ritenuta applicabile in via analogica anche alle ordinanze, essendo dirimente esclusivamente che si tratti di pronuncia sulla competenza ( Sez. I, 6 febbraio 1996, n. 789, Anzalone, Rv. 203985). Ne deriva che non sono assoggettabili né a ricorso per cassazione né ad alcun altro gravame i provvedimenti in merito alla competenza - e, segnatamente, quelli di carattere declinatorio -, abbiano essi la forma di sentenza o quella di ordinanza, in quanto, a norma dell'art. 28 cod. proc. pen., tali decisioni importano esclusivamente, ove il giudice ad quem vada in contrario avviso, l'elevabilità del conflitto.

Le Sezioni unite hanno rilevato, pertanto, che seppure esiste, in casi quali quello esaminato, uno specifico interesse processuale del pubblico ministero a reagire all'ordinanza che declini la competenza, è da escludere che nel nostro sistema ad ogni interesse a reagire, pur legittimo, corrisponda necessariamente uno strumento di impugnazione. Non sarebbe, peraltro, ravvisabile in ciò alcuna lacuna di garanzia giurisdizionale in quanto le pronunce sulla competenza, seppure sottratte al regime delle impugnazioni, sono comunque affidate alla disciplina in tema di conflitti dettata dall'art. 28 cod. proc. pen. che individua la Corte di cassazione quale giudice esclusivo per la risoluzione del conflitto.

Ad avviso della Corte, dunque, in casi quali quello in esame, poiché ai sensi della normativa vigente non può includersi nella nozione di conflitto il contrasto tra giudice e pubblico ministero, quest'ultimo non potrebbe fare altro che rimettere gli atti all'Ufficio del pubblico ministero ritenuto competente perché richieda al G.i.p. il provvedimento ritenuto necessario. Solo a tal punto il conflitto si potrebbe instaurare qualora il nuovo G.i.p., investito dal pubblico ministero al quale siano stati trasmessi gli atti per competenza si ritenesse a sua volta incompetente, potendo trovare applicazione lo strumento del conflitto "nel caso analogo" previsto dall'art. 28, comma 2, cod. proc. pen. per le situazioni diverse da quella processuale. Del resto, si osserva come la non necessaria impugnabilità dei provvedimenti del G.i.p., di rigetto delle richieste del pubblico ministero, è prevista dal legislatore anche in altre analoghe fattispecie quali ad esempio: l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari che, respingendo la richiesta di archiviazione, disponga, per la stesa ipotesi di reato, la formulazione della imputazione da parte del pubblico ministero (Sez. I, 12 maggio 2010, n. 21060, Charon, Rv. 247577); il provvedimento di rigetto della richiesta di intercettazioni telefoniche (Sez. VI, 12 novembre 2008, n. 44877, Perca, Rv. 241853); il provvedimento di rigetto della richiesta del p.m., di riaprire le indagini a seguito della disposta archiviazione (Sez. V, 26 giugno 2008, n. 30620, Lerda, Rv. 240441); la ordinanza di inammissibilità della richiesta di incidente probatorio (Sez. IV, 7 ottobre 2009, n. 42520, Antonelli, Rv. 245780); l'ordinanza che decide sulla richiesta di proroga del termine per la conclusione delle indagini preliminari (Sez. VI, 8 maggio 2012, n. 18540, C., Rv. 252721, conforme a Sez. Un., 6 novembre 1992, n. 17, Bernini, Rv. 191787).

La conclusione raggiunta, inoltre, non si porrebbe in contrasto nemmeno con i principi affermati in Sez. Un, 25 ottobre 1994, n. 19, De Lorenzo, Rv. 199393, che ha riconosciuto la sindacabilità in sede di impugnazione dell'incompetenza per territorio del giudice che ha disposto una misura cautelare. In tal caso, infatti, ad avviso della Corte, la legittimazione al controllo da parte del giudice dell'impugnazione nella fase delle indagini preliminari sulla competenza del giudice della misura cautelare si porrebbe esclusivamente quale corollario del sindacato sui vizi di legittimità della misura cautelare stessa derivanti dal mancato rispetto delle norme codicistiche in materia e non come strumento di sindacato sulla decisione relativa alla competenza.

  • pubblico ministero
  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO III

CONFIGURABILITÀ DEL CONFLITTO DI COMPETENZA TRA GIUDICE E PUBBLICO MINISTERO

(di Luigi Cuomo )

Sommario

1 Premessa. - 2 La possibilità di configurare il conflitto tra giudice e pubblico ministero. - 3 La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

1. Premessa.

Le Sezioni Unite, con sentenza 28 novembre 2013, n. 9605/2014, Seghaier, Rv. 257989, hanno affrontato la questione relativa alla ammissibilità del conflitto negativo di competenza per caso analogo ex art. 28 cod. proc. pen. tra pubblico ministero e giudice in ordine al compenso spettante al consulente tecnico nominato dal p.m. da liquidare, dopo l'esercizio dell'azione penale, quando il processo è pendente nella fase dibattimentale innanzi al tribunale.

Va preliminarmente precisato che il pubblico ministero, dopo aver disposto consulenza tecnica, aveva esercitato l'azione penale con rito direttissimo e, successivamente, aveva trasmesso al tribunale la richiesta dell'ausiliario per la liquidazione del compenso in quanto, in materia di spese di giustizia, secondo l'art. 168 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, la competenza appartiene al "magistrato che procede".

A sua volta, il Tribunale aveva restituito gli atti al pubblico ministero invitandolo a riconsiderare la questione in base al contenuto dell'art. 73 disp. att. cod. proc. pen., secondo il quale la competenza è del pubblico ministero che ha effettuato la nomina.

Il pubblico ministero, tuttavia, aveva rifiutato di provvedere e aveva ritrasmesso gli atti al Tribunale, che, con ordinanza aveva sollevato conflitto di competenza: la Prima Sezione penale della Corte di cassazione, ritenuta l'ammissibilità del conflitto "per caso analogo", aveva rimesso la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite al fine di comporre il contrasto formatosi nella giurisprudenza di legittimità in merito all'individuazione, in tali casi, dell'organo competente all'emissione del decreto di liquidazione.

2. La possibilità di configurare il conflitto tra giudice e pubblico ministero.

Le Sezioni Unite, pur dando atto che nella giurisprudenza della Corte era rilevabile un orientamento interpretativo per il quale il rifiuto del pubblico ministero e del giudice di pronunciarsi sulla richiesta di liquidazione dei compensi avanzata dal consulente tecnico avrebbe potuto integrare una situazione di conflitto negativo di competenza per "caso analogo", in grado di determinare una situazione di stasi del procedimento, tale posizione, comunque, si poneva in contraddizione con il contenuto esplicito del dato normativo.

Se anche il comma secondo dell'art. 28 cod. proc. pen. prevede che le norme sui conflitti si applicano anche nei "casi analoghi", in ogni caso l'analogia doveva comunque essere circoscritta ai contrasti tra organi giurisdizionali, nel senso che lo spazio di operatività delle situazioni conflittuali è limitato comunque ai giudici.

In tal senso era del tutto esplicativa la Relazione Preliminare al codice di procedura penale, secondo cui «si è volutamente evitato qualsiasi riferimento a casi di contrasto tra pubblico ministero e giudice proprio per sottolineare che eventuali casi di contrasto non sono riconducibili alla categoria dei conflitti e ciò anche in considerazione della qualità di parte, sia pure pubblica, che il pubblico ministero ha nel contesto del nuovo codice di procedura penale«.

E ciò in quanto, la configurabilità del conflitto di competenza tra giudice e pubblico ministero è stata rimeditata alla luce del profondo mutamento del rito in senso accusatorio, con l'attribuzione all'organo di accusa della qualità di "parte" e con la sottrazione dell'esercizio di potestà tipicamente attinenti alla giurisdizione.

Alla qualità di "parte" ha fatto riferimento la giurisprudenza assolutamente prevalente, che ha escluso anche astrattamente l'ammissibilità del conflitto tra pubblico ministero e giudice (cfr. Sez. I, 21 maggio 1990, Paci, n. 1405, Rv. 184589; Sez. I, 17 dicembre 1991, Rubagotti, n. 4964/1992, Rv. 189428; Sez. I, 6 luglio 1992, Loreti, n. 3256, Rv. 191593; Sez. I, 6 luglio 1992, Piersigilli, n. 3254, Rv. 191385; Sez. I, 6 ottobre 1992, Panetta, n. 3880, Rv. 192181; Sez. I, 19 febbraio 1993, Egizio, n. 714, Rv. 193396; Sez. I, 6 aprile 1994, Di Mattina, n. 1555, Rv. 197658; Sez. I, 21 gennaio 2000, Carbonara, n. 451, Rv. 215378; Sez. I, 9 aprile 2009, Carletti, n. 17357, Rv. 243568; Sez. I, 5 maggio 2009, Buccella, n. 26733, Rv. 244649).

Non poteva trovare, quindi, alcuno spazio di operatività l'opposto orientamento giurisprudenziale che aveva ritenuto ammissibili i contrasti tra magistrati di sorveglianza pur trattandosi di provvedimenti di natura amministrativa; tra giudice del procedimento principale e giudice del procedimento incidentale (cautelare) in ordine alla liquidazione dei compensi del difensore o consulente tecnico di persona ammessa al patrocinio a spese dello Stato; tra pubblico ministero e magistrato di sorveglianza (Sez. I, 25 gennaio 1999, Di Maggio, n. 629, Rv. 213283; Sez. I, 26 ottobre 2010, Piccinno, n. 61/2011, Rv. 249284).

3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

Per le Sezioni Unite, i richiamati precedenti non possono assumere rilevanza, almeno nei limiti in cui gli stessi riguardano casi nei quali è stata riconosciuta l'ammissibilità del conflitto tra diversi magistrati di sorveglianza, ovvero tra giudici del procedimento principale e incidentale, trattandosi di situazioni che non involgono la posizione del pubblico ministero.

In effetti, i provvedimenti del pubblico ministero, in quanto atti di parte, non hanno natura giurisdizionale e, come tali, non sono né qualificabili come abnormi (caratteristica esclusiva degli atti di giurisdizione), né impugnabili, quantunque illegittimi (Sez. Un., 11 luglio 2001, Chirico, n. 34536, Rv. 219598).

La possibilità di insorgenza dei conflitti è, dunque, prevista unicamente tra giudici ordinari o tra giudici ordinari e giudici speciali, ed i casi analoghi vanno ricondotti sempre nell'ambito di valutazioni che interessano organi della giurisdizione, per fronteggiare situazioni che patologicamente alterino i criteri di ordinaria ripartizione della potestà di giudicare, con conseguente possibile violazione dei principi costituzionali della naturalità e della precostituzione del "giudice".

Da ciò consegue che il pubblico ministero non può che prendere atto della decisione del giudice ed adeguarvisi, a meno che il provvedimento del giudice non sia abnorme e, come tale, impugnabile con ricorso per cassazione (Sez. I, 6 luglio 1992, Loreti, n. 3256, Rv. 191593).

La soluzione è coerente con il pregresso orientamento delle Sezioni Unite (sentenza 25 febbraio 2004, Lustri, n. 19289, Rv. 227355) in materia di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, secondo il quale la situazione di stallo processuale determinatasi in conseguenza della declinatoria di competenza del giudice non può essere risolta mediante la procedura di conflitto, non essendo quest'ultimo configurabile tra pubblico ministero e giudice.

Se, quindi, il pubblico ministero resta privo della facoltà di essere parte di un conflitto (positivo o negativo) di competenza, l'unico rimedio può essere la proposizione di un ricorso per cassazione volto ad ottenere la declaratoria di abnormità dell'atto adottato dal giudice, in grado di determinare una stasi del processo o l'impossibilità di proseguirlo.

La categoria dell'abnormità è stata utilizzata per consentire l'impugnazione, anche da parte del pubblico ministero, di provvedimenti giurisdizionali per i quali non è prevista alcuna forma di impugnazione, secondo le linee e le connotazioni di un istituto oggetto di una lunga elaborazione giurisprudenziale tesa a mitigare gli effetti del principio di tassatività sia delle nullità (art. 177 cod. proc. pen.) che dei mezzi d'impugnazione (art. 568 cod. proc. pen.) e che ha portato ad affermare che è affetto da tale vizio il provvedimento che, per la singolarità e la stranezza del suo contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento processuale, ovvero quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite.

L'abnormità dell'atto può riguardare sia il "profilo strutturale", allorché l'atto si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, sia il "profilo funzionale", quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo, potendosene ravvisare un sintomo nel fenomeno della cosiddetta "regressione anomala" del procedimento ad una fase anteriore (da ultimo, Sez. Un., 20 dicembre 2007, Battistella, n. 5307/2008, Rv. 238240).

In applicazione di tali principi, la giurisprudenza prevalente delle Sezioni semplici della Corte ha ritenuto viziata da abnormità, sotto il profilo della idoneità a determinare la stasi del procedimento e l'impossibilità di proseguirlo, il provvedimento di restituzione al pubblico ministero, da parte del giudice, della richiesta di liquidazione del compenso da parte del consulente tecnico (da ultimo Sez. IV, 11 dicembre 2012, Pinetti, n. 21319, Rv. 255281).

Per l'inammissibilità del conflitto di competenza, le Sezioni Unite, anche per ragioni di economia processuale, hanno trasmesso gli atti al pubblico ministero al fine di provvedere alla liquidazione del compenso all'ausiliario da lui stesso nominato, individuando al contempo le disposizioni di legge applicabili.

L'art. 168 del d.P.R. n. 115 del 2002 (T.U. spese di giustizia) dispone, in modo generico e indifferenziato, che "la liquidazione delle spettanze agli ausiliari del magistrato è effettuata con decreto di pagamento, motivato, del magistrato procedente", che si individua in quello che dispone materialmente degli atti al momento in cui sorge la necessità di provvedere, in conseguenza della presentazione di una richiesta di liquidazione.

Un diverso regime è, però, previsto dall'art. 73 disp. att. cod. proc. pen., che, privilegiando il legame fiduciario che caratterizza il conferimento dell'incarico, rinvia, per la liquidazione del compenso al consulente tecnico del pubblico ministero, alla osservanza delle disposizioni previste per il perito e, quindi, all'art. 232 cod. proc. pen., il quale stabilisce che il compenso al perito è liquidato dal giudice che ha disposto la perizia, e ciò a prescindere dalla fase in cui si trova il procedimento al momento della richiesta di liquidazione.

In forza del meccanismo di rinvio che l'art. 73 disp. att. cod. proc. pen. opera rispetto all'art. 232 c.p.p., al pubblico ministero è attribuito il compito di liquidare, in ogni fase di giudizio, il compenso al consulente da lui nominato.

Tale scelta deriva dalla prevalenza del testo codicistico, specificamente dedicato al consulente tecnico del pubblico ministero, rispetto all'art. 168 del d.P.R. n. 115 del 2002, che contiene espressioni molto più ampie e generiche, per di più prive, in ragione della natura meramente compilativa del testo unico sulle spese di giustizia, di valore innovativo rispetto alla disciplina già esistente.

  • incompatibilità

CAPITOLO IV

INCOMPATIBITÀ DEL GIUDICE

(di Roberta Zizanovich )

Sommario

1 Incompatibilità del giudice.

1. Incompatibilità del giudice.

Le Sezioni Unite, con la sentenza 26 giugno 2014, n. 36847, Della Gatta e altro, Rv. 260093 - 260096, enunciano il seguente principio di diritto: "L'ipotesi di incompatibilità del giudice derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996 - che ha dichiarato la incostituzionalità dell'art. 34, comma secondo, cod. proc. pen., "nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata" - sussiste anche con riferimento alla ipotesi in cui il giudice del dibattimento abbia, in separato procedimento, pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente necessario nello stesso reato".

L'affermazione di tale principio rappresenta un'ulteriore tappa del percorso intrapreso sia dalla Corte costituzionale sia dalla medesima Corte di cassazione nell'individuazione dei presupposti necessari per la piena realizzazione del "giusto processo", una garanzia imprescindibile del quale è rappresentata dalla imparzialità e dalla terzietà del giudice.

È, infatti, il principio costituzionale del giusto processo - che attinge alla pienezza del suo valore solo se inteso nel suo significato sostanziale - ad impedire che uno stesso giudice valuti più volte, in successivi processi, la responsabilità penale di una persona in relazione al medesimo reato. Infatti, il giusto processo (formula in cui si compendiano i principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio) comprende l'esigenza di imparzialità del giudice: imparzialità che non è che un aspetto di quel carattere di "terzietà" che connota nell'essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del giudice, distinguendola da quella di tutti gli altri soggetti pubblici, e condiziona l'effettività del diritto di azione e di difesa in giudizio.

Sul tema sottoposto all'attenzione delle Sezioni Unite si registravano tre diversi orientamenti.

In base al primo di essi l'ipotesi di incompatibilità ex art. 34 comma 2 cod. pen., introdotta dalla sentenza costituzionale n. 371 del 1996, non è configurabile per il giudice del dibattimento che, in un precedente procedimento, avesse pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente necessario nello stesso reato plurisoggettivo oggetto del giudizio, e tanto in ragione della particolare natura della sentenza di patteggiamento. (così: Sez. VI, 3 ottobre 1997, n. 3771, Giallombardo, Rv. 209077; Sez. V, 2 ottobre 1997, n. 4201, Lancini, Rv. 210112; Sez. VI, 16 aprile 1998, n. 1385, Ferrantelli, Rv. 210664, Sez. VI, 14 maggio 1998, n. 1752, Cerciello, Rv. 211078, Sez. II, 20 giugno 2003, n. 36536, Lucarelli ed altri, Rv. 226453).

Secondo diverso orientamento, la sentenza di patteggiamento può avere effetto "pregiudicante" ma solo nel caso in cui il giudice, nel vagliare la posizione dei concorrenti patteggianti, abbia effettuato una concreta delibazione dell'accusa concernente l'imputato rimasto estraneo al patteggiamento. Tale indirizzo è affermato in Sez. V, 9 febbraio 2001, n. 9239, Foscale e altri, Rv. 219277; Sez. VI, 9 luglio 1998, n. 2485, Coglitore, Rv. 212120; Sez. VI, 14 luglio 2003, n. 32424, Tagliafierro, Rv. 226511; Sez. IV, 23 settembre 2003, n. 44511, Broch, Rv. 226409; Sez. V, 5 aprile 2004, n. 22689, Emmanuelo ed altri, Rv. 228097; Sez. V, ord. 26 gennaio 2005, n. 8472, Cacciurri, Rv. 231490; Sez. IV, 8 novembre 2005, n. 14176 Svarcova ed altro, Rv. 233950 e Sez. I, 11 marzo 2009, n. 15174, Basco e altri, Rv. 243563, Sez. VI, 14 dicembre 2010, n. 7908/11, Serra, Rv. 249632 (in termini Sez. IV, 16 giugno 2011, n. 34082, Coco).

In base al terzo orientamento è, invece, sempre configurabile l'incompatibilità a giudicare un imputato quando il giudice abbia in una precedente sentenza espresso incidentalmente valutazioni di merito in ordine alla sua responsabilità penale. Tale principio trova applicazione anche nel caso in cui la precedente sentenza sia stata pronunciata a norma dell'art. 444 cod. proc. pen., atteso che se è vero che con la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti il giudice non compie un giudizio di colpevolezza "pieno e incondizionato", egli tuttavia perviene comunque a una valutazione di merito dei fatti, idonea a pregiudicare la sua imparzialità nel successivo giudizio. Quanto sopra è affermato per la prima volta in Sez. VI, 11 dicembre 1996, n. 3822, Di Donato, Rv. 208192 ed è poi ripreso da Sez. II, 13 gennaio 1999, n. 106, Compagnon, Rv. 212785.

Le Sezioni Unite, nel dirimere il contrasto, riprendono l'insegnamento della Corte costituzionale e rilevano che le affermazioni contenute nella sentenza n. 371 del 1996 - con la quale era dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata - sono pienamente valide anche per l'ipotesi in cui la precedente pronuncia nei confronti di uno degli imputati sia avvenuta ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen.

Osserva la Corte che la forza pregiudicante di una sentenza di merito rispetto a un successivo giudizio che riguardi la posizione di un concorrente nel medesimo reato "a concorso necessario" non dipende dall'ambito di accertamento - pieno o limitato alla verifica dei presupposti di cui all'art. 129 cod. proc. pen. - che il primo giudizio esprime, perché, quale che sia la valutazione di merito, inevitabilmente essa tocca un fondamentale aspetto oggetto del successivo giudizio - quello della responsabilità penale - che per la parte in tal modo "anticipata" ne risulta correlativamente pregiudicato.

Pertanto, la problematica posta dalla sentenza n. 371 del 1996 resta immutata se calata in una fattispecie in cui la prima sentenza sia stata di patteggiamento. Il Supremo Collegio valuta, quindi, non condivisibile l'orientamento giurisprudenziale che collega l'effetto pregiudicante al quantum motivazionale espresso dalla sentenza di patteggiamento, perché esso non considera che tale effetto si produce, sia pure in parte qua, anche nel caso in cui il giudice del patteggiamento si sia limitato a stabilire la non ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 129, comma 1, cod. proc. pen.

Sotto diverso aspetto, evidenzia che il menzionato orientamento ha il difetto di avallare, sia pure implicitamente, una "prassi di esuberanza di motivazione" nelle sentenze emesse ex art. 444 cod. proc. pen. In questo genere di sentenze, infatti, il giudice ha come esclusivo parametro di valutazione la non sussistenza "sulla base degli atti" delle condizioni legittimanti il proscioglimento di cui all'art. 129 cod. proc. pen., non essendo tenuto ad affrontare il "pieno merito" della responsabilità penale secondo i canoni di valutazione imposti al giudice del dibattimento (o del giudizio abbreviato) dall'art. 530 cod. proc. pen. Ed è per tale ragione che il ricorso per cassazione avverso dette sentenze attinente al merito della responsabilità penale deve essere considerato inammissibile.

Le Sezioni Unite, tenuto conto dei ristretti spazi cognitivi "di merito" in cui si muove il giudice del patteggiamento, considerano che non dovrebbe verificarsi l'ulteriore ipotesi presa in considerazione dalla citata sentenza n. 371 del 1996 nella quale, al di là dei casi di reato a concorso necessario - in cui la posizione del patteggiante non può prescindere, sotto l'aspetto numerico, da quella dei concorrenti - "il giudice, "qualunque ne sia stato il motivo, abbia incidentalmente espresso valutazioni di merito in ordine alla responsabilità penale di un terzo non imputato in quel processo". Se ciò si tuttavia si verificasse accidentalmente, a causa di una deprecabile "esuberanza" motivazionale in relazione a posizioni e ad aspetti esterni a quel giudizio, essendo comunque pregiudicato il valore della imparzialità del giudice, non dovrebbe parlarsi di un caso di incompatibilità ma di uno di ricusazione". Ciò è stato chiarito dalla stessa Corte costituzionale nelle sentenze "trigemine" nn. 306, 307, 308 del 1997 e, poi, formalmente definito con la sentenza n. 283 del 2000, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 37, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. "nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto": a prescindere, perciò, dal carattere indebito di tale valutazione.

In base alle considerazioni sopra illustrate le Sezioni Unite giungono all'affermazione del principio riportato in apertura, non senza rilevare che nel caso sottoposto alla loro attenzione la sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti di uno degli imputati si poneva al di fuori della tematica del concorso necessario presa direttamente in esame dalla sentenza n. 371 del 1996.

È proprio tale condizione che consente alla Corte di cassazione di verificare se la sentenza di patteggiamento possa avere effetto pregiudicante anche al di fuori delle ipotesi di concorso necessario nel reato. Sul punto, le Sezioni Unite affermano che integra propriamente una causa di ricusazione, ex art. 37, comma primo lett. b), cod. proc. pen. (come inciso da Corte cost., sent. n. 283 del 2000) e non una causa di incompatibilità di cui all'art. 34 cod. proc. pen. la circostanza che il medesimo magistrato chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato abbia già pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente nel medesimo reato, allorquando nella motivazione di essa risultino espresse valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti del soggetto sottoposto a giudizio.

  • procedura penale
  • avvocato

CAPITOLO V

L'ASTENSIONE DEL DIFENSORE NELLE UDIENZE PENALI

(di Vittorio Pazienza )

Sommario

1 Premessa: i tre ravvicinati interventi delle Sezioni unite. - 2 Natura giuridica dell'astensione, valenza del codice di autoregolamentazione, potere giudiziale di bilanciamento: i termini della questione interpretativa controversa. - 3 L'intervento delle Sezioni unite. - 4 L'adesione delle Sezioni semplici alla sentenza Lattanzio. - 5 La trasmissione via telefax dell'istanza di astensione. - 6 L'astensione del difensore nelle udienze camerali. I termini del contrasto giurisprudenziale: l'orientamento tradizionale. - 7 (segue): il nuovo indirizzo che consente la possibilità di astenersi. - 8 L'intervento delle Sezioni unite: in particolare, le conclusioni del Procuratore Generale e l'informazione provvisoria.

1. Premessa: i tre ravvicinati interventi delle Sezioni unite.

Non sembra azzardato sostenere che il tema dell'astensione del difensore - per i profili problematici connessi all'individuazione della sua natura giuridica e del suo spazio applicativo, alla valenza da attribuire alle disposizioni del codice di autoregolamentazione intervenute a disciplinarla, nonché al rapporto tra queste ultime e le norme del codice di rito - costituisce attualmente uno degli snodi più controversi dell'intero panorama processualpenalistico: non a caso, in poco più di un anno, le Sezioni unite della Corte di cassazione sono intervenute per ben tre volte sull'argomento.

Nella Rassegna relativa all'anno 2013, era stato possibile soffermare l'attenzione su un'importante affermazione contenuta in Sez. Un., 30 maggio 2013 n. 26711, Ucciero, Rv. 255346, nella quale il Supremo consesso, occupandosi incidentalmente del tema nell'ambito di un procedimento relativo all'applicazione di una misura cautelare personale, aveva conferito "natura di normativa secondaria alla quale occorre conformarsi" alle disposizioni contenute nel vigente codice di autoregolamentazione, escludendo - proprio su tale base normativa - la possibilità, per il difensore, di astenersi nei procedimenti relativi a misure cautelari.

Tale affermazione - che implicava il superamento di un consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui al codice di autoregolamentazione doveva conferirsi un valore meramente interno alla categoria, e perciò non vincolante per il giudice - ha determinato, dopo alcune contrastanti pronunce, la rimessione alle Sezioni unite di una questione ritenuta "di speciale importanza" ai sensi dell'art. 610, comma secondo, cod. pen. : quella della persistenza, anche dopo l'entrata in vigore del codice di autoregolamentazione adottato nel 2007, del potere giudiziale di disporre la prosecuzione del giudizio nonostante l'adesione del difensore all'astensione di categoria, in presenza di esigenze di giustizia non considerate dal predetto codice.

Si vedrà nel paragrafo seguente che, a tale quesito, è stata data risposta negativa (salvo situazioni eccezionali) da Sez. Un., 27 marzo 2014, n. 40187, Lattanzio, Rv. 259926-259928, la quale ha anche decisamente riaffermato la valenza di normativa secondaria delle disposizioni del codice di autoregolamentazione, precisando che il giudice deve ritenersi soggetto a queste ultime ai sensi dell'art. 101, secondo comma, Cost. Si vedrà anche, per un verso, che alcune successive sentenze delle Sezioni semplici - occupandosi dello specifico problema relativo alla possibilità di astenersi nelle udienze camerali a partecipazione non necessaria del difensore (sul quale cfr. infra, § 4) - hanno espressamente richiamato e condiviso l'impianto argomentativo della sentenza Lattanzio. Per altro verso, si accennerà anche (v. infra, § 5) alle importanti "aperture", contenute nell'arresto delle Sezioni unite, sulla possibilità di trasmettere a mezzo telefax la dichiarazione di astensione: aperture imperniate sia sul tenore testuale della disposizione contenuta nel codice di autoregolamentazione, sia su considerazioni di ordine più generale, che potrebbero assumere una valenza risolutiva del contrasto giurisprudenziale tuttora in corso, nella giurisprudenza di legittimità, in ordine alla possibilità per il difensore di avvalersi del telefax per la presentazione delle proprie richieste.

La recente elaborazione giurisprudenziale in tema di astensione del difensore ha evidenziato un ulteriore versante problematico, ed anzi fortemente controverso, al quale verranno dedicate le pagine conclusive della presente esposizione (cfr. infra, § 6-8): si allude alla questione della possibilità di astenersi anche nelle udienze camerali, con specifico riguardo a quelle a partecipazione non necessaria del difensore.

Si vedrà, in particolare, che il tradizionale quanto consolidato orientamento negativo - quasi sempre imperniato sulla pressoché pacifica inapplicabilità alle udienze camerali delle norme codicistiche sul legittimo impedimento - è stato contrastato da un diverso indirizzo, fondato sia sull'estraneità (ormai altrettanto pacifica) dell'astensione alla tematica del legittimo impedimento, sia sull'insegnamento della già citata sentenza Ucciero concernente la valenza di normativa secondaria da attribuire alle norme del codice di autoregolamentazione. Anche tale contrasto interpretativo è stato rimesso alle Sezioni unite, che sono intervenute con la sentenza 30 ottobre 2014, p.o. in proc. Tibo e altro, della quale è al momento disponibile la sola informazione provvisoria, secondo cui il giudice non è tenuto a disporre il rinvio della trattazione in presenza della tempestiva dichiarazione di astensione del difensore della persona offesa, legittimamente proclamata dagli organismi di categoria.

2. Natura giuridica dell'astensione, valenza del codice di autoregolamentazione, potere giudiziale di bilanciamento: i termini della questione interpretativa controversa.

Si è già accennato, in premessa, al fatto che la Quinta sezione della Suprema corte, con ordinanza 21 novembre 2013, n. 51524, aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa alla persistenza del potere del giudice di rigettare una richiesta di rinvio per adesione all'astensione di categoria, in presenza di "esigenze di giustizia" ritenute meritevoli di tutela e tuttavia non prese in considerazione dal vigente codice di autoregolamentazione: rimessione motivata con la necessità di definire "l'esatto ambito di operatività e cogenza" della normativa emanata in attuazione della legge 12 giugno 1990, n. 146, sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, come modificata - a seguito della sentenza 16 maggio 1996, n. 171, della Corte costituzionale - dalla legge 11 aprile 2000, n. 83.

In particolare, l'ordinanza di rimessione - dopo aver richiamato alcuni punti fermi dell'elaborazione giurisprudenziale in tema di astensione forense (differenze con il legittimo impedimento, conseguenti implicazioni in tema di sospensione del corso della prescrizione e di termini di custodia cautelare, ecc.) - aveva posto in evidenza la novità costituita dall'emanazione di un codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze, adottato dall'Avvocatura il 4 aprile 2007 e valutato idoneo dalla Commissione di Garanzia di cui alla richiamata legge n. 146 del 1990, in attuazione dello specifico obbligo previsto da quest'ultima, come detto modificata dalla legge n. 83 del 2000. L'ordinanza aveva posto l'accento, soprattutto, sui divieti e le limitazioni stabilite in quel codice, il cui rispetto - come chiarito anche in giurisprudenza: cfr. Sez. VI, 12 luglio 2013, n. 39248, Cartia, Rv. 256336 - costituiva una "precondizione" per il corretto esercizio del diritto di astenersi.

Tuttavia, ad avviso della Sezione rimettente, tale normativa - ritenuta vincolante per i soli associati - non aveva inciso sul potere del giudice di regolare lo svolgimento del processo secondo i canoni dell'ordinamento processuale, e di operare perciò un autonomo bilanciamento tra gli interessi in gioco, qualora ragioni di urgenza (ad es. prescrizione imminente) avessero imposto la trattazione del processo e quindi il rigetto dell'istanza di rinvio per astensione (in proposito, veniva richiamata, tra le altre, Sez. II, 19 aprile 2013, n. 22353, Di Giorgio, Rv. 255937).

L'ordinanza di rimessione aveva peraltro evidenziato che, in tale quadro, erano intervenute le Sezioni unite con la già citata sentenza 30 maggio 2013, n. 26711, Ucciero, Rv. 255346, (cfr. supra, § 1). In quella sede, il Supremo consesso aveva definito le disposizioni del codice di autoregolamentazione "normativa secondaria alla quale occorre conformarsi", ed aveva sostenuto che il codice di autoregolamentazione, essendo stato approvato dalla Commissione di Garanzia, era destinato a realizzare il "contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati" di cui all'art. 1 della legge n. 146. Tale arresto aveva reso necessario, ad avviso della Quinta sezione, chiarire definitivamente se la "necessità di conformarsi" riguardasse anche il giudice procedente, e se quest'ultimo potesse ancora contemperare l'astensione con diritti e situazioni non contemplate dal codice di autoregolamentazione, quale quella (rilevante nella specie) di evitare gravi disagi ad un teste chiamato a deporre in una città lontana dal suo luogo di residenza.

3. L'intervento delle Sezioni unite.

Dopo un'articolata disamina dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale registratasi in materia, la sentenza Lattanzio ha per un verso ribadito e rafforzato l'insegnamento già espresso dalla sentenza Ucciero in ordine alla valenza cogente erga omnes delle norme del codice di autoregolamentazione, aventi forza e valore di normativa secondaria o regolamentare; per altro verso, e conseguentemente, le Sezioni unite hanno escluso la configurabilità, nell'attuale assetto normativo, di un potere giudiziale di bilanciamento ("se non in ipotesi eccezionali ed in limiti molto ristretti") tra il diritto all'astensione e gli altri diritti e valori di rilievo costituzionale, essendo tale bilanciamento già stato operato dal legislatore e dalle predette fonti secondarie.

A sostegno di tali conclusioni, il Collegio ha tra l'altro valorizzato:

- l'impossibilità di ricondurre il fenomeno dell'astensione forense nell'alveo del legittimo impedimento, essendo del tutto libera la scelta dell'avvocato di aderire o meno alla protesta di categoria (in proposito, è stata richiamata e condivisa l'elaborazione giurisprudenziale in tema di sospensione del corso della prescrizione, che impone di distinguere rigorosamente tra rinvio del procedimento "per ragioni di impedimento" e rinvio "su richiesta", operando solo nel primo caso il limite di sessanta giorni di cui all'art. 159 cod. pen);

- la natura non di mera libertà riconducibile all'art. 18 Cost., ma di vero e proprio diritto avente un sicuro fondamento costituzionale, che deve essere riconosciuta all'astensione forense; al riguardo, si è sottolineato che l'intera operazione di contemperamento tra manifestazioni di conflitto collettivo ed diritti costituzionalmente tutelati, alla base della legge n. 146 del 1990, postula evidentemente il riconoscimento dell'astensione collettiva come un vero e proprio diritto;

- la riconduzione nell'ambito del "diritto oggettivo" delle norme contenute nel codice di autoregolamentazione dichiarato idoneo dalla Commissione di garanzia, avendo il legislatore del 2000 "previsto che la normativa secondaria e di dettaglio, di rango regolamentare, sia attribuita alla competenza di una specifica fonte, appositamente creata": si tratta quindi di norme "di legge" alle quali il giudice è soggetto ai sensi dell'art. 101, comma secondo, Cost., e la cui violazione può costituire oggetto di ricorso per cassazione per violazione di legge (mentre, sul piano interpretativo, dovrà aversi riguardo ai principi di cui all'art. 12 disp. prel. cod. civ., e non a quelli valevoli per gli atti normativi ed accordi collettivi di diritto privato);

- la già avvenuta integrale regolazione della materia dell'astensione ad opera del legislatore e delle fonti secondarie, che - disciplinando il preavviso, la durata, le modalità di comunicazione, il divieto in particolari situazioni processuali, ecc. - hanno così realizzato un compiuto bilanciamento tra il diritto ad astenersi e gli altri diritti e valori di rilievo costituzionale (diritto di difesa e di azione, interesse dello Stato ad evitare la prescrizione, ecc.);

- la riserva al giudice, invece, della valutazione relativa alla conformità degli atti, costituenti concreto esercizio del diritto ad astenersi, rispetto alla normativa primaria e secondaria predetta, correttamente interpretata, con la precisazione che il giudice può compiere, in detta fase, un "bilanciamento indiretto" degli interessi in gioco, attraverso un'interpretazione adeguatrice e costituzionalmente orientata delle norme primarie e secondarie, ovviamente nei limiti costituiti dalla lettera della disposizione e dalla ratio della soluzione normativa;

- la possibilità di ipotizzare un vero e proprio bilanciamento giudiziale solo in ipotesi eccezionali, quali il venir meno della vigenza delle fonti secondarie, o l'emersione di diritti e valori costituzionali ulteriori (non riconducibili cioè a quelli per i quali è già normativamente avvenuto il bilanciamento): non potendo ritenersi sufficiente, a tali fini, il richiamo a generiche "esigenze di giustizia" concernenti ad es. il disagio per i testi residenti in località lontane.

Sulla scorta di tali argomentazioni, il Collegio ha ritenuto che, nella fattispecie concreta sottoposta alla sua attenzione (escussione del teste residente in altra regione, avvenuta nonostante l'assenza del difensore di fiducia dell'imputato che aveva ritualmente chiesto rinvio per adesione all'astensione, e motivata dal giudice procedente con la necessità di evitare una ulteriore apposita trasferta del teste). dovesse configurarsi una nullità assoluta, ai sensi degli artt. 178, lett. c) e 179, cod. proc. pen.

4. L'adesione delle Sezioni semplici alla sentenza Lattanzio.

I principi fissati dalle Sezioni unite, fin qui sommariamente illustrati, sono stati richiamati e condivisi da alcune recenti pronunce delle Sezioni semplici, sulle quali si tornerà brevemente anche in seguito (essendo state emesse in procedimenti relativi a giudizi abbreviati in grado d'appello, in cui la partecipazione del difensore non è necessaria: cfr. infra, § 7); è peraltro opportuno farne brevemente cenno sin d'ora, in quanto il percorso argomentativo di tali decisioni risulta imperniato sugli insegnamenti della sentenza Lattanzio.

Viene in rilievo, anzitutto, Sez. II, 12 novembre 2014, n. 49478, Cardella, la quale - muovendo dal principio per cui il bilanciamento tra il diritto di rilievo costituzionale del difensore ad astenersi, e quelli di rango analogo dei soggetti interessati al servizio giudiziario, è stato effettuato dal legislatore primario e secondario, riservandosi al giudice il controllo sul rispetto di tale normativa da parte dell'aderente all'astensione - ha affermato che il giudice deve tener conto del diritto di libertà del difensore aderente ad un'astensione ritualmente proclamata ed esercitata: "ne consegue che in tale prospettiva non rileva il fatto che il processo si svolga in camera di consiglio, come nel caso di specie, ovvero in pubblica udienza, una volta che il difensore ha manifestato la sua adesione all'astensione correttamente deliberata dalla categoria".

Nella medesima ottica ricostruttiva si colloca Sez. IV, 2 dicembre 2014, n. 51779, Parrilla, la quale ha annullato la sentenza di condanna emessa dopo il rigetto di un'istanza difensiva motivata dalla rituale adesione all'astensione di categoria: istanza che era stata ritenuta subvalente per le necessità derivanti dalla "natura del procedimento". Il Collegio ha censurato un siffatto impianto motivazionale, osservando che la tesi del "bilanciamento giudiziale" tra contrapposti valori ed interessi di rilievo costituzionale doveva ritenersi ormai superata, alla luce della sentenza Lattanzio: sicchè la trattazione del processo in assenza del difensore, che pure aveva ritualmente manifestato e comunicato la propria adesione all'astensione, aveva determinato una nullità a regime intermedio.

Si segnala altresì Sez. IV, 2 dicembre 2014, n. 51776, Ben Alì, anch'essa pienamente in linea con i principi affermati dalla sentenza Lattanzio in ordine alla valenza di normativa secondaria o regolamentare, vincolante quindi anzitutto per il giudice che procede, ed alla necessità che quest'ultimo verifichi "quella che è stata definita la <<precondizione>> per la sussistenza del diritto al rinvio dell'udienza, vale a dire il rispetto dei presupposti fissati dal codice di autoregolamentazione". In tale prospettiva, il Collegio ha rigettato il ricorso difensivo, nel quale non vi erano indicazioni su forme e tempi in cui il difensore aveva manifestato all'autorità procedente la propria adesione all'astensione, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 3 del codice di autoregolamentazione (attraverso cioè la dichiarazione in udienza, ovvero la comunicazione almeno due giorni prima); in particolare, è stato rilevato che, dall'esame degli atti, era emersa la sola circostanza della mancata comparizione in udienza dell'avvocato: difettava quindi, ad avviso della Quarta sezione, la "precondizione" costituita da una rituale dichiarazione di adesione del difensore.

La sussistenza di quest'ultima è stata infine ritenuta - sempre con ampi richiami adesivi al percorso ricostruttivo della sentenza Lattanzio - da Sez. IV, 4 novembre 2014, n. 49706, Trombetta, che ha annullato la decisione di merito che aveva ritenuto tardiva una dichiarazione di astensione presentata dal difensore in udienza.

5. La trasmissione via telefax dell'istanza di astensione.

La centralità sistematica riconosciuta dalla sentenza Lattanzio alle disposizioni contenute nel codice di autoregolamentazione, adottato ai sensi della legge n. 146 del 1990 come modificata dalla legge n. 83 del 2000 (centralità attribuita anche alla provvisoria regolamentazione che la Commissione di garanzia è tenuta ad emanare in forza della medesima normativa primaria, qualora il codice di autoregolamentazione non sia stato adottato dagli organismi di categoria o non sia stato ritenuto idoneo dalla predetta Commissione), trova conferma anche a proposito di un'ulteriore specifica questione affrontata dalle Sezioni unite, relativa alle modalità di trasmissione all'autorità procedente, da parte del difensore aderente alla protesta di categoria, della sua dichiarazione di astensione.

Il Collegio ha infatti chiarito che quest'ultima può essere ritualmente trasmessa via telefax alla cancelleria del giudice procedente, trovando applicazione la norma speciale contenuta nell'art. 3, comma 2, del vigente codice di autoregolamentazione (ovvero, per la valutazione delle udienze anteriori all'entrata in vigore del predetto codice, la corrispondente analoga disposizione contenuta nella provvisoria regolamentazione adottata nel 2002 dalla Commissione di garanzia) secondo la quale l'atto contenente la dichiarazione di astensione può essere "trasmesso o depositato nella cancelleria del giudice o nella segreteria del pubblico ministero".

Per il Supremo consesso, tale soluzione appare imposta non solo da un'interpretazione letterale della predetta disposizione - non essendo richiesta l'adozione di forme particolari per la comunicazione o il deposito, come accade ad es. nell'ipotesi prevista dall'art. 162 cod. proc. pen. - ma anche ma anche "da una interpretazione adeguatrice (perché maggiormente conforme ai principi costituzionali del diritto di difesa e del contraddittorio), e comunque da una interpretazione sistematica meno legata a risalenti schemi formalistici e più rispondente alla evoluzione del sistema delle comunicazioni e notifiche (cfr. art. 148, comma 2-bis, cod. proc. pen.; art. 4 d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24) nonché alle esigenze di semplificazione e celerità richieste dal principio della ragionevole durata del processo".

Sarà ovviamente l'ulteriore elaborazione giurisprudenziale a chiarire se le argomentazioni delle Sezioni unite consentiranno di superare il radicato contrasto interpretativo esistente, nella giurisprudenza di legittimità, in ordine alla possibilità, per la difesa, di trasmettere via telefax all'ufficio procedente le proprie istanze di rinvio del procedimento (anche non inerenti l'adesione ad un'astensione di categoria).

È noto infatti - ed è la stessa sentenza Lattanzio a ricordarlo - che, sul tema, si registrano almeno tre diversi indirizzi interpretativi: un primo orientamento esclude l'ammissibilità dell'istanza di rinvio inviata via fax, perché l'art. 121 cod. proc. pen. stabilisce l'obbligo per le parti di presentare le memorie e le richieste rivolte al giudice mediante deposito in cancelleria, essendo il ricorso al telefax riservato ai funzionari di cancelleria ai sensi dell'art. 150 cod. proc. pen. (in tal senso, da ultimo, Sez. III, 11 febbraio 2014 n. 7058, Vacante, Rv. 258443, che ha ribadito il principio anche con riferimento all'invio di istanze tramite posta elettronica certificata). In senso contrario, si è invece affermato che è viziata da nullità assoluta, insanabile e rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo, la sentenza emessa senza che il giudice si sia pronunciato sull'istanza di rinvio per legittimo impedimento a comparire, trasmessa via fax, atteso che tale modalità di trasmissione deve ritenersi consentita alla luce dell'evoluzione del sistema di comunicazioni e notifiche, non ostandovi il dato letterale dell'art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen., il quale si limita a richiedere che l'impedimento sia <<prontamente comunicato>>, senza indicare le modalità (cfr. ad es. Sez. V, 16 gennaio 2012, n. 21987, Balasco, Rv. 252954). In una prospettiva "intermedia", è stato infine sostenuto che la richiesta di rinvio per legittimo impedimento dell'imputato o del difensore, inviata a mezzo telefax in cancelleria, non è irricevibile né inammissibile; peraltro, l'utilizzo di tale irregolare modalità di trasmissione comporta l'onere, per la parte che intenda dolersi in sede di impugnazione dell'omesso esame della sua richiesta, di accertarsi del regolare arrivo del fax e del suo tempestivo inoltro al giudice procedente (in questo senso, da ultimo, v. Sez. II, 5 novembre 2013, n. 9030/2014, Stucchi, Rv. 258526).

6. L'astensione del difensore nelle udienze camerali. I termini del contrasto giurisprudenziale: l'orientamento tradizionale.

Si è già accennato in premessa al fatto che, nei mesi successivi al deposito della sentenza Ucciero delle Sezioni unite - che per prima aveva attribuito alle norme del codice di autoregolamentazione un "valore di normativa secondaria alla quale occorre conformarsi" (cfr. supra, § 1) - si è registrata, nella giurisprudenza di legittimità, una ulteriore divergenza interpretativa, a proposito della possibilità, per il difensore, di astenersi nelle udienze camerali in cui la sua partecipazione non è necessaria.

Nonostante la presenza di precise indicazioni in ordine a tale possibilità, contenute sia nella previgente regolamentazione provvisoria emanata dalla Commissione di garanzia (art. 2, comma 4), sia nell'attuale codice di autoregolamentazione (cfr. l'art. 3, comma 1, che disciplina gli oneri procedimentali a carico del difensore interessato a che la sua mancata comparizione, "ancorché non obbligatoria", sia considerata quale adesione all'astensione), l'orientamento della Suprema corte è stato costantemente nel senso di escludere in radice l'ammissibilità di una richiesta di rinvio per astensione nelle udienze camerali, motivando generalmente con l'inapplicabilità, a tali udienze, dell'istituto del legittimo impedimento. Si tratta di un orientamento consolidatosi anche in forza di due diverse pronunce del Supremo consesso (Sez. Un., 8 aprile 1998, n. 7551, Cerroni, Rv. 210795; Sez. Un., 27 giugno 2006, n. 31461, Passamani Rv. 234146, la quale - ribadendo la validità del percorso argomentativo tracciato dalla sentenza Cerroni anche dopo che la L. n. 479 del 1999 aveva introdotto nel codice di rito l'art. 420-ter, ed aveva quindi dato rilievo all'impedimento del difensore già in sede di udienza preliminare - ha concluso per l'inammissibilità dell'istanza di rinvio per astensione nelle udienze, a partecipazione necessaria o facoltativa del difensore, non regolate dal predetto art. 420-ter).

L'orientamento in questione è stato ribadito dalla Suprema corte anche nel corso del 2014 (ovvero dopo la sentenza Ucciero delle Sezioni unite), in alcuni casi respingendo le argomentazioni difensive imperniate ora sulla rilevanza costituzionale dell'astensione forense (cfr. ad es. Sez. III, 5 febbraio 2014, n. 11545, Mbengue; Sez. V, 27 settembre 2013, n. 7433/2014, Canarelli, Rv. 259509, secondo cui la libertà di astenersi, ben diversa dal diritto di sciopero, può rilevare nel processo penale solo ove si traduca in un impedimento a comparire, e questo sia legittimo e rilevante), ora sulla natura vincolante delle disposizioni del codice di autoregolamentazione (cfr. ad es. Sez. II, 7 febbraio 2014, n. 8060, Peverelli, che ha ribadito il tradizionale assunto secondo cui tali disposizioni delineano i casi di legittima astensione al fine di esentare i difensori da possibili sanzioni penali e disciplinari, ma non dettano una specifica disciplina processuale, né tanto meno impongono il rinvio dell'udienza camerale).

In altri casi, il rigetto dell'istanza di rinvio è stato motivato non con l'inapplicabilità delle norme sul legittimo impedimento, ma ritenendo tuttora sussistente un potere di bilanciamento giudiziale tra la "libertà" di astenersi e i diritti fondamentali degli utenti della funzione giudiziaria (cfr. in tal senso Sez. IV, 17 dicembre 2013, n. 988/2014, Adinolfi, Rv. 259437).

7. (segue): il nuovo indirizzo che consente la possibilità di astenersi.

In consapevole contrasto con l'orientamento fin qui richiamato, ritenuto "del tutto inattuale", si è posta Sez. VI, 24 ottobre 2013, n. 1826/2014, S., Rv. 258334-258336.

La sentenza ha preso le mosse dall'impossibilità di ricondurre l'astensione - costituente una manifestazione di un diritto di libertà derivante direttamente dall'art. 18 Cost. - nell'alveo del legittimo impedimento, come ormai pacificamente chiarito dalla giurisprudenza in tema di sospensione del corso della prescrizione (cfr. sul punto anche supra, § 3), ed ha posto poi l'accento sulla "discrasia interpretativa" rilevabile nell'elaborazione giurisprudenziale, dal momento che "da un lato, vista dalla prospettiva del termine di sospensione della prescrizione, l'astensione viene configurata come un "diritto al rinvio", escludendo espressamente che rientri nell'ambito di un legittimo impedimento; dall'altro lato, l'irrilevanza dell'astensione nei procedimenti camerali a partecipazione eventuale ex art. 127 c.p.p., compresi quelli di cui all'art. 599 c.p.p., viene giustificata proprio con riferimento alla mancata previsione del legittimo impedimento del difensore". Inoltre, la Sesta sezione ha osservato - svolgendo argomentazioni che, pochi mesi dopo, saranno ampiamente riprese ed avallate dalla motivazione della sentenza Lattanzio delle Sezioni unite (cfr. supra, § 3) - che, per un verso, il necessario bilanciamento tra il "diritto di libertà" del difensore e i diritti fondamentali degli utenti del servizio giustizia "risulta oggi effettuato a monte dal legislatore". Per altro verso, la valenza di normativa secondaria conferita dalla sentenza Ucciero alle disposizioni del codice di autoregolamentazione imponeva di valutare adeguatamente il fatto che, in quella sede, non era stata operata "alcuna distinzione tra udienze a cui il difensore deve partecipare in via obbligatoria ovvero facoltativa". Tali considerazioni hanno indotto la Sesta sezione a concludere che la violazione del diritto ad astenersi nelle predette udienze camerali, correttamente esercitato, è causa di una nullità a regime intermedio ai sensi degli artt. 178, lett. c), e 180, cod. proc. pen., atteso il carattere facoltativo della partecipazione del difensore.

Tale percorso interpretativo è stato richiamato e condiviso da altre pronunce delle Sezioni semplici: cfr. Sez. I, 12 marzo 2014, n. 14775, Lapresa, Rv. 259438; Sez. I, 4 marzo 2014, n. 18133, Albini; Sez. III, 19 marzo 2014, n. 19856, Pierri, Rv. 259439-259440, la quale ha tratto ulteriore spunto da alcune precedenti decisioni della Suprema corte che, riconoscendo la valenza di normativa secondaria al codice di autoregolamentazione, secondo gli insegnamenti della sentenza Ucciero, avevano rigettato le istanze di astensione richiamandosi ai divieti, contenuti in quel codice, concernenti le udienze afferenti misure cautelari ovvero reati prossimi a prescriversi. La Terza sezione ha in particolare sottolineato la necessità, nell'apprezzamento del corretto esercizio dell'astensione, di aver riguardo non solo alle norme che vietano di aderire alla protesta di categoria in presenza di particolari circostanze, ma anche alle disposizioni che, al contrario, prevedono espressamente la possibilità di astenersi, quale quella di cui al già citato art. 3, comma 1, che fa espresso riferimento alla presenza del difensore "ancorché non obbligatoria" (cfr. supra, § 6).

Un cenno, infine, meritano due pronunce che, pur ponendosi espressamente nel solco della citata sentenza n. 1826/2014 della Sesta sezione, hanno peraltro ritenuto di dover precisare che, nelle udienze a partecipazione facoltativa, l'esigenza di evitare un uso strumentale dell'astensione impone di configurare, a carico del difensore, uno specifico onere di manifestare espressamente non solo la propria adesione, ma anche la propria intenzione di partecipare all'udienza (Sez. VI, 16 aprile 2014, n. 18753, Adem, Rv. 259199. In senso analogo, v. anche Sez. Fer, 13 agosto 2014, Alfarone).

8. L'intervento delle Sezioni unite: in particolare, le conclusioni del Procuratore Generale e l'informazione provvisoria.

Con ordinanza 25 marzo 2014, n. 18575, P.O. in proc. Tibo, la Quarta sezione della Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni unite la questione della necessità o meno, per il giudice procedente in udienza camerale a partecipazione non necessaria del difensore, di disporre il rinvio della trattazione in presenza di una tempestiva dichiarazione di adesione all'astensione legittimamente proclamata dagli organismi di categoria. Dopo aver richiamato i contrapposti orientamenti interpretativi, il Collegio, occupandosi del provvedimento di rigetto di un'istanza di rinvio per astensione formulata dal difensore della persona offesa, ha ritenuto necessario devolvere la questione al Supremo consesso, "a fronte del prospettarsi di così radicale contrasto, peraltro concernente il regolamento di diritti di rilievo costituzionale".

Si ritiene utile richiamare la posizione assunta, nel procedimento dinanzi alle Sezioni unite, dal Procuratore Generale. Pur aderendo alla svolta interpretativa registratasi a partire dalla sentenza Ucciero e, sulla specifica questione delle udienze camerali, dalla sentenza n. 1826/2014 (svolta che peraltro non era priva di criticità sistematiche, connesse alla possibilità di ottenere un rinvio per astensione in situazioni - quali le udienze camerali - in cui ciò era precluso in caso di legittimo impedimento), il P.G. aveva sollecitato con requisitoria scritta il rigetto del ricorso, ritenendo necessario fare applicazione, nel caso di specie, del principio per cui "l'astensione dalle udienze penali del difensore della parte civile, anche se prevista dal relativo Codice di Autoregolamentazione degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007, dà diritto al rinvio dell'udienza solo se l'imputato, anche tramite il proprio difensore, non manifesti l'interesse ad una celere definizione del procedimento" (Sez. VI, 12 luglio 2013, n. 43213, Arangio, Rv. 257105). La fondatezza di tali conclusioni risultava ulteriormente avvalorata, ad avviso del P.G., avuto riguardo sia all'irrilevanza dell'impedimento del difensore di parte civile, costantemente affermata dalla giurisprudenza relativa all'art. 420 ter cod. proc. pen., sia all'impossibilità di rinviare il dibattimento per l'assenza delle parti private diverse dall'imputato (art. 23 disp. att. cod. proc. pen.), sia anche al fatto che i "contrappesi" previsti in caso di rinvio per astensione del difensore dell'imputato (sospensione del corso della prescrizione e dei termini di custodia cautelare per tutta la durata del rinvio) non potrebbero evidentemente operare, in caso di astensione del difensore della persona offesa.

Come già accennato in premessa, il procedimento rimesso dalla Quarta sezione è stato definito dalle Sezioni unite con sentenza del 30 ottobre 2014, non ancora depositata. Dall'informazione provvisoria diffusa dopo l'udienza, emerge che è stata data soluzione negativa al quesito "se, in relazione alle udienze camerali, in cui la partecipazione delle parti non è obbligatoria, il giudice sia tenuto a disporre il rinvio della trattazione in presenza della tempestiva dichiarazione di astensione del difensore della persona offesa, legittimamente proclamata dagli organismi di categoria". Il principio sembrerebbe dunque affermato con riferimento al solo difensore della persona offesa, pur avendo la Quarta sezione affrontato, con l'ordinanza di rimessione, il problema dell'astensione nelle udienze camerali a partecipazione facoltativa nel suo complesso, ovvero anche con riferimento al difensore dell'imputato.

Solo dopo il deposito della sentenza, ovviamente, sarà possibile comprendere se la decisione delle Sezioni unite si porrà nel solco del percorso argomentativo proposto dal P.G. e dalla sentenza Arangio della Sesta sezione: un percorso che, come si è visto, tiene fermi i principi affermati sin dalle Sezioni unite Ucciero in ordine alla valenza normativa del codice di autoregolamentazione, principi poi ampiamente ribaditi dalla sentenza Lattanzio (cfr. supra, § 3).

Proprio quest'ultima decisione del Supremo consesso, tra l'altro, si è ampiamente soffermata sulle motivazioni della sentenza Arangio, affermando che le affermazioni ivi contenute non vanno intese come una tralatizia riaffermazione della sussistenza del potere giudiziale di operare un autonomo bilanciamento di interessi, quanto piuttosto come la "scelta di una interpretazione - fra le varie possibili - estensiva ed adeguatrice (a norme o principi costituzionali) delle norme secondarie in materia. Così, la sentenza Arangio ha solo interpretato l'art. 3, comma 2, del codice di autoregolamentazione - il quale dispone che la regola, secondo cui l'astensione costituisce legittimo impedimento anche quando gli altri difensori non vi abbiano aderito, si applica anche con riferimento ai difensori della persona offesa, ancorché non costituita parte civile - nel senso che però prevale in ogni caso l'eventuale contraria volontà formalmente espressa dall'imputato di procedere, in considerazione del suo interesse ad una celere definizione del procedimento".

Quel che può rilevarsi, in attesa del deposito delle motivazioni, è che il problema dell'astensione del difensore dell'imputato nelle udienze camerali è stato già diverse volte affrontato, dalle Sezioni semplici, sulla scorta degli insegnamenti della sentenza Lattanzio.

Si richiamano, al riguardo, le già citate Sez. II, n. 49478 del 2014, Sez. IV, n. 51776 del 2014 e Sez. IV, n. 51779 del 2014, che hanno affermato la sussistenza del diritto del difensore ad astenersi anche in tali udienze, fermo restando il doveroso controllo giudiziale sul corretto esercizio del diritto stesso (cfr. supra, § 4). Nella medesima prospettiva, ma con riferimento ad una dichiarazione di astensione formulata nel procedimento di sorveglianza (in cui la partecipazione del difensore all'udienza camerale è necessaria), v. anche, da ultimo, Sez. I, 11 novembre 2014, n. 50177, Pedone.

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CAPITOLO VI - INTERPRETAZIONE TRADUZIONE DEGLI ATTI DEL PROCEDIMENTO --- SEZIONE I

Interpretazione e traduzione degli atti del procedimento: la nuova disciplina del D.Lgs. n. 32 del 2014 e le applicazioni giurisprudenziali

(di Assunta Cocomello )

Sommario

1 Premessa. - 2 L'obbligo di traduzione degli atti ed il diritto all'assistenza dell'interprete nella giurisprudenza successiva alla riforma. - 3 Le conseguenze dell'omessa traduzione e dell'omessa interpretazione.

1. Premessa.

In materia di diritto alla interpretazione e traduzione degli atti è di recente intervenuto il legislatore con l'emanazione del Decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 32, che ha dato attuazione alla direttiva 2010/64/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 ottobre 2010, sul diritto alla interpretazione e traduzione degli atti relativi a procedimenti penali. La citata Direttiva, alla quale gli Stati membri avevano tempo di adeguarsi entro il 27 ottobre 2013, stabilisce norme minime comuni da applicare in materia di interpretazione e traduzione nei procedimenti penali ed ha la finalità "di rafforzare la fiducia reciproca degli stati membri".

In tale prospettiva, essa riconosce un diritto all'interpretazione ed alla traduzione degli "atti fondamentali" del processo penale, in favore di coloro che non parlano e non comprendono la lingua del procedimento al fine di garantire loro il più ampio diritto ad un processo equo, sancito nell'art. 6 n. 3 lett. a) della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo - in base al quale "ogni accusato ha diritto ad essere informato, nel più breve spazio di tempo, nella lingua che egli comprende ed in maniera dettagliata, della natura e dei motivi della accusa a lui rivolta" - nonché negli artt. 47 e 48, comma 2, della Carta dei Diritti fondamentali.

Va subito evidenziato che, in conseguenza della recente data dell'intervento normativo - che ha disposto, sul piano strettamente processuale, la modifica degli artt. 143 e 104 cod. proc. pen. - non si registrano nel corso dell'anno 2014, tranne pochissime eccezioni, pronunce di legittimità che si riferiscano a fattispecie verificatesi sotto la vigenza della novella normativa. Tuttavia è dato rinvenire nel, pur esiguo, numero di pronunce della Suprema Corte intervenute sul tema, indicazioni interpretative sui principali nodi rimasti di dubbia risoluzione anche dopo la definizione normativa.

Va infatti evidenziato che il citato decreto - che riconosce espressamente due distinti diritti, quello alla interpretazione e quello alla traduzione degli atti in favore dell'indagato o imputato che non comprenda la lingua italiana - non risolve tutti i dubbi interpretativi in ordine alla concreta applicazione degli stessi, residuando taluni margini di incertezza sia con riferimento al profilo della individuazione degli atti di cui è obbligatoria la traduzione, che a quello relativo alle conseguenze della violazione dell'obbligo medesimo, rispetto al quale il decreto legislativo non indica particolari sanzioni processuali.

2. L'obbligo di traduzione degli atti ed il diritto all'assistenza dell'interprete nella giurisprudenza successiva alla riforma.

In materia di individuazione degli atti per i quali è necessaria la traduzione in favore dell'indagato o imputato che non comprende la lingua del processo, l'elencazione inserita dalla novella normativa nell'art. 143 cod. proc. pen., agevola senz'altro il compito dell'interprete nella individuazione degli atti di cui è prevista obbligatoriamente la traduzione, ma non esaurisce - data la sinteticità dell'elencazione, che è incentrata più sulla "categoria" che sul singolo provvedimento nominativamente indicato - tutti i dubbi interpretativi. Per quanto concerne, ad esempio, i provvedimenti che dispongono misure cautelari, va evidenziato, che la norma fa riferimento esclusivo alle misure cautelari personali e non anche a quelle patrimoniali, né specifica se tra questi rientri soltanto l'originaria ordinanza applicativa della misura cautelare o se l'obbligo di traduzione si estende anche alle successive decisioni a seguito di impugnazione o di revoca dell'ordinanza applicativa di misura cautelare, ovvero all'ordinanza emessa a seguito di convalida dell'arresto in flagranza di reato e all'ordinanza emessa ex art. 27 cod. proc. pen.

Va ricordato, inoltre, che la nuova disciplina normativa non indica espressamente, tra gli atti di cui è obbligatoria la traduzione, quelli relativi all'esecuzione del mandato di arresto europeo, o alle misure coercitive personali in tema di estradizione.

Emerge pertanto come l'individuazione degli atti per i quali deve ritenersi obbligatoria la traduzione, all'indomani dell'attuazione della Direttiva 2010/64/UE, sia suscettibile di significativi ampliamenti o restrizioni a seconda dell'interpretazione che si riterrà di dare della elencazione contenuta nella norma, con indispensabile ausilio della giurisprudenza di legittimità.

Con particolare riferimento alla traduzione della sentenza emessa nei confronti di imputato alloglotta, oggi normativamente prevista, si ricorda la presenza nella precedente giurisprudenza di legittimità di un orientamento negatorio della necessità di traduzione della stessa, fondato, tra l'altro, sul presupposto che non si tratta di atto che introduce nel procedimento una contestazione dell'accusa, ma di atto che ne nega o ne afferma il fondamento.

In senso diverso si esprime, invece, la recente pronuncia della Suprema Corte, Sez. I, 11 febbraio 2014, n. 23608, Wang, Rv. 259732, che, in fattispecie riferita ad epoca precedente all'entrata in vigore del D.lgs. 4 marzo 2014 n. 32, ha affermato il seguente principio di diritto: "La mancata di traduzione della sentenza nella lingua nota all'imputato alloglotta, anche dopo l'entrata in vigore della direttiva 2010/64/UE, non integra ipotesi di nullità ma, se vi è stata specifica richiesta, i termini d'impugnazione decorrono dal momento in cui la motivazione della decisione sia stata messa a disposizione dell'imputato nella lingua a lui comprensibile".

La pronuncia in esame, inoltre, pur evidenziando che, prima dell'entrata in vigore della novella normativa, la mancata traduzione non poteva , in nessun caso ritenersi un'ipotesi di nullità, in quanto il regime di validità dell'atto è regolato dalla legge, atteso che le ipotesi di nullità sono tassative, ai sensi dell'art. 177 cod. proc. pen. e non risulta(va) introdotta alcuna norma interna tesa a modificare tale assetto, riconosce che, in caso di specifica istanza di traduzione del provvedimento, presentata dall'imputato legittimato all'impugnazione, si verifichi uno "slittamento" dei termini della stessa, che inizieranno a decorrere dal momento della avvenuta traduzione.

Con la suddetta pronuncia i giudici della Prima Sezione hanno evidenziato, quindi, quale indefettibile presupposto di un diritto alla traduzione, la necessità di una specifica richiesta in tal senso da parte dell'imputato, che pur sia stato assistito da un interprete nel corso del giudizio, dovendosi ritenere che egli è l'unico titolare del potere di attivarla, essendo evidente che la traduzione della sentenza, risulta finalizzata ad un'oggettiva comprensione delle ragioni della decisione da parte del soggetto carente di capacità comprensive del testo.

Sotto il profilo delle problematiche intertemporali, la sentenza in esame, inoltre, chiarisce che l'obbligo di traduzione degli atti fondamentali del processo in favore degli imputati che non comprendono la lingua del procedimento, nel periodo antecedente la riforma normativa, può ritenersi vigente, a seguito del valore precettivo diretto dell'art. 3 Direttiva 2010/64/Ue, solo dopo la scadenza del termine di recepimento della stessa da parte degli Stati membri, decorso il 27 ottobre 2013, mentre, prima di tale scadenza, il suo contenuto può solo fungere da criterio interpretativo della normativa interna vigente sul punto, "essendo indicatore della necessità di fornire adeguata tutela all'imputato alloglotta, anche in rapporto agli atti a contenuto valutativo al fine di orientare il potere di critica della decisione".

Alle medesime conclusioni perviene anche la pronuncia della Sez. VI, 30 dicembre 2013, n. 32/2014 , Iordache, Rv. 258558.

Proseguendo nella materia della individuazione degli atti del procedimento penale per i quali è necessaria la traduzione in lingua comprensibile dall'imputato alloglotta, un aspetto particolarmente spinoso, prima dell'entrata in vigore della novella normativa, era rappresentato dalla traduzione dell'ordinanza che dispone la misura cautelare, aspetto che aveva dato luogo ad un acceso dibattito nella giurisprudenza di legittimità, data la rilevanza, anche pratica della questione che, da un lato deve tenere conto dei termini brevi e perentori del procedimento di convalida - nell'ambito del quale può palesarsi per la prima volta la mancata conoscenza della lingua italiana da parte dell'indagato - e dall'altro comporta significative ricadute sull'esercizio del diritto di difesa in relazione a provvedimenti limitativi della libertà personale.

Sul tema si confrontavano nella giurisprudenza della Suprema Corte orientamenti opposti che, da un lato, negavano l'obbligo di traduzione del provvedimento, anche in considerazione della possibilità di consentire all'arrestato un'adeguata informazione in ordine all'imputazione posta a suo carico ed agli elementi fondanti l'accusa nel corso dell'udienza di convalida, dall'altro, affermavano la necessità della traduzione dell'ordinanza cautelare emessa nei confronti dell'imputato alloglotta, anche nelle ipotesi in cui questi era stato assistito dall'interprete all'udienza di convalida.

In tale panorama si inserisce, pertanto, il Decreto legislativo n. 34 del 2014 che espressamente prevede l'ordinanza di applicazione di misura cautelare personale fra gli atti di cui è obbligatoria la traduzione in favore di indagato/imputato alloglotta, così superando in parte i termini del suddetto contrasto, lasciando tuttavia, come già detto, dubbi interpretativi in ordine alle conseguenze dell'omessa traduzione, di cui si tratterà al paragrafo successivo.

La Sez. II, 11 dicembre 2013, n. 2244/2014, Bernal Diaz, Rv. 259422, ha, tuttavia, di recente affermato, in fattispecie precedente all'entrata in vigore della novella normativa, che il giudice che emette ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di un imputato che ignori la lingua italiana, non è tenuto alla traduzione della stessa nella lingua a quest'ultimo nota. La pronuncia pone a fondamento della esclusione della necessità di tale adempimento, la "garanzia" offerta dall'art. 94 disp. att. cod.proc.pen. che prevede l'obbligo a carico del direttore dell'istituto penitenziario, di accertare, eventualmente con l'ausilio di un interprete, che l'interessato abbia precisa conoscenza del provvedimento che ne dispone la custodia e di illustrargliene, ove occorra, i contenuti.

Sancisce invece un obbligo di traduzione della ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti di straniero alloglotta la pronuncia della Sez. V, 15 gennaio 2013, n. 23579, Filipesco, Rv. 255343, che, in particolare, estende tale obbligo anche alla ordinanza cautelare disposta, ai sensi dell'art. 27 cod. proc. pen., a seguito di dichiarazione di incompetenza del giudice delle indagini preliminari che aveva originariamente emesso il titolo custodiale, affermando che "l'omessa traduzione, non comporta la declaratoria di inefficacia del provvedimento cautelare, ma soltanto la restituzione degli atti al giudice che ha emesso il provvedimento non tradotto, ai fini della traduzione e della notifica all'indagato".

Per quanto concerne l'adozione di provvedimenti in ordine alle misure precautelari, che il Decreto legislativo n. 32 del 2014 non inserisce espressamente tra gli atti di cui è obbligatoria la traduzione, la pronuncia della Sez. VI, 24 ottobre 2013, n. 50105, Usifoh, Rv. 258322 ha affermato, prima dell'emanazione del citato decreto, che l'obbligo per l'autorità giudiziaria procedente di tradurre il contenuto del verbale d'arresto di uno straniero alloglotta, in una lingua a lui nota, non può essere desunto dalle disposizioni della direttiva 2010/64/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2010 sul diritto all'interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, non rientrando il predetto verbale tra i "documenti fondamentali" per garantire l'esercizio del diritto di difesa, individuati dall'art. 3 della stessa direttiva.

In materia di impugnazione avverso i provvedimenti di applicazione di misure cautelari, inoltre, la Sezione VI, 22 ottobre 2014, n. 48647, Carbonaro Gonzalo, Rv. 261139, ha ritenuto che l'omessa traduzione dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale di riesame in lingua comprensibile all'indagato alloglotta, non determini nullità dell'atto medesimo o di quelli da esso dipendenti, posto che detto avviso non è incluso nell'elenco degli atti per i quali l'art. 143 comma 2, cod. proc. pen., come modificato dalla novella normativa, prevede l'obbligo di traduzione né tale atto, per sua natura, esplica una funzione informativa in ordine alle accuse mosse al destinatario della misura cautelare, evidenziando, con tale ulteriore precisazione che, al di là della elencazione formale contenuta nella norma, è richiesta all'interprete un'ulteriore indagine sulla funzione svolta dall'atto di cui è in discussione la necessità di traduzione, al fine di accertare se esso esplichi una funzione informativa in relazione alle accuse rivolte all'indagato/imputato, in grado di incidere concretamente sul suo diritto di difesa.

Il Decreto legislativo n. 32 del 2014, come accennato, nulla dispone riguardo alla traduzione di atti relativi al mandato di arresto europeo ed alla procedura di estradizione. Sul tema, la recente pronuncia della Sez. VI, 15 maggio 2014, n. 21322, Alfieri, Rv. 260015, in relazione a fattispecie riguardante mandato di arresto europeo "esecutivo", ribadendo la necessità di espressa istanza da parte dell'arrestato, afferma che la violazione del diritto ad un processo equo condotto nel rispetto dei diritti minimi dell'accusato di cui all'art. 6 CEDU, che costituisce motivo di rifiuto della consegna del condannato ai sensi dell'art. 18, lett. G), L. n. 69 del 2005, non è configurabile nell'ipotesi di mancata traduzione di alcuni atti processuali, dei quali la persona di cui è richiesta la consegna - regolarmente assistita da un interprete nelle fasi in cui aveva partecipato al giudizio - non aveva domandato, nel corso del processo, pur avendone diritto, la comunicazione e la traduzione. In motivazione, la S.C. ha precisato che l'art. 6 CEDU, nella propria funzione di presidio dei "diritti minimi degli accusati", non può ritenersi implementato dalle disposizioni di cui alla direttiva 2010/64/UE in materia di assistenza linguistica degli imputati in procedimenti penali, cui l'Italia ha dato attuazione con il D.Lgs. n. 32 del 2014.

Per quanto concerne, invece, il diritto all'assistenza di un interprete, esso è normativamente sancito dalla riforma normativa che riconosce all'indagato/imputato che non comprende la lingua italiana, il diritto all'assistenza gratuita di un interprete, indipendentemente dall'esito del procedimento, "al fine di poter comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze cui partecipa".

Già prima dell'entrata in vigore della novella legislativa, Sez. I, 13 giugno 2013, n. 26705, B., Rv. 255972 e Sez. I, 31 maggio 2013 n. 32000, Yousif, Rv. 256113, in relazione all'atto di elezione di domicilio dello straniero alloglotta, hanno affermato la necessità, ai fini della sua validità, dell'assistenza di un interprete, precisando che l'omessa assistenza da luogo ad una nullità a regime intermedio.

3. Le conseguenze dell'omessa traduzione e dell'omessa interpretazione.

La problematica dell'individuazione del regime dell'invalidità conseguente alla violazione dell'obbligo di traduzione, non normativamente risolta, era stata già affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, nell'ambito della quale si erano fronteggiati due diversi orientamenti, uno favorevole alla configurabilità di una nullità a regime intermedio ed un altro secondo il quale l'omissione della traduzione configurerebbe una mera irregolarità formale, emendabile che non incide sulla validità dell'atto ma sulla sua efficacia, con conseguente diritto alla restituzione nel termine per consentire all'imputato alloglotta l'impugnazione.

Va comunque precisato che, specie in relazione a fattispecie precedenti la riforma e la relativa "catalogazione" degli atti di cui è oggi obbligatoria la traduzione, non è possibile trattare in maniera unitaria tutte le pronunce sul tema delle conseguenze derivanti dall'omessa traduzione di un atto o dalla mancata assistenza dell'interprete all'imputato non in grado di comprendere la lingua italiana, in quanto queste si riferiscono a diverse categorie di atti del processo ed a differenti fasi del procedimento.

In assenza di una specifica indicazione proveniente dal legislatore, sarà pertanto necessario fare riferimento all'evoluzione giurisprudenziale in sede nomofilattica, nella quale, permangono, contrasti anche in relazione alle conseguenze dell'omessa traduzione di medesimi atti o categorie di atti.

Sul punto, si ricorda, esiste pronuncia delle Sezioni Unite, 24 settembre 2003, n. 5052, Zalagaitis, Rv. 226717, che in relazione alla particolare ipotesi in cui si ignori la mancata conoscenza della lingua italiana da parte dell'indagato/imputato, non è dovuta l'immediata traduzione dell'ordinanza che la dispone e il diritto alla conoscenza del relativo contenuto è soddisfatto - una volta eseguito il provvedimento - o dalla traduzione in lingua a lui nota (anche in applicazione dell'art. 94, comma 1-bis, disp. att. cod. proc. pen.), ovvero dalla nomina, in sede di interrogatorio di garanzia, di un interprete che traduca le contestazioni mossegli, rendendolo edotto delle ragioni che hanno determinato l'emissione del provvedimento nei suoi confronti. In tal caso, afferma il Supremo Consesso, la decorrenza del termine per impugnare il provvedimento è differita al momento in cui il destinatario ne abbia compreso il contenuto, mentre si verte in ipotesi di invalidità dell'ordinanza di custodia cautelare non tradotta nella lingua comprensibile dall'imputato, ed, in particolare di nullità a regime cosiddetto intermedio, quando risulti inequivocabilmente, dagli atti in possesso del giudice al momento della sua adozione, che lo straniero non era in grado di comprendere la lingua italiana.

In senso analogo, la sentenza della Sez. II, 9 aprile 2014, n. 18781, Masciullo, Rv. 259523, in conformità della pronuncia delle Sezioni unite del 26 settembre 2006, n. 39298, Cieslinsky e altri, Rv. 234835, afferma che anche a seguito dell'entrata in vigore del Decreto legislativo n. 32 del 2014, con cui è stata data attuazione alla direttiva 2010/64/UE sull'assistenza linguistica, la omessa traduzione in una lingua nota all'imputato delle dichiarazioni rese da una persona informata sui fatti determina una nullità di ordine generale a regime intermedio, non deducibile nel giudizio abbreviato quando l'imputato abbia chiesto la definizione del processo nelle forme di rito speciale consapevolmente astenendosi dal formulare eccezione.

Sostengono un'ipotesi di invalidità dell'atto, in particolare di una nullità a regime intermedio, le pronunce citate al paragrafo che precede, Sez. I 13 giugno 2013, n. 26705, B., Rv. 255972, e Sez. I, 31 maggio 2013, n. 32000, Yousif, Rv. 256113, entrambe in materia di omessa assistenza dell'interprete all'atto di elezione di domicilio da parte dell'indagato/ imputato alloglotta.

Sostiene invece la conseguenza di un mero slittamento dei termini per l'impugnazione dell'atto, escludendo quindi un'ipotesi di invalidità dello stesso, la recente pronuncia della Sez. II, 25 giugno 2014, n. 31225, Mykhailo, Rv. 260032, la quale afferma che l'omessa traduzione del verbale di sequestro, nonché del relativo decreto di convalida in una lingua conosciuta dall'indagato alloglotta e la mancata nomina di un interprete per l'assistenza alle attività di esecuzione del sequestro compiute dalla polizia giudiziaria non costituiscono causa di nullità del provvedimento emesso dall'autorità giudiziaria, ma determinano esclusivamente lo slittamento della decorrenza iniziale del termine per l'impugnazione dell'atto fino a quando lo stesso sia tradotto secondo le formalità imposte dalla legge".

  • lingua straniera

SEZIONE II

La traduzione dei documenti redatti in lingua straniera

(di Francesca Costantini )

Sommario

1 La traduzione dei documenti redatti in lingua straniera.

1. La traduzione dei documenti redatti in lingua straniera.

Nell'ambito della tematica relativa alla lingua degli atti si pone la questione inerente alla traduzione di documenti redatti in lingua diversa dall'italiano, formati al di fuori del procedimento e che possono essere acquisiti a fini probatori.

La norma di riferimento sul punto è l'art. 242 cod. proc. pen., inserita nel titolo II del libro III del codice di procedura penale, dedicato ai mezzi di prova e, più specificamente, nel capo VII relativo ai documenti, che prevede che il giudice, in caso di acquisizione di un documento redatto in lingua diversa da quella italiana, ne deve disporre la traduzione se ciò è necessario alla sua comprensione. La questione involge, dunque, la verifica dell'eventuale esistenza di un diritto della parte a conoscere l'intero compendio documentale e, conseguentemente, del diritto alla completa trasposizione in lingua italiana di tutti i documenti in lingua straniera acquisiti al processo, potendone derivare di contro una compressione del diritto di difesa.

Sulla questione si sono pronunciate le Sezioni Unite della Suprema corte con la sentenza 24 aprile 2014, n. 38343, ThyssenKrupp A.S.T. S.p.a., Rv. 261111, affermando il principio di diritto secondo il quale "L'obbligo di usare la lingua italiana si riferisce agli atti da compiere nel procedimento, non agli atti già formati da acquisire al processo, per i quali la necessità della traduzione si pone solo qualora lo scritto in lingua straniera assuma concreto rilievo rispetto ai fatti da provare, essendo onere della parte interessata indicare ed illustrare le ragioni che rendono plausibilmente utile la traduzione dell'atto nonché il pregiudizio concretamente derivante dalla mancata effettuazione della stessa".

La Suprema corte nell'affermare tale principio ha confermato un consolidato orientamento giurisprudenziale volto ad escludere l'esistenza di un diritto dell'imputato a vedersi tradurre i documenti in lingua straniera acquisiti al processo a meno che essi non risultino tanto rilevanti ai fini della decisione da costituire parte integrante dell'accusa, per cui la mancata traduzione determinerebbe un concreto pregiudizio per i diritti di difesa dell'imputato (In tali termini si sono espresse Sez. VI, 29 ottobre 2008, n. 44418, Tolio, Rv. 241657; Sez. IV, 6 febbraio 2004, n. 4981, Ligresti, Rv. 229667; Sez. III, 13 maggio 2003, n. 21021, Cronk, Rv. 225230; Sez. V, 31 maggio 2001, n. 21952, Rainer, Rv. 219457).

Il Collegio ha, infatti, precisato che tali pronunce "non collidono con i principi del giusto processo, ma anzi, enfatizzano il ruolo del contraddittorio, che si realizza anche attraverso la selezione del materiale istruttorio da proporre al giudice". Se, invero, non vi è dubbio che la traduzione in tali casi può costituire un passaggio necessario al fine di consentire alle parti di comprendere appieno i fatti del processo, è pur vero che la traduzione non può assumere i caratteri di un adempimento "indefettibile ed indiscriminato", in quanto "una soluzione di tal genere rischierebbe di condurre, irragionevolmente, il processo in una sfera di inutile elefantiasi, introducendo adempimenti gravosi quanto inutili; con pregiudizio delle istanze di celerità ed efficienza". Ne consegue che la traduzione deve essere certamente favorita e propiziata dal giudice, esclusivamente nei casi in cui essa risulti effettivamente rilevante rispetto ai fatti da provare e, dunque, necessaria ai fini della decisione.

Tale risultato può essere conseguito, ad avviso delle Sezioni Unite, attraverso lo strumento del contraddittorio e della dialettica processuale per cui ciascuna parte sarà tenuta, in spirito di leale collaborazione, ad indicare e spiegare, sia pure succintamente, le ragioni che rendono plausibilmente utile la traduzione. Il Supremo consesso non ignora infatti che, in linea di principio, l'utilità di un atto può essere compresa appieno soltanto dopo la traduzione di esso, ma tale teorica esigenza, non può tuttavia essere perseguita mediante l'indiscriminata traduzione, che condurrebbe, soprattutto in processi molto complessi, ad esiti paralizzanti in violazione del principio della ragionevole durata del processo. Si tratterà allora di conseguire un adeguato contemperamento delle diverse esigenze, attraverso l'indicato itinerario dialettico, ispirato da una logica di favore per la traduzione.

Da ultimo, la Corte rileva come la soluzione prospettata non incontri ostacoli di natura normativa. Invero, si fa presente che uno specifico obbligo per l'autorità giudiziaria di provvedere alla traduzione di documenti acquisiti al procedimento fin dalla fase delle indagini preliminari è previsto esclusivamente dal d.P.R. 15 luglio 1988, n. 574, recante norme di attuazione dello statuto speciale per la regione Trentino-Alto Adige in materia di uso della lingua tedesca e della lingua ladina nei rapporti dei cittadini con la pubblica amministrazione e nei procedimenti giudiziari, che all'art. 15 comma 4-bis, come sostituito dall'art. 2 del D.Lgs. 29 maggio 2001, n. 283 e modificato dall'art. 3 del D.Lgs. 13 giugno 2005, n. 124 prevede che "i documenti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché le consulenze tecniche e le perizie che siano in lingua diversa da quella del procedimento sono tradotte a richiesta di parte". Tuttavia, tale normativa, in quanto volta a disciplinare espressamente l'uso della lingua tedesca nella regione Trentino Alto Adige, laddove tale lingua deve ritenersi equiparata a quella italiana, non ha portata generale essendo la sua applicazione limitata esclusivamente ai processi celebrati dinanzi all'autorità giudiziaria della Regione Trentino-Alto Adige nei confronti di imputati di madrelingua tedesca (In tal senso Sez. V, 31 maggio 2001, n. 21952, Rainer, Rv. 219456). Tale regolamentazione inoltre avallerebbe proprio la soluzione prospettata dalla Corte, escludendo l'automaticità della traduzione dei documenti redatti in lingue diverse dall'italiano, attraverso la previsione di una necessaria richiesta di parte.

Indicazioni in senso contrario non si rinverrebbero neppure nella nuova disciplina dettata in materia di diritto all'interpretazione nei procedimenti penali dal D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 32, volto a dare attuazione alla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 64 del 2010, atteso che anche tale disciplina, seppure con riferimento alla diversa fattispecie dell'imputato alloglotta, nel prevedere, all'art. 143 comma 3 cod. pen., la traduzione di atti ritenuti essenziali per consentire all'imputato di conoscere le accuse a suo carico, non prevede alcun automatismo ma, anche in tal caso, una richiesta di parte sulla quale il giudice decide con atto motivato impugnabile unitamente alla sentenza.

  • detenuto

CAPITOLO VII

IL PROCESSO IN ASSENZA E LE NOTIFICHE AL LATITANTE DETENUTO ALL'ESTERO

(di Luigi Barone )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le modifiche sul rito in absentia apportate dalla L. n. 67 del 2014. - 3 Le Sezioni unite "Avram" in tema di latitanza (le questioni trattate). - 4 Applicazione analogica in tema di ricerche ai fini della declaratoria di latitanza della disciplina dettata per l'irreperibilità. (Prima questione): gli indirizzi contrastanti. - 5 La soluzione offerta dalle Sezioni unite. - 6 Rilevanza in tema di latitanza dell'arresto dell'imputato all'estero, anche se non portato a conoscenza del giudice. (Seconda questione): gli indirizzi contrastanti. - 7 La soluzione offerta dalle Sezioni unite.

1. Premessa.

La materia del processo in absentia è, ormai da anni, in continua evoluzione normativa, sulla spinta anche dell'elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale, volta a rafforzare la tutela dei diritti fondamentali dell'individuo-imputato (in primis il diritto di difesa e allo svolgimento di un equo processo) in ipotesi anche a scapito del coesistente (e a tratti confliggente) interesse pubblico al regolare svolgimento della funzione giurisdizionale.

Fondamentale, in tale evoluzione, è stato - ed è - il contributo offerto dalla Giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, intervenuta, in più di un'occasione, condannando l'Italia, in ragione del contrasto tra la normativa interna al nostro paese in tema di processo contumaciale ed i principi del giusto processo di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (da qui in avanti CEDU). Principi, questi ultimi, desumibili, peraltro, ormai anche dalla Carta Costituzionale, che, all'art. 111, garantisce lo svolgimento di ogni processo nel contraddittorio tra le parti (comma secondo) ed impone alla legge di assicurare nel processo penale alla persona accusata di un reato di essere, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; di disporre del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa (comma terzo).

Nel quadro di tale evoluzione, sul fronte dell'elaborazione giurisprudenziale si registra nell'anno 2014 la pronunzia delle Sezioni unite, 27 marzo 2014, n. 18822, Avram, sulla condizione del soggetto, già dichiarato latitante, che risulti, ex post, essersi trovato, all'epoca del processo, residente o detenuto all'estero.

2. Le modifiche sul rito in absentia apportate dalla L. n. 67 del 2014.

Prima di passare alla disamina delle specifiche questioni trattate nell'arresto da ultimo indicato, occorre, però, far cenno all'intervento del legislatore, che, con la legge 28 aprile 2014, n. 67, ha profondamente innovato la disciplina processuale in tema di absentia, tramite la soppressione dell'istituto della contumacia e il contestuale rafforzamento delle garanzie a tutela dell'imputato, involontariamente, non comparso nel processo.

In estrema sintesi, la novella, avuto riguardo all'eventualità che l'imputato non compaia all'udienza, prevede i seguenti passaggi:

1) All'inizio dell'udienza preliminare il giudice deve verificare se vi sia stata regolare costituzione delle parti (art. 420, comma 1 cod. proc. pen.), disponendo la rinnovazione della vocatio in iudicium, ove accerti irregolarità nelle notifiche.

2) Accertata, invece, la regolare notifica, il giudice deve valutare la causa della mancata comparizione dell'imputato, accertando, in particolare, se questa sia dipesa da un legittimo impedimento, tale da provocare un'assoluta impossibilità di comparire in udienza (art. 420 ter cod. proc. pen.).

3) Se le notifiche risultano regolari e la mancata comparizione dell'imputato non è dipesa da legittimo impedimento ovvero, se l'imputato, benché impedito, ha espressamente rinunciato ad assistere all'udienza, il giudice procede in sua assenza (art. 420-bis comma 1 cod. proc. pen.). La rinuncia, oltre che espressa, può risultare implicitamente da una serie di fatti sintomatici, in presenza dei quali la legge presume che l'imputato sia a conoscenza della celebrazione del processo (art. 420-bis comma 2 cit.). Tali sono le ipotesi in cui: a) nel corso del procedimento l'imputato abbia dichiarato o eletto domicilio; b) l'imputato sia stato, nell'ambito del procedimento, arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare; c) l'imputato abbia nominato un difensore di fiducia; d) risulti "comunque" con certezza che l'imputato sia a conoscenza del procedimento o che l'imputato si sia sottratto volontariamente alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo.

4) Il giudice ricorrendo i presupposti di cui ai punti che precedono, dispone con ordinanza procedersi in assenza dell'imputato, a seguito della quale quest'ultimo è rappresentato dal difensore ed il procedimento prosegue nelle forme ordinarie.

5) Difettando, invece, i presupposti per procedere in assenza dell'imputato, il giudice rinvia l'udienza e dispone che l'avviso sia notificato all'imputato personalmente ad opera della polizia giudiziaria (art. 420-quater, comma 1 cod. proc. pen.).

6) Se la notifica disposta ha successo e l'imputato non compare, il giudice dichiara procedersi in assenza; altrimenti, se la notifica a mani proprie non risulta possibile il giudice dispone con ordinanza la sospensione del processo.

Dal raffronto dell'attuale sistema al precedente, risulta che le nuove disposizioni:

a) eliminano la declaratoria di contumacia, ridisegnando i presupposti, in presenza dei quali, il processo può essere celebrato in assenza dell'imputato;

b) non modificano la disciplina delle notificazioni all'imputato e, in particolare, l'istituto della irreperibilità (artt. 159-160 cod. proc. pen.) e della latitanza (artt. 295 e 296 cod. proc. pen.);

c) escludono la possibilità di procedere in assenza nei confronti di coloro per i quali non vi sia la prova né della conoscenza della data della udienza né dell'esistenza del procedimento;

Espunta, di fatto, la figura del contumace dall'impianto processuale, quelle situazioni che, in precedenza, giustificavano la declaratoria di contumacia, sono ora scisse in una pluralità di previsioni, autonomamente disciplinate, a seconda che, al momento della costituzione delle parti, in sede di udienza preliminare o dibattimentale:

1) vi sia la prova certa della conoscenza da parte dell'imputato della data della udienza e questi abbia espressamente rinunciato a parteciparvi;

2) non vi sia la prova certa della conoscenza dell'imputato della data della udienza, ma, al contempo, vi siano una serie di "fatti o atti" da cui si fa discendere, direttamente o indirettamente, la prova che l'imputato sia a conoscenza della esistenza del procedimento penale nei suoi riguardi;

3) non vi sia la prova certa della conoscenza da parte dell'imputato né della data dell'udienza, né della esistenza del procedimento penale.

3. Le Sezioni unite "Avram" in tema di latitanza (le questioni trattate).

Con ordinanza del 14 novembre 2013, la Prima Sezione penale ha rimesso alle Sezioni unite il ricorso che le era stato assegnato, avendo ravvisato l'esistenza di un contrasto di giurisprudenza, su due ordini di questioni.

a) Se le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria, ai sensi dell'art. 295 cod. proc. pen., costituenti presupposto per la dichiarazione della latitanza, debbano necessariamente ricomprendere quelle nei luoghi specificati dal codice di rito ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, di conseguenza, anche le ricerche all'estero quando ricorrano le condizioni previste dal comma quarto dell'art. 169 cod. proc. pen.

b) Se la cessazione dello stato di latitanza, a seguito di arresto all'estero, avvenuto in relazione ad altro procedimento penale, anche se non portato a conoscenza del giudice procedente, implichi la illegittimità delle successive notifiche eseguite nella forma prevista per l'imputato latitante dall'art. 165 cod. proc. pen.

4. Applicazione analogica in tema di ricerche ai fini della declaratoria di latitanza della disciplina dettata per l'irreperibilità. (Prima questione): gli indirizzi contrastanti.

Secondo un primo orientamento, allo stato maggioritario e più consolidato nel tempo, la declaratoria di latitanza non deve essere necessariamente preceduta dallo svolgimento all'estero di ricerche tese a rintracciare il soggetto nei cui confronti sia stato adottato il provvedimento cautelare e della cui dimora o residenza in un paese straniero si abbia avuto generica notizia, non sussistendo i presupposti per l'applicazione in via analogica delle regole dettate per le ricerche dell'irreperibile dall'art. 169, comma 4, cod. proc. pen.

Il principio risulta affermato, già nei primi anni dall'entrata in vigore del nuovo codice, da Sez. VI, 23 luglio 1992, n. 2978, Rimi ed altro, Rv. 191948, ma nel tempo ha trovato costantemente seguito, tra le altre, in Sez. III, 15 ottobre 2009, n. 46983, Campaniello e altro, Rv. 245415; Sez. I, 25 marzo 2010, n. 15410, Arizzi ed altri, Rv. 246751; Sez. V, 06 ottobre 2011 - dep. 2012 - n. 5932, Radu, Rv. 252154; Sez. II, 20 marzo 2012, n. 25315, Ndreko e altri, Rv. 253072; Sez. V, 19 settembre 2012, n. 46340, Adler e altri, Rv. 253636; Sez. VI, 27 settembre 2013, n. 43962, Hassad, Rv. 256684; Sez. VI, 13 novembre 2013, n. 47528, Elezaj.

Il fondamento giuridico a sostegno di quanto affermato negli arresti suindicati può schematizzarsi nei seguenti punti:

a) autonomia concettuale tra lo stato di latitanza e quello di irreperibilità;

b) differenti finalità tra la previsione dell'art. 169 cod. proc. pen. in tema di irreperibilità (assicurare la conoscenza degli atti) e quella dell'art. 295 cod. proc. pen. in tema di latitanza (eseguire la misura cautelare);

c) assenza, voluta dal Legislatore, tra le previsioni dell'art. 295 cod. proc. pen., di criteri predeterminati di ricerca del catturando, in modo da adeguare le ricerche medesime alle peculiarità del caso concreto;

d) mancanza dei presupposti previsti dal comma secondo dell'art. 12 delle preleggi (lacuna normativa, eadem ratio) per procedere in tema di latitanza all'applicazione analogica delle previsioni di cui all'art. 169 cit. in tema di irreperibilità;

e) assenza di contrasto degli artt. 295 e 296 cod. proc. pen. con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. e 6 CEDU;

f) adeguamento del sistema interno ai principi affermati dalla Corte e.d.u. tramite lo strumento previsto dall'art. 175 comma secondo cod. proc. pen., così come ampliato dalla novella del 2005 e dalla Corte Costituzionale nel 2009.

Un secondo più recente, ma decisamente minoritario, orientamento ritiene, invece, applicabile in via analogica, anche ai fini della legittimità della emissione del decreto di latitanza, la particolare disciplina dettata dall'art. 169, comma 4, cod. proc. pen., pur se stabilita nella sua dimensione normativa in funzione della emissione del decreto di irreperibilità (cfr. Sez. I, 24 aprile 2007, n. 17592, Dalipi, Rv. 236504; Sez. VI, 22 gennaio 2009, n. 5929, Bambach e altro, Rv. 243064; Sez. I, 16 febbraio 2010, n. 9443, Havaraj, Rv. 246631; Sez. I, 4 marzo 2010, n. 17703, Rozsaffy e altri, Rv. 247061).

Schematizzando per punti, anche in relazione a questo secondo indirizzo, l'iter argomentativo degli arresti che vi hanno dato seguito, è agevole coglierne la posizione speculare rispetto al primo:

a) inquadramento concettuale della latitanza nella più ampia figura dell'irreperibilità, della quale sarebbe una forma, qualificata dalla volontaria sottrazione del soggetto ad un provvedimento coercitivo;

b) assenza nell'art. 295 cod. proc. pen. di alcuna presunzione legale di volontaria sottra-zione e di conoscenza del provvedimento coercitivo, il cui accertamento è invece demandato al giudice sulla base di fatti concreti;

c) differenza tra latitanza ed irreperibilità, non per i modi e le estensioni delle ricerche per l'uno o per l'altro caso previsti, piuttosto - e soltanto - per i presupposti a monte, che legittimano il ricorso nei due casi alla notificazione per fictio iuris; d) sussistenza della eadem ratio, presupposto essenziale per procedere all'applicazione analogica dell'art. 169 cit.;

e) obbligo imprescindibile di conformare l'esegesi degli artt. 295 e 296 cod. proc. pen. agli artt. 111 Cost. e 6 CEDU e ai principi affermati dalla Corte e.d.u.;

f) adeguamento del rito contumaciale ai principi affermati dalla Corte e.d.u. nelle condanne all'Italia, anche con riferimento agli artt. 295 e 296 cod. proc. pen.

In una linea interpretativa intermedia tra i contrapposti orientamenti che precedono, si pongono, infine, taluni arresti della Corte, che, pur non giungendo ad ipotizzare l'applicazione analogica dell'art. 169 comma quarto cod. proc. pen., evidenziano che, per poter essere ritenute esaustive, le ricerche propedeutiche alla declaratoria di latitanza devono essere eseguite secondo modalità analoghe a quelle previste per la dichiarazione di irreperibilità (Sez. V, 07 dicembre 2011 - dep. 2012 -, n. 9637, Spaggiari, Rv. 251998; Sez. III, 10 gennaio 2012, n. 6679, Vorovei ed altro, Rv. 252444).

In sostanza, secondo questo ultimo indirizzo, rientra tra i parametri esegetici della disciplina sulla latitanza quelli forniti dagli artt. 111 Cost. e 6 CEDU, che impongono all'Autorità Giudiziaria, chiamata a valutare l'esaustività delle ricerche, lo sforzo, fin dove le emergenze del caso concreto lo rendano possibile, finalizzato a ridurre al massimo lo scarto tra la presunzione legale della volontaria sottrazione dell'imputato alla esecuzione della misura cautelare nei suoi confronti e la realtà, in modo da scongiurare, per quanto possibile, il rischio che l'imputato sia stato privato della possibilità di intervenire al processo.

5. La soluzione offerta dalle Sezioni unite.

Le Sezioni unite con la sentenza "Avram", qui in esame, si sono espresse a favore dell'orientamento maggioritario, ritenendo che le profonde differenze, strutturali e teleologiche, che concettualmente separano fra loro gli istituti della irreperibilità e della latitanza, impediscono di procedere ad una applicazione analogica della disciplina prevista dall'art. 169, comma 4, c.p.p. anche agli effetti della latitanza.

Lo stato di latitanza, infatti, presuppone, come puntualizzato dallo stesso art. 296 del codice di rito, la volontaria sottrazione del soggetto alla cattura e, una volta accertata tale condizione, lo stesso permarrà per tutto il tempo in cui il soggetto continuerà a sottrarsi volontariamente alla cattura (Sez. IV, 22 agosto 1996, n. 2024, Turchetti, Rv. 206262; Sez. V, 18 dicembre 1997, n. 5807, Volpe, Rv. 210752; Sez. V, 27 ottobre 1998, n. 2483, Vista, Rv. 213075; Sez. I, 1 marzo 2013, n. 29503, Masha, Rv. 256107) e potrà cessare, oltre che per le cause indicate nell'art. 296, comma 4, c.p.p. - vale a dire in virtù di quegli eventi, tipici e nominati, che incidono sulla stessa fattispecie cautelare, come la revoca o la perdita di efficacia della misura, o la estinzione del reato o della pena cui la misura stessa si riferisce - soltanto con la cattura o la costituzione spontanea, ovvero con l'arresto dell'imputato all'estero a fini estradizionali (Sez. II, 1 luglio 2002, n. 31253, Santolla, Rv. 222358; Sez. I, 27 giugno 2002, n. 30804, Maggio, Rv. 222375).

A fronte del perdurante valore del decreto di latitanza, il provvedimento che dichiara lo stato di irreperibilità abbisogna, invece, di nuove ricerche e di un nuovo provvedimento dichiarativo ad ogni cadenza processuale, secondo un meccanismo reiterativo tipico delle situazioni mutevoli e precariamente accertate.

In altri termini, la latitanza produce automaticamente effetti processuali, in quanto frutto di una scelta volontaria del soggetto di sottrarsi ad un provvedimento custodiale e conseguentemente di non presenziare al procedimento; la irreperibilità è, invece, una condizione di fatto, la quale può derivare da cause estranee ad una "scelta" dell'imputato; può quindi consistere in uno status non soltanto involontario, ma anche incolpevole: con la conseguenza di assumere connotazioni processualmente rilevanti, tanto agli effetti della conoscenza della accusa e del procedimento a proprio carico, quanto ai fini del diritto di partecipare al giudizio.

Latitanza e irreperibilità, pertanto, rappresentano il convergere di condizioni soggettive profondamente diverse e fra loro non assimilabili, vuoi sul piano delle garanzie e delle correlative strutture normative di riferimento, vuoi su quello delle reciproche "compatibilità" sul versante degli sviluppi ermeneutici. Come si è già osservato, le ricerche proseguono anche dopo l'emissione del decreto che dichiari lo stato di latitanza, proprio perché la finalità dell'istituto è quella di assicurare l'esecuzione del provvedimento e porre così fine, con la cattura dell'imputato, allo stato di latitanza.

In tale quadro di riferimento, le Sezioni unite ritengono, pertanto, di non discostarsi dall'orientamento maggioritario, che ha escluso la possibilità di ricorrere alla analogia per rendere applicabile anche alla disciplina della latitanza il regime delle ricerche all'estero di cui all'art. 169, comma 4, cod. proc. pen., prodromico alla declaratoria di irreperibilità.

E a tal riguardo si osserva anche che il ricorso alla analogia è consentito dall'art. 12 delle preleggi solo quando manchi nell'ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria. Ove poi sia effettivamente riscontrabile nel sistema una simile lacuna, l'applicazione della disciplina dettata per un caso "analogo" sconta l'esigenza che tra la fattispecie positivamente disciplinata e quella cui tale normativa debba essere estesa sussista una identità di ratio essendi, vale a dire che le due situazioni poste a raffronto siano governate dall'identico fondamento razionale: presupposto, questo, la cui sussistenza può essere verificata all'esito di un processo logico che consiste nel risalire dalle norme espresse e particolari al principio che le governa, per accertare se in questo rientri anche il caso non preveduto (Sez. I civ., n. 2404 del 23 novembre 1965, Rv. 314487).

Sennonché, a proposito del primo dei presupposti appena indicati (sussistenza di un "vuoto" normativo) la Corte rileva che l'art. 295 cod. proc. pen. non prevede, ratione cognita, alcun criterio per l'attività di ricerca del "catturando", dal momento che essa deve essere per definizione esauriente al fine di conseguire la esecuzione della misura e completa agli effetti della verifica che il giudice, a norma del comma 2 dello stesso articolo, deve compiere in vista della declaratoria dello stato di latitanza. Anzi, la previsione di un "criterio legale" di ricerca potrebbe addirittura rivelarsi strutturalmente eccentrico rispetto alla funzione che quelle ricerche devono assolvere, dal momento che il soddisfacimento di quel criterio in tanto potrebbe avere un senso, in quanto destinato a far sorgere una "presunzione di completezza" che, al contrario, deve cedere il passo ad un paradigma di "effettività", calibrato sulla falsariga delle peculiarità concrete che il singolo caso (e il singolo soggetto da catturare) può presentare.

Quanto, poi, al profilo della eadem ratio, è del tutto evidente la chiara distonia che impedisce qualsiasi interferenza tra l'art. 169 e l'art. 295 del codice di rito: mentre il primo è, infatti, volto a dettare una specifica disciplina per le notificazioni degli atti nei confronti dell'imputato residente o dimorante all'estero ed esaurisce, quindi, la propria portata all'interno degli strumenti destinati a portare gli atti del processo a conoscenza del relativo destinatario, l'art. 295 cod. proc. pen. - e le ricerche che in esso sono previste - si rivolgono ad una ben diversa funzione "esecutiva", che vede il destinatario come mero "soggetto passivo", che non deve essere informato dell'atto - per sua natura "a sorpresa" - ma che lo deve soltanto subire.

Per altro verso, la eventuale estensione all'estero delle ricerche, non sarebbe funzionale ad un meccanismo di notificazione degli atti, ma di esecuzione della misura attraverso i canali della cooperazione giudiziaria: il che profilerebbe, addirittura, una contraddittorietà di ratio, dal momento che una previsione di garanzia nei confronti dell'imputato dimorante all'estero sarebbe "utilizzata" per scopi coercitivi, in vista dell'arresto a fini estradizionali (Sez. VI, 13 gennaio 2013, n. 47528, Elezaj, Rv. 257279).

Infine, la tesi dell'applicazione analogica dell'art. 169, comma 4. cod. proc. pen. anche al latitante non convince i giudici delle Sezioni unite, neanche nel passaggio argomentativo in cui si ritiene che il latitante altro non sarebbe che un "irreperibile qualificato dalla volontaria sottrazione alla esecuzione della misura custodiale".

Invero, oltre ad evidenziare la singolarità di una disciplina che solo in una sua parte (le ricerche all'estero) sarebbe estensibile al latitante, la Corte reputa dirimente il rilievo che l'asserita assimilazione tra le due condizioni non si basa sulla disamina delle "qualità" che normativamente definiscono lo status dell'uno rispetto a quello dell'altro, ma esclusivamente sul modo di essere del regime delle notificazioni. Peraltro, se il latitante fosse realmente configurabile come un "irreperibile volontario", non vi sarebbe stato alcun bisogno di disciplinare, con una previsione a sé stante, le notificazioni all'imputato latitante o evaso, posto che, in una simile prospettiva, poteva reputarsi sufficiente un mero rinvio alle forme di notificazione previste per gli irreperibili.

Ed, invece, l'art. 165 cod. proc. pen. rivela un profilo di "autonomia" che merita di essere scandagliato. Accanto, infatti, alla previsione per la quale le notificazioni all'imputato latitante o evaso sono eseguite mediante consegna di copia al difensore, il comma 2 stabilisce che, ove l'imputato non abbia un difensore di fiducia, l'autorità giudiziaria designa un difensore di ufficio: il che già proietta la disposizione in un quadro di disciplina "generale", destinata ad operare anche al di fuori dello specifico alveo delle notificazioni degli atti. Ma è il comma 3 dello stesso articolo a rivelare come la "qualità" del latitante assuma una dimensione normativa non riconducibile allo stato di irreperibilità, giacché si stabilisce il principio - stavolta estraneo al tema delle notificazioni - per il quale l'imputato latitante o evaso <<è rappresentato ad ogni effetto dal difensore>>, rendendo quindi la relativa figura analoga a quella di un "contumace qualificato".

Non resta, dunque, nel pensiero della Corte, che prendere atto che la "qualità" del latitante, lungi dal poter essere accorpata a quella dell'irreperibile, è normativamente definita dalla sequenza procedimentale scandita dagli artt. 295 e 296 cod. proc. pen., al di fuori di qualsiasi nesso con il regime delle notificazioni, secondo una articolazione del tutto autosufficiente, che si giustifica nell'alveo del procedimento cautelare e che nulla ha a che vedere con le forme di "rintraccio" dell'imputato ai fini della notificazione degli atti del procedimento.

Tutto ciò premesso, le Sezioni unite ritengono che l'impianto processuale, come disegnato nell'esegesi fornita, non contrasti con i valori del giusto processo tracciati dall'art. 111 Cost. e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, sempre che, però, il giudice conformi al massimo rigore il proprio sindacato volto ad accertare l'esistenza dei presupposti per la declaratoria di latitanza.

La Corte sposta così l'asse della questione esaminata sui criteri che devono muovere un siffatto scrutinio e, in tal ottica, richiama gli artt. 295 e 296 del codice di rito, che individuano alcuni snodi di significativa pregnanza.

In particolare, l'art. 295, comma 1, disciplina una attività composita, che passa da una fase di tipo constatativo - il mancato "rintraccio"- ad una di tipo squisitamente investigativo, che può anche assumere caratteri di notevole complessità. Delle indagini svolte deve poi essere fornita indicazione "specifica" nel relativo verbale, dal momento che è proprio dalla analitica rassegna degli accertamenti che può apprezzarsi il "merito" delle scelte compiute dalla polizia giudiziaria e della impossibilità di battere altre strade che possano condurre alla cattura del latitante.

Tra il verbale di vane ricerche e la dichiarazione di latitanza si inserisce, poi, il sindacato del giudice, che, senza alcun automatismo tra gli esiti negativi delle prime e la propria declaratoria, è chiamato a valutare l'esaustività investigativa, verificando, da un lato, se le indagini svolte per pervenire al rintraccio del latitante escludano possibilità ulteriori ai fini della esecuzione della misura; dall'altro, se le ricerche e le correlative indagini rivelino la sussistenza del presupposto della volontaria sottrazione alla esecuzione della misura, giacché, altrimenti, la declaratoria di latitanza risulterebbe priva dell'accertamento "sostanziale" che qualifica la condizione normativa di quello status. Tutto ciò sta quindi a significare che, ove non risulti positivamente riscontrata la completezza delle ricerche, nella duplice prospettiva di cui innanzi si è detto, il giudice sarà chiamato a disporre ulteriori accertamenti.

In risposta al primo quesito posto, le Sezioni unite risolvono, dunque, la questione sulla base del principio (così massimato dall'Ufficio): "Ai fini della dichiarazione di latitanza, tenuto conto delle differenze che non rendono compatibili tale condizione con quella della irreperibilità, le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 295 cod. proc. pen. - pur dovendo essere tali da risultare esaustive al duplice scopo di consentire al giudice di valutare l'impossibilità di procedere alla esecuzione della misura per il mancato rintraccio dell'imputato e la volontaria sottrazione di quest'ultimo alla esecuzione della misura emessa nei suoi confronti - non devono necessariamente comprendere quelle nei luoghi specificati dal codice di rito ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, di conseguenza, neanche le ricerche all'estero quando ricorrano le condizioni previste dall'art. 169, comma quarto, dello stesso codice" (Rv. 258792).

6. Rilevanza in tema di latitanza dell'arresto dell'imputato all'estero, anche se non portato a conoscenza del giudice. (Seconda questione): gli indirizzi contrastanti.

Anche sulla seconda questione rimessa alle Sezioni unite si registra nel dibattito giurisprudenziale una divergenza di interpretazioni in merito alla rilevanza da attribuire, con specifico riferimento al regime delle notifiche, alla materiale conoscenza da parte dell'Autorità giudiziaria procedente della cessazione dello stato di latitanza dell'imputato a seguito del suo arresto all'estero.

In particolare, all'orientamento ampiamente maggioritario e consolidato nel tempo, secondo cui l'arresto dell'imputato comporta la cessazione del suo stato di latitanza, ma non implica un mutamento di regime delle successive notifiche, sino a quando la circostanza della detenzione non sia processualmente cognita, si contrappongono più di recente taluni arresti, che si sono spinti ad affermare l'illegittimità delle notifiche eseguite ai sensi dell'art. 165 cod. proc. pen., anche nell'ipotesi in cui la sopravvenuta causa di cessazione della latitanza, benché non materialmente conosciuta, sarebbe stata comunque riscontrata dall'autorità giudiziaria, ove questa avesse, secondo diligenza, verificato il persistere delle condizioni di cui all'art. 296 cod. proc. pen.

Le due interpretazioni, benché divergenti, muovono, entrambe, dai principi affermati dalla Corte nel suo più autorevole consesso, nelle sentenze "Caridi" (Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 21035, Rv. 224134), secondo cui l'arresto dell'imputato all'estero nell'ambito di una procedura estradizionale o per altra causa comporta la cessazione dello stato di latitanza ed "Arena" (Sez. Un., 26 settembre 2006, n. 37483, Rv. 234599-234600), secondo cui la conoscenza, da parte del giudice, di un legittimo impedimento a comparire dell'imputato (quale deve essere considerata la detenzione per altra causa comunicata solo in udienza) ne preclude la dichiarazione di contumacia, a meno che l'imputato stesso non acconsenta alla celebrazione dell'udienza in sua assenza o, se detenuto, rifiuti di assistervi.

La giurisprudenza successiva ai due arresti appena richiamati ha, nella quasi totalità delle pronunce, dato seguito alle linee tracciate dalle Sezioni unite, conformandosi al principio, secondo cui l'arresto dell'imputato all'estero, anche per altra causa, comporta la cessazione dello stato di latitanza, sempre che lo stato di detenzione sia noto all'autorità giudiziaria procedente (Sez. VI, 15 dicembre 2003, n. 14239, Farina, Rv. 231455; Sez. IV, 30 giugno 2004, n. 36780, Arcuri e altro, Rv. 229760; Sez. II, 29 maggio 2009, n. 24535, Volpe, Rv. 244252; Sez. I, 25 marzo 2010, n. 15410, Arizzi, Rv. 246751; Sez. I, 1 marzo 2013, n. 29503, Masha, Rv. 256107).

Tuttavia, a fronte dell'orientamento pressoché unanime e consolidato di cui si è appena detto, si collocano alcune pronunce, nelle quali si fa leva su ipotesi peculiari, per trarne il corollario che lo stato di detenzione determina la cessazione della condizione di latitante anche ove la stessa, pur non risultando dagli atti, sia agevolmente riscontrabile da parte del giudice procedente.

Ci si riferisce, in particolare, a Sez. I, 19 maggio 2009, n. 22076, Scollo, Rv. 244135, la quale ha affermato che la cessazione dello stato di latitanza implica la illegittimità delle successive notifiche eseguite ai sensi dell'art. 165 cod. proc. pen. anche qualora non sia stata portata a conoscenza del giudice procedente, gravando su quest'ultimo il compito di verificare che la latitanza non sia cessata e non essendo previsto un onere di comunicazione a carico dell'imputato.

Ed ancora, a Sez. V, 5 dicembre 2008, n. 9746, Foley, Rv. 242991, secondo cui la notificazione degli atti all'imputato, arrestato all'estero nell'ambito di una procedura estradizionale o per altra causa - e di cui risulti agli atti il luogo della detenzione - con conseguente cessazione dello stato di latitanza prima dichiarato, deve compiersi secondo la disciplina prescritta per l'imputato residente o dimorante all'estero e non secondo quella per la notifica al latitante.

Al requisito della conoscenza da parte del giudice dello stato di detenzione dell'imputato (cui dalla "Caridi" in avanti veniva comunque subordinata la cessazione della latitanza) le due pronunzie introducono il differente profilo della conoscibilità, che grava l'Autorità giudiziaria dell'obbligo di diligenza di verificare, sulla base della specificità delle informazioni di cui sia già in possesso, la persistenza della condizione di latitanza.

Occorre evidenziare che i due arresti, pur convergenti nell'affermazione del principio in diritto, risultano non accomunabili tra loro in ragione delle rispettive fattispecie di riferimento, relative, solo nel caso della sentenza "Foley", ad una ipotesi di detenzione all'estero, mentre la pronunzia "Scollo" riguardava la, ben differente, situazione di un soggetto detenuto in Italia per altra causa.

7. La soluzione offerta dalle Sezioni unite.

Nel risolvere questa seconda questione, le Sezioni unite ne hanno, in premessa, rivisitato i termini, evidenziando la dissonanza solo apparente dei due indirizzi esegetici, frutto, secondo la Corte, del marcato accento (posto dagli arresti aderenti all'orientamento minoritario) sulla scrupolosità che deve guidare il giudice nel valutare le risultanze processuali, dalle quali eventualmente dedurre che l'imputato si trova in vinculis al di fuori del territorio nazionale.

Osservano i giudici della "Avram" che, a ben guardare, il secondo indirizzo esegetico sposta l'asse dell'attenzione sulla valutazione, in termini probatori, dell'impedimento costituito dalla detenzione all'estero, senza tuttavia discostarsi dall'orientamento maggioritario, restando preclusiva ai fini che qui rilevano l'eventuale mancata conoscenza da parte del giudice della condizione di detenzione del latitante.

Così superato l'apparente contrasto che avrebbe caratterizzato, secondo il giudice remittente, questa seconda questione, la Corte osserva che la perdita della condizione di latitante agli effetti del regime delle notificazioni per l'avvenuto arresto all'estero deve "risultare" dagli atti, al pari dell'impedimento alla partecipazione al processo, secondo l'ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale formatosi a far data dalla sentenza "Caridi" (cfr. supra).

Sarebbe, infatti, davvero paradossale che il diritto dell'imputato a partecipare al proprio processo fosse subordinato a presupposti più rigorosi di quelli in ipotesi previsti per il regime delle relative notificazioni, assegnando soltanto a queste un margine di garanzie più elevato, quando le notificazioni sono ontologicamente "serventi" rispetto proprio all'esercizio del diritto di partecipazione al processo.

In altri termini, il diritto di partecipare al processo - e, dunque, la libertà di scelta se essere o meno presente - deve essere strutturalmente modulato in termini corrispondenti al regime degli strumenti ad esso funzionali, come, appunto, le notificazioni degli atti: istituto che, per definizione, mira a consentire l'esercizio di diritti e facoltà endoprocessuali.

Ribadita, dunque, la necessità che della causa di cessazione della latitanza, ai fini della sua efficacia, il giudice abbia conoscenza, le Sezioni unite rilevano l'esigenza di un adeguato coordinamento fra le forze di polizia, nonché tra queste e l'autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento restrittivo, dal quale è insorto lo stato di latitanza, con la conseguente predisposizione di adeguati strumenti conoscitivi che permettano alle autorità giudiziarie nazionali di venire prontamente rese edotte in merito all'arresto avvenuto all'estero della persona ricercata.

Viene dunque in discorso, a tal riguardo, l'utilizzazione delle informative desumibili dal Sistema informativo previsto dalla Convenzione del 19 giugno 1990 di applicazione dell'Accordo di Schengen del 14 giugno 1985, resa esecutiva in Italia con la legge 30 settembre 1993, n. 338, ovvero dall'Interpol, per i Paesi che non aderiscono a quell'Accordo, e, più in generale, di tutti gli elementi di carattere informativo che possano comunque acquisirsi in sede di collaborazione e assistenza giudiziaria o fra le forze di polizia.

Sulla base delle considerazioni svolte, la Corte, in relazione al secondo quesito, perviene, dunque, all'enunciazione del principio di diritto, così testualmente enunciato in sentenza:

La cessazione dello stato di latitanza, a seguito di arresto avvenuto all'estero in relazione ad altro procedimento penale, non implica la illegittimità delle successive notificazioni eseguite nelle forme previste per l'imputato latitante dall'art. 165 c.p.p. qualora essa non sia stata portata a conoscenza del giudice procedente. È peraltro compito della polizia giudiziaria, cui spetta l'esecuzione delle ricerche della persona in stato di latitanza, di procedere alla costante verifica di tutte le informazioni desumibili, fra l'altro, dai sistemi informativi nazionali ed internazionali e di comunicare prontamente alla autorità giudiziaria procedente l'eventuale arresto avvenuto all'estero della persona ricercata.

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CAPITOLO VIII

L'UTILIZZABILITÀ DELLE INTERCETTAZIONI COME CORPO DI REATO

(di Luigi Barone )

Sommario

1 Inquadramento della questione. - 2 Il contrasto giurisprudenziale e l'indirizzo secondo cui le conversazioni possono costituire corpo del reato ed essere quindi utilizzate, indipendentemente dai limiti previsti dall'art. 270 cod. proc. pen. - 3 L'indirizzo intermedio. - 4 L'indirizzo secondo cui le conversazioni, anche quando costituiscono corpo del reato, sono sottoposte ai limiti di utilizzabilità previsti dall'art. 270 cod. proc. pen. - 5 La soluzione offerta dalle Sezioni unite: delimitazione dell'ambito delle garanzie costituzionali in materia di intercettazioni. - 6 La nozione di corpo del reato e la possibilità di ricomprendervi l'intercettazione di una comunicazione. - 7 Conclusioni.

1. Inquadramento della questione.

Nell'anno 2014 le Sezioni unite si sono occupate, in tema di intercettazioni, della questione relativa all'utilizzo delle stesse in procedimento diverso quale corpo del reato.

Sul punto, la Prima sezione penale, cui era stato assegnato il ricorso, aveva rilevato un contrasto di orientamenti in seno alla giurisprudenza di legittimità e, pertanto, con ordinanza del 30 ottobre 2013, aveva rimesso il ricorso alle Sezioni unite, che si pronunziavano con sentenza del 26 giugno 2014, n. 32697, Floris ed altro, Rv. 259776.

La fattispecie, alquanto singolare, si riferiva a due appartenenti dell'Arma dei Carabinieri, imputati del reato di distruzione e deterioramento di cose militari, di cui agli artt. 40, 110 cod. pen. e 169 cod. pen. mil. pace, aggravato ai sensi dell'art. 47 stesso codice, le cui prove a carico erano costituite essenzialmente dai risultati di intercettazioni ambientali, disposte in ambito di altro procedimento all'interno dell'auto di servizio dei due militari, dalle quali emergeva che questi avevano, nell'occasione, mandato intenzionalmente il motore fuori giri, portato l'autovettura alla velocità di circa 100 km/h e innestato per due volte la prima marcia, provocando così la rottura del cambio e del differenziale e, quindi, il deterioramento o la distruzione, in parte, di cosa mobile appartenente alla Amministrazione militare.

Nello specifico, le captazioni erano state acquisite ed utilizzate nel procedimento, in quanto ritenute corpo del reato, nella parte relativa al rumore del motore "fuori giri" ed alle frasi e risate dei due imputati, espressione della condivisione da parte di entrambi della condotta criminosa.

2. Il contrasto giurisprudenziale e l'indirizzo secondo cui le conversazioni possono costituire corpo del reato ed essere quindi utilizzate, indipendentemente dai limiti previsti dall'art. 270 cod. proc. pen.

La questione sottoposta dalla Sezione rimettente - rilevante ai fini della fattispecie in esame - è la seguente: Se, in tema di intercettazioni, la conversazione o comunicazione intercettata, costituente di per sé condotta criminosa, possa essere qualificata corpo del reato e sia come tale utilizzabile.

Nella Giurisprudenza della Suprema Corte si registrano sul tema indirizzi contrastanti.

Secondo un primo orientamento, più risalente nel tempo, ma allo stato ampiamente maggioritario, ove le registrazioni non rappresentino una conversazione su circostanze relative al fatto reato per cui sono state disposte, ma una comunicazione che integra essa stessa condotta criminosa, la loro acquisizione al processo va inquadrata nelle norme che regolano l'uso processuale del corpo di reato - giacché tali registrazioni sono da considerare cose sulle quali il reato è stato commesso - e non è soggetta, pertanto, alle limitazioni stabilite dall'art. 270 cod. proc. pen.

In questi termini:

Sez. VI, 7 maggio 1993, n. 8670, Olivieri, Rv. 195535, in una fattispecie, relativa ad una fattispecie, nella quale erano state disposte intercettazioni telefoniche nell'ambito di un procedimento per omicidio e si era poi proceduto separatamente per il reato di favoreggiamento, costituito da una telefonata - registrata nel corso di quelle intercettazioni - con la quale la titolare dell'utenza sotto controllo veniva avvertita che all'indomani sarebbe stata effettuata una perquisizione.

Sez. VI, 27 marzo 2001, n. 14345, Cugnetto, Rv. 218784, relativa ad una fattispecie di rivelazione di segreto di ufficio, avvenuta nel corso di una telefonata intercettata nell'ambito di un diverso procedimento.

Sez. VI, 18 dicembre 2007 (dep. 2008), n. 5141, Cincavalli, Rv. 238728, relativa ad una intercettazione, concernente la comunicazione con cui l'imputato aveva avvertito il latitante di un'imminente operazione dei Carabinieri, volta proprio alla cattura dello stesso latitante.

Sez. VI, 17 luglio 2012, n. 32957, Salierno, Rv. 253037, relativa ad una fattispecie di comunicazioni telefoniche e messaggi sms, il cui contenuto integrava le condotte di favoreggiamento ascritte all'imputato (tra le altri, frasi del tipo: stai attento, ci sono le indagini su di te...quella cosa lì quella settimana la fanno).

In definitiva, secondo questo filone interpretativo: ove ci si trovi dinanzi, non ad un dialogo evocativo o rappresentativo di fatti-reato autonomamente esistenti, ma ad una comunicazione che costituisce essa stessa il reato, la registrazione è da considerare cosa (anche) sulla quale il reato è stato commesso e, in quanto tale, va inquadrata nelle norme che regolano l'uso processuale del corpo di reato (in questo senso, oltre agli arresti suindicati, si veda anche Sez. VI, 21 febbraio 2003, n. 15729, Di Canosa, Rv. 225610).

3. L'indirizzo intermedio.

In una posizione che, per comodità espositiva, potrebbe definirsi intermedia tra l'orientamento appena esaminato e quello speculare di cui si dirà più avanti, si pone Sez. VI, 24 maggio 2005, n. 25128, Tortu, Rv. 232255, la quale, pur allineandosi al principio, secondo cui le limitazioni probatorie di cui all'art. 270 cod. proc. pen. non si applicano quando la comunicazione intercettata costituisce essa stessa condotta delittuosa, divenendone pertanto "corpo di reato", esclude da tale regola l'ipotesi che la comunicazione rappresenti solo un frammento, in quanto, in questo caso, la fattispecie criminosa non si esaurirebbe con la conversazione intercettata.

Nel caso specifico, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, per violazione dell'art. 270 cod. proc. pen., in quanto la fattispecie di millantato credito si era realizzata, oltre che con le richieste telefoniche di danaro, con il successivo accordo per l'interessamento presso i pubblici funzionari e con la consegna del danaro.

Per la verità, nella sentenza ora in esame, la Corte sembra non volersi discostare dall'orientamento maggioritario, espressamente richiamato, rispetto al quale ritiene, solo, di dover precisare che il principio affermato configura una deroga alla disciplina generale al divieto posto dall'art. 270 cod. proc. pen. e, come tale, è soggetto ai limiti rigorosi innanzi descritti, altrimenti si tradurrebbe in una generalizzata elusione delle norme in tema di utilizzo di intercettazioni in diversi procedimenti.

4. L'indirizzo secondo cui le conversazioni, anche quando costituiscono corpo del reato, sono sottoposte ai limiti di utilizzabilità previsti dall'art. 270 cod. proc. pen.

Rispetto agli orientamenti già esaminati, si registrano nella giurisprudenza della Suprema Corte due arresti di segno diametralmente opposto, che ritengono imprescindibili i limiti di utilizzabilità probatoria previsti dall'art. 270 cod. proc. pen. anche nel caso di intercettazioni che costituiscano esse stesse corpo del reato:

Sez. VI, 5 aprile 2001, n. 33187, Ruggiero, Rv. 220273 ha affermato il principio (così massimato dall'ufficio), secondo cui, in tema di limiti di utilizzazione di intercettazioni telefoniche in altri procedimenti, anche quando le registrazioni non rappresentano una conversazione su circostanze relative al fatto reato per cui siano state disposte, ma una comunicazione che integra essa stessa condotta criminosa, la loro acquisizione è soggetta alle disposizioni stabilite dall'art. 270 cod. proc. pen. e non va inquadrata nelle norme che regolano l'uso processuale del corpo di reato, giacché la registrazione costituisce in ogni caso un mezzo di documentazione della comunicazione e non è definibile cosa sulla quale o mediante la quale il reato è stato omesso. (In applicazione di tale principio la Corte ha escluso che nel procedimento relativo al reato di segreto d'ufficio commesso mediante un comunicazione telefonica su una utenza soggetta per altre ragioni ed in diverso procedimento ad intercettazione, la registrazione potesse in ogni caso essere utilizzata come corpo di reato).

Sulla medesima linea esegetica, Sez. V, 25 gennaio 2011, n. 10166, Fiori e altri, Rv. 249952, ha affermato che in tema di limiti di utilizzazione di intercettazioni telefoniche in altri procedimenti, qualora le registrazioni non rappresentino una conversazione su circostanze relative al fatto reato per cui siano state disposte, ma una comunicazione che integra essa stessa una condotta criminosa, la loro acquisizione è soggetta alle regole stabilite dall'art. 270 cod. proc. pen. e non va inquadrata nelle norme che regolano l'uso processuale del corpo di reato, giacché la registrazione costituisce in ogni caso un mezzo di documentazione della comunicazione e non è definibile cosa sulla quale o mediante la quale il reato è stato commesso. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha escluso che nel procedimento concernente concorso nel reato di falso - commesso mediante comunicazione telefonica su una utenza soggetta, per altre ragioni ed in diverso procedimento, ad intercettazione - la registrazione potesse in ogni caso essere utilizzata come corpo di reato).

I due arresti, appena esaminati, si pongono in contrasto rispetto all'indirizzo maggioritario, ma, a ben guardare, la divergenza non investe tanto il tema specifico della disciplina applicabile nell'ipotesi in cui l'intercettazione sia considerata corpo del reato, quanto piuttosto la stessa configurabilità della conversazione come corpo del reato.

In altri termini, il contrasto giurisprudenziale tra queste pronunzie e l'orientamento cd. maggioritario si esaurisce nella dibattuta possibilità di classificare come corpo del reato un bene immateriale, quale è la comunicazione registrata; il che, nella prospettiva esegetica dell'orientamento ora in esame, elimina in nuce l'ulteriore profilo della utilizzabilità probatoria delle conversazioni, costituenti esse stesse reato, indipendentemente dai limiti fissati dall'art. 270 cit.

5. La soluzione offerta dalle Sezioni unite: delimitazione dell'ambito delle garanzie costituzionali in materia di intercettazioni.

Nel risolvere la questione sottoposta, le Sezioni unite hanno, innanzi tutto, chiarito che, in materia di intercettazioni, le garanzie di ordine costituzionale che promanano dagli artt. 14 (inviolabilità del domicilio) e 15 (libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione) Cost. riguardano solo le registrazioni o videoregistrazioni aventi contenuto comunicativo e non possono essere estese a quelle aventi diverso contenuto e che vengano effettuate al di fuori dei luoghi ricompresi dalla previsione di cui all'art. 14 cit.

Con la duplice conseguenza, avuto riguardo al caso di specie, che l'abitacolo di un'autovettura non può essere considerato luogo di privata dimora (Sez. I, 22 gennaio 1996, n. 1904 Porcaro, Rv. 203799; Sez. VI, 1 dicembre 2003, dep. 2004, n. 2845, Cavataio, Rv. 228420; Sez. I, 6 maggio 2008, n. 32851, Sapone, Rv. 241229; Sez. V, 18 gennaio 2013, n. 8365, Girasole, Rv. 254657), dovendosi intendere tale il luogo adibito allo svolgimento di attività che ognuno ha il diritto di svolgere liberamente e legittimamente senza il pericolo di interferenze da parte di estranei e che la registrazione del rumore del motore dell'autovettura in uso agli imputati non è soggetta alla disciplina delle intercettazioni di cui agli art. 266 e ss. cod. proc. pen.

6. La nozione di corpo del reato e la possibilità di ricomprendervi l'intercettazione di una comunicazione.

Premesso quanto sopra, dirimente, secondo i Giudici, ai fini della soluzione del contrasto è definire la nozione di corpo del reato e, in particolare, accertare se a detta nozione possa essere data una accezione più ampia di quella legata all'esistenza di un'essenza materiale connessa alla commissione del reato, in quanto tale tangibile ed apprensibile a fini processuali.

Al riguardo, l'arresto in esame ritiene di muovere la propria esegesi dal dato normativo, costituito dall'art. 253, comma 2, cod. proc. pen., nel quale il reiterato utilizzo del termine "cosa" induce, prima facie, a ritenere che il legislatore abbia voluto attribuire al corpo del reato una accezione prettamente materiale, il che, secondo l'orientamento minoritario, dovrebbe escludere dal concetto di corpo di reato tutto ciò che è immateriale e quindi anche la conversazione captata (cfr. supra).

Eppure, osservano i giudici, già nei successivi articoli 254 e 254-bis cod. proc. pen., in tema rispettivamente di sequestro di corrispondenza e sequestro di dati informatici, telematici e di telecomunicazioni, si coglie come, in relazione a determinate forme di comunicazione, ciò che al legislatore preme acquisire sia il contenuto della corrispondenza, del dato informatico, telematico e della telecomunicazione, anche se l'intervento ablativo si materializza sul contenitore (la lettera di carta o il supporto informatico).

L'oggetto del sequestro viene così a connaturarsi di profili di immaterialità, identificandosi, ai fini del provvedimento ablativo, il contenuto della comunicazione o del dato informatico, rilevante per il processo, con il supporto materiale che lo contiene o lo ha registrato.

L'identificazione del supporto materiale che contenga elementi di natura dichiarativa costituenti illecito penale con il suo contenuto immateriale trova poi un espresso riconoscimento nell'art. 235 cod. proc. pen., che individua una categoria indefinita di "documenti costituenti corpo del reato", così stabilendo: «I documenti che costituiscono corpo del reato devono essere acquisiti qualunque sia la persona che li abbia formati o li detenga».

Da ultimo, non deve essere trascurato il dato ormai pacifico nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in relazione a determinati reati, nei quali la condotta criminosa assume carattere dichiarativo (falsità ideologica; falsa testimonianza e falsità analoghe; calunnia; simulazione di reato ed altri), il supporto cartaceo o la registrazione che contiene l'elemento dichiarativo che integra una delle fattispecie criminose citate è ritenuto costituisce corpo di reato, in quanto tale soggetto al disposto di cui all'art. 235 cod. proc. pen. (ex multis, Sez. V, 7 maggio 2004, n. 25881, Amonti, Rv. 229486; Sez. I, 7 luglio 2004, n. 37160, Boccuni, Rv. 229790; Sez. VI, 30 settembre 2004, n. 43193, Floridia, Rv. 230501).

Peraltro, la possibile identificazione della registrazione o dell'elemento documentale che ne costituisce trascrizione con il corpo del reato è un dato che, osservano i Giudici, si desume dalla espressa previsione dell'art. 271, comma 3, cod. proc. pen.: «In ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato».

È lo stesso legislatore, pertanto, ad ipotizzare che la documentazione delle intercettazioni, in considerazione del loro contenuto comunicativo o dichiarativo, costituisca corpo del reato; in quanto tale sottratto all'obbligo di distruzione ed acquisibile agli atti del procedimento ai sensi del citato disposto di cui all'art. 431 cod. proc. pen.

A tal ultimo riguardo, le Sezioni unite dissentono, pertanto, da quei precedenti arresti (cfr. supra Sez. V, n. 10166 del 2011) che riducono l'ambito applicativo della disposizione al reato di interferenza illecita nella vita privata altrui (art. 615-bis cod. pen.), evidenziando che la collocazione della norma nella disciplina delle intercettazioni disposte dal'autorità giudiziaria e l'espresso riferimento ai divieti di utilizzazione stabiliti dai primi due commi dell'art. 271 cod. proc. pen. che riguardano detta disciplina, ne suggeriscono una portata generale, che va oltre la fattispecie criminosa suindicata.

7. Conclusioni.

Sulla base di tali premesse, le Sezioni unite pervengono all'affermazione del principio, secondo cui la registrazione o trascrizione del dato dichiarativo o comunicativo, che integra la fattispecie criminosa, costituisce corpo del reato, che, in quanto tale, deve essere acquisito agli atti del procedimento, ai sensi dell'art. 431, comma 1 lett. h), cod. proc. pen., ed utilizzato come prova nel processo penale.

Tuttavia, in linea con quanto già affermato da Sez. VI, n. 25128 del 2005 (cfr. supra), la comunicazione o conversazione oggetto di registrazione costituisce corpo del reato, unitamente al supporto che la contiene, solo allorché essa stessa integri ed esaurisca la fattispecie criminosa, mentre deve essere escluso che sia tale una comunicazione o conversazione che si riferisca a una condotta criminosa o che ne integri un frammento, venendo portata a compimento la commissione del reato mediante ulteriori condotte rispetto alle quali l'elemento comunicativo assuma carattere meramente descrittivo.

Ciò non toglie, concludono le Sezioni unite, che l'eventuale inutilizzabilità delle intercettazioni in ambito processuale non ne esclude la funzione di notizia di reato, come tale utilizzabile dalla pubblica accusa per l'espletamento delle necessarie indagini volte all'acquisizione di elementi di prova sulla cui base potrà successivamente esercitare l'azione penale.

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CAPITOLO IX

LE DICHIARAZIONI RESE IN VIOLAZIONE DELLO STATUTO DEL DICHIARANTE

(di Vittorio Pazienza )

Sommario

1 Premessa: la rimessione alle Sezioni unite di una radicata divergenza interpretativa. - 2 I termini del contrasto: la tesi dell'inutilizzabilità. - 3 (segue): la tesi della nullità a regime intermedio. - 4 (segue): la tesi della piena utilizzabilità. - 5 L'ordinanza di rimessione della Seconda sezione.

1. Premessa: la rimessione alle Sezioni unite di una radicata divergenza interpretativa.

L'elaborazione giurisprudenziale della Corte di cassazione ha evidenziato il radicarsi, negli ultimi anni, di un contrasto interpretativo in ordine ad una questione di particolare incidenza nella pratica giudiziaria, oltre che di intuitivo rilievo sul piano sistematico: si allude al problema dell'individuazione delle conseguenze derivanti dalla mancata applicazione - in sede di esame di un imputato o indagato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede - delle disposizioni che concorrono a delineare lo "statuto" del teste assistito (disposizioni contenute o richiamate, com'è noto, negli artt. 64, 197, 197-bis, 210, 371 cod. proc. pen.).

Si vedrà nel paragrafo seguente che, secondo un primo indirizzo interpretativo, l'inosservanza delle predette disposizioni determina l'inutilizzabilità, ai sensi dell'art. 64, comma 3-bis, cod. proc. pen., delle dichiarazioni testimoniali rese da chi avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito, perché imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato (cfr. infra, § 2).

In una diversa prospettiva, si è invece affermato che il mancato rispetto delle disposizioni predette non determina l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in sede di deposizione testimoniale acquisita, bensì la nullità a regime intermedio della stessa: nullità che peraltro non può essere eccepita dall'imputato del procedimento principale, per l'assenza di un suo interesse all'osservanza della disposizione violata (cfr. infra, § 3).

Si registra peraltro anche una ulteriore opzione interpretativa, volta ad escludere ogni invalidità qualora l'esame dibattimentale di un imputato di reato connesso ai sensi dell'art 12, comma primo, lett. c), o collegato ai sensi dell'art. 371, comma secondo, lett. b), si svolga senza essere preceduto dall'avviso di cui all'art. 64, comma terzo, lett. c, cod. proc. pen. (cfr. infra, § 4).

Il permanere del contrasto, agevolmente rilevabile dall'esame della giurisprudenza più recente, ha di recente determinato, a distanza di pochi giorni, ben due decisioni di rimessione della questione alle Sezioni unite, da parte di diverse Sezioni della Corte di cassazione.

In particolare, Sez. V, ord. 24 novembre 2014, Buscarolo, e Sez. II, ord. 2 dicembre 2014, n. 52023, Lo Presti, hanno investito il Supremo collegio della questione relativa alle conseguenze derivanti dall'inosservanza dell'art. 210 cod. proc. pen. in sede di escussione dibattimentale di un imputato o indagato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede. Per ciò che riguarda la rimessione della Quinta sezione, è allo stato disponibile la sola "notizia di decisione"; l'ordinanza depositata dalla Seconda sezione verrà invece brevemente illustrata nella parte conclusiva della presente esposizione (cfr. infra, § 5).

2. I termini del contrasto: la tesi dell'inutilizzabilità.

Tale opzione interpretativa, già sostenuta da diverse decisioni (cfr. ad es. Sez. V, 28 ottobre 2010, n. 1898/11, Micheli Clavier, Rv. 249045; Sez. I, 24 marzo 2009, n. 29770, Vernengo, Rv. 244462; Sez. V, 17 dicembre 2008, n. 599/2009, Mastroianni, Rv. 242384; Sez. V, 23 ottobre 2007, n. 39050, Costanza, Rv. 238188), è stata di recente ripresa, con riferimento ad un'ipotesi di reato collegato, da Sez. V, 27 maggio 2014, n. 29227, Cavallero, Rv. 260320, la quale - mostrando di aderire all'indirizzo definito "prevalente" - ha osservato che l'imputato di un reato "reciproco", non ancora definitivamente giudicato, deve essere sentito ai sensi dell'art. 210, comma sesto (se non ha reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell'imputato), ovvero dell'art. 197-bis (se ha reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri): con la conseguente inutilizzabilità delle sue dichiarazioni, ai sensi dell'art. 64, comma 3-bis, del codice di rito, qualora egli invece venga sentito come testimone senza fruire delle garanzie introdotte dalla legge 1 marzo 2001, n. 63.

Nella medesima prospettiva, v. anche Sez. V, 13 marzo 2014, n. 26016, Bivona, e Sez. V, 10 ottobre 2013, n. 3524/2014, Guadalaxara, le quali sono pervenute a conclusioni di inutilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali, rese senza garanzie da un imputato di reato collegato, prendendo le mosse dai principi affermati da Sez. Un., 17 dicembre 2009, n. 12067/2010, De Simone, Rv. 246375, secondo cui l'imputato in procedimento connesso ai sensi dell'art. 12, comma primo, lett. c), cod. proc. pen. o collegato probatoriamente, anche se persona offesa dal reato, deve essere sentito nel procedimento relativo al reato connesso o collegato con le forme previste per la testimonianza cosiddetta "assistita". In particolare, nella sentenza Guadalaxara, il principio è stato affermato in relazione ad un'ipotesi in cui al dichiarante, che pure era stato esaminato ai sensi dell'art. 210 cod. proc. pen. con l'assistenza del difensore, non era stato dato l'avviso di cui all'art. 64, comma terzo, lett. c), del codice di rito.

La fondatezza di tale soluzione, e la stretta derivazione di quest'ultima dagli insegnamenti contenuti nel richiamato arresto delle Sezioni unite, sono state diffusamente ribadite, da ultimo, da Sez. I, 10 giugno 2014, n. 52047, Simone, relativa ad un procedimento per tentato omicidio in cui le dichiarazioni testimoniali erano state rese da soggetti imputati di un reato "reciproco" e probatoriamente collegato (tentata estorsione in danno dell'imputato). Il Collegio ha posto in evidenza sia il fatto che, dopo la sentenza De Simone, deve ritenersi ormai superato l'indirizzo volto a far prevalere in ogni caso, nel dichiarante, la veste di persona offesa (da escutere, in quanto tale, come testimone), sia il fatto che l'inclusione degli imputati per reati reciproci nell'area del diritto al silenzio aveva superato lo scrutinio di costituzionalità (Corte cost., ord. 22 maggio 2002, n. 291). In tale quadro, l'escussione dibattimentale dei dichiaranti (la cui posizione non era ancora stata definita con sentenza irrevocabile) doveva necessariamente essere preceduta dal previo avviso ex art. 64, comma 3, lett. c) e dal rispetto delle altre norme contenute nell'art. 210, comma sesto, cod. proc. pen.

3. (segue): la tesi della nullità a regime intermedio.

Come già ricordato in premessa, altre decisioni hanno ribadito il diverso orientamento secondo cui "l'inosservanza delle disposizioni di cui all'art. 210 cod. proc. pen., nell'esame di persona indagata o imputata in procedimento connesso non determina l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese nel procedimento principale, ma una nullità a regime intermedio, ai sensi dell'art. 180 cod. proc. pen., che non può essere eccepita dall'imputato nel procedimento principale per assenza di interesse alla disposizione violata" (Sez. VI, 22 gennaio 2014, n. 10282, Romeo, Rv. 259267). Nello stesso senso, in precedenza, cfr. ad es. Sez. V, 27 marzo 2013, n. 26206, Sebastianelli, Rv. 257575; Sez. I, 16 ottobre 2012, n. 43187, Di Noio, Rv. 253748; Sez. I, 11 marzo 2010, n. 8082, Visentin, Rv. 246329; Sez. III, 11 giugno 2004, n. 38748, Mainiero ed altri).

Nella sentenza Romeo, la Sesta sezione ha, da un lato, posto in evidenza che la tesi avversata finisce per stravolgere la natura dell'istituto in questione, il quale "tende a tutelare l'imputato o indagato nel procedimento connesso dal rischio che, deponendo nel processo principale come testimone obbligato a dire la verità, arrivi inconsapevolmente ad autoincriminarsi per il reato connesso o collegato e, comunque, a deporre contro se stesso". D'altro lato, è stato sottolineato che la legge non vieta l'esame dell'imputato in procedimento connesso o collegato, ma semplicemente prescrive che esso sia assunto secondo determinate formalità: il mancato rispetto di queste ultime non dà pertanto luogo ad un'ipotesi - sanzionata con l'inutilizzabilità dall'art. 191, comma primo, cod. proc. pen. - di prova assunta "in violazione dei divieti stabiliti dalla legge", ma di nullità ai sensi degli artt. 178, lett. c), e 180 del codice di rito, che peraltro non può essere sollevata per la prima volta in sede di legittimità, né può essere eccepita dall'imputato, privo di interesse (art. 182 cod. proc. pen.).

In senso conforme, v. anche Sez. V, 1 aprile 2014, n. 29561, Racco; Sez. I, 10 luglio 2014, n. 43622, Fusar Bassini; Sez. VI, 23 maggio 2014, n. 41004, Saviano, secondo cui la tesi dell'inutilizzabilità non può essere condivisa anche perché l'art. 197-bis, comma secondo, cod. proc. pen., si limita a richiamare - quale ipotesi di testimonianza assistita - l'art. 64, comma terzo, lett. c), ma non anche il successivo comma 3-bis del predetto articolo, il quale prevede la sanzione dell'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in mancanza dell'avvertimento di cui al comma 3.

Si segnala infine Sez. IV, 8 luglio 2014, n. 36259, Barisone, la quale, nel disattendere la tesi dell'inutilizzabilità sostenuta nel ricorso, ha precisato che quest'ultimo avrebbe "impropriamente" richiamato i principi della già citata sentenza De Simone delle Sezioni unite (sentenza valorizzata invece dalle pronunce citate supra, § 2).

4. (segue): la tesi della piena utilizzabilità.

Come già accennato, nella giurisprudenza di legittimità è peraltro ravvisabile anche un ulteriore indirizzo, secondo il quale le dichiarazioni testimoniali, rese dall'imputato in reato connesso o collegato, devono ritenersi pienamente utilizzabili anche se non precedute dall'avvertimento ex art. 64, comma 3, lett. c).

In tale ottica ricostruttiva - che quindi, a differenza della precedente, esclude ogni riferimento alla nullità a regime intermedio - viene valorizzato il fatto che sia l'art. 197-bis, sia l'art. 210, comma sesto, del codice di rito (applicabili a seconda che il soggetto abbia o meno reso, in precedenza, dichiarazioni erga alios) si riferiscono ad "esami destinati, come tali, a svolgersi nel contraddittorio delle parti, mentre l'art. 64 cod. proc. pen. si riferisce al solo "interrogatorio", e cioè ad un atto che, per sua natura, si svolge al di fuori del contraddittorio, razionalmente legittimando il maggior rigore del legislatore a tutela dei diritti dei terzi eventualmente coinvolti nelle dichiarazioni rese dall'interrogato" (così, in motivazione, Sez. V, 20 settembre 2013, n. 7595/2014, p.c. in proc. Zannelli, Rv. 259032, relativa ad una fattispecie in cui l'indagato per reato reciproco, pur escusso in dibattimento ai sensi dell'art. 210, comma sesto, cod. proc. pen., non aveva ricevuto l'avviso di cui all'art. 64, comma terzo, lett. c, dello stesso codice). In senso analogo, cfr. Sez. V, 24 settembre 2013, n. 41886, Perri, Rv. 257839 e, da ultimo, Sez. I, 23 settembre 2014, n. 41745, Ubaldini).

Alle medesime conclusioni, ma con un percorso ricostruttivo almeno in parte diverso, è pervenuta Sez. V, 17 febbraio 2014, n. 23578, Finazzi, la quale ha senz'altro escluso che all'imputato o indagato di reato connesso o collegato, esaminato quale teste assistito ai sensi dell'art. 197-bis, debba essere dato l'avviso di cui all'art. 64, comma terzo, lett. c (ovvero l'avvertimento che, se si renderanno dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, si assumerà in ordine ad essi l'ufficio di testimone, salve le incompatibilità di cui all'art. 197 e le garanzie di cui all'art. 197-bis del codice di rito). Si è al riguardo osservato che, mentre tale avvertimento ha senso in sede di interrogatorio svolto durante le indagini (e dunque al di fuori delle garanzie del contraddittorio), altrettanto non può dirsi per l'esame dibattimentale ex art. 197-bis, in cui la persona è chiamata a riferire - con l'assistenza difensiva - quanto a sua conoscenza "nella già dichiarata (non futura ed eventuale) veste di testimone". Non a caso, del resto, l'avvertimento in questione è espressamente menzionato nella diversa ipotesi di cui all'art. 210, comma sesto, cod. proc. pen., che trova applicazione quando gli imputati o indagati in reato connesso o collegato non hanno reso in precedenza dichiarazioni erga alios, e assumono quindi "solo eventualmente, proprio a seguito di detto avvertimento e qualora non intendano avvalersi della facoltà di non rispondere, come previsto appunto dalla citata disposizione normativa, la veste di testimoni c.d. "assistiti". La Quinta Sezione ha comunque ulteriormente precisato che, quand'anche volesse ritenersi che il richiamo dell'art. 197-bis all'art. 64, comma 3, lett. c) comporti anche l'obbligo dell'avviso, la sua inosservanza non potrebbe comunque determinare l'inutilizzabilità della deposizione testimoniale acquisita, dal momento che il predetto richiamo non si estende al comma 3-bis dell'art. 64 (così come l'art. 210, comma sesto, cod. proc. pen. si limita a prevedere l'obbligo dell'avviso di cui all'art. 64, comma terzo, lett. c), omettendo tuttavia il richiamo della sanzione di inutilizzabilità prevista dal successivo comma 3-bis).

La sentenza Finazzi si pone nel solco tracciato da Sez. V, 23 febbraio 2012, n. 12976, Belotti, Rv. 252317. In senso analogo, v. anche Sez. V, 5 novembre 2013, n. 18837/2014, Corso, e, da ultimo, Sez. V 18 marzo 2014, n. 46457, Magliano.

Il mancato richiamo della sanzione di inammissibilità contenuta nel comma 3-bis dell'art. 64 è stato valorizzato anche da Sez. V, 30 settembre 2014, n. 51241, Romano, e da Sez. II, 4 febbraio 2014, n 18990, Manca: quest'ultima pronuncia ha conferito rilievo anche al fatto che i difensori dei dichiaranti, pur presenti all'esame, non avevano sollevato alcuna eccezione.

5. L'ordinanza di rimessione della Seconda sezione.

Come accennato in premessa, la Seconda sezione della Suprema corte, con ordinanza 2 dicembre 2014, n, 52023, Lo Presti, ha rimesso alle Sezioni unite la questione "se la mancata applicazione - in sede di esame dibattimentale di un imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede - delle disposizioni di cui all'art. 210 cod. proc. pen. relativamente alle dichiarazioni testimoniali rese da chi avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito, perché imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato, determina inutilizzabilità, nullità a regime intermedio o altra patologia della deposizione testimoniale".

Nella specie, gli imputati - condannati anche in appello, con rito abbreviato, per estorsione in danno di un imprenditore - avevano lamentato, nel ricorso, il mancato inquadramento della persona offesa come indagato di reato connesso: deduzione motivata dal fatto che le sue mendaci dichiarazioni, rese nel dibattimento a carico di un ulteriore coimputato nel delitto di estorsione, avevano determinato - all'esito di quel giudizio - la trasmissione degli atti al p.m. per procedere a suo carico per il delitto di favoreggiamento (nel ricorso, si era peraltro precisato che la reticenza dell'imprenditore era già emersa in fase investigativa). Nella sentenza impugnata, la Corte d'appello (nel cui fascicolo processuale era stata inserita la deposizione dibattimentale resa nel procedimento connesso) aveva affermato che, in effetti, al dichiarante avrebbe dovuto essere attribuita, in quella sede, la qualifica sostanziale di teste assistito, essendo già emersi indizi di reità a suo carico al momento della deposizione: egli quindi doveva essere assistito dal difensore, ai sensi dell'art. 197-bis cod. proc. pen.

Tuttavia, per la Corte d'appello, la mancata osservanza della garanzia difensiva a tutela del dichiarante, configurando una nullità a regime intermedio (cfr. supra, § 3), non poteva essere fatta valere dagli imputati, privi di interesse alla proposizione della relativa eccezione.

In tale quadro, la Seconda sezione - dopo aver sottolineato la necessità di aver riguardo alla condizione sostanziale del dichiarante, al di là dell'effettiva formale iscrizione nel registro degli indagati (secondo l'insegnamento di Sez. Un., 25 febbraio 2010, n. 15208, Mills, Rv. 246584), ed aver ripercorso i tre contrapposti orientamenti interpretativi (cfr. supra, § 2-4) - ha osservato che la specifica doglianza formulata dai ricorrenti, volta ad ottenere il riconoscimento dell'inutilizzabilità delle dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa, imponeva di rimettere il ricorso alle Sezioni unite.

  • regime penitenziario

CAPITOLO X

NUOVA EMISSIONE DELL'ORDINANZA DI CUSTODIA CAUTELARE E INTERROGATORIO DI GARANZIA

(di Pietro Molino )

Sommario

1 Nuova emissione dell'ordinanza di custodia cautelare interrogatorio di garanzia.

1. Nuova emissione dell'ordinanza di custodia cautelare interrogatorio di garanzia.

In materia cautelare, le Sezione Unite della Suprema Corte - Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 28270, Sandomenico, Rv. 260016 - hanno affermato il principio per il quale "nel caso di emissione di nuova misura cautelare custodiale conseguente ad una dichiarazione di inefficacia, ai sensi dei commi 5 e 10 dell'art. 309 cod. proc. pen., di quella precedente, il giudice per le indagini preliminari non è tenuto ad interrogare l'indagato prima di ripristinare nei suoi confronti il regime custodiale né a reiterare l'interrogatorio di garanzia successivamente all'esecuzione della nuova misura, sempre che tale adempimento sia stato in precedenza regolarmente espletato e sempre che l'ultima ordinanza cautelare non contenga elementi nuovi e diversi rispetto alla precedente".

Nella sentenza si premette che secondo il costante orientamento sviluppatosi già all'indomani dell'introduzione del codice Vassalli - Sez. VI, 19 aprile 1991, n. 1510, Spezio, Rv. 187262; Sez. VI, 13 ottobre 1999, n. 3245/2000, Caridi, Rv. 216628 - il principio stabilito dall'art. 302 del codice di rito si applica esclusivamente alle ipotesi di estinzione di misura per omesso interrogatorio della persona in stato cautelare e, pertanto, non può essere soggetto ad interpretazioni analogiche volte a ricomprendere anche i casi in cui l'annullamento della custodia cautelare derivi da altra causa; si rammenta inoltre che la fattispecie di cui all'art. 302 c.p.p. non palesa alcuna identità di ratio, tale da giustificare un ricorso all'analogia, sia con la situazione di inefficacia prevista nell'art. 27 del codice di rito nel caso in cui l'indagato sia stato interrogato - Sez. VI, 15 marzo 1996, n. 1122, Di Sarno, Rv. 204886 - sia, tanto meno, con la situazione di inefficacia prevista dall'art. 309, comma 10, cod. proc. pen.

Con specifico riferimento a quest'ultima ipotesi, avendo il primo provvedimento perso efficacia per sopravvenuti motivi procedurali che non intaccano l'intrinseca legittimità e non contenendo la nuova ordinanza custodiale elementi nuovi e diversi rispetto alla precedente, l'esigenza di difesa dell'indagato è assicurata pienamente attraverso il regolare svolgimento del primo interrogatorio, di modo che un'eventuale nuova audizione si configura come "un'inutile formalità" in presenza di un compendio indiziario e cautelare del tutto immutato.

In motivazione, la Corte osserva come nello stesso solco interpretativo si pongono quelle pronunce - Sez. VI, 11 maggio 2006, n. 21974, Ramoci, Rv. 234272 - che, in tema di mandato di arresto europeo, ribadiscono la non obbligatorietà della reiterazione dell'interrogatorio di garanzia qualora il provvedimento di convalida dell'arresto da parte della Corte d'Appello abbia perso efficacia per inottemperanza del termine previsto per l'invio da parte dell'autorità richiedente degli atti previsti dall'art. 13 della legge n. 69 del 2005.

Sulla scorta di tali premesse ricostruttive, le Sezioni Unite procedono ad affrontare l'interrogativo rimesso dalla sezione quinta, propensa ad amplificare la portata dell'estinzione della custodia prevista dall'art. 302 c.p.p., soffermandosi sul fatto che detta norma richiede espressamente che la nuova misura sia disposta "previo interrogatorio".

Espressione di detto orientamento è certamente un arresto - Sez. V, 12 novembre 2010, n. 5135/2011, Toni, Rv. 249693 - che, con l'obiettivo di prestare maggiori tutele difensive a prescindere dalle ragioni meramente formali della dichiarazione di inefficacia, si dichiara a favore della rinnovabilità dell'interrogatorio di garanzia nel caso in cui la primigenia misura sia stata annullata per il mancato rispetto da parte dell'ufficio della procura del termine di cinque giorni per la trasmissione degli atti a supporto della richiesta cautelare (art. 309, commi 5 e 10, c.p.p.).

Le Sezioni Unite non condividono tale indirizzo, peraltro isolato, ricordando come, avendo il primo provvedimento perso efficacia per sopravvenuti motivi procedurali che non intaccano l'intrinseca legittimità e non contenendo la nuova ordinanza custodiale elementi nuovi e diversi rispetto alla precedente, l'esigenza di difesa dell'indagato è assicurata pienamente attraverso il regolare svolgimento del primo interrogatorio, di modo che un'eventuale nuova audizione si configura come "un'inutile formalità" in presenza di un compendio indiziario e cautelare del tutto immutato.

La precisazione da ultimo menzionata appare di decisiva importanza, nella misura in cui la non obbligatorietà di un secondo interrogatorio di garanzia è ancorata alla condizione che la nuova ordinanza cautelare non contenga elementi nuovi e diversi rispetto alla precedente, principio che permea l'intera disciplina e consente di parametrare gli strumenti di garanzia alle effettive situazioni in cui occorre assicurare la tutela dei diritti difensivi.

  • carcerazione
  • stupefacente

CAPITOLO XI

CUSTODIA CAUTELARE, TERMINI DI FASE E DICHIARAZIONE DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

(di Matilde Brancaccio )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il quesito sottoposto alle Sezioni unite. - 3 La pronuncia delle Sezioni unite sull'incidenza "ora per allora" sui termini cautelari di fase della declaratoria di incostituzionalità della disciplina sugli stupefacenti pronunciata con sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale. - 4 La soluzione alla questione specifica sottoposta alle Sezioni Unite e la nozione di rapporto cautelare esaurito adottata in sentenza. - 5 Altri principi di diritto affermati dalla sentenza delle Sezioni unite "Pinna".

1. Premessa.

Nell'anno 2014 la Corte di cassazione ha dovuto ripetutamente occuparsi, nelle sue pronunce, delle ricadute processuali e procedimentali seguite alla dichiarazione di incostituzionalità degli articoli 4-bis e 4 vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005 n. 272, convertito nella legge 21 febbraio 2006 n. 49, i quali avevano innovato il d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 in tema stupefacenti, unificando il trattamento sanzionatorio tra droghe "leggere" e droghe "pesanti". Come è noto, le valutazioni interpretative sono state ulteriormente complicate dal susseguirsi di modifiche normative quanto all'ipotesi lieve di cui al quinto comma dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 (ci si riferisce al d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito nella legge 21 febbraio 2014, n. 10, e all'ulteriore modifica apportata con d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito in legge 16 maggio 2014, n. 79).

Innumerevoli sono stati i campi di intervento dei giudici di legittimità: si sono avute, pertanto, pronunce in merito alla valenza della declaratoria di illegittimità costituzionale de quo sull'individuazione della disciplina più favorevole da applicarsi al caso concreto, sul computo dei termini di prescrizione, sulla ridefinizione delle esigenze cautelari al nuovo compasso edittale, nonché sulla legalità della pena inflitta prima del formarsi del giudicato e persino dopo che la sentenza sia divenuta definitiva.

Con la sentenza n. 44895 del 17 luglio 2014, Pinna, le Sezioni unite, poi, si sono dovute confrontare con un tema quanto mai spinoso: la possibilità che, in ragione del più mite trattamento sanzionatorio conseguente alla caducazione delle norme incostituzionali, si producano effetti sui termini di fase della custodia cautelare "ora per allora", nel caso sia già avvenuto il passaggio alla fase successiva.

2. Il quesito sottoposto alle Sezioni unite.

Il quesito specificamente proposto alle Sezioni unite è stato il seguente: "Se la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 produca i suoi effetti, incidenti sul calcolo dei termini di fase di durata della misura cautelare, 'ora per allora' sui rapporti processuali cautelari per i quali la fase cui si riferisce il termine ridotto per effetto di tale declaratoria si sia esaurita prima della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale".

Il caso riguardava un soggetto sottoposto alla custodia cautelare in carcere per condotte continuate di detenzione illecita di sostanza stupefacente, nell'ambito di un procedimento per il quale la pronuncia di incostituzionalità era intervenuta, con la sua pubblicazione, in data successiva al passaggio dalla fase delle indagini preliminari a quella dibattimentale, introdotta con giudizio immediato; al momento della decisione delle Sezioni unite, era stato chiesto il rito abbreviato condizionato dalla difesa dell'imputato.

L'ordinanza di rimessione della Quarta sezione della Cassazione ha ritenuto assorbente il primo motivo d'impugnazione proposto dal ricorrente (riferito proprio alla scadenza dei termini di fase "ora per allora" in conseguenza della illegittimità costituzionale delle norme sanzionatorie sulla base delle quali era stato calcolato il termine durante la fase delle indagini preliminari), rilevando l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale, segnalato anche nell'ordinanza impugnata, relativo alla questione interpretativa sorta con riferimento a un caso diverso, ma per molti aspetti assimilabile: quello degli effetti della sentenza della Corte cost. n. 253 del 2004 che aveva esteso ai termini di fase la disciplina dettata dall'art. 722 cod. proc. pen. in tema di custodia cautelare all'estero.

3. La pronuncia delle Sezioni unite sull'incidenza "ora per allora" sui termini cautelari di fase della declaratoria di incostituzionalità della disciplina sugli stupefacenti pronunciata con sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale.

Per rispondere al quesito sopra enunciato, le Sezioni unite hanno operato una ricostruzione delle possibili ricadute sui termini di fase delle misure cautelari in atto della disciplina sostanziale che rivive in conseguenza della sentenza n. 32 del 2014, anche con un excursus relativo alla retroattività della lex mitior.

In relazione a tale tema ed alla fattispecie sottoposta al loro esame, le Sezioni unite evidenziano il ruolo nevralgico che assume il dibattito sviluppatosi negli anni sul tema della retroattività in mitius (sia essa susseguente a successione di leggi ovvero a declaratoria di incostituzionalità di una norma), approdato a conclusioni favorevoli all'incidenza del novum, non solo sul cautelare, ma anche sul giudicato, seppure attraverso una perimetrazione di sistema tracciata progressivamente dalla Corte costituzionale e dalla stessa Corte di cassazione, da ultimo, con la sentenza Sez. Un., 29 maggio 2014, n. 42858, Gatto, Rv. 260696 e Rv. 260697, facendo riferimento solo a quanto desumibile dalla informazione provvisoria, poiché il deposito della motivazione della sentenza citata è quasi coevo al deposito della motivazione della sentenza Pinna. Si afferma, così, che l'approdo della giurisprudenza di legittimità sul punto appare "assolutamente prevalente" nel ritenere che la sentenza con la quale viene dichiarata l'illegittimità costituzionale di una norma di legge ha efficacia erga omnes - con l'effetto che il giudice ha l'obbligo di non applicare la norma illegittima dal giorno successivo a quello in cui la decisione è pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica - e forza invalidante, con conseguenze simili a quelle dell'annullamento, nel senso che essa incide anche sulle situazioni pregresse verificatesi nel corso del giudizio in cui è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalità, spiegando, così, effetti non soltanto per il futuro, ma anche retroattivamente in relazione a fatti o a rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, sempre, però, che non si tratti di situazioni giuridiche "esaurite", coinvolgendo, peraltro, a determinate condizioni, anche quelle determinate dalla formazione del giudicato. Le Sezioni unite Pinna ancora sottolineano come, nell'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, il problema della lex mitior abbia abbracciato sia l'ipotesi di successione di leggi nel tempo sia il novum conseguente alla dichiarazione di incostituzionalità di una norma con contestuale espansione o reviviscenza di altra norma, con la conseguente valutazione delle sue ricadute soprattutto nella fase intertemporale di applicazione dei suoi effetti tra norme di diritto sostanziale, ovvero tra norme formalmente processuali ma interessate rispetto a momenti sostanziali della loro attuazione; ciò ha affermato non senza precisare che, per quanto in ordine ad ambedue le ipotesi sovente sia stato indicato, quale criterio regolatore della disciplina intertemporale, il disposto dell'art. 2, quarto comma, cod. pen., in realtà, tale ultima norma regolamenta soltanto l'ipotesi di successione di leggi penali tutte legittime e non quella in cui la vicenda successoria sia determinata dalla declaratoria di illegittimità di una norma (nello stesso senso si esprime anche Sez. Un. Gatto, cit., nella massima riportata in Rv. 260695).

Si sono, pertanto, richiamati i canoni di confronto organico con questo tema recentemente sviluppati dalla giurisprudenza di legittimità anche con l'ordinanza Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 18821 del 2014, Ercolano, Rv. 258649/50/51 (nota come pronuncia "Ercolano" o "dei fratelli minori di Scoppola", dalla sentenza della Corte EDU, Scoppola c. Italia, del 17 luglio 2009, alla quale si ricollega da ultimo l'interpretazione della giurisprudenza europea sul principio della retroattività della lex mitior), in base alla quale, sulla scia della pronuncia n. 210 del 2013 della Corte costituzionale, si è stabilito che non può essere ulteriormente eseguita, ma deve essere sostituita con quella di anni trenta di reclusione, la pena dell'ergastolo inflitta in applicazione dell'art. 7, comma 1, d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito in legge 19 gennaio 2000, n. 4, all'esito di giudizio abbreviato richiesto dall'interessato nella vigenza dell'art. 30, comma 1, lett. b), legge 16 dicembre 1999, n. 479, anche se la condanna sia divenuta irrevocabile prima della dichiarazione di illegittimità della disposizione più rigorosa. In tal modo, le Sezioni unite hanno operato un excursus sui contorni attualmente delineabili del principio di intangibilità del giudicato, oramai definitivamente oggetto di un revirement messo in crisi da visioni interpretative che, partendo dal fulcro costituzionale delle funzioni alle quali la pena deve essere ricondotta nel nostro sistema (prima fra tutte la tensione rieducativa), non tollerano il perdurare dell'esecuzione di una sanzione afflittiva derivante dall'applicazione di una norma dichiarata incostituzionale. L'affermazione contenuta nella pronuncia Ercolano assume interesse specifico nel quadro della presente disamina, in quanto, nella fattispecie, ad una norma contenuta in una legge processuale (l'art. 442, comma 2, cod. proc. pen.) è stata attribuita valenza sostanziale, proprio in ragione del suo contenuto, concernente la pena da infliggere all'imputato, che ne determina l'inquadramento nel campo di applicazione dell'art. 7, § 1, CEDU. Tale norma, secondo la più recente interpretazione della Corte di Strasburgo, ricomprende, nel più generale ambito del principio di legalità della pena, non soltanto il divieto di irretroattività della norma penale più sfavorevole, ma anche il diritto dell'imputato di beneficiare della legge penale successiva alla commissione del reato che preveda una sanzione meno severa di quella stabilita in precedenza.

Sulla linea della pronuncia "Ercolano", si colloca la recentissima sentenza (n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto, cit.) - depositata pochi giorni prima della sentenza Pinna - con la quale le Sezioni unite hanno esplicitato il principio, già desumibile dall'informazione provvisoria emessa dopo l'udienza, secondo il quale non può essere eseguita la pena derivante (anche) dall'impossibile bilanciamento nel giudizio di merito tra recidiva e attenuante del comma quinto dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, applicato per effetto della disposizione normativa - art. 69, quarto comma, cod. pen. - poi dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 251 del 2012 del giudice delle leggi nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, cod. pen. In base a tale sentenza, la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell'esecuzione. Quella pena, benché vi sia stato passaggio in giudicato, viene definita "illegittima e ingiusta" e, pertanto, non può continuare ad avere esecuzione in un sistema democratico e costituzionalmente orientato, poiché ne minerebbe le stesse basi ideologiche, svilendone la percezione funzionale da parte di chi vi sia sottoposto: se, subendola, la si ritenesse ingiusta perché contraria a Costituzione, se ne vanificherebbe il senso rieducativo voluto dal terzo comma dell'art. 27 Cost.

Tuttavia, occorre subito evidenziare, che le Sezioni unite, nella pronuncia Pinna, citando la stessa Corte EDU, ritengono che la retroattività "illimitata" della lex mitior non sia un principio assoluto dell'ordinamento processuale, tanto meno nell'ambito delle misure cautelari, ove, pertanto, resta ragionevole l'applicazione del principio tempus regit actum, con la precisazione, svolta dalla Corte, che le situazioni esaurite o il passaggio in giudicato della sentenza di condanna "potranno sopportare il vaglio di ulteriori valutazioni attraverso l'analisi del filtro di ragionevolezza riconducibile alla considerazione di ulteriori interessi confliggenti, come affermato, positivamente, in tema di prescrizione con la sentenza n. 393 del 2006 della Corte cost., in modo tale che l'esegesi applicativa delle norme aventi valore procedurale potrà trovare una ponderazione di sistema nelle previsioni cui per il cittadino sono legati interessi di natura prettamente sostanziale, primo fra tutti quello alla libertà, che trova il suo presidio costituzionale nell'art. 13 Cost." Tale affermazione circa la necessità di una verifica dell'interprete che bilanci il principio del tempus regit actum con "ulteriori interessi confliggenti", si ripropone, peraltro, in sentenza quando si afferma, nel solco della giurisprudenza costituzionale (citando Corte cost., sent. n. 381 del 2001 con riferimento alla successione di leggi penali nel tempo), che, se non sono penalizzate l'autonomia di azione e il diritto di difesa della parte processuale interessata, non può ritenersi violato "il punto minimo di compatibilità costituzionale". E proprio ricostruendo gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale sul tema (Corte cost., n. 15 del 1982 e n. 265 del 2010[11]), i giudici di legittimità riaffermano la natura eminentemente processuale, e non sostanziale, delle norme che regolano la custodia cautelare, pur con le precisazioni di sistema predette in relazione all'incidenza di esse su un interesse individuale fondamentale quale è quello alla libertà personale.

4. La soluzione alla questione specifica sottoposta alle Sezioni Unite e la nozione di rapporto cautelare esaurito adottata in sentenza.

Se questo è il quadro della giurisprudenza sovranazionale, costituzionale e di legittimità nel quale si iscrive la decisione adottata dalle Sezioni unite, la soluzione della questione sottoposta al Supremo collegio di legittimità, quanto ai possibili effetti "ora per allora" dei nuovi termini cautelari conseguenti alla dichiarata incostituzionalità dei parametri di computo sulla base dei quali si erano effettuati i precedenti calcoli di fase, ha dovuto necessariamente affrontare diversi piani di intervento interpretativo.

I giudici, nell'affrontare la questione, hanno immediatamente sgombrato il campo da quegli arresti, anch'essi delle Sezioni Unite, che, pur occupandosi del tema della legittimità della scarcerazione "ora per allora", hanno trattato il tema in relazione ad ipotesi del tutto diverse e non assimilabili a quella qui in esame (scarcerazione dell'imputato in una fase successiva, rispetto a quella ove avrebbe dovuto provvedersi per decorrenza dei termini della custodia cautelare: Sez. Un., 24 febbraio 2002, n. 26350, Fiorenti, Rv. 221657; scarcerazione a seguito della declaratoria di illegittimità del provvedimento di proroga della custodia cautelare, giusta impugnazione dello stesso da parte dell'imputato detenuto: Sez. Un., 11 luglio 2001, n. 33541, Canavesi, Rv. 219395; scarcerazione disposta per decorrenza dei termini cautelari di una fase antecedente, derivante dalla nullità del provvedimento di sospensione dei termini medesimi: Sez. Un., 31 ottobre 2001, n. 40701, Panella, Rv. 219948). In tutti questi casi, invero, si osserva nella sentenza in commento, si è prodotto, a differenza della fattispecie che qui interessa, un evento, che ha reso attuale il diritto alla scarcerazione immediata dell'interessato, la cui omessa tempestiva adozione ha leso, in maniera assoluta, lo "statuto" legale dell'imputato in stato di custodia cautelare, strutturalmente caratterizzato dal coinvolgimento del diritto fondamentale della libertà personale ex art. 13 Cost.

Poste tali premesse, le Sezioni Unite affrontano il thema decidendum sciogliendo in sequenza tre nodi fondamentali, riguardanti:

a) la diversa incidenza della lex mitior, a seconda se riferita a norme di diritto penale sostanziale oppure di rilievo procedimentale;

b) i confini di operatività tra il principio tempus regit actum, che governa la disciplina procedimentale, e l'annullamento per incostituzionalità di norme di diritto sostanziale, che (come nel caso che qui ci occupa) sia pure in via mediata assumono rilievo procedimentale;

c) la definizione di rapporto cautelare esaurito e la sua intangibilità rispetto anche agli effetti della lex mitior.

In relazione al primo profilo, si afferma in sentenza (in linea con la consolidata giurisprudenza europea, cui sopra si è già fatto cenno) che il principio di retroattività della lex mitior va ricondotto, in via generale, alle norme concernenti le fattispecie penali e le sanzioni ivi previste, con esclusione delle norme processuali, che invece trovano il loro primo principio di riferimento nel diverso canone normativo del tempus regit actum di cui all'art. 11 disp. prel. cod. civ.. Tale prima conclusione lascia, però, aperto il problema relativo a quei casi (tra i quali rientra la fattispecie in esame) in cui la modifica in melius delle disciplina processuale costituisce l'effetto mediato di un intervento su una normativa di diritto sostanziale.

L'ipotesi, come correttamente posto in evidenza nella motivazione della sentenza Pinna, non è nuova nella giurisprudenza delle Sezioni Unite, che, nella pronuncia n. 3 del 28 gennaio 1998, Budini, Rv. 210258, si sono spinte a riconoscere alle sentenze del giudice delle leggi efficacia invalidante e perciò retroattiva anche su norme di natura processuale. La questione concerneva gli effetti processuali della sentenza Corte cost. n. 77 del 1997, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità dell'art. 294, comma 1, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedeva che, fino alla trasmissione degli atti al giudice del dibattimento, il giudice per le indagini preliminari procedesse all'interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare in carcere immediatamente e comunque non oltre cinque giorni dall'inizio dell'esecuzione della custodia, a pena di inefficacia della misura ai sensi dell'art. 302 cod. proc. pen., anch'esso dichiarato incostituzionale. Pertanto la misura cautelare applicata dal g.i.p. successivamente alla chiusura delle indagini preliminari, è stata dichiarata inefficace per omesso svolgimento di una delle attività considerate presupposto indefettibile per l'esercizio del potere coercitivo, avendo ritenuto le Sezioni Unite che il ricorrente aveva maturato, "ora per allora", il diritto a riacquistare lo status libertatis per omesso svolgimento dell'interrogatorio di garanzia nel termine di cinque giorni dall'esecuzione della misura.

L'arresto non è stato trascurato dai giudici della sentenza Pinna, che hanno, però, evidenziato la non sovrapponibilità delle due fattispecie, tale per cui le conclusioni raggiunte nella sentenza Budini risultano non mutuabili nella vicenda in esame. Si afferma, infatti - partendo dalla constatazione che la regola tempus regit actum non può non tenere conto della variegata tipologia degli atti processuali e va modulata in relazione alla differente situazione sulla quale questi incidono e che occorre di volta in volta governare (citando Sez. Un. 29 marzo 2007, n. 27614, Lista, Rv. 236535; Sez. Un., 27 febbraio 2002, n. 17179, Conti, Rv. 221401; Sez. Un., 7 luglio 1984, n. 7232, Cunsolo, Rv. 165565; v. inoltre Corte cost., sent. n. 26 del 2007) -, che, nel caso della pronuncia Budini, la funzione dell'interrogatorio di garanzia è indispensabile ed infungibile per la difesa dell'imputato, sicchè un vizio di illegittimità costituzionale riferito ad esso rende il diritto alla libertà personale illegittimamente compromesso in modo irreversibile. Diversamente, nella fattispecie all'esame delle Sezioni unite "Pinna", si determina, secondo le motivazioni della sentenza, non una diretta compromissione del diritto alla libertà personale, poiché gli effetti dell'intervento abrogativo operato dalla Consulta sulla disciplina degli stupefacenti risultano di mera valenza processuale.

Da tale ragionamento, la sentenza deduce che l'effetto retroattivo della declaratoria di illegittimità costituzionale, incidendo su un rapporto, la cui natura si esaurisce sul piano eminentemente processuale e che si articola in vari segmenti tra loro autonomi, che si dipanano nel tempo, non può che riferirsi alla specifica fase in cui il processo si trova.

Tale conclusione viene messa in relazione, dai giudici di legittimità, con la richiamata questione seguita alla sentenza Corte cost., n. 253 del 2004, che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 722 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva che la custodia cautelare all'estero in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo Stato fosse computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3, cod. proc. pen. Nell'occasione, si è registrato nella giurisprudenza di legittimità un contrasto di orientamenti in merito all'incidenza del novum normativo, determinato per l'appunto dall'intervento della Consulta, sulle fasi cautelari antecedenti a quella nella quale la questione veniva posta.

In tale contesto si sono riportati i due indirizzi esegetici confrontatisi sul tema.

Il primo, prevalente, ritiene che, in applicazione del principio di autonomia dei termini di custodia cautelare fissati per le singole fasi del procedimento, la dichiarazione di illegittimità costituzionale non produce i suoi effetti "ora per allora" sui rapporti processuali cautelari, per i quali la fase delle indagini preliminari sia esaurita con il rinvio a giudizio prima della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale. Secondo tale impostazione, l'articolazione del rapporto processuale in varie fasi (indagini preliminari, udienza preliminare, dibattimento, impugnazioni), che si dipanano nel tempo e che rappresentano segmenti di una attività complessa finalizzata al risultato ultimo di una decisione irrevocabile su una notitia criminis, comporta la autonomia di ciascuna fase e l'esaurimento della stessa al subentrare della successiva. (Sez. VI, 5 febbraio 2008, n. 11059, Gallo, Rv. 239642; Sez. VI, 2 maggio 2005, n. 21019, Incantalupo, Rv. 231346; Sez. I, 5 luglio 2005, n. 26036, Pedetta, Rv. 231348). Il secondo orientamento, minoritario, afferma invece che la sentenza n. 253 del 2004 della Corte costituzionale produce i suoi effetti sul rapporto processuale cautelare in corso, anche quando la fase delle indagini preliminari si sia conclusa prima della sua pubblicazione, con la conseguenza che la scarcerazione per decorrenza termini deve essere disposta "ora per allora". In questo caso il giudice di legittimità ha ritenuto che, mancando una sentenza irrevocabile, fin quando la validità ed efficacia degli atti disciplinati da una norma sono sub iudice, il rapporto processuale non può considerarsi esaurito (Sez. II, 3 maggio 2005, n. 23395, Locatelli, Rv. 231347). In altre parole, ai fini specifici di tutela del soggetto sottoposto a misura restrittiva, il cosiddetto "rapporto processuale cautelare" va considerato nella sua unitarietà e non nelle singole fasi del procedimento frazionate, sicchè, ove anche la fase delle indagini preliminari fosse ormai conclusa, il rapporto processuale cautelare, anche nella fase successiva, è da considerarsi in corso e rimane sempre attuale la questione dello status libertatis, non essendo maturata alcuna preclusione per effetto di sentenza irrevocabile.

Il discrimine tra i due indirizzi interpretativi risiede, come si può notare, nella nozione di rapporto cautelare "esaurito", dalla cui definizione, una volta dichiarata l'applicabilità del principio del tempus regit actum nel caso di dichiarazione di incostituzionalità che colpisca una norma solo in via mediata incidente sui termini del rapporto cautelare, la Corte fa quindi derivare la soluzione della questione.

Con la sentenza "Pinna" i giudici delle Sezioni unite aderiscono al citato orientamento maggioritario, evidenziando, ancora una volta, l'eminente natura processuale delle norme che regolano il rapporto cautelare nei quattro suoi segmenti con i relativi termini di fase.

In particolare, si osserva che la pronuncia di incostituzionalità non ha determinato una patologia genetica del rapporto cautelare, bensì, al contrario, il riconoscimento di una patologia per incostituzionalità in un momento successivo rispetto ad una fase esaurita, o meglio rispetto ad un atto complesso che aveva esaurito i suoi effetti, è di ostacolo al rilevamento del differente calcolo della durata della custodia, derivante come effetto ulteriore dalla decisione della Corte costituzionale e quindi alla invocata scarcerazione automatica dell'indagato, con una decisione che produrrebbe i suoi effetti "ora per allora". A supporto della conclusione cui perviene, la Corte ne evidenzia ancora la coerenza e la compatibilità con il parametro interno di costituzionalità di cui all'art. 3 della Costituzione e con quello esterno di cui all'art. 7 della CEDU, operata la verifica già prima esposta (citando Corte cost., sent. n. 381 del 2001) del se vi sia stata penalizzazione dell'autonomia di azione e del diritto di difesa della parte processuale interessata, ed escludendola nel caso di specie. Difatti, si dice, se, successivamente alla fase considerata, il trattamento sanzionatorio ha trovato una definizione più blanda per la declaratoria di illegittimità costituzionale con effetti indiretti sul computo dei termini di fase cautelare, ciò non equivale a ritenere viziata di irragionevolezza la disciplina che, a suo tempo, aveva trovato corretta applicazione e di conseguenza esclude che gli effetti del novum possano incidere su una fase processuale, ritenuta ormai "esaurita".

Alla luce di quanto sinora ricostruito, sono state ricavate le seguenti affermazioni di principi di diritto ricavabili dalla pronuncia delle Sezioni unite in ordine alle ricadute "ora per allora" sui termini cautelari della sentenza di incostituzionalità n. 32 del 2014:

- "In tema di custodia cautelare, la sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata l'incostituzionalità degli articoli 4-bis e 4-vicies ter del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modifiche dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, concernente il trattamento sanzionatorio unificato per le droghe leggere e per quelle pesanti, con la conseguente reviviscenza del trattamento sanzionatorio differenziato previsto dal d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, non comporta la rideterminazione retroattiva "ora per allora" dei termini di durata massima per le precedenti fasi del procedimento, ormai esaurite prima della pubblicazione della sentenza stessa, attesa l'autonomia di ciascuna fase." Rv. 260925

- "Data l'autonomia dei termini di custodia cautelare di fase, la "lex mitior" derivante dalla reviviscenza del trattamento sanzionatorio più favorevole per le droghe leggere, quale effetto della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, non produce effetti sulle fasi esaurite. (In motivazione la Corte ha precisato che la vicenda cautelare deve ritenersi esaurita fase per fase, poiché queste ultime costituiscono segmenti autonomi che compongono un'attività complessa.)". Rv 260926

5. Altri principi di diritto affermati dalla sentenza delle Sezioni unite "Pinna".

La sentenza delle Sezioni unite in esame ha, altresì, proposto nel corso della motivazione alcune ulteriori affermazioni che meritano di essere ricordate in questa sede e sono state oggetto di massimazione.

Da un lato si è ribadito un principio da ultimo proposto da Sez. I, 27 novembre 2013, n. 8350/2014, Gaddone, Rv. 259543, secondo cui "il principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza CEDU del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola contro Italia, non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali, che è regolata dal principio "tempus regit actum", ovviamente con riferimento alla fattispecie degli effetti della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata l'incostituzionalità degli articoli 4-bis e 4-vicies ter del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modifiche dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49.

Dall'altro, significativamente optando per l'orientamento maggioritario e più recente in tema (cfr. da ultimo le sentenze Sez. IV, 1 aprile 2014, n. 15187, Giunta, Rv. 259056, e Sez. IV, 15 aprile 2014, n. 21600, Bisiccè, Rv. 259378), ha affermato che l'avvenuta reviviscenza, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, del trattamento sanzionatorio più favorevole per la detenzione illecita delle cosiddette "droghe leggere" impone di riconsiderare i presupposti applicativi delle misure cautelari personali in atto, atteso che la cornice edittale di riferimento incide sulla scelta della misura oltre che sulla sua stessa applicabilità, stante la necessaria valutazione in ordine alla concedibilità della sospensione condizionale della pena. In applicazione di tale principio, la Corte, rispondendo al secondo motivo di ricorso, ha rilevato che il giudice di merito avesse efficacemente rivalutato i presupposti applicativi della misura cautelare in atto, alla luce della modifica sanzionatoria, ritenendola ininfluente rispetto alla gravità del comportamento delittuoso e alla complessiva figura criminale dell'imputato.

  • regime penitenziario

CAPITOLO XII

LA DURATA MASSIMA DELLA CUSTODIA CAUTELARE NEI REATI DI PARTICOLARE ALLARME SOCIALE

(di Vittorio Pazienza )

Sommario

1 La questione interpretativa controversa ed i termini del contrasto giurisprudenziale. - 2 L'intervento delle Sezioni unite.

1. La questione interpretativa controversa ed i termini del contrasto giurisprudenziale.

Nel corso del 2014, le Sezioni unite sono state chiamate a risolvere una rilevante questione interpretativa concernente le disposizioni in tema di durata massima della custodia cautelare inserite, negli articoli 303, comma primo, e 304, comma sesto, cod. proc. pen., dal decreto legge 24 novembre 2000, n. 341 (noto come "decreto antiscarcerazioni"), convertito, con modificazioni, dalla legge 10 gennaio 2001, n. 4.

Con tale intervento normativo si era inteso a suo tempo fronteggiare, com'è noto, le criticità relative alla scarcerazione per decorrenza dei termini di numerosi imputati per gravi reati: criticità espressamente ricondotte, nel preambolo del decreto, alla normativa vigente, ritenuta inidonea a gestire la celebrazione di dibattimenti particolarmente complessi. Peraltro, come meglio si vedrà esaminando la decisione delle Sezioni unite, la soluzione prescelta dalla legge di conversione è risultata marcatamente diversa da quella contenuta nel decreto legge: basti qui accennare al fatto che - in luogo della generalizzata possibilità, prevista dal decreto, di utilizzare nella fase successiva i periodi di custodia "risparmiati" nella fase precedente - la legge di conversione ha inserito alla lettera b) del comma primo dell'art. 303 (lettera che individua ai nn. 1, 2 e 3 i termini della fase relativa al giudizio di primo grado, graduandoli in relazione all'entità della pena edittale) un nuovo numero 3-bis, ai sensi del quale "qualora si proceda per i delitti di cui all'articolo 407, comma 2, lettera a), i termini di cui ai numeri 1), 2) e 3) sono aumentati fino a sei mesi. Tale termine è imputato a quello della fase precedente ove non completamente utilizzato, ovvero ai termini di cui alla lettera d) per la parte eventualmente residua. In quest'ultimo caso, i termini di cui alla lettera d) sono proporzionalmente ridotti".

In buona sostanza, la legge di conversione ha introdotto - per la sola fase decorrente dall'emissione del decreto che dispone il giudizio alla pronuncia della sentenza di primo grado, e limitatamente ai procedimenti per i reati di grave allarme sociale indicati nell'art. 407, comma secondo, lett. a) - un termine "supplementare" non superiore a sei mesi, privo di incidenza sulla durata complessiva della custodia grazie all'apposito meccanismo di "rimodulazione" dei termini di altri due segmenti presi in considerazione dall'art. 303: il primo (quello relativo alle indagini preliminari di cui alla lett. a, richiamato nel numero 3-bis come la "fase precedente") e l'ultimo (quello successivo alla pronuncia della sentenza in grado di appello, di cui alla lett. d).

Infatti, il termine supplementare in questione - a disposizione del giudice dibattimentale per definire il giudizio mantenendo l'imputato in custodia cautelare anche oltre la scadenza del termine "ordinario" di fase di cui ai nn. 1), 2) e 3) della lett. b) dell'art. 303 - viene computato, in tutto o in parte, alla fase delle indagini preliminari, se in quest'ultima la custodia cautelare non è stata applicata o si è protratta per un periodo inferiore al relativo termine di fase. Se invece non si può disporre di siffatta "capienza", perché il termine di custodia della fase delle indagini è stato utilizzato integralmente, o comunque in misura tale da non assicurare una "copertura" per intero del periodo di custodia supplementare, quest'ultimo viene imputato, in tutto o "per la parte eventualmente residua", ai termini della fase relativa al giudizio di cassazione di cui alla lett. d): termini che, del tutto coerentemente, vengono "proporzionalmente ridotti".

Non meno rilevante appare la diversità di approccio della legge di conversione, rispetto al decreto legge, nel regolare l'incidenza dell'intervento "antiscarcerazioni" sulla disciplina di quella che può considerarsi una norma di chiusura del sistema, a tutela del principio di proporzionalità della custodia rispetto al fatto commesso e alla sanzione da irrogare: il termine massimo finale, di cui all'art. 304, comma sesto, cod. proc. pen.[12].

In particolare, mentre il decreto legge prevedeva che nel calcolo del predetto termine massimo finale di fase venissero computati i periodi di custodia applicata grazie al "risparmio" della fase precedente (cfr. supra), l'incidenza del nuovo termine supplementare sul calcolo dei termini massimi di fase è stata regolata come segue, secondo il nuovo e definitivo tenore del comma sesto dell'art. 304: "la durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio dei termini previsti dall'articolo 303, commi 1, 2 e 3 senza tenere conto dell'ulteriore termine previsto dall'articolo 303, comma 1, lettera b), numero 3-bis".

Tale nuova formulazione della norma sui termini massimi finali di fase sembra senz'altro escludere - non vi sono incertezze interpretative al riguardo, a quanto consta, nell'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale - la possibilità di calcolare "il doppio" del termine di fase includendo, quale base di tale operazione aritmetica, anche il termine supplementare eventualmente utilizzato ai sensi del numero 3-bis.

Va anzi sottolineato che, secondo gli approdi interpretativi apparsi nettamente maggioritari sin dall'entrata in vigore della novella (cfr. ad es. Sez. VI, 23 ottobre 2001, n. 43178, Capriati, Rv. 220587; Sez. I, 9 gennaio 2002, n. 8094, Gulino, Rv. 221326; Sez. I, 11 aprile 2007, n. 34545, Greco, Rv. 237680; Sez. VI, 25 ottobre 2011, n. 38671, Amasiatu, Rv. 250847), il richiamato tenore dell'art. 304, comma sesto, cod. proc. pen. impone di escludere qualsiasi incidenza del termine supplementare sulle modalità di calcolo del termine massimo finale di fase, che "non può comunque superare il doppio" del termine di fase ordinario. Tra le decisioni depositate nel corso del 2014, aderenti a tale impostazione, possono essere richiamate Sez. II, 2 ottobre 2013, n. 319/2014, Cirillo, e Sez. II, 16 ottobre 2013, n. 139/2014, Napoli.

Secondo una diversa opinione, invece, nella determinazione del termine massimo finale di fase dovrebbe aversi riguardo anche al termine supplementare di cui al numero 3-bis, nel senso che quest'ultimo - pur estraneo alle operazioni di "calcolo del doppio" - dovrebbe essere aggiunto al termine ordinario raddoppiato (in tal senso, cfr. Sez. V, 11 luglio 2012, n. 30759, Ali Sulaiman, Rv. 252938; Sez. II, 30 maggio 2002, n. 9148/2003, Reccia; Sez. VI, 6 novembre 2013, n. 46489, Anayo).

Manifestando la propria adesione a tale orientamento minoritario, la Terza Sezione della Corte di cassazione, con ordinanza 5 febbraio 2014, n. 12356, ha rimesso la soluzione della questione alle Sezioni Unite.

2. L'intervento delle Sezioni unite.

Come si è già in precedenza accennato, il Supremo consesso ha risolto il contrasto con la sentenza Sez. Un., 29 maggio 2014, n. 29556, Gallo, Rv. 259176, riaffermando la fondatezza del prevalente e "tradizionale" indirizzo volto a negare qualsiasi incidenza del termine supplementare ex art. 303, comma primo, lett. b), n. 3-bis, cod. proc. pen., sul calcolo del termine massimo finale di cui all'art. 304, comma sesto, dello stesso codice, sulla base sia di argomentazioni di natura letterale e storico-ricostruttiva, sia di considerazioni logico-sistematiche svolte in una prospettiva costituzionalmente orientata, anche con riferimento alle indicazioni interpretative di fonte sovranazionale.

In particolare, il Collegio ha anzitutto sinteticamente richiamato le ragioni poste a fondamento sia dell'orientamento maggioritario (da un punto di vista letterale, le locuzioni "non può comunque superare" e "senza tenere conto" non consentirebbero interpretazioni diverse; il predetto divieto, assente nel decreto legge, è stato inserito solo in sede di conversione; ogni dubbio interpretativo dovrebbe poi comunque essere risolto con interpretazioni conformi ai canoni costituzionali di salvaguardia della libertà personale), sia dell'orientamento minoritario (le predette locuzioni sarebbero in contrasto tra loro, dato che la seconda sembrerebbe introdurre una deroga alla regola dell'insuperabilità; il dato normativo equivoco, dovuto alla stratificazione normativa, imporrebbe di valorizzare l'argomento sistematico per cui l'intento del legislatore era quello di assicurare al giudice del dibattimento un tempo maggiore per la trattazione del processo evitando, per i più gravi reati, la scarcerazione per la scadenza del termine massimo di fase; la volontà di escludere dal computo del termine sarebbe stata ben più chiaramente espressa nel comma settimo dell'art. 304). All'esito di tale esposizione, le Sezioni unite hanno ritenuto indispensabile - per addivenire ad una soddisfacente soluzione della controversia interpretativa - individuare e ricostruire la genesi delle disposizioni oggetto del contrasto.

È stato quindi posto in evidenza che la legge di conversione ha prescelto "una soluzione diversa e certamente meno drastica sul versante del recupero" rispetto al decreto legge, avendo per un verso limitato l'operatività del termine supplementare ai soli reati di cui all'art. 407, comma secondo, lett. a), cod. proc. pen., e la possibilità del recupero alle sole fasi delle indagini preliminari e del giudizio di legittimità (cfr. anche supra, § 1), e, per altro verso, avendo modificato la norma di chiusura di cui al comma sesto dell'art. 304 nel senso già più volte ricordato. Tali circostanze, ad avviso delle Sezioni unite, non consentono di condividere l'assunto della giurisprudenza minoritaria secondo cui ci si troverebbe in presenza di una "stratificazione normativa", trattandosi al contrario di un "disegno lineare costituito: da una flessibilizzazione dei termini di fase, da un aumento "recuperabile" fino a sei mesi dei termini di fase per i delitti di maggior allarme sociale e da un'espressa previsione che l'aumento per le sospensioni non può essere cumulato, ove si pervenga al doppio del termine di fase, con l'ulteriore aumento previsto dal n. 3-bis in esame".

La fondatezza di tali conclusioni è stata sostenuta dal Supremo consesso, sempre su un piano storico-ricostruttivo, anche ponendo a confronto il testo dell'art. 304 comma sesto, come modificato dal decreto legge n. 341 del 2000, con quello scaturito dalla legge di conversione n. 4 del 2001.

Nel primo caso, ovvero in una prospettiva tendente ad una "sostanziale eliminazione" della rilevanza pratica dei termini di fase, si era previsto che <<la durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio dei termini previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3 e delle eventuali proroghe, nonché degli altri termini residui della fase o del grado precedente>>, consentendosi quindi una chiara possibilità di cumulo del raddoppio con i termini residui della fase o del grado precedente (cfr. supra, § 1): laddove invece, nel testo poi definitivamente modificato dalla legge di conversione, la congiunzione «e» viene sostituita con la locuzione «senza tenere conto...», in tal modo sostituendo una previsione inequivoca con altra "che, se anche fosse vero che si tratta di espressione ambigua, manifesta l'evidente intenzione del legislatore di eliminare un aggravamento, evidentemente ritenuto eccessivo e di dubbia legittimità costituzionale, della custodia cautelare di fase".

Muovendosi poi su un versante interpretativo di ordine prettamente letterale, le Sezioni unite hanno tra l'altro osservato che la tesi dell'esclusione di qualsiasi possibilità di cumulo appare avvalorata non solo e non tanto dall'uso dell'avverbio "comunque", quanto dalla collocazione delle locuzioni oggetto del contrasto interpretativo: "è infatti essenziale rilevare che la frase «senza tenere conto» segue quella «non può comunque superare il doppio...» e dunque pone un divieto che non può che essere riferito a quanto si afferma nella premessa cioè al verbo superare. Insomma la frase ci dice che nel calcolo per verificare l'eventuale superamento del doppio non si deve tenere conto di quell'aumento".

Un ulteriore, ma certo non secondario argomento, è stato poi individuato nella necessità di privilegiare - laddove possa residuare un margine di opinabilità - un'interpretazione costituzionalmente orientata.

Al riguardo, il Collegio ha ampiamente richiamato i principi fissati dalle sentenze 7 luglio 1998, n. 292, e 25 maggio 2005, n. 299, della Corte costituzionale in tema di proporzionalità ed adeguatezza della durata della custodia cautelare, nel quadro della "natura servente" di tale istituto rispetto al perseguimento delle finalità del processo e alle esigenze di tutela della collettività, che consente di giustificare - in un'ottica di bilanciamento di interessi di rilievo costituzionale - il temporaneo sacrificio della libertà personale della persona non ancora condannata in via definitiva. In particolare, è stato valorizzato l'insegnamento "inequivocabile" della Consulta secondo cui la durata ragionevole è assicurata nel sistema attuale anche dai termini massimi di fase, ed il limite del doppio dei termini di fase "aderisce anch'esso alla funzione che la norma è chiamata a svolgere: individuare il limite estremo, superato il quale il permanere dello stato coercitivo si presuppone essere «sproporzionato» in quanto eccedente gli stessi limiti di tollerabilità del sistema".

Analoghi richiami sono stati effettuati, dal Supremo consesso, all'elaborazione della giurisprudenza della Corte EDU in tema di ragionevole durata della custodia cautelare, in forza dell'art. 5, comma 3, della Convenzione, secondo cui ogni persona arrestata o detenuta <<ha il diritto di essere giudicata in un tempo congruo, o liberata durante il corso del procedimento>>. Ad avviso delle Sezioni unite, tale "chiarissimo" enunciato evidenzia un'impostazione convenzionale ispirata ai principi di cui all'art. 13, quinto comma, Cost., secondo cui "in relazione alle caratteristiche del caso concreto e alla natura del reato, il sacrificio della libertà personale prima della condanna definitiva non potrà protrarsi secondo criteri irragionevoli": in tale prospettiva, il non condiviso indirizzo minoritario "verrebbe a lambire il margine di irragionevolezza", con ogni conseguenza derivante anche dal carattere interposto della norma convenzionale, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 117 CEDU.

Sempre con riferimento alle indicazioni di fonte sovranazionale, Il Collegio ha infine ritenuto di recepire e valorizzare le considerazioni critiche rivolte, da una decisione aderente all'indirizzo maggioritario (Sez. VI, 30 ottobre 2013, n. 46482, Mennella, Rv. 257710), alla sentenza Ali Sulaiman, che - come accennato (cfr. supra, § 1) - nel 2012 si era posta in consapevole contrasto con detto indirizzo. In particolare, si è rilevato che il risultato interpretativo cui perviene l'elaborazione giurisprudenziale deve essere improntato a criteri di prevedibilità, dovendo altrimenti ritenersi violato il principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7 CEDU, riferibile non solo al diritto di emanazione legislativa ma anche a quello di derivazione giurisprudenziale. Tale principio - applicabile anche alla materia processuale ed in linea anche con gli insegnamenti di Sez. Un, 21 gennaio 2010, n. 18288, Beschi, Rv. 246651 - "non consente che un'applicazione univoca decennale da parte della Corte di cassazione di un principio affermato a garanzia della libertà della persona possa essere messo nel nulla da una difforme interpretazione, anche se plausibile, proprio perché questo risultato interpretativo non è "prevedibile" dall'agente".

È opportuno evidenziare, conclusivamente, che la soluzione offerta dalla sentenza Gallo al contrasto interpretativo fin qui illustrato ha trovato adesione in recentissime decisioni delle Sezioni semplici: si richiamano qui, in particolare, Sez. II, 16 dicembre 2013, n. 53683, Casotto, e Sez. I, 10 dicembre 2014, n. 53542, Paragliola.

  • sequestro di beni
  • azione civile

CAPITOLO XIII

IL SEQUESTRO CONSERVATIVO

(di Pietro Molino )

Sommario

1 Natura del periculum quale presupposto per l'adozione del sequestro conservativo. - 2 Legittimazione della parte civile ad impugnare il provvedimento di revoca o annullamento del sequestro conservativo disposto in suo favore.

1. Natura del periculum quale presupposto per l'adozione del sequestro conservativo.

Le Sezioni Unite, 25 settembre 2014, n. 51660, Zambito, Rv. 261118 - hanno affermato il principio per il quale "al fine di disporre il sequestro conservativo, è necessario e sufficiente che vi sia il fondato motivo di ritenere che manchino le garanzie del credito; vale a dire che il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per l'adempimento delle obbligazioni di cui all'art. 316, commi 1 e 2, cod. proc. pen.".

La Prima Sezione aveva rimesso la questione al supremo collegio, chiedendo di chiarire se per l'adozione della misura cautelare reale del sequestro conservativo si richieda la configurabilità di una situazione che faccia apparire fondato un futuro depauperamento del debitore ovvero sia sufficiente l'esistenza di una oggettiva inadeguatezza della garanzia patrimoniale in rapporto all'entità del credito.

Nell'ordinanza di rimessione si evidenziava che, non essendo in discussione la finalità del sequestro conservativo di immobilizzare il patrimonio del soggetto obbligato e attuare in tal modo la piena e concreta tutela del danneggiato dal reato per il soddisfacimento del suo credito risarcitorio, un contrasto di vedute giurisprudenziali si registra invece sulla esatta individuazione dei presupposti per l'applicazione dell'art. 316 cod. proc. pen.

Per un primo orientamento, infatti (tra le risalenti, Sez. IV, 17 maggio 1994, n. 707, Corti, Rv. 198682; in anni più recenti, Sez. II, 21 settembre 2012, n. 44148, PM in proc. Galofaro, Rv. 254340), il periculum in mora andrebbe valutato, oltre che con riguardo all'entità del credito del richiedente, anche con riferimento ad una situazione almeno potenziale, desunta da elementi certi ed univoci, di depauperamento del patrimonio del debitore, da porsi in ulteriore relazione con la composizione del patrimonio medesimo, con la capacità reddituale e con l'atteggiamento in concreto assunto dal debitore medesimo.

In contrapposizione a tali arresti si schiera un consistente indirizzo per il quale, avuto riguardo tanto alla ratio dell'istituto quanto all'esplicita formulazione della norma, il pericolo può essere ravvisato, oltre che in presenza di una situazione che faccia apparire fondato un futuro depauperamento del debitore, anche quando sussista esclusivamente una oggettiva condizione di inadeguata consistenza del suo patrimonio in rapporto alla entità del credito, indipendentemente da comportamenti di dispersione ascrivibili al debitore medesimo (fra le ultime, Sez. V, 27 gennaio 2011, n. 7481, A., Rv. 249607); ovvero quando il rischio di condotte di impoverimento può risultare amplificato dalla modestia della consistenza patrimoniale del debitore (Sez. V, 2 febbraio 2011, n. 13284, PM in proc. Frustaci, Rv. 250209).

Rispondendo alla sollecitazione, le Sezioni Unite partono dal ricordare che il sequestro conservativo, dall'essere inizialmente considerato (dagli artt. 189, 190 e 192 cod. pen., espressamente abrogati dall'art. 218 del D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271, e dall'art. 622 cod. proc. pen. 1930), un mezzo di garanzia patrimoniale per l'esecuzione, è divenuto, nel sistema del codice del 1988, una misura cautelare reale; misura che si profila e sviluppa, fatte salve le necessarie differenziazioni derivanti dalla tipologia procedimentale entro cui la pretesa viene fatta valere, attraverso un modulo pressoché analogo al sequestro conservativo civile, sia per la funzione ad esso assegnata dalla legge, e cioè impedire la disponibilità anche giuridica della cosa rendendone inefficace l'eventuale alienazione, sia per l'identità dello strumento di esecuzione, vale a dire, il pignoramento.

L'art. 316 cod. proc. pen. individua i presupposti del provvedimento nel solo c.d. periculum in mora, vale a dire nel «fondato motivo di ritenere che manchino o si disperdano le predette garanzie», che diviene così elemento necessitato della fattispecie costitutiva del potere di disporre il sequestro conservativo penale.

Tanto premesso, il massimo consesso nomofilattico denuncia un eccessiva enfatizzazione del contrasto, ritenuto più apparente che reale, tenuto conto che il principio di diritto nei singoli casi affermato dalle decisioni indicate come esponenziali del conflitto interpretativo è sempre riferibile ad una situazione di fatto scrutinata in base ai concreti presupposti posti a base del provvedimento che dispone o nega la misura.

Monitorando attentamente la giurisprudenza formatasi sulla questione, le Sezioni Unite osservano infatti che talvolta si è in presenza di fattispecie in cui il principio di diritto resta ampiamente condizionato da una concreta situazione di fatto che non esclude l'operatività del solo primo presupposto (Sez. IV, 2 aprile 1995, n. 2128, Fedele, Rv. 204414); in altre è l'entità del credito a rendere illegittima la cautela (Sez. 5, 2 febbraio 2011, n. 13284, Frustaci, Rv. 250209); in alte ancora, ci si trova di fronte ad una situazione nella quale la cumulabilità tra i due presupposti non è affatto riconosciuta, venendo in considerazione il solo pericolo di dispersione (Sez. VI, 15 marzo 2012, n. 20923, Lombardi, Rv. 252685).

Lo scrupoloso esame delle pronunce conduce la Corte a conformarsi alla linea interpretativa secondo cui il periculum in mora è presente non solo quando si disperdano, ma anche solo quando manchino le garanzie delle obbligazioni nascenti da reato; e il principio secondo cui il pericolo può essere ravvisato, alternativamente, sia in presenza di elementi oggettivi concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all'entità del credito, sia quando ricorrano elementi soggettivi rappresentati dal comportamento del debitore, risulta, a ben vedere, informare l'intera giurisprudenza di legittimità (in aggiunta a quelle citate, cfr. anche Sez. VI, 26 novembre 2010, n. 43660, Cesaroni, Rv. 248819; Sez. VI, 6 maggio 2010, n. 26486, Barbieri, Rv. 247999).

E del resto - osservano le Sezioni Unite - le condizioni perché venga in essere il presupposto sono indicate dal legislatore, in modo assai chiaro, nella "mancanza", intesa come insufficienza o inadeguatezza del patrimonio del debitore, o nella "dispersione", per effetto di cause tanto di ordine oggettivo (ad esempio, la deperibilità del bene che a ben vedere è forse più accostabile alla situazione di "mancanza") quanto di ordine soggettivo, dipendenti cioè dal contegno del debitore il cui patrimonio corra il rischio di dissolversi, anche se non necessariamente al deliberato fine di sottrarlo alla garanzia per l'obbligazione ex delicto; e ciò in ossequio alla finalità di garanzia del credito, che non può realizzarsi prescindendo anche da una situazione statica che renda impossibile, in base alla situazione di fatto esistente al momento della cautela, la realizzazione del credito all'esito del giudizio.

In ultimo, le Sezioni Unite ricordano come tale linea interpretativa sia del tutto conforme a quella seguita dalla giurisprudenza civile nell'interpretazione dell'art. 671 cod. proc. civ., in base al quale il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere le garanzie del credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne consente il pignoramento.

Le Sezioni civili della cassazione - cfr. Sez. III civ., 31 febbraio 2002, n. 2081, Rv. 552250; nello stesso senso, Sez. III civ., 26 febbraio 1998, n. 2139, Rv. 513090 - hanno infatti sempre ritenuto che l'espressione "perdere la garanzia" vada intesa nel senso che, nel convalidare il sequestro conservativo, il giudice di merito può fare riferimento a criteri oggettivi, rappresentati dalla capacità patrimoniale in relazione all'entità del credito, ovvero a criteri soggettivi rappresentati dal comportamento del debitore, il quale lasci fondatamente temere atti di depauperamento del patrimonio.

Il richiamo è giudicato non solo opportuno, ma pressoché dirimente della questione, considerato che l'assetto individuato dall'art. 671 cod. proc. civ. può dirsi quasi sovrapponibile sia sul piano strutturale (fatta eccezione per il fumus) sia sul piano funzionale alla disposizione dell'art. 316 cod. proc. pen., e che appare speculare rispetto alla intenzione normativa di trasformare il precedente regime di garanzia patrimoniale (anche per la parte civile), sistemandolo all'interno delle misure cautelari reali.

2. Legittimazione della parte civile ad impugnare il provvedimento di revoca o annullamento del sequestro conservativo disposto in suo favore.

Sempre in tema di sequestro conservativo, le Sezione Unite - Sez. Un., 25 settembre 2014, n. 47999, Alizzi, Rv. 260895 - hanno affermato il principio per il quale "la parte civile non è legittimata a ricorrere per cassazione contro il provvedimento che abbia annullato o revocato, in sede di riesame, ai sensi dell'art. 318 cod. proc. pen., l'ordinanza di sequestro conservativo disposto a favore della stessa parte civile".

Secondo un primo orientamento (Sez. VI, 31 gennaio 2012, n. 5928, P.C. in proc. Cipriani, Rv. 252076; Sez. VI, 9 aprile 2013, n. 20820, Imp. P.C. in proc. Tavaroli ed altri, Rv. 256231), pur non tacendo la discrasia che sembra derivare, a prima vista, dalla possibilità per la parte civile di impugnare in sede di riesame il provvedimento applicativo (reso con "ordinanza") di un sequestro conservativo, ma di non poter impugnare successivamente per cassazione la decisione del riesame, deve tuttavia concludersi nel senso che la parte civile non ha titolo per proporre impugnazione in ragione del contenuto testuale del comma 1 dell'art. 325 del codice di rito, che non la contempla fra i soggetti legittimati: viene infatti osservato che il comma 2 della norma citata attribuisce inoltre il diritto a proporre ricorso per saltum (cui ricollegare possibilmente la legittimazione alla proposizione del ricorso ordinario) solo contro i "decreti" applicativi di sequestro, ossia avverso una tipologia di provvedimenti prevista unicamente per il sequestro preventivo e per il sequestro probatorio, ma non per il sequestro conservativo, disposto invece con "ordinanza". Per quanto suscettibile di discussione, tale esito interpretativo non può - secondo tale indirizzo - considerarsi irragionevole, poiché la descritta dinamica impugnatoria non diviene limitativa dei diritti della parte danneggiata costituitasi parte civile, alla quale non è sottratta la possibilità di esercitare l'azione civile a tutela, primaria e diretta, delle sue pretese risarcitorie.

Nella giurisprudenza della Cassazione si è sviluppato però, in anni sostanzialmente coevi al primo indirizzo, un diverso ma non isolato orientamento (Sez. V, 7 novembre 2012, n. 4622/2013, P.C. in proc. Dazzi, RV. 254645; da ultimo, Sez. VI, 3 maggio 2013, n. 25449, P.C. in procedimento Polichetti ed altro, Rv. 255473), secondo cui l'art. 325 comma 1 cod. proc. pen., riguardato all'interno del sistema delle cautele reali, deve essere posto in relazione con gli artt. 325 comma 2 e 318 cod. proc. pen. i quali, riconoscendo la legittimazione a proporre la richiesta di riesame o il ricorso diretto per cassazione a "chiunque abbia interesse", consentono di ricomprendere fra tali soggetti anche la parte civile, alla quale deve essere di conseguenza riconosciuto anche il potere di proporre impugnazione, per effetto di quanto disposto dall'art. 325, comma 1, del codice di rito.

Nel risolvere il contrasto, le Sezioni Unite partono dal confutare radicalmente proprio la tesi, più volte sostenuta nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui anche la parte civile è legittimata a proporre richiesta di riesame contro il provvedimento che ha disposto il sequestro conservativo qualora vi abbia interesse, osservando come l'unica ipotesi in cui tale interesse è concretamente ipotizzabile si ha nel caso in cui la richiesta di sequestro conservativo sia stata assentita solo parzialmente: accoglimento parziale che però, rovesciando la visuale prospettica, equivale ad un diniego parziale della richiesta, rispetto al quale deve escludersi ogni potere impugnatorio della parte civile, anche alla luce di quanto affermato nell'ordinanza della Corte costituzionale n. 424 del 14.12.1998, secondo cui non sussiste alcuna lesione del diritto alla tutela giurisdizionale a seguito della mancata previsione dell'impugnabilità del provvedimento di diniego del sequestro conservativo.

Ad avviso delle Sezioni Unite, una volta allora esclusa la legittimazione a proporre riesame - mezzo di impugnazione predisposto dal legislatore a favore di soggetto diverso (l'imputato; il responsabile civile) da quello che ha attivato la richiesta - dovrebbe in teoria essere negato anche il diritto della parte civile a ricevere avviso dell'udienza di riesame in camera di consiglio (e dell'eventuale successiva udienza fissata per la trattazione del ricorso per cassazione), nella misura in cui l'art. 324 comma 6 del codice di procedura precisa che l'avviso è comunicato al pubblico ministero e notificata al difensore e "a chi a proposto la richiesta", nell'accezione appena chiarita (che ne estromette appunto la parte civile); tuttavia - prosegue il supremo collegio - tale questione specifica non è più discutibile, in quanto il costante orientamento di legittimità (ex multis, Sez. VI, 17 marzo 2008, n. 25610, Figini e altri, Rv. 240366), che costituisce "diritto vivente", ha riconosciuto definitivamente alla parte civile il diritto all'avviso, in ossequio alla giuridica necessità che anche nel procedimento incidentale sia pienamente osservato il principio del contraddittorio.

Sulla base di tali premesse ricostruttive del sistema delle cautele reali è spiegabile - secondo le Sezioni Unite - perché l'art. 325, comma 2, cod. proc. pen., nel contemplare il ricorso diretto per cassazione faccia riferimento al "decreto", laddove i provvedimenti concernenti il sequestro conservativo sono pronunciati con ordinanza: in coerenza cioè con l'assunto che ne esclude il diritto sia a proporre riesame (perché priva di interesse) che ad impugnare il diniego della richiesta (al pari del pubblico ministero), alla parte civile non è consentito proporre tanto il ricorso per saltum, quanto - ai fini della questione rimessa - il ricorso avverso l'ordinanza del riesame che annulla il sequestro conservativo.

Un tale assetto, ispirato sia al favor separationis che al complementare principio di accessorietà dell'azione civile inserita nel processo penale, è infine immune - secondo il supremo collegio - da sospetti di incostituzionalità derivanti da possibili vulnera arrecati alla posizione della parte civile, soggetto che può far rimettere (e così far valere) la propria pretesa anche cautelare davanti al giudice civile, mediante la revoca della propria costituzione in sede penale.

  • prescrizione dell'azione

CAPITOLO XIV

PRESENTAZIONE SPONTANEA DELL'INDAGATO E INTERRUZIONE DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE DEL REATO

(di Luigi Cuomo )

Sommario

1 Premessa. - 2 L'efficacia interruttiva della prescrizione delle dichiarazioni spontanee rese dall'indagato alla p.g.

1. Premessa.

Le Sezioni Unite, con sentenza 28 novembre 2013, Citarella, n. 5838/2014, Rv. 257824, si sono pronunciate in materia di idoneità delle dichiarazioni rese spontaneamente dall'indagato ad esplicare una efficacia interruttiva del termine di prescrizione del reato.

È stata, così, fornita una approfondita lettura dell'art. 374 cod. proc. pen., secondo il quale «chi ha notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini, ha facoltà di presentarsi al pubblico ministero e di rilasciare dichiarazioni. Quando il fatto per cui si procede è contestato a chi si presenta spontaneamente e questi è ammesso a esporre le sue discolpe, l'atto così compiuto equivale per ogni effetto all'interrogatorio. In tale ipotesi, si applicano le disposizioni previste dagli artt. 64, 65 e 364».

La questione da delibare, quindi, riguardava la possibilità di equiparare la presentazione spontanea all'interrogatorio dell'indagato non solo ai fini difensivi riguardanti l'introduzione nella dinamica processuale di elementi a sé favorevoli, ma anche per perseguire scopi del tutto diversi come l'esplicazione della volontà punitiva da parte dello Stato attraverso l'interruzione della prescrizione.

In tal senso, l'art. 160 cod. pen. prevede espressamente che «il corso della prescrizione è interrotto dall'interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice», ma non prevede analoga efficacia interruttiva per la presentazione spontanea dell'indagato per rendere interrogatorio.

Per effettuare un corretto parallelismo tra presentazione spontanea e interrogatorio dell'indagato, va premesso che quest'ultimo atto processuale è preceduto dall'invito a presentarsi emesso dal pubblico ministero, che contiene a norma dell'art. 375, comma terzo, cod. proc. pen. «la sommaria enunciazione del fatto quale risulta dalle indagini fino a quel momento compiute, nonché l'indicazione degli elementi e delle fonti di prova [...]».

L'interrogatorio reso dalla persona sottoposta alle indagini davanti al pubblico ministero, quando contiene la specifica contestazione del fatto, costituisce un atto idoneo ad interrompere il corso della prescrizione del reato, anche a prescindere da ulteriori atti di impulso processuale.

Sulla base di queste premesse, andava stabilito se la contestazione dei fatti in sede di presentazione spontanea dovesse assolvere ad un dovere informativo analogo o diverso rispetto a quanto espressamente previsto con riguardo all'invito a presentarsi per rendere interrogatorio.

2. L'efficacia interruttiva della prescrizione delle dichiarazioni spontanee rese dall'indagato alla p.g.

Le Sezioni Unite hanno affermato che «le dichiarazioni rese in sede di presentazione spontanea all'autorità giudiziaria, equivalendo "ad ogni effetto" all'interrogatorio, sono idonee ad interrompere la prescrizione, purché l'indagato abbia ricevuto una contestazione chiara e precisa del fatto addebitato, in quanto gli atti interruttivi indicati nell'art. 160 cod. pen. si connotano per essere l'esplicitazione, da parte degli organi dello Stato, della volontà di esercitare il diritto punitivo in relazione ad un fatto-reato ben individuato e volto a consentirne la conoscenza all'incolpato».

Tale principio si conforma ai precedenti pronunciamenti della Suprema Corte in base ai quali la contestazione rappresenta l'elemento indefettibile dell'interrogatorio e la ragione principale della sua inclusione nell'elencazione tassativa degli interruttivi della prescrizione previsti dall'art. 160 cod. pen. (Sez. V, 22 aprile 1997, Greco, n. 6054, Rv. 208089; Sez. I, 31 ottobre 2002, Sarno, n. 39352, Rv. 222846).

Del resto, in mancanza di una espressa previsione delle dichiarazioni spontanee nel novero degli atti interruttivi della prescrizione di cui all'art. 160 cod. pen. aventi carattere tassativo, l'attribuzione ad esse di una efficacia interruttiva non si risolve in una interpretazione estensiva "in malam partem", posto che la loro equiparazione all'interrogatorio non è frutto di attività ermeneutica, ma è prevista ex-lege dall'art. 374, comma secondo, cod. proc. pen.

L'efficacia interruttiva della prescrizione è, però, subordinata alla duplice condizione che le spontanee dichiarazioni siano rese al pubblico ministero e non alla polizia giudiziaria e che l'incolpato abbia ricevuto una contestazione del fatto in forma chiara e precisa.

In riferimento al contenuto della contestazione doveva essere anche precisato se la enunciazione del fatto dovesse presentare un particolare coefficiente di specificità e di analiticità o se fosse, invece, sufficiente l'esposizione degli addebiti anche in forma approssimativa a causa dell'inevitabile tasso di fluidità dell'imputazione nella fase delle indagini preliminari.

La Suprema Corte ha sul punto chiarito che per valutare l'idoneità dell'imputazione provvisoria a soddisfare i suoi scopi informativi e ad assicurare le prerogative difensive dell'indagato, deve tenersi conto, in prospettiva funzionale, dello sviluppo delle indagini e dell'attuale stato del procedimento.

  • procedura speciale

CAPITOLO XV

GIUDIZIO ABBREVIATO: TERMINE PER LA PRESENTAZIONE DELLA RICHIESTA

(di Alessandro D'Andrea )

Sommario

1 Giudizio abbreviato: termine per la presentazione della richiesta.

1. Giudizio abbreviato: termine per la presentazione della richiesta.

Il problema dell'individuazione del termine finale entro cui formulare la richiesta di giudizio abbreviato nel corso dell'udienza preliminare è stato risolto dalla sentenza Sez. Un., 27 marzo 2014, n. 20214, Frija, Rv. 259076, che ha espressamente affrontato la questione "Se può ritenersi tempestiva la richiesta di giudizio abbreviato, proposta nel corso dell'udienza preliminare, prima che il giudice dichiari chiusa la discussione ma dopo le conclusioni del pubblico ministero" affermando il principio per cui "Nell'udienza preliminare la richiesta di giudizio abbreviato può essere presentata dopo la formulazione delle conclusioni da parte del pubblico ministero e deve essere formulata da ciascun imputato al più tardi nel momento in cui il proprio difensore formula le proprie conclusioni definitive".

Il contrasto era sorto tra un orientamento interpretativo più risalente, e numericamente prevalente, per il quale l'espressione "fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422" - utilizzata dall'allora vigente art. 439, comma 2, cod. proc. pen. per designare il momento preclusivo della richiesta di giudizio abbreviato in udienza preliminare - ricomprenderebbe l'intera fase della discussione prevista dal comma 2 dell'art. 421 cod. proc. pen., fino al suo epilogo, e l'altro maggiormente restrittivo, invero sostenuto in un'unica articolata pronuncia, che ritiene che la richiesta di giudizio abbreviato possa essere proposta in udienza preliminare fino al momento in cui il giudice conferisce la parola al pubblico ministero per la formulazione delle conclusioni.

La prima opzione esegetica è stata in origine affermata nella sentenza Sez. I, 14 novembre 2002, n. 755/2003, Tinnirello, Rv. 223251, per la quale l'inciso "fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422", impiegato dall'allora vigente art. 439, comma 2, cod. proc. pen., ricomprenderebbe, fino all'epilogo, l'intera fase della discussione prevista dall'art. 421, comma 2, cod. proc. pen. A sostegno di tale soluzione, in particolare, è stato osservato come il legislatore, quando ha ritenuto di collegare delle decadenze al momento iniziale della discussione, lo abbia fatto in maniera esplicita, adottando opportune, e diverse, espressioni - come nei casi della formulazione della richiesta di oblazione nelle contravvenzioni punite con pene alternative (art. 162-bis, comma 5, cod. pen.) o della rinuncia all'impugnazione da parte del pubblico ministero e delle parti private (art. 589, commi 1 e 3, cod. proc. pen.).

Nella stessa linea, quindi, si sono poste due sentenze risolutive di conflitti di competenza sollevate da giudici dibattimentali, investiti del giudizio a seguito di declaratoria del g.u.p. di inammissibilità, per intempestività, della richiesta di rito abbreviato.

Così, nella sentenza Sez. I, 23 marzo 2004, n. 15982, confl. comp. in proc. Marzocca e altri, Rv. 227761 - in cui era stata ritenuta la tardività della richiesta di giudizio abbreviato perché presentata dopo le conclusioni del pubblico ministero - la Corte ha ritenuto la tempestività della richiesta sul presupposto che l'espressione utilizzata dall'art. 438 cod. proc. pen. si riferisca all'intera fase della discussione, fino al suo epilogo, e che pertanto il termine finale per la rituale proposizione della richiesta fosse rappresentato dal momento di esaurimento di tale discussione.

Nella pronuncia Sez. I, 19 febbraio 2009, n. 12887, confl. comp. in proc. Iervasi, Rv. 243041 - in cui il g.u.p. aveva ritenuta tardiva la richiesta di giudizio abbreviato presentata nell'udienza successiva all'attività di integrazione probatoria disposta ai sensi dell'art. 421-bis cod. proc. pen. - la Corte ha chiarito come la richiesta possa essere formulata fino al momento in cui viene dichiarata chiusa la discussione, e quindi anche dopo l'eventuale emissione dei provvedimenti di integrazione delle indagini o delle prove, che necessariamente precedono la chiusura della discussione - nello stesso vd. anche Sez. V, 9 febbraio 2006, n. 6777, Paolone, Rv. 233829.

In contrasto con l'indicato indirizzo maggioritario si è, quindi, posta l'unica sentenza Sez. III, 31 marzo 2011, n. 18820, T. e altri, Rv. 250009, che ha affermato che la richiesta di giudizio abbreviato può essere presentata in udienza preliminare solo fino al momento in cui il giudice conferisce la parola al pubblico ministero per la formulazione delle conclusioni.

Tale interpretazione si fonderebbe, in particolare, sulla considerazione di come il legislatore abbia inteso prevedere, pur nella sua apparente informalità, talune distinte fasi caratterizzanti la struttura dell'udienza preliminare, e cioè quelle della "costituzione delle parti", della "discussione" e delle "conclusioni", così da poter individuare dei termini certi per quelle attività che comportino delle specifiche decadenze (come la costituzione di parte civile e la richiesta di ammissione al rito abbreviato).

In tal senso, dunque, il termine descritto con l'espressione "fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422" non potrebbe coincidere, come invece ritenuto dall'esegesi contraria, con il momento in cui si esaurisce la discussione con la formulazione delle conclusioni di tutte le parti ed il giudice si ritira in camera di consiglio, perché, se così fosse, non vi sarebbe stato motivo di utilizzare l'indicata espressione, composita ed apparentemente ambigua, ma si sarebbe piuttosto detto, come chiaramente effettuato nell'art. 421, comma 4, cod. proc. pen., che la facoltà di richiedere il rito abbreviato si sarebbe dovuta esercitare prima che il giudice avesse dichiarato chiusa la discussione. Se ciò non è avvenuto, evidentemente, è perché si è inteso individuare un termine diverso ed un pò "anticipato" rispetto a quello della "fine della discussione".

Una siffatta lettura del disposto dell'art. 421, comma 2, cod. proc. pen., peraltro, si porrebbe quale maggiore garanzia di trasparenza e di "par condicio" tra le posizioni degli imputati, nel senso che nel caso in cui vi siano più imputati in posizioni differenti (sì che le scelte difensive dell'uno possano riverberare su quelle dell'altro) risulta necessario che tutti siano posti nelle medesime condizioni e che quindi, per tutti, il termine-sbarramento, entro cui rappresentare le proprie strategie processuali, sia il medesimo. Ciò può avvenire solo se la linea di confine viene ad essere individuata nel momento in cui il g.u.p. concede la parola al p.m. per "formulare le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422", perché, diversamente opinando, si potrebbero ingenerare ulteriori motivi di confusione e di disparità di trattamento a seconda che l'espressione "formulazione delle conclusioni di tutte le parti" venga intesa separatamente per ciascun imputato, ovvero per tutti gli imputati. Si potrebbe, infatti, dare il caso in cui, dopo che tutti hanno concluso, uno o più imputati improvvisamente cambino opinione e riaprano interamente il discorso formulando una richiesta di rito abbreviato, cui potrebbe accodarsi anche qualche altro imputato. Si potrebbe anche verificare l'ipotesi in cui, invece, si voglia ritenere ancora aperta la possibilità di chiedere il rito abbreviato solo a "quell'imputato per il quale il difensore non abbia ancora concluso", così ingenerando evidenti, possibili disparità di trattamento tra i vari coimputati, delineando uno scenario sempre più confuso, in cui il termine per accedere al rito abbreviato non sarebbe più lo stesso per tutti, ma risulterebbe legato a profili arbitrari, casuali ed (eventualmente) ad astuzie difensive.

In tal maniera posti i relativi termini, quindi, le Sezioni Unite hanno ritenuto di conferire soluzione alla controversa questione partendo dalla rivisitazione dei fondamentali tratti costitutivi del giudizio abbreviato, evidenziandone la differenziazione strutturale tra la figura dell'abbreviato "non condizionato" e di quello "condizionato".

In tale ambito, la Corte ha pure diffusamente precisato le ragioni per cui è ormai pacificamente ritenuto che la richiesta di giudizio abbreviato possa essere formulata, anche per la prima volta, a seguito dell'attività di integrazione probatoria svolta dal giudice nell'udienza preliminare, atteso che il mutato quadro e la nuova discussione che ne deriva possono ben indurre l'imputato a una diversa opzione difensiva, che gli consigli di accedere al rito alternativo previsto dall'art. 438 cod. proc. pen.

In questo quadro, quindi, il Supremo Collegio ha individuato quale punto speculativo di partenza - invero al pari di quanto effettuato nei precedenti arresti giurisprudenziali - la disposizione del comma 2 dell'art. 438 cod. proc. pen., per la quale la richiesta di giudizio abbreviato nell'udienza preliminare può essere presentata, oralmente o per iscritto, "fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422".

Riguardo ad essa è stato osservato come, pur nella sua apparente semplicità, tale formula si presti alle più svariate interpretazioni, atteso che, sul mero piano letterale, essa può essere riferita all'intero periodo che va dal momento immediatamente antecedente alla formulazione delle prime conclusioni (quelle del p.m.) fino all'ultimo momento in cui termina la discussione e si cristallizzano le conclusioni rassegnate da tutte le parti (quello della replica da parte del difensore che parla per ultimo).

Valutando complessivamente le esigenze sottese alla disposizione ed il contesto in cui essa si colloca, la Suprema Corte ha osservato come le soluzioni interpretative offerte dalla giurisprudenza, ed approfondite dalla dottrina, siano sostanzialmente tre, e cioè: una tesi restrittiva, ispirata alla ritenuta esigenza di garantire una ordinata gestione dell'udienza preliminare, per cui la richiesta deve intervenire prima che venga conferita la parola al pubblico ministero, che è basata sulla convinzione che l'espressione usata dal legislatore sia atta ad indicare l'esordio della discussione; una intermedia, che ritiene indispensabile la conoscenza della posizione assunta dal pubblico ministero, e quindi delle sue conclusioni, la quale riferisce il termine al momento della formulazione delle conclusioni da parte del difensore del singolo imputato; una terza, che allarga ulteriormente lo spazio, per consentire la massima osservanza al "favor" nei confronti delle potenzialità deflazionistiche del rito alternativo e di tenere conto delle posizioni espresse da tutti gli imputati - ed in particolare dell'evenienza rappresentata dalla possibile costituzione di un contumace dopo l'intervento di una o alcuna delle altre difese - che fa coincidere il termine con il momento in cui si esaurisce la discussione con la formulazione delle conclusioni di tutte le parti, e quindi dei difensori di tutti gli imputati.

Nell'affrontare la questione, le Sezioni Unite hanno ritenuto necessario considerare anche le ragioni sistematiche collegate al complessivo impianto codicistico.

Le norme processuali, infatti, sono, in via generale, scritte con riferimento all'ipotesi del procedimento che riguarda un singolo imputato, parte del rapporto con lo Stato, che con il processo assicura a lui, e nei procedimenti cumulativi a ciascuno e a tutti gli imputati, il miglior sistema di garanzie per accertare fatti e responsabilità. Non assumono di norma rilevanza, ai fini strettamente processuali, i rapporti tra i vari imputati, se non nei limiti in cui ciò sia espressamente previsto. Anche nel disciplinare i procedimenti deflattivi del dibattimento il legislatore del 1988, al pari di quello della novella del 1999, ha avuto come riferimento solo il caso in cui a chiedere la semplificazione delle forme processuali sia un singolo imputato.

Deve essere considerato, inoltre, che lo svolgimento ordinario dell'udienza preliminare vede il susseguirsi, almeno secondo il dettato normativo, di diversi momenti, tra loro concettualmente distinti e separati, se pur nella pratica a volte ciò possa apparire meno evidente. Alla necessità di fare attenzione a tale scansione si è richiamata, del resto, anche la Corte costituzionale, sia pure con riferimento ad una diversa questione (sentenza n. 117 del 2011 relativa alla posizione del pubblico ministero a seguito del deposito del fascicolo delle investigazioni difensive).

Tanto premesso, il Collegio ha dato soluzione alla controversa questione ritenendo che il richiamo alle conclusioni contenuto nell'art. 438 cod. proc. pen. debba essere inteso con riferimento alla definitiva formulazione delle conclusioni di ogni singola parte.

Una tale affermazione, infatti, non solo non contrasta con il tenore letterale della norma e con le potenzialità deflattive del rito, ma appare anche maggiormente rispettosa dell'impianto sistematico del codice di rito, nonché del diritto di difesa dell'imputato.

Deve, infatti, escludersi che possa essere considerato momento preclusivo quello della formulazione delle conclusioni da parte del pubblico ministero. Ciò è, per la Suprema Corte, non solo e non tanto per il raffronto con altre disposizioni del codice in cui il legislatore non ha avuto difficoltà a specificare il diverso momento cui intendeva fare riferimento, quanto, e soprattutto, per ragioni di ordine sostanziale che, specialmente dopo le modifiche introdotte con la citata legge del 1999, rendono imprescindibile l'esigenza che l'imputato abbia conoscenza delle conclusioni del p.m. - il quale, tra l'altro, può anche modificare l'imputazione a norma dell'art. 423 cod. proc. pen. - prima di formulare, o meno, la richiesta del rito abbreviato. Le istanze finali dell'accusa, infatti, assumono un rilievo evidente ai fini della decisione dell'imputato di avanzare, o meno, la richiesta di giudizio abbreviato.

Una conferma di ciò, per il Supremo Collegio, si rinviene anche dall'esame dei lavori parlamentari relativi all'approvazione della legge Carotti, da cui risulta che nel corso della seconda lettura del testo da parte della Camera dei Deputati è stata abbandonata l'originaria espressione "appena concluse le formalità di apertura del dibattimento" per sostituirla con quella attuale.

Per le Sezioni Unite, poi, deve pure essere esclusa la possibilità di individuare quale termine finale, unico per tutti gli imputati, quello in cui l'ultimo difensore prende la parola.

Tale soluzione, come in precedenza osservato, viene in particolare sostenuta facendosi richiamo all'opportunità di dare il massimo spazio possibile alle potenzialità deflattive del rito ed alla necessità di evitare disparità di trattamento tra gli imputati, osservandosi che il soggetto il cui difensore interloquisce per primo avrebbe una conoscenza più limitata rispetto a quello il cui difensore interviene per ultimo, potendo questi, ad esempio, usufruire delle dichiarazioni o degli interrogatori di contumaci che decidessero, per scelta o perché prima impossibilitati, di presentarsi dopo gli interventi di una o di alcune delle difese.

I superiori aspetti, tuttavia, non sono apparsi al Collegio affatto fondanti, osservato che la conoscenza delle conclusioni degli altri imputati non è elemento cui può realisticamente riconoscersi l'efficacia di influenzare le scelte di ciascun imputato. La pretesa esigenza di parità è ritenuta impropriamente invocata, atteso che ciò che deve essere assicurato, trovando anche tutela costituzionale, è la parità tra le parti contrapposte nel processo, e cioè tra accusa e difesa. Agli imputati, invece, devono essere garantiti uguali diritti ed uguali opportunità, il che certamente avviene quando, rispettando le scansioni dell'udienza preliminare e l'ordine dei relativi interventi, agli stessi si riconosce il diritto di richiedere l'accesso al rito dopo le conclusioni del pubblico ministero.

La necessità di tener conto delle dichiarazioni del coimputato contumace, costituitosi a discussione già iniziata, non può indurre ad accogliere una soluzione che si allontani dal modello fornito dal legislatore con le scansioni dell'udienza preliminare, finendo per spostare il termine in questione al momento in cui il giudice dichiara chiusa la discussione. La precisazione delle conclusioni e la dichiarazione di chiusura della discussione sono momenti letteralmente e concettualmente distinti, costituendo il primo atto di parte ed il secondo atto del giudice, e non può essere ignorata la volontà del legislatore espressa con il riferimento letterale alle conclusioni. Peraltro, l'eventualità della costituzione tardiva del contumace, laddove la stessa si risolva nella introduzione nel processo di elementi nuovi, rilevanti anche per altri imputati, è situazione di cui, ove si verifichi, il giudice potrà eventualmente tenere conto o in sede di replica o autorizzando nuove conclusioni, analogamente a quanto è espressamente previsto dopo le integrazioni investigative ed istruttorie.

  • giurisdizione minorile
  • procedura speciale

CAPITOLO XVI

GIUDIZIO ABBREVIATO A CARICO DEI MINORENNI INSTAURATO A SEGUITO DI GIUDIZIO IMMEDIATO

(di Alessandro D'Andrea )

Sommario

1 Giudizio abbreviato a carico dei minorenni instaurato a seguito di giudizio immediato.

1. Giudizio abbreviato a carico dei minorenni instaurato a seguito di giudizio immediato.

Un'interessante pronuncia delle Sezioni Unite ha dato soluzione alla problematica relativa all'individuazione del giudice competente a celebrare, nel processo minorile, il giudizio abbreviato instaurato a seguito di giudizio immediato.

La sentenza Sez. Un., 27 febbraio 2014, n. 18292, P.G. in proc. B.H., Rv. 258573, ha, infatti, risolto la questione "Se, nel procedimento a carico di imputati minorenni, la competenza per il giudizio abbreviato, instaurato a seguito di giudizio immediato, spetti al giudice per le indagini preliminari (giudice monocratico) ovvero al giudice dell'udienza preliminare nella speciale composizione collegiale prevista dal R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 50-bis, comma 2, (Ordinamento giudiziario), aggiunto dal D.P.R. 22 settembre 1988, n. 449, art. 14 (Norme per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni)" affermando il principio per cui "Nel processo penale a carico di imputati minorenni la competenza per il giudizio abbreviato, sia esso instaurato nell'ambito della udienza preliminare o a seguito di decreto di giudizio immediato, spetta al giudice nella composizione collegiale prevista dall'art. 50-bis, comma 2, dell'ordinamento giudiziario".

Il contrasto era sorto tra un orientamento interpretativo prevalente, consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, per il quale è del g.i.p. la competenza a trattare il processo minorile nell'ipotesi di ammissione del rito abbreviato a seguito di decreto di giudizio immediato, e la difforme esegesi, espressasi nell'ordinanza di rimessione al giudizio di nomofilachia delle Sezioni Unite, oltre che nell'esigua speculazione dottrinaria, che invece ravvisa, anche in questa specifica ipotesi di giudizio abbreviato, la competenza del g.u.p. collegiale a celebrare il suddetto rito nel processo minorile.

L'orientamento esegetico dominante si era primariamente affermato nelle decisioni Sez. IV, 16 settembre 2008, n. 38481, P.M. in proc. V., Rv. 241552 e Sez. VI, 5 febbraio 2009, n. 14389, P.M. in proc. S., Rv. 243254, nelle quali era stata riconosciuta la competenza del g.i.p. a trattare il giudizio abbreviato innestato su rito immediato utilizzando motivazioni afferenti al rapporto di complementarità esistente tra il procedimento penale ordinario e quello minorile, nonché in ragione della peculiare specializzazione che caratterizza il giudice minorile, quale che ne sia la singola specifica composizione.

Nelle indicate pronunce, infatti, la Corte ha ritenuto che il ricorso al principio di sussidiarietà sancito dall'art. 1, comma 1, cod. proc. pen. min. determinerebbe l'applicazione diretta dell'art. 458 cod. proc. pen., nella consolidata interpretazione per cui la competenza a decidere il rito abbreviato susseguente a giudizio immediato appartiene al g.i.p., sia pur persona fisica diversa, per ragioni di incompatibilità ex art. 34, comma 2, cod. proc. pen., da quella che ha emesso il decreto di giudizio immediato. Ed allora, pur nella considerazione dell'importanza del principio di adeguatezza applicativa, fondamentale cardine della giustizia minorile, non si potrebbe comunque affermare il riconoscimento del g.u.p. collegiale quale giudice competente a decidere l'abbreviato ammesso a seguito di giudizio immediato, in quanto ciò determinerebbe un'impossibile ed inaccettabile prevalenza di un principio esegetico su di un chiaro disposto normativo, per l'appunto stabilito dall'art. 458 cod. proc. pen.

Sotto un altro profilo, poi, apparirebbero irrilevanti le critiche afferenti ad una presunta inadeguatezza a decidere del g.i.p. monocratico, in quanto ritenuto privo delle speciali qualità professionali invece ravvisabili in un collegio composto anche da due esperti non togati, considerato che, in senso contrario, il togato è giudice adeguatamente specializzato, in quanto dotato di una particolare professionalità settoriale, tenuto altresì conto che il processo minorile già prevede alcuni casi di definizione del giudizio con sentenza emessa dal giudice per le indagini preliminari (artt. 26 e 27 cod. proc. pen. min. ).

L'indicato percorso argomentativo ha, poi, caratterizzato anche la sentenza Sez. II, 12 luglio 2013, n. 44617, P.G. in proc. M., Rv. 257360, in cui la Corte ha fatto nuovamente richiamo alla cogenza della previsione dell'art. 458 cod. proc. pen., per cui ad essere competente è il g.i.p., sia pur persona fisica diversa da quella che ha emesso il decreto di giudizio immediato, senza che ciò possa essere inficiato dall'applicazione del recessivo principio di adeguatezza applicativa.

La contraria tesi, per cui l'interpretazione favorevole alla competenza del g.i.p. sarebbe non costituzionalmente orientata - in quanto conferirebbe al giudice monocratico poteri decisori ordinariamente rimessi ad un collegio composto da membri onorari - è per la Corte destituita di ogni fondamento, considerato che l'indicata tesi sarebbe comunque avulsa da ogni aggancio normativo, mentre la proposta soluzione sarebbe coerente con altre situazioni, normativamente previste, in cui il g.i.p. minorile decide mediante pronuncia di una sentenza.

Conforme a tale indirizzo, da ultimo, è stata anche la sentenza Sez. IV, 11 dicembre 2013, n. 6401/2014, P.G. in proc. D.S., Rv. 259279, invero uniformata ai medesimi criteri esegetici indicati.

Come in precedenza accennato, il difforme indirizzo interpretativo, favorevole al riconoscimento del g.u.p. collegiale quale giudice competente a decidere l'abbreviato instaurato a seguito di giudizio immediato, è stato seguito in giurisprudenza dalla sola ordinanza Sez. II, 11 dicembre 2013, n. 51141, di rimessione della questione alle Sezioni Unite.

La Seconda Sezione, pur nella considerazione del richiamo effettuato dall'art. 1, comma 1, d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 alle norme del codice di procedura penale, per quanto non espressamente regolato per il processo minorile, non ha ritenuto decisivo il disposto dell'art. 458 cod. proc. pen., ritenendo invece prevalenti altri fondanti elementi di valutazione, omessi nella speculazione del contrastante indirizzo interpretativo.

È stato affermato, in particolare, che il principio di adeguatezza applicativa, direttamente mutuato dal generale criterio della minima offensività, permeerebbe sia la disciplina processuale speciale che quella generale sussidiaria, per cui nell'esercizio della giurisdizione penale deve essere evitato ogni pregiudizio al corretto sviluppo psico-fisico del minore, favorendo l'adozione, nel singolo caso, di ogni cautela atta a salvaguardare le esigenze educative del minorenne.

L'affermare la competenza del g.i.p., e non già del g.u.p., a trattare il giudizio abbreviato successivo al decreto di giudizio immediato rappresenterebbe dunque, per la Sezione, una palese violazione del suddetto principio di adeguatezza applicativa, di certo meglio tutelato con la presenza nel collegio di due giudici esperti in materie extra-giuridiche.

Il difforme orientamento interpretativo, inoltre, avrebbe omesso di considerare come nel processo ordinario sia il g.i.p. che il g.u.p. siano organi monocratici appartenenti ad un medesimo ufficio, tra loro distinti solo per la diversità delle funzioni concretamente svolte, mentre nel giudizio minorile è la stessa legge regolativa a prevedere una composizione del g.u.p. del tutto diversa e distinta da quella del g.i.p., che meglio garantisce il minore nell'assunzione delle decisioni maggiormente incidenti nella sua sfera individuale.

Parimenti insostenibile, per la Sezione, è l'argomentazione, pure utilizzata dalla difforme giurisprudenza, per cui il legislatore avrebbe normativamente previsto la possibilità per il g.i.p. minorile di definire il procedimento mediante la pronuncia di sentenza, come espressamente riconosciutogli nei casi di cui agli artt. 26 e 27 cod. proc. pen. min. Tale osservazione, in particolare, rivelerebbe tutta la sua fragilità proprio considerando che trattasi di ipotesi limitate e previste per legge, quindi da ritenersi del tutto eccezionali ed isolate. In tali circostanze, inoltre, le decisioni assunte con sentenza dal g.i.p. possono essere solo favorevoli al minorenne (non luogo a procedere per difetto di imputabilità e non luogo a procedere per irrilevanza del fatto), a differenza di quanto avviene nel giudizio abbreviato, che si può invece concludere anche con una pronuncia di condanna o di sospensione del processo con messa alla prova.

Conclusivamente, dunque, per la Seconda Sezione, il ritenere la competenza del g.i.p. per il giudizio abbreviato instaurato a seguito di giudizio immediato anche per l'imputato minorenne solo perché così prevede, per il processo ordinario, l'art. 458 cod. proc. pen., è apparsa una decisione distonica rispetto alle peculiari modalità con cui il legislatore ha ritenuto di modellare il processo penale minorile, a garanzia e nel rispetto dei dettami indicati dall'art. 31 della Costituzione.

Tale ultima opzione interpretativa, come detto, è stata condivisa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nella decisione oggetto di commento.

In primo luogo, infatti, è stata definita debole l'argomentazione, seguita dalla giurisprudenza dominante, fondata sul rinvio operato dall'art. 1, comma 1, cod. proc. pen. min. alla ordinaria disciplina codicistica, in ragione sia del carattere generale di chiusura di tale previsione che del fatto che essa, al pari di ogni altra disposizione, deve confrontarsi con il pacifico canone interpretativo per il quale il senso di qualsivoglia norma, quando non assolutamente incontrovertibile, deve tenere conto del complesso della disciplina in cui trova collocazione. Il rinvio alle disposizioni del codice di procedura penale, d'altro canto, vale "per quanto non previsto" dalle norme sul processo penale minorile - con senso, dunque, non equivalente alla diversa espressione "per quanto non specificamente previsto" - assumendo, in senso contrario, rilievo prevalente il disposto previsto dal secondo periodo della stessa norma, in cui viene affermato il principio di adeguatezza applicativa.

Non vi è dubbio, infatti, che la funzione di giudizio nel processo minorile imponga specifiche indagini sulla personalità del minore, che necessariamente richiedono l'intervento di un organo specializzato, integrato da esperti, diversificati per genere, che affiancano il giudice per le loro peculiari competenze.

Le Sezioni Unite, quindi, non hanno potuto condividere la tesi, sostenuta in alcune pronunce dell'orientamento dominante, per cui la particolare specializzazione del giudice minorile garantirebbe comunque un'adeguata valutazione della personalità del minore, in quanto essa si scontra con la decisiva obiezione per cui, allora, non si comprenderebbe il perché il legislatore abbia deciso di affidare ad un organo collegiale misto la celebrazione dell'udienza preliminare, in cui non necessariamente si pronunciano sentenze decisorie del merito, a differenza di quanto avviene nel giudizio abbreviato.

Il contenuto organico dei tribunali per i minorenni, con particolare riguardo a quelli numericamente più piccoli, determina, inoltre, la non infrequente necessità di sostituire i giudici togati con magistrati incardinati nei tribunali ordinari, facendo ricorso alle procedure di supplenza esterna o di applicazione, di cui agli artt. 97 e 110 ord. giud. Tale ricorrente evenienza era stata alla base della questione di costituzionalità decisa con ordinanza della Corte cost. n. 330 del 2003, che, nel dichiarare la stessa manifestamente infondata, ha specificamente osservato come, in simili situazioni, "la specializzazione del giudice minorile, finalizzata alla protezione della gioventù sancita dalla Costituzione" sia proprio assicurata "dalla struttura complessiva di tale organo giudiziario, qualificato dall'apporto degli esperti laici".

Di nessun pregio, poi, è apparsa la replica per cui in alcuni casi è un giudice minorile monocratico ad emettere sentenze di merito, osservato che trattasi di competenze relative alla declaratoria della non imputabilità o della irrilevanza del fatto, le quali sfociano in provvedimenti liberatori per l'imputato che, lungi dall'implicare un giudizio di colpevolezza, presentano una natura non afflittiva, tendente a favorire l'anticipata fuoriuscita del minore dal procedimento.

Le Sezioni Unite, inoltre, hanno rilevato come, in base al dettato dell'art. 441, comma 1, cod. proc. pen., al giudizio abbreviato si estendano le disposizioni previste per l'udienza preliminare, per cui, posto che anche questa norma deve ritenersi richiamata dall'art. 1, comma 1, cod. proc. pen. min. , potrebbe anche affermarsi che è alle norme dell'udienza preliminare minorile, in cui il giudice ha composizione integrata, che il rinvio deve ritenersi effettuato.

Nell'art. 458 cod. proc. pen., d'altro canto, non può cogliersi una "ratio" di attribuzione di una competenza "speciale" al g.i.p. contrapposta a quella del g.u.p., ma semplicemente l'individuazione dell'organo cui, non devolvendosi il processo alla fase dibattimentale, pertiene la decisione del giudizio abbreviato innestato sulla richiesta di giudizio immediato, con indicazione delle relative formalità procedimentali. Di contro, sarebbe del tutto irragionevole che nel processo minorile, per una scelta discrezionale del p.m. in ordine alle modalità di esercizio dell'azione penale, possa mutare l'individuazione, e quindi la composizione, del giudice chiamato all'esercizio di una funzione che è palesemente identica, in quanto esplicata nel rispetto delle medesime norme processuali ed a cui conseguono esiti analoghi.

In conclusione, per le Sezioni Unite, alla via esegetica che contrappone la fisionomia monocratica del g.i.p. a quella collegiale del g.u.p. minorile nell'ambito dell'identico "munus" di giudizio, deve essere preferita quella che trae risolutiva ragione dalla simmetria della funzione che il giudice esplica in sede di giudizio abbreviato, che non vi è ragione che sia diversificata sulla base di accidenti procedurali che non incidono sui poteri decisori e per di più derivano da scelte che possono dipendere da valutazioni discrezionali del pubblico ministero. È, infatti, il peculiare "contenuto decisorio" degli esiti del giudizio abbreviato che impone la composizione collegiale dell'organo giudicante, non la sede formale in cui questi si innestano.

  • procedura speciale

CAPITOLO XVII

GIUDIZIO IMMEDIATO CUSTODIALE

(di Pietro Molino )

Sommario

1 Giudizio immediato custodiale.

1. Giudizio immediato custodiale.

Risolvendo un dubbio interpretativo sollevato dalla Prima Sezione, la Corte a Sezioni Unite - Sez. Un., 26 giugno 2014, n. 42979, Squicciarino, Rv. 260017-260018 - ha affermato che "l'inosservanza dei termini di novanta e centottanta giorni, assegnati al pubblico ministero per la richiesta, rispettivamente, di giudizio immediato ordinario e cautelare, è rilevabile dal giudice per le indagini preliminari", statuendo peraltro che "la decisione con la quale il giudice per le indagini preliminari dispone il giudizio immediato non può essere oggetto di ulteriore sindacato".

La Prima Sezione aveva chiesto di stabilire se nel giudizio immediato "ordinario", previsto dall'art. 453, comma primo, cod. proc. pen., e nel giudizio immediato "cautelare", di cui al comma primo-bis della stessa norma, il termine rispettivamente indicato di novanta e centottanta giorni per la proposizione della richiesta al giudice delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero abbia o meno natura perentoria.

La premessa teorica della questione rimessa alle Sezioni Unite risiede nell'inquadramento del rito immediato all'interno dei procedimenti speciali, per natura funzionali ad un più rapido svolgimento del processo, ottenuto - nel caso di specie - mediante l'eliminazione dell'udienza preliminare.

Una tale contrazione non è priva di riflessi per i diritti difensivi, in quanto esclude il controllo dell'indagato sulla necessità e sulla opportunità del rinvio a giudizio, controllo che si configura come un diritto procedimentale riconosciuto dalla generalità dei sistemi processuali penali democraticamente evoluti, in quanto finalizzato ad evitare il ricorso al dibattimento se non strettamente necessario, anche al fine di risparmiare al soggetto coinvolto la sofferenza determinata dalla sua pubblicità.

In caso di prova evidente a carico dell'indagato, il punto di equilibrio tra le opposte esigenze - la rapidità del processo e il diritto a non subire un dibattimento immotivato - è garantito nel sistema attraverso il sindacato operato dal Gip, effettuato inaudita altera parte sulla base del contenuto del fascicolo delle indagini preliminari trasmesso dal pubblico ministero.

A proposito della natura dei termini per la richiesta dell'immediato ordinario e custodiale, nella giurisprudenza della Corte si rinviene un consolidato orientamento (fra le più recenti espressioni, Sez. I, 26 ottobre 2010, n. 45079, Arangio Mazza, Rv. 249006; più indietro, Sez. V, 21 gennaio 1998, n. 1245, Cusani, Rv. 210027), secondo cui il termine stabilito dall'art. 454 comma 1 cod. proc. pen. ha carattere perentorio per quanto attiene al compimento delle indagini, da espletarsi appunto inderogabilmente entro novanta giorni dalla iscrizione dell'imputato nel registro delle notizie di reato, mentre ha natura ordinatoria quanto alla materiale presentazione e trasmissione della richiesta di giudizio immediato; analogo consolidato indirizzo si riscontra in relazione al giudizio immediato "custodiale", il cui termine di centottanta giorni ha natura ordinatoria riguardo al tempo di instaurazione del rito (tra le ultime, Sez. I, 9 dicembre 2009, n. 2321/2010, Stilo, Rv. 246036).

Nel rimettere la questione alle Sezioni Unite, il collegio remittente segnalava tuttavia la necessità di un più approfondito riesame, denunciando come l'interpretazione dominante finisca per lasciare sguarnita di sanzione processuale l'inosservanza del termine, in particolare di quello previsto dal comma 1-bis dell'art. 454 cod. proc. pen., apparentemente sganciato da qualsiasi collegamento con il compimento e completamento delle indagini ed ancorato esclusivamente allo status detentionis.

Rimeditando sulle premesse dell'indirizzo posto in discussione, la Prima Sezione lamentava come in nessuno dei precedenti in materia risultasse espressa in maniera chiara la ragione giuridica per cui il termine, tanto quello del comma 1 quanto quello del comma 1-bis dell'art. 454 cod. proc. pen., possa essere legittimamente fatto oggetto di un'operazione interpretativa di "scomposizione" quanto alla natura, perentoria a determinati effetti, ordinatoria ad altri; operazione forse perpetrata per ragioni di sostanziale nomofilachia, ma in contrasto con lo stretto dato letterale (che non consente alcuna differenziazione fra il tempo per il raccoglimento della prova o comunque per il completamento delle indagini e quello per la presentazione della richiesta) e con le ragioni di sistema, individuate sia nella violazione della parità delle parti che discenderebbe dalla consegna indiscriminata al PM del potere di richiedere, in un tempo a suo piacimento, un giudizio che priva l'imputato del suo diritto alla udienza preliminare, sia nell'evidente contrasto con il principio di ragionevole durata del processo e con le ragioni di celerità connaturate al giudizio immediato, che parimenti deriverebbe ove si riconoscesse al PM il potere di formulare la richiesta oltre i termini normativi.

Nel rispondere all'interrogativo, le Sezioni Unite muovono dal ricostruire i presupposti oggettivi del rito immediato, riconducibili sia alla tutela dell'obbligo dell'azione penale e della correlativa necessaria completezza delle indagini sia al piano delle garanzie difensive.

Ad avviso della Corte, rientra nel primo ambito la possibilità di non instaurazione del rito in presenza di un grave pregiudizio per le indagini; sono invece riconducibili al secondo aspetto (nel giudizio immediato ordinario) l'evidenza della prova, l'obbligo di preventivo interrogatorio o, comunque, in sua assenza, di regolare notificazione dell'avviso a presentarsi emesso secondo le forme indicate dall'art. 375 cod. proc. pen., l'inesperibilità nei confronti degli irreperibili, (nel giudizio immediato custodiale) il perdurante stato di custodia cautelare della persona sottoposta alle indagini dopo la definizione della procedura di riesame o il decorso dei termini per proporre la richiesta di riesame, l'omessa revoca o annullamento della misura per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.

Ricordano ancora le Sezioni Unite che il giudizio immediato tipico si caratterizza per lo stretto collegamento tra notitia criminis, indagini e giudizio.

L'evidenza probatoria si traduce infatti in una prognosi sulla sostenibilità in giudizio dell'accusa e deve essere tale da consentire di escludere che il contraddittorio fra le parti possa indurre il giudice dell'udienza preliminare a pronunciare una sentenza di non luogo a procedere (Sez. Un., 6 dicembre 1991, n. 22/1992, Di Stefano, Rv. 192479): la sussistenza di elementi di tale pregnanza da escludere la necessità di sottoposizione alla verifica dell'udienza preliminare spiega il fondamento logico-sistematico del giudizio immediato, che prevede il passaggio alla fase dibattimentale senza la preventiva celebrazione della suddetta udienza.

Il presupposto probatorio così delineato si riflette inevitabilmente sugli altri due, cui è subordinata l'instaurazione del rito in questione: la formulazione del giudizio di evidenza della prova è possibile infatti soltanto in presenza di una compiuta contestazione alla persona sottoposta alle indagini degli elementi di accusa raccolti nei suoi confronti, idonea a consentire il pieno esercizio del diritto di difesa mediante l'illustrazione delle proprie discolpe; il termine stabilito dalla legge per l'instaurazione del c.d. giudizio immediato ordinario (pari a novanta giorni decorrenti dall'iscrizione della notizia di reato, anche non soggettivizzata) segna il raccordo tra l'evidenza della prova e la non complessità dell'indagine, traducendosi in una sorta di presunzione legale di non evidenza probatoria nei casi in cui le indagini si protraggano oltre i tre mesi.

Considerazioni analoghe valgono per il giudizio immediato c.d. custodiale - disciplinato dal comma 1-bis dell'art. 453 cod. proc. pen. - in cui il consolidamento del quadro di gravità indiziaria conseguente alla definizione della procedura ex art. 309 cod. proc. pen. può costituire soltanto un tassello della più ampia categoria dell'evidenza della prova, intesa come substrato probatorio idoneo, in presenza di indagini complete e concludenti, a rendere superflua la celebrazione dell'udienza preliminare, ad escludere cioè che il contraddittorio fra le parti in tale sede possa portare ad una sentenza di non luogo a procedere.

Il giudizio di gravità indiziaria è, infatti, una prognosi di qualificata probabilità di colpevolezza allo stato degli atti e rebus sic stantibus, basato sugli elementi selezionati e presentati al giudice dal pubblico ministero, funzionali all'adozione della misura cautelare, e su di un materiale fluido, perché non sottoposto ancora a tutte le necessarie verifiche; poiché la misura limitativa della libertà personale è finalizzata a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto, esula dalla sua struttura e dalla sua funzione la valutazione circa l'utilità del dibattimento.

Dichiarando di aderire dunque all'orientamento espresso da una parte della giurisprudenza (Sez. VI, 12 aprile 2013, n. 35228, Veseli, Rv. 257079; contra, però, Sez. II, 1 luglio 2009, n. 38727, Moramarco, Rv. 244804), le Sezioni Unite sposano la tesi per la quale l'applicazione di una misura cautelare, pur se già sottoposta al vaglio del tribunale del riesame, implicando unicamente una probabilità di colpevolezza, non esclude di per sé il vaglio preventivo circa la sostenibilità dell'accusa in dibattimento. Ne consegue che nel c.d. giudizio immediato custodiale l'adozione della misura cautelare, sia pure seguita dalla definizione della procedura di riesame (o, comunque, dal decorso dei termini per richiederla) non esaurisce il doveroso apprezzamento della sostenibilità dell'accusa in giudizio e della inutilità della celebrazione dell'udienza preliminare, da effettuarsi dopo l'esame di tutti gli atti delle investigazioni compiute e dopo avere offerto alla persona incolpata l'opportunità di interlocuzione (resa possibile dall'avviso a rendere interrogatorio e dalla indicazione dei fatti da cui risulta l'evidenza probatoria) nel rispetto dei termini indicati dall'art. 453, comma 1-bis, cod. proc. pen., funzionali a garantire la speditezza del processo, tenuto conto anche dello stato di privazione della libertà in cui versa l'imputato.

Sulla scorta di tali premesse teoriche - che sfociano nella considerazione finale per la quale la presentazione, ad opera del pubblico ministero, della richiesta di adozione di decreto di giudizio immediato rappresenta un atto d'impulso processuale, teso all'instaurazione del rito, soggetto al controllo del giudice per le indagini preliminari e alla condizione risolutiva dell'accoglimento della domanda stessa - le Sezioni Unite affermano dunque che la richiesta tardivamente presentata dal pubblico ministero, o in quanto le indagini si siano protratte oltre il termine, ovvero in quanto, pur essendosi gli accertamenti conclusi tempestivamente, il magistrato inquirente abbia omesso di trasmetterla alla cancelleria del giudice per le indagini preliminari nel rispetto di quanto disposto dagli artt. 454, comma 1, e 453, comma 1-bis, cod. proc. pen, deve essere sottoposta al penetrante vaglio giurisdizionale del giudice per le indagini preliminari secondo i parametri normativamente stabiliti dal combinato disposto degli artt. 453, 454, 455 cod. proc. pen. ; con la conseguenza che l'omesso rispetto dei termini nello svolgimento delle investigazioni e/o nella formulazione della richiesta di giudizio immediato, sia esso tipico che custodiale, ha rilievo sia come insussistenza di un presupposto necessario ed equipollente agli altri ai fini della corretta instaurazione del giudizio sia come elemento negativo della evidenza della prova.

La previsione, nell'ambito del giudizio immediato, di specifici limiti cronologici per lo svolgimento delle indagini preliminari costituisce infatti il frutto di una precisa scelta operata dal legislatore: un'opzione che si raccorda intimamente alle finalità stesse delle investigazioni, destinate a consentire al pubblico ministero di assumere le proprie determinazioni inerenti all'esercizio della azione penale nelle forme di cui all'art. 453 cod. proc. pen., con l'ovvio corollario che il compimento di indagini tendenzialmente complete entro il lasso di tempo stabilito dalla legge viene funzionalmente a correlarsi con la valutazione di evidenza della prova che consente al pubblico ministero, dopo avere ammesso la persona a fornire le proprie discolpe, di esercitare l'azione penale omettendo l'udienza preliminare a condizione che il giudice ritenga sussistenti tutti i presupposti del rito.

Il pubblico ministero è quindi obbligato a trasmettere alla cancelleria del giudice per le indagini preliminari la richiesta di giudizio immediato entro i termini indicati, rispettivamente, dall'art. 454, comma 1, e 453, comma 1-bis, cod. proc. pen., obbligo che deve essere adempiuto senza alcuna soluzione di continuità rispetto al momento in cui sorgono i relativi presupposti.

In questo contesto non é, quindi, condivisibile, secondo le Sezioni Unite, l'orientamento esegetico (di cui è esempio, con riferimento al giudizio immediato ordinario, Sez. 1, 27 maggio 2004, n. 26305, Dentici, Rv. 228130; in relazione al giudizio immediato custodiale, vedi Sez. VI, 20 ottobre 2009, n. 41038, Amato, Rv. 244858) che, pur in assenza di qualsiasi espressa previsione normativa, distingue, ai fini della verifica della tempestività del rito, le attività d'indagine coessenziali ai fini dell'evidenza della prova rispetto alle altre ad essa estranee oppure differenzia il profilo attinente allo svolgimento delle indagini, che deve avvenire nel rispetto dei limiti cronologici perentori fissati dalla legge dal termine, da quello meramente ordinatorio, della presentazione della richiesta, ovvero qualifica come meramente "sollecitatorio" il termine per la richiesta di giudizio immediato (Sez. III, 7 luglio 2011, n. 41078, Zappalà; Sez. VI, 1 dicembre 2009, n. 47348, Morello, Rv. 245490).

Decisivo diventa dunque - secondo le Sezioni Unite - il correttivo interno previsto dall'ordinamento nel caso in cui il giudizio immediato venga richiesto senza che ve ne siano i presupposti, tra i quali deve appunto annoverarsi l'obbligatorio rispetto dei termini normativi per la richiesta: il giudice per le indagini preliminari - il cui ruolo è assolutamente centrale, perché è in forza del suo decreto, e non della richiesta del PM, che l'imputato è privato dell'udienza preliminare - è infatti investito del dovere di controllare con attenzione la sussistenza di tutti i presupposti.

Per tali motivi, si deve ritenere che il Gip goda di un potere di verifica ampio e penetrante: lo scrutinio positivo dei presupposti comporterà l'emissione del decreto che dispone il giudizio immediato, introduttivo della fase del dibattimento; al contrario, la carenza di taluno dei presupposti indicati dagli artt. 453, commi 1 e 1-bis, e 454 cod. proc. pen. - incluso il mancato rispetto dei termini, ancorché dovuto alla semplice tardiva trasmissione della richiesta - imporrà al giudice il rigetto della domanda avanzata dal pubblico ministero, cui gli atti dovranno essere conseguentemente restituiti per le sue ulteriori determinazioni in ordine a differenti modalità di esercizio dell'azione penale.

Nella prosecuzione del percorso logico, le Sezioni Unite negano poi la possibilità di un'ulteriore sindacabilità, in dibattimento (e, in ipotesi, in sede di impugnazione), dell'eventuale inosservanza dei termini non debitamente rilevata dal Giudice per le indagini preliminari.

Il provvedimento con il quale il Gip dispone il giudizio immediato - che ha natura endoprocessuale ed è meramente strumentale all'interno della più ampia sequenza procedimentale di approdo alla fase del dibattimento - chiude una fase priva di conseguenze per la condanna dell'imputato, i cui diritti di difesa non sono compromessi dall'immediato passaggio al dibattimento.

Pertanto, in linea con l'orientamento maggioritario della Corte (tra le molte, Sez. III, 28 marzo 2013, n. 31728, En Naoumi Youssef, Rv. 2546733; Sez. VI, 10 gennaio 20111, n. 6989, C., Rv. 249563; Sez. I, 14 luglio 2000, n. 9553, Kallevig, Rv. 216814) e in coerenza con l'insegnamento della Consulta che ha affermato che non esiste una norma costituzionale che imponga di riconoscere anche al giudice del dibattimento il potere di valutare l'ammissibilità del rito (Corte cost., ord. 14 dicembre 1992, n. 482), il decreto di giudizio immediato è, secondo le Sezioni Unite, insuscettibile di ulteriore sindacato da parte del giudice del dibattimento, posto che un'eventuale regressione del procedimento (in conseguenza di una declaratoria di nullità del decreto di giudizio immediato per omesso rispetto dei termini previsti dagli artt. 453, comma 1-bis, e 454 cod. proc. pen.) sarebbe contraria ai principi dell'ordinamento processuale e ad esigenze di razionalità e di celerità: in un sistema tendenzialmente accusatorio, basato sulla centralità del dibattimento, una volta instaurato il giudizio immediato all'esito delle verifiche del giudice per le indagini preliminari (ma da esercitare nella forma penetrante in precedenza indicata), l'omesso rispetto dei termini diventa irrilevante, atteso appunto il prevalente interesse dell'imputato alla celebrazione del giudizio in un tempo ragionevole; mentre al contrario, sarebbe del tutto irragionevole il ritorno alla fase precedente, tenuto conto che l'unico momento in cui il giudice del dibattimento sarebbe in condizione di potere verificare la correttezza della precedente valutazione operata dal giudice per le indagini preliminari, in ordine all'evidenza della prova e al rispetto dei termini che ne costituisce il riscontro, sarebbe evidentemente quello che si colloca al termine dell'istruttoria dibattimentale.

  • impunità

CAPITOLO XVIII

OBLAZIONE E RIQUALIFICAZIONE DEL REATO

(di Luigi Cuomo )

Sommario

1 Premessa. - 2 I termini del contrasto. - 3 La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

1. Premessa.

Le Sezioni Unite hanno dato una risposta al quesito "se la restituzione nel termine per proporre la domanda di oblazione trovi applicazione solo nel caso in cui la modifica della imputazione avvenga ad opera del pubblico ministero ovvero anche nella ipotesi in cui sia il giudice ad attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica, che consenta l'applicazione dell'oblazione, prescindendo dalla preventiva richiesta dell'imputato".

2. I termini del contrasto.

La materia, particolarmente controversa in giurisprudenza, ha formato oggetto di un vero e proprio contrasto giurisprudenziale, nel tentativo di fornire una soluzione alla problematica, che esprime una modalità di esercizio del diritto di difesa ed interferisce con i diritti fondamentali dell'imputato.

La disciplina positiva, infatti, pur applicabile senza eccezioni in ogni caso di derubricazione, descrive una sequenza procedimentale (rimessione in termini; istanza di oblazione; ammissione al beneficio; pagamento della somma prevista; dichiarazione di estinzione del reato) del tutto compatibile con la modifica dell'imputazione avvenuta su iniziativa del pubblico ministero durante il dibattimento, ma insufficiente per l'eventualità in cui la nuova qualificazione giuridica del fatto venga operata dal giudice solo al momento della decisione finale.

Un primo orientamento ermeneutico aveva optato per la tesi secondo la quale l'imputato, affinché possa essere ammesso ad estinguere una contravvenzione non originariamente contestata con l'atto di esercizio dell'azione penale, deve comunque presentare in forma preventiva l'istanza di oblazione per l'ipotesi di un futuro o possibile mutamento del fatto.

Questo percorso ermeneutico sostanzialmente si allinea al pregresso orientamento delle Sezioni Unite (sentenza 28 febbraio 2006, Autolitano, n. 7645, Rv. 233029), secondo il quale l'imputato è gravato da un onere di attivazione con presentazione di una espressa istanza di oblazione subordinata ad una diversa e più favorevole qualificazione giuridica del fatto, atteso che l'accesso al beneficio è precluso qualora la modifica dell'imputazione provenga direttamente dal giudice con la sentenza di condanna.

Anzi, una iniziativa in tal senso dell'imputato, volta a proporre l'istanza nella fase predibattimentale, anche nei casi in cui non sarebbe consentita l'oblazione, presenterebbe il vantaggio di stimolare il giudice ad approfondire l'esame sulla corretta qualificazione giuridica del fatto.

L'imputato, dunque, nell'esercizio del proprio diritto di difesa, non dovrebbe cristallizzare le proprie opzioni difensive sulla base esclusiva della contestazione che gli è stata formalmente elevata, ma dovrebbe altresì misurarsi con la possibilità di attribuire al fatto un diverso nomen iuris, e contestualmente chiedere, in base alla più favorevole qualificazione del reato, di esercitare il proprio diritto di estinguerlo attraverso l'oblazione.

In caso contrario, l'imputato non potrebbe dolersi della impossibilità di beneficiare della oblazione, ove - in ipotesi di derubricazione della originaria fattispecie in altra per la quale è possibile l'oblazione - non abbia tempestivamente sollecitato la più favorevole qualificazione giuridica del fatto con la contestuale richiesta del beneficio (in tema v. Sez. I, 21 febbraio 2008, Scarano, n. 14944, Rv. 240135; Sez. I, 30 novembre 2004, Amadiaze, n. 2610/2005, Rv. 230953; Sez. I, 12 maggio 2000, Monetto, n. 7383, Rv. 216275; Sez. I, 5 maggio 1999, Orfeo, n. 8780, Rv. 214646; Sez. I, 10 novembre 1998, Mangione, n. 13278, Rv. 211868).

Sarebbe, quindi, rimesso al prudente apprezzamento dell'interessato, sul quale graverebbe un onere di sollecitazione e di previsione degli sviluppi che l'imputazione è suscettibile di subire, valutare se nel corso del giudizio possa determinarsi un mutamento del titolo del reato e presentare istanza per essere ammesso all'oblazione e pagare la somma fissata dal giudice.

Un indirizzo giurisprudenziale minoritario, invece, ha ritenuto che l'imputato possa essere ammesso al beneficio nei gradi successivi di giudizio mediante impugnazione della sentenza, potendo in tal caso trovare applicazione analogica la disciplina prevista dall'art. 604, comma settimo, cod. proc. pen., che consente al giudice di appello di accogliere l'istanza di oblazione erroneamente respinta dal giudice di primo grado (Sez. III, 26 agosto 1999, Stacchini, n. 10634, Rv. 214038).

Tale ricostruzione, però, ha il difetto di configurare una sorta di "diritto d'appello" non in presenza di un difetto della sentenza impugnata ma a causa di un evento del tutto fisiologico ed espressamente riservato al giudice all'atto della pronuncia della sentenza, quale è quello di dare al fatto, a norma dell'art. 521, comma primo, cod. proc. pen., una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione, il che, finirebbe ineluttabilmente per generare una non consentita estensione di ciò che può formare oggetto di devoluzione all'organo del gravame - posto che, per definizione, l'oblazione è, ove non richiesta, un punto del tutto estraneo all'oggetto della decisione adottata in primo grado - con correlativo inammissibile superamento del regime di tassatività che regola la materia delle impugnazioni.

Del resto, il riferimento all'art. 604, comma settimo, cod. proc. pen. funge proprio da limite "inverso" rispetto alla tesi della rinviabilità all'appello del tema e della richiesta di oblazione: considerato, infatti, che, in base a quella previsione, al giudice di appello è devolvibile esclusivamente il punto concernente la reiezione della domanda di oblazione da parte del giudice di primo grado, ne deriva che, ove nessuna richiesta di oblazione abbia investito il primo giudice, il suo silenzio su tale punto è evidentemente eccentrico rispetto al perimetro della appellabilità.

Sotto altro profilo, la tesi che vorrebbe affidare al giudice dell'appello un potere di riammissione dell'imputato al diritto di chiedere l'oblazione, ove il primo giudice abbia riqualificato il fatto come reato oblabile, si scontra con l'obiezione che le sentenze di condanna per le quali sia stata applicata la sola pena dell'ammenda non sono appellabili, a norma dell'art. 593, comma 3, cod. proc. pen., con la conseguenza che, in una ipotesi siffatta, verrebbe ad essere chiamato in causa - come impropria sede "restitutoria" - il giudizio di legittimità, in evidente antitesi sistematica con le funzioni e le caratteristiche proprie di quel giudizio, ed in carenza, per di più, di uno specifico vizio della sentenza impugnata.

Un residuale orientamento giurisprudenziale ha ritenuto di adottare uno schema procedimentale più complesso, che impone al giudice di emettere una sentenza condizionata, che, restituendo d'ufficio nel termine l'imputato, oltre alla statuizione di condanna, contiene anche l'ammissione al beneficio con fissazione di termini e modalità di pagamento della somma prevista dalla legge per beneficiare tempestivamente dell'effetto estintivo del reato.

Non potendo gravare sull'imputato l'onere, potenzialmente lesivo del diritto di difesa, di "anticipare" la domanda di oblazione in un momento in cui il diritto non è ancora esercitabile e in vista di una riqualificazione (futura ed incerta) del reato contestato, spetterebbe al giudice rimettere d'ufficio in termini l'imputato affinché possa avvalersi di un diritto sorto solo al momento della derubricazione, indipendentemente dall'esistenza di una precedente istanza e dal tempo in cui essa sia stata formulata.

Il giudice, con la stessa sentenza, è tenuto d'ufficio ad ammettere l'imputato, che non ne abbia fatto preventiva richiesta, all'oblazione, fissandone le modalità e subordinando l'efficacia della condanna al mancato adempimento nel termine non superiore a dieci giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, sicchè, ove il pagamento intervenga entro il termine stabilito, il reato deve essere dichiarato estinto dal giudice dell'esecuzione, altrimenti la condanna diviene efficace ed eseguibile.

L'imputato avrebbe accesso al procedimento oblativo, mutuando dal processo civile l'istituto della "sentenza condizionata", che consiste nel subordinare l'efficacia della condanna al verificarsi di determinati eventi futuri ed incerti, allo scadere del termine, all'adempimento di una prestazione, ed è ammissibile se circoscritta ai casi in cui l'accertamento dell'avverarsi della condizione non comporti un nuovo giudizio di cognizione, ma possa essere fatto valere in sede esecutiva (Sez. II, 22 ottobre 2001, Elidrissi, n. 40509, Rv. 220861; Sez. II, 10 settembre 2002, Bonavoglia, n. 33420, Rv. 222384; Sez. III, 6 aprile 2004, Bertalli, n. 28682, Rv. 229422; Sez. III, 5 maggio 2004, Barletta, n. 35113, Rv. 229553; Sez. II, 20 ottobre 2004, El Anoualy, n. 9921/2005, Rv. 230919).

Si è così affermato che qualora la proponibilità della richiesta di oblazione divenga possibile solo in seguito alla modifica della originaria e preclusiva imputazione, disposta con la sentenza che definisce il giudizio, il giudice, oltre ad irrogare la corrispondente sanzione, è tenuto, con la stessa sentenza e previa richiesta dell'imputato, a rimettere quest'ultimo in termini per proporre la richiesta di oblazione, subordinando l'efficacia della condanna al perfezionamento del relativo "iter" procedimentale: precisandosi, al riguardo, che, se il pagamento avviene nel termine stabilito, il reato si estingue e la relativa declaratoria è pronunciata, ad istanza di parte, dal giudice dell'esecuzione; altrimenti, la sentenza di condanna diviene efficace ed eseguibile (Sez. II, 14 ottobre 2011, Mosole, n. 40037, Rv. 251546).

La assenza di una base normativa per poter configurare, non soltanto una generale categoria di sentenze penali "sub condicione", quanto, nello specifico, una condanna "condizionata" alla eventuale, futura, domanda di oblazione, rende impraticabile la strada ermeneutica evocata nelle richiamate pronunce.

Non senza rilevare, d'altra parte, come siano proprio gli esempi che vengono indicati a sostegno di quella tesi a dimostrarne la sostanziale impraticabilità: si richiamano, infatti, le ipotesi della sospensione condizionale della pena o della concessione dell'amnistia o dell'indulto subordinati all'adempimento di obblighi. Ma è agevole osservare come gli istituti richiamati, specie la sospensione condizionale della pena, dimostrino la tassatività delle relative previsioni, in sé derogatorie rispetto al principio della immediata esecutività della sentenza di condanna irrevocabile, anche se a contenuto "parziale": al punto che, come è noto, si ammette la immediata proponibilità del ricorso straordinario di cui all'art. 625-bis cod. proc. pen., anche da parte della persona condannata nei confronti della quale sia stata pronunciata sentenza di annullamento con rinvio limitatamente a profili che attengono alla determinazione del trattamento sanzionatorio (Sez. Un., 21 giugno 2012, Brunetto, n. 28717, Rv. 252935, ove si rievoca la nota tematica del giudicato cosiddetto progressivo) o da parte del condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile (Sez. Un., 21 giugno 2012, Marani, n. 28719, Rv. 252695).

Del pari, risulta inconferente equiparare la procedura oblativa a quella prevista per l'amnistia impropria o per l'indulto, nelle ipotesi in cui tali provvedimenti impongano adempimenti comportamentali, dal momento che quegli istituti, a differenza della oblazione che estingue il reato, operano come cause estintive della pena, presupponendo, dunque, per necessità di cose, un accertamento di colpevolezza.

Per altro verso, poiché la pronuncia modificativa del "nomen iuris", ancorché "condizionata" quanto alla esecuzione, sarebbe pur sempre una sentenza di condanna, ove l'accertamento dei presupposti per la declaratoria di estinzione del reato fosse riservata al giudice della esecuzione, a quest'ultimo sarebbe affidato il compito di modificare la natura stessa della sentenza, dopo che questa è divenuta irrevocabile. Evenienza, questa, non soltanto non prevista e dunque non consentita dal sistema processuale, in quanto derogatoria rispetto alla ordinaria distribuzione delle attribuzioni tra giudizio di cognizione e fase esecutiva, ma che appare porsi al di fuori anche di una logica di economia processuale, imponendo una duplicazione di attività - condanna e procedimento di oblazione - l'una antitetica rispetto all'altra. Cosicché, un meccanismo di celere definizione della regiudicanda, quale l'oblazione, volta idealmente ad evitare il giudizio, finirebbe irrazionalmente per presupporlo.

3. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite, tra le varie possibili opzioni, hanno stabilito che l'esercizio del diritto di oblazione, anche nel caso di derubricazione del reato ad opera del giudice con la sentenza di condanna, è sempre subordinato ad una espressa richiesta dell'imputato (anche se preventiva o cautelativa), volta a sollecitare la definizione del fatto in base ad una diversa e più favorevole qualificazione giuridica.

Il principio di diritto è stato così massimato da questo Ufficio: «in materia di oblazione, nel caso in cui è contestato un reato per il quale non è consentita l'oblazione ordinaria di cui all'art. 162 cod. pen. né quella speciale prevista dall'art. 162-bis cod. pen., l'imputato, qualora ritenga che il fatto possa essere diversamente qualificato in un reato che ammetta l'oblazione, ha l'onere di sollecitare il giudice alla riqualificazione del fatto e, contestualmente, a formulare istanza di oblazione, con la conseguenza che, in mancanza di tale espressa richiesta, il diritto a fruire dell'oblazione stessa resta precluso ove il giudice provveda di ufficio ex art. 521 cod. proc. pen., con la sentenza che definisce il giudizio, ad assegnare al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l'applicazione del beneficio».

L'imputato, dunque, nell'esercizio del diritto di difesa, non dovrebbe modulare le proprie opzioni sull'esclusiva falsariga della contestazione che gli è stata formalmente elevata, ma per il principio di "fluidità dell'imputazione" dovrebbe confrontarsi con la possibilità di attribuire al fatto un diverso nomen iuris, chiedendo espressamente di estinguere il reato mediante l'oblazione.

Per la formazione della prova in dibattimento, l'accusa non può ritenersi definitivamente cristallizzata e, quindi, l'eventualità che il giudice possa nella sentenza attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica non rappresenta un evento eccezionale, ma una situazione che rientra nel fisiologico sviluppo della progressione processuale.

Qualora l'imputato, a fronte dell'obbligo di contestare «in forma chiara e precisa, il fatto, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza con l'indicazione dei relativi articoli di legge» (artt. 429, lett. c, e 552, lett. c, cod. proc. pen.), ometta di eccepire la non pertinenza del nomen iuris alla fattispecie dedotta in rubrica, non potrà più dolersi se il giudice derubrichi la contestazione iniziale in un reato che invece ammetta l'oblazione.

La difesa, esercitando il suo diritto di interlocuzione sul contenuto dell'accusa, deve sollecitare il giudice a ricondurre il fatto nel corretto inquadramento giuridico, al fine di accedere tempestivamente al beneficio e di evitare l'insorgere di effetti preclusivi che l'intero sistema processuale è fisiologicamente chiamato a predisporre.

Ove così non fosse, in presenza di una errata qualificazione giuridica del fatto, emergente già all'atto del rinvio a giudizio e tale da precludergli formalmente l'accesso all'oblazione, l'imputato finirebbe paradossalmente per fruire di un singolare meccanismo di restituzione nel termine, che gli consentirebbe di beneficiare di tutto il dibattimento e regolarsi, all'esito delle sue risultanze, se domandare l'oblazione previa derubricazione del fatto.

Il diritto ad un equo processo e la garanzia del contraddittorio in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto devono ritenersi assicurati quando l'imputato abbia comunque avuto modo di interloquire sul tema in una delle fasi del procedimento, qualunque sia la modalità con cui il contraddittorio è stato assicurato.

L'impostazione dianzi descritta si pone su un piano alternativo rispetto al contenuto dell'art. 6 CEDU e ai principi più volte affermati dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (cfr. sentenze 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia; 1 marzo 2001, Dallos c. Ungheria; 20 aprile 2006, I.H. c. Austria; 3 luglio 2006, Vesque c. Francia).

Per le Sezioni Unite, infatti, non verrebbe in rilievo alcuna violazione dei principi del giusto processo perché la derubricazione, seppur avvenuta in mancanza di contraddittorio, è comunque finalizzata a far conseguire all'imputato un trattamento giuridico migliorativo e complessivamente più favorevole, i cui effetti, ai fini dell'epilogo decisorio e dell'estinzione del reato mediante oblazione, possono prodursi solo in conseguenza di una specifica istanza dell'imputato.

In mancanza di una preventiva istanza di oblazione, l'eventuale proposizione di un ricorso per cassazione si rivelerebbe carente di interesse e non potrebbe far conseguire all'imputato alcuna concreta utilità ovvero una situazione giuridica più vantaggiosa, rappresentata dall'estinzione del reato per mezzo del pagamento di una somma di denaro.

  • sanzione penale

CAPITOLO XIX

DIVIETO DI REFORMATIO IN PEIUS, GIUDIZIO DI RINVIO E REATO CONTINUATO

(di Antonio Corbo )

Sommario

1 Premessa: i principi affermati. - 2 Gli orientamenti della giurisprudenza in tema di applicazione del divieto di reformatio in peius" al reato continuato. - 3 Il fondamento del divieto di reformatio in peius. - 4 L'applicazione del divieto di reformatio in peius nel giudizio di rinvio. - 5 Le conclusioni sulle modalità applicative del divieto di reformatio in peius al reato continuato.

1. Premessa: i principi affermati.

Le Sezioni Unite, con la sentenza del 27 marzo 2014, n. 16208, C., Rv. 258652-258653, hanno esaminato il problema dell'operatività e delle modalità applicative del "divieto di reformatio in peius" in riferimento al reato continuato nel giudizio di rinvio conseguente ad annullamento disposto dalla Corte di cassazione su ricorso del solo imputato.

La Corte ha innanzi tutto riaffermato il principio dell'applicabilità del divieto nel giudizio di rinvio, se il ricorso per cassazione è stato proposto dal solo imputato, anche quando la sentenza di primo grado è stata appellata dal pubblico ministero, fermo restando che, in tal caso, il limite risulta operativo con riferimento alla decisione del giudice di appello.

La sentenza, inoltre, ha esplicitato che, in relazione al reato continuato, quando per effetto della decisione muta la struttura di quest'ultimo, come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o se cambia la qualificazione di quest'ultima, il divieto di "reformatio in peius" non è violato se il giudice dell'impugnazione apporta per uno dei fatti unificati dall'identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore.

Il caso concretamente esaminato riguardava una vicenda in cui l'imputato, condannato in secondo grado per più reati unificati dal vincolo della continuazione su appello del pubblico ministero avverso la sentenza di proscioglimento del giudice di prime cure, aveva conseguito, proponendo ricorso per cassazione, l'annullamento con rinvio in relazione all'individuazione del reato più grave e, conseguentemente, all'individuazione della pena; il giudice di rinvio, individuato il reato più grave in linea con l'indicazione della Suprema Corte, aveva calcolato la pena rispettando sì la misura complessiva della sanzione irrogata nella sentenza di appello, ma modificando le porzioni della stessa attribuite ai singoli reati, con l'applicazione per alcuni di essi di una pena di entità inferiore, e per altri, invece, di una pena di entità superiore a quella determinata dal precedente giudice di merito.

2. Gli orientamenti della giurisprudenza in tema di applicazione del divieto di reformatio in peius" al reato continuato.

Punto di partenza del discorso delle Sezioni Unite è l'analisi della giurisprudenza di legittimità. Il riferimento fondamentale è costituito da Sez. Un., 27 settembre 2005, n. 40910, William Morales, Rv. 232066, la quale - ponendosi dichiaratamente in continuità con Sez. Un., 19 gennaio 1994, n. 4460, Cellerini, e Sez. Un., 12 maggio 1995, n. 5978, Pellizzoni, Rv. 201034 - ha enunciato il principio generale secondo cui il divieto riguarda non solo l'entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi che concorrono alla determinazione di quest'ultima.

Si osserva, poi, che, sebbene Sez. U, William Morales, non fosse stata pronunciata con riferimento ad una fattispecie di reato continuato, la successiva giurisprudenza che si è occupata dell'applicazione del divieto a questa figura giuridica si è in gran parte dichiaratamente allineata alla regola della riferibilità del limite non solo alla pena complessiva, ma anche ai singoli elementi che la compongono, e che, tuttavia, gli esiti non sono stati sempre coerenti.

In particolare, il rispetto della regola risulta avvenuto in termini rigorosi quando non muta il reato più grave, e ciò tanto se si dovesse rideterminare la pena base per quest'ultimo (così Sez. IV, 3 giugno 2008, n. 37980, Ahrad, Rv. 241216), quanto se si dovesse incidere sui segmenti di pena inerenti alle circostanze (cfr., tra le altre, Sez. IV, 28 ottobre 2005, n. 47341, Salah, Rv. 233177) ovvero ai reati-satellite (v., "ex plurimis", Sez. V, 21 settembre 2011, n. 39373, Costantini, Rv. 251521).

Le Sezioni Unite, però, poi, evidenziano che molto più problematica è stata l'applicazione del divieto quando nel nuovo giudizio muta la individuazione del reato più grave.

La maggior parte delle decisioni hanno escluso che la rideterminazione della pena per il 'nuovo' reato più grave in termini peggiorativi rispetto a quelli fissati nel precedente grado di giudizio per la medesima fattispecie quale reato-satellite contrasti con il divieto di "reformatio in peius" (cfr., tra le tante, Sez. VI, 7 novembre 2012, n. 4162/2013, Ancona, Rv. 254263, nonché Sez. VI, 10 giugno 2009, n. 31266, Buscemi, Rv. 244793), in particolare osservandosi che, in ipotesi di mutamento della violazione più grave, viene meno la stessa "unità ontologica della ritenuta continuazione, nella sua struttura costituita dal reato già individuato più grave e dai reati-satellite" (così, citando testualmente Sez. VI, Buscemi). Tuttavia, mentre alcune pronunce ritengono che, in questa ipotesi, l'unico limite è quello della pena precedentemente irrogata per tutti i reati compreso quello eliminato (v., ad esempio, Sez. V, 2 dicembre 2011, n. 12136/2012, Mannavola), altre decisioni affermano che il giudice di rinvio non può irrogare una pena superiore a quella fissata come pena base nel precedente grado di giudizio (cfr., tra le altre, Sez. VI, Ancona, cit.), ed altre ancora ravvisano la violazione del divieto anche quando per il nuovo reato è fissata la medesima pena-base irrogata nel precedente grado di giudizio per il reato allora ritenuto più grave, in quanto in contrasto con il disposto dell'art. 597, comma 4, cod. proc. pen. (così, da ultimo, Sez. IV, 4 novembre 2010, n. 41585, Pizzi, Rv. 248549).

Il Collegio, ancora, dà atto dell'esistenza di un orientamento "decisamente minoritario" che riferisce il divieto della "reformatio in peius" al solo risultato finale del computo della pena, e non anche alle operazioni intermedie di computo, in nome del principio di libertà di apprezzamento dei fatti da parte del giudice (cfr., tra le altre, Sez. II, 16 giugno 2011, n. 36219, Signoretta, Rv. 251161).

Viene segnalata, infine, la recente pronuncia Sez. Un., 18 aprile 2013, n. 33752, Papola, Rv. 255660, la quale ha affermato il principio secondo cui il giudice di appello, dopo aver escluso una circostanza aggravante o riconosciuto una ulteriore circostanza attenuante in accoglimento dei motivi proposti dall'imputato, può confermare, senza con ciò violare il divieto, la pena applicata in primo grado, ribadendo il giudizio di equivalenza tra le circostanze, purché sulla base di una adeguata motivazione. In particolare, viene segnalato che secondo detta sentenza il limite al potere di rideterminazione della pena è collegato esclusivamente ai motivi devoluti, e non anche ai profili rimessi alla valutazione officiosa del giudice, come quello, appunto, del giudizio di comparazione tra le circostanze, e che la previsione dettata dall'art. 597, comma 4, cod. proc. pen. ha una portata circoscritta: "l'obbligo di corrispondente diminuzione della pena (...) è limitato all'accoglimento dell'appello dell'imputato relativo a circostanze o reati concorrenti, ossia solo - come è lecito desumere dalla stretta correlazione tra la locuzione finale («la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita») ed il precedente riferimento ai motivi accolti («se è accolto l'appello dell'imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione») - ad ipotesi interessate da un metodo di calcolo comportante mere operazioni di aggiunta od eliminazione di entità autonome di pena rispetto alla pena-base, senza accenno alcuno ad ipotesi implicanti un giudizio di comparazione".

3. Il fondamento del divieto di reformatio in peius.

Rilevata la "gamma multiforme di approdi" rinvenibili in giurisprudenza, le Sezioni Unite si sono poste il problema di individuare il fondamento del divieto.

Sotto il profilo della storia dell'istituto, la sentenza mette in luce che la regola, da un lato, appartiene alla tradizione dell'ordinamento giuridico italiano, essendo presente anche nei codici di procedura penale del 1865 (art. 419, terzo comma), del 1913 (art. 480, secondo comma) e del 1930 (art. 515, terzo comma), e, dall'altro, però, è stata costantemente oggetto di discussioni e di critiche, riemerse da ultimo anche in occasione dei lavori preparatori del codice di procedura penale del 1988. Si fa menzione, in particolare, delle dispute che precedettero l'entrata in vigore del codice del 1930, e si evidenzia che la scelta del legislatore di conservare l'istituto fu motivata, all'epoca, essenzialmente dall'esigenza di evitare che l'impugnazione di una sola parte potesse far degradare la sentenza di primo grado a mero "precedente storico", e, conseguentemente, trasformare il relativo giudizio "in una specie di procedimento preparatorio, duplicato superfluo del procedimento d'istruzione".

Sotto il profilo sistematico, il Collegio, nel riportare le diverse opinioni prospettate, rileva che la molteplicità delle giustificazioni teoriche formulate costituisce una controprova dell'opinabilità dei risultati raggiunti. Si rappresenta, in particolare, che, secondo un'opinione, il fondamento del divieto è ravvisabile nel diritto di difesa: in altri termini, l'imputato deve poter utilizzare i rimedi apprestati dall'ordinamento senza rischiare di aggravare la sua posizione di propria iniziativa. Secondo altra tesi, il limite poggerebbe sull'interesse ad impugnare. Secondo altri ancora, la base della regola dovrebbe essere rinvenuta nel "favor rei" come canone informatore dell'ordinamento. Non manca, infine, chi esclude che il divieto possa essere ancorato ad un fondamento sistematico, e lo ritiene espressione di una opzione legislativa. La sentenza, peraltro, conclude che, quale sia la tesi accolta, "è lo stesso principio della domanda a rendere <<non eccentrica>> la preclusione giurisdizionale verso soluzioni <<peggiorative>> rispetto alla decisione impugnata": di conseguenza, il divieto costituisce "una scelta del legislatore, dunque, senz'altro non costituzionalmente (o convenzionalmente) imposta, ma che certo non può reputarsi costituzionalmente non compatibile o 'extravagante' rispetto all'assetto delle dinamiche processuali".

La conclusione di questa complessiva analisi è perciò la seguente: "In questo quadro di riferimento, dunque, è da ritenere che la regola in questione non rappresenti una deroga rispetto al generale sistema delle impugnazioni, e che, pertanto, non assuma i connotati della disposizione di carattere eccezionale".

4. L'applicazione del divieto di reformatio in peius nel giudizio di rinvio.

Esclusa la "eccezionalità" della regola, le Sezioni Unite dichiarano, come immediata conseguenza, l'applicabilità della stessa nel giudizio di rinvio.

La sentenza rileva che la tesi dell'operatività della regola nel giudizio di rinvio risulta condivisa da una consolidata giurisprudenza, la quale adduce, a fondamento di tale assunto, che la preclusione costituisce un principio generale applicabile a tutte le impugnazioni per le quali non sia dettata una diversa disciplina (si citano, tra le tante, Sez. II, 11 dicembre 2012, n. 3161/2013, F., Rv. 254536, e Sez. I, 22 maggio 2001, n. 26898, Salzano, Rv. 219920).

Si aggiunge, poi, che il principio è stato confermato anche da Sez. Un., 11 aprile 2006, n. 10750, Maddaloni, Rv. 233729, la quale ha individuato come unico limite quello dell'annullamento che travolge anche gli "atti propulsivi", configurabile perché "il concetto di reformatio in peius implica necessariamente l'esistenza di un termine di paragone rappresentato da una precedente sentenza", che, però, non ricorre quando la stessa si pone come "atto finale di un giudizio nullo e perciò privo di effetti".

Si osserva, peraltro, che questo principio è stato - parzialmente - posto in discussione da una "isolata sentenza", Sez. II, 15 febbraio 2012, n. 8124, Colturi, Rv. 252482. Secondo questa pronuncia, quando il giudizio di appello è stato introdotto dall'impugnazione del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento, il giudice di rinvio non 'soffre' limitazioni in ordine alla determinazione del trattamento sanzionatorio, perché, posto che lo stesso, "a norma dell'art. 627, comma 2, cod. proc. pen., opera con gli stessi poteri del giudice la cui sentenza è stata annullata", occorre rilevare che "il divieto di reformatio in peius è coniato ed opera per il giudice di appello, a norma dell'art. 597, comma 3, cod. proc. pen., solo a fronte di una pregressa pronuncia appellata dal solo imputato". La medesima Sez. II, Colturi, inoltre, evidenzia che la mancata impugnazione della sentenza di appello da parte del magistrato requirente non significa acquiescenza alla stessa, perché "la determinazione della pena, ancorché reputata non congrua dal pubblico ministero (cosa che lo avrebbe legittimato ad appellare), non per questo assume connotazioni di illegittimità devolvibili in cassazione", e quindi non costituisce comportamento "tale da produrre effetti analoghi a quelli previsti dal richiamato art. 597, comma 3, cod. proc. pen.".

Le Sezioni Unite, tuttavia, concludono che la tesi accolta da Sez. II, Colturi, "del tutto nuova nel panorama della giurisprudenza di legittimità formatasi sotto la vigenza del nuovo codice", non può essere accolta: essa richiede ulteriori approfondimenti, muovendosi "secondo coordinate non sintoniche rispetto al diverso e più sedimentato orientamento interpretativo che invece ammette la sussistenza del divieto in esame anche nel giudizio di rinvio".

5. Le conclusioni sulle modalità applicative del divieto di reformatio in peius al reato continuato.

Il Collegio, nell'esaminare il problema delle modalità applicative del divieto di "reformatio in peius" al reato continuato, premette la necessità di individuare i "tratti tipizzanti" dell'oggetto - appunto, il reato continuato - su cui deve essere operato il raffronto tra i trattamenti sanzionatori.

A tal proposito, la decisione rappresenta che "la unificazione delle pene è, dunque, un tratto caratteristico della continuazione: prescelto il reato più grave, quelli satellite perdono la loro individualità sanzionatoria, in caso di concorso tra pene eterogenee, divenendo semplici componenti di un aumento di pena (...)". Ne consegue che, "se muta uno dei termini [che compongono il cumulo] (vale a dire, una o più delle regiudicande cumulate o il relativo «bagaglio» circostanziale) oppure l'ordine di quella sequenza (la regiudicanda-satellite diviene la più grave o muta la qualificazione giuridica di quella più grave), sarà lo stesso meccanismo di unificazione a subire una «novazione» di carattere strutturale, non permettendo più di sovrapporre la nuova dimensione strutturale a quella oggetto del precedente giudizio, giacché, ove così fosse, si introdurrebbe una regola di invarianza priva di qualsiasi logica giustificazione". Successivo corollario, allora, è il seguente: "In tali casi, pertanto, l'unico elemento di confronto non può che essere rappresentato dalla pena finale (...)".

Le Sezioni Unite, quindi, dopo aver ulteriormente ribadito l'irragionevolezza di comparazione tra segmenti di realtà strutturalmente diverse, precisano che la regola affermata da Sez. U, William Morales, secondo cui il divieto riguarda non solo l'entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi che concorrono alla determinazione di quest'ultima, può valere per il solo caso in cui "il giudice dell'appello o del rinvio sia chiamato a giudicare della stessa sequenza di reati avvinti dal cumulo giuridico".

Le stesse, infine, adducono, ad aggiuntivo supporto delle conclusioni raggiunte, un argomento letterale desunto dal testo dell'art. 597, comma 4, cod. proc. pen. : "Stabilendosi, infatti, il principio in virtù del quale se è accolto l'appello dell'imputato in relazione a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati dalla continuazione, la pena «complessivamente irrogata» è «corrispondentemente diminuita», il legislatore ha preso in considerazione, come termine di riferimento e vincolo per il nuovo giudice, soltanto la pena complessiva e non certo i singoli segmenti - o passaggi di giudizio - che hanno concorso a determinare quella pena; in tal modo finendo per accreditare la logica che il nuovo giudizio sul punto, conta solo, agli effetti che qui interessano, nel suo approdo conclusivo".

  • avvocato

CAPITOLO XX

IMPUGNAZIONI, DIFENSORE DEL TERZO INTERESSATO E PROCURA SPECIALE

(di Maria Meloni )

Sommario

1 Impugnazioni, difensore del terzo interessato e procura speciale.

1. Impugnazioni, difensore del terzo interessato e procura speciale.

Le Sezioni Unite, 30 ottobre 2014, n. 47239, Borrelli, Rv. 260894, hanno affermato il principio di diritto così massimato da quest'Ufficio:

"È inammissibile il ricorso per cassazione proposto - avverso il decreto che dispone la misura di prevenzione della confisca - dal difensore del terzo interessato non munito di procura speciale, ex art. 100 cod. proc. pen.; né, in tal caso, può trovare applicazione la disposizione di cui all'art. 182, comma 2, cod. proc. civ., per la regolarizzazione del difetto di rappresentanza".

Sulla questione si era formato un contrasto.

Secondo l'orientamento dominante il difensore del terzo interessato alla restituzione della cosa sequestrata o assoggettata a misura di prevenzione patrimoniale non può, in assenza di procura rilasciata ai sensi dell'art. 100 cod. proc. pen., proporre ricorso per cassazione. In tal senso, ex plurimis, Sez. VI, 13 marzo 2008, n. 16794, Pulignano, Rv. 239729, Sez. VI, 12 marzo 2008, n. 12517, Calabresi, Rv. 239287, Sez. V, 17 febbraio 2004, n. 13412, Pagliuso, Rv. 228019, Sez. V, 6 giugno 2001, n. 32800, Montesi, Rv. 219342.

Un principio confermato e ribadito anche dalla prevalente e più recente giurisprudenza: si confronti Sez. VI, 17 settembre 2009, n. 46429, Pace, Rv. 245440; Sez. VI, 4 marzo 2010, n. 11796, Pilato, Rv. 246485, Sez. V, 9 aprile 2010, n. 21314, Di Stefano, Rv. 247440, Sez. VI, 20 gennaio 2011, n. 13798, Bonura, Rv. 249873, Sez. VI, 19 marzo 2010, n. 13154, Arango Garzon, Rv. 246692, Sez. III, 20 ottobre 2011, n. 8942/2012, Porta Tenaglia s.r.l, Rv. 252438, Sez. I, 29 febbraio 2012, n. 10398, Lucà, Rv. 252925, Sez. I, 4 maggio 2012, n. 25849, Bellinvia, Rv. 253081, Sez. II, 27 marzo 2012, n. 27037, Bini, Rv. 253404, Sez. VI, 23 ottobre 2012, n. 7510/2013, Esposito, Rv. 254580, Sez. VI, 31 ottobre 2013, n. 44636, Ardito, Rv. 257812, Sez. II, 3 dicembre 2013, n. 6611/2014, Poli, Rv. 258580, Sez. VI, 16 ottobre 2013, n. 47548, Ponte, Sez. VI, 7 febbraio 2013, n. 22109, Calò, Rv. 256124, Sez. II, 9 luglio 2013, n. 31078, Lo Iacono, Sez. VI, 27 giugno 2013, n. 35240, Cardone, Rv. 256264, Ord. V, 11 gennaio 2013, n. 10972, Cassa di risparmio della Provincia di Teramo, Rv. 255186).

La premessa maggiore su cui poggia il principio in esame è racchiusa nell'interpretazione estensiva dell'art. 100 cod. proc. pen., il quale contiene, secondo la giurisprudenza dominante, una regola di carattere generale. Si afferma, infatti, che l'art. 100 cod. proc. pen., al di là dell'espresso riferimento alle posizioni della parte civile, del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, pone il principio per il quale i soggetti portatori di interessi meramente civilistici possono stare in giudizio solo con il ministero di un difensore munito di procura speciale, e la posizione del terzo interessato è chiaramente assimilabile a quella dei soggetti di cui sopra ed altrettanto chiaramente distinta da quella dell'indagato o dell'imputato, ai quali soli, in quanto sottoposti ad azione penale, è riconosciuta la possibilità di stare in giudizio di persona e l'assistenza di un difensore in quanto tale autonomamente titolare del diritto di impugnazione; con conseguente inammissibilità del ricorso proposto dal difensore del terzo interessato non munito di procura speciale.

Principi confermati dall'orientamento in esame anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 46, comma 2, della legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha sostituito il secondo comma dell'art. 182 cod. proc. civ., disponendo che, nel caso di difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero di un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la sanatoria di tali vizi.

L'orientamento dominante, infatti, afferma che l'art. 182 cod. proc. civ. trova il suo esclusivo ambito di applicazione nel processo civile e non può esserne invocata l'applicazione in sede penale, in assenza di esplicita disposizione, operazione che si tradurrebbe in una deroga alle specifiche disposizioni dettate dal codice di procedura penale e che consentirebbe, di fatto, una deroga ai termini stabiliti a pena di decadenza per proporre impugnazione. Con l'effetto che l'inammissibilità tout court "discende pianamente dal mancato rispetto dell'art. 100 cod. proc. pen., che, essendo norma di per sé compiuta ed autosufficiente, non appare abbisognare, per la sua operatività, del richiamo a norme collocate nel codice di procedura civile".

Conclusivamente: nel caso di specie non può trovare applicazione l'art. 182, comma 2, cod. proc. civ., per il quale il giudice deve assegnare alle parti un termine per la regolarizzazione degli eventuali difetti di rappresentanza, con conseguente declaratoria, in tal caso, di inammissibilità del ricorso (ex plurimis, Sez. III, 23 aprile 2013, n. 23107, Stan, Rv. 255445; Sez. III, 11 giugno 2014, n. 28580, Pietrocola; Sez. II, 13 giugno 2013, n. 31044, Scaglione, Rv. 256839; Sez. III, 21 marzo 2013, n. 39077, Aronne, Rv. 257729; Sez. II, 19 marzo 2014, n. 15097, Guagliardi, Rv. 259429; Sez. III, 1 aprile 2014, n. 16203, D'Amati; Sez. I, 10 gennaio 2014, n. 8361, Russo, Rv. 259174; Sez. I, 10 gennaio 2014, n. 8362, Di Falco, Rv. 259549; Sez. I, 2 aprile 2014, n. 18234, Tropea, Rv. 259441; Sez. I, 21 marzo 2014, n. 32395, Bevilacqua; nonché Sez. V, 12 dicembre 2013, n. 12220/2014, Siccone, Rv. 259861; Sez. IV, 25 marzo 2014, n. 21592, Fotescu; Sez. V, 15 maggio 2014, n. 25478, Pannunzio, Rv. 259847).

Il contrasto ha inizio con la sentenza Pangea - Sez. III, 16 dicembre 2010, n. 11966/2011, Pangea, Rv. 249766 - la quale afferma che "la richiesta di riesame proposta dal difensore del terzo interessato alla restituzione del bene in sequestro, ove sia rilevato il difetto di procura, non può essere dichiarata inammissibile, perché è fatto obbligo al giudice, in tal caso, di assegnare alla parte un termine perentorio per munirsi di una valida procura". Analogamente, Sez. VI, 20 novembre 2012, n. 1289/2013, Cooperativa L. da Vinci, Rv. 254287, per la quale "l'appello proposto, ex art. 324 c.p.p., dal difensore del terzo interessato alla restituzione del bene sottoposto a sequestro preventivo, ove sia rilevato il difetto della procura speciale, non può essere dichiarato inammissibile, perché è fatto obbligo al giudice, in applicazione dell'art. 182, comma 2, c.p.c., di assegnare alla parte un termine perentorio per munirsi di una valida procura". Nella stessa direzione si colloca, infine, sia pure con ulteriori svolgimenti e specificazioni, un'ordinanza - Ord. VI, 5 febbraio 2014, n. 11933, C. e altri, Rv. 258229 - con la quale la Cassazione afferma che "nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione proposto dal difensore del terzo interessato non munito di procura speciale, non può essere dichiarato inammissibile dovendo trovare applicazione il disposto di cui all'art. 182 cod. proc. civ., che prevede l'assegnazione alla parte di un termine perentorio per sanare il difetto di rappresentanza".

Secondo le decisioni in contrasto, che formano un orientamento del tutto minoritario, avuto riguardo alla natura civilistica degli interessi e delle posizioni giuridiche soggettive di cui il terzo interessato è portatore e al connesso principio secondo il quale la partecipazione al giudizio delle parti private diverse dall'imputato mutua la propria disciplina dalla normativa processualcivilistica, "è possibile inferire che quest'ultima trovi applicazione anche per quanto riguarda gli ulteriori profili di esplicazione della tematica inerente al difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione"; con conseguente operatività, in tal caso, dell'art. 182 cod. proc. civ. che "configura il difetto di procura come una irregolarità sanabile e non come una condizione ostativa".

L'indirizzo minoritario ritiene, inoltre, che dette conclusioni siano conformi "al principio di conservazione degli atti giuridici, avente anche natura processuale e alla più recente giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, per violazioni dell'art. 6, par. 1, CEDU sotto il profilo del pieno accesso alla tutela giurisdizionale".

Nel contempo l'indirizzo in esame stigmatizza i pesanti effetti di operazioni ermeneutiche di impronta marcatamente formalistica, affermando che, "negare la tutela giurisdizionale, in sede di legittimità, al terzo interessato solo per un difetto di carattere formale, costitutivamente sanabile in maniera estremamente agevole, mediante semplice regolarizzazione della procura, non appare aderente alla logica di un corretto rapporto di proporzionalità tra le finalità perseguite e gli strumenti impiegati", viola il diritto di difesa, ex art. 24 Cost., considerato che "i dispositivi di accesso alla giurisdizione debbono essere preordinati a rafforzare e non già ad indebolire le possibilità di difesa offerte al cittadino".

Tanto più in un contesto in cui, secondo l'orientamento in esame, emergono affinità tra la posizione del proposto e quella del terzo interessato, il quale si trova assoggettato all'esplicazione, da parte dell'Autorità statuale, di poteri pubblicistici di natura ablatoria e di grave incidenza sulla sua sfera giuridica, rispetto ai quali egli versa in una posizione di soggezione, tale dunque da radicare una maggiore propinquitas alla figura dell'imputato o del proposto, nel procedimento di prevenzione, che non a quella della parte civile e del responsabile civile. Contestando, d'altra parte, che a tal fine, abbia rilievo l'obiezione inerente alla perentorietà dei termini previsti dal codice di procedura penale per la proposizione delle impugnazioni, in quanto, "anche i termini stabiliti, al riguardo, dal codice di procedura civile sono previsti a pena di decadenza, senza che ciò abbia rilievo ostativo" alla applicazione dell'art. 182, comma 2, cod. proc. civ., dispositivo che, peraltro, "incide soltanto sulla regolarizzazione della procura e cioè su un profilo completamente diverso da quello della tempestività della proposizione dell'impugnazione".

In buona sostanza, per l'indirizzo minoritario, pur trovando applicazione per il terzo interessato l'art. 100 cod. proc. pen., secondo cui la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria possono stare in giudizio solo con il ministero di un difensore munito di procura speciale, laddove venga rilevato un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione o altro vizio comportante la nullità della procura, scatta non già l'inammissibilità del ricorso, bensì l'obbligo del giudice - in applicazione del disposto di cui all'art. 182, comma 2, c.p.c., nel testo modificato dalla legge n. 69 del 2009 - di assegnare alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o assistenza: con evidente equiparazione della nullità della procura ad litem al difetto di rappresentanza processuale e conseguente sanatoria ad efficacia retroattiva, conformemente a quanto affermato dalle Sezioni Unite civili, con sentenza 22 dicembre 2011, n. 28337, Rv. 619998.

Allineandosi con la prevalente giurisprudenza, le Sezioni Unite riaffermano l'inapplicabilità dell'art. 182, comma 2, cod. proc. civ. al processo penale ma, nel contempo, sembrano recepire le istanze che stanno alla base della giurisprudenza minoritaria, essenzialmente mirate a proteggere il diritto di difesa dei cittadini da operazioni ermeneutiche improntate ad eccessivo formalismo; di guisa che esse compiono un'attenta disamina delle procure disciplinate dagli art. 100 e 122 cod. proc. pen., evidenziandone il diverso ambito di operatività, la diversità di forme, di valenza e di effetti secondo un percorso che porta ad evitare intransigenze ispirate da smaccato formalismo.

Preliminarmente, rilevano la necessità di "verificare la portata della procura speciale e se la stessa sia stata o meno rilasciata dalla terza interessata al suo difensore".

Evidenziano che agli atti risulta la nomina del difensore di fiducia da parte della terza interessata nel procedimento di prevenzione; che al ricorso per cassazione non risulta allegata specifica nomina o procura speciale per la sua presentazione; che, a fronte di richiesta di inammissibilità del P.G., per l'assenza di procura speciale, lo stesso difensore ha allegato alla memoria integrativa... atto di nomina e procura speciale in data... successiva alla presentazione del ricorso.

Ciò premesso, le Sezioni Unite sgombrano il campo da possibili confusioni rilevando che "la procura speciale di cui all'art. 100 cod. proc. pen. differisce sia dalla mera nomina di difensore di cui all'art. 96 cod. proc. pen. che dalla procura speciale di cui all'art. 122, necessaria per determinati atti". Il supremo collegio afferma, in conformità alla giurisprudenza più recente e più sensibile alle esigenze di garanzia, che "la procura speciale di cui all'art. 100 cod. proc. pen., non si differenzia per funzioni, contenuto e tantomeno per formule sacramentali dalla nomina ex art. 96 cod. proc. pen. del difensore dell'imputato, con conseguente necessità di interpretare il contenuto dell'atto alla luce della chiara manifestazione di volontà del terzo interessato". Nella sentenza si evidenzia che, "infatti, non si tratta di conferimento di procura in relazione a singoli atti del procedimento ma di «procura speciale alle liti», limitata al dato procedimento di interesse, quando, per contro, la disposizione che specificamente disciplina la «procura speciale per determinati atti» è quella, ben diversa, di cui all'art. 122 cod. proc. pen. ". La procura speciale, ex art. 100 cod. proc. pen., dunque, "vale per il procedimento e non per singoli atti", distinguendosi nettamente dalla procura speciale, ex art. 122, cod. proc. pen., ed è la prima e non la seconda a rilevare nella specie.

Ulteriore passaggio riguarda il piano applicativo, in cui le Sezioni Unite rilevano che "benché non siano necessarie formule sacramentali nella redazione della procura speciale e sia consentito interpretare l'atto", nella specie si è dinnanzi ad "una semplice nomina di difensore e non al rilascio di una procura speciale", il che "è stato pacificamente ritenuto anche dalla difesa, che, infatti, non ha mai invocato tale tesi, ma ha presentato una procura speciale rilasciata successivamente ed ha invocato un termine per sanare il difetto di rappresentanza". Stante l'insussistenza della procura speciale, i giudici supremi esaminano la questione sottoposta al loro vaglio, vale a dire l'applicabilità, in tal caso, dell'art. 182, comma 2, cod. proc. civ., viene esclusa categoricamente, in conformità alla giurisprudenza dominante, per una serie di ragioni fondamentalmente riconducibili all'autosufficienza del sistema penale in generale.

Anzitutto, le Sezioni Unite affermano "l'autosufficienza sul punto del dato normativo di cui all'art. 100 cod. proc. pen. " che disciplina compiutamente la materia "e la conseguente impossibilità di integrarlo con le disposizioni di cui all'art. 182, comma 2, cod. proc. civ.".

Autosufficienza che, per l'appunto, costituisce espressione di una regola più generale per la quale sono inapplicabili in sede penale le regole previste dalla disciplina processualcivilistica, se non laddove ne sia fatto "un espresso richiamo dalla norma processuale penale", insussistente nella specie. In particolare, le Sezioni Unite sottolineano che, "benché gli interessi in gioco, sottesi alle posizioni ricomprese nel dettato dell'art. 100 cod. proc. pen., abbiano matrice esclusivamente civilistica e il mandato regolamentato da siffatta disposizione sia sostanzialmente in linea con gli art. 83 e 84 cod. proc. civ., la corrispondenza delle due disposizioni processuali non può essere sopravvalutata sino al punto di ignorare l'autonomo istituto della procura speciale di cui all'art. 100 cod. proc. pen. o di modificarne contenuto e rilevanza, soprattutto perché questo regolamenta compiutamente la materia". Non senza aggiungere che "il richiamo alla disciplina civilistica, anziché ampliare le possibilità di superamento dei vizi formali destinati ad ostacolare la trattazione nel merito delle questioni in processo... determina un risultato opposto", in quanto "nel procedimento penale, anche per il giudizio di cassazione può valere il mandato alle liti conferito in primo grado, purché lo stesso abbia connotazioni tali da ricavare dal suo testo la volontà della parte di conferire procura al difensore in tali termini". Più precisamente "non vi è nel codice di procedura penale, una disposizione che imponga, per la proposizione del ricorso di legittimità nell'interesse delle parti private di cui all'art. 100 cod. proc. pen., il conferimento di apposita procura finalizzata alla proposizione del ricorso per cassazione", ed "invece, secondo l'art. 365 cod. proc. civ., la proposizione del ricorso per cassazione presuppone, a pena di inammissibilità, una procura speciale". Pertanto, seguendo l'impostazione minoritaria "si perviene, in simili ipotesi, ad una soluzione ancor più rigorosa rispetto a quella immediatamente ricavabile dal codice di rito penale", posto che "in siffatta ipotesi... esclusa la possibilità di avvalersi del termine ex art. 182 cod. proc. civ., la mancanza della procura speciale finalizzata al procedimento di legittimità mai potrebbe essere surrogata dal conferimento di un precedente mandato alle liti, comprensivo anche della possibilità di proporre impugnazione, rilasciato nella fase di merito". Conclusivamente, le Sezioni Unite affermano, come si è detto, l'inapplicabilità dell'art. 182, comma 2, cod. proc. civ., come modificato dall'art. 46, comma 2, della legge n. 69 del 2009, "né per il ricorso per cassazione né per ogni altra impugnazione, non apparendo possibile distinguere fra il primo e le altre impugnazioni". Infine, il supremo consesso nomofilattico non ritiene che l'opzione ermeneutica accolta sia in contrasto con la giurisprudenza europea, in quanto "non vi è alcuna limitazione del diritto di accesso al giudice nel richiedere da parte del terzo interessato il rilascio di procura speciale e nell'impossibilità di sanare successivamente il mancato rilascio di detta procura".

  • procedura penale
  • impunità

CAPITOLO XXI

ABNORMITÀ DELL'ORDINE DI IMPUTAZIONE COATTA E IMPUGNABILITÀ

(di Assunta Cocomello )

Sommario

1 Premessa: l'impugnabilità per abnormità dell'ordinanza di formulazione coattiva dell'imputazione. - 2 L'abnormità dell'ordine di imputazione coatta nei confronti di persona non indagata e quello nei confronti dell'indagato per un reato diverso.

1. Premessa: l'impugnabilità per abnormità dell'ordinanza di formulazione coattiva dell'imputazione.

Al di fuori dell'ipotesi di abnormità, l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari che, respingendo la richiesta di archiviazione, disponga la formulazione dell'imputazione coattiva da parte del P.M., è inoppugnabile in virtù del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione. Tale principio, infatti, impedisce di estendere analogicamente la ricorribilità in cassazione, prevista per l'ordinanza di archiviazione dall'art. 409 comma 6 cod. proc. pen., alle ordinanze con le quali il Giudice delle indagini preliminari impone al Pubblico Ministero di formulare l'imputazione o di svolgere ulteriori indagini.

Invero, l'inoppugnabilità di tali provvedimenti è espressione di un preciso intento del legislatore il quale ha voluto limitare la possibilità di ricorrere per cassazione avverso l' ordinanza di archiviazione, trattandosi di atto tendenzialmente idoneo a definire il processo, laddove, al contrario, le ordinanze che dispongono ulteriori indagini o la formulazione coatta dell' imputazione hanno carattere interlocutorio e sono, comunque, suscettibili di ulteriore controllo nel prosieguo del procedimento.

La giurisprudenza infatti ha enucleato una nozione di provvedimento abnorme caratterizzata, per un verso, dall'assoluta estraneità ed incompatibilità rispetto al sistema processuale vigente che ne impone una immediata espunzione dal mondo del diritto e, per un altro verso, dalla sua imprevedibilità che non consente di ravvisare, nel silenzio del legislatore, l'intento di escludere il diritto d' impugnazione, così come il potere della Corte di cassazione di rilevare d'ufficio l'anomalia del provvedimento stesso.

È abnorme, pertanto, l'atto che presenta anomalie genetiche o funzionali tanto radicali da non poter essere inquadrato nello schema normativo processuale, rispetto al quale la mancata previsione di una specifica impugnazione trova ragione nella sua estraneità al sistema legale, cui può porsi rimedio soltanto con il ricorso per cassazione.

Sul tema le Sezioni Unite, 10 dicembre 1997, n. 17/98, Di Battista, Rv. 209603 e Sezioni Unite, 24 novembre 1999, n. 26/00, Magnani, Rv. 215094, hanno affermato che è affetto da abnormità non solo il provvedimento che, per la singolarità e la stranezza del contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento processuale (cosiddetta anomalia strutturale), ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di un legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite, sì da determinare una stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo ovvero un'inammissibile regressione dello stesso ad una fase ormai esaurita (cosiddetta anomalia funzionale). In entrambi i casi, proprio perché l'atipicità del vizio non consentirebbe il ricorso ad uno specifico e predeterminato mezzo di gravame, l'eventuale "deviazione" dal sistema legittima l'esperimento del ricorso per cassazione.

L'astratta costruzione del concetto di abnormità appare, in tali termini, sufficientemente lineare ma la sua concreta estrinsecazione non può essere configurata preventivamente richiedendo di essere calata, di volta in volta, nella singola realtà processuale con conseguente valore decisivo della casistica giurisprudenziale.

Al fine, quindi, di individuare il vizio di abnormità nell'ambito del procedimento di archiviazione, è necessario prendere in considerazione il sistema di regole e di principi che disciplinano i rapporti tra azione penale ed archiviazione e tra le varie funzioni attribuite ai soggetti che in tale procedimento intervengono.

L'inquadramento complessivo della vicenda concerne i rapporti tra Pubblico Ministero e Giudice per le indagini preliminari ed, in particolare, l' individuazione dei limiti del potere di controllo del giudice sulla richiesta di archiviazione per infondatezza della notitia criminis.

Si tratta di stabilire se il giudice che non ritenga di accogliere l'archiviazione, abbia il potere di ordinare l'iscrizione nel registro delle notizie di reato dei nominativi di persone diverse da quelle indagate e di formulare nei confronti di queste l' imputazione, nonché di procedere con la richiesta di ulteriori indagini o con la formulazione coatta dell'imputazione per fatti diversi da quelli oggetto della richiesta di archiviazione, vuoi nei confronti delle persone indagate vuoi nei confronti di persone diverse.

Sulla legittimità e sui confini di tale potere è reiteratamente intervenuta la Corte costituzionale che, dichiarando infondate le numerose questioni sottoposte al suo esame, ha sempre affermato che i confini tracciati dal legislatore sui poteri dei due organi che si occupano delle indagini preliminari sono, nel nostro sistema normativo, ben definiti e conformi ai principi costituzionali dell'obbligatorietà dell'azione penale e della attribuzione della titolarità del suo esercizio in capo al pubblico ministero.

Tuttavia tale tematica è stata caratterizzata per anni da una serie di interventi della giurisprudenza di legittimità, talvolta non univoci, anche perché aventi ad oggetto fattispecie diverse, non sempre completamente assimilabili tra loro.

Si è reso pertanto necessario l'intervento delle Sezioni Unite che, con la pronuncia del 31 maggio 2005, n. 22909, Minervini, Rv. 231163, hanno fornito una chiara linea di indirizzo nella tematica relativa ai poteri del Giudice per le indagini preliminari in materia di archiviazione.

2. L'abnormità dell'ordine di imputazione coatta nei confronti di persona non indagata e quello nei confronti dell'indagato per un reato diverso.

Le Sezioni Unite, risolvendo un ulteriore contrasto in materia di delimitazione dei poteri di controllo del giudice per le indagini preliminari sull'operato del pubblico ministero, con la sentenza Sez. Un., 28 novembre 2013, n. 4319/2014, p.m. in proc. Leka, Rv. 257787, hanno affermato i seguenti principi di diritto, così massimati:

- "In materia di procedimento di archiviazione, costituisce atto abnorme, in quanto esorbita dai poteri del giudice per le indagini preliminari, sia l'ordine d'imputazione coatta emesso nei confronti di persona non indagata, sia quello emesso nei confronti dell'indagato per reati diversi da quelli per i quali il pubblico ministero aveva richiesto l'archiviazione. (La Suprema Corte ha precisato che, nelle suddette ipotesi, il giudice per le indagini preliminari deve limitarsi ad ordinare le relative iscrizioni nel registro di cui all'art. 335 cod. proc. pen.)".

- "In materia di provvedimenti del giudice per le indagini preliminari sulla richiesta di archiviazione, le disposizioni contenute nell'art. 409, comma quarto e 5 cod. proc. pen., devono formare oggetto di rigorosa interpretazione, al fine di evitare qualsiasi ingerenza dell'organo giudicante nella sfera di autonomia della pubblica accusa".

La pronuncia delle Sezioni Unite in esame ha riguardo a fattispecie in cui il giudice delle indagini preliminari, investito della richiesta di archiviazione del procedimento, rigettandola parzialmente, restituisce gli atti al pubblico ministero con l'ordine di formulare l'imputazione per ipotesi di reato non contemplate nella richiesta di archiviazione, nei confronti degli indagati e di altri soggetti per i quali non vi era stata pregressa iscrizione nel registro delle notizie di reato ex art. 335 cod. proc. pen. Il quesito rimesso alla Suprema Corte, pertanto, si inserisce nella delicata tematica della delimitazione dei poteri di controllo attribuiti al giudice per le indagini preliminari nell'ambito del procedimento di archiviazione, e viene formulato nei seguenti termini "Se sia abnorme il provvedimento con cui il gip, investito della richiesta di archiviazione per un determinato reato, ravvisando anche altri fatti costituenti reato, a carico del medesimo indagato o di altri soggetti non indagati, ordini al pubblico ministero di formulare l'imputazione ex art. 409 cod. proc. pen. in riferimento a questi ultimi".

Nella giurisprudenza di legittimità - concorde nel ritenere abnorme il provvedimento del giudice per le indagini preliminari che dispone l'imputazione coattiva nei confronti di persone non precedentemente iscritte nel registro degli indagati - permaneva, tuttavia, un contrasto in ordine al carattere di abnormità del provvedimento con il quale il G.i.p., investito della richiesta di archiviazione, ravvisi nella fattispecie altri titoli di reato, invitando il p.m. a formulare l'imputazione.

Come accennato in premessa, sulla delimitazione dei poteri di controllo e di intervento attribuiti al G.i.p. nel procedimento di archiviazione, al fine di assicurare il rispetto del principio costituzionale della obbligatorietà dell'azione penale ex art. 112 Cost., le Sezioni Unite si erano già pronunciate in passato con la sentenza 31 maggio 2005, n. 22909, Minervini, Rv. 231163, che aveva affermato il potere del giudice delle indagini preliminari investito da richiesta di archiviazione, di ordinare, all'esito dell'udienza camerale, al pubblico ministero l'iscrizione nel registro degli indagati di altri soggetti non precedentemente iscritti, rispetto ai quali il p.m. non aveva formulato alcuna richiesta, disponendo altresì la prosecuzione delle indagini nei loro confronti, nonché l'iscrizione della notitia criminis in relazione a titoli di reato ulteriori e diversi da quelli originariamente individuati dalla pubblica accusa. La stessa pronuncia, tuttavia, significativamente dichiarava, invece, abnorme l'ordinanza del medesimo G.i.p., nella parte in cui rinviava il procedimento ad altra udienza anziché ordinare la restituzione degli atti alla pubblica accusa.

In tal modo le Sezioni Unite forniscono una precisa linea di indirizzo sulla tematica, ribadendo che rientra nei poteri del G.i.p. quello di effettuare un controllo sul complesso degli atti procedimentali rimessigli dal pubblico ministero, non potendosi limitare ad un semplice esame della richiesta finale del p.m., pur non potendosi sostituire a quest'ultimo nei poteri di iniziativa dell'esercizio dell'azione penale, in quanto "i procedimenti adottati dal G.i.p., in dissenso con la richiesta di archiviazione formulata dalla pubblica accusa, fanno tornare il procedimento nella iniziativa del p.m. il quale, nel seguire le indicazioni del G.i.p., potrà esercitare, nella sua autonoma determinazione, tutti i poteri attribuitigli dalla legge, primo fra tutti quello di adottare le determinazioni conseguenti all'esito delle indagini espletate".

La recente sentenza delle Sezioni Unite "Leka", pertanto, condividendo in premessa il solco interpretativo della pronuncia "Minervini", afferma, preliminarmente, che le disposizioni dell'art. 409, commi 4 e 5, cod. proc. pen. riguardanti i poteri di intervento del giudice delle indagini preliminari sull'esercizio dell'azione penale, "devono formare oggetto di interpretazione rigorosa, al fine di evitare qualsiasi ingerenza dell'organo giudicante nella sfera di autonomia della pubblica accusa".

Ed è nell'ambito di una tale rigorosa interpretazione che il Supremo Consesso definisce abnormi gli ordini di imputazione coatta formulati dal G.i.p., sia nei confronti di soggetti non precedentemente iscritti nell'apposito registro in relazione ai reati contemplati nella richiesta di archiviazione, sia, nei confronti dell'indagato in relazione a reati diversi da quelli per i quali la richiesta di archiviazione era stata formulata. Si tratta, in entrambi i casi, affermano le Sezioni Unite, di indebite ingerenze del giudice nei poteri dell'organo inquirente, il quale viene limitato non solo nel suo potere di indagare a tutto campo in relazione alle diverse ipotesi di reato e ai diversi soggetti coinvolti, ma, soprattutto, di adottare autonome determinazioni all'esito delle indagini medesime.

Sotto il profilo delle garanzie difensive, inoltre, la pronuncia pone in risalto come i soggetti non indagati in precedenza, nei confronti dei quali sia stata ordinata la formulazione dell'imputazione, non siano stati destinatari dell'avviso ex art. 409, comma 1, cod.proc. pen. e non abbiano avuto modo di partecipare all'udienza camerale ed alla conseguente discovery delle risultanze investigative.

In ordine all'impugnabilità di tali provvedimenti, le Sezioni Unite affermano che essi costituiscono provvedimenti abnormi, trattandosi di atti che, pur essendo manifestazione di un legittimo potere, si esplicano al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste dall'ordinamento, sì da determinare una stasi nel processo e l'impossibilità di proseguirlo, in particolare di atti la cui anomalia afferisce alla delimitazione dei poteri del giudice per le indagini preliminari rispetto alla sfera di autonomia dell'organo inquirente, al quale verrebbe illegittimamente imposto il compimento di atti al di fuori delle ipotesi espressamente previste dal codice di rito, con coinvolgimento dei principi di ordine costituzionale in materia.

  • Corte europea dei diritti dell'uomo
  • Convenzione europea dei diritti dell'uomo
  • impunità

CAPITOLO XXII

IL NUOVO PROCESSO IN ASSENZA DELL'IMPUTATO E LA RESCISSIONE DEL GIUDICATO

(di Pietro Silvestri )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il processo in assenza dell'imputato: il sistema precedente alla L. n. 67 del 2014. - 3 Il diritto dell'imputato di essere presente nel suo processo e le condanne inflitte dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per violazione della Convenzione. - 4 Le linee direttive del nuovo processo in absentia. - 5 Il nuovo art. 625 ter cod. proc. pen. - 6 La applicabilità del nuovo rimedio della rescissione del giudicato ai processi definiti prima della entrata in vigore della L. n. 67 del 2014. - 7 La norma transitoria prevista dalla legge 11 agosto 2014 n. 118. - 8 Le sentenze sul "nuovo" art. 175 cod. proc. pen.

1. Premessa.

Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno preso posizione sul nuovo rimedio straordinario previsto dall'art. 625 ter cod. proc. pen., chiarendone natura, presupposti, procedimento, ambito operativo.

Il rimedio della "rescissione del giudicato" è stato introdotto, contestualmente al superamento del giudizio contumaciale, dalla L. 28 aprile 2014, n. 67, che, con l'art. 11, comma 5, ha inserito nel codice di procedura penale l'art. 625-ter, recante appunto tale rubrica.

2. Il processo in assenza dell'imputato: il sistema precedente alla L. n. 67 del 2014.

Il Capo III della L. n. 67 del 2014 contiene disposizioni (artt. 9-15) che hanno ridisegnato la disciplina del processo "in absentia" dell'imputato, recependo, in larga parte, alcune delle criticità segnalate da tempo nei confronti del c.d. "processo contumaciale".

Nel sistema normativo emendato, al momento in cui, chiamato il processo, il giudice verificava la regolare costituzione delle parti in udienza preliminare o in dibattimento, l'imputato poteva essere:

a) presente, se materialmente in aula;

b) assente, se, anche se impedito, aveva chiesto o consentito che l'udienza fosse celebrata in sua assenza ovvero, se detenuto, aveva rifiutato di assistervi (art. 420-quinques c.p.p.);

c) contumace, quando non compariva, benché ritualmente citato, non fosse legittimamente impedito e non vi fosse la prova o la probabilità di una sua mancata conoscenza della citazione.

Gli elementi costitutivi della contumacia erano: 1) un fatto giuridico positivo, cioè la sussistenza di una regolare vocatio in judicium; 2) un atto giuridico negativo, cioè la mancata comparizione; 3) un atto giuridico negativo (la mancata prova), che si ricollega ad un fatto negativo (mancanza dell'impedimento) (Sez. Un., 26 settembre 2006, n. 37483, Arena).

Quanto alla insussistenza della prova della conoscenza da parte dell'imputato dell'avviso o della citazione, l'art. 420-bis c.p.p. prevedeva il dovere per il giudice di disporre la rinnovazione della notificazione quando era provato, o vi era comunque la probabilità, che l'imputato non ne avesse avuto effettiva conoscenza, nonostante la regolarità della notificazione.

La disposizione in esame costituiva una erosione del principio di conoscenza legale che regola, di norma, la materia delle notificazioni e che fa conseguire, dalla verifica della loro regolarità, la presunzione di effettiva conoscenza dell'atto da parte del destinatario.

3. Il diritto dell'imputato di essere presente nel suo processo e le condanne inflitte dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per violazione della Convenzione.

Le criticità del processo contumaciale sono emerse in maniera sempre più chiara nel corso del tempo, attesa l'interferenza dell'istituto con il diritto dell'imputato a partecipare al suo processo.

Nell'ottica di un processo a carattere accusatorio, la partecipazione dell'imputato al "suo" processo è condizione indefettibile per il regolare esercizio della giurisdizione; esso afferisce al diritto di difesa (autodifesa) e, perciò, non è "confiscabile".

Al diritto dell'imputato di partecipare al processo è stato riconosciuto rango costituzionale e da tale assunto si fanno discendere due corollari.

Il primo è quello per cui un giudizio senza imputato può essere celebrato solo a seguito di una sua opzione, anche solo ragionevolmente presunta, cosciente e volontaria, cioè responsabile.

Il secondo è che i meccanismi di tutela del diritto alla presenza sono necessari soprattutto in vista dell'attendibilità dell'esito giudiziale.

Le tappe dell'evoluzione normativa ed esegetica del rapporto fra processo contumaciale e diritto dell'imputato di essere presente al "suo" processo sono state fortemente condizionate dalle condanne inflitte all'Italia dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per violazione della Convenzione.

Le critiche si sono storicamente appuntate sull'art. 175 c.p.p. e sull'istituto della rimessione in termini.

In maniera sintetica, va evidenziato come già sotto il vigore del codice abrogato il Giudice di Strasburgo avesse ravvisato nell'ordinamento italiano una violazione della Convenzione per la mancanza di una disciplina che controbilanciasse la "fictio" della conoscenza legale - su cui si basava la disciplina in tema di notificazioni - e che permettesse, quindi, all'imputato, venuto effettivamente a conoscenza del procedimento, di ottenere una nuova pronuncia di merito. (Corte EDU, sent. 12 febbraio 1984, Colozza c. Italia).

Il legislatore italiano intervenne con la L. 23 gennaio 1989 n. 22, elaborata contemporaneamente al nuovo codice di rito, di cui, sia pure parzialmente, anticipava le soluzioni in tema di processo contumaciale e rito degli irreperibili.

La nuova disciplina non pose, però, l'Italia al riparo da nuovi giudizi innanzi la Corte europea e da nuove condanne; ciò, peraltro, non ha mai significato, secondo la Corte di Strasburgo, l'assoluta incompatibilità delle procedure contumaciali con la Convenzione, quanto, piuttosto, il potenziale conflitto delle stesse con il diritto di partecipazione dell'imputato, nel caso in cui non siano assicurate alcune condizioni.

La prima condizione riguarda l'effettiva informazione dell'imputato sulla data del processo.

La seconda concerne la previsione di strumenti che consentano all'imputato condannato "in absentia", di ottenere un riesame del merito delle accuse, una volta che sia venuto a conoscenza della condanna.

La Corte di Strasburgo, in particolare, nella sentenza Sejdovic c. Italia stabilì che vi era violazione dell'art. 6 CEDU da parte dello Stato membro a seguito della esistenza di una lacuna strutturale del sistema, costituita dall'assenza di un meccanismo effettivo volto a garantire ed attuare il diritto delle persone condannate in contumacia - non informate in maniera effettiva delle pendenze a loro carico e che non avessero rinunciato in maniera non equivoca al loro diritto a comparire- di ottenere che una giurisdizione statuisca di nuovo, dopo averle sentite e nel rispetto dell'art. 6 della Convenzione- sul merito delle accuse (Corte EDU, 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia).

Da tale principio fu fatto derivare il corollario per cui il rifiuto di "riaprire" un processo svoltosi in contumacia, ma in assenza di ogni indicazione rivelatrice della volontà dell'imputato di rinunciare al suo diritto a comparire, dovesse considerarsi come un flagrante diniego di giustizia, manifestamente contrario ai principi che ispirano il citato art. 6 della Convenzione.

A seguito dell'ennesima condanna, il legislatore italiano intervenne, modificando, nell'ambito della discrezionalità di scelta riconosciutagli dal giudice europeo, l'istituto della restituzione nel termine, nella convinzione che tale via, benché indiretta, fosse sufficiente a soddisfare le istanze di riconoscimento all'imputato del diritto ad essere informato del proprio processo e a potervi partecipare.

Con la modifica dell'art. 175 c.p.p. fu riconosciuto al contumace il diritto alla restituzione nel termine per impugnare, salvo che fosse provato che avesse avuto effettiva conoscenza del procedimento e avesse volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione ed opposizione.

Fu soppresso, in particolare, l'onere di provare, da parte del richiedente, la non conoscenza effettiva della esistenza del procedimento e l'assenza di colpa.

Il diritto alla restituzione non fu più collegato all'acquisizione della prova negativa dell'effettiva conoscenza, ma, al contrario, fu fondato sul raggiungimento di quella positiva, con la conseguenza che, qualora quest'ultima non fosse pienamente fornita, doveva essere concesso il nuovo termine all'imputato: a tal fine il giudice doveva compiere ogni necessaria verifica.

Non fu invece introdotta la previsione della regressione del procedimento laddove fosse accolta l'istanza di restituzione; l'imputato poteva proporre impugnazione avverso la sentenza contumaciale, senza, tuttavia, poter nuovamente celebrare il processo ingiustamente svoltosi in absentia e pur potendo essere disposta nel giudizio d'appello la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale.

Quanto alla effettiva informazione dell'imputato sulla data del processo, i giudici sovranazionali hanno ripetutamente affermato il principio secondo cui proprio l'effettività dell'adempimento informativo costituisce una essenziale garanzia del diritto di partecipazione in ragione della ritenuta rinunciabilità a quest'ultimo da parte dell'imputato.

È diffusa l'opinione per cui il punto di equilibrio tra l'esigenza di evitare la paralisi della pretesa punitiva statuale (che è alla base della previsione delle procedure contumaciali) e quella di tutelare il suddetto diritto è costituito dalla volontarietà della rinuncia a comparire al processo per esercitare personalmente i diritti di difesa (Tra le altre, Corte EDU Seliwiak c. Polonia, 21 luglio 2009; Kwiatkowska c. Italia, 30 novembre 2000).

È però necessario che tale volontà, qualora non espressa, risulti in maniera non equivoca; da tale necessità si fa derivare l'assunto secondo cui il primo presupposto della compatibilità convenzionale delle procedure celebrate sulla base della rinuncia implicita dell'imputato a comparire è che questi sia stato debitamente informato della data del processo e sia messo nelle condizioni di prevedere le conseguenze della sua decisione di non parteciparvi (Corte EDU, Boheim contro Italia, 22 maggio 2007; Battisti contro Francia 12 dicembre 2006; Zaratin contro Italia 23 novembre 2006; Jones contro Regno Unito 9 settembre 2003; id. Craxi contro Italia 5 dicembre 2002).

Sulla materia vi è un'ampia casistica, in cui, tra l'altro, si è stabilito che:

- pur non essendo vietato dalla Convenzione che l'avviso dell'udienza sia notificato al difensore e non anche personalmente all'imputato, è in tal caso necessaria una particolare diligenza nella valutazione della volontarietà della rinuncia (Corte EDU, Yavuz contro Austria 27 maggio 2004);

- in mancanza di una notifica all'imputato della data del processo, la rinuncia a comparire non può essere dedotta dalla semplice dichiarazione di latitanza ovvero dalla sua assenza dal proprio domicilio abituale (Corte EDU, Sejdovic c. Italia, cit.; Colozza c. Italia, cit.);

- l'onere della prova sull'intenzione dell'imputato non comparso di non essersi sottratto alla giustizia, ovvero che l'assenza non dipenda da cause di forza maggiore, non può gravare sullo stesso (Cfr.,Corte EDU, Previti c. Italia, 8 dicembre 2009; Hermi c. Italia, 18 ottobre 2006);

- in caso di contestazione non manifestamente infondata sulla conoscenza della data del processo da parte dell'imputato, è compito delle autorità interne procedere agli accertamenti necessari (Cfr., Corte EDU, Hermi contro Italia, cit.).

In tale contesto, la Corte Costituzionale, con sentenza emessa il 9 dicembre 2009, n. 317, dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 175, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non consentiva la restituzione nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale all'imputato, che non avesse avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, quando analoga impugnazione fosse stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato.

Nell'occasione la Corte enucleò un contenuto essenziale sovranazionale del diritto di difesa dell'imputato contumace: in particolare, mutuandone le componenti dal diritto vivente elaborato dalla giurisprudenza della CEDU, affermò che: «a) l'imputato ha il diritto di esser presente al processo svolto a suo carico; b) lo stesso può rinunciare volontariamente all'esercizio di tale diritto; c) l'imputato deve essere consapevole dell'esistenza di un processo nei suoi confronti; d) devono esistere strumenti preventivi o ripristinatori, per evitare processi a carico di contumaci inconsapevoli o per assicurare in un nuovo giudizio, anche mediante la produzione di nuove prove, il diritto di difesa che non è stato possibile esercitare personalmente nel processo contumaciale già concluso».

Anche quest'intervento, tuttavia, non valse a placare le critiche rivolte da chi considerava inadeguato l'art. 175 cod. proc. pen. a far fronte alla carenze sistemiche e sempre più pressante è stato nel tempo l'auspicio de jure condendo di una complessiva rivisitazione del rito contumaciale.

4. Le linee direttive del nuovo processo in absentia.

La legge n. 67 del 2014 recepisce alcune delle criticità segnalate e innova la disciplina del processo "in assenza" dell'imputato, introducendo "la sospensione del procedimento nei confronti degli imputati irreperibili".

Le nuove disposizioni:

a) eliminano, quasi integralmente, i riferimenti alla contumacia, ridisegnando i presupposti, in presenza dei quali, il processo può essere celebrato in assenza dell'imputato;

b) non modificano la disciplina delle notificazioni all'imputato e, in particolare, l'istituto della irreperibilità (artt. 159-160 cod. proc. pen.);

c) introducono l'istituto della sospensione del processo per coloro per i quali vi non è la prova né della conoscenza della data della udienza, né dell'esistenza del procedimento;

d) prevedono strumenti restitutori volti a garantire, nel caso di illegittima celebrazione del processo in assenza, la regressione e, quindi, la celebrazione di un nuovo "processo" in cui esercitare il diritto di difesa limitato in quello "ingiustamente" celebrato in assenza.

Sul piano generale, la disciplina si articola avendo come riferimento tre categorie di situazioni, e cioè che al momento della costituzione delle parti, in sede di udienza preliminare o dibattimentale:

1) vi sia la prova certa della conoscenza da parte dell'imputato della data della udienza e questi abbia espressamente rinunciato a parteciparvi;

2) non vi sia la prova certa della conoscenza dell'imputato della data della udienza, ma, al contempo, vi siano una serie di "fatti o atti" sintomatici da cui si fa discendere, direttamente o indirettamente, la prova che l'imputato sia a conoscenza della esistenza del procedimento penale nei suoi riguardi;

3) non vi sia la prova certa della conoscenza da parte dell'imputato né della data dell'udienza, né della esistenza del procedimento penale.

In riferimento alla situazione sub 1), ove si abbia la prova certa della conoscenza da parte dell'imputato della data della udienza e vi sia rinuncia ad assistervi, il processo potrà essere celebrato in assenza.

Quando, invece, in relazione alla situazione sub 2), si abbia la prova della sola conoscenza da parte dell'imputato della esistenza del procedimento penale, il novellato art. 420bis, cod. proc. pen., fa conseguire la possibilità di celebrare il processo in assenza, ma, al contempo, prevede rimedi restitutori ove venga accertata la incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo (art. 420-bis, comma 4).

Alla terza situazione consegue la sospensione del processo (art. 420-quater cod. proc. pen.).

La disciplina viene altresì completata con rilevanti modifiche in tema di dibattimento (art. 10), di impugnazioni e di restituzione in termini (art. 11) e di prescrizione (art. 12).

Il problema principale che si posto all'indomani della entrata in vigore delle nuove disposizioni è stato è stato quello di definire, da una parte, i casi in cui il processo avrebbe dovuto essere sospeso, e, dall'altra, i casi in cui si sarebbe potuto procedere anche in assenza dell'imputato, perché, pur in assenza della prova certa della conoscenza della udienza, si è tuttavia ragionevolmente certi che questi sia a conoscenza del "fatto" che si stia procedendo nei suoi confronti.

Il tema, cioè, è quello di stabilire quando si può ritenere la conoscenza dell'udienza o del procedimento da parte dell'imputato del processo e quando, invece, si deve sospendere il processo perché si reputa, o si teme, che manchi tale conoscenza.

5. Il nuovo art. 625 ter cod. proc. pen.

In tale contesto, l'art. 11, comma 5, della legge n. 67 del 2014 ha introdotto l'art. 625-ter c.p.p., relativo alla rescissione del giudicato.

Il presupposto del rimedio straordinario è costituto dalla esistenza di una sentenza di condanna, ovvero applicativa di una misura di sicurezza, passata in giudicato ed emessa all'esito di un processo celebrato, per tutta la sua durata, in assenza dell'imputato.

L'interessato che abbia saputo del processo solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza, può, chiedere "la rescissione del giudicato", provando che l'assenza è stata dovuta ad una incolpevole ignoranza del processo.

In mancanza di una specifica disciplina, si è sostenuto che la richiesta dovrebbe essere depositata nella cancelleria del giudice che ha pronunciato il provvedimento divenuto irrevocabile - secondo il dettato generale dell'art. 582 cod. proc. pen. - a pena di inammissibilità, personalmente dall'interessato o da difensore munito di procura speciale autenticata secondo le forme dell'art. 583 (e quindi anche dal difensore stesso, come del resto l'art. 122 cod. proc. pen. stabilisce).

Nel caso di accoglimento, la Corte di cassazione dispone la revoca della sentenza e la trasmissione degli atti al giudice di primo grado con specifica previsione di applicabilità dell'art. 489, comma 2, cod. proc. pen., e, quindi, con possibilità per l'imputato di chiedere un rito alternativo.

In considerazione del nuovo mezzo straordinario di impugnazione, l'art. 11, comma 6, della legge ha modificato l'art. 175, comma 2, cod. proc. pen., il cui ambito applicativo è ora limitato all'ipotesi di decreto penale di condanna divenuto esecutivo senza che il condannato ne abbia avuto tempestivamente effettiva conoscenza, sempre che non vi sia stata rinuncia espressa all'opposizione.

Il rimedio straordinario opera, peraltro, senza limiti temporali, cioè da quando si è formato il giudicato.

All'indomani della entrata in vigore della nuova disposizione sono stati segnalati numerosi profili di criticità del nuovo istituto.

Si è evidenziato come non si rinvenga: a) alcuna previsione, a differenza di quanto previsto dall'art. 670 cod. proc. pen., in ordine alla eventuale sospensione della esecuzione; b) alcun riferimento ai soggetti eventualmente legittimati ad intervenire nel giudizio in cassazione; c) nessuna indicazione sulla procedura da seguire.

Su alcuni di tali profili sono intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. Un. 17 luglio 2014, n. 36848, Burba, Rv. 259990-91-92).

Quanto alla natura, la Corte di cassazione, qualificato espressamente il nuovo rimedio come un mezzo straordinario di impugnazione, ha escluso che il ricorso debba essere presentato presso la stessa Corte di cassazione, ritenendo invece applicabile, proprio in considerazione della affermata natura di mezzo di impugnazione, l'art. 582 cod. proc. pen., che fa riferimento alla "cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato", da intendere come "cancelleria del giudice la cui sentenza è stata posta in esecuzione".

Quanto al procedimento, si è affermato che la Corte decide de plano, senza cioè acquisire il parere del Procuratore Generale, solo se il prevedibile esito della richiesta sia di inammissibilità o di manifesta infondatezza, e ciò all'esito di una sommaria valutazione in sede di esame preliminare da parte del Primo Presidente, ex art. 610, comma 3, cod. proc. pen. ; al di fuori di tale ipotesi, il ricorso viene deciso in camera di consiglio senza intervento delle parti, ex art. 611 cod. proc. pen., esclusa dunque la forma camerale partecipata ex art. 127 cod. proc. pen., e, tanto più, quella della udienza pubblica.

Quanto, invece, alla possibilità di disporre la sospensione della esecuzione della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 625-ter cod. proc. pen., la Corte, nel silenzio della legge, ha ritenuto, sulla base di una interpretazione di sistema, di ammettere tale possibilità.

Un aspetto che deve essere evidenziato è che in tema di restituzione nel termine per il contumace l'art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nella formulazione emendata, stabiliva che operasse "di diritto" la restituzione nel termine, salvo che l'imputato avesse avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e avesse volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione, con conseguente onere per l'autorità giudiziaria di accertare la eventuale sussistenza di tali condizioni.

Il testo del nuovo art. 625-ter sembra nuovamente invertire tale onere probatorio, stabilendo espressamente che debba essere il condannato a provare «che l'assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo».

Sul punto le Sezioni unite hanno affermato la plausibilità della previsione normativa in esame, in ragione degli specifici accertamenti ora demandati al giudice ai fini della verifica dei presupposti per la dichiarazione di assenza di cui al novellato art. 420-bis cod. proc. pen.

L'entità degli accertamenti preventivi sarebbe cioè bilanciata con la previsione che impone l'onere della prova a carico del condannato.

6. La applicabilità del nuovo rimedio della rescissione del giudicato ai processi definiti prima della entrata in vigore della L. n. 67 del 2014.

Le Sezioni unite hanno affrontato e risolto la questione del se il nuovo istituto della rescissione del giudicato possa trovare applicazione ai processi definiti prima della entrata in vigore della L. n. 67 del 2014.

La Corte ha affermato che l'istituto della rescissione del giudicato si applica solo ai procedimenti nei quali è stata dichiarata l'assenza dell'imputato a norma dell'art. 420-bis cod. proc. pen., come modificato dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, mentre, invece, ai procedimenti contumaciali definiti secondo la normativa antecedente alla entrata in vigore della legge indicata, continua ad applicarsi la disciplina della restituzione nel termine per proporre impugnazione dettata dall'art. 175, comma secondo, cod. proc. pen. nel testo previgente.

Con il principio indicato, la Corte ha posto a fondamento della decisione il principio per cui l'art. 625-ter c.p.p., riferendosi al condannato "nei cui confronti si sia proceduto in assenza per tutta la durata del processo", non potrebbe riguardare le vecchie figure del "contumace", e dell'"assente", secondo la nozione vigente prima delle legge n. 67 del 2014.

Secondo la Corte, il riferimento all'imputato assente, contenuto nell'art. 625 ter c.p.p., non potrebbe che riguardare la nuova figura di assente, così come delineata ai sensi dell'art. 420-bis c.p.p., come sostituito dalla L. n. 67 del 2014.

Da tale presupposto si fa discendere il corollario per cui "per i processi definiti, anche solo nei gradi di merito, antecedentemente alla entrata in vigore della L. n. 67 del 2014, non può dunque profilarsi, in mancanza di espresse previsioni normative, alcuna questione di diritto intertemporale, essendo evidente che essi, svoltisi secondo il regime contumaciale o secondo quello della assenza, come anteriormente disciplinati, non potrebbero risentire del jus superveniens, che si riferisce esplicitamente a un imputato "assente" nei termini definiti dalla nuova disciplina".

7. La norma transitoria prevista dalla legge 11 agosto 2014 n. 118.

Dopo la pronuncia delle Sezioni unite in esame è entrata in vigore la L. 11 agosto 2014 n. 118, che ha introdotto, nella legge n. 67 del 2014, l'art. 15-bis avente ad oggetto norme transitorie.

Si tratta di un articolo, strutturato in due commi, che pone due regole, una generale ed una a carattere residuale.

La regola generale, contenuta nel primo comma, esclude la applicabilità delle norme previste dalla L. n. 67 del 2014 ai procedimenti in corso in cui sia stato pronunciato, alla data in vigore della legge contenente la norma transitoria, il dispositivo della sentenza di primo grado.

Le nuove norme, quindi, non trovano applicazione in tutti i processi in corso in corte di appello o in corte di cassazione ovvero per quelli per i quali sia stato comunque pronunciato il dispositivo della sentenza di primo grado, ancorché la motivazione della sentenza non sia stata ancora depositata.

La regola residuale, contenuta nel comma secondo, stabilisce invece il principio della immediata applicazione delle nuove norme a tutti i procedimenti, in corso alla data di entrata in vigore della legge, nei quali l'imputato sia stato dichiarato contumace e sia stato emesso il decreto di irreperibilità.

Si tratta di una norma il cui contenuto non chiarisce se le disposizioni previste dalla L. n. 67 del 2014 debbano trovare applicazione in tutti i processi per i quali l'imputato contumace sia stato dichiarato irreperibile, oppure, come potrebbe ipotizzarsi in considerazione dei principi generali cui la L. n. 67 del 2014 sembra ispirata, solo nei casi in cui l'imputato contumace sia stato dichiarato irreperibile per la notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare o per la notificazione del decreto di rinvio a giudizio e non sussista alcuna delle situazioni da cui la legge fa discendere la prova dalla conoscenza della esistenza del procedimento (si pensi all'ipotesi in cui l'imputato, prima di rendersi irreperibile abbia nominato un difensore di fiducia che abbia dichiarato di non voler ricevere le notifiche ai sensi dell'art. 157, comma 8-bis, c.p.p.).

Per questi ultimi processi il giudice deve verificare se il giudizio possa essere celebrato alla luce delle nuove norme sulla assenza dell'imputato ovvero se debba essere sospeso.

8. Le sentenze sul "nuovo" art. 175 cod. proc. pen.

Quanto al "nuovo" art. 175 cod. proc. pen. e alla norma transitoria della legge n. 67 del 2014, deve essere segnalata Sez. IV, 30 settembre 2014, n. 43478, Tessitore, Rv. 260311260312, secondo cui ai fini della operatività della norma transitoria relativa alla nuova disciplina dettata per la restituzione nel termine di cui al secondo comma dell'art. 175 cod. proc. pen., come modificato dall'art. 11 della L. 28 aprile 2014, n. 67, la pronuncia del dispositivo della sentenza di primo grado non è equiparabile all'emissione del decreto penale di condanna.

La Corte ha escluso che detta equiparazione, pur ritenuta dalla giurisprudenza formatasi in tema di prescrizione, possa essere affermata sulla base della mera assonanza del momento processuale (ossia la pronuncia del dispositivo della sentenza di primo grado), individuato - dalla norma transitoria dell'articolo 15-bis della L. n. 67 del 2014 - ai fini dell'applicabilità delle norme di cui al Capo III della legge in questione con l'analogo discrimine indicato dal «diritto vivente» con riguardo all'interpretazione dell'art. 10, comma 3, della L. n. 251 del 2005, dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale nella parte in cui escludeva l'applicabilità dei termini di prescrizione più brevi ai processi «già pendenti in grado di appello» (Corte cost., sent., 11 ottobre 2006, n. 393; cfr., Sez. Un., 29 ottobre 2009, n. 47008, D'Amato, Rv. 244810; Sez. VI, 22 ottobre 2008, n. 13523/09, De Lucia, Rv. 243826).

La Corte ha inoltre affrontato la questione del se, sulla base dei principi introdotti dalla L. n. 67 del 2014, di cui si è in parte detto, il legislatore, scorporando dalla disciplina dell'art.175, comma 2, cod. proc. pen. il processo contumaciale, abbia inteso individuare, anche con riguardo al procedimento per decreto, alcune ipotesi nelle quali si possa presumere l'effettiva conoscenza del provvedimento in capo al destinatario del decreto penale di condanna, in aggiunta a quella della notificazione al difensore di fiducia, già indicata dalla giurisprudenza di legittimità dopo la modifica del 2005.

L'art. 175, comma 2, cod. proc. pen. nella sua più recente formulazione si riferisce infatti al solo decreto penale di condanna ed al solo imputato «che non ha avuto tempestivamente effettiva conoscenza del provvedimento». Oltre alle inevitabili modifiche subite da questa disposizione nelle parti che riguardavano il processo contumaciale, per quanto concerne il procedimento per decreto, nella previsione normativa è stata confermata la clausola di salvaguardia relativa alla rinuncia volontaria a proporre opposizione, mentre è stata espunta la clausola di salvaguardia che si riferiva all'effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento.

La sola mancata conoscenza, tempestiva ed effettiva, del provvedimento viene, ora, indicata quale presupposto di applicazione della norma; è stata inoltre espunta la disposizione in base alla quale «A tal fine l'autorità giudiziaria compie ogni necessaria verifica».

Sulla base di tale quadro di riferimento, secondo la sentenza, l'art. 175, comma 2, cod. proc. pen. deve essere interpretato tenendo conto delle modifiche testuali sopra indicate e, in particolare, del venir meno delle esigenze proprie del processo contumaciale, che avevano costituito la principale ragion d'essere delle modifiche apportate nel 2005 all'onere probatorio in materia; si è osservato che la natura speciale del procedimento per decreto ed il riferimento normativo alla necessità che il condannato sia a conoscenza del provvedimento, non anche solo del procedimento, non consentono di applicare, ai fini della rimessione in termini, i criteri presuntivi di conoscenza del procedimento indicati dall'art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen. nel testo emendato, tanto più ove si consideri che, a norma dell'art. 461, comma 2, cod. proc. pen., la dichiarazione di opposizione deve indicare a pena d'inammissibilità gli estremi del decreto di condanna, la data del medesimo ed il giudice che lo ha emesso, escludendo la possibilità di equiparare alla conoscenza del provvedimento la conoscenza di uno qualsiasi degli atti compiuti durante l'iter procedimentale che ha preceduto l'emissione del decreto di condanna.

Sulla base di tali considerazioni si è ritenuto che, in presenza di un'istanza di restituzione in termini per proporre opposizione a decreto penale di condanna, il giudice sia ora tenuto a verificare solo che l'istante versi nella condizione di colui che non abbia avuto tempestivamente effettiva conoscenza del provvedimento sulla base di quanto allegato, escluso l'onere a carico dell'autorità giudiziaria di compiere le necessarie verifiche, rimanendo invece a carico dell'istante le conseguenze del mancato superamento dell'incertezza circa l'effettiva conoscenza del provvedimento ritualmente notificato (Nello stesso senso, sostanzialmente, Sez. II, 12 giugno 2014, n. 28942, Modena, Rv. 260261).

  • regime penitenziario
  • stabilimento penitenziario

CAPITOLO XXIII

I DIRITTI DEI DETENUTI: LA GIURISPRUDENZA DOPO LA SENTENZA TORREGIANI

(di Francesca Costantini )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le modalità di determinazione dello spazio individuale minimo. - 3 La competenza a pronunciarsi sulle domande risarcitorie.

1. Premessa.

Successivamente ai ripetuti arresti della Corte EDU in tema di sovraffollamento carcerario ed in particolare a seguito della sentenza pilota emessa dalla Corte europea nel caso Torreggiani c. Italia, con la quale è stata affermata la necessità che l'Italia introducesse adeguati rimedi di natura preventiva e compensativa in relazione al pregiudizio sofferto dai detenuti a causa del sovraffollamento strutturale delle carceri italiane in violazione dell'art. 3 CEDU, la magistratura italiana è intervenuta facendo ricorso agli strumenti offerti dall'ordinamento sia in via preventiva, per la cessazione della violazione, che compensativa, per la riparazione del diritto violato, al fine di offrire adeguata tutela ai diritti soggettivi dei detenuti. Conseguentemente anche la Corte di cassazione ha avuto modo di pronunciarsi sul tema in esame con riferimento ad entrambi i profili evidenziati, affrontando da un lato la questione relativa alle specifiche modalità di verifica della sussistenza dello spazio vitale minimo che sulla scorta dei principi affermati dalla Corte sovranazionale deve essere garantito ad ogni detenuto e dall'altro la questione attinente alla competenza a pronunciarsi sulla domanda di risarcimento eventualmente avanzata dai detenuti per i danni morali patiti.

2. Le modalità di determinazione dello spazio individuale minimo.

Con le sentenze Sez. I, 19 dicembre 2013, n. 5728/14, Berni, Rv. 257924, e Sez. I, 19 dicembre 2013, n. 5729/14, Carnoli, la Suprema corte ha affrontato, con specifico riferimento alle competenze del Magistrato di sorveglianza, la questione relativa alle modalità di accertamento della sussistenza delle condizioni integratrici della violazione dell'art. 3 della Convenzione in danno dei detenuti, affermando che il giudice del reclamo, ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti, deve scomputare dalla superficie lorda della cella l'area occupata dagli arredi.

Nei due casi esaminati dalla Corte, il Magistrato di sorveglianza aveva accolto il reclamo del detenuto relativamente alla doglianza inerente lo spazio disponibile all'interno della camera detentiva, disponendo che le autorità competenti adottassero le determinazioni conseguenti, compresa la allocazione del reclamante in un altro locale di pernottamento che garantisse uno spazio minimo individuale pari o superiore a tre metri quadrati.

Le ordinanze si fondavano sulla considerazione che i ricorrenti erano ristretti insieme ad altri detenuti e lo spazio a disposizione di ciascuno degli occupanti era di 3.03 m²; detratto l'ingombro del mobilio, tuttavia, lo spazio effettivamente disponibile era di 2.85 m² «nettamente al di sotto del limite vitale di 3 m² stabilito dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo».

Avverso tale ordinanza proponeva ricorso il Procuratore della Repubblica deducendo l'errore di diritto da parte del Magistrato di sorveglianza per aver sottratto dal computo della superficie utile l'area occupata dall'armadietto.

Ad avviso del ricorrente, infatti, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha sempre fatto riferimento in via esclusiva alle sole dimensioni dell'immobile, senza tener conto della "ovvia presenza di mobili", inoltre, il riferimento al mobilio, contenuto nella sentenza Torreggiani sarebbe estrapolato dagli argomenti delle parti e dovrebbe valutarsi come una mera argomentazione aggiuntiva, rafforzativa del giudizio. Sul punto, inoltre, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sarebbe oscillante in quanto, con riferimento alla questione controversa relativa alla necessità o meno di conteggiare la metratura utile al netto del mobilio, mentre nelle sentenze relative agli analoghi casi Sulejmanovic c. Italia e Tellissi c. Italia non si fa cenno all'arredamento, nella sentenza Torreggiani il riferimento all'arredo rappresenterebbe "solo una coloritura della conclusione" della Corte, atteso che in caso contrario la pronuncia avrebbe menzionato in dettaglio pure la metratura occupata dal mobilio.

La Corte, pur dichiarando l'inammissibilità del ricorso, ha esaminato la questione ricordando che, nel sancire il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, l'art. 3 CEDU non ha tipizzato le condotte integratrici della violazione del divieto, né, analogamente, l'art. 27, comma 2, Cost. ha stabilito alcuno specifico canone per la determinazione dei trattamenti vietati. Altresì, nonostante l'art. 6 Ord. Pen. prescriva che i locali in cui si svolge la vita dei detenuti devono essere di "ampiezza sufficiente" il corrispondente art. 6 del Regolamento penitenziario non prevede alcun parametro metrico di riferimento.

Nel caso di specie, pertanto, in difetto di alcuna disposizione normativa e legislativa o codicistica, il Magistrato di sorveglianza si è esattamente uniformato al criterio stabilito dalla Corte di Strasburgo nella citata sentenza pilota, avendo scomputato dalla superficie lorda della cella del reclamante lo spazio occupato dall'arredo fisso.

La Corte non ha ritenuto, infatti, condivisibili le argomentazioni del pubblico ministero fondate sulla mancata specificazione della superficie di ingombro da parte della Corte EDU, rilevando che nel caso sottoposto alla cognizione dei giudici di Strasburgo si era accertato che la superficie della cella era pari al limite minimo di 3 m² e pertanto "sarebbe stata affatto superflua e irrilevante la determinazione dello spazio occupato dal mobilio, in quanto necessariamente l'ingombro - a prescindere dalla ampiezza della superficie occupata - comportava indefettibilmente l'inosservanza dello standard dei tre metri quadrati".

3. La competenza a pronunciarsi sulle domande risarcitorie.

Come evidenziato in premessa, la Suprema corte si è pronunciata anche sul piano della ricerca di rimedi compensativi interni che ad avviso della Corte di Strasburgo devono comunque essere presi in considerazione congiuntamente a quelli di natura preventiva per la soluzione dell'emergenza del sovraffollamento, al fine di garantire una effettiva tutela al diritto convenzionalmente riconosciuto a non essere sottoposti a pene o trattamenti inumani o degradanti, non solo facendo cessare eventuali violazioni in essere ma anche offrendo adeguato ristoro al detenuto per le violazioni già avvenute.

In particolare, a fronte di alcune pronunce della magistratura di sorveglianza che avevano riconosciuto un diritto al risarcimento dei danni subiti per la lesione dei diritti soggettivi dei detenuti a causa delle condizioni di sovraffollamento dell'istituto penitenziario, in contrasto con i limiti minimi esigibili previsti dalla giurisprudenza europea, la Corte di cassazione ha escluso che il magistrato di sorveglianza abbia competenza a conoscere della relativa domanda risarcitoria.

Tale principio è stato affermato da Sez. I, 15 gennaio 2013, n. 4772, Vizzari, Rv. 254271 e successivamente ribadito in termini del tutto sovrapponibili, dalle sentenze Sez. I, 21 maggio 2013, n. 29971, Ministero della Giustizia, Rv. 256418; Sez. I, 27 settembre 2013, n. 42901, Greco, Rv. 257161; Sez. I, 15 novembre 2013, n. 3803/14, Musardo, Rv. 258745, e Sez. I, 15 novembre 2013, n. 3805/14, Odia. In tali pronunce la Corte ha precisato che per la materia risarcitoria ed indennitaria il sistema normativo prevede in via generale la sua attribuzione alla giurisdizione civile salve alcune eccezioni che, in quanto tali, devono essere specificamente previste dalla normativa come ad esempio, la domanda risarcitoria del danneggiato da un reato costituito parte civile (art. 74 cod. proc. pen.) o quella per ingiusta detenzione (art. 314 cod. proc. pen.) od anche per riparazione dell'errore giudiziario (art. 643 cod. proc. pen.).

Una tale attribuzione non si rinviene in materia penitenziaria, laddove non è prevista alcuna competenza di natura risarcitoria o indennitaria in capo alla magistratura di sorveglianza che, ai sensi dell'art. 69 Ord. Pen. , ha quale funzione precipua quella di vigilare sulla organizzazione degli istituti di prevenzione e pena impartendo disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati, in funzione, dunque, preventiva di ulteriori violazioni e non già risarcitoria per quelle già avvenute.

Altresì, l'art. 35 Ord. Pen. prevede che detenuti ed internati possano rivolgere istanze o reclami, orali o scritti e "per quanto se ne voglia dare interpretazione dilatata, non è chi non veda come la stessa terminologia sia lontana da quella che può contrassegnare l'inizio di un'azione civile a contenuto risarcitorio". Al fine di far valere un diritto in giudizio, inoltre, occorre proporre domanda al giudice competente e ciò anche allorquando tale diritto venga azionato in sede penale laddove espressamente previsto dalla legge (artt. 74, 314 e 643 cod. proc. pen.). Ne discende che deve escludersi l'esistenza in capo al Magistrato di sorveglianza di un potere di condanna di natura civilistica a cui possa farsi corrispondere una facoltà di analoga richiesta in capo al detenuto. Il Magistrato di sorveglianza resta un giudice che sovrintende all'esecuzione della pena con il potere di impartire disposizioni all'Amministrazione volte a far cessare eventuali compressioni dei diritti soggettivi dei detenuti con un accertamento di carattere prettamente incidentale e preventivo, ma non ha una competenza esclusiva su tutte le questioni derivanti da pretese violazioni di tali diritti, pur se collegate all'esecuzione della pena.

A fronte dell'inadeguatezza e dell'insufficienza della normativa vigente la Corte ha affrontato, da ultimo, la questione relativa alle strade percorribili al fine di ottemperare alle indicazioni impartite dalla Corte EDU per assicurare che in ambito carcerario vengano rispettati i diritti fondamentali della persona. Sotto tale profilo, infatti, le sentenze europee sopra richiamante hanno investito sostanzialmente tre piani diversi ma tra loro funzionalmente collegati: 1) un nuovo disegno delle previsioni sanzionatorie e delle modalità di esecuzione, con più ampio ricorso alle misure alternative, ed un rafforzamento delle strutture logistiche; 2) un sistema che assicuri effettività alla sollecita eliminazione delle violazioni in concreto rilevate; 3) un esito compensativo per chi abbia sofferto violazione dei diritti fondamentali. Mentre il primo profilo è di competenza del Legislatore, in merito agli altri due la Corte ha precisato che il giudice nazionale non può esimersi dal procedere alla ricognizione del sistema anche con interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata. In tal senso allora, con riguardo ai rimedi di carattere preventivo, il reclamo di cui all'art. 35 Ord. Pen., come anche evidenziato dalla stessa Corte europea nella sentenza Torreggiani, pur essendo astrattamente praticabile risulterebbe in concreto del tutto inadeguato proprio in considerazione della incapacità delle strutture di far fronte al sovraffollamento carcerario, mentre, per quanto riguarda la tutela risarcitoria, che pure si impone, l'attuale normativa, per le ragioni sopra esposte, escluderebbe il profilo compensativo dall'ambito di competenza della Magistratura di Sorveglianza.

Ciò posto, ed in considerazione della nota lunghezza della via dell'azione risarcitoria in sede civile, comunque ritenuta allo stato unica percorribile, sarebbe auspicabile ad avviso della Corte un intervento a livello legislativo al fine di adeguare l'ordinamento "sul piano dei più efficaci rimedi preventivi e, per quel che qui interessa, compensativi". A fronte della inammissibilità del reclamo eventualmente proposto ex art. 35 Ord. Pen., al fine di ottenere il risarcimento del danno, la Suprema corte ha comunque precisato, con sentenza Sez. I, 30 ottobre 2014, n. 50724, Meneghetti, che il Magistrato di sorveglianza non potrà in ogni caso esimersi dall'accertare le denunciate situazioni di fatto lesive dei diritti soggettivi dei detenuti eventualmente verificatesi durante l'espiazione della pena proprio in quanto costituenti titolo per azionare la domanda risarcitoria nelle competenti sedi.

Sul tema, occorre da ultimo dare conto che la lacuna evidenziata dalla Suprema corte è stata colmata dal Legislatore che è di recente intervenuto in materia mediante l'introduzione, con il decreto legge 26 giugno 2014, n. 92, convertito nella legge 11 agosto 2014, n. 117, di specifici rimedi risarcitori in favore dei detenuti vittime di sovraffollamento carcerario. In particolare con l'articolo 35-ter, aggiunto alla legge sull'Ordinamento Penitenziario (26 luglio 1975, n. 354), si è previsto che il Magistrato di sorveglianza disponga, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante i quali il detenuto richiedente si sia trovato in una situazione di sovraffollamento secondo gli standard individuati dalla giurisprudenza europea e dunque abbia subito un trattamento inumano e degradante. Nel caso, inoltre, in cui il periodo di pena ancora da espiare sia tale da non consentire l'indicata detrazione o si tratti di una pena inferiore ai quindici giorni, viene attribuita al Magistrato di sorveglianza la competenza a provvedere alla liquidazione a titolo di risarcimento del danno, di una somma di denaro pari a euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale il richiedente abbia subito il pregiudizio. Diversamente, qualora non possa trovare applicazione tale particolare rimedio risarcitorio trattandosi di soggetti che hanno subito la lesione in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere, la norma riconosce il diritto di agire, per il risarcimento del danno patito, dinanzi al Tribunale civile che deciderà nelle forme di cui all'art. 737 e seguenti del codice di procedura civile.

  • arresto
  • estradizione

CAPITOLO XXIV

MANDATO D'ARRESTO EUROPEO ED ESTRADIZIONE

(di Alessandro D'Andrea, Vittorio Pazienza )

Sommario

Premessa.

. Premessa.

L'elaborazione giurisprudenziale sul tema ha registrato, anche nel corso del 2014, il deposito di diverse rilevanti decisioni della Corte di cassazione.

Si farà riferimento, anzitutto, all'importante intervento delle Sezioni unite (Sez. Un., 28 novembre 2013, n. 2850/2014, Pizzata, Rv. 257433) sulla questione relativa all'individuazione del giudice funzionalmente competente alla emissione del mandato di arresto europeo.

Sempre in relazione al m.a.e., si farà poi cenno ad una serie di decisioni che si sono occupate di alcuni motivi di rifiuto della consegna individuati dall'art. 18 della legge 22 aprile 2005, n. 69, anche in relazione al rapporto tra tali disposizioni ostative e quelle, di origine soprattutto sovranazionale, che disciplinano ulteriori aspetti della cooperazione internazionale, quale il mutuo riconoscimento delle sentenze di condanna a pene detentive in vista della loro esecuzione in ambito UE, ovvero che concorrono a regolare istituti di centrale rilievo nell'ordinamento, come la prescrizione o il principio del ne bis in idem. Verrà altresì richiamata un'altra pronuncia della Suprema corte che ha offerto, in motivazione, un'ampia panoramica del sistema delle misure cautelari in ambito m.a.e.

Anche quanto alla materia estradizionale, si soffermerà in primo luogo l'attenzione su alcune pronunce che, da varie angolazioni, hanno affrontato il tema delle situazioni ostative all'accoglimento della domanda di estradizione, con particolare riferimento ai criteri di individuazione dalla natura "politica" del reato, alle modalità di accertamento del pericolo di sottoposizione dell'estradando a trattamenti disumani o degradanti nel Paese richiedente, nonché alle implicazioni derivanti dalla possibilità che, all'estradando, venga irrogata una pena detentiva a vita.

Inoltre, verranno richiamate altre due interessanti decisioni della Suprema corte (relative a domande di estradizione formulate dalle Autorità argentine) concernenti, da un lato, il tema dei gravi indizi di colpevolezza nell'ipotesi in cui la convenzione bilaterale applicabile non preveda la valutazione di tale requisito da parte dello Stato italiano, e, dall'altro, le marcate criticità riconducibili - con specifico riferimento al principio della c.d. doppia incriminazione - alla non ancora avvenuta introduzione, nel nostro ordinamento, del reato di tortura.

  • arresto

SEZIONE I

La competenza ad emettere il mandato di arresto europeo

(di Alessandro D'Andrea )

Sommario

1 La competenza ad emettere il mandato d'arresto europeo.

1. La competenza ad emettere il mandato d'arresto europeo.

La sentenza Sez. Un., 28 novembre 2013, n. 2850/2014, Pizzata, Rv. 257433, ha risolto la questione, a lungo dibattuta in giurisprudenza, relativa all'individuazione, relativamente alla procedura attiva di consegna, dell'autorità competente ad emettere il mandato di arresto europeo per l'esecuzione della misura cautelare della custodia in carcere o degli arresti domiciliari, anche per il conseguimento dell'assenso alla consegna suppletiva.

Tale questione era insorta in ragione di un difetto di coordinamento legislativo che aveva determinato l'origine di due distinte opzioni interpretative, l'una di natura letterale e l'altra di tipo logico-sistematico.

In adesione a tale secondo orientamento, le Sezioni Unite hanno dato soluzione alla problematica "se la competenza funzionale ad emettere il mandato d'arresto europeo per l'esecuzione di una misura cautelare spetti al giudice che l'ha applicata, anche se il procedimento penda davanti ad un giudice diverso, oppure al giudice che procede", affermando che la competenza spetta al giudice che procede, e quindi al giudice competente per la gestione della misura e non già al decidente che l'abbia originariamente applicata.

La questione, in particolare, era stata determinata dalla non univoca interpretazione della lettera dell'art. 28, comma 1, lett. a), legge 22 aprile 2005, n. 69, per la quale "il mandato d'arresto europeo è emesso dal giudice che ha applicato la misura cautelare della custodia in carcere o degli arresti domiciliari". Nessun supporto ermeneutico, d'altro canto, può essere in proposito desunto dalla Decisione quadro 2002/584/GAI - relativa al mandato di arresto europeo ed alle procedure di consegna tra gli Stati membri dell'U.E. - che non individua, a livello europeo, l'autorità giudiziaria competente ad emettere, o ad eseguire, un m.a.e., stante il rinvio da essa disposto alle differenti scelte discrezionali assunte dai vari legislatori interni.

In applicazione di tale parametro normativo, quindi, la citata disposizione dell'art. 28 legge n. 69 del 2005 ha introdotto, nel nostro sistema, un criterio di riparto della competenza "attiva" per cui il mandato di arresto europeo può essere emesso: dal giudice che ha applicato la misura cautelare della custodia in carcere o degli arresti domiciliari (m.a.e. emesso per finalità "processuali"); dal p.m. presso il giudice dell'esecuzione che ha emesso, ex artt. 656 ss. cod. proc. pen., l'ordine di esecuzione della pena detentiva o della misura di sicurezza a carattere detentivo ordinata con la sentenza (m.a.e. emesso per finalità "esecutive").

La competenza viene attribuita, in sostanza, sulla base del provvedimento la cui esecuzione l'euromandato tende a soddisfare.

L'imprecisa formulazione letterale dell'indicato testo normativo dell'art. 28, comma 1, lett. a), legge n. 69 del 2005, non coordinato con le regole generali che presiedono all'individuazione del giudice competente in ordine alle misure cautelari (artt. 279 cod. proc. pen. e 91 disp. att. cod. proc. pen.), ha finito per creare delle notevoli complicazioni di carattere pratico ed applicativo, soprattutto perché il testo normativo, ove inteso in senso letterale e restrittivo, assegna una competenza "ultrattiva" al giudice che ha adottato la misura cautelare, sussistente pure per l'emissione del m.a.e. in fasi o gradi successivi.

Proprio in considerazione di tali aspetti, e dei profili problematici posti dall'applicazione dell'art. 28 della legge n. 69 del 2005, la Suprema Corte ha inizialmente assunto un orientamento esegetico per cui la competenza ad emettere il m.a.e. è stata riconosciuta in favore dell'autorità giudiziaria procedente. A partire dalla pronuncia Sez. I, 29 aprile 2008, n. 26635, confl. comp. in proc. Trib. Ragusa, Rv. 240531 la Corte di cassazione ha, per l'appunto, affermato il principio per cui, in ragione dell'interpretazione logico-sistematica degli artt. 28, 30 e 39 della legge n. 69 del 2005, la competenza funzionale ad emettere il mandato di arresto europeo deve essere attribuita al giudice che procede.

La ragione giustificativa di tale approccio è stata non solo individuata nel considerevole lasso di tempo che può intercorrere tra l'adozione della misura coercitiva e l'emissione del m.a.e., ma anche nell'esigenza di garantire la piena conoscenza dell'iter processuale seguito da parte dell'autorità giudiziaria emittente, in modo da poter assolvere adeguatamente ai numerosi incombenti che la legge impone ad essa (informazioni, relazione di accompagnamento, trasmissione di informazioni integrative, ecc.). Per l'indicato orientamento, cioè, assumono una portata rilevante le informazioni che, a norma dell'art. 30 della legge n. 69 del 2005, devono corredare il m.a.e. e che necessariamente postulano la disponibilità degli atti processuali, ben potendo, ad esempio, lo Stato richiesto instare per la trasmissione di ulteriori elementi di informazione che solo il giudice avente la disponibilità del fascicolo processuale può validamente esaudire.

Ponendosi entro tale prospettiva, la Suprema Corte ha, poi, rilevato che, se nel caso di un "fisiologico iter processuale" è corretto prevedere che chi emette la misura custodiale, avendo interesse a farla eseguire, disponga, ove occorra, gli opportuni accertamenti sulla persona ricercata e in base ad essi emetta - entro termini ragionevolmente ristretti - anche il m.a.e. (in linea con i dati acquisiti e dei quali ha piena cognizione), non sembra possibile accedere, di contro, alla medesima soluzione allorquando tra l'adozione della misura restrittiva e l'emissione del mandato di arresto europeo intercorra un "considerevole lasso di tempo": in ragione dell'evoluzione dell'iter processuale, della fluidità che spesso caratterizza l'ipotesi accusatoria e delle non rare modifiche dell'impianto probatorio, infatti, il m.a.e. potrebbe finire per non coincidere "in toto" con la misura originariamente emessa.

Allo stesso modo, non sembrerebbe avere alcun senso, nell'ipotesi in cui il processo sia progredito sino alla fase del giudizio e l'impianto accusatorio si sia presumibilmente modificato od "arricchito", attribuire al g.i.p. la competenza "attiva" esclusivamente sulla base di un suo ormai lontano e non più "attuale" provvedimento applicativo di misura custodiale, così come apparirebbe del tutto incongrua una siffatta attribuzione nella diversa ipotesi in cui, successivamente all'emissione della misura cautelare, fosse ravvisata la competenza territoriale di un altro giudice.

A questo primario approccio interpretativo - favorevole ad una soluzione più consona alla dinamica processuale della misura, suscettibile, nel corso del tempo, di valutazioni differenti facenti capo a giudici diversi da quello che inizialmente l'aveva disposta - la Suprema Corte ha fatto seguire un difforme indirizzo interpretativo, per il quale la competenza ad emettere il mandato di arresto europeo spetta al giudice che ha emesso la misura cautelare, ancorché non sia più il giudice "che procede" - così, tra le altre, Sez. I, 26 marzo 2009, n. 15200, confl. comp. in proc. Lauricella, Rv. 243321 e Sez. I, 16 aprile 2009, n. 18569, confl. comp. in proc. Diana, Rv. 243652 -. Il mutamento interpretativo è avvenuto in ragione di uno stretto ancoraggio alla formulazione letterale del testo normativo dell'art. 28 della legge n. 69 del 2005, che, per l'appunto, non fa riferimento al giudice che procede ai sensi dell'art. 279 cod. proc. pen., bensì al decidente che ha emesso la misura cautelare.

È stato, in particolare, osservato che l'art. 29 della legge n. 69 del 2005 non subordina l'emissione del m.a.e. ad una valutazione di merito, bensì all'unica condizione che l'imputato o il condannato sia presente nel territorio di uno degli Stati membri, per cui la relativa adozione, lungi dall'esprimere l'esercizio del potere cautelare, rappresenta solo uno strumento esecutivo dell'originario provvedimento in ambito europeo. D'altro canto, in termini coerenti, il successivo art. 30 si limita a prevedere che il m.a.e. contenga un apparato informativo legato alla misura cautelare emessa, senza riferimento alcuno all'iter processuale in corso.

Ad ulteriore conforto di tale esegesi, poi, è stato argomentato come la compilazione e la spedizione del mandato di arresto europeo non costituiscano manifestazione della potestà coercitiva o discrezionale del giudice, quale espressione delle sue ordinarie attribuzioni ex art. 279 cod. proc. pen., ma rappresentino solo attività dal carattere certificativo, amministrativo e strumentale, preordinate all'esecuzione della ordinanza cautelare fuori dei confini dello Stato.

Né, peraltro, gioverebbe in proposito la considerazione di supposte esigenze di carattere pratico, in relazione alla immediata disponibilità degli atti occorrenti per attingere i dati necessari per la compilazione del provvedimento ed al correlato aspetto dell'economia processuale. Tale obiezione, infatti, non è ritenuta fondata da questo approccio interpretativo perché: la stessa ordinanza che ha disposto la misura coercitiva (necessariamente non ancora in corso di esecuzione, se è richiesto il mandato di cattura europeo) non deve essere allegata al fascicolo formato per il dibattimento, sicché il giudice procedente non ha la disponibilità del provvedimento; secondo l'id quod plerumque accidit, gli atti sulla base dei quali è fondata la coercizione sono custoditi nel fascicolo del p.m., e neppure di essi ha la disponibilità il giudice dibattimentale che procede.

Non vi sarebbe ragione, perciò, per avallare il differente orientamento interpretativo, che rimette al giudice che procede quel compito che, invece, è assegnato dalla legge al giudice che ha emesso il provvedimento coercitivo.

Il conflitto esegetico, come detto, è stato risolto dalle Sezioni Unite che, condividendo le ragioni - anche evidenziate dalla prevalente dottrina - poste a fondamento dell'interpretazione logico-sistematica, hanno, sotto vari profili, espresso le motivazioni per cui appare necessaria la sussistenza di un'identità soggettiva tra la figura del giudice procedente e quello cui compete emettere il mandato di arresto europeo.

Ha assunto rilievo, in proposito, la stretta interdipendenza intercorrente tra l'euromandato ed il provvedimento restrittivo della libertà sulla cui adozione lo stesso si fonda. Per la Corte è apparsa emblematica, in proposito, la previsione dell'art. 31 legge n. 69 del 2005, che stabilisce il principio della non autonomia del m.a.e. rispetto al provvedimento interno, prevedendo che l'euromandato perda efficacia quando il provvedimento restrittivo della libertà personale, sulla base del quale è stato emesso, venga revocato, annullato, o sia divenuto inefficace (sulla base dei principi generali e delle ordinarie regole processuali fissate dagli artt. 272 ss. cod. proc. pen., in tal modo implicitamente richiamate nella legge di attuazione).

Il m.a.e., pertanto, ha un'efficacia e un'operatività derivate, con la conseguenza che è al titolo di base che l'interessato deve fare riferimento per far valere eventuali sue ragioni, mentre ogni questione strettamente afferente alla consegna sollecitata dall'autorità giudiziaria italiana non può che essere fatta valere nello Stato richiesto, secondo i tempi e la disciplina di quell'ordinamento.

Sotto altro profilo, poi, la decisione sull'emissione del m.a.e. non può essere semplicemente liquidata - come invece sostenuto dall'interpretazione letterale - come un'attività di riscontro certificativo o compilativo, costituendo essa, invece, il risultato dell'esercizio di una prerogativa espressamente rimessa alla competenza del giudice, cui spetta il compito di valutare la sussistenza dei presupposti di legge per l'emissione del mandato di arresto europeo (artt. 28 e 29, comma 1, legge n. 69 del 2005), nonché dell'an debeatur in merito alla richiesta di arresto e consegna da rivolgere agli altri Stati membri. Tale ultimo aspetto si fonda, in particolare, su di un apprezzamento largamente discrezionale, oggettivamente ricollegabile ad un'attenta ponderazione del complesso degli elementi storico-fattuali e probatori a disposizione dell'autorità giudiziaria procedente.

Nella stessa logica interpretativa, solo il giudice procedente può adeguatamente espletare gli adempimenti descritti dai commi 2 e 3 dell'art. 29 e dall'art. 30 della legge n. 69 del 2005, i quali presuppongono una serie di valutazioni, talora particolarmente urgenti e delicate, che possono essere affidate solo ad un giudice in grado di governare effettivamente la fase processuale in corso e di calibrarne la dinamica, ed i relativi esiti, a seconda della consistenza e qualità delle integrazioni richieste dall'autorità di esecuzione.

Le Sezioni Unite hanno osservato, poi, come la necessità di emettere il m.a.e. si manifesti spesso a distanza di tempo dall'applicazione della misura cautelare, come nel caso in cui sopravvengano elementi che dimostrino la presenza del latitante in un altro Stato membro, ovvero nell'ipotesi in cui la localizzazione e l'arresto del ricercato si verifichino a distanza di tempo dalla diffusione delle ricerche avviate tramite la segnalazione nel S.I.S.. In entrambe le predette situazioni il procedimento penale, con il relativo fascicolo, pende presumibilmente dinanzi ad un giudice diverso rispetto a quello che aveva emesso la misura cautelare su cui deve basarsi il m.a.e., determinando il pericolo di insorgenza di un conflitto negativo di competenza tra il giudice che procede e quello che ha applicato la misura cautelare in una precedente fase.

Proprio al fine di evitare la verificazione di tali rischi, ed il pericolo di una eccessiva dilatazione dei tempi processuali all'interno di una procedura di consegna che il legislatore europeo ha voluto necessariamente rapida e semplificata, è apparsa preferibile una soluzione interpretativa che consenta di ricondurre al sistema, ed in particolare nei canoni generali fissati dall'art. 279 cod. proc. pen., il meccanismo di individuazione della competenza nella procedura attiva di consegna.

La Corte ha rilevato, ancora, come l'espressione letterale utilizzata nel comma 1, lett. a), dell'art. 28 legge n. 69 del 2005, che si riferisce al giudice che ha applicato la misura cautelare, richiami il fenomeno della "applicazione" della misura preso espressamente in considerazione, unitamente a quelli della "revoca" e delle "modifiche", dall'art. 279 cod. proc. pen. per disciplinare la "gestione" delle misure cautelari, unitariamente affidata al giudice che procede. L'uso del verbo "applicare" al passato, e non già di termini quali competenza funzionale o gestionale, non deve essere considerato di alcuna specifica rilevanza, essendo esso solo conseguente al fatto che l'emissione del mandato di arresto europeo necessariamente segue, sul piano causale e temporale, alla formazione di un titolo custodiale. Ne è scaturita, per esigenze di semplicità sintattica, una locuzione che ha impropriamente isolato e valorizzato un occasionale fatto storico, di contro alle immanenti istanze di coordinamento sistematico che la nuova norma imponeva. Per soddisfare compiutamente queste ultime, a dire della Suprema Corte, il legislatore avrebbe dovuto adottare una formula alquanto complessa, del tipo: "giudice investito della competenza sulla gestione (applicazione, revoca o modifica) della misura cautelare nel procedimento in cui la stessa è stata disposta". Ed è in tal senso, infatti, che la norma deve essere letta, in necessario ossequio alle indicate ragioni di coerenza sistematica.

La contraria interpretazione, rigidamente letterale, della norma dell'art. 28, comma 1, lett. a), legge n. 69 del 2005 determinerebbe anche l'inaccettabile effetto di attribuire la competenza ad emettere il m.a.e., con tutti i necessari apprezzamenti e adempimenti connessi, pure al giudice che abbia applicato la misura cautelare in sede di appello, ex art. 310 cod. proc. pen., il quale è invece, per definizione, chiamato solo ad intervenire in funzione della deliberazione sulla proposta impugnazione.

Le Sezioni Unite, infine, hanno affermato di ritenere preferibile il criterio interpretativo logico-sistematico anche con riferimento all'ipotesi fattuale in cui il m.a.e. attivo non sia emesso in via principale e originaria per l'arresto e la consegna del ricercato da parte dell'autorità dello Stato estero in cui si suppone che esso si trovi, bensì riguardi il diverso caso di richiesta di assenso - necessaria in costanza del principio di specialità - all'estensione della consegna per la sottoposizione di un soggetto, già in vinculis presso il Paese richiedente in forza di consegna avvenuta in esecuzione di un precedente euromandato, a un provvedimento restrittivo relativo a un fatto anteriore alla consegna stessa e diverso da quello al quale quest'ultima si riferiva.

In tale ipotesi, infatti, in cui per definizione l'interessato è assente dallo Stato richiesto, mancando nella legislazione interna ed europea qualsiasi disposizione che disciplini la competenza all'emissione del m.a.e., la lacuna non potrebbe che essere colmata dalla previsione della norma dell'art. 39, comma 1, della legge n. 69 del 2005 - che testualmente rinvia al codice di procedura penale per quanto non previsto dalla stessa legge -, il che ragionevolmente condurrebbe ad individuare la competenza per l'effettuazione della richiesta secondo la regola generale di cui all'art. 279 cod. proc. pen. Ne conseguirebbe, allora, che, ove si desse dell'art. 28 legge n. 69 del 2005 un'interpretazione strettamente letterale, si determinerebbe un'insostenibile dissimmetria sistematica, per cui si applicherebbero regole di competenza diverse all'ipotesi del m.a.e. attivo base (apprensivo) rispetto a quella della richiesta di assenso per la consegna suppletiva. L'interpretazione sistematica, invece, non determina alcuna ipotesi di incongruenza applicativa, essendo in grado di trattare nella stessa maniera entrambe le ipotesi rappresentate.

  • arresto
  • estradizione

SEZIONE II

Profili problematici in tema di esecuzione del mandato d'arresto europeo

(di Vittorio Pazienza )

Sommario

1 Le pronunce in tema di rifiuto della consegna: rifiuto della consegna e reciproco riconoscimento delle sentenze di condanna a pene detentive ai fini della loro esecuzione in ambito UE. - 2 (segue): rifiuto della consegna e prescrizione. - 3 (segue): rifiuto della consegna e divieto di bis in idem. - 4 Mandato d'arresto europeo e custodia cautelare: in particolare, le conseguenze della mancata decisione sulla richiesta di consegna.

1. Le pronunce in tema di rifiuto della consegna: rifiuto della consegna e reciproco riconoscimento delle sentenze di condanna a pene detentive ai fini della loro esecuzione in ambito UE.

Come è noto, l'art. 18, lett. r), della legge n. 69 del 2005 prevede che la corte d'appello - se investita di un mandato d'arresto "esecutivo" riguardante un cittadino italiano, ovvero un cittadino di altro Paese membro dell'Unione europea legittimamente residente o dimorante in Italia (cfr. Corte cost., sent. 24 giugno 2010, n. 227) - possa rifiutare la consegna della persona richiesta, purchè disponga l'esecuzione in Italia della pena o della misura di sicurezza di cui alla sentenza alla base del m.a.e.. La predetta legge, invero, non si è occupata delle problematiche correlate al riconoscimento e adattamento della sentenza emessa nel Paese richiedente, da eseguire in Italia dopo il rifiuto della consegna ai sensi del citato art. 18 lett. r), né lo aveva fatto la Decisione Quadro 2002/584/GAI, relativa appunto al m.a.e.[13].

Peraltro, alcuni anni più tardi, un'altra Decisione quadro (2008/909/GAI) ha fissato i principi sul reciproco riconoscimento delle sentenze penali irroganti pene detentive o misure di sicurezza privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione in ambito UE: a tali principi - volti in sostanza a favorire il reinserimento delle persone condannate, attraverso la possibilità di eseguire, nello Stato membro di appartenenza o di residenza, la pronuncia emessa in altro Stato membro dell'Unione europea - è stata data attuazione con il D.Lgs. 7 settembre 2010, n. 161.

Al riguardo, nella giurisprudenza di legittimità si è inizialmente sostenuto che, in caso di rifiuto della consegna ai sensi dell'art. 18 lett. r), "la sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria dello Stato di emissione viene automaticamente riconosciuta", con la conseguente inapplicabilità delle disposizioni introdotte dal D.Lgs. n. 161 del 2010 (in tal senso, v. Sez. VI, 27 aprile 2012, n. 16364, Rv. 252193, concernente l'esecuzione di una sentenza contumaciale emessa dall'autorità giudiziaria francese).

Nell'ambito di un percorso interpretativo connotato da un progressivo mutamento di prospettiva, deve essere anzitutto segnalata Sez. VI, 29 gennaio 2014, n. 4413, Nalbariu, Rv. 258259, relativa all'esecuzione di una sentenza di condanna alla pena di anni due di reclusione per il reato di guida senza patente, emessa dall'autorità rumena, per la quale vi era stato il rifiuto della consegna ai sensi dell'art. 18 lett. r). La Corte ha accolto il ricorso del condannato (che aveva sollecitato la conversione della pena inflitta nell'arresto, previsto dall'ordinamento italiano nella misura massima di un anno), ritenendo necessario procedere all'adattamento della sentenza rumena secondo le disposizioni dettate dall'art. 10 del D.Lgs. n. 161, secondo il quale - nell'ipotesi di incompatibilità della natura e nella durata delle sanzioni previste dai due ordinamenti - la pena da eseguire non può essere minore della sanzione prevista in Italia per reati simili, mentre la sanzione straniera deve fungere da limite massimo applicabile, con esclusione della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva (nella specie, il Collegio ha ritenuto di poter direttamente rideterminare la pena in un anno di arresto, corrispondente al massimo edittale previsto in Italia, limite non superabile per il principio della necessaria compatibilità della pena da eseguire con il diritto interno).

È stata peraltro Sez. VI, 14 maggio 2014, n. 20527, Vatrà, Rv. 259785, a valorizzare pienamente la normativa introdotta nel 2010, affermandone la rilevanza e la necessaria applicazione - del resto espressamente prevista dall'art. 24 del D.Lgs. n. 161 del 2010, anche per la già richiamata ipotesi di "consegna condizionata" di cui all'art. 19, lett. c) - in sede di esecuzione delle sentenze per le quali la Corte d'appello abbia rifiutato la consegna ai sensi dell'art. 18 lett. r).

In particolare, la sentenza - all'esito di un'ampia ricostruzione del quadro normativo, con particolare riguardo ai rapporti tra le disposizioni in tema di trasferimento delle persone condannate, di consegna mediante m.a.e. e di riconoscimento reciproco delle sentenze di condanna a pene detentive - ha stabilito che il principio dell'automaticità del riconoscimento della sentenza da eseguire in caso di rifiuto ex art. 18 lett. r), affermato dal precedente indirizzo giurisprudenziale (cfr. supra), può essere tenuto fermo solo qualora la sentenza sia stata emessa in uno Stato che non ha ancora recepito la Decisione quadro 2008/909/GAI. Invece, nelle ipotesi in cui la sentenza sia stata emessa in uno Stato che - come l'Italia e, nel caso di specie, la Romania - ha recepito nel proprio ordinamento la predetta Decisione quadro, la Corte d'appello è tenuta al riconoscimento della sentenza da eseguire secondo i principi ed i parametri dettati dal citato D.Lgs. n. 161 del 2010: con particolare riguardo, tra l'altro, alla compatibilità della pena ed agli (ulteriori) motivi di rifiuto (artt. 10, 11, 13), alle modalità di esecuzione successive al riconoscimento (artt. 16-17), alle implicazioni concernenti il principio di specialità (art. 18).

Conseguentemente, anche qualora la Corte d'appello abbia già esaminato alcuni di tali aspetti muovendosi nel tracciato normativo della legge n. 69 del 2005 (nella specie, la decisione oggetto di ricorso si era in effetti pronunciata quanto alla compatibilità della pena irrogata ed al rispetto dei principi della doppia incriminabilità e dell'equità del processo), il mutato quadro normativo impone, ad avviso della Sesta sezione, di allargare l'orizzonte valutativo nel senso sopra indicato, richiedendosi quindi "una complessiva operazione di «rilettura», anche, se del caso, attraverso il ricorso alla procedura di consultazione con l'autorità competente dello Stato di emissione, sì come espressamente introdotta e regolata nell'art. 13 comma 2 del su menzionato D.Lgs.".

Le linee argomentative fin qui riassunte sono state integralmente ribadite, più di recente, da Sez. VI, 17 settembre 2014, n. 38557, Turlea.

Occorre conclusivamente segnalare, in argomento, Sez. VI, 5 novembre 2014, n. 46304, la quale - pur mostrando di aderire alla predetta svolta interpretativa - ha peraltro precisato che la persona richiesta in consegna, invocando l'applicazione del motivo di rifiuto di cui all'art. 18 lett. r), presta "un sostanziale consenso al riconoscimento della sentenza straniera", anche ai sensi e per gli effetti della più recente normativa introdotta in materia: "ciò non implica che nella procedura m.a.e., compresa la relativa fase di legittimità, l'interessato non possa discutere della ricorrenza di cause diverse di rifiuto della consegna, il cui riconoscimento da parte del giudice della procedura comporti l'esaurimento della stessa procedura senza conseguenze negative (cioè, né consegna né esecuzione della pena in Italia). Ma la deduzione della causa che si fonda sul riconoscimento a fini esecutivi della sentenza straniera implica il riconoscimento della sentenza medesima".

In tale ottica ricostruttiva, ad avviso della Sesta sezione, neppure potrebbe ammettersi la rilevabilità d'ufficio della mancanza, non dedotta dal ricorrente, di uno dei presupposti per il riconoscimento dettati dal D.Lgs. n. 161 del 2010: dovendo trovare applicazione l'insegnamento giurisprudenziale - consolidatosi nell'interpretazione della normativa m.a.e. - secondo cui, nella persona che ha chiesto ed ottenuto di espiare la pena nel territorio nazionale, difetta l'interesse ad opporsi (e quindi ad impugnare le decisioni assunte in materia) all'esecuzione della sentenza straniera - della quale ha almeno implicitamente accettato gli effetti - per ragioni connesse alla regolarità del procedimento (cfr. Sez. VI, 4 dicembre 2013, n. 49084, Czenke, Rv. 258044).

2. (segue): rifiuto della consegna e prescrizione.

Ai sensi dell'art. 18, lett. n), della legge n. 69 del 2005, la corte d'appello rifiuta la consegna della persona richiesta "se i fatti per i quali il mandato d'arresto europeo è stato emesso possono essere giudicati in Italia e si sia verificata la prescrizione del reato o della pena".

Al riguardo, si ritiene opportuno segnalare, anzitutto, Sez. VI, 14 maggio 2014, n. 20526, Moriello, relativa ad un m.a.e. "esecutivo" fondato su una sentenza di condanna irrevocabile, emessa dall'autorità giudiziaria rumena, per alcuni episodi di truffa in danno della Comunità europea commessi fino al 2004. La Corte d'appello aveva ritenuto insussistenti i presupposti per rifiutare la consegna ai sensi dell'art. 18 lett. n), richiamandosi - per quanto qui specificamente interessa - all'indirizzo giurisprudenziale che, in tema di estradizione per l'estero, distingue tra domanda di consegna "processuale" e domanda di consegna "esecutiva", e limita alla sola prima ipotesi la rilevanza, quale causa ostativa, dell'intervenuta prescrizione del reato, ai sensi dell'art. 10 della legge n. 300 del 1963, che ha ratificato e reso esecutiva la Convenzione europea di estradizione (in tal senso, cfr. ad es. Sez. VI, 20 dicembre 2010, n. 45051, Mandachi, Rv. 249218).

Il Collegio ha annullato tale decisione, osservando che, alla data di emissione del m.a.e. - l'unica rilevante ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 18 lett. n): cfr. ad es. Sez. VI, 20 luglio 2010, n. 28995, Rv. 247832 - i reati, giudicabili in Italia in quanto in parte ivi commessi (vi era anzi già stato un decreto di archiviazione per prescrizione ed insufficienza di elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio), risultavano già prescritti. A tale ultimo proposito, la Sesta sezione ha osservato che l'impianto argomentativo "estradizionale", accolto dalla decisione impugnata (secondo cui, per il mandato esecutivo, può venire in rilievo come causa ostativa la sola prescrizione della pena), non tiene adeguatamente conto della lettera dell'art. 18 lett. n), il quale richiede una condizione di giudicabilità interna dei fatti "formulata in termini generali ed onnicomprensivi, potenzialmente idonei, dunque, ad accogliere nel perimetro della sua vasta area semantica il verificarsi di entrambe le alternative legate alla intervenuta decorrenza dei termini di prescrizione del reato o della pena". Inoltre, il Collegio ha posto in evidenza che, da un lato, il sistema normativo che regola il m.a.e. valorizza la legislazione del Paese richiesto, differenziandosi dalla Convenzione europea di estradizione (il cui art. 10 dà rilievo alla prescrizione del reato o della pena "secondo la legislazione della parte richiedente o della parte richiesta"); d'altro lato, l'interpretazione dell'art. 18 lett. n) deve necessariamente raccordarsi con la corrispondente disposizione della Decisione quadro 2002/584/GAI, il cui art. 4 consente di rifiutare l'esecuzione del m.a.e. "se l'azione penale o la pena è caduta in prescrizione secondo la legislazione dello Stato membro di esecuzione".

Il problema è stato affrontato e risolto in una diversa prospettiva da Sez. VI, 15 maggio 2014, n. 21322, Alfieri, Rv. 260014, secondo la quale il motivo di rifiuto della consegna basato sull'intervenuta prescrizione del reato, di cui all'art. 18, lett. n), L. 22 aprile 2005, n. 69, assume rilevanza per le sole richieste "cautelari", relative cioè a misure restrittive antecedenti l'accertamento fatto in via definitiva, ma non anche per le richieste volte all'esecuzione di una pena inflitta con sentenza definitiva di condanna. Su tali basi, è stato rigettato il motivo di ricorso imperniato sul fatto che, alla data di emissione del m.a.e., era già decorso il termine massimo prescrizionale previsto in Italia per i reati di appropriazione indebita giudicati irrevocabilmente dalle autorità giudiziarie romene.

A sostegno di tale impostazione, il Collegio ha per un verso richiamato il conforme insegnamento giurisprudenziale consolidatosi in tema di estradizione (cfr. supra), evidenziando che, nonostante il già citato art. 10 della legge n. 300 del 1963 valorizzi indistintamente la prescrizione "dell'azione penale" o "della pena" secondo la legislazione della parte richiedente o della parte richiesta (con una struttura quindi analoga a quella dettata, per il m.a.e., dall'art. 18 lett. n), in campo estradizionale "non se ne è tratta, tuttavia, la conseguenza che i fenomeni estintivi concernenti il reato possano essere indiscriminatamente invocati a monte ed a valle dell'accertamento definitivo del fatto". Per altro verso, la Sesta sezione ha osservato che "opporre ad un qualsiasi Stato del sistema m.a.e. la simulazione dell'effetto estintivo che si sarebbe verificato nell'ordinamento interno in assenza della sentenza equivarrebbe ad «imporre» la soglia segnata dai termini prescrizionali italiani quale barriera invalicabile per un accertamento utile a fini di esigibilità della pena".

3. (segue): rifiuto della consegna e divieto di bis in idem.

In questo paragrafo, si ritiene opportuno segnalare, anzitutto, Sez. VI, 30 gennaio 2014, n. 5092, H.C.C., Rv. 258345, la quale ha individuato - all'esito di un'ampia disamina dell'elaborazione registratasi, nella giurisprudenza anche sovranazionale, in tema di divieto di bis in idem - i contorni e la portata applicativa del motivo di rifiuto di cui all'art. 18, lett. m), della legge n. 69 del 2005 (secondo cui la Corte d'appello rifiuta la consegna se la persona richiesta è stata condannata irrevocabilmente, per gli stessi fatti, in uno degli Stati membri dell'Unione europea, purchè, in caso di condanna, la pena sia stata già eseguita ovvero sia in corso di esecuzione, ovvero non possa più esserlo in forza delle leggi dello Stato che ha emesso la condanna).

Nella specie, relativa ad un m.a.e. esecutivo emesso dalle autorità rumene in forza di una sentenza di condanna irrevocabile per i reati di traffico di minorenni e traffico di persone, la Corte d'appello aveva rigettato l'eccezione imperniata sul citato art. 18 lett. m), osservando che - nonostante la persona fosse stata condannata anche in Italia, con sentenza irrevocabile, per i reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione di un numero rilevante di donne anche minorenni, oltre che per il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina finalizzata alla prostituzione o allo sfruttamento sessuale - non sussistevano circostanze ostative alla consegna, perché i fatti per cui era intervenuta condanna in Romania non erano stati oggetto di esame nella sentenza emessa in Italia.

La Sesta sezione ha annullato con rinvio la decisione della corte d'appello, osservando che l'apprezzamento in ordine al rifiuto della consegna - lungi dal potersi esaurire con un'apodittica affermazione come quella contenuta nella sentenza impugnata - imponeva un'attenta comparazione dei fatti oggetto delle due decisioni di condanna, come ricostruiti all'interno dei rispettivi impianti motivazionali.

Al riguardo, il Collegio ha passato in rassegna gli insegnamenti della Corte di Giustizia sul divieto di bis in idem codificato nell'art. 54 della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen, della Corte EDU in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU, e della Corte di cassazione, per affermare che la garanzia assicurata dal predetto divieto costituisce un diritto fondamentale dell'individuo strettamente collegato ai principi del giusto processo, ed è non a caso inserita nel catalogo dei principi fondamentali dall'art. 50 della Carta di Nizza (direttamente applicabile negli Stati membri con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona), assurgendo anche a principio di portata generale nell'ordinamento processuale penale (artt. 28, 649, 669 cod. proc. pen.). Tale garanzia deve essere interpretata - alla luce della predetta elaborazione giurisprudenziale - avendo riguardo all'identità dei fatti materiali, intesi come insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro. In particolare, è necessario valutare l'identità sostanziale dei fatti oggetto dei due procedimenti, indipendentemente dall'interesse di volta in volta tutelato dalle norme incriminatrici, ovvero dall'eventuale diversa qualificazione giuridica attribuita, nei due ordinamenti, ad un medesimo episodio (in tal senso, con riferimento alla normativa estradizionale, cfr. Sez. VI, 15 giugno 2012, n. 26414, F., Rv. 253046).

In tale prospettiva ermeneutica, il Collegio ha operato un'importante puntualizzazione conclusiva, osservando che, per l'operatività del divieto, non è necessario "che anche la vittima sia la stessa, come, a mero titolo esemplificativo, può accadere nell'ipotesi in cui il reo, con la propria condotta, arrechi danno ad una pluralità di persone e venga perciò condannato: pur non interferendo in alcun modo, tale evenienza, con la possibilità del danneggiato che non abbia preso parte al processo penale di promuovere l'azione per chiedere il risarcimento del danno dinanzi al giudice civile, deve ritenersi che il divieto di un nuovo processo sul medesimo fatto resta fermo, quand'anche il nominativo di una delle vittime non sia stato mai menzionato nel giudizio".

Si ritiene poi utile segnalare, in questa sede, Sez. VI, 22 maggio 2014, n. 21323, Maciej, Rv. 259243, relativa ad un'ipotesi di rifiuto di consegna per "litispendenza internazionale" ai sensi dell'art. 18, lett. o), della legge n. 69 del 2005 (il quale prevede che la consegna venga rifiutata se, per lo stesso fatto alla base del m.a.e., è in corso un procedimento penale in Italia, salvo che la richiesta di consegna riguardi un mandato d'arresto europeo "esecutivo").

Anche in questa sentenza, la Sesta sezione ha preso le mosse dagli approdi interpretativi in tema di divieto di bis in idem (cfr. supra), evidenziando la funzione "preventiva" alla base del motivo di rifiuto qui in esame (che non a caso trova applicazione nelle sole ipotesi di m.a.e. "processuale"): quella di evitare che si formi, in un altro Stato membro dell'Unione europea, un giudicato che impedirebbe all'autorità giudiziaria italiana di procedere per lo stesso fatto.

Il Collegio ha peraltro sottolineato la necessità di conferire al motivo di rifiuto in questione una più ampia portata applicativa rispetto al suo tenore letterale, alla luce del ruolo decisivo ormai assunto, nei rapporti di cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri dell'Unione europea, dal principio del reciproco riconoscimento delle sentenze e delle decisioni giudiziarie di cui all'art. 82 T.F.U.E.. In tale prospettiva, la prevalenza della giurisdizione straniera esecutiva, rispetto alle esigenze processuali proprie della giurisdizione interna, deve essere affermata anche con riferimento ad un rischio solo potenziale di litispendenza: ovvero "non solo nell'ipotesi della pendenza di un procedimento penale per gli stessi fatti oggetto del m.a.e., ma anche...nell'ipotesi qui considerata di un procedimento penale che dovrebbe instaurarsi ex novo, in relazione agli stessi fatti e nei confronti della stessa persona, dinanzi alle competenti autorità dello Stato di esecuzione". Tali conclusioni risultano ulteriormente confortate, ad avviso della Sesta sezione, anche dall'esigenza di valorizzare adeguatamente, sul piano interpretativo, i criteri direttivi delineati dalla Decisione quadro 2009/948/GAI del 30 novembre 2009 sulla prevenzione e risoluzione dei conflitti relativi all'esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali.

4. Mandato d'arresto europeo e custodia cautelare: in particolare, le conseguenze della mancata decisione sulla richiesta di consegna.

In chiusura della presente esposizione, si ritiene utile richiamare una recente pronuncia (Sez. VI, 4 novembre 2014, n. 46165, Belafkih) in tema di applicazione di misure cautelari conseguente alla ricezione di un mandato di arresto europeo, nella quale la specifica questione dedotta con il ricorso - concernente l'illegittimità della nuova ordinanza cautelare emessa dopo la cessazione della precedente misura, per il decorso del termine per la decisione sulla consegna - è stata affrontata e risolta dal Collegio attraverso una ricostruzione sistematica dei principi consolidatisi, in materia, grazie all'elaborazione giurisprudenziale intervenuta sugli artt. 14, 16, 17, 21 della legge n. 69 del 2005.

Nella specie, relativa ad un m.a.e. processuale emesso dalle autorità tedesche per il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, la Corte d'appello procedente aveva applicato alla persona richiesta, dopo averne convalidato l'arresto, la misura custodiale in carcere e, alla successiva udienza tenutasi ad oltre sessanta giorni di distanza, aveva richiesto l'invio di ulteriore documentazione allo Stato emittente, disponendo contestualmente la remissione in libertà della persona per la cessazione della misura cautelare, ai sensi dell'art. 21 della legge n. 69 del 2005. Tuttavia, su conforme richiesta del P.G. motivata con il persistere del pericolo di fuga, la Corte procedente aveva anche disposto l'applicazione di una nuova misura custodiale, ritenendo che, essendo stata fatta richiesta interlocutoria di documentazione integrativa, la cessazione per il decorso del termine di legge non fosse di ostacolo all'emissione di un nuovo titolo cautelare.

Accogliendo il ricorso difensivo, la Sesta sezione ha annullato la seconda ordinanza cautelare, osservando anzitutto che, nel sistema m.a.e., la durata massima della custodia cautelare coincide con quella della decisione sulla consegna, sicchè, ove quest'ultima non intervenga nel termine ordinario di sessanta giorni (dieci in caso di consenso dell'interessato alla consegna) - o in quello eventualmente prorogato sino ad un massimo di trenta giorni qualora ricorrano cause di forza maggiore ai sensi dell'art. 17, comma 2, L. n. 69, ovvero venga fatta richiesta di informazioni ed accertamenti integrativi, ai sensi dell'art. 16 della stessa legge - la misura cautelare perde immediatamente efficacia, secondo quanto disposto dall'art. 21 della legge sul m.a.e.: perdita di efficacia che, peraltro, non comporta anche la perenzione della domanda di consegna, che ben può essere accolta anche dopo il decorso dei termini predetti.

Con specifico riguardo alla questione del prolungamento dei termini, il Collegio ha quindi richiamato il consolidato indirizzo secondo cui, in caso di richiesta di informazioni integrative ex art. 16, la Corte d'appello non è tenuta a disporre una formale proroga del termine di sessanta giorni, che viene automaticamente prolungato ai sensi del citato secondo comma dell'art. 17 (sul punto, cfr. ad es. Sez. Fer., 12 settembre 2013, n. 37514, Cucerena, Rv. 256722): proroga che è da ritenere invece indispensabile qualora si ravvisi una causa di forza maggiore ostativa alla decisione nel termine di legge. Infatti, in tale seconda ipotesi, è necessario procedere ad un puntuale vaglio delibativo prima della scadenza del termine, dovendo la Corte procedente modulare discrezionalmente, a seconda delle peculiarità del caso, l'ampiezza dell'ulteriore termine (comunque non superiore ai trenta giorni), ed offrire una tempestiva e adeguata giustificazione del prolungamento.

Così ricostruito il quadro normativo, la Sesta sezione ha osservato che, nella specie, la Corte d'appello non aveva ritenuto di ricorrere allo strumento della proroga per forza maggiore, ed aveva fatto richiesta di informazioni integrative solo dopo la scadenza del termine di sessanta giorni, con la conseguente immediata liberazione della persona richiesta: in tale contesto, la rinnovata restrizione dello status libertatis del ricorrente, determinata dalla seconda ordinanza cautelare, doveva ritenersi ingiustificata.

  • estradizione

SEZIONE III

Questioni in tema di estradizione per l'estero

(di Alessandro D'Andrea )

Sommario

1 Questioni in tema di estradizione per l'estero.

1. Questioni in tema di estradizione per l'estero.

Diverse e significative sentenze della Suprema Corte, e in specie dalla Sesta Sezione, hanno affrontato la tematica dell'estradizione per l'estero nell'anno in esame, involgendo, peraltro, alcune delle più interessanti questioni sollevate in materia.

Così, in primo luogo, la problematica relativa all'individuazione della nozione di reato politico - come noto ostativo, per volontà costituzionale, all'ammissione dello straniero all'estradizione - è stata affrontata dalla Suprema Corte nella pronuncia Sez. VI, 23 gennaio 2014, n. 5089, Suljejmani, Rv. 258148, in cui è stato affermato il principio per cui "ai fini della individuazione dell'ambito di operatività del divieto di estradizione di cui all'art. 10 Cost., comma 4, e art. 26 Cost., comma 2, il reato è 'politico' anche quando, indipendentemente dal bene giuridico offeso dalla condotta illecita, vi sia la fondata ragione di ritenere che, proprio per la 'politicità' della condotta illecita, l'estradando possa essere sottoposto nello Stato straniero richiedente ad un processo penale non equo o alla esecuzione di una pena discriminatoria ovvero ispirata da iniziative persecutorie per ragioni politiche, che ledono diritti fondamentali dell'individuo, quali il diritto al rispetto del principio di uguaglianza, il diritto ad un equo processo ed il divieto di trattamenti disumani o degradanti verso i detenuti".

Nel caso di specie, la Sesta sezione ha rigettato il proposto ricorso per non aver ravvisato l'invocata natura politica del reato in materia di armi cui l'estradando era stato condannato, all'esito di un processo celebrato in uno Stato democratico nel rispetto dei diritti fondamentali e senza alcun intento persecutorio, in particolar modo non avendo ritenuto congrua la dedotta giustificazione per cui il ricorrente avrebbe avuto necessità di garantirsi la difesa da appartenenti ad altri gruppi etnici in un ambito territoriale devastato dai disordini susseguenti allo scioglimento della ex Jugoslavia.

Per la Corte, in particolare, la nozione di reato politico rilevante ai fini dell'estradizione per l'estero deve ritenersi fondata sulle disposizioni di cui agli artt. 10, comma 4, e 26, comma 2, Cost., che lo considerano in funzione di garanzia della persona umana, limitando il diritto punitivo degli Stati esteri per tutelare cittadini e stranieri da inammissibili pretese punitive altrui. L'inammissibilità di tali pretese, cui si correla il conseguente divieto di estradizione, non può derivare, tuttavia, da aspetti discrezionali e "soggettivi", connessi alle finalità o agli scopi delle condotte incriminate, ma da elementi di natura "oggettiva", per cui, in un'ottica sostanziale, i reati possono essere qualificati come politici in ragione dell'interesse giuridico che risulti leso, purché essi siano stati ispirati dalla volontà di affermare valori di libertà e democrazia protetti dalla nostra Costituzione, salvo che, per la particolare atrocità ed eccezionale gravità delle modalità della loro commissione, non si pongano essi stessi in contrasto con i valori della Carta fondamentale.

Per la Corte, dunque, occorre ampliare - nei termini precisati nel sopra indicato principio - la portata applicativa del divieto di estradizione, prevedendo un'integrazione del "punto di vista" della politicità del reato in ragione della tutela dell'estradando sul piano processuale, comprendendo quei reati rispetto ai quali, prescindendo persino dalla loro odiosità, sia necessario garantire una tutela latamente "politica" all'interessato.

Di pari interesse è, poi, la sentenza Sez. VI, 18 dicembre 2013, n. 3746/2014, P.G. in proc. Tuzomay, Rv. 258249, che ha riconosciuto alla Corte di appello la possibilità di fondare la decisione contraria all'estradizione per l'estero, ex artt. 705, comma 2, lett. c., e 698, comma 1, cod. proc. pen., su di un provvedimento - purché ritenuto completo, certo ed affidabile - emesso dalla competente Commissione territoriale del Ministero degli Interni che abbia riconosciuto all'estradando, ai sensi dell'art. 14, comma 1, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, lo "status" di protezione internazionale sussidiaria, per il pericolo di esposizione a trattamenti disumani e degradanti in caso di rientro nello Stato richiedente l'estradizione.

L'obiezione del pubblico ministero ricorrente per cui, in tal maniera, il provvedimento dell'autorità giudiziaria finirebbe per fondarsi sulla sola determinazione assunta in ambito amministrativo, senza l'opportuno conforto di alcun accertamento autonomo da parte della Corte di appello, è per la Suprema Corte infondata in ragione del chiaro disposto dell'art. 704, comma 2, cod. proc. pen., che, nel prevedere che la Corte di appello decida sull'esistenza delle condizioni per l'accoglimento della domanda di estradizione "dopo avere assunto le informazioni e disposto gli accertamenti ritenuti necessari", di fatto affida alla sola valutazione discrezionale del giudice il compito di stabilire se e quali accertamenti siano necessari ai fini della decisione. La Corte di appello, pertanto, ove ne condivida la valutazione conclusiva, ben può fondare la propria decisione - come avvenuto nel caso di specie - sulle risultanze emerse dagli accertamenti effettuati dalla Commissione preposta al riconoscimento della protezione internazionale.

Il provvedimento che accorda allo straniero la protezione internazionale nelle forme del riconoscimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, d'altro canto, viene emesso all'esito di un'istruttoria specificamente regolamentata, che accerta sulla base di criteri di valutazione prestabiliti l'effettiva esistenza dei presupposti di fatto, tipizzati dalla legge, che giustificano il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità od opinione politica, oppure di subire un grave danno alla vita o alla persona.

Come correttamente osservato dalla Sesta Sezione, "l'accertamento condotto dall'autorità amministrativa istituzionalmente chiamata a verificare la sussistenza dei presupposti di fatto legittimanti il riconoscimento della protezione internazionale, pur non essendo vincolante per la giurisdizione a causa del principio della separazione dei poteri dello Stato, può essere però assunto dal giudice come utile elemento di valutazione da porre a fondamento della propria decisione, ove ritenuto completo, certo e affidabile. A tal fine assume particolare rilievo la motivazione del provvedimento amministrativo, nella parte in cui illustra i fatti addotti e le prove esibite dal richiedente la protezione, gli accertamenti compiuti d'ufficio e il relativo risultato probatorio, sul quale si innesterà l'autonoma - anche se generalmente coincidente - previsione circa il pericolo che quella persona, se ritornasse nel Paese di origine, potrebbe subire atti persecutori o trattamenti disumani o degradanti".

Altra pronuncia di interesse è la sentenza Sez. VI, 17 luglio 2014, n. 43170, Malatto, Rv. 260041-260042, in cui la Suprema Corte, conformemente ai dettami seguiti dal più recente indirizzo giurisprudenziale, ha ribadito le modalità attraverso cui l'autorità giudiziaria nazionale deve valutare una domanda di estradizione processuale nel caso in cui la convenzione applicabile non preveda l'esame dei gravi indizi di colpevolezza da parte dello Stato italiano.

In tal caso, a dire della Sesta Sezione, l'autorità giudiziaria italiana non può limitarsi ad un controllo meramente formale della documentazione allegata, ma deve compiere una sommaria delibazione diretta a verificare, sulla base degli atti prodotti, la sussistenza di elementi a carico dell'estradando, nella prospettiva del sistema processuale dello Stato richiedente.

In applicazione dell'indicato principio, quindi, la Suprema Corte ha deciso il caso concreto ritenendo, difformemente dal giudice del merito, che non ricorressero le condizioni necessarie per concedere l'invocata estradizione - riguardante un soggetto imputato dei delitti di omicidio, associazione per delinquere, lesioni aggravate, violazione di domicilio e sequestro di persona commessi, in qualità di "coautore", durante il periodo della dittatura militare in Argentina - sul presupposto che la motivazione offerta dal Governo istante fosse insufficientemente basata sulla sola appartenenza dell'imputato ad un reparto dell'esercito argentino all'epoca dei fatti, senza precise indicazioni in ordine alla sua effettiva partecipazione ad alcuno degli episodi contestatigli.

La Sesta Sezione, in particolare, ha osservato come nella fattispecie dovesse essere applicata la Convenzione di estradizione tra Italia e Argentina del 9 dicembre 1987, la quale non contiene il disposto dell'art. 705, comma 1, cod. proc. pen., che, in tema di estradizione extraconvenzionale, condiziona la decisione favorevole alla consegna dell'estradando alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.

In assenza di tale espressa previsione, quindi, per l'interpretazione giurisprudenziale più risalente (cfr., tra le altre, Sez. VI, 20 gennaio 1993, n. 138, Camenisch, Rv. 193827; Sez. VI, 5 febbraio 1993, n. 338, Bouchetof, Rv. 193830; Sez. VI, 10 maggio 1993, n. 1357, Coppola, Rv. 195133; Sez. VI, 16 dicembre 1997, n. 5143/1998, Chatzis, Rv. 209788; Sez. VI, 11 gennaio 1999, n. 37, Shabana, Rv. 213322; Sez. VI, 3 marzo 2000, n. 1118, Odigie Obeide, Rv. 215851; Sez. VI, 22 novembre 2005, n. 45253, Haxiu, Rv. 232633) non dovrebbe essere applicata la disposizione dell'art. 705, comma 1, cod. proc. pen., e perciò l'estradizione dovrebbe essere accordata sulla base del solo esame dei documenti allegati alla domanda, senza necessità di valutazione alcuna in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.

Per la Sesta Sezione, invece, deve essere preferita l'esegesi offerta dall'orientamento giurisprudenziale più recente (così Sez. VI, 23 settembre 2005, n. 34355, Ilie, Rv. 232053; Sez. VI, 3 ottobre 2007, n. 44852, Pallasà Perez, Rv. 238089; Sez. VI, 21 maggio 2008, n. 30896, Dosti, Rv. 240498; Sez. VI, 9 aprile 2009, n. 17913, Mirosevich, Rv. 243583; Sez. VI, 22 gennaio 2010, n. 8609, Maksymenko, Rv. 246173; Sez. VI, 28 maggio 2013, n. 26290, Paredes Morales, Rv. 256566), per il quale, in tali casi, non deve comunque prescindersi dall'esistenza dei gravi indizi di colpevolezza, che però devono essere desunti dai soli documenti che le convenzioni indicano e che devono essere allegati alla domanda, sulla base di una procedura "semplificata" rispetto a quella prevista dall'art. 705, comma 1, cod. proc. pen., da considerarsi pienamente giustificata dal reciproco riconoscimento di una comune cultura giuridica e di un rapporto di affidabilità tra gli Stati che sottoscrivono la convenzione, in cui è preventivamente operata una scelta in ordine all'effettivo riconoscimento del diritto ad un "processo giusto" in favore dell'estradando. L'esame, allora, non deve essere limitato alla verifica dell'avvenuta trasmissione dei documenti ovvero al loro controllo meramente formale, ma deve essere svolto accertando in concreto che dalla documentazione trasmessa risultino evocate le ragioni per le quali si ritiene probabile che l'estradando abbia commesso il reato oggetto dell'estradizione.

In questo modo, a differenza di quanto accade per il regime previsto dall'art. 705, comma 1, cod. proc. pen., la parte richiesta non deve né valutare autonomamente tale presupposto, né rielaborare criticamente il materiale trasmesso.

Applicando i principi al caso di specie, e dunque operando un accertamento non meramente formale della documentazione trasmessa, ma delibativo dell'idoneità della stessa a rappresentare l'esistenza dei gravi indizi di colpevolezza, è stata accertata l'inesistenza di seri elementi di accusa a carico dell'estradando.

Da ultimo, deve essere segnalato come nella stessa sentenza, sia pur in diverso ambito motivazionale, la Sesta Sezione abbia affermato il principio per cui la facoltà di rifiuto dell'estradizione del cittadino, in quanto attinente alla dimensione politica della cooperazione tra Stati, può essere esercitata esclusivamente dall'autorità politica, e cioè dal Ministero della Giustizia, e non anche da parte dell'autorità giudiziaria.

La questione relativa alla concedibilità dell'estradizione per l'estero in costanza della possibile sottoposizione dell'estradando ad una sanzione detentiva a vita è stata considerata dalla Suprema Corte nella pronuncia Sez. VI, 9 gennaio 2014, n. 5747, Homm, Rv. 258802, nel cui ambito è stato affermato il principio per cui la rappresentata possibilità detentiva comunque non pregiudica l'emissione di una sentenza favorevole all'estradizione qualora l'ordinamento giuridico dello Stato richiesto preveda istituti che consentano di pervenire, in sede giudiziaria o amministrativa, ad una liberazione anticipata o ad una commutazione della pena, ove ricorrano ragioni umanitarie o progressi del condannato nel percorso rieducativo.

In applicazione dell'indicato principio, è stata quindi ritenuta corretta la decisione assunta in sede di merito favorevole all'estradizione di un cittadino tedesco verso gli Stati Uniti, sul presupposto che in tale Paese vi sono istituti che, in relazione alla condotta del detenuto, consentono, sia pure sulla base di valutazioni discrezionali di varie autorità pubbliche, una liberazione anticipata del condannato raggiunto da una "sentenza a vita" - tra cui, in particolare: la commutazione della pena da parte del Presidente degli Stati Uniti; la riduzione del termine di carcerazione ad opera del giudice su proposta del Direttore del "Bureau of Prisons"; la riduzione di pena in caso di condotta collaborativa a fini di indagini da parte del condannato; le forme di "sconto di pena" in ragione di 54 giorni ogni anno in caso di condotta conforme alle norme disciplinari dell'istituto carcerario -.

In modo significativo, tuttavia, la Sesta Sezione ha precisato che negli Stati Uniti vige "un sistema punitivo caratterizzato da criteri di severità e rigidità sempre più lontani dagli approdi cui è pervenuta l'evoluzione del corrispondente sistema europeo (fatta eccezione, forse, di quello del Regno Unito), improntato sempre più marcatamente all'affermazione della finalità rieducativa e risocializzante della pena e a metodologie applicative flessibili che tengano conto del percorso umano, fisico e psichico del condannato. Questa diversa filosofia dello scopo e della funzione della pena, se non si traduce, avuto riguardo all'obbiettivo stato dell'ordinamento positivo statunitense, in un palese contrasto con i principi desumibili dall'art. 3 CEDU (e, per quanto concerne l'Italia, dall'art. 27 Cost., comma 3, come interpretato dal diritto vivente e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale), certamente rimanda a valutazioni di carattere politico, che ben potranno esse assunte, in sede di decisione sull'an e sul quomodo dell'eventuale provvedimento di estradizione, dal Ministro della giustizia, a norma dell'art. 708 c.p.p.".

In ultimo, deve essere segnalata un'importante decisione della Suprema Corte in cui è stata esaminata la correlazione esistente tra l'istituto dell'estradizione per l'estero ed il reato di tortura, non previsto nel nostro sistema penale da nessuna norma incriminatrice espressa.

Trattasi della sentenza Sez. VI, 17 luglio 2014, n. 46634, Repubblica Argentina, Rv. 261004, in cui è stato chiarito come non possa essere concessa l'estradizione a fini processuali di un soggetto imputato di reato di tortura nello Stato richiedente quando, in relazione ai fatti oggetto della richiesta, per come qualificabili nell'ordinamento giuridico italiano (nel caso di specie riferibili alle ipotesi aggravate di lesioni personali e di sequestro di persona), sia già decorso il previsto termine di prescrizione. Ciò perché nel nostro sistema giuridico non esiste lo specifico reato di tortura - che per sua natura è imprescrittibile - per non essere mai state adottate ed implementate le disposizioni contenute negli artt. 7 e 8 della Convenzione ONU contro la tortura del 10 dicembre 1984, pure ratificata dal nostro Paese con la legge 3 novembre 1988, n. 498.

Tale approccio esegetico, sulla cui base già il giudice del merito aveva dichiarato l'insussistenza delle condizioni per l'accoglimento della domanda di estradizione avanzata dalla Repubblica Argentina, è stata da quest'ultima criticato in ricorso in ragione dell'antitetico presupposto della cogenza, e quindi dell'imprescrittibilità, anche nell'ordinamento giuridico italiano del reato di tortura. Per parte ricorrente, in particolare, il divieto di tortura avrebbe assunto nel diritto internazionale, soprattutto a seguito della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984, carattere di norma consuetudinaria cogente, essendo stata considerata la tortura come un delitto iuris gentium, talora anche qualificabile come crimine contro l'umanità. Il superiore aspetto, correlato alla Convenzione di estradizione del 1987 che lega l'Italia e l'Argentina, imporrebbe, dunque, al nostro Paese di ammettere sempre l'estradizione di imputati di reato di tortura, a prescindere dall'insussistenza nel nostro ordinamento dell'indicata fattispecie. In ragione delle disposizioni previste dagli artt. 7 e 8 della Convenzione del 1984, in particolare, il reato di tortura sarebbe, per la ricorrente, parte integrante della Convenzione di estradizione del 1987, e poiché tra i principi che informano l'istituto dell'estradizione vi è quello secondo cui le norme di diritto internazionale generale o convenzionale prevalgono sulle norme interne, il giudice italiano avrebbe dovuto concedere, nel caso in esame, l'estradizione richiesta della Repubblica Argentina, in quanto fondata su un reato imprescrittibile direttamente applicabile nell'ordinamento italiano, senza la necessità di ulteriori specificazioni da parte del legislatore nazionale.

La Sesta Sezione, invece, ha ritenuto l'infondatezza della richiesta e della ricostruzione interpretativa offerta da parte della Repubblica Argentina, sul presupposto della carenza, in essa, dell'essenziale dato della mancanza nell'ordinamento giuridico italiano di una previsione specifica avente ad oggetto il reato di tortura.

Certamente il divieto di tortura è previsto dal diritto internazionale anche con norme cogenti che si rivolgono a tutti gli Stati, tra cui il nostro, indipendentemente da una loro espressa previsione pattizia, ma ciò non appare sufficiente a far ritenere che l'ordinamento giuridico italiano abbia adottato il reato di tortura. È ben vero, infatti, che il nostro Paese ha ratificato la Convenzione ONU contro la tortura del 1984, ma l'Italia non ha assolto all'obbligo di incriminazione, imposto dall'art. 4 della Convenzione, dei fatti costituenti tortura, come specificamente indicati all'art. 1 dello stesso strumento convenzionale.

Tale inadempienza può anche apparire paradossale, in ragione dell'assoluta gravità del reato non espressamente sanzionato nel nostro ordinamento, ma pur tuttavia essa rappresenta solo l'espressione di un'opzione di politica criminale assunta da parte del legislatore italiano.

Le norme della Convenzione ONU necessitano, come noto, di essere adattate ed implementate per poter essere introdotte nell'ordinamento interno, non essendo sufficiente a questi fini la semplice ratifica ed esecuzione. È necessario, cioè, che vengano introdotte specifiche disposizioni legislative al riguardo, trattandosi di materia penale in cui vige il principio nullum crimen, nulla poena sine lege, di cui all'art. 25, comma 2, Cost., che di fatto impedisce ad una nuova norma incriminatrice di entrare in vigore nell'ordinamento penale per via consuetudinaria, anche ove si tratti di una disposizione di diritto cogente valevole per tutti gli Stati della comunità internazionale.

L'imprescindibilità dei superiori principi ha indotto, dunque, la Suprema Corte a non accogliere la domanda di estradizione avanzata dalla Repubblica Argentina, vigendo, nel caso di specie, il principio della doppia incriminazione, come stabilito in via generale dall'art. 13, comma 2, cod. pen. e replicato dall'art. 2 della Convenzione di estradizione del 1987 tra Italia e Argentina, che impone che il fatto oggetto dell'estradizione sia previsto come reato anche dalla legislazione dello Stato richiesto. Non rilevando ciò nella fattispecie, per non essere presente il reato di tortura nella legislazione italiana, il giudice italiano non ha potuto fare altro che riferire i fatti contestati all'estradando ai reati di lesioni personali aggravate e di sequestro di persona aggravata, rispetto ai quali ha correttamente ritenuto decorso il termine di prescrizione.

TERZA PARTE STRUMENTI DI CONTRASTO PATRIMONIALE ALLA CRIMINALITÀ

  • responsabilità
  • sequestro di beni
  • reato tributario
  • confisca di beni

CAPITOLO I

LA CONFISCA DIRETTA DEL PROFITTO DEL REATO

(di Pietro Silvestri )

Sommario

1 Premessa: la questione. - 2 Il quadro normativo di riferimento e le diverse impostazioni. - 3 Le sentenze delle Sezioni unite "Chabni", "Focarelli", "Romagnoli" e "Muci": la nozione di profitto e il sequestro funzionale alla confisca di denaro. - 4 Prime considerazioni riepilogative. - 5 La sentenza delle Sezioni unite "Miragliotta". - 6 Profitto e responsabilità degli enti: il mutamento di prospettiva e la valorizzazione del profilo strutturale. - 7 La definizione generale del profitto confiscabile nella sentenza delle Sezioni unite "Fisia Impianti": la confiscabilità dei crediti. - 8 La giurisprudenza successiva a "Fisia Impianti" sulla confiscabilità dei crediti. - 9 Le sentenza "Fisia impianti" sui risparmi di spesa. - 10 La giurisprudenza successiva sulla riconducibilità alla nozione di profitto confiscabile delle utilità indirette e dei risparmi di spesa. - 11 Le Sezioni unite "Adami" sulla individuazione del profitto confiscabile in tema di reati tributari. - 12 La distinzione tra reato contratto e reato in contratto ai fini della individuazione del profitto confiscabile. - 13 Il contratto stipulato in violazione di norme penali: i principi fissati dalle Sezioni Unite civili. - 14 L'analisi strutturale del profitto confiscabile nella giurisprudenza penale anche alla luce della distinzione tra reato contratto e reato in contratto. - 15 La definizione di profitto nella Sentenza delle Sezioni unite "Caruso". - 16 La definizione di profitto nella sentenza delle Sezioni unite "Gubert". - 17 La nozione di profitto nella sentenza delle Sezioni Unite "Thyssen". - 18 La giurisprudenza successiva in tema di sequestro e confisca di somme di denaro.

1. Premessa: la questione.

Nel corso del 2014 le Sezioni unite della Corte di Cassazione sono tornate ad occuparsi in due occasioni della nozione di profitto confiscabile.

Si tratta, peraltro, di un di un tema sul quale nel coeso dell'anno sono intervenute numerose rilevanti sentenze delle sezioni semplici della Corte.

La questione involge un duplice profilo.

Il primo attiene alla individuazione delle componenti strutturali del profitto del reato; si tratta di un aspetto che la giurisprudenza affronta facendo solitamente uso di termini con valenza giuridica differente, quali "lucro", ovvero "vantaggio di natura economica" o, ancora, "beneficio aggiunto di tipo patrimoniale".

Si è fatto notare come, proprio dalla varietà delle accezioni del "profitto penale", legata alla differente valenza giuridica dei singoli casi esaminati, sia derivata una certa non omogeneità terminologica e interpretativa nei vari tentativi giurisprudenziali di precisare il concetto mediante l'uso di coppie di termini (quali, ad esempio, "profitto-lucro", "profitto-risparmio","profitto-utile" o "profitto-vantaggio"), talvolta utilizzate per sostenere conclusioni tra loro diverse.

Il profilo strutturale involge, a titolo esemplificativo, le problematiche relative al se la nozione di profitto debba o meno ricomprendere i profitto ai risparmi di spesa (cioè tutte quelle ipotesi in cui il vantaggio che il reo consegue dal reato è costituito non da un incremento del suo patrimonio ma da un mancato decremento, cioè da un mancato esborso, da un mancato costo), ai crediti, all'avviamento commerciale, alle somme di cui la persona, fisica o giuridica, dispone per effetto dell'inadempimento di obblighi di fare o di pagamento, ad eventuali costi deducibili.

Il secondo profilo attiene, più in generale, al nesso di derivazione causale del profitto dal reato.

Si discute se alla nozione di profitto del reato debbano essere ricondotte anche le c.d. "utilità indirette", quelle, cioè, che non sono legate da un nesso di derivazione causale diretto ed immediato con il reato.

I due profili menzionati, quello strutturale e quello causale, non paiono coincidenti, ben potendo una "utilità" derivare direttamente al reato e, tuttavia, non essere riconducibile sul piano strutturale al concetto di profitto.

Potrebbero esservi casi, cioè, in cui dalla commissione del reato, può conseguire una utilità in via diretta ed immediata al soggetto agente e, tuttavia, non sempre tale utilità può considerarsi profitto.

La soluzione che si intenda fornire alle questioni indicate produce effetti rilevanti anche in ordine alla ricostruzione del rapporto tra confisca diretta e c.d. confisca per equivalente, essendo possibile fare ricorso a quest'ultima solo quando "non è possibile" l'aggressione diretta del profitto del reato.

Ove, infatti, si intendesse ricondurre alla nozione di profitto "ogni utilità conseguita", anche indirettamente o in via mediata, dal reato, ne conseguirebbe un'evidente espansione dell'istituto della confisca diretta con conseguente riduzione dell'ambito operativo di quella c.d. per equivalente.

In particolare, l'espansione della nozione di profitto produrrebbe una corrispondente espansione dell'ambito applicativo della confisca diretta, quale misura di sicurezza, con tutto ciò che ne consegue in tema di opponibilità dell'esercizio del potere ablativo nei confronti di soggetti "terzi non estranei" rispetto al reato (art. 240 cod. pen).

Alla espansione della confisca diretta conseguirebbe una inevitabile riduzione di operatività della confisca c.d. per equivalente, la cui natura sanzionatoria di pena impedisce di colpire beni che sono nella disponibilità di soggetti terzi, rispetto ai quali difetta l'accertamento di una propria responsabilità.

Quanto più viene esteso il concetto di profitto derivante da reato, con riferimento alla sua struttura e al nesso di derivazione dal reato, tanto più è ampliato l'ambito operativo della confisca diretta e, conseguentemente, ridotto quello della confisca di valore.

2. Il quadro normativo di riferimento e le diverse impostazioni.

È consolidata l'affermazione secondo cui non si rinviene una nozione generale di profitto non solo nel codice penale, ma anche nelle varie disposizioni contenute in leggi speciali che ne prevedono la confisca; si tratta di norme che danno la nozione per presupposta, ovvero si limitano a contrapporla ad altri concetti parimenti non definiti, quali quelli di "prezzo", "corpo" e "strumento" del reato, utilizzandola, peraltro, sia per determinare l'oggetto della confisca, sia ad altri fini, come, cioè, elemento costitutivo della fattispecie di reato o come circostanza aggravante[14].

Per quanto concerne le fonti internazionali, si prescinde in questa sede da fare riferimento alla Direttiva 2014/42/UE relativa alla confisca degli strumenti e dei proventi del reato, destinata ad essere attuata e recepita entro il 4 ottobre 2016.

La direttiva, come sancito nell'art. 14, sostituisce parzialmente le decisioni quadro 2001/500 e 2005/2128: le disposizioni vigenti dell'Unione in materia di confisca dovrebbero rimanere in vigore al fine di mantenere un certo livello di armonizzazione per quanto riguarda quelle attività criminali che non rientrano nel campo di applicazione della direttiva; conseguentemente la proposta mantiene in vigore gli articoli 2, 4 e 5 della decisione quadro 2005/212/GAI per i reati non coperti dalla Direttiva, che prevedono una pena detentiva superiore all'anno.

Ciò detto, in questa sede è sufficiente evidenziare che la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali del 1997 annovera tra le sanzioni la confisca per equivalente dei "proventi" derivanti dall'attività corruttiva; la Convenzione ONU contro la criminalità organizzata transnazionale del 2000 fornisce all'art. 2 una definizione di provento del reato, secondo cui questo coinciderebbe con qualsiasi bene derivato o ottenuto, direttamente o indirettamente, attraverso la commissione di un reato.

Ancora, la Convenzione ONU contro la corruzione del 2009, all'art 31, relativo al congelamento, sequestro e confisca, dispone che ciascuno Stato prende, nell'ambito del proprio sistema giuridico interno, le misure necessarie per permettere la confisca dei proventi del crimine provenienti da reati stabiliti dalla stessa Convenzione o di beni il cui valore corrisponde a quello dei proventi.

Anche la decisione quadro 2005/212/GAI stabilisce agli artt. 2 e 3 che tutti gli Stati debbano dotarsi dello strumento della confisca al fine di sottrarre i proventi del reato.

La L. 25 febbraio 2008 n. 34 - con la quale si è conferita delega al governo per l'attuazione della decisione quadro della UE 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005 relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi del reato - contiene qualche spunto per meglio precisare la nozione di profitto: in particolare l'art. 31, comma 1, lett. b) n. 1 stabilisce la direttiva secondo cui per "proventi del reato" devono intendersi il prodotto e il prezzo del reato, nonché "il profitto derivato direttamente o indirettamente dal reato" o il suo impiego; l'art. 31, comma 1, lett. f) delega poi il governo ad adeguare alle medesime direttive le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 231/2001.

Nell'esperienza italiana la nozione di profitto confiscabile è stata approfondita e analizzata con riferimento all'istituto della confisca penale - quale prevista in generale (cioè per tutti i reati) dall'art. 240 cod. pen. -, nell'ambito del quale si è tradizionalmente distinto: a) il prodotto del reato, che rappresenta l'oggetto materiale, il frutto derivato al reo come conseguenza dell'illecito (ad esempio l'oggetto falsificato nella falsificazione); b) il profitto del reato, che costituisce l'utilità economica ricavata dal reato; c) il prezzo del reato, cioè l'utilità data al reo perché commetta il reato; d) il provento del reato, che costituisce il termine di genere comprendente sia il prodotto sia il profitto del reato.

Si è evidenziato come proprio la divaricazione tra significati di un medesimo termine, a seconda che esso siano utilizzato in senso economico o in una accezione penale, avrebbe indotto la giurisprudenza a fare riferimento ad una nozione ampia di profitto, in qualche modo riconducibile a quella di ricavo in senso economico, comprensiva, cioè, di tutto ciò che si è "ricavato" in conseguenza della commissione di un reato.

3. Le sentenze delle Sezioni unite "Chabni", "Focarelli", "Romagnoli" e "Muci": la nozione di profitto e il sequestro funzionale alla confisca di denaro.

È risalente nel tempo l'affermazione, espressa dalle Sezioni unite della Corte di cassazione in relazione all'art. 240 cod. pen., secondo cui il "profitto", da tenere distinto dal "prodotto" e dal "prezzo" del reato, consiste in qualsiasi "vantaggio economico" che costituisca un "beneficio aggiunto di tipo patrimoniale" che abbia una "diretta derivazione causale" dalla commissione del reato. (Sez. Un., 3 luglio 1996, n. 9149, Chabni, Rv. 205707, secondo cui "deve ritenersi pacifica in dottrina e giurisprudenza la definizione dei concetti di prodotto, profitto e prezzo del reato contenuti nell'art. 240 c.p. Il prodotto rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita; il profitto, a sua volta, è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio econo mico che si ricava per effetto della commissione del reato; il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l'interessato a commettere il reato").

Nella sentenza in esame, tuttavia, da una parte, non si rinvengono riferimenti specifici al tema delle componenti strutturali del profitto, essendosi le Sezioni unite limitate a fare richiamo al "beneficio aggiunto di tipo patrimoniale", mentre, dall'altra, quanto al nesso di derivazione causale, si afferma la necessità che "il profitto" derivi "direttamente" dal reato.

Tali principi furono sostanzialmente ribaditi dalle Sezioni unite in due consecutive pronunce del 2004, riguardanti, entrambe, due sequestri preventivi, ex art. 321, comma 2, cod. proc. pen, di cose confiscabili ai sensi dell'art. 240 cod. pen. La prima, nel definire il profitto come "vantaggio di natura economica'" o "beneficio aggiunto di tipo patrimoniale", puntualizzò la necessità della stretta derivazione causale del profitto dal reato, senza, peraltro, chiarire il rapporto tra il concetto di profitto e quello di lucro, e affrontare la questione del se, nel generico riferimento al vantaggio di natura economica debba essere compreso anche il mero risparmio (Sez. Un., 24 maggio 2004, n. 29951, C. fall. in proc. Focarelli, Rv. 228166 e in motivazione).

La Corte affrontò il tema del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta di somme di denaro che costituiscono "profitto del reato", affermando che il sequestro deve ritenersi ammissibile sia quando la somma si identifichi proprio in quella che è stata acquisita attraverso l'attività criminosa, sia ogni qual volta vi siano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di occultare (nello stesso senso, in precedenza, Sez. VI, 25 marzo 2003, n. 23773, Madaffari, Rv. 225757).

Si affermò che la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento non impone che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque sia stata rinvenuta, purché sia attribuibile all'indagato (in tal senso anche, Sez. VI, 1 febbraio 1995, n. 4289, Carullo, Rv. 200752); si sottolineò, tuttavia, con chiarezza, che anche per il denaro deve pur sempre sussistere il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale, tra il "bene" sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito (utilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa).

Con particolare riguardo agli illeciti fiscali, le Sezioni unite nella occasione esclusero la possibilità di fare riferimento a nessi di derivazione esclusivamente congetturali tra denaro e reato, che avrebbero potuto condurre "all'aberrante conclusione di ritenere in ogni caso e comunque legittimo il sequestro del patrimonio di qualsiasi soggetto venga indiziato di illeciti tributari". (conformi, più recentemente, Sez. V, 26 gennaio 2010, n. 11288, Natali, Rv. 246360; Sez. II, 20 settembre 2007, n. 38600, Corigliano, Rv. 238161; Sez. I, 20 gennaio 1994, n. 325, Pirazzini, Rv. 197134).

Sul tema specifico del sequestro di somme di denaro depositate in conto corrente in senso estensivo si pone Sez. VI, 26 novembre 2009, n. 14174/10, P.G. in proc. Canalia, Rv. 246721, secondo cui il denaro, come cosa essenzialmente fungibile e quale parametro di valutazione unificante rispetto a cose di diverso valore, esorbita dal sistema della confisca per equivalente; secondo l'impostazione in esame, l'art. 322-ter cod. pen. dovrebbe essere inteso nel senso che solo nel caso in cui sia impossibile sottoporre a confisca i beni che costituiscano il prezzo o il profitto del reato e nel patrimonio del condannato non vi sia disponibilità di denaro liquido, si ricorrerà alla confisca di beni diversi, eventualmente disponibili, nei limiti del valore corrispondente al prezzo del reato.

A fronte di questa interpretazione, secondo la Corte, erroneamente si esclude la configurabilità della confisca diretta, e quindi del sequestro, del denaro liquido disponibile su un conto corrente dell'imputato, dal momento che, invece, la fungibilità del bene e la confusione delle somme che ne deriva nella composizione del patrimonio, rendono superflua la ricerca della provenienza del denaro con riferimento al prezzo o al profitto del reato (Nello stesso senso, Sez. VI, 14 giugno 2007, n. 30966, Puliga, Rv. 236984).

Sempre nel corso del 2004, le Sezioni unite della Corte di cassazione tornarono ad affrontare la questione della definizione del profitto confiscabile, facendo nuovamente riferimento al "vantaggio di natura economica" che deriva dal reato, precisando che all'espressione profitto non va, comunque, attribuito il significato di "utile netto" o di 'reddito', indicando esso, invece, un "beneficio aggiunto di natura economica".

Nella occasione, pur non affrontando specificamente il tema delle componenti strutturali del profitto, la Corte affermò testualmente: "deve essere tenuta ferma, però, in ogni caso - per evitare un'estensione indiscriminata ed una dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, indiretto o mediato, che possa scaturire da un reato - l'esigenza di una diretta derivazione causale dall'attività del reo, intesa quale stretta relazione con la condotta illecita". (Sez. Un., 24 maggio 2004, n. 29952, C. fall. in proc. Romagnoli, in motivazione).

Una successiva sentenza delle Sezioni Unite, in materia di sequestro preventivo preordinato alla confisca di cui all'art. 322-ter c.p., consolidò l'orientamento in questione, affermando che il profitto corrisponde all'"utile ottenuto in seguito alla commissione del reato", e il prodotto al "risultato, cioè al frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita".

Nessun specifico richiamo fu fatto al problema del se il termine "utile" dovesse essere inteso per fare riferimento anche a benefici non patrimoniali, e, soprattutto, a soli incrementi positivi di patrimonio, con esclusione quindi del mero risparmio ovvero della mancata diminuzione patrimoniale a seguito dell'inadempimento di obbligazioni di fare o di pagamento. (Sez. Un., 25 ottobre 2005, n. 41936, Muci, Rv. 232164).

4. Prime considerazioni riepilogative.

È fondato ritenere, quindi, che, aderendo alla concezione causale, la giurisprudenza delle Sezioni unite per lungo tempo e in molteplici occasioni, da un lato, ha richiesto, ai fini della confisca penale, un rapporto di pertinenzialità diretta del profitto con il reato, in forza del quale i beni da confiscare (anche per equivalente) sono stati determinati escludendo le maggiorazioni conseguenti ad attività ulteriori e non essenziali alla commissione del reato medesimo - quelle, cioè, costituenti una conseguenza eventuale o comunque indiretta dell'attività criminosa (ci si può riferire, ad esempio, agli importi risultanti da investimenti successivi delle somme in altre attività lecite, ovvero ai proventi di attività ulteriori estranee alla struttura essenziale del reato - Sul tema, a titolo esemplificativo, Sez. VI, 4 novembre 2003, n. 46780, Falci ed altro, Rv. 227326) - e, dall'altro, abbia attribuito alla derivazione causale del provento dal reato una valenza definitoria e delimitativa del concetto: il "profitto del reato" è tale in quanto, e solo in quanto, derivi causalmente dal reato medesimo.

5. La sentenza delle Sezioni unite "Miragliotta".

Il principio della diretta derivazione causale del profitto dal reato fu, tuttavia, rivisitato in senso estensivo da una ulteriore pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con riferimento alla confisca-misura di sicurezza del profitto della concussione, risolvendo un contrasto giurisprudenziale fra l'indirizzo nomofilattico secondo cui, ai fini della confisca diretta, il profitto avrebbe richiesto una stretta e diretta correlazione del bene da aggredire con l'oggetto del reato (non potendo attribuirsi rilievo ad ogni altro legame di derivazione meramente indiretto e mediato), ed altro orientamento più estensivo, che aveva, invece, considerato profitto anche i beni acquisiti con l'impiego dell'immediato prodotto del reato, recepì quest'ultimo indirizzo.

Nella occasione le Sezioni unite affermarono, da una parte, che l'art. 240 cod. pen., richiede solo l'esistenza di un nesso di pertinenzialità tra reato e profitto senza tuttavia limitare tale nesso a quello di stretta ed immediata derivazione causale e, dall'altra, che non era possibile ritenere che le utili trasformazioni dell'immediato prodotto del reato e gli impieghi redditizi del denaro di provenienza delittuosa potessero impedire la sottrazione al colpevole di ciò che era stato il preciso obiettivo del disegno criminoso perseguito.

Nell'occasione, le Sezioni unite, quanto al profilo strutturale del profitto, affermarono che esso è costituito dal "lucro" cioè dal "vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato". (Sez. Un., 25 ottobre 2007, n. 10208/08, Miragliotta, Rv. 238700).

Ancora una volta non fu chiarito in cosa consistesse tale lucro o vantaggio economico e se, con l'espressione in parola, si dovesse fare riferimento ai soli incrementi positivi di patrimonio ovvero anche a mancate diminuzioni.

Non pare peraltro inutile evidenziare come, sul piano economico, non sempre un risparmio di spesa, ovvero un mancato esborso, realizzi un incremento patrimoniale e ciò almeno in tutti i casi in cui "il risparmio" consegua al mancato adempimento di un debito regolarmente contabilizzato.

Quanto invece al profilo del nesso di derivazione del profitto dal reato, la Corte chiarì come nel concetto in questione dovessero essere compresi non soltanto i beni che l'autore del reato "apprende" alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche qualsiasi trasformazione che il danaro illecitamente conseguito subisca a seguito del suo investimento, a condizione, tuttavia, che detta trasformazione sia collegabile in modo diretto al reato stesso e al profitto immediato - cioè il danaro conseguito - e sia soggettivamente attribuibile all'autore del reato, che quella trasformazione abbia voluto.

La Corte, dopo aver ricondotto nella nozione di profitto i c.d. surrogati, cioè i beni in cui il profitto-denaro viene investito, e le possibili utilità derivanti dall'impiego immediato del profitto, fece un breve riferimento anche alla possibilità di ricomprendere nella nozione in questione ogni altra utilità che il reo realizzi come effetto mediato ed indiretto della sua attività criminosa.

Tale ultimo profilo fu, peraltro, espressamente ripreso da una successiva pronuncia, non a Sezioni unite, in cui la Corte, richiamando la sentenza delle Sezioni unite "Miragliotta", evidenziò come "l'interpretazione evolutiva in subiecta materia, in linea con la ratio dell'istituto. . .ed anche con la normativa internazionale, che ha sempre considerato come oggetto della confisca il provento illecito, ovvero ogni vantaggio economico derivato dal reato" inducesse a ritenere "che anche l'incremento dell'avviamento dell'impresa aggiudicataria, in termini di ritorno economico in considerazione della rilevanza della commessa, del cospicuo importo della stessa, della pubblicità che ne deriva alla società interessata, costituisce un vantaggio economico che la società ritrae, sia pure in forma indiretta e mediata, come conseguenza della attività criminosa alla stessa riferibile" (Sez. II, 6 novembre 2008, n. 45389, Perino, Rv. 241973).

6. Profitto e responsabilità degli enti: il mutamento di prospettiva e la valorizzazione del profilo strutturale.

In tale quadro di riferimento, deve essere sottolineato come, invece, nell'ambito della disciplina del decreto legislativo 8 giugno 2011, n. 231 sia stata maggiormente avvertita la necessità di una differente approccio metodologico nella individuazione della nozione di profitto del reato, privilegiando non già e non solo il profilo causale, quanto, piuttosto, i profili strutturali del medesimo, in quanto collegato ad attività economica imprenditoriale, come tale lecita.

Il tema è in qualche modo collegato alla natura sanzionatoria della confisca prevista dall'art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001 e di tale "diverso" approccio si ha indiretta conferma anche nello elaborazione della giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di presupposti per l'adozione di misure cautelari reali in cui va registrata la generale - ancorché graduale - tendenza a innalzare lo standard indiziario per i presupposti che giustificano il sequestro preventivo, sicché si richiede che il giudice debba verificare la sussistenza del fumus commissi delicti attraverso un accertamento concreto, basato sulla indicazione di elementi dimostrativi, sia pure sul piano indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato (Sez. V, 26 gennaio 2010, n. 18078, De Stefani, Rv. 247134; Sez. V, 15 luglio 2008, n. 37695, Cecchi Gori e altro, Rv. 241632; Sez. VI, 21 giugno 2012, n. 35786, Buttini, Rv. 254394; Sez. VI, 24 ottobre 2013, n. 45591, Ferro, Rv. 257816; Sez. II, 25 marzo 2014, n. 18778, P.M. in proc. Mussari, Rv. 259960; Sez. VI, 6 febbraio 2014, n. 16153, Di Salvo, Rv. 259337. In senso opposto, da ultimo, Sez. II, 16 settembre 2014, n. 41435, Associazione Integrazione Immigrati, e altri, Rv. 260043, secondo cui "In tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, per il sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca, eventualmente anche per equivalente, e quindi, secondo il disposto dell'art. 19 D.Lgs. n. 231 del 2001, dei beni che costituiscono prezzo e profitto del reato, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità, né il "periculum" richiesto per il sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma primo, cod. proc. pen., essendo sufficiente accertarne la confiscabilità una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato").

Tali esigenze di garanzia si rivelano particolarmente avvertite proprio per il sequestro preventivo funzionale a forme di confisca con natura sanzionatoria.

Per la particolare natura afflittiva e sanzionatoria della confisca di valore, in cui il reato degrada a mero presupposto per l'ablazione dei beni per un valore corrispondente al profitto del reato, ha iniziato a consolidarsi un orientamento che richiede l'allegazione di un compendio indiziario a carico dell'indagato di maggiore consistenza.

Nell'ipotesi, cioè, in cui l'ablazione dei beni ha natura sanzionatoria, al giudice non sarebbe consentito prescindere da una valutazione di colpevolezza, che potrà eventualmente essere apprezzata con minor rigore rispetto alle previsioni sulle misure cautelari, ma che dovrà in ogni caso sussistere. In tal senso, si è sostenuto che, per procedere al sequestro preventivo a fini di ablazione del profitto del reato nei confronti di una persona giuridica, è richiesto un fumus delicti allargato, che finisce per coincidere sostanzialmente con l'accertamento della sussistenza di gravi indizi di responsabilità dell'ente indagato (Sez. VI, 31 maggio 2012, n. 34505, Codelfa s.p.a., Rv. 252929).

In tale contesto si è affermato che, essendo il sequestro nei confronti degli enti prodromico all'irrogazione di una sanzione principale, sarebbe proprio la natura di sanzione principale e obbligatoria della misura ablatoria ad imporre una più approfondita valutazione del presupposto del fumus delicti, non limitata alla sola verifica della sussumibilità del fatto attribuito in una determinata ipotesi di reato, ma estesa al controllo sulla concreta fondatezza dell'accusa.

I principi elaborati nella materia in esame dimostrano peraltro una tendenziale omologazione delle misure cautelari reali a quelle personali: i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, previsti per le misure cautelari personali, sono applicabili anche alle misure cautelari reali, dovendo il giudice motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato della misura cautelare con altre misure meno invasive (cfr., Sez. IV, 21 marzo 2013, n. 18603, P.M. in proc. Camerini, Rv. 256068).

Evidenziato ciò, quanto alla nozione di profitto confiscabile ai sensi dell'art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2000, si è rilevato come:

a) in campo strettamente penale si sia assistito all'affermarsi di una concezione causale del profitto funzionalmente volta a legittimare la confisca del cd. "profitto lordo" del reato, anche "trasformato o sostituito", cioè, sostanzialmente del "lucro" o del "vantaggio" conseguito in maniera causale dal reato, senza, tuttavia, da un lato, specificare in cosa consista tale vantaggio - quali siano, cioè, i suoi elementi costitutivi - e, dall'altro, ampliando lo stesso nesso di derivazione causale del profitto dal reato;

b) in relazione alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, si sia invece affermata in un dato momento storico la tesi secondo cui il profitto confiscabile sarebbe rappresentato dal cd. "profitto netto", da intendersi cioè come decurtato delle "spese lecite" che gravano sull'ente, ciò in quanto, in assenza di una precisa scelta espressa dal legislatore, tale nozione sarebbe quella maggiormente corrispondente alla ratio riequilibratrice posta a base della confisca nel D.Lgs. cit. e l'unica in grado di rispettare i principi di proporzione e determinatezza.

L'esigenza di rivolgere attenzione ai profili strutturali del profitto ha trovato ulteriore conferma nel fatto che l'art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001 valorizza e privilegia, rispetto al potere ablatorio dello Stato, le ragioni restitutorie e la tutela dei terzi danneggiati di buona fede; proprio da tale diverso approccio di metodo è conseguita l'elaborazione dottrinaria, nel cui ambito tuttavia si registrano tesi eterogenee, finalizzata a comprendere e chiarire se alcune specifiche poste, quali ad esempio i diritti immateriali, i risparmi di spesa e i diritti di credito, possano o meno costituire profitto confiscabile.

Tale diverso approccio ha storicamente trovato riconoscimento innanzitutto nella giurisprudenza di merito ma la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione, pronunciandosi in materia di profitto quale presupposto di applicazione di misure interdittive, ha espressamente riconosciuto la possibilità di attribuire diversi significati al termine in questione, a seconda della diversa valenza giuridica rispetto alla quale esso venga esaminato, precisandosi così che (solo) la nozione di "profitto di rilevante entità" - richiesta dal legislatore ai fini dell'applicazione di misure cautelari interdittive all'ente - comprende "anche vantaggi non immediati" ed è più ampia di quella di profitto come "utile netto" da utilizzare per individuare l'entità del profitto che il legislatore intende assoggettare alla confisca-sanzione. (Sez. VI, 23 giugno 2006, n. 32627, La Fiorita Soc. Coop. a r.l., Rv. 235623; Sez. VI, 19 ottobre 2005, n. 44992, Piccolo, Rv. 232623; più recentemente, Sez. VI, 19 marzo 2013, n. 13061, Soc. Coop., CMSA, Rv. 254841).

7. La definizione generale del profitto confiscabile nella sentenza delle Sezioni unite "Fisia Impianti": la confiscabilità dei crediti.

In tale contesto si pongono i principi fissati dalle Sezioni unite della Corte di cassazione in tema di sequestro finalizzato alla confisca-sanzione, prevista dagli artt. 19-53 D.lgs. n. 231 del 2001. (Sez. Un., 27 marzo 2008, n. 26654, Fisia Impianti s.p.a. e altri, Rv. 239924).

Si tratta di una sentenza in cui la Corte affronta il tema del profitto confiscabile anche sotto il profilo della individuazione della sua struttura.

Come è stato affermato, il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite può essere scisso in due parti, una di valenza generale, definente il concetto giuridico di profitto del reato recepito negli artt. 19 e 53 del D.Lgs. n. 231 del 2001, ed un'altra - enunciata in forma di "regola di esclusione" - ritagliata sulla specifica ipotesi dell'illecito che si inserisce in un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive.

Quanto alla regola generale, le Sezioni Unite definirono il profitto confiscabile/sequestrabile come il "vantaggio economico di diretta ed immediata derivazione causale dal reato": profitto, si affermò, è solo un risultato suscettibile di valutazione positiva dal punto di vista economico.

La Corte, in particolare, chiarì che:

a) nel linguaggio penalistico il termine ha assunto sempre un significato oggettivamente più ampio rispetto a quello economico o aziendalistico, non essendo mai stato inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative;

b) all'espressione "profitto" va attribuito il significato di "beneficio aggiunto di tipo patri-moniale", a superamento "quindi dell'ambiguità che il termine "vantaggio" può ingenerare";

c) il profitto del reato presuppone l'accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell'agente: "Il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l'effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo: occorre cioè una correlazione diretta del profitto col reato e una stretta affinità con l'oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità dall'illecito. A tale criterio di selezione s'ispira anche la recente pronuncia delle Sezioni Unite 25/10/2007 n. 10280 (ric. Miragliotta), che, con riferimento alla confisca-misura di sicurezza del profitto della concussione, ha privilegiato -è vero- una nozione di profitto in senso "estensivo", ricomprendendovi anche il bene acquistato col denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, ma ha sottolineato che tale reimpiego è comunque causalmente ricollegabile al reato e al profitto "immediato" dello stesso. Si ribadisce in tale decisione, quindi, la necessità di un rapporto diretto tra profitto e reato, si nega, però, che l'autore di quest'ultimo possa sottrarre il profitto alla misura ablativa ricorrendo all'escamotage di trasformare l'identità storica del medesimo profitto, che rimane comunque individuabile nel frutto del reimpiego, anch'esso causalmente ricollegabile in modo univoco, sulla base di chiari elementi indiziari evincibili dalla concreta fattispecie, all'attività criminosa posta in essere dall'agente";

d) la nozione di profitto confiscabile e diversa e più ristretta di quella di profitto di rilevante entità richiamato nell'art. 13 (ma anche negli artt. 16, 24, comma 2, 25, comma 3, 25-ter, comma 2, 25-sexies, comma 2), evocando, solo quest'ultimo, un concetto di profitto "dinamico", rapportato alla natura e al volume dell'attività d'impresa e comprensivo dei vantaggi economici anche non immediati, ma "di prospettiva", in relazione, ad esempio, alla posizione di privilegio che l'ente collettivo può acquisire sul mercato in conseguenza delle condotte illecite poste in essere dai suoi organi apicali o da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi".

La Corte, in particolare, escluse che i vantaggi economici "non immediati", quelli, cioè "di prospettiva" potessero essere ricompresi nel concetto di profitto confiscabile.

Dopo aver chiarito il profilo del nesso di derivazione tra profitto e reato, le Sezioni unite affrontarono una serie di specifiche tematiche relative alle componenti strutturali del profitto (crediti, risparmi di spesa).

Con riguardo ai crediti, la Corte escluse l'utilizzabilità della confisca di valore per colpire semplici aspettative di vantaggio, come quelle oggetto di diritti di credito: "l'imputazione a profitto di semplici crediti, anche se certi, liquidi ed esigibili, non può essere condivisa, trattandosi di utilità non ancora effettivamente conseguite"; la loro apprensione per equivalente porrebbe il destinatario nella singolare condizione "di vedersi privato di un bene già a sua disposizione in ragione di una utilità non ancora concretamente realizzata".

Tuttavia, la postilla secondo cui il provvedimento di confisca (e quindi quello di sequestro ad essa funzionale) avrebbe dovuto in questo caso ricadere sui crediti stessi (confisca diretta), legittimò l'opinione che il massimo Consesso di legittimità non avesse voluto sbarrare completamente il passo alla confisca dei beni in oggetto, sia pure solo nella forma tradizionale di cui al primo comma dell'art. 19 del D.Lgs. n. 231 del 2001, cioè nella forma della confisca di proprietà..

Sulle condizioni applicative della confisca diretta del credito e sulle sue concrete modalità esecutive le Sezioni unite tuttavia non offrirono ulteriori ragguagli.

Un primo limite, comunque, era già contenuto nello stesso sillogismo articolato dalla suprema Corte: sancendo l'impraticabilità della confisca per equivalente anche in relazione a "crediti certi, liquidi ed esigibili", il Giudice di legittimità implicitamente elevò i criteri della certezza, liquidità ed immediata esigibilità a condizioni di ammissibilità della stessa modalità di ablazione ritenuta percorribile (quella "diretta").

8. La giurisprudenza successiva a "Fisia Impianti" sulla confiscabilità dei crediti.

I principi indicati sono stati ripresi da Sez. VI, 17 giugno 2010, n. 35748, P.M. e Impregilo s.p.a., Rv. 247913, secondo cui dalla lettura della sentenza delle Sezioni unite "Fisia impianti" emerge che l'impossibilità di imputare a profitto semplici crediti, anche se certi, liquidi ed esigibili, in quanto utilità non ancora effettivamente conseguite, è riferibile esclusivamente al sequestro (e alla confisca) per equivalente, essendo tale esclusione giustificata in relazione alla circostanza che in tale ipotesi il destinatario della misura cautelare si vedrebbe "privato di un bene già a sua disposizione in ragione di una utilità non ancora concretamente realizzata".

Tale situazione, secondo la sentenza in esame, non verrebbe invece a determinarsi nel caso di sequestro diretto del credito e della sua documentazione, a condizione che, oltre ad essere considerato come profitto del reato, si tratti di un credito certo, liquido ed esigibile (Sul tema, successivamente, Sez. V, 14 febbraio 2009, n. 7718, Fondazione Centro S. Raffaele del M.T., Rv. 242568; Sez. V, 14 dicembre 2011, n. 3238/12, Società Valore S.p.a., Rv. 251721; in senso non esattamente simmetrico, Sez. VI, 19 marzo 2013, n. 13061, Soc. Coop., CMSA, Rv. 254841).

Sul tema deve essere segnalata anche Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27746, P.M. in proc. Bucalo, Rv. 247768, secondo cui è illegittimo il sequestro preventivo a fini di confisca di beni equivalenti al profitto del reato di frode nelle pubbliche forniture, qualora quest'ultimo venga identificato con le somme anticipate da un istituto bancario a seguito della cessione "pro solvendo" dei crediti vantati dall'imputato nei confronti della P.A. frodata; ciò in quanto, secondo la Corte, il profitto consisterebbe soltanto in un effettivo arricchimento patrimoniale acquisito e non nella semplice esistenza di un credito, "per così dire, "virtuale", in quanto non riscosso e meno che mai nella cessione pro solvendo dello stesso credito, non ancora liquido ed esigibile, a garanzia di una linea di affidamento accordata alla cedente dalla banca e che pur concretandosi in una temporanea anticipazione di liquidità, comporta comunque contestualmente l'assunzione di un debito di corrispondente importo. Nella cessione pro solvendo la liberazione del cedente si verifica solo quando il cessionario abbia ottenuto il pagamento dal debitore ceduto".

9. Le sentenza "Fisia impianti" sui risparmi di spesa.

Quanto ai risparmi di spesa, nella fattispecie esaminata dalle Sezioni unite con la sentenza "Fisia Impianti" si trattava di far confluire nella nozione di profitto un rilevante importo anticipato all'ente - nei cui confronti si procedeva - per la costruzione di alcuni impianti; si trattava, cioè, di somme che l'impresa avrebbe dovuto impiegare per la costruzione di alcuni impianti e che, invece, per effetto della anticipazione ricevuta, erano rimaste nel suo patrimonio.

La Corte ammise la possibilità di includere nella nozione di profitto anche le utilità aggiuntive (introiti), nonché i risparmi di spesa, ma escluse che nella specie potesse "propriamente parlarsi, per quello che emerge, di "risparmio di spesa", presupponendo tale concetto un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere, vale a dire un risultato economico positivo concretamente determinato dalla contestata condotta di truffa".

L'affermazione in questione è stata interpretata nel senso che le Sezioni unite ritennero che una componente strutturale del profitto confiscabile può essere costituita anche da un risparmio di spesa, a condizione, tuttavia, che tale concetto sia recepito non in senso assoluto, cioè quale profitto cui non corrispondano beni materialmente affluiti al reo -, quanto, piuttosto, in senso relativo, cioè come "ricavo introitato" cui non siano stati decurtati i "costi che si sarebbero dovuti sostenere'.

Il riferimento fu, quindi, ad un profitto materialmente conseguito, benché superiore a quello che sarebbe stato lucrato senza il risparmio di spese dovute. (Sul tema, nello stesso senso, Sez. VI, 17 giugno 2010, n. 35748, P.M. e Impregilo s.p.a., Rv. 247913).

10. La giurisprudenza successiva sulla riconducibilità alla nozione di profitto confiscabile delle utilità indirette e dei risparmi di spesa.

È utile in questa sede richiamare sul tema Sez. VI, 20 dicembre 2013, n. 3635/2014, Riva Fire S.p.a., Rv. 257788 intervenuta in una fattispecie in cui era stato disposto, ai sensi degli artt. 19-53 D.Lgs. n. 231 del 2001, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente di beni per un importo pari a 8,1 milioni di euro, ritenuto equivalente al profitto derivante da una pluralità di reati.

Secondo la prospettazione d'accusa, i legali rappresentanti e responsabili della società Ilva S.p.a. di Taranto avevano commesso reati produttivi di danni ambientali nell'interesse e a vantaggio della società, attraverso la mancata esecuzione di una serie di interventi necessari all'attuazione di misure di sicurezza di prevenzione e di protezione dell'ambiente; il profitto sarebbe consistito nella quantificazione delle somme corrispondenti al risparmio di costi necessari per l'adeguamento degli impianti siderurgici.

Avverso il provvedimento emesso dal Tribunale del riesame, le società avevano proposto ricorso per cassazione rilevando, fra le varie questioni, come tra i reati ritenuti produttivi del profitto - risparmio, così come individuato, vi fossero anche quelli previsti dagli artt. 434-437-439 c.p., non compresi tuttavia nel catalogo dei reati - presupposto dell'illecito amministrativo dell'ente e, quindi, inidonei, da una parte, a fondare la responsabilità delle società ai sensi degli artt. 2-5 del D.Lgs. n. 231 del 2001, e, dall'altra, a concorrere alla determinazione dell'entità del profitto sequestrabile e confiscabile.

Sotto altro profilo, le società avevano evidenziato come, ai fini della individuazione del profitto sequestrabile, le fattispecie delittuose non previste fra quelle idonee a fondare la responsabilità dell'ente, non potessero essere "recuperate" ritenendole delitti-scopo del pur contestato reato di associazione a delinquere, perché ciò avrebbe comportato una violazione del principio di tassatività del sistema sanzionatorio previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

Sotto ulteriore profilo, le ricorrenti avevano rilevato come, nella specie, il profitto fosse stato quantificato facendo riferimento all'importo ritenuto necessario per la esecuzione di un programma di "bonifica" dell'area a caldo dello stabilimento, e come, in tal modo, si fosse fatto coincidere il presunto profitto con il danno risarcibile, cioè con la somma necessaria per la esecuzione del programma di "bonifica" e, quindi, per il ripristino della legalità.

Nell'ambito di una articolata motivazione, la Corte di cassazione, annullando senza rinvio l'ordinanza del Tribunale della libertà di Taranto, innanzitutto ha evidenziato come, nella specie, non potesse farsi riferimento a reati non idonei a fondare la responsabilità dell'ente e come la rilevanza di quei reati non potesse essere neanche indirettamente recuperata, si fini della individuazione del profitto confiscabile, ritenendoli delitti - scopo del reato associativo contestato, perché in tal modo "la norma incriminatrice di cui all'art. 416 c.p. … si trasformerebbe, in violazione del principio di tassatività. . .in una disposizione "aperta" dal contenuto elastico, potenzialmente idonea a ricomprendere nel novero dei reati presupposto qualsiasi fattispecie di reato".

La Corte, rivisitando inoltre criticamente la tesi accusatoria, secondo cui, nella specie, il profitto derivato dai reati avrebbe dovuto identificarsi nel mero "risparmio di costi- non sopportati- di adeguamento degli impianti", ha affermato testualmente: "Sulla base di quanto previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, la confisca per equivalente, essendo finalizzata a colpire beni non legati da un nesso pertinenziale con il reato, potrebbe avere ad oggetto, in ipotesi, anche dei vantaggi economici immateriali, fra i quali ben possono farsi rientrare, a titolo esemplificativo, quelli prodotti da economie di costi ovvero da mancati esborsi, ossia da comportamenti che determinano non un miglioramento della situazione patrimoniale dell'ente collettivo ritenuto responsabile di un illecito dipendente da reato, ma un suo mancato decremento. Al riguardo, tuttavia, è necessario considerare le specifiche implicazioni della linea interpretativa tracciata con la su menzionata pronuncia n. 26654/2008 delle Sezioni Unite" (il riferimento è a Fisia Impianti) "laddove si è osservato che la nozione di risparmio di spesa presuppone "un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere, vale a dire un risultato economico positivo", concretamente determinato dalla contestata condotta delittuosa (che nel caso ivi esaminato, peraltro, riguardava la diversa ipotesi di truffa). Ne discende che quella nozione non può essere intesa in termini assoluti, quale profitto cui non corrispondano beni materialmente entrati nella sfera di titolarità del responsabile, ossia entro una prospettiva limitata all'apprezzamento di una diminuzione o semplicemente del mancato aumento del passivo, ma deve necessariamente intendersi in relazione ad un "ricavo introitato" dal quale non siano stati detratti i costi che si sarebbero dovuti sostenere, ossia nel senso di una non diminuzione dell'attivo. Occorre, pertanto, un profitto materialmente conseguito, ma di entità superiore a quello che sarebbe stato ottenuto senza omettere l'erogazione delle spese dovute.

Nè è possibile, del resto, colpire più volte, attraverso un'ingiustificata duplicazione di oneri a carico dell'ente, le medesime somme di denaro, una volta considerate in termini positivi, ossia come accrescimento patrimoniale, ed un'altra volta in termini negativi, come risparmio di spese, potendo essere sottoposta ad espropriazione solo l'eccedenza tra l'incremento patrimoniale effettivamente maturato e quello che sarebbe stato conseguito senza l'indebito risparmio di spese".

Per giungere a tale conclusione la Corte ha richiamato, seppur per limitarne la portata applicativa, gli approdi giurisprudenziali in tema di reati tributari, di cui si dirà in prosieguo, in cui è condivisa l'affermazione secondo cui, in detta materia, l'illiceità connota non la produzione della ricchezza da sottoporre a tassazione quanto, piuttosto, la sua sottrazione a tassazione: nella gran parte dei casi, infatti, il profitto del reato si realizza attraverso il mancato pagamento della imposta dovuta e, quindi, mediante un risparmio di spesa che si traduce non in un miglioramento della situazione patrimoniale, quanto, piuttosto, in un mancato decremento patrimoniale. La frode fiscale non origina cioè proventi sicuramente identificabili e riconoscibili come tali nel patrimonio, traducendosi per lo più in un risparmio fiscale (nell'ipotesi di frode per evasione di spesa) ovvero in un potenziale arricchimento futuro sub specie di indebito rimborso (nell'ipotesi di frode per rimborso).

Pare sostenibile che nel caso di specie la Corte, assimilando economie di costi e mancati esborsi, recepì, anche testualmente, i principi fissati dalle Sezioni unite nella sentenza "Fisia Impianti".

Non diversamente, Sez. VI, 14 novembre 2012, n. 11029/13, Ingross Levante S.p.a., Rv. 254722, secondo cui "In tema di responsabilità degli enti collettivi per il reato di corruzione in atti giudiziari, il profitto oggetto del sequestro preventivo funzionale alla confisca non si identifica necessariamente con l'utilità riconosciuta o attribuita dal provvedimento del giudice, in quanto l'accordo corruttivo di cui all'art. 319-ter cod. pen. può anche avere ad oggetto un atto di ufficio e non implicare, quindi, un danno o un favore ingiusto per una delle parti. (In applicazione del suindicato principio, la Corte ha escluso che il risparmio d'imposta derivante da una sentenza del giudice tributario oggetto di accordo corruttivo costituisca di per sé profitto del reato, indipendentemente dall'accertamento della fondatezza della pretesa erariale)".

Quanto al rapporto tra profitto confiscabile e utilità indirette, indubbio interesse assume Sez. V, 28 novembre 2013, n. 10265/14 Banca Italease S.p.a., Rv. 258577 riguardante una fattispecie in cui, in tema di responsabilità degli enti, ai fini del sequestro finalizzato alla confisca nei confronti di un istituto di credito era controverso se il profitto del reato derivante dal reato di false comunicazioni sociali potesse identificarsi con le risorse che non erano state vincolate al patrimonio di vigilanza dell'ente attraverso la sottostima del rischio di credito connesso ad alcune operazioni finanziarie in derivati.

In particolare, era stato contestato come la nozione di profitto del reato fosse stata nella specie indebitamente espansa fino a ricondurvi non solo l'utilità economica corrispondente ad un effettivo incremento patrimoniale determinato dalla consumazione del reato, ma altresì gli indiretti riflessi economici vantaggiosi conseguenti alla realizzazione dello stesso reato, costituiti dal mancato vincolo della somma oggetto di ablazione al patrimonio di vigilanza; si affermava, cioè, che la falsità consumata nel bilancio dell'istituto di credito non aveva modificato il patrimonio dell'ente, perché non aveva in alcun modo generato alcun nuovo cespite, ma solo liberato nuove risorse patrimoniali per nuovi impieghi.

Nell'occasione, la Corte di cassazione ha affermato: "è necessario che il profitto, per essere tipico, corrisponda ad un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario ingenerato dal reato attraverso la creazione, la trasformazione o l'acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica (materialità ed attualità sono caratteri che devono intendersi evocati come requisiti propri del profitto in quanto evento, mentre quello della variazione di segno positivo è immanente alla scelta terminologica operata dal legislatore per definire tale evento)".

Sulla base di tale presupposto la Corte ha chiarito che la nozione di profitto non può essere fatta coincidere con quella "di vantaggio" perché i due termini, alla luce del contesto normativo di riferimento, delimitano aree concettuali concentriche, ma non sovrapponibili. "la sentenza impugnata si "accontenta" infatti di poter qualificare «la disponibilità economica artificiosamente procurata» attraverso la manipolazione del bilancio come un incremento del patrimonio disponibile della società e dunque come un vantaggio economico per la stessa, senza avvedersi che in tal modo finisce per omettere qualsiasi motivazione sulla configurabilità di un effettivo incremento patrimoniale in capo all'ente imputato, giungendo in realtà implicitamente a negare la stessa essenzialità di tale carattere ai fini della ricostruzione della nozione di profitto".

Il profitto, secondo la Corte, non poteva essere costituito dal mancato accantonamento di quote di capitale proporzionate al rischio insorto a seguito di alcune operazioni finanziarie, perché, nella specie, non vi era stata creazione di una nuova ricchezza ma "la mera destinazione di quella preesistente alla consumazione del reato - e la cui lecita acquisizione non è in discussione - al soddisfacimento di scopi diversi da quelli che avrebbero dovuto essere perseguiti".

11. Le Sezioni unite "Adami" sulla individuazione del profitto confiscabile in tema di reati tributari.

In tema di reati tributari è condivisa l'affermazione secondo cui l'illiceità connota non la produzione della ricchezza da sottoporre a tassazione quanto, piuttosto, la sua sottrazione a tassazione: non è cioè in discussione la liceità dei negozi giuridici produttivi degli utili e del valore aggiunto da sottoporre a tassazione.

Nella gran parte dei casi, infatti, il profitto del reato si realizza attraverso il mancato pagamento della imposta dovuta e, quindi, mediante un risparmio di spesa che si traduce non in un miglioramento della situazione patrimoniale, quanto, piuttosto, in un mancato decremento patrimoniale. La frode fiscale non origina proventi sicuramente identificabili e riconoscibili come tali nel patrimonio, traducendosi per lo più in un risparmio fiscale (nell'ipotesi di frode per evasione di spesa) ovvero in un potenziale arricchimento futuro sub specie di indebito rimborso (nell'ipotesi di frode per rimborso).

Con specifico riferimento al tema dei reati tributari, si assumeva che il profitto non potesse essere assoggettato a confisca perché il valore sottratto, cioè l'imposta non corrisposta, essendo già presente nel patrimonio del reo, non poteva considerarsi profitto "proveniente da reato".

Si affermava, cioè, che in tema di reati tributari il profitto consistesse solo in un risparmio di spesa consistente in un mancato esborso conseguente all'inadempimento di un obbligazione di pagamento.

Sul punto è intervenuto il legislatore, attraverso l'art. 1, comma 143, della legge finanziaria 24 dicembre 2007, n. 244, prevedendo espressamente l'applicabilità dell'art. 322-ter cod. pen. ai reati tributari.

Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno affermato il principio secondo cui, in tema di reati tributari, il profitto confiscabile anche nella forma per equivalente è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito tributario (Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 18374, Adami, Rv. 255036).

12. La distinzione tra reato contratto e reato in contratto ai fini della individuazione del profitto confiscabile.

Un intero paragrafo della decisione "Fisia Impianti" fu dedicato all'approfondimento di possibili deroghe al principio generale; la Corte giunse all'enucleazione di una "regola di esclusione", che caratterizza ulteriormente - in negativo - ciò che deve essere definito: non può ritenersi profitto del reato, e come tale non è legittimamente confiscabile, il "corrispettivo di una prestazione lecita… regolarmente eseguita dall'obbligato", benché nell'ambito di un rapporto contrattuale inquinato, nella fase di formazione o in quella di esecuzione, dalla commissione di un reato.

Il profitto, secondo le Sezioni unite, andrebbe pertanto identificato con il vantaggio economico derivato dal reato "al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell'ambito del rapporto sinallagmatico con l'ente".

Tale conclusione è fondata sulla distinzione tra impresa criminosa, quella, cioè, stabilmente dedita alla commissione di reati, ed esercizio di un'attività imprenditoriale lecita, nel cui ambito venga realizzato un illecito penale.

Il profitto venne identificato nel ricavo lordo quando "s'inserisce [ . . . ] validamente, senza alcuna possibilità di letture più restrittive, nello scenario di un'attività totalmente illecita".

Quando, invece, l'illecito penale si innesta episodicamente in un'attività imprenditoriale lecita, e, in particolar modo, "nel settore della responsabilità degli enti coinvolti in un rapporto di natura sinallagmatica", l'identificazione del profitto con il lordo "può subire, per così dire, una deroga o un ridimensionamento, nel senso che deve essere rapportata e adeguata alla concreta situazione che viene in considerazione".

Poiché nell'attività economica lecita il trasferimento del bene avviene sulla base dell'esistenza di un titolo giuridico, occorrerebbe, secondo la Corte, verificare quali conseguenze abbia la commissione di un reato sul titolo giuridico in forza del quale il trasferimento avviene.

La risposta a tale domanda fu fornita valorizzando la distinzione tra reato-contratto e reato-in contratto; si affermò che devono essere distinti i casi in cui la legge direttamente sanzioni il regolamento contrattuale (reato-contratto) - ipotesi nelle quali il contratto è nullo per contrarietà a norme imperative ex art. 1418, comma 1, cod. civ. - dai casi in cui la legge penale punisca, invece, il comportamento di una parte soltanto nella fase delle trattative, di tal che penalmente rilevante non è l'assetto di interessi raggiunto, ma la condotta tenuta da una parte ai danni dell'altra per raggiungerlo (reato-in contratto).

Poiché la legge penale e la legge civile disciplinano ambiti diversi, la violazione della norma penale in caso di reati in contratto non poteva, secondo la Corte, determinare la nullità del contratto, essendo frutto di una unilaterale inottemperanza che non poteva coinvolgere nella sanzione anche la parte per la quale la partecipazione al contratto è lecita.

In tal caso, infatti, non necessariamente l'attuazione del programma obbligatorio previsto nel contratto è connotata da illiceità, atteso che ogni "iniziativa lecitamente assunta" per adempiere alle obbligazioni contrattuali "interrompe qualsiasi collegamento causale con la condotta illecita", giacché il contraente che adempie, sia pure in parte, ha diritto al relativo corrispettivo, che non può considerarsi profitto del reato.

Il corollario che se ne fece conseguire è che la remunerazione di una prestazione lecita, ancorché eseguita nell'ambito di un affare illecito, "non può ritenersi sine causa o sine iure"; e, quindi, non costituisce profitto di un illecito, ma profitto avente "titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale".

13. Il contratto stipulato in violazione di norme penali: i principi fissati dalle Sezioni Unite civili.

Senza alcuna pretesa di esaustività, deve essere evidenziato che la distinzione tra reato contratto e reato in contratto attiene alla individuazione dei rapporti tra norme di comportamento e norme di validità contrattuale e, in particolare, alla verifica delle ipotesi in cui un contratto stipulato in violazione di norme penali debba considerarsi posto in essere in violazione di norme imperative, e quindi sia strutturalmente nullo (reato-contratto), da quelle in cui, invece, la violazione della norma renda comunque il contratto efficace, ancorchè annullabile (reato in contratto).

Dalla violazione di una norma di validità del contratto è tradizionalmente distinta la violazione di una norma di comportamento da parte dei contraenti che può attenere alla fase precontrattuale, non incidendo in tal caso, tuttavia, la violazione sulla validità del contratto - ferma restando la possibile responsabilità dell'autore- ovvero alla fase esecutiva, ma anche in tal caso, ferma restando la responsabilità da inadempimento di obblighi specifici, il contratto continua ad essere valido, potendo al più essere risolto ai sensi dell'art. 1453 cod. civ.

In questo contesto deve essere registrato l'intervento delle Sezioni unite civili, che, in tema di violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario (nella specie, in base all'art. 6, L. n. 1 del 1991), ha riaffermato il tradizionale principio secondo cui, in relazione alla nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, in difetto di espressa previsione in tal senso (c.d. "nullità virtuale"), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, solo la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch'esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, che può al più essere fonte di responsabilità.

L'ampia motivazione - con cui le Sezioni unite hanno deciso la questione sottoposta al loro giudizio - si articola in due passaggi argomentativi fondamentali.

Il primo riguarda la tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto, distinzione di cui si afferma la piena operatività all'interno del sistema: tale distinzione implica che la violazione delle regole di comportamento, "tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell'atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità".

Si tratta di una regola che, ad avviso delle Sezioni unite, deve dirsi "fortemente radicata nei principi del codice civile" ed è confermata dal fatto che "dal fondamentale dovere che grava su ogni contraente di comportarsi secondo correttezza e buona fede… il codice civile fa discendere conseguenze che possono, a determinate condizioni, anche riflettersi sulla sopravvivenza dell'atto (come nel caso dell'annullamento per dolo o violenza, della rescissione per lesione enorme o della risoluzione per inadempimento) e che in ogni caso comportano responsabilità risarcitoria (contrattuale o precontrattuale), ma che, per ciò stesso, non sono evidentemente mai considerate tali da determinare la nullità radicale del contratto (semmai eventualmente annullabile, rescindibile o risolubile), ancorché l'obbligo dì comportarsi con correttezza e buona fede abbia indiscutibilmente carattere imperativo".

Da queste premesse si fa discendere il secondo passaggio argomentativo per cui la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative (art. 1418, comma 1, cod. civ.) opera soltanto al cospetto di "violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto". Si esclude, pertanto, che "l'illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative prenegoziali ovvero nella fase dell'esecuzione del contratto stesso possa esser causa di nullità, indipendentemente dalla natura delle norme con le quali siffatta condotta contrasti, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista" (Sez. Un. civ., 19 dicembre 2007, n. 26724, Rv. 600329; nello stesso senso, Cass. civ., Sez. I, 10 aprile 2014, n. 8462, Rv. 630886).

14. L'analisi strutturale del profitto confiscabile nella giurisprudenza penale anche alla luce della distinzione tra reato contratto e reato in contratto.

Senza alcuna pretesa di esaustività, pare utile evidenziare alcune decisioni in cui la Corte di cassazione, anche alla luce dei principi appena indicati, sembra aver privilegiato l'approccio strutturale ai fini della individuazione del profitto confiscabile.

In tema di truffa contrattuale non si rinvengono orientamenti in apparenza unanimi.

Sez. II, 22 febbraio 2012, 20976, Pravadelli, Rv. 252842, ha ritenuto essere la truffa un reato- contratto, affermando il principio così massimato "La confisca per equivalente ex art. 322-ter cod. pen., ed il relativo sequestro preventivo, nei cosiddetti «reati-contratto», possono avere ad oggetto l'intero prezzo del reato, senza necessità di distinzione tra questo ed il profitto". (Fattispecie in tema di truffa ai danni dello Stato, in cui la Corte ha ritenuto esservi una totale immedesimazione del reato con il negozio giuridico).

Si tratta di una impostazione non seguita da altro indirizzo della stessa Sezione, secondo cui, invece, la truffa costituirebbe un tipico reato in contratto sicchè "non costituisce una componente del profitto del reato, e quindi non è confiscabile, il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall'obbligato ed accettata dalla controparte che ne trae comunque una concreta utilitas, perché essa trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure. (Fattispecie in tema di confisca per equivalente, disposta con riguardo al reato di truffa in danno di un Comune, avente ad oggetto la stipula di un contratto di leasing immobiliare in forza del quale l'ente si obbligava ad acquistare un immobile parzialmente abusivo) (Sez. II, 8 ottobre 2010, n. 39239, Rv. 248770; nello stesso senso, Sez. II, 16 aprile 2009, n. 20506, P.M. in proc. Impregilo spa. e altri, Rv. 243198).

Nello stesso senso, Sez. II, 12 novembre 2013, n. 8339/14, De Cristofaro, Rv. 258787 secondo cui "In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, previsto dall'art. 322 ter cod. pen., il profitto del reato è costituito dal vantaggio economico, già conseguito dall'imputato e di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, calcolato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato dal reato. (Fattispecie, nella quale la Corte ha annullato il provvedimento di sequestro preventivo - disposto nell'ambito di un procedimento per truffa aggravata e corruzione, connesse alla realizzazione di un parcheggio pubblico in project financing - che aveva considerato come profitto del reato anche utilità prospettiche e non ancora acquisite, determinate sulla base delle previsioni degli utili, che nell'arco temporale di oltre tre decenni sarebbero stati tratti dalla gestione economica del parcheggio medesimo)".

Sul tema deve essere segnalata anche Sez. III, 15 ottobre 2013, n. 44446, Runco, Rv. 257628 che ha affermato il principio così massimato "In tema di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis cod. pen.), la confisca del profitto non può essere disposta nel caso di restituzione integrale all'erario della somma anticipata dallo Stato, giacché tale comportamento elimina in radice l'oggetto della misura ablatoria che, se disposta, comporterebbe una duplicazione sanzionatoria contrastante i principi dettati dagli articoli 3, 23 e 25 Cost. ai quali l'interpretazione dell'art. 640-quater cod. pen. deve conformarsi. (Fattispecie in cui la restituzione del profitto e la correlata eliminazione del danno erariale erano avvenuti mediante l'escussione di una polizza fideiussoria bancaria prestata dallo stesso imputato)." In una posizione sostanzialmente intermedia si pone un altro indirizzo secondo cui in tema di truffa contrattuale il profitto del reato previsto dall'art. 640-bis cod. pen., ai fini dell'applicazione della confisca per equivalente, coincide con l'intero ammontare del finanziamento qualora il rapporto contrattuale non si sarebbe perfezionato ed il progetto non sarebbe stato approvato senza le caratteristiche falsamente attestate dal percettore, mentre corrisponde alla maggiore quota dei fondi non dovuti nel caso in cui siano rappresentati dal beneficiario operazioni o costi riportati in fatture o relazioni ideologicamente false (Sez. III, 4 aprile 2012, n. 17451, Mele ed altri, Rv. 252546).

In tema di corruzione e di profitto confiscabile ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, Sez. VI, 26 giugno 2008, n. 42300, P.M. in proc. Finanziaria Tosinvest spa e altri, Rv. 241332, dopo aver richiamato i principi contenuti nella sentenza "Fisia Impianti", ha ritenuto che applicando il principio fissato dalle Sezioni Unite in tema di profitto del reato alla vicenda in esame "appare chiaro che, in presenza di un contratto stipulato con la P.A. ad esecuzione pluriennale, sebbene avente causa illegittima per essere stato il processo di formazione della volontà contrattuale della P.A. distorto e inquinato da una vicenda di corruzione propria antecedente, il profitto che l'ente societario o collettivo consegue dall'appalto criminosamente ottenuto da suoi esponenti apicali non può globalmente omologarsi all'intero valore del rapporto sinallagmatico (a prestazioni corrispettive) in tal modo instaurato con l'amministrazione", dovendosi scindere il profitto confiscabile, quale direttamente derivato dall'illecito penale genetico del conseguito appalto pluriennale, dal profitto determinato dal corrispettivo di una effettiva e corretta erogazione di prestazioni comunque svolta in favore della stessa amministrazione, "prestazioni che non possono considerarsi per immediato automatismo traslativo colorate di illiceità (per derivativa illiceità della causa remota)".

Si è precisato inoltre che il profitto il profitto confiscabile al corruttore va identificato nel solo incremento di valore che il bene abbia ricevuto per effetto dell'attività corruttiva, sicchè il giudice deve prima stabilire il valore dell'incremento del bene e, successivamente, disporre il vincolo cautelare nei limiti del valore corrispondente all'incremento stesso.

Ove infatti l'accordo corruttivo abbia ad oggetto l'alienazione di un bene ad un ente pubblico, il profitto del reato non è costituito dall'intero corrispettivo, ossia dalla somma di denaro equivalente al controvalore del bene, ma dalla sola plusvalenza che il privato venditore ha realizzato, pattuendo illecitamente un corrispettivo superiore rispetto al normale valore di mercato. (Sez. VI, 13 novembre 2008, n. 44995, P.M. in proc. Errico e altri, Rv. 242136; nello stesso senso, Sez. VI, 17 marzo 2009, n. 26176, Paggiaro, Rv. 244522; Sez. VI, 5 luglio 2012, n. 3253/13.M. in proc. Zaffagnini e altri, Rv. 254684; Sez. VI, 26 marzo 2009, n. 17897, P.M. in proc. Ferretti, Rv. 243319, in fattispecie di contratto di appalto ottenuto con la corruzione di pubblici funzionari).

Un approccio strutturale alla individuazione di profitto confiscabile è contenuto anche in Sez. V, 18 dicembre 2008, n. 47983, Tamagni, Rv. 242952, secondo cui non sono scomputabili dal profitto del reato, oggetto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, le attività, pur intrinsecamente lecite, preordinate alla realizzazione della fattispecie criminosa, in quanto nella determinazione del profitto del reato - inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall'illecito ed a questo strettamente pertinenti - non sono utilizzabili parametri valutativi di tipo aziendalistico, quale il criterio del profitto netto che porrebbe a carico dello Stato il rischio di esito negativo del reato, sottraendo contestualmente il reo a qualunque rischio di perdita economica.

In applicazione di questo principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il Tribunale del riesame aveva confermato il decreto di sequestro preventivo di capital gains disposto in relazione al delitto di manipolazione del mercato escludendo che dal profitto del reato fossero detraibili le competenze bancarie versate dall'indagato al fine di ottenere l'affidamento necessario per l'acquisizione dei titoli oggetto di aggiotaggio, preordinato a creare le condizioni di manipolazione del mercato. (Nello stesso senso, Sez., V, 18 luglio 2008, n. 44032, Dordoni, Rv. 241671, in cui la Corte ha ritenuto legittimo il mancato scomputo, dalle somme oggetto di sequestro preventivo per il reato di manipolazione del mercato, delle somme di denaro corrispondenti agli interessi versati dall'indagato nell'ambito dell'operazione bancaria necessaria per l'acquisizione dei titoli azionari oggetto d'aggiotaggio; Sez. VI, 22 maggio 2013, n. 24558, Mezzini, Rv. 256812 in relazione ad una contestazione di abuso di informazioni privilegiate che aveva dato luogo ad un'operazione di compravendita di azioni da cui erano derivati ricavi di gran lunga superiori a quelli conseguibili attraverso una normale cessione, ha ritenuto legittimo il sequestro per equivalente anche con riferimento al valore corrispondente alle somme trattenute dalle società acquirenti a titolo di "retrocessione").

15. La definizione di profitto nella Sentenza delle Sezioni unite "Caruso".

Dopo la sentenza "Fisia Impianti" le Sezioni unite sono tornate ad occuparsi della individuazione del profitto confiscabile privilegiando nuovamente il profilo relativo alla configurazione del tipo di correlazione tra il bene da aggredire ed il reato produttivo di utile economico (Sez. Un., 25 giugno 2009, n. 38691, Caruso, in motivazione).

La Corte di cassazione ritenne «principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità l'assunto secondo cui il profitto del reato presuppone l'accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell'agente. Il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l'effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo: occorre cioè una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l'oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall'illecito (vedi Sez. Unite, 17 dicembre 2003, n. 920/04, Montella). Tale criterio di selezione non appare scalfito dalla pronuncia (Sez. Unite 6.3.2008, n. 10280, Miragliotta) che, con riferimento alla confisca "diretta" (c.d. di proprietà) del profitto della concussione, ha ricompreso nella nozione di profitto anche il bene acquistato con il denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, sottolineando che tale reimpiego deve comunque essere "causalmente" ricollegabile al reato e al profitto "immediato" dello stesso».

Non pare esservi dubbio che nella occasione la Corte recepì innanzitutto l'orientamento più restrittivo della nozione di profitto, quello, cioè, che richiede una diretta correlazione del bene con il reato e una stretta affinità con l'oggetto di questo, ritenendo irrilevante ogni altro nesso di derivazione meramente indiretto o mediato.

Si tratta dell'orientamento in base al quale, verosimilmente, avrebbe dovuto essere esclusa la confiscabilità non solo dei c.d. surrogati, cioè dei beni in cui il profitto viene investito, ma, soprattutto, delle possibili "utilità indirette", o, comunque, delle maggiorazioni conseguenti ad attività ulteriori e non essenziali alla commissione del reato, o delle utilità costituenti una conseguenza eventuale o comunque mediata dell'attività criminosa (es. utilità derivanti da investimenti successivi delle somme in altre attività lecite).

E tuttavia le Sezioni unite, pur richiamando la sentenza "Miragliotta" che, come detto, aveva fatto riferimento, oltre che ai "surrogati", anche ad ogni altra utilità indirette, ritennero non necessario, per ammettere la confiscabilità dei primi, esprimersi in termini più ampi, facendo cioè riferimento alla "conseguenza anche indiretta o mediata della …attività criminosa", limitandosi solo a ribadire, quanto ai surrogati, che anche questi, in tanto sono confiscabili, in quanto (come si afferma appunto nella sentenza "Miragliotta"), siano causalmente ricollegabili al reato e al profitto "immediato": "Il bene costituente profitto è confiscabile ai sensi degli articoli 240 e 322-ter, comma I, prima parte cod. pen. ogni qualvolta sia ricollegabile causalmente in modo preciso alla attività criminosa posta in essere dall'agente. È necessario, pertanto, che siano indicati in modo chiaro gli elementi indiziari sulla cui base determinare come i beni sequestrati possano considerarsi in tutto o in parte l'immediato prodotto di una condanna penalmente rilevante o l'indiretto profitto della stessa, siccome frutto di reimpiego da parte del reo del denaro o di altre utilità direttamente ottenuti dai concussi (ne consegue che anche l'immobile acquistato con il danaro ottenuto dai concussi deve considerarsi profitto del reato)".

La ratio di tale decisione parrebbe doversi individuare nella volontà di escludere una nozione ampia di profitto in senso oltremodo estensivo e, quindi, la confiscabilità delle ulteriori utilità, diverse dai diretti surrogati, cioè di ogni forma di arricchimento derivante dal reato.

16. La definizione di profitto nella sentenza delle Sezioni unite "Gubert".

Il tema è stato nuovamente ripreso nel corso del 2014 dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza "Gubert", in tema di confisca nei confronti di una persona giuridica del profitto derivante dal reato tributario commesso dal legale rappresentante dell'ente (Sez. Un., 30 gennaio 2014, n. 10561, Gubert, Rv. 258646- 647- 648).

Chiamata a pronunciarsi sulla questione del «se sia possibile o meno disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per equivalente nei confronti di beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante o da altro organo della stessa», le Sezioni unite hanno innanzitutto stabilito che la confisca avente ad oggetto somme di denaro, derivante dalla mancata corresponsione della imposta dovuta, o di beni fungibili deve qualificarsi come confisca diretta del profitto

Ciò detto, le Sezioni unite sono tornate ad affrontare la questione della definizione generale della nozione di "profitto".

Richiamati espressamente i principi fissati nella sentenza "Miragliotta", la Corte sembra recepire una nozione generale di profitto funzionale alla confisca capace di accogliere al suo interno "non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa… la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Infatti, il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell'art. 321, comma 2, cod. proc. pen., il suddetto sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l'autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa".

Nel affermare tali principi la Corte ha:

1) espressamente qualificato come risparmio di spesa il profitto derivante dal mancato pagamento del tributo a seguito dell'accertamento del debito tributario;

2) richiamato, ai fini dell'affermazione del principio secondo cui nella nozione di profitto debba farsi rientrare il profitto "ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa", Sez. II, 6 novembre 2008, n. 45389, Perino, Rv. 241973 (relativa, come detto, ad una fattispecie in cui, in tema di responsabilità Sez. II, 6 novembre 2008, n. 45389, Perino, Rv. 241973 (relativa, come detto, ad una fattispecie in cui, in tema di responsabilità degli enti, fu ritenuto legittimo un sequestro preventivo finalizzato alla confisca di somme ritenute profitto del reato di truffa, commessa in relazione ad un contratto di appalto, imputabili all'incremento dell'avviamento commerciale della impresa aggiudicataria) e Sez. VI, 21 ottobre 1994, n. 4114, Giacalone, Rv. 200855, in tema di confiscabilità dei c.d. surrogati);

3) affermato che l'ente, nel cui interesse o vantaggio sia stato commesso dal suo legale rappresentante il reato tributario, non può considerarsi terzo rispetto al reato, sicchè può essere disposta la confisca diretta del denaro, corrispondente al risparmio di spesa derivante dal mancato pagamento della imposta, rimasto nel patrimonio della persona giuridica (Nello stesso senso, successivamente, Sez. III, 8 maggio 2014, n. 39177, P.M. in proc. Civil Vigilanza s.r.l., Rv. 260547, secondo cui "Nei confronti di una persona giuridica è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla "confisca diretta" del profitto rimasto nella disponibilità della stessa, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l'ente una persona estranea al detto reato ma non anche il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, in quanto precluso dal D.Lgs. n. 231 del 2001. (Fattispecie in cui la Corte, in mancanza della prova che i cespiti su cui era stato apposto il vincolo costituissero il risultato diretto della conversione del profitto proveniente da un reato tributario, ha ritenuto legittimo l'annullamento del sequestro preventivo disposto "per equivalente" sui beni appartenenti a una persona giuridica)".

17. La nozione di profitto nella sentenza delle Sezioni Unite "Thyssen".

Sul tema sono nuovamente intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza emessa il 24 aprile 2014, n. 38343, IMP., PG., RC., Espenhahn e altri, Rv. 261116- 117 nel processo per i tragici fatto della "Thyssen".

Nel caso di specie era stato disposto il sequestro, ai sensi degli artt. 19-53 D.Lgs. n. 231 del 2001, di alcune somme di denaro corrispondenti a quelle che la persona giuridica aveva risparmiato nel corso degli anni, non adeguando gli impianti alle legislazione prevista in tema di prevenzione di incidenti sul lavoro.

La Corte di cassazione ha recepito il principio affermato nella sentenza "Gubert" secondo cui "il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l'autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa".

Ha precisato la Corte "con riguardo ad una condotta che reca la violazione di una disciplina prevenzionistica, posta in essere per corrispondere ad istanze aziendali, l'idea di profitto si collega con naturalezza ad una situazione in cui l'ente trae da tale violazione un vantaggio che si concreta, tipicamente, nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura cautelare, o nello svolgimento di una attività in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto. Qui si concreta il vantaggio che costituisce il nucleo essenziale dell'idea normativa di profitto. Dunque non erra per nulla la Corte di merito quando individua il profitto, come minimo, nel risparmio di spesa inerente all'impianto di spegnimento; oltre che nella prosecuzione dell'attività funzionale alla strategia aziendale ma non conforme ai canoni di sicurezza…".

18. La giurisprudenza successiva in tema di sequestro e confisca di somme di denaro.

I principi affermati dalla sentenza delle Sezioni unite "Gubert" sono stati recepiti successivamente da Sez. V, 4 giugno 2014, n. 27523, Argento e altri, Rv. 259855, secondo cui nel caso in cui il profitto di un reato sia rappresentato da denaro o altre cose fungibili, la confisca delle somme o del tantundem rinvenute nella disponibilità del soggetto (persona fisica o giuridica) che lo ha percepito, anche sotto forma di un risparmio di spesa attraverso l'evasione dei tributi, avviene, alla luce della fungibilità di esso, sempre in forma specifica sul profitto diretto e mai per equivalente.

Qualora infatti, secondo la Corte, il profitto sia costituito da denaro, l'adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell'indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo "equivalere" all'importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare, con la conseguenza che è pertanto ammissibile il sequestro preventivo, ex art. 321 cod. proc. pen., qualora sussistano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, anche nei confronti delle persone giuridiche ed indipendentemente dal reato per il quale si procede, e quindi anche con riferimento ai reati tributari, proprio perché il vincolo non è imposto sul valore equivalente al bene da assicurare al processo ma direttamente sul bene ex se confiscabile, "trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di nascondere con il più semplice degli artifizi" o che si è indebitamente trattenuto (sui conti correnti) per non avere adempiuto, come normalmente avviene attraverso la consumazione dei reati tributari, a precisi obblighi fiscali (In senso estensivo, Sez. II, 29 aprile 2014, n. 21228, Riva Fire S.p.a., Rv. 259717, secondo cui "In tema di confisca per equivalente, qualora il profitto tratto da taluno dei reati sia costituito da denaro, l'adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell'indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalere all'importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare. (Fattispecie, in materia di truffa, nella quale veniva disposto il sequestro per equivalente nei confronti di una società, responsabile per illecito amministrativo ex L. 231 del 2001).

Allo stesso modo, la Corte ha ribadito che il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l'autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa.

In senso simmetrico si pone Sez. II, 12 marzo 2014, n. 14600, Ber Banca, S.p.a., Rv. 260145 che ha affermato il principio così massimato:

"Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del denaro, costituente il profitto del reato, può colpire sia la somma che si identifica proprio in quella che è stata acquisita attraverso l'attività criminosa sia la somma corrispondente al valore nominale, ovunque sia stata rinvenuta e comunque sia stata investita. (Fattispecie relativa al sequestro preventivo di denaro, titoli, valori, beni mobili, immobili ed altre utilità nella disponibilità di una banca, corrispondenti al prezzo del reato di market abuse, commesso dai legali rappresentati della banca medesima)".

In particolare, nella occasione la Corte ha affermato che, in relazione al sequestro di somme di denaro, è necessario:

- che la somma sia pertinente al reato contestato, nel senso che una somma di denaro che non abbia alcuna pertinenza con il reato non può essere sequestrata;

- che, dimostrata la pertinenza, il sequestro può colpire: 1) quelle somme che si identifichino proprio in quelle che sono state acquisite attraverso l'attività criminosa (ossia il denaro fisicamente uguale a quello ricevuto dall'agente); 2) la somma corrispondente al valore nominale, ovunque sia stata rinvenuta e comunque sia stata investita proprio perché, considerata la fungibilità del danaro e la sua funzione di mezzo di pagamento, il sequestro non deve necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì una somma corrispondente al loro valore nominale ovunque sia stata rinvenuta, purché sia attribuibile all'indagato.

Sul tema del se il sequestro di somme di denaro debba qualificarsi come sequestro diretto del profitto derivante dal reato ovvero come sequestro per equivalente, deve essere segnalata Sez. V, 4 giugno 2014, n. 27523, Argento e altro, Rv. 259855 che, in maniera difforme, ha affermato il principio così massimato:

"Il sequestro preventivo del profitto del reato, qualora quest'ultimo sia costituito da un mancato esborso di denaro, può avvenire esclusivamente nelle forme del sequestro per equivalente, in quanto tale vantaggio consiste in una immateriale entità contabile che non si è mai incorporata in moneta contante. (Fattispecie relativa al sequestro di denaro corrispondente al valore derivante dalla mancata corresponsione di oneri previdenziali e contributivi disposto per i reati di truffa e di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti)".

In particolare si è ritenuto che quando la illecita locupletazione si sostanzia in un mancato esborso, il sequestro dovrà necessariamente avvenire "per equivalente" e ciò, non solo perché il denaro è bene assolutamente fungibile (di talché non avrebbe senso, come è ovvio, il vincolo apposto su quelle specifiche banconote), ma principalmente perché, in tal caso, esso non ha mai avuto una sua dimensione fisica, ma è consistito in una immateriale entità contabile che, proprio perché non ha dato luogo a un esborso, non si è mai "incorporata" in moneta contante.

Sul tema deve essere segnalata anche Sez. V, 3 aprile 2014, n. 25450, P.M. in proc. Ligresti e altro, Rv. 260750 che ha affermato il principio così massimato "In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, il profitto derivante dal reato di manipolazione del mercato può consistere per l'azionista nella acquisizione della plusvalenza delle azioni ovvero nella evitata perdita di valore delle stesse, sempre che il vantaggio presenti i caratteri della immediata derivazione dell'illecito penale e della concreta effettività. (Nella specie, il profitto era stato individuato nella mancata perdita di valore delle azioni per effetto del reato di manipolazione di mercato, ma la Corte ha ritenuto non provata la realizzazione concreta del profitto e la sussistenza del nesso causale tra l'evitata perdita di valore delle azioni e il reato ipotizzato).

Con ordinanza emessa il 19 novembre 2014, la Sesta Sezione penale della Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite le seguenti due questioni in tema di confisca:

a) se la confisca di una somma di denaro sequestrata sul conto corrente e costituente prezzo del reato debba considerarsi sempre confisca "diretta" ovvero per "equivalente";

b) se, qualora sia qualificata come confisca "diretta", possa essere disposta anche con la sentenza che dichiara l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

  • sequestro di beni
  • confisca di beni
  • responsabilità sociale dell'impresa

CAPITOLO II

LA CONFISCA PER EQUIVALENTE

(di Pietro Silvestri )

Sommario

1 Premessa. - 2 La natura della confisca per equivalente e i suoi presupposti. - 3 Confisca per equivalente e necessario conseguimento del prezzo o del profitto del reato. - 4 Sequestro funzionale alla confisca per equivalente ed individuazione dei beni. - 5 Confisca per equivalente e accordo tra contribuente e Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito. - 6 La confisca per equivalente nei confronti della società per il reato commesso dal legale rappresentante: l'impostazione della questione. - 7 L'indirizzo favorevole alla ammissibilità della confisca per equivalente dei beni della società. - 8 L'orientamento giurisprudenziale contrario all'ammissibilità della confisca per equivalente sui beni dell'ente. - 9 L'intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione.

1. Premessa.

In questa parte della rassegna si farà riferimento alle pronunce della Corte di cassazione, anche a Sezioni unite, in cui, nel corso del 2014, sono stati affrontati profili problematici in tema di sequestro e di confisca per equivalente, dei quali non si è già detto nella parte dedicata alla confisca diretta del profitto.

2. La natura della confisca per equivalente e i suoi presupposti.

I temi relativi alla natura e ai presupposti del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente sono stati affrontati innanzitutto da Sez. Un., 30 gennaio 2014, n. 10561, Gubert, Rv. 258646.

Quanto alla natura, la Corte di cassazione ha ribadito che la confisca per equivalente ha natura sanzionatoria, così come peraltro era già stato affermato anche da Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 18374, Adami, Rv. 255037.

Quanto ai presupposti, le stesse Sezioni unite hanno chiarito che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente è legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile, sia pure in via transitoria e reversibile, ovvero quando gli stessi non siano aggredibili per qualsiasi ragione.

Si è precisato che, in tema di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, non è possibile pretendere la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato, giacché, durante il tempo necessario per l'espletamento di tale ricerca, potrebbero essere occultati gli altri beni suscettibili di confisca per equivalente, così vanificando ogni esigenza di cautela.

Quanto ai presupposti, deve essere segnalata Sez. III, 6 marzo 2014, n. 18311, Cialini, Rv. 259103, secondo cui il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, attesa la natura sanzionatoria di quest'ultima, non richiede specifiche esigenze cautelari, essendo sufficiente il "fumus criminis" e la corrispondenza tra il valore dei beni oggetto del sequestro e il profitto o prezzo dell'ipotizzato".

Si tratta di una pronuncia simmetrica a Sez. II, 26 giugno 2014, n. 31229, Borda, Rv. 260367 che ha affermato il principio così massimato: "in caso di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, spetta al giudice il solo compito di verificare che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca, essendo, invece, irrilevante sia la valutazione del "periculum" in mora - che attiene ai requisiti del sequestro preventivo impeditivo di cui all'art. 321 comma primo cod. proc. pen. - sia quella inerente alla pertinenzialità dei beni".

3. Confisca per equivalente e necessario conseguimento del prezzo o del profitto del reato.

Sez. VI, 13 febbraio 2014, n. 9929 Giancone, Rv. 259593 ha affermato il seguente principio:

"Nel delitto di corruzione attiva, il sequestro e la confisca di beni nella disponibilità del corruttore di valore corrispondente al profitto, di cui non sia possibile l'apprensione diretta, presuppongono sempre che il profitto sia stato effettivamente conseguito dal prevenuto, poiché solo a tale condizione è giustificabile una forma di ablazione finalizzata ad impedire che il corruttore possa avvantaggiarsi dei "frutti economici" della sua iniziativa illecita.

La Corte ha ritenuto, con riferimento alla corruzione - reato a concorso necessario e con duplice schema - che, quando il legislatore ha stabilito, nell'art. 322-ter, comma 1, cod. proc. pen., che è consentita "la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto" se la confisca diretta dei "beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo . . .non è possibile", abbia dato per scontato che il profitto o il prezzo siano materialmente individuabili ovvero siano stati conseguiti dal reato.

A tale risultato interpretativo conducono, secondo la Corte, l'esegesi tanto letterale, quanto logico-sistematica della disposizione in esame; sarebbe, infatti, la stessa lettera della norma a lasciar intendere che il prezzo o il profitto del reato vi debbano essere stati, ancorchè non ne sia possibile la loro materiale ablazione.

Si sostiene che se l'istituto della confisca "per equivalente" ha la finalità di evitare che il pubblico agente si avvantaggi indebitamente delle difficoltà che l'autorità incontri nell'individuare i beni che, in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato, dovrebbero essere destinati alla confisca diretta, non vi è ragione per non ritenere che, intanto è possibile aggredire altri beni, di pari valore, facenti parte del patrimonio del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, solo in quanto questi abbia effettivamente conseguito il profitto o il prezzo dell'illecito, o, comunque, lo stesso sia stato materialmente individuabile (si fa riferimento al caso in cui il prezzo, di cui sia stata accettata la promesso, venga materialmente individuato nelle mani nel corruttore che si sta recando all'incontro con il corrotto, per fargliene consegna).

Il corollario che se ne fa conseguire è che se, invece, il prezzo della corruzione sia stato solo promesso ma non materialmente ricevuto dal pubblico agente, ne' sia altrimenti individuabile materialmente, non è possibile disporre la confisca per equivalente di altri beni nella disponibilità di tale soggetto, perché l'adozione di un siffatto provvedimento ablatorio, oltre a risultare il frutto di una forzata esegesi della norma - dunque in violazione del principio di determinatezza del precetto penale - avrebbe un ingiustificato effetto afflittivo, in quanto "sanzione" sproporzionata rispetto alla "ratio" ed alle finalità della norma che ne prevede l'applicazione (in senso sostanzialmente conforme, Sez. VI, 27 novembre 2012, n. 4179/13, Mazzoni, Rv. 254242; Sez. VI, 13 febbraio 2014, n. 14017, Delvino, Rv. 259457).

La Corte ha rivisitato criticamente il principio, pure affermato in sede di legittimità (in questo senso, Sez. VI, 14 giugno 2007, n. 30966, Puliga, Rv. 236983; Sez. II, 13 maggio 2010, n. 21027, P.M. in proc. Ferretti, Rv. 247115), secondo cui nel delitto di corruzione, sarebbe assoggettabile a confisca obbligatoria ex art. 322-ter, comma 1, cod. pen., quale prezzo del reato, l'utilità materialmente corrisposta al corrotto o, alternativamente, quella promessa, se la dazione non ha luogo, e che, quindi, quanto effettivamente consegnato determinerebbe solamente il limite di valore confiscabile; si è evidenziato come, seguendo questa impostazione, si giungerebbe a "sanzionare", in caso di confisca per equivalente, in maniera più severa la condotta del pubblico agente che abbia solo accettato la promessa di denaro o di altra utilità, rispetto a quella di chi abbia materialmente percepito solo una parte del prezzo promesso.

A non differenti conclusioni ermeneutiche la Corte è giunta anche confrontando la disposizione, dettata dal comma 1 dell'art. 322-ter cod. proc. pen. con quella del comma 2 dello stesso articolo, in quanto anche con riferimento all'ipotesi delittuosa della corruzione attiva, la confisca di beni nella disponibilità del corruttore di valore corrispondente al profitto, di cui non sia possibile la confisca diretta, presuppone sempre che il profitto di tale reato vi sia stato ovvero sia stato conseguito dal prevenuto, atteso che solo a tale condizione è giustificabile una forma di ablazione "allargata", finalizzata ad impedire che il corruttore possa avvantaggiarsi dei "frutti economici" della sua iniziativa illecita, laddove quelli costituenti diretta conseguenza del delitto non siano apprensibili (in senso conforme, Sez. VI, 10 gennaio 2013, n. 4297, P.M. e Orsi, Rv. 254484, con la quale la Corte ha significativamente annullato il decreto di sequestro preventivo, disposto nell'ambito di un procedimento per corruzione connessa all'aggiudicazione di pubblici appalti, in un caso in cui l'appalto era stato aggiudicato ma non vi era stato un effettivo affidamento, ne' svolgimento di alcun lavoro da parte del corruttore).

D'altro canto, si è aggiunto, anche in riferimento all'art. 322-ter cod. pen., la "clausola di salvezza" contenuta nella parte finale di detta norma (per cui la confisca per equivalente viene disposta su beni di valore corrispondente al profitto "e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse" al pubblico agente) - lungi dall'accreditare la diversa tesi secondo la quale il legislatore avrebbe inteso parificare, anche ai fini dell'operatività della confisca per equivalente su beni nella disponibilità del corrotto, i casi di consegna ai casi di mera promessa del prezzo - ha la sola finalità di facilitare la individuazione del "quantum" da assoggettare a confisca per equivalente laddove l'entità del profitto, effettivamente esistente e conseguito dal corruttore, non sia agevolmente determinabile: clausola giustificata da una sorta di presunzione, rispondente alla logica economica di qualsivoglia affare corruttivo, per cui è possibile ragionevolmente ritenere che, ai fini della confisca, il profitto, se sussistente ma non facilmente determinabile, non possa, comunque, essere inferiore al prezzo dato o promesso al corrotto.

4. Sequestro funzionale alla confisca per equivalente ed individuazione dei beni.

La Corte di cassazione è tornata ad occuparsi della questione del se il giudice che emette il provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente sia tenuto ad indicare i beni sui quali il vincolo reale deve essere apposto.

Sez. III, 7 maggio 2014, n. 37848, Chichidemo, Rv. 260148 ha affermato che, in materia di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il giudice che emette il provvedimento ablativo è tenuto soltanto ad indicare l'importo complessivo da sequestrare, mentre l'individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore al "quantum" indicato nel sequestro è riservata alla fase esecutiva demandata al pubblico ministero (Nello stesso senso, Sez. III, 12 luglio 2012, n. 10567, Falcherò, Rv. 254918; Sez. III, 25 febbraio 2010, n. 12580, Baruffa, RV. 246444; nel corso del 2014, Sez. III, 6 marzo 2014, n. 18309, Bompadre, Rv. 259660; Sez. III, 6 marzo 2014, n. 20776, P.G. in proc. Hong, Rv. 259661 secondo cui il giudice della cognizione, nei limiti del valore corrispondente al profitto del reato, può emettere il provvedimento ablatorio anche in mancanza di un precedente provvedimento cautelare di sequestro e senza necessità della individuazione specifica dei beni da apprendere, potendo il destinatario ricorrere al giudice dell'esecuzione qualora dovesse ritenersi pregiudicato dai criteri adottati dal P.M. nella selezione dei cespiti da confiscare).

Secondo l'indirizzo in esame, nel caso di lamentata sproporzione tra il valore economico dei beni da confiscare, indicato nel decreto di sequestro, e l'ammontare delle cose sottoposte a vincolo, il soggetto destinatario del provvedimento ablativo, può contestare tale eccedenza al fine di ottenere una riduzione della garanzia ma non in sede di istanza di riesame, non avendo il Tribunale della libertà, salvo i casi di sproporzione ictu oculi, i poteri per sindacare il lamentato squilibrio, ma presentando apposita richiesta al pubblico ministero ed impugnando con l'appello cautelare l'eventuale provvedimento negativo del Gip qualora l'istanza di riduzione del sequestro (e di restituzione dei beni eventualmente sequestrati in eccedenza) non sia stata accolta dal pubblico ministero inizialmente adito (Sez. III, 19 febbraio 2014, n. 20504, Cederna ed altri).

Nell'ambito di tale indirizzo, la Corte ha inoltre evidenziato come non sia sempre possibile prima facie attribuire l'esatto valore economico al bene oggetto del vincolo o, comunque, come un tale valore possa essere controverso, dovendosi ricorrere ad accertamenti tecnici al riguardo per stabilirlo.

Tuttavia, si osserva, le garanzie dell'indagato non possono rimanere senza tutela, dovendo essere scongiurato il rischio di una lesione del diritto di proprietà che risulterebbe indubbiamente compromesso nel caso in cui fosse superato il limite corrispondente all'equivalente in valore del bene sequestrabile o confiscabile.

Il provvedimento cautelare è infatti legittimo solo quando le misure limitative delle libertà reali siano disposte ed eseguite in ossequio ai principi di adeguatezza, proporzionalità e graduazione, al fine di evitare un'esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata; in tali casi, solo quando la sproporzione sia facilmente riscontrabile in sede di riesame (sulla base dei motivi e dei documenti, insuscettibili di approfondimento, addotti dalle parti nel corso dell'udienza o dal semplice confronto tra provvedimento impositivo e provvedimento esecutivo, che inequivocabilmente contrasti con il primo) la doglianza può formare oggetto di cognizione da parte del tribunale cautelare in sede di riesame del provvedimento restrittivo, laddove, invece, negli altri casi, i controlli giurisdizionali possono essere attivati, al fine di eliminare lo squilibrio, solo quando l'interessato si sia doluto della sproporzione e la stessa, eventualmente anche all'esito di specifiche indagini, non sia stata, se sussistente, rimossa.

Secondo altro indirizzo, in tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, il valore delle cose sequestrate deve essere adeguato e proporzionale all'importo del credito garantito e la stima deve costituire oggetto di ponderata valutazione preventiva da parte del giudice della cautela, controllabile dal Tribunale del riesame e non differibile alla fase esecutiva della confisca. (Sez. III, 26 settembre 2013, n. 42639, Lorenzini, Rv. 257439; Sez. III, 22 marzo 2012, n. 17465, Crisci, Rv. 252380).

Non diversamente, Sez. VI, 9 gennaio 2014, n. 15807, Anemone, RV. 259702 ha chiarito che quella sul valore delle cose sequestrate è comunque questione che attiene all'adeguatezza e alla proporzionalità della misura cautelare, per giustificare la quale il giudice deve apprezzare la sussistenza di tale rapporto; si è evidenziato come i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità siano applicabili anche alle misure cautelari reali e devono costituire oggetto di valutazione preventiva e non eludibile da parte del giudice nell'applicazione delle cautele reali, al fine di evitare un'esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica.

Nella occasione, ha aggiunto la Corte, che, in virtù dei richiamati principi, con la misura cautelare non può ottenersi più di quello che si otterrebbe con il provvedimento definitivo di confisca con la conseguenza che, nel caso di sequestro per equivalente, i criteri di valutazione dei beni devono essere tendenzialmente gli stessi di quelli che saranno utilizzati per la confisca definitiva.

Il corollario che se ne fa discendere è che non può esservi dubbio che in sede di sequestro la valutazione dei beni oggetto di ablazione reale per equivalenza rispetto al prezzo o al profitto derivante da reato non può che avvenire sulla base di criteri legati al valore reale, cioè di mercato, altrimenti si realizzerebbe, come detto, una non consentita, in quanto sproporzionata, compressione del diritto di proprietà, soprattutto nella misura in cui si riconosce la natura sanzionatoria della confisca c.d. di valore.

Né, si aggiunge, può considerarsi legittima l'adozione di criteri valutativi formali - come ad esempio quello del valore nominale del capitale sociale - giustificati con l'esigenza di assicurare stabilità e oggettività al giudizio di valore e di sottrarsi alle imprevedibili fluttuazioni del mercato, atteso che in questo modo si rischia di individuare beni da assoggettare al sequestro preventivo sulla base di criteri valutativi del tutto inattuali.

Ha osservato ancora la Corte che se è da condividere la preoccupazione di evitare che il vincolo cautelare imposto con il provvedimento giudiziario debba ridursi o estendersi a seconda dell'andamento del mercato in ordine alla valutazione di quel certo bene, è altrettanto vero che questo tipo di rischio viene superato fissando il momento in cui tale valutazione deve essere compiuta: deve ritenersi, infatti, che il giudice dovrà fare necessariamente riferimento al valore di mercato del bene nel momento in cui il sequestro viene disposto.

Né, ancora, la mancata valutazione dei beni secondo i criteri può essere giustificata facendo riferimento, da un lato, alla impossibilità da parte del giudice dell'appello cautelare di disporre di poteri istruttori e, dall'altro, alla mancata produzione di documentazione da parte della difesa in ordine al reale valore dei beni oggetto di sequestro:

"Deve riconoscersi che il giudice dell'appello cautelare, al pari del tribunale del riesame, è privo di poteri istruttori, in quanto incompatibili con la speditezza del procedimento incidentale e con il principio informatore del nuovo processo penale, basato essenzialmente sulla iniziativa delle parti, sicché decide esclusivamente tenendo conto degli elementi emergenti dagli atti trasmessigli dal pubblico ministero e di quelli eventualmente addotti dalle parti nel corso dell'udienza. Tuttavia, l'obbligo di accertare la corretta equivalenza tra il valore dei beni e l'entità del profitto o del prezzo del reato, anche attraverso un'attività di carattere "istruttorio" in senso improprio, spetta sicuramente al giudice della cautela e ancor prima al pubblico ministero richiedente, sicché in sede di appello o di riesame il Tribunale deve pur sempre verificare, sulla base della documentazione trasmessa e delle deduzioni delle parti, se il valore dei beni assoggettati alla misura reale coincida con l'ammontare del profitto o del prezzo da confiscare, verifica che non implica il ricorso a poteri istruttori, ma che può essere svolta, ad esempio, controllando che siano stati utilizzati i corretti criteri di valutazione. … Invero, in questi casi il Tribunale, anche in qualità di giudice dell'appello cautelare, per espletare il ruolo di garanzia dei diritti costituzionali che la legge gli demanda, deve prendere in considerazione e valutare, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali, e quindi non solo gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, ma anche le confutazioni e gli elementi offerti dall'indagato che possano avere influenza sulla decisione . . .In altri termini, non può prescindere dagli elementi offerti dalla difesa con i quali deve necessariamente confrontarsi motivando, seppur succintamente, le ragioni per le quali non ritiene di prenderli in considerazione".

5. Confisca per equivalente e accordo tra contribuente e Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito.

In tema di reati tributari, la Corte ha affermato che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, qualora sia stato perfezionato un accordo tra il contribuente e l'Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito tributario, non può essere mantenuto sull'intero ammontare del profitto derivante dal mancato pagamento dell'imposta evasa, ma deve essere ridotto in misura corrispondente ai ratei versati per effetto della convenzione, poiché, altrimenti, verrebbe a determinarsi una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio secondo il quale l'ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall'azione delittuosa (Sez. III, 8 gennaio 2014, n. 6635, Cavatorta, Rv. 258903).

Nella occasione, la Corte ha chiarito che, se è vero che il mantenimento della misura ablativa è giustificato fino al momento in cui si realizza il recupero delle imposte evase a favore dell'amministrazione finanziaria con corrispondente "deminutio" del patrimonio personale del contribuente (momento superato il quale non ha più ragione di essere mantenuto in vita il sequestro preventivo), è altrettanto innegabile che il raggiungimento di un accordo per la rateizzazione del debito tributario con l'Amministrazione finanziaria non può ritenersi esplicare i suoi effetti nel limitato campo amministrativo, estendendo infatti la sua portata anche nel campo penale e, segnatamente, incidere sul quantum della somma sequestrata per equivalente in relazione al profitto derivato dal mancato pagamento dell'imposta evasa. essere superiore al profitto derivato (In senso conforme, Sez. III, 4 aprile 2012, n. 3260, P.M. in proc. Curro, Rv. 254679).

Con la stessa sentenza la Corte ha aggiunto che, non diversamente, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto corrispondente all'imposta evasa non può essere mantenuto qualora, a seguito di procedura coattiva di pignoramento presso terzi intrapresa dall'agente della riscossione ex art. 72-bis del d.P.R. n. 602 del 1973, il debito di imposta sia stato integralmente adempiuto dal terzo debitore in luogo del contribuente effettivamente obbligato verso l'Amministrazione finanziaria, posto che, per effetto di questa operazione solutoria, non residua all'indagato alcun indebito arricchimento o vantaggio economico conseguito dall'azione delittuosa.

6. La confisca per equivalente nei confronti della società per il reato commesso dal legale rappresentante: l'impostazione della questione.

La linearità del principio per cui autore di un reato, e quindi anche di un illecito penale tributario, non può che essere una persona fisica, sembra non avere sufficiente stabilità nel caso in cui il contribuente sia una persona giuridica e autore del reato sia invece una persona fisica che rivesta un determinato ruolo nell'ambito della struttura della persona giuridica.

In materia tributaria, infatti, mentre il contribuente - persona fisica risponde personalmente penalmente della sua condotta, attiva od omissiva, il contribuente - persona giuridica non è ontologicamente in grado di commettere alcun illecito penale, ma risente direttamente degli effetti del reato tributario commesso da chi lo rappresenta a qualsiasi titolo, nel senso che il patrimonio sociale - a seguito della correttezza o meno dell'adempimento agli obblighi fiscali, - risulta intaccato dal prelievo tributario e beneficiario del risparmio di spesa (indebito o debito che sia).

D'altra parte, l'applicabilità della confisca per equivalente, prevista dall'art. 19 del decreto legislativo 9 giugno 2001, n. 231, sul patrimonio dell'ente è esclusa nell'ipotesi di commissione di un reato tributario nell'interesse e a vantaggio della persona giuridica, visto che gli illeciti penali tributari non figurano nel novero dei reati-presupposto commessi da soggetti apicali o subordinati della persona giuridica.

Proprio per evitare che, innanzi ad una fenomenologia criminosa intimamente connessa a dinamiche societarie e/o commerciali, sfugga alla strategia di neutralizzazione il vantaggio economico/patrimoniale incamerato dal contribuente/persona giuridica, si è allora posto il problema del se, indipendentemente dall'applicabilità del D.Lgs. n. 231 del 2001, siano sequestrabili/confiscabili per equivalente i beni intestati alla società beneficiaria dal reato tributario, in considerazione del fatto che, come detto, le conseguenze patrimoniali dell'illecito ricadono sulla società a favore della quale la persona fisica ha agito, salvo che si dimostri che vi sia stata una rottura del rapporto organico.

7. L'indirizzo favorevole alla ammissibilità della confisca per equivalente dei beni della società.

Secondo un primo orientamento sarebbe ammissibile la confisca per equivalente dei beni del patrimonio della società per il reato tributario commesso dal suo legale rappresentante.

Sez. III, 9 giugno 2011, n. 26389, Occhipinti, in motivazione aveva affermato che la confiscabilità dei beni della società "deriva proprio dal rapporto organico esistente tra il soggetto indagato, attuale ricorrente, e detta società".

Sez. III, 7 giugno 2011, n. 28731, Società Cooperativa Burlando, aveva ritenuto che la confisca per equivalente, pur presentando, quanto alla sua natura, un "profilo sanzionatorio, avrebbe preminentemente una finalità recuperatoria e non costituirebbe, atteso il suo carattere eventuale, "una pena patrimoniale".

Da tale presupposto la sentenza aveva fatto discendere due affermazioni.

La prima è che, in virtù del rapporto organico fra autore del reato e persona giuridica, le conseguenze patrimoniali dell'illecito ricadono "sulla società" a favore della quale la persona giuridica ha agito, "salvo che non si dimostri che vi sia stata una rottura del rapporto organico".

La seconda è che la società non può considerarsi persona estranea al reato, atteso che "l'indagato aveva la libera disponibilità in quanto li gestiva".

Dalla sentenza in esame conseguiva quindi il principio per cui, ai fini della confisca per equivalente dei beni sociali, non era necessario "che l'ente sia responsabile ai sensi del D.Lgs. 231/2001".

In una prospettiva diversa sembrava collocarsi, all'interno dell'indirizzo in esame, Sez. III, 11 aprile 2012, n. 17485, Maione, che, ritenendo ammissibile la confisca per equivalente dei beni sociali, aveva affermato che "nei rapporti tra la persona fisica, alla quale è addebitato il reato, e la persona giuridica, chiamata a risponderne, non può che valere lo stesso principio applicabile a più concorrenti nel reato stesso, secondo il quale a ciascun concorrente devono imputarsi le conseguenze di esso".

A sua volta, Sez. III, 9 maggio 2012, n. 38740, Sgarbi, Rv. 254795, dopo aver affermato il principio per il quale la confisca per equivalente del profitto non poteva essere disposta senza che il giudice motivasse sulla ragione per la quale non poteva essere confiscato direttamente il profitto del reato, testualmente aveva affermato:

"Nel caso in esame, pertanto, era ben possibile il sequestro finalizzato alla confisca del profitto del reato che - come accertato dal giudice del merito - si trovava ancora interamente nelle casse della società. Qualora invece per qualche ragione il sequestro diretto del profitto del reato non fosse stato più possibile, allora si sarebbe potuto applicare il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente sia sugli altri beni della società sia sui beni dell'allora legale rappresentante della stessa ed autore del reato. Ciò, del resto, conformemente alla prevalente giurisprudenza, secondo cui il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni dell'ente che dal medesimo reato ha tratto vantaggio e su quelli della persona fisica che lo ha commesso, con l'unico limite per cui il vincolo cautelare non può eccedere il valore complessivo del suddetto profitto".

8. L'orientamento giurisprudenziale contrario all'ammissibilità della confisca per equivalente sui beni dell'ente.

Secondo altra parte della giurisprudenza di legittimità, la confisca per equivalente sul patrimonio dell'ente per il reato tributario compiuto dal suo legale rappresentante sarebbe inammissibile, ad eccezione del caso in cui la società costituisca un mero schermo protettivo della persona fisica.

Sez. III, 19 settembre 2012, n. 1256, Uncredit S.p.a., Rv. 254796, aveva affermato il principio così massimato:

"Il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, previsto dall'art. 19 del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non può essere disposto sui beni immobili appartenenti alla persona giuridica ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, atteso che gli artt. 24 e ss. del citato D.Lgs. non prevedono i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l'adozione del provvedimento, con esclusione dell'ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo per commettere gli illeciti.".

La Corte di Cassazione nell'occasione aveva ritenuto che:

a) la confisca per equivalente ha natura "eminentemente sanzionatoria";

b) gli illeciti penali tributari non figurano nel novero dei reati-presupposto che danno luogo a responsabilità dell'ente da reato in base al D.Lgs. n 231 del 2001;

c) quindi, non può farsi ricorso allo strumento, previsto dall'art. 19 del citato decreto legislativo, della confisca dell'equivalente dell'ammontare del prezzo o del profitto del reato sul patrimonio dell'ente collettivo;

d) nessun'altra norma prevede la responsabilità della persona giuridica per i reati commessi dal legale rappresentante, come invece espressamente stabilito, per i reati tributari transazionali, dalla L. 16 marzo 2006, n. 146 art. 10;

e) la responsabilità degli enti per i reati tributari non può essere fatta derivare, con una vera e propria interpretazione ortopedica violativa dell'art. 25 Cost., da quella assegnata alle persone giuridiche nel diritto tributario;

f) la mancanza di una previsione che consenta di ritenere la persona giuridica responsabile per gli illeciti penali tributari posti in essere nel suo interesse ed a suo vantaggio, è la conseguenza di una ragionata scelta discrezionale del legislatore;

g) non è irragionevole la scelta del legislatore di differenziare le fattispecie, anche sotto il profilo dell'aggressione ai patrimoni illeciti, a seconda della natura transnazionale o meno di un reato, con la conseguenza che mentre per le indagini sui reati tributari compiuti nell'ambito di fenomeni associativi a carattere transnazionale è possibile ravvisare la responsabilità della persona giuridica ed operare la confisca per equivalente dei beni della società coinvolta, analogo intervento non è, invece, possibile nei confronti di una società che, anche a fronte di un ammontare maggiore di imposte evase, non si connoti per la natura transnazionale del consortium sceleris;

h) l'attuale sistema punitivo, soprattutto quello volto al recupero dei proventi del reato attraverso la confisca di valore, è inefficace nella materia dei reati tributari ed evidenzia una disparità di trattamento - in relazione alla previsione della confisca - non solo tra le persone fisiche e le persone giuridiche, ma tra le stesse persone giuridiche, a seconda che le stesse rappresentino una emanazione meramente strumentale degli autori del reato - persone fisiche, cioè un comodo e artificioso schermo al cui riparo agire indisturbati, ovvero siano persone giuridiche di dimensione non modesta, rispetto alle quali il contributo delle persone fisiche non può mutarne a tal punto la natura, sicché per quest'ultime può ben parlarsi di una vera e propria "impunità fiscale" rispetto alle prime;

i) non essendo possibile procedere ad interpretazioni analogiche in malam partem, la situazione descritta potrebbe essere modificata solo attraverso un intervento legislativo.

La Corte, cioè, pur configurando molteplici situazioni di disparità di trattamento, aveva ammesso la possibilità di procedere alla confisca sul patrimonio dell'ente solo nel caso in cui si fosse in presenza di una c.d. società schermo, in cui la persona giuridica costituisse una emanazione meramente strumentale degli autori del reato.

Non diversamente, Sez. III, 14 giugno 2012, n. 25774, P.M. in proc. Ammodio e altro, RV. 253062, aveva affermato il principio così massimato: "Il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, previsto dall'art. 19, comma secondo, del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non può essere disposto sui beni immobili appartenenti alla persona giuridica ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, atteso che gli artt. 24 e ss. del citato D.Lgs. non prevedono i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l'adozione del provvedimento, con esclusione dell'ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo per commettere gli illeciti".

Sez. III, 10 luglio 2013, n. 42350, Stigebauer, Rv. 257129, dopo aver ribadito la natura sanzionatoria della confisca per equivalente, aveva testualmente affermato:

"Il centro della questione ermeneutica non è la qualificazione dell'istituto della confisca per equivalente, essendo comunque indubbio che trattasi di istituto penale. Il vero centro è l'identificazione della misura e della modalità con cui un soggetto che non è persona fisica, e che pertanto non può essere reo di alcun reato, incede nel sistema penale per subire le conseguenze di un reato commesso in suo favore.

Rientra in gioco, pertanto, la tematica dell'alterità soggettiva. La persona giuridica è, come già segnala il suo sintagma, una fictio juris, nel senso di istituto giuridico con cui si è rivestita un'attività umana, cioè l'attività di persone fisiche. Per attribuire alla consociazione di più persone fisiche effetti giuridici differenti da quelli degli atti compiuti dalle persone fisiche uti singuli il legislatore può avvalersi, è indubbio, di siffatte "maschere collettive" di secolare risalenza negli ordinamenti giuridici (si pensi alla classica persona ficta et repraesentata), con l'unico odierno limite, è ovvio, del rispetto dei principi costituzionali e comunitari/sovranazionali. Il "funzionamento" dell'artificiale dispositivo della persona giuridica è agevolmente automatico nei sistemi normativi civile e amministrativo, ove non incontra alcun ostacolo nè empirico nè logico-giuridico - pur essendo anche in tali settori riscontrabili casi-limite di tendenziale coincidenza tra la persona giuridica e la persona fisica che la "manovra" attraverso il rapporto organico, come, proprio nel campo tributario, da ultimo l'affermazione di una inscindibilita sostanziale dei due soggetti (la persona fisica imputato dei reati fiscali, la persona giuridica contribuente) ai fini dell'applicazione della causa ostativa del condono fiscale L. 27 dicembre 2002, n. 289, ex art. 15, comma 1, e successive modifiche (Cass. civ. Sez. 5ª, 10 aprile 2013 n. 8705), e come, altresì, quanto al danno non patrimoniale, che, se deriva dalla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, alla persona giuridica viene riconosciuto come patito attraverso il sentire psicologico della persona fisica suo legale rappresentante (Cass. civ. Sez. 6 ª, 4 giugno 2013 n. 13986; Cass. civ. Sez. 1 ª, 1 dicembre 2011 n. 25730; Cass. civ. Sez. 1 ª, 30 agosto 2005 n. 17500) pur sussistendo anche un orientamento che circoscrive il rilievo a favore della persona giuridica dei diritti immateriali della personalità solo alle ipotesi di compatibilità con l'assenza di fisicità (Cass. civ. Sez. 3 ª, 22 marzo 2012 n. 4542; Cass. civ. Sez. 3 ª, 9 maggio 2011 n. 10125) -. Ma laddove, invece, la responsabilità della condotta illecita è personale/individuale, nel senso di riconducibile alla persona fisica singolarmente, e parimenti personali/ individuali nel senso di inapplicabili a un ente collettivo possono esserne le sanzioni conseguenti - qualora non si tratti di pene (soltanto) pecuniarie -, ovvero nel sistema normativo penale, occorre un adeguamento specifico, perchè l'ingresso di una persona giuridica è una contaminano rispetto ai pilastri del sistema. Questo adeguamento ha posto in essere il legislatore con il D.Lgs. n. 231 del 2001, che infatti ha qualificato significativamente l'eccezionale ingresso dell'ente collettivo nel sistema della responsabilità individuale non quale responsabilità penale, bensì quale responsabilità amministrativa. Il che comporta l'irrilevanza delle argomentazioni svolte dal ricorrente relative alla non qualificabilità dell'ente quale terzo estraneo al reato per avere compartecipato all'utilizzazione dei profitti del reato stesso, poichè l'ente di per sé è comunque estraneo al reato, nel senso che è privo di ogni responsabilità penale. La peculiare responsabilità amministrativa che a suo carico discende da un illecito penale è stata disciplinata appunto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, che in tal modo ha introdotto un limite alla fictio juris dell'alterità soggettiva, paradossalmente non infrangendo il rapporto organico persona fisica-ente, bensì al contrario estendendo l'effetto del rapporto organico ai fini di una responsabilità strettamente personale, così da identificare l'ente nella persona fisica che commette il reato a suo vantaggio. In questo modo, la persona giuridica viene in qualche misura "tolta di mezzo", sia pure sotto lo specifico dispositivo della responsabilità amministrativa, salvo, appunto, come è costretto ad ammettere contraddittoriamente con le proprie precedenti argomentazioni il ricorrente, risulti una patologia nel rapporto organico ostativa all'identificazione dell'ente in colui che dovrebbe rappresentarlo.

Si tratta, dunque, di una eccezione al sistema - contrastante con il principio ermeneutico della conservazione di un significato sarebbe d'altronde ritenere che anche senza il D.Lgs. 231 (ovvero oltre i suoi confini) si possa attrarre la persona giuridica entro un sistema,come si è visto, in linea di principio con essa incompatibile - che disciplina e circoscrive una parziale disapplicazione del dispositivo "persona giuridica" e che come tale non è passibile di interpretazione estensiva.

Il legislatore ha dunque scelto l'ampiezza e il contenuto di questa lesione al principio generale dell'alterità della persona giuridica rispetto alle persone fisiche che la rappresentano identificandone specificamente i reati presupposto; e tale sua scelta non può neppure essere considerata sotto il profilo della ragionevolezza ex art. 3 Cost. (che astrattamente potrebbe porsi in discussione, non solo in relazione alle fattispecie criminose di cui al D. Lgs. n. 231 del 2001, art. 24 e ss., ma altresì in riferimento alle ipotesi in cui i reati fiscali costituiscono i reati-fine di una organizzazione criminale transnazionale, integrando così il presupposto per la confisca per equivalente L. 16 marzo 2006, n. 146, ex art. 11: S.U. 31 gennaio 2013 n. 18374; a Sez. III, 19 settembre 2012-10 gennaio 2013 n. 1256, in motivazione, riscontra proprio, in luogo di una scelta discrezionale ragionevole del legislatore, la violazione del principio di uguaglianza, escludendone - in un'analoga fattispecie di ricorso del P.M. (diretto a ottenere l'applicabilità del sequestro preventivo e della conseguente confisca per equivalente - ogni rilevanza "poichè non è possibile percorrere un'interpretazione estensiva/creativa, per di più in malam partem, in palese violazione del principio di legalità, in quanto solo un intervento legislativo che prevede espressamente la responsabilità della persona giuridica per i reati tributari commessi a vantaggio o nell'interesse dell'ente può rendere possibile la confisca di valore". (Nello stesso senso, Sez. III, 23 ottobre 2012, n. 15349, Gimeli, Rv. 254739 che aveva precisato l'irrilevanza del rapporto organico tra persona fisica ed ente ed hanno confermato la possibilità di operare il sequestro per equivalente quando la persona giuridica rappresenti un "apparato fittizio, utilizzato dal reo proprio per porre in essere i reati di frode fiscale o altri illeciti, sicché ogni cosa fittiziamente intestata alla società sia immediatamente riconducibile alla disponibilità dell'autore del reato". Conformi anche, Sez. III, 20 settembre 2013, n. 42476, Salvatori, Rv. 257353; Sez. VI, 12 ottobre 2010, n. 42703, Giani; Sez. III, 17 gennaio 2013, n. 9576, Toresella; Sez. III, 23 ottobre 2013, n. 45951, Ricciardi; Sez. III, 24 aprile 2013, n. 41694, Scocca; Sez. III, 20 settembre 2013, n. 42476, Salvatori; Sez. III, 26 settembre 2013, n. 42638, Preziosi).

9. L'intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione.

In tale contesto sono intervenute Sez. Un., 30 gennaio 2014, n. 10561, Gubert, Rv. 258646, di cui si è già detto, affermando il principio così massimato "In tema di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente prevista dagli artt. 1, comma 143, della L. n. 244 del 2007 e 322-ter cod. pen. non può essere disposto sui beni dell'ente, ad eccezione del caso in cui questo sia privo di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso il quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni".

Hanno chiarito le Sezioni unite che:

- nel caso di società schermo, la trasmigrazione del profitto del reato in capo all'ente non si atteggia alla stregua di trasferimento effettivo di valori, ma quale espediente fraudolento non dissimile dalla figura della interposizione fittizia, con la conseguenza che il denaro o il valore trasferito devono ritenersi ancora pertinenti, sul piano sostanziale, alla disponibilità del soggetto che ha commesso il reato, in "apparente" vantaggio dell'ente ma, nella sostanza, a favore proprio;

- il rapporto fra ente ed un suo organo, di per sé, non è suscettibile di fondare l'estensione della confisca per equivalente, che si basa su specifiche disposizioni di legge, tanto più che è persino possibile che la persona giuridica, attraverso altri organi, promuova azione di responsabilità verso il suo amministratore che l'ha esposta a responsabilità (civile) conseguente a reato;

- la società non può considerarsi concorrente nel reato, essendo prevista nel vigente ordinamento solo una responsabilità amministrativa e non una responsabilità penale degli enti;

- il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che ha introdotto la responsabilità amministrativa degli enti conseguente a reato, non contempla i reati tributari fra quelli per cui è prevista tale responsabilità amministrativa della persona giuridica;

- non vi è una base normativa per la confisca per equivalente in capo alla persona giuridica per i reati tributari commessi dai suoi organi, non potendo questa essere disposta: a) ai sensi dell'art. 19 del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, atteso che gli artt. 24 e ss. del citato D.Lgs. non prevedono i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l'adozione del provvedimento; b) né sulla base dell'art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244, che non contiene una previsione autonoma di confisca per equivalente, limitandosi a richiamare l'art. 322-ter cod. pen.; c) né in applicazione di quest'ultima norma, che si applica solo all'autore del reato e, quindi, non alla persona giuridica, che, come detto, non può essere considerata tale; d) né, ancora ai sensi dell'art. 11 della legge 16 marzo 2006, n. 146, che prevede la confisca obbligatoria, anche per equivalente, solo per i reati di cui all'art. 3 della stessa legge, cioè i reati transnazionali.

  • sequestro di beni
  • confisca di beni
  • concorso nel reato

CAPITOLO III

IL SEQUESTRO FUNZIONALE ALLA CONFISCA PER EQUIVALENTE NEL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO

(di Luigi Barone )

Sommario

1 Inquadramento delle problematiche. - 2 Prima questione: l'an e il quantum del profitto percepito dal singolo concorrente nel reato quali limiti di operatività del sequestro nei suoi confronti. - 3 Seconda questione: l'entità del profitto confiscabile, quale limite di operatività del sequestro nei confronti dei concorrenti nel reato. - 4 La tesi dell'insuperabilità della soglia del profitto confiscabile. - 5 L'orientamento contrario. - 6 Conclusioni.

1. Inquadramento delle problematiche.

Sul tema del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, nell'ipotesi di reato commesso da più persone in concorso tra loro, si registrano nella giurisprudenza di legittimità due distinte, ma strettamente interdipendenti, problematiche, relative, la prima, alla possibilità che il sequestro possa operare, anche per l'intero del profitto, nei confronti di ciascun concorrente nel reato, a prescindere dal se e dal quanto questi abbia materialmente incamerato; la seconda, all'ammissibilità di operare nei confronti di ciascun concorrente il sequestro per l'intero, consentendo, nell'ipotesi affermativa, una pluralità di interventi cautelari, che, sommati tra loro, possano anche esorbitare la somma corrispondente al valore del profitto del reato confiscabile (sul tema l'Ufficio del Massimario ha redatto le relazioni di contrasto n. 14/2008 e n. 55/2014).

2. Prima questione: l'an e il quantum del profitto percepito dal singolo concorrente nel reato quali limiti di operatività del sequestro nei suoi confronti.

Secondo un primo indirizzo, affermato di recente dalla seconda sezione penale, con decisione assunta alla Camera di Consiglio del 9 gennaio 2014, n. 5553, Clerici, Rv. 258342: "È legittimo il sequestro preventivo, funzionale alla confisca di cui all'art. 322-ter cod. pen. eseguito per l'intero importo del prezzo o profitto del reato nei confronti di un concorrente del delitto di cui all'art. 640-bis cod. pen., nonostante le somme illecite siano state incamerate in tutto o in parte da altri coindagati, salvo l'eventuale riparto tra i concorrenti medesimi, che costituisce fatto interno a questi ultimi, privo di alcun rilievo penale".

Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto corretta la decisione del Tribunale del Riesame, che aveva confermato il decreto del G.i.p. di sequestro preventivo nei confronti dell'imputato per un valore equivalente all'intero profitto del reato (truffa aggravata in concorso), così aderendo alla tesi maggioritaria e più recente, secondo la quale, in ragione del principio solidaristico, ogni imputato risponde di tutto il profitto conseguito a seguito della consumazione del reato, salvo, poi, il regresso nei confronti dei concorrenti.

In motivazione, i Giudici, non sottacendo il dibattito che sul tema ha animato, specie nel passato, la giurisprudenza di legittimità (dando atto che il contrasto è ormai in via di superamento), hanno osservato che la soluzione della questione non può che passare attraverso lo scioglimento di due nodi dogmatici relativi alla natura giuridica: a) della confisca di valore disciplinata dall'art. 322-ter cod. pen. (richiamato dall'art. 640-quater cod. pen.); b) del concorso di persone nel reato.

In merito al primo punto, anch'esso oggetto di contrastanti opinioni, ove si aderisse alla tesi che intende la confisca di valore ex art. 322-ter cit. come misura di sicurezza patrimoniale, al pari di quella ex art. 240 cod. pen. (ex plurimis, Sez. VI, 19 marzo 1986, n. 9903, Tedeschi, Rv. 173822) ne conseguirebbe sul piano logico l'applicabilità della misura nei confronti degli indagati che abbiano l'effettiva disponibilità del prezzo e/o profitto del reato. Ove invece - come ritenuto nella sentenza ora in esame -, alla confisca ex art. 322ter cit. si riconoscesse natura eminentemente sanzionatoria, ne conseguirebbe che la stessa potrebbe interessare ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del prezzo o profitto accertato, salvo l'eventuale riparto (irrilevante nell'ottica penale) del relativo onere nei rapporti interni tra i concorrenti. In relazione al secondo punto, la Corte osserva che, per la teoria monistica, cui è ispirata la disciplina del concorso di persone, ciascun concorrente risponde dell'evento delittuoso nella sua globalità, quale che sia l'entità del contributo prestato. Questo principio solidaristico, che implica l'imputazione dell'intera azione delittuosa e dell'effetto conseguente in capo a ciascun concorrente, comporta anche solidarietà nella pena.

Poste tali premesse, la Corte addiviene alla conclusione, già anticipata in premessa, della legittimità di operare il sequestro per l'intero delle somme corrispondenti al profitto del reato, nei confronti di ciascuno dei concorrenti del reato, a prescindere se dette somme illecite siano state, in tutto o in parte, incamerate anche da altri coindagati.

In epoca pressoché contestuale, ad identiche conclusioni è pervenuta Sez. VI, 18 febbraio 2014, n. 17713, Argento, Rv. 259338, secondo cui il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato, anche se poi l'espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel "quantum" l'ammontare complessivo dello stesso profitto. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto legittimamente disposto il sequestro dell'intero profitto del delitto di riciclaggio conseguito da due società di cui la ricorrente era titolare di una partecipazione di minoranza, ma amministratrice di fatto).Il principio risulta, altresì, affermato da Sez. II, 16 novembre 2012/13, n. 8740, Della Rocca, Rv. 254526, che, muovendo, anch'essa, dalla premessa, secondo cui alla confisca deve essere riconosciuta natura sanzionatoria, ha affermato che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, avendo natura provvisoria, può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato, sebbene il provvedimento definitivo di confisca, rivestendo invece natura sanzionatoria, non possa essere duplicato o comunque eccedere nel "quantum" l'ammontare complessivo dello stesso profitto.

Proseguendo a ritroso nel tempo, in termini sostanzialmente sovrapponibili si sono, tra le altre, espresse: Sez. II, 3 ottobre 2013, n. 47066, Pieracci e altro, Rv. 257968; Sez. V, 24 gennaio 2011, n. 13277, Farioli, Rv. 249839; Sez. V, 3 febbraio 2010, n. 10810, Perrottelli, Rv. 246364; Sez. F, 28 luglio 2009, n. 33409, Alloum e altri, Rv. 244839, che, in linea peraltro con quanto affermato negli arresti più recenti, concordano, tutte, nell'individuare la ratio del principio affermato nel vincolo solidaristico, che informa la disciplina del concorso di persone nel reato.

Da queste ultime pronunzie emerge, piuttosto, il diverso problema, accennato in premessa, attinente alla operatività, già in fase di sequestro, del limite quantitativo, certamente presente al momento della confisca, dall'ammontare complessivo del prezzo o del profitto del reato.

All'indirizzo seguito dalle pronunzie sopra riportate, se ne è contrapposto, nella giurisprudenza di legittimità meno recente, altro, per la verità minoritario, secondo cui, in caso di pluralità di indagati quali concorrenti in un medesimo reato compreso tra quelli per i quali è consentita la confisca "per equivalente" ai sensi dell'art. 322-ter cod. pen., tale misura - e il relativo sequestro - non possono eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la quota di prezzo o profitto a lui attribuibile. Nello specifico, Sez. VI, 9 luglio 2007, n. 35120, Linguiti, Rv. 237290, pur esprimendosi nel senso della attaccabilità dei beni di ciascun concorrente pro quota, eccettua l'ipotesi che, in ragione dei rapporti personali o economici esistenti tra i concorrenti o della natura della fattispecie concreta, la quota di prezzo o profitto imputabile al singolo indagato non sia immediatamente individuata o individuabile, ma sia destinata a essere accertata solo in fase di giudizio, nel qual caso il sequestro stesso può essere disposto per l'intero importo nei confronti di ciascuno dei concorrenti.

In termini ancora più radicali, si considerino Sez. VI, 5 giugno 2007, n. 31690, Giallongo, Rv. 236900 e Sez. VI, 20 febbraio 2009, n. 10690, Giallongo, Rv. 243189, nelle quali la Corte, nell'ambito della medesima vicenda processuale, ha annullato, dapprima, il sequestro e successivamente la confisca nei confronti dell'intermediario della corruzione in atti giudiziari, avente ad oggetto l'intero profitto percepito dal corruttore in conseguenza dell'atto giudiziario illecitamente posto in essere in suo favore, anziché essere limitato, come invece ritenuto dalla Corte, al solo importo equivalente all'entità dei compensi per l'attività di intermediazione.

A fondamento del principio affermato, i Giudici (specie nella seconda delle due pronunzie richiamate), muovono il proprio ragionamento dalla stessa premessa di quegli arresti, che pure aderiscono al cd. primo orientamento, secondo cui la confisca per equivalente di cui all'art. 322-ter cod. proc. pen. è misura sostanzialmente sanzionatoria avente ad oggetto l'equivalente di quanto ricavato dalla commissione del reato, il che esime dallo stabilire "rapporto di pertinenzialità" tra reato e provvedimento ablatorio dei proventi illeciti, che caratterizza invece la misura ex art. 240 cod. pen., potendo essere i beni da confiscare diversi dal "provento (profitto o prezzo)" del reato stesso.

Tuttavia, divergendo dall'indirizzo maggioritario sugli effetti del principio solidaristico che governa l'istituto del concorso di persone nel reato, pervengono alla conclusione che, in caso di pluralità di imputati, quali concorrenti in un medesimo reato compreso tra quelli per i quali, ai sensi dell'art. 322-ter cod. pen., può disporsi la confisca "per equivalente", non si possa eccedere per ciascuno dei concorrenti dalla misura della quota di prezzo o profitto a lui attribuibile. Si richiama, al riguardo, Sez. VI, 23 giugno 2006, n. 25877, P.M. in proc. Maniglia, Rv. 234850, la quale aveva affermato che il prezzo o il profitto del reato ovvero il valore ad essi corrispondente delimita l'importo massimo della confisca e impedisce la moltiplicazione dello stesso per il numero dei concorrenti nel reato, che non subiscono la confisca per l'intero ammontare del provvedimento ablatorio, ma solo pro quota.In motivazione la Corte rivela il fondamento della conclusione cui perviene, da individuarsi nella lettera dell'art. 322-ter cit., che prevede l'assoggettabilità dei beni nella disponibilità dell'imputato per un valore corrispondente a quello relativo al profitto del reato, intendendosi per reato quello commesso dal singolo imputato.

Questi i termini del primo profilo oggetto di contrasto giurisprudenziale, rispetto al quale, occorre ribadirlo, si registra ormai un significativo consolidamento del cd. primo orientamento, specie dopo l'intervento nel 2008 della Cassazione, che, nel suo più qualificato consesso ha affermato che, nel caso di illecito plurisoggettivo, deve applicarsi il principio solidaristico, che implica l'imputazione dell'intera azione e dell'effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e pertanto, una volta perduta l'individualità storica del profitto illecito, la sua confisca e il sequestro preventivo ad essa finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato (Sez. U, 27 marzo 2008, n. 26654, Fisia Italimpianti S.p.a. e altri, Rv. 239926).

3. Seconda questione: l'entità del profitto confiscabile, quale limite di operatività del sequestro nei confronti dei concorrenti nel reato.

Strettamente connesso alla questione appena trattata, si registra nella materia in esame un ulteriore profilo dibattuto, attinente alla possibilità che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente interessi congiuntamente più concorrenti, colpiti ciascuno per l'intero, senza che per l'ammontare complessivo operi il limite dell'entità del profitto accertato.

4. La tesi dell'insuperabilità della soglia del profitto confiscabile.

Un primo indirizzo esegetico ritiene che il sequestro preventivo per equivalente non possa avere un ambito più vasto della futura confisca, di talché il provvedimento cautelare può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni di ciascuno dei concorrenti nel reato, senza, però, poter complessivamente eccedere il valore del prezzo o profitto del reato soggetto a confisca.

Tra le più recenti in tal senso, Sez. VI, 26 marzo 2013, n. 28264, Anemone e altro, Rv. 255610, secondo cui non sarebbe sostenibile una diversa lettura esegetica, in quanto vi si oppone il principio generale, per il quale con il provvedimento cautelare non si può ottenere più di ciò che sarà conseguibile con il provvedimento definitivo. In altri termini, se la natura sanzionatoria della confisca per equivalente, che non è commisurata alla colpevolezza del reo, né alla gravità dell'illecito e che prescinde dalla pericolosità in sé della cosa, impedisce l'ablazione di beni, appartenenti ai concorrenti nel reato, che superino il valore del prezzo o del profitto ricavato dal reato, non vi è ragione per cui un tale limite non debba valere anche per la misura cautelare che anticipa il provvedimento definitivo. Diversamente si avrebbe non solo una evidente violazione dei principi di proporzionalità e di adeguatezza, ma risulterebbe messa in crisi anche la funzione strumentale del sequestro preventivo. Del resto, prosegue la Corte, il legislatore ha voluto limitare il sequestro per equivalente, funzionale alla confisca, solo al tandundem, cioè alla somma corrispondente al profitto o al prezzo conseguito dall'illecito, sicché non appare coerente sostenere che la questione relativa al quantum dei beni da sequestrare sia problema da affrontare, per la prima volta, nella fase esecutiva della confisca, in quanto uno degli aspetti che il giudice deve valutare ai fini dell'emissione della misura cautelare è costituito proprio dalla corrispondenza tra il valore dei beni oggetto della futura ablazione e l'entità del profitto o del prezzo del reato.

Sulla stessa linea esegetica, in epoca pressoché contemporanea, ancora la sesta sezione (25 gennaio 2013, n. 21222, S.i.s.me.r. S.r.l. società Italiana Studi Medicina, Rv. 256545), in una fattispecie di sequestro di beni nei confronti contestualmente di un ente e dell'indagato persona fisica, pur aderendo all'ormai consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nel caso di concorso di più soggetti nel reato, è legittima l'estensione del sequestro preventivo a ciascuna persona cui il reato sia addebitabile, fino a coprire l'intero importo del profitto o del prezzo (cfr. supra), ritiene che ciò non equivalga a spingere il sequestro al di là del profitto complessivo derivante dal reato, al punto da colpire potenzialmente ciascun concorrente per l'intero del valore confiscabile, dovendosi, al riguardo, escludere che il principio solidaristico che governa il concorso di persone nel reato possa giustificare, anche nella fase cautelare, che il vincolo d'indisponibilità ecceda il valore stesso del profitto, addirittura determinando ingiustificate duplicazioni (negli stessi termini, si vedano anche: Sez. VI, 5 marzo 2009, n. 26611, Betteo, Rv. 244254; Sez. Un., 27 marzo 2008, n. 26654, Fisia Italimpianti, Rv. 239926; Sez. VI, 6 marzo 2009, n. 18536, Passantino, Rv. 243190; Sez. V, 3 febbraio 2010, n. 10810, Perrottelli, Rv. 246364).

L'orientamento ora in esame ha trovato, nell'ultimo anno, seguito in Sez. II, 29 aprile 2014, n. 21227, Riva, Rv. 259716, secondo cui il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato di truffa aggravata può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni dell'ente che dal medesimo reato ha tratto vantaggio e su quelli della persona fisica che lo ha commesso, con l'unico limite per cui il vincolo cautelare non può eccedere il valore complessivo del suddetto profitto.

Ed ancora, in Sez. VI, 22 maggio 2014, n. 34566, Pieracci, Rv. 260815, che ha ribadito il principio di cui sopra in una fattispecie in tema di truffa aggravata, in cui l'originario importo del sequestro operato nei confronti degli imputati veniva successivamente ridotto all'ammontare complessivo del valore sino a quel momento accertato del profitto del reato.

5. L'orientamento contrario.

All'indirizzo sopra riportato, se ne contrappone altro di segno diametralmente opposto, secondo cui il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, avendo natura provvisoria, può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato, anche se poi il provvedimento definitivo di confisca, rivestendo natura sanzionatoria, non può essere duplicato o comunque eccedere nel quantum l'ammontare complessivo dello stesso profitto (Sez. II, 16 novembre 2012/13, n. 8740, Della Rocca, Rv. 254526).

A fondamento del principio affermato, nell'arresto appena richiamato, la Corte evidenzia come, ai fini della ripartizione interna tra correi della cautela reale, il sequestro preventivo abbia natura provvisoria, essendo strumentale alla futura esecuzione della confisca e possa, pertanto, essere disposto, per l'intero (e, cioè, fino all'entità del profitto complessivo), nei confronti di ciascuno degli indagati, a differenza della confisca, istituto di natura sanzionatoria, che non può in alcun caso eccedere l'ammontare del prezzo o del profitto del reato.

In precedenza, identico percorso argomentativo era stato sviluppato da Sez. V, 10 gennaio 2012, n. 13562, Bocci, Rv. 253581, relativa ad una fattispecie, nella quale non era, peraltro, allo stato, accertabile - nè risultava accertata - la quota di illecito profitto del reato riferibile all'indagato. Nella circostanza, la Corte aveva osservato che, ai fini della ripartizione interna tra correi della cautela reale, il sequestro preventivo ha natura provvisoria, essendo strumentale alla futura esecuzione della confisca e può pertanto essere disposto, per l'intero, nei confronti di ciascuno degli indagati, diversamente dalla confisca, istituto di natura sanzionatoria che non può in alcun caso eccedere l'ammontare del prezzo o del profitto del reato, duplicandone o comunque eccedendone nel "quantum" complessivo.

In epoca ancora più recente, orientata su questa seconda linea di pensiero, Sez. VI, 18 febbraio 2014, n. 17713, Argento, Rv. 259338, pur trattando una fattispecie nella quale non vi era materialmente stata alcuna duplicazione o eccedenza dei beni sequestrati rispetto all'ammontare complessivo del profitto del reato, ha ribadito che il limite quantitativo anzidetto si riferisce esclusivamente alla fase espropriativa della confisca.

6. Conclusioni.

Riepilogando quanto sin qui esposto: in relazione alla prima questione (attinente alla possibilità di operare il sequestro per equivalente nei confronti di ciascun concorrente nel reato, a prescindere dall'aver questi materialmente percepito, sia pure in parte, il profitto del reato) il contrasto può ormai ritenersi superato, risultando decisamente maggioritario, oltre che più attuale, l'indirizzo favorevole.

Di contro, ancora dibattuta risulta essere la seconda, distinta, questione, il cui snodo è costituito dalla valenza da riconoscere al nesso di strumentalità del provvedimento cautelare rispetto a quello di merito cui è preordinato. E così, mentre per una corrente giurisprudenziale detta strumentalità non consente di ipotizzare che il limite quantitativo fissato per l'ablazione definitiva possa non valere anche per la misura cautelare che ne anticipa il contenuto; secondo l'indirizzo opposto, il sequestro preventivo, per la sua natura provvisoria, non sarebbe, invece, soggetto al limite del quantum, riferibile esclusivamente alla fase espropriativa della confisca.

  • confisca di beni

CAPITOLO IV

LA NATURA GIURIDICA DELLA CONFISCA DI PREVENZIONE

(di Assunta Cocomello )

Sommario

1 Premessa. - 2 La questio iuris rimessa alle Sezioni Unite: la natura giuridica della confisca di prevenzione e la eventuale applicazione retroattiva della relativa disciplina normativa. - 3 Il precedente contrasto. - 4 L' ulteriore quesito sulla necessità di una correlazione temporale tra pericolosità del proposto e momento di acquisizione del bene.

1. Premessa.

La materia delle misure patrimoniali di prevenzione ed in particolare dell'istituto della confisca è stata attraversata da importanti riforme normative di cui dottrina e giurisprudenza sono state sovente chiamate a definire portata e conseguenze.

Al fine di una migliore comprensione della questione rimessa nel corrente anno alle Sezioni Unite della Suprema Corte - riguardante l'eventuale mutazione, all'indomani dei significativi interventi di riforma del 2008 e 2009, della natura giuridica della confisca di prevenzione, equiparata dalla costante precedente giurisprudenza di legittimità a quella delle misure di sicurezza- è necessaria una breve premessa illustrativa dei contenuti delle citate novelle legislative. Preliminarmente, il Decreto Legge n. 92 del 23 maggio2008, convertito dalla legge n. 125 del 23 luglio 2008, ha esteso ulteriormente la portata applicativa delle misure patrimoniali varate dalla legge antimafia,muovendosi su un duplice piano:

- l'ampliamento della platea dei destinatari della confisca, tra i quali vengono inclusi i soggetti indiziati di uno dei delitti annoverati dall'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. e le persone dedite a traffici delittuosi o che vivono abitualmente con il provento di attività delittuosa;

- la rottura del nesso di necessaria accessorietà, fino a quel momento indiscusso (al di fuori di pochi casi tipizzati), tra la misura personale e la misura patrimoniale, attraverso l'introduzione del principio di applicazione disgiunta della misura patrimoniale rispetto alla personale, operata dal comma 6-bis dell'art. 2-bis della Legge n. 575 del 31 maggio 1965.

La citata novella, infine, disciplinando un'ipotesi già riconosciuta dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, ha introdotto la proponibilità del sequestro e della confisca nei confronti degli eredi del soggetto portatore di pericolosità, sia nell'ipotesi in cui questi sia deceduto dopo esser stato destinatario della confisca, ma prima che essa sia divenuta definitiva (art. 2-bis, comma sesto-bis, secondo e terzo inciso), sia nel caso in cui, invece, il pericoloso sia deceduto prima della stessa proposta (art. 2-bis, comma undicesimo).

La successiva Legge n. 94 del 15 luglio 2009 ha inciso, invece, sul quadro delineato dalla riforma del 2008, modificando ulteriormente il citato comma 6 bis, dell'art. 2-bis della Legge n. 575 del 1965, e prevedendo che le misure patrimoniali possono essere applicate, oltre che "disgiuntamente" da quelle personali, anche "indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione". Tale precisazione asseconda i suggerimenti ermeneutici formulati dalla dottrina e dalla giurisprudenza più sensibili, le quali erano preoccupate per i profili di legittimità costituzionale dell'applicazione di una misura patrimoniale, del tutto avulsa da una verifica, quanto meno incidentale, di pericolosità dei possessori attuali o pregressi, come accade nel caso di confisca nei confronti di persona deceduta, del bene aggredito.

Con le riforme del 2008 e 2009, pertanto, si perviene alla rottura esplicita, e non più eccezionale, del rapporto di necessaria presupposizione tra le misure patrimoniali e quelle personali, in quanto con esse ha inizio una diversa linea di politica criminale di intervento sui patrimoni illecitamente accumulati, attraverso il passaggio da un approccio incentrato sulla pericolosità del soggetto ad uno fondato sull'acquisizione illecita del bene da parte di persona pericolosa o che è stata pericolosa e che detti beni ha acquistato proprio in ragione della sua pericolosità sociale.

In conseguenza di tali riforme, pertanto, la dottrina prima e la giurisprudenza poi, si sono interrogate sull' avvenuto mutamento genetico delle misure di prevenzione patrimoniali ed, in particolare, della confisca di prevenzione, proprio a causa dello sganciamento di queste dal presupposto dell'attualità della pericolosità soggettiva.

In particolare si è osservato come l'esclusiva legittimazione delle misure di prevenzione patrimoniale sia stata sempre rintracciata proprio nella pericolosità sociale del proposto e come, una volta venuto meno tale presupposto, il sistema delle misure patrimoniali presenterebbe evidenti profili di illegittimità costituzionale, risolvendosi nella punizione di una modalità penalmente illecita di acquisizione di un bene che però prescinde sia dall'accertamento del reato che dalla penale responsabilità del soggetto per la sua commissione, trasformando in tal modo tali misure in delle vere e proprie pene criminali.

2. La questio iuris rimessa alle Sezioni Unite: la natura giuridica della confisca di prevenzione e la eventuale applicazione retroattiva della relativa disciplina normativa.

La Sesta sezione della Suprema Corte, con ordinanza del 30 gennaio 2014, ha rimesso i ricorsi alle Sezioni Unite sulla seguente questione controversa: "Se, in conseguenza delle modifiche introdotte dal d.l. n. 92 del 2008 (conv. in L. n. 125 del 2008) e dalla L. n. 94 del 2009 all'art. 2-bis della L. n. 575 del 1965, la confisca emessa nell'ambito del procedimento di prevenzione possa essere ancora equiparata alle misure di sicurezza o abbia assunto connotati sanzionatori e se, quindi, ad essa sia applicabile, in caso di successione delle leggi nel tempo, la previsione di cui all'art. 200 cod. pen. o quella di cui all'art. 2 cod. pen".

L'articolato quesito involge più questioni di diritto strettamente collegate fra loro.

La prima quaestio iuris evidenziata dall'ordinanza di remissione attiene, infatti, alla definizione della natura giuridica della confisca di prevenzione, quale si è venuta configurando a seguito delle citate modifiche normative, in particolare se essa sia ancora assimilabile alla misura di sicurezza o se, invece, debba ritenersi la sua natura afflittiva e sanzionatoria.

Alla soluzione di tale quesito, direttamente si collega il delicato tema della retroattività della disciplina innovativa in disamina. In particolare, laddove si ritenga permanere l'equiparabilità della confisca alle misure di sicurezza, dovrà considerarsi applicabile alle misure di prevenzione patrimoniali il disposto di cui all'art. 200 cod. pen., con conseguente retroattività delle disposizioni contenute nelle novelle normative in rassegna, mentre, per contro, nel caso di ritenuta natura meramente sanzionatoria ed afflittiva della confisca di prevenzione, dovrà ritenersi applicabile alla materia, il generale principio di irretroattività offerto dall'art. 11 delle preleggi e dall'art. 2 del cod. pen., restando in tal modo preclusa la possibilità, per le situazioni di pericolosità emerse precedentemente alla riforma, di comminare la confisca di prevenzione in assenza del requisito della attualità della pericolosità sociale da riferire al prevenuto.

Le innovazioni normative riguardo alle quali si pone la questione del mutamento della natura giuridica della confisca di prevenzione sono, in particolare, quelle apportate dagli artt. 10 comma 1 lett. c), n. 2 del Decreto Legge 23 maggio 2008 n. 92, (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito nella Legge 24 luglio 2008, n. 125, nonché dall'art. 22 comma 2, della Legge 15 luglio 2009 n. 94, (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), all'art. 2-bis, comma 6-bis della Legge 31 maggio 1965, n. 575, applicabile, ratione temporis, alla fattispecie concreta oggetto del ricorso rimesso alle Sezioni Unite, in virtù della norma transitoria dell'art. 117 del Decreto legislativo del 6 settembre 2011 n. 159 (Codice delle leggi antimafia), oggi chiamato a disciplinare unitariamente la materia della prevenzione.

Le citate disposizioni, afferma l'ordinanza della Sesta Sezione, recidono "definitivamente il rapporto di accessorietà necessaria tra misure di prevenzione personali e patrimoniali", rendendo irrogabili le seconde a prescindere dall'applicazione delle prime, ed escludono l'indefettibilità del requisito di "attualità della pericolosità sociale", che rimane imprescindibile per la sola applicazione delle misure di prevenzione personali.

Il problema di tale "definizione", tuttavia, si era posto già prima delle riforme, in quanto l'etichetta legislativa "prevenzione" non era adeguata a rappresentare la peculiarità di una misura che - diversamente dalle misure personali, ma anche dalla cauzione e dal sequestro cautelare - era suscettibile di divenire definitiva, per attuare lo scopo di stabile sottrazione della ricchezza di derivazione illecita dal circuito economico.

3. Il precedente contrasto.

Sensibile a tale necessità di autonoma enunciazione dell'istituto della confisca, la giurisprudenza di legittimità, antecedente la rimessione, era divisa in due orientamenti.

Il primo, prevalente, orientamento assimilava la confisca di prevenzione all'omonimo istituto codicistico della confisca obbligatoria, prevista dall'art. 240, comma 2 cod.pen, con seguente possibilità di applicazione retroattiva della normativa disciplinante l'istituto, in base al disposto dell'art. 200 cod.pen. Tale orientamento maggioritario, era autorevolmente sostenuto dalla pronuncia delle Sezioni Unite, 3 luglio 1996, n. 18, Simonelli, Rv. 205262, che - in relazione a fattispecie riguardante l'efficacia del provvedimento di confisca in ipotesi di decesso del proposto, intervenuto prima del passaggio in giudicato del provvedimento impositivo- metteva in luce come il carattere di "definitività" della confisca di prevenzione, volta a sottrarre in modo permanente i beni alla disponibilità dell'indiziato di appartenenza ad associazione di tipo mafioso, costituisse il tratto che differenzia la confisca da tutte le altre misure di prevenzione, personali e patrimoniali, impedendo, sotto il profilo della natura giuridica, una perfetta assimilazione della stessa alle altre misure di prevenzione.

Le Sezioni Unite giungevano, così, ad escludere sia la natura punitiva che quella puramente preventiva della confisca, e la collocavano, invece, nell'ambito di "un tertium genus costituito da una sanzione amministrativa, equiparabile quanto al contenuto ed agli effetti, alla misura di sicurezza prescritta dall'art. 240 cod. pen. comma 2, ed applicata, per insindacabile scelta del legislatore, nell'ambito dell'autonomo procedimento di prevenzione previsto e disciplinato dalla legge n. 575 del 1965 e successive modificazioni".

Ed è su tale definizione della natura dell'istituto della confisca che si radicava la soluzione del principale quesito rimesso alle Sezioni Unite: la confisca dei beni rientranti nella disponibilità di soggetto proposto per l'applicazione di una misura di prevenzione personale, una volta che siano stati accertati i presupposti della pericolosità qualificata del soggetto stesso (appartenenza ad un'associazione di tipo mafioso) e dell'indimostrata legittima provenienza dei beni confiscati, non viene meno a seguito della morte del proposto, ancorché intervenuta prima che il decreto applicativo sia divenuto definitivo.

La soluzione ermeneutica adottata dalle Sezioni Unite Simonelli è stata costantemente seguita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità anche dopo la riforme legislative del 2008 e 2009, che, allineandosi all'insegnamento tradizionale in tema applicazione retroattiva della disciplina delle misure patrimoniali di prevenzione, interpretavano, tuttavia, lo "sganciamento" delle misure di prevenzione patrimoniali da quella personale in termini relativi, tali cioè da richiedere comunque una verifica incidentale della pregressa pericolosità sociale del proposto, come del resto imposto dal testo della comma 6-bis, interpolato dalla legge n. 94/2009.

Ma la conferma della validità dei principi espressi dall'orientamento tradizionale trovava argomenti specifici, diretti ad evidenziarne la persistente ed accresciuta validità anche a fronte delle novelle legislative introdotte dal d.l. n. 92 del 2008 e dalla legge n. 94 del 2009 e della espressa previsione della c.d. confisca disgiunta, solo con la sentenza della Sez. I, 17 maggio 2013, n. 39204, Ferrara, Rv. 256141, la quale, espressamente, affermava la possibile applicazione retroattiva delle nuove previsioni in tema di confisca disgiunta, sul presupposto che la novella, ed in particolare l'abolizione del requisito di attualità della pericolosità sociale, non ha modificato la natura della confisca di prevenzione, rispetto a quanto affermato dalle Sezioni Unite Simonelli.

Tale pronuncia parte dal presupposto che gli stessi interventi riformatori in esame non abbiano apportato alcuna frattura con la precedente tendenza normativa, ponendosi piuttosto in linea di continuità con la stessa, e che, pertanto, non vi è ragione di procedere ad un riassetto esegetico: la natura della confisca di prevenzione, pertanto, resta quella delle misure di sicurezza, nelle quali il fenomeno della successione delle leggi nel tempo è regolato dall'art. 200 cod. pen., anziché dall'art. 2 cod. pen.

Soffermandosi sulla disposizione dell'art. 200, la Corte puntualizza che essa si applica alle misure di sicurezza patrimoniali "non in via diretta, ma per effetto del richiamo operato dall'art. 236 cod. pen.", norma che ha la funzione di selezionare le disposizioni dettate per le misure si sicurezza personali che possono essere estese a quelle patrimoniali, sul presupposto, implicito, che "la diversità strutturale fra i due tipi di misure impedirebbe la naturale estensione di disciplina dettata espressamente per le prime".

Il legislatore del codice penale, secondo i giudici della Prima Sezione, ha allora tenuto presente che le misure di sicurezza personali e patrimoniali sono "fisiologicamente diversificate sul piano strutturale": per le prime, infatti, il presupposto della pericolosità attuale è ontologicamente indispensabile, tanto che sarebbe "irragionevole ipotizzare che ad una persona non più pericolosa si possano applicare misure di sicurezza personali"; per le seconde invece, il concetto di pericolosità, non riguardando una persona ma una res, deve essere inteso in modo diverso "perché la strutturale staticità dei beni non consente evoluzioni apprezzabili in merito".

La disciplina codicistica delle misure di sicurezza getta dunque una luce sul senso dell'evoluzione avvenuta nel campo della prevenzione.

Prendendo atto della tendenziale stabilità del carattere di pericolosità acquisito dal bene per effetto del suo acquisto illecito da parte di soggetto pericoloso, il legislatore della novella ha limitatamente inciso la disciplina precedente, senza snaturarla, ma al più ricalibrandola per meglio concentrarla sull'obiettivo, individuabile nell' "interesse pubblico alla eliminazione dal circuito economico dei beni di sospetta illegittima provenienza, per l'appartenenza del titolare ad associazioni di tipo mafioso". Tale interesse, secondo la pronuncia in esame "sussiste per il solo fatto che quei beni siano andati ad incrementare il patrimonio del soggetto e prescinde dal fatto che perduri in capo a quest'ultimo lo stato di pericolosità, perché la finalità preventiva che si intende perseguire con la confisca risiederebbe proprio nell'impedire che il sistema economico legale sia funzionalmente alterato da anomali accumuli di ricchezza quale che sia la condizione del soggetto che poi si trovi a farne in qualsiasi modo uso".

Si poneva, invece, in espresso e consapevole contrasto con l'orientamento maggioritario, la sentenza della Sez. V, 13 novembre 2012 n. 14044/2013 Occhipinti, Rv. 255043, le cui motivazioni fanno leva proprio sul significato e sulla portata innovativa delle riforme in esame. La sentenza della Sezione Quinta aveva, infatti, ad oggetto fattispecie anteriore all'entrata in vigore della riforma del 2009, riguardante l'applicazione della confisca di prevenzione ad un soggetto che aveva beneficiato della sospensione condizionale della pena, possibile solo a seguito dell'applicabilità retroattiva della citata novella normativa che prevede uno sganciamento della misura patrimoniale da quella personale e dal requisito dell'attualità della pericolosità sociale.

Il Collegio, in merito, ha negato l'applicabilità retroattiva della novella, affermando che l'applicazione dell'art. 200 cod. pen, fondato sull'equiparazione alle misure di sicurezza delle misure patrimoniali di prevenzione, poteva avere un senso quando esse, coniugandosi necessariamente con l'applicazione della misura personale, presupponevano una prognosi di perdurante pericolosità sociale del proposto. Una volta venuto meno tale presupposto,continuavano i giudici della Quinta Sezione, tale parallelismo non poteva più trovare giustificazione e la regola dell'art. 200 cod. pen. doveva cedere il passo ai principi generali di irretroattività e di necessaria applicazione della legge in vigore all'epoca delle condotte fondanti l'adozione della misura.

A seguito della novella, secondo tale pronuncia, le misura di prevenzione patrimoniale avrebbero acquisito natura sanzionatoria, con conseguente applicazione dell'art.11 delle preleggi.

L'attualità della pericolosità sociale costituiva,dunque, secondo i giudici della Sezione Quinta, elemento essenziale della detta equiparazione, come emerge dai principi elaborati dalla giurisprudenza sovranazionale e come comprovato dal fatto che, sempre sul presupposto dell'attualità della pericolosità sociale, lo stesso art. 200 aveva superato il vaglio della Corte costituzionale.

A questo argomento la sentenza Occhipinti aggiunge il richiamo ad un recente arresto della giurisprudenza di legittimità in tema di confisca di prevenzione per equivalente, introdotta dall'art. 10, comma primo, lett. d) del Decreto legge 23 maggio 2008 n. 92, convertito nella legge 24 luglio 2008 n. 125.

Si tratta dell'arresto della Sez. I, 28.2.2012, n. 11768, Barilari e altro, Rv. 252297, nel quale la Suprema Corte riconosce a tale istituto una natura punitiva, sottraendolo all'ambito applicativo del principio di retroattività dettato per le misure di sicurezza, proprio in ragione della assenza, in tale misura ablatoria, di qualsiasi rapporto tra la res e il reato e tra la stessa e la pericolosità individuale del proposto.

4. L' ulteriore quesito sulla necessità di una correlazione temporale tra pericolosità del proposto e momento di acquisizione del bene.

Strettamente connessa al problema della applicazione retroattiva della normativa in materia di confisca di prevenzione, è la ulteriore problematica afferente la discussa necessità di "una correlazione, logica e temporale, tra la pericolosità del proposto e il momento di acquisizione della utilità da ablare", prontamente colta dalla stessa ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite del 30 gennaio 2014.

L' ordinanza, infatti, pone in evidenza come la necessità di tale correlazione temporale sia presupposta dalla citata sentenza della Sez. I, Ferrara, mediante il richiamo alla pronuncia della Sez. VI, 18 ottobre 2012, n. 10153/2013, Coli, Rv.254546.

Tale ultimo arresto afferma, infatti, che il principio di reciproca autonomia tra le misure personali e patrimoniali - previsto dall'art. 2-bis, comma 6-bis, della legge 31 maggio 1965, n. 575, così come modificato dall'art. 2, comma 22 della 15 luglio 2009, n. 94 - consente di applicare la confisca prescindendo dal requisito della pericolosità del proposto al momento dell'adozione della misura, ma richiede che essa sia comunque accertata con riferimento al momento dell'acquisto del bene, oggetto della richiesta ablatoria.

Al contrario, sottolinea l'ordinanza di rimessione, la pronuncia della Sezione Quinta, Occhipinti, espressione dell'ordinamento contrapposto a quello tradizionale, si limita a porre in evidenza come prevalga nella giurisprudenza della Suprema Corte, la tendenza a negare la necessità di una correlazione temporale tra l'acquisto del bene confiscabile e la manifestazione di pericolosità sociale del destinatario della misura di prevenzione patrimoniale, ritenendo così la confiscabilità di "beni privi di collegamento anche temporale con i fatti giustificativi della misura"( Sez. II, 8 aprile 2008 n. 21717, Failla, Rv. 240501; Sez. II, 16 aprile 2009, n. 25558 Di Salvo, Rv. 244151; Sez. I, 4 giugno 2009, n. 35175, Scicolo, Rv. 245363; Sez. I, 29 maggio 2009, n. 35466, Caruso, Rv. 244827; Sez. VI, 15 gennaio 2010, n. 4702, Quartararo, Rv. 246084; Sez. I, 20 ottobre 2010, n. 39798, Stagno, Rv. 249012; Sez. I, 13 gennaio 2011, n. 18327, Greco, Rv. 250221; Sez. VI, 27 giugno 2013, n. 35240, Cardone, Rv. 256266).

Ed è, appunto, anche alla luce di questa maggioritaria tendenza della giurisprudenza che la stessa sentenza Occhipinti stimerebbe "inattuale l'esclusione della natura oggettivamente sanzionatoria" assunta dalla misura patrimoniale di prevenzione, almeno nelle ipotesi di applicazione della stessa "indipendentemente dalla attuale pericolosità del soggetto proposto".

Pertanto, in ragione della stretta connessione della tematica in esame con le altre questioni controverse afferenti la natura giuridica della confisca di prevenzione e la applicabilità retroattiva della disciplina normativa in materia, l'ordinanza di rimessione della Sesta Sezione del 30 gennaio 2014, enuclea un ulteriore quesito che rimette alle Sezioni Unite nei termini seguenti:

"se, ai fini dell'applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, debba intercorrere legame logico temporale tra emergere della pericolosità e momento di acquisizione delle utilità da ablare".

Dalla informazione di decisione provvisoria, pubblicata in data 26 luglio 2014, risulta che le Sezioni Unite hanno fornito soluzione "affermativa" ai quesiti illustrati, propendendo quindi per l'attualità dell'equiparazione della confisca di misura di prevenzione alla misura di sicurezza, anche dopo gli interventi di riforma legislativa del 2008 e 2009, con conseguente applicabilità retroattiva della relativa disciplina, in base al disposto dell'art. 200 cod. pen., ma ad oggi non risultano ancora depositate le relative motivazioni.

  • confisca di beni

CAPITOLO V

LA CONFISCA DI PREVENZIONE E LA SPROPORZIONE DEI BENI DEL PROPOSTO

(di Roberta Zizanovich )

Sommario

1 Il principio espresso nella sentenza "Repaci". - 2 La questione rimessa alle Sezioni unite. - 3 La differenza tra la confisca di prevenzione e la confisca c.d. allargata.

1. Il principio espresso nella sentenza "Repaci".

Le Sezioni Unite, con la sentenza 29 maggio 2014, n. 33451, Repaci altri, Rv. 260244260247, enunciano il seguente principio di diritto: "Ai fini della confisca di cui all'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 (attualmente articolo 24 D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159), per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto, non deve tenersi conto anche dei proventi dell'evasione fiscale".

Il percorso motivazionale attraverso il quale la Corte Suprema giunge all'indicata decisione si presenta di particolare pregnanza, in ragione delle scelte di sistema poste a fondamento del principio affermato.

2. La questione rimessa alle Sezioni unite.

Giova evidenziare che la questione controversa rimessa alla cognizione delle Sezioni Unite era sintetizzata nei seguenti termini: "Se, ai fini della confisca di cui all'art. 2-ter della L. n. 575 del 1965, per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto, titolare diretto o indiretto dei beni, debba tenersi contro o meno dei proventi dell'evasione fiscale."

In realtà, in ordine ad essa - come dato atto dalla stessa Sezione rimettente - non si registrava un vero e proprio contrasto, giacché la diversità di orientamenti in ordine alla possibilità di superare la presunzione di illegittima provenienza dei beni di valore sproporzionato al reddito o all'attività economica del soggetto interessato mediante il riferimento a risorse lucrate per effetto di un'attività lecita ma non dichiarata fiscalmente è riscontrabile con riguardo non alla confisca di prevenzione ex art. 2-ter legge 31 maggio 1965, n. 575 (nel corso della trattazione indicato solo come art. 2-ter) bensì in relazione alla cosiddetta "confisca allargata" di cui all'art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 (nel corso della trattazione indicato solo come art. 12-sexies).

Ciò nondimeno la decisione sulla questione in rilievo era rimessa alle Sezioni Unite, in considerazione del fatto che i testi normativi disciplinanti le due distinte confische apparivano del tutto sovrapponibili e che la ratio legis per entrambi gli istituti era quella di "contrastare soggetti socialmente pericolosi e dediti al delitto colpendone i patrimoni", di talché la diversità di orientamenti, pur se relativa a confische disciplinate da normative diverse, non sembrava trovare logica giustificazione.

Con specifico riguardo alla confisca ex art. 12-sexies, secondo un primo orientamento, ai fini della valutazione della sproporzione tra il valore dei beni posseduti dall'interessato rispetto al reddito dichiarato o all'attività economica esercitata, i termini di raffronto dello squilibrio sono indicati dalla suddetta previsione, alternativamente, nel reddito dichiarato al fisco e nella attività economica dell'imputato; di talché il giudice, una volta apprezzata la sproporzione rispetto al dato ufficiale, cioè al reddito dichiarato, non deve spingersi a ricercare una situazione di fatto contrastante con il dato documentale. Alla luce di una lettura costituzionalmente orientata del predetto art. 12-sexies, tuttavia, qualora l'imputato dimostri in modo serio la titolarità di un'attività economica che superi di fatto l'immagine reddituale rappresentata al fisco, il giudice deve tenere conto di tale realtà nel suo libero convincimento, anche considerato che la previsione in questione richiede che si tratti di beni di cui l'imputato non possa giustificare la provenienza, con la conseguenza che sulle giustificazioni fornite dall'interessato deve essere fornita puntuale e adeguata motivazione. (In tal senso: Sez. V, 25 settembre 2007, n. 39048 Casavola e altri, Rv. 238216; Sez. VI, del 31 maggio 2011, n. 29926, Tarabugi e altro, Rv. 250505; Sez. VI, 15 dicembre 2011, n. 21265/2012, P.g. in proc. Barba ed altri, Rv. 252855; Sez. I, 4 maggio 2011, n. 22712, Ricciardi e altri; Sez. II 14 ottobre 2011, n. 40048, Puppa ed altri; Sez. III, 18 settembre 2012, n. 46825, Fertillo; Sez. VI, 28 novembre 2012, n. 49876, Scognamiglio, Rv. 253956; Sez. I, 22 gennaio 2013, n. 6336, Mele e altro, Rv. 254532; Sez. III, 20 febbraio 2013, n. 19095, Scacco; Sez. I, 21 febbraio 2013, n. 13425, Coniglione Rv. 255082; Sez. I, 28 maggio 2013, n. 27189, Guarnieri; Sez. II, 2 luglio 2013, n. 35209, Macchiarulo; Sez. II, 2 luglio 2013, n. 43439, Delizia; Sez. II, 2 luglio 2013, n. 43440, Valente; Sez. II, 2 luglio 2013, n. 43441, Valente; Sez. I, 5 novembre 2013, n. 9678/2014, Creati e altri, Rv. 259468; Sez. II, 8 novembre 2013, n. 5798, Barba e altro).

In base ad altro orientamento, invece, i parametri legislativi sono alternativamente indicati dall'art. 12-sexies nella sproporzione esistente tra il loro valore e il reddito dichiarato dall'interessato ai fini delle imposte sul reddito ovvero nella sproporzione esistente tra detto valore e l'attività economica svolta dal medesimo. Ne consegue che per valutare tale sproporzione il giudice, data l'alternatività e non la concorrenza dei due indicati parametri, può limitarsi a prendere in considerazione uno soltanto degli stessi, non essendo necessario che, constatata la sproporzione tra il valore dei beni e uno dei citati parametri, passi ad ulteriore valutazione con l'altro parametro. Inoltre, una volta prescelto il criterio derivante dal reddito dichiarato a fini fiscali, il valore del bene di non giustificata provenienza va parametrato alle dichiarazioni coeve o successive alla data di acquisizione del medesimo, in quanto, una volta entrato nell'ambito patrimoniale dell'interessato, il bene viene a produrre reddito che deve risultare dalle coeve ovvero successive denunzie dei redditi, sicché è del tutto ininfluente a quale dichiarazione si faccia riferimento per accertare la sproporzione purché la medesima non sia precedente all'acquisizione del bene. (In tal senso: Sez. I, 10 giugno 1994, n. 2860, Moriggi, Rv. 198941 Sez. I, 14 ottobre 1996, n. 5202, Scarcella, Rv. 205738; Sez. II, 11 maggio 2005, n. 23396, Simonelli, Rv. 231884; Sez. II, 14 giugno 2011, n. 32563, De Castro; Sez. II, 28 settembre 2011, n. 36913, Lopalco; Sez. II, 17 gennaio 2012, n. 6061, Gallo; Sez. I, 24 febbraio 2012, n. 11473, Allegro).

La delineata diversità di orientamenti non era e non è, in realtà, riscontrabile con riguardo alla confisca di prevenzione, atteso che la giurisprudenza di legittimità risulta consolidata nel negare che la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto possa essere giustificata facendosi riferimento ai proventi dell'evasione fiscale (così: Sez. I, 5 febbraio 1990, n. 265, Montalto, Rv. 183641, Sez. V, 10 novembre 1993, n. 3561, Ciancimino ed altri, Rv. 196461; Sez. I, 15 gennaio 1996, n. 148, Anzelmo, Rv. 204036; Sez. VI, 23 gennaio 1998, n. 258 Bonanno e altro, Rv. 210834; Sez. II, 26 gennaio 1998, n. 705, Corsa, Rv. 211435; Sez. I, 2 luglio 1998, n. 3964, Arcuri ed altri, Rv. 211329; Sez. VI, 22 marzo 1999, n. 950, Riela e altri, Rv. 214507; Sez. II, 6 maggio 1999, n. 2181, Sannino, Rv. 213853, Sez. II, 23 gennaio 2007, n. 5248, G.C., Rv. 236129. Sez. I, 20 novembre 1998, n. 5760, Iorio ed altri, Rv. 212443; Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 36762, Lo Iacono e altro, Rv. 226655; Sez. VI, 25 gennaio 2012, n. 6570, Brandi e altro, Rv. 252039; Sez. II, 5 giugno 2012, n. 25332, Oscurato; Sez. II, 27 marzo 2012, n. 27037, Bini, Rv. 253405; Sez. II, 5 luglio 2012, n. 30449, Di Giorgio e altri; Sez. I, 22 marzo 2013, n. 18423 Commisso ed altri; Sez. I 17 maggio 2013, n. 39204, Ferrara e altro, Rv. 256140; Sez. I, 5 dicembre 2012, n. 6703/14, Di Maio; Sez. V, 22 novembre 2013, n. 8441/14, Caravello e altro).

Si registra in argomento una sola pronuncia di senso contrario, vale a dire Sez. VI, 24 ottobre 2012, n. 44512, Giacobbe, Rv. 258366, nella quale risulta affermato il principio per il quale anche nell'ambito della confisca di prevenzione il proposto può giustificare la sproporzione di cui all'art. 2 ter allegando redditi non dichiarati al fisco e, dunque, percepiti in violazione della normativa tributaria.

3. La differenza tra la confisca di prevenzione e la confisca c.d. allargata.

Premesso quanto sopra, le Sezioni Unite, al fine di risolvere il quesito loro sottoposto, si soffermano lungamente sulla ratio della confisca di prevenzione e sulle differenze ontologiche tra essa e la confisca allargata.

Invero, nella motivazione della sentenza in commento, riprendendo i principi già affermati dalle Sezioni semplici, è considerato che la confisca ex art. 12-sexies è connotata da una diversa ratio legis e da presupposti in parte diversi rispetto alla confisca di prevenzione, giacché solo la prima richiede la commissione di un reato tipico, per giunta accertato da una sentenza di condanna, ordinariamente generatore - per la sua tipologia - di disponibilità illecite di natura delittuosa, ancorché l'adozione del provvedimento ablativo prescinda da un nesso di pertinenzialità del bene con il reato per il quale è intervenuta la condanna.

La confisca di prevenzione, invece, persegue un più ampio fine di interesse pubblico volto all'eliminazione dal circuito economico di beni di sospetta provenienza illegittima - siccome appartenenti a soggetti abitualmente dediti a traffici illeciti dai quali ricavano i propri mezzi di vita - che sussiste per il solo fatto che quei beni siano andati ad incrementare il patrimonio del soggetto, a prescindere non solo dal perdurare a suo carico di una condizione di pericolosità sociale attuale, ma anche dell'eventuale provenienza dei cespiti da attività sommerse fonte di evasione fiscale. In altri termini la finalità preventiva perseguita con lo strumento ablativo risiede nell'impedire che il sistema economico legale sia funzionalmente alterato da anomali accumuli di ricchezza cui il soggetto possa disporre per il reimpiego nel circuito economico-finanziario, ragione per la quale devono considerarsi di provenienza illecita anche i redditi acquisiti per effetto dell'evasione fiscale.

Le Sezioni Unite evidenziano, altresì, che nell'art. 12-sexies, a differenza, di quanto previsto nell'art. 2-ter, la presunzione di illecita provenienza dei beni del condannato viene ancorata letteralmente ed esplicitamente al combinato disposto della sproporzione rispetto all'attività economica svolta e dell'assenza di giustificazione, non anche, in alternativa, alla esistenza di indizi sufficienti della loro provenienza da qualsiasi attività illecita.

Rilevano, quindi, che sullo specifico tema sottoposto alla loro attenzione, non sussiste un reale contrasto in sede di legittimità, in quanto l'unica sentenza contraria applica alla disciplina di prevenzione l'orientamento formatosi sulla confisca allargata in modo acritico, senza porsi il problema - invece dirimente - dell'eventuale equiparabilità dei due tipi di confisca, equiparazione che la Corte esclude assolutamente, rilevando la differente struttura normativa dei due tipi di confisca.

Affermano, infatti, le Sezioni Unite che la confisca ex art. 12-sexies è legata alla commissione di alcuni reati, mentre l'accertata commissione di reati non è presupposto necessario per il giudizi di pericolosità; la confisca cosiddetta "allargata" è legata alla non giustificabilità della provenienza delle utilità ed alla sproporzione rispetto ai redditi dichiarati o alla propria attività economica; quella di prevenzione aggiunge (profilo estraneo alla confisca ex art. 12-sexies) in alternativa ("ovvero quando") la riconducibilità dei beni, sulla base di sufficienti indizi, al frutto di attività illecite ed al reimpiego delle stesse ("beni … che siano il frutto di attività illecite e ne costituiscano il reimpiego").

La Corte, alla luce di tali diversità, esclude che si possa prospettare l'unitarietà della ratio legis ed evidenzia che trattasi di provvedimenti ablatori che agiscono in campi diversi ed hanno diverse latitudini operative. Infatti la parziale - ma essenziale - diversità dei presupposti legittima la diversità delle due discipline, nell'ambito di una discrezionalità politico-legislativa che l'autorità giudiziaria deve rispettare. Sul punto è richiamata la sentenza della Corte Edu (sentenza del 5 ottobre 2010, Bongiorno), ove si legge non essere sproporzionata, rispetto al legittimo scopo perseguito, l'ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni, "tenuto conto della discrezionalità che hanno gli Stati quando disciplinano l'uso dei beni conformemente all'interesse generale, soprattutto nell'ambito di una politica criminale che mira a combattere il fenomeno della grande criminalità".

Le Sezioni Unite sottolineano, altresì, che risulta coerente con la delineata diversità strutturale che per la confisca ex art. 12-sexies (che prevede il requisito della sproporzione debba essere confrontato con il "reddito dichiarato" o con la "propria attività economica") si possa tener conto dei redditi, derivanti da attività lecita, sottratti al fisco, perché comunque rientranti nella "propria attività economica". Altrettanto coerente, con riferimento alla diversa struttura normativa, è che tale approdo non possa essere applicato alla confisca di prevenzione, per la quale rileva - e dunque non è deducibile a discarico - anche il fatto che i beni siano "il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego". Invero, l'evasione fiscale integra ex se attività illecita (contra legem) anche quando non integra reato; né si può ignorare che la sottrazione di attività, pur intrinsecamente lecite (e cioè da impresa palese, non da mafia), agli obblighi fiscali (in tutto o in parte) inevitabilmente porta con sé altre connesse illiceità, non essendo neppure immaginabile che l'evasione fiscale non comporti anche altre correlate violazioni che parimenti locupletano il soggetto o sono strumentali all'illecito arricchimento (condotte di falso, in ambito contributivo, sulla disciplina del lavoro, ecc.).

Sotto diverso aspetto, rilevano che in caso di evasione fiscale si attua inevitabilmente reimpiego delle utilità che ne siano frutto nel circuito economico dell'evasore, con una confusione di utilità lecite-illecite che è proprio quello che la normativa vuole impedire, confusione che si implementa nella successione dei periodi di imposta (con una sorta di "anatocismo dell'illecito" per l'inevitabile effetto moltiplicatore).

Le Sezioni Unite - valutando poi la principale delle obiezioni che la dottrina sviluppa sul tema, e cioè la preoccupazione di incoerenza sistematica, posto che si verrebbe ad introdurre una confisca, per l'evasione fiscale, anche in casi in cui la legislazione specifica non la contempla - osservano che tale argomento non tiene conto del presupposto di base, e cioè che non si verte in ipotesi di mera evasione fiscale, ma di evasione compita da soggetto nel contempo giudicato, per la concreta ricorrenza di tutti presupposti di legge, socialmente pericoloso. Non si tratta, infatti, di valutare in positivo l'evasione fiscale in sé come fonte di pericolosità sociale, ed in ciò radicare la confisca, ma di escludere (dunque in negativo) che la stessa possa essere addotta quale giustificazione, anche parziale, dell'illecito accumulo, in soggetto giudicato pericoloso aliunde.

In ragione, dunque, delle illustrate differenze strutturali tra la confisca ex art. 12-sexies e la confisca ex art. 2-ter le Sezioni Unite escludono che possano estendersi a quest'ultima le valutazioni e le affermazioni della giurisprudenza di legittimità in ordine alla prima e segnatamente, che, per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto, possa tenersi conto anche dei proventi dell'evasione fiscale.

Le Sezioni Unite, con la sentenza 29 maggio 2014, n. 33451, Repaci altri, Rv. 260244260247, enunciano il seguente principio di diritto: "Ai fini della confisca di cui all'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 (attualmente articolo 24 D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159), per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto, non deve tenersi conto anche dei proventi dell'evasione fiscale".

Il percorso motivazionale attraverso il quale la Corte Suprema giunge all'indicata decisione si presenta di particolare pregnanza, in ragione delle scelte di sistema poste a fondamento del principio affermato.

Giova evidenziare che la questione controversa rimessa alla cognizione delle Sezioni Unite era sintetizzata nei seguenti termini: "Se, ai fini della confisca di cui all'art. 2-ter della L. n. 575 del 1965, per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto, titolare diretto o indiretto dei beni, debba tenersi contro o meno dei proventi dell'evasione fiscale".

In realtà, in ordine ad essa - come dato atto dalla stessa Sezione rimettente - non si registrava un vero e proprio contrasto, giacché la diversità di orientamenti in ordine alla possibilità di superare la presunzione di illegittima provenienza dei beni di valore sproporzionato al reddito o all'attività economica del soggetto interessato mediante il riferimento a risorse lucrate per effetto di un'attività lecita ma non dichiarata fiscalmente è riscontrabile con riguardo non alla confisca di prevenzione ex art. 2-ter legge 31 maggio 1965, n. 575 (nel corso della trattazione indicato solo come art. 2-ter) bensì in relazione alla cosiddetta "confisca allargata" di cui all'art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 (nel corso della trattazione indicato solo come art. 12-sexies).

Ciò nondimeno la decisione sulla questione in rilievo era rimessa alle Sezioni Unite, in considerazione del fatto che i testi normativi disciplinanti le due distinte confische apparivano del tutto sovrapponibili e che la ratio legis per entrambi gli istituti era quella di "contrastare soggetti socialmente pericolosi e dediti al delitto colpendone i patrimoni", di talché la diversità di orientamenti, pur se relativa a confische disciplinate da normative diverse, non sembrava trovare logica giustificazione.

Con specifico riguardo alla confisca ex art. 12-sexies, secondo un primo orientamento, ai fini della valutazione della sproporzione tra il valore dei beni posseduti dall'interessato rispetto al reddito dichiarato o all'attività economica esercitata, i termini di raffronto dello squilibrio sono indicati dalla suddetta previsione, alternativamente, nel reddito dichiarato al fisco e nella attività economica dell'imputato; di talché il giudice, una volta apprezzata la sproporzione rispetto al dato ufficiale, cioè al reddito dichiarato, non deve spingersi a ricercare una situazione di fatto contrastante con il dato documentale. Alla luce di una lettura costituzionalmente orientata del predetto art. 12-sexies, tuttavia, qualora l'imputato dimostri in modo serio la titolarità di un'attività economica che superi di fatto l'immagine reddituale rappresentata al fisco, il giudice deve tenere conto di tale realtà nel suo libero convincimento, anche considerato che la previsione in questione richiede che si tratti di beni di cui l'imputato non possa giustificare la provenienza, con la conseguenza che sulle giustificazioni fornite dall'interessato deve essere fornita puntuale e adeguata motivazione. (In tal senso: Sez. V, 25 settembre 2007, n. 39048 Casavola e altri, Rv. 238216; Sez. VI, del 31 maggio 2011, n. 29926, Tarabugi e altro, Rv. 250505; Sez. VI, 15 dicembre 2011, n. 21265/2012, P.g. in proc. Barba ed altri, Rv. 252855; Sez. I, 4 maggio 2011, n. 22712, Ricciardi e altri; Sez. II 14 ottobre 2011, n. 40048, Puppa ed altri; Sez. III, 18 settembre 2012, n. 46825, Fertillo; Sez. VI, 28 novembre 2012, n. 49876, Scognamiglio, Rv. 253956; Sez. I, 22 gennaio 2013, n. 6336, Mele e altro, Rv. 254532; Sez. III, 20 febbraio 2013, n. 19095, Scacco; Sez. I, 21 febbraio 2013, n. 13425, Coniglione Rv. 255082; Sez. I, 28 maggio 2013, n. 27189, Guarnieri; Sez. II, 2 luglio 2013, n. 35209, Macchiarulo; Sez. II, 2 luglio 2013, n. 43439, Delizia; Sez. II, 2 luglio 2013, n. 43440, Valente; Sez. II, 2 luglio 2013, n. 43441, Valente; Sez. I, 5 novembre 2013, n. 9678/2014, Creati e altri, Rv. 259468; Sez. II, 8 novembre 2013, n. 5798, Barba e altro).

In base ad altro orientamento, invece, i parametri legislativi sono alternativamente indicati dall'art. 12-sexies nella sproporzione esistente tra il loro valore e il reddito dichiarato dall'interessato ai fini delle imposte sul reddito ovvero nella sproporzione esistente tra detto valore e l'attività economica svolta dal medesimo. Ne consegue che per valutare tale sproporzione il giudice, data l'alternatività e non la concorrenza dei due indicati parametri, può limitarsi a prendere in considerazione uno soltanto degli stessi, non essendo necessario che, constatata la sproporzione tra il valore dei beni e uno dei citati parametri, passi ad ulteriore valutazione con l'altro parametro. Inoltre, una volta prescelto il criterio derivante dal reddito dichiarato a fini fiscali, il valore del bene di non giustificata provenienza va parametrato alle dichiarazioni coeve o successive alla data di acquisizione del medesimo, in quanto, una volta entrato nell'ambito patrimoniale dell'interessato, il bene viene a produrre reddito che deve risultare dalle coeve ovvero successive denunzie dei redditi, sicché è del tutto ininfluente a quale dichiarazione si faccia riferimento per accertare la sproporzione purché la medesima non sia precedente all'acquisizione del bene. (In tal senso: Sez. I, 10 giugno 1994, n. 2860, Moriggi, Rv. 198941 Sez. I, 14 ottobre 1996, n. 5202, Scarcella, Rv. 205738; Sez. II, 11 maggio 2005, n. 23396, Simonelli, Rv. 231884; Sez. II, 14 giugno 2011, n. 32563, De Castro; Sez. II, 28 settembre 2011, n. 36913, Lopalco; Sez. II, 17 gennaio 2012, n. 6061, Gallo; Sez. I, 24 febbraio 2012, n. 11473, Allegro).

La delineata diversità di orientamenti non era e non è, in realtà, riscontrabile con riguardo alla confisca di prevenzione, atteso che la giurisprudenza di legittimità risulta consolidata nel negare che la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto possa essere giustificata facendosi riferimento ai proventi dell'evasione fiscale (così: Sez. I, 5 febbraio 1990, n. 265, Montalto, Rv. 183641, Sez. V, 10 novembre 1993, n. 3561, Ciancimino ed altri, Rv. 196461; Sez. I, 15 gennaio 1996, n. 148, Anzelmo, Rv. 204036; Sez. VI, 23 gennaio 1998, n. 258 Bonanno e altro, Rv. 210834; Sez. II, 26 gennaio 1998, n. 705, Corsa, Rv. 211435; Sez. I, 2 luglio 1998, n. 3964, Arcuri ed altri, Rv. 211329; Sez. VI, 22 marzo 1999, n. 950, Riela e altri, Rv. 214507; Sez. II, 6 maggio 1999, n. 2181, Sannino, Rv. 213853, Sez. II, 23 gennaio 2007, n. 5248, G.C., Rv. 236129. Sez. I, 20 novembre 1998, n. 5760, Iorio ed altri, Rv. 212443; Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 36762, Lo Iacono e altro, Rv. 226655; Sez. VI, 25 gennaio 2012, n. 6570, Brandi e altro, Rv. 252039; Sez. II, 5 giugno 2012, n. 25332, Oscurato; Sez. II, 27 marzo 2012, n. 27037, Bini, Rv. 253405; Sez. II, 5 luglio 2012, n. 30449, Di Giorgio e altri; Sez. I, 22 marzo 2013, n. 18423 Commisso ed altri; Sez. I 17 maggio 2013, n. 39204, Ferrara e altro, Rv. 256140; Sez. I, 5 dicembre 2012, n. 6703/14, Di Maio; Sez. V, 22 novembre 2013, n. 8441/14, Caravello e altro).

Si registra in argomento una sola pronuncia di senso contrario, vale a dire Sez. VI, 24 ottobre 2012, n. 44512, Giacobbe, Rv. 258366, nella quale risulta affermato il principio per il quale anche nell'ambito della confisca di prevenzione il proposto può giustificare la sproporzione di cui all'art. 2 ter allegando redditi non dichiarati al fisco e, dunque, percepiti in violazione della normativa tributaria.

Ciò premesso, le Sezioni Unite, al fine di risolvere il quesito loro sottoposto, si soffermano lungamente sulla ratio della confisca di prevenzione e sulle differenze ontologiche tra essa e la confisca allargata.

Invero, nella motivazione della sentenza in commento, riprendendo i principi già affermati dalle Sezioni semplici, è considerato che la confisca ex art. 12-sexies è connotata da una diversa ratio legis e da presupposti in parte diversi rispetto alla confisca di prevenzione, giacché solo la prima richiede la commissione di un reato tipico, per giunta accertato da una sentenza di condanna, ordinariamente generatore - per la sua tipologia - di disponibilità illecite di natura delittuosa, ancorché l'adozione del provvedimento ablativo prescinda da un nesso di pertinenzialità del bene con il reato per il quale è intervenuta la condanna.

La confisca di prevenzione, invece, persegue un più ampio fine di interesse pubblico volto all'eliminazione dal circuito economico di beni di sospetta provenienza illegittima - siccome appartenenti a soggetti abitualmente dediti a traffici illeciti dai quali ricavano i propri mezzi di vita - che sussiste per il solo fatto che quei beni siano andati ad incrementare il patrimonio del soggetto, a prescindere non solo dal perdurare a suo carico di una condizione di pericolosità sociale attuale, ma anche dell'eventuale provenienza dei cespiti da attività sommerse fonte di evasione fiscale. In altri termini la finalità preventiva perseguita con lo strumento ablativo risiede nell'impedire che il sistema economico legale sia funzionalmente alterato da anomali accumuli di ricchezza cui il soggetto possa disporre per il reimpiego nel circuito economico-finanziario, ragione per la quale devono considerarsi di provenienza illecita anche i redditi acquisiti per effetto dell'evasione fiscale.

Le Sezioni Unite evidenziano, altresì, che nell'art. 12-sexies, a differenza, di quanto previsto nell'art. 2-ter, la presunzione di illecita provenienza dei beni del condannato viene ancorata letteralmente ed esplicitamente al combinato disposto della sproporzione rispetto all'attività economica svolta e dell'assenza di giustificazione, non anche, in alternativa, alla esistenza di indizi sufficienti della loro provenienza da qualsiasi attività illecita.

Rilevano, quindi, che sullo specifico tema sottoposto alla loro attenzione, non sussiste un reale contrasto in sede di legittimità, in quanto l'unica sentenza contraria applica alla disciplina di prevenzione l'orientamento formatosi sulla confisca allargata in modo acritico, senza porsi il problema - invece dirimente - dell'eventuale equiparabilità dei due tipi di confisca, equiparazione che la Corte esclude assolutamente, rilevando la differente struttura normativa dei due tipi di confisca.

Affermano, infatti, le Sezioni Unite che la confisca ex art. 12-sexies è legata alla commissione di alcuni reati, mentre l'accertata commissione di reati non è presupposto necessario per il giudizi di pericolosità; la confisca cosiddetta "allargata" è legata alla non giustificabilità della provenienza delle utilità ed alla sproporzione rispetto ai redditi dichiarati o alla propria attività economica; quella di prevenzione aggiunge (profilo estraneo alla confisca ex art. 12-sexies) in alternativa ("ovvero quando") la riconducibilità dei beni, sulla base di sufficienti indizi, al frutto di attività illecite ed al reimpiego delle stesse ("beni … che siano il frutto di attività illecite e ne costituiscano il reimpiego").

La Corte, alla luce di tali diversità, esclude che si possa prospettare l'unitarietà della ratio legis ed evidenzia che trattasi di provvedimenti ablatori che agiscono in campi diversi ed hanno diverse latitudini operative. Infatti la parziale - ma essenziale - diversità dei presupposti legittima la diversità delle due discipline, nell'ambito di una discrezionalità politico-legislativa che l'autorità giudiziaria deve rispettare. Sul punto è richiamata la sentenza della Corte Edu (sentenza del 5 ottobre 2010, Bongiorno), ove si legge non essere sproporzionata, rispetto al legittimo scopo perseguito, l'ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni, "tenuto conto della discrezionalità che hanno gli Stati quando disciplinano l'uso dei beni conformemente all'interesse generale, soprattutto nell'ambito di una politica criminale che mira a combattere il fenomeno della grande criminalità".

Le Sezioni Unite sottolineano, altresì, che risulta coerente con la delineata diversità strutturale che per la confisca ex art. 12-sexies (che prevede il requisito della sproporzione debba essere confrontato con il "reddito dichiarato" o con la "propria attività economica") si possa tener conto dei redditi, derivanti da attività lecita, sottratti al fisco, perché comunque rientranti nella "propria attività economica". Altrettanto coerente, con riferimento alla diversa struttura normativa, è che tale approdo non possa essere applicato alla confisca di prevenzione, per la quale rileva - e dunque non è deducibile a discarico - anche il fatto che i beni siano "il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego". Invero, l'evasione fiscale integra ex se attività illecita (contra legem) anche quando non integra reato; né si può ignorare che la sottrazione di attività, pur intrinsecamente lecite (e cioè da impresa palese, non da mafia), agli obblighi fiscali (in tutto o in parte) inevitabilmente porta con sé altre connesse illiceità, non essendo neppure immaginabile che l'evasione fiscale non comporti anche altre correlate violazioni che parimenti locupletano il soggetto o sono strumentali all'illecito arricchimento (condotte di falso, in ambito contributivo, sulla disciplina del lavoro, ecc.).

Sotto diverso aspetto, rilevano che in caso di evasione fiscale si attua inevitabilmente reimpiego delle utilità che ne siano frutto nel circuito economico dell'evasore, con una confusione di utilità lecite-illecite che è proprio quello che la normativa vuole impedire, confusione che si implementa nella successione dei periodi di imposta (con una sorta di "anatocismo dell'illecito" per l'inevitabile effetto moltiplicatore).

Le Sezioni Unite - valutando poi la principale delle obiezioni che la dottrina sviluppa sul tema, e cioè la preoccupazione di incoerenza sistematica, posto che si verrebbe ad introdurre una confisca, per l'evasione fiscale, anche in casi in cui la legislazione specifica non la contempla - osservano che tale argomento non tiene conto del presupposto di base, e cioè che non si verte in ipotesi di mera evasione fiscale, ma di evasione compita da soggetto nel contempo giudicato, per la concreta ricorrenza di tutti presupposti di legge, socialmente pericoloso. Non si tratta, infatti, di valutare in positivo l'evasione fiscale in sé come fonte di pericolosità sociale, ed in ciò radicare la confisca, ma di escludere (dunque in negativo) che la stessa possa essere addotta quale giustificazione, anche parziale, dell'illecito accumulo, in soggetto giudicato pericoloso aliunde.

In ragione, dunque, delle illustrate differenze strutturali tra la confisca ex art. 12-sexies e la confisca ex art. 2-ter le Sezioni Unite escludono che possano estendersi a quest'ultima le valutazioni e le affermazioni della giurisprudenza di legittimità in ordine alla prima e segnatamente, che, per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto, possa tenersi conto anche dei proventi dell'evasione fiscale.