PARTE OTTAVA LA GIURISDIZIONE

  • giurisdizione civile
  • giurisdizione internazionale
  • giurisdizione tributaria

CAPITOLO XXXIII

LA GIURISDIZIONE E IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE

(di Stefania Billi, Francesca Miglio, Eleonora Reggiani )

Sommario

1 Il regolamento preventivo di giurisdizione. - 2 Questioni processuali. - 3 Limiti esterni alla giurisdizione. - 4 Reciproci confini della giurisdizione ordinaria ed amministrativa. - 4.1 Attività negoziale della P.A. - 4.2 Indennità, canoni e altri corrispettivi. - 4.3 Incentivazioni relative all’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili. - 4.4 Contributi e finanziamenti. - 4.5 Concessioni di lavori pubblici e appalti. - 4.6 Concessioni su beni. - 4.7 Azioni a difesa della proprietà e su diritti immobiliari della P.A. - 4.8 Società. - 4.9 Domande risarcitorie. - 4.10 Diritti di elettorato attivo e passivo. - 5 Perimetro della giurisdizione contabile. - 6 Ambito della giurisdizione tributaria. - 7 Giurisdizione e diritto internazionale. - 8 Acque: criteri di riparto tra g.a, g.o. e Tribunale superiore delle acque pubbliche. - 9 Pubblico impiego contrattualizzato: rinvio.

1. Il regolamento preventivo di giurisdizione.

Gran parte delle questioni esaminate dalla S.C. nel corso 2017 in tema di regolamento preventivo di giurisdizione riguardano la questione dell’ammissibilità del ricorso.

In particolare, con riferimento al momento in cui opera la preclusione, sancita dall’art. 41, comma 1, c.p.c., Sez. U, n. 4219/2017, Ragonesi, Rv. 642543-01, ha evidenziato che il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche se, nel corso del giudizio di primo grado, il giudice abbia statuito negativamente sull’eccezione di difetto di giurisdizione, senza previamente invitare le parti a precisare le conclusioni, perché tale provvedimento ha natura meramente ordinatoria e non decisoria.

Sez. U, n. 27441/2017, Cristiano, Rv. 646252-01, ha precisato che, nei procedimenti di cognizione ordinaria nei quali, in attuazione della facoltà prevista dall’art. 275 c.p.c., si svolga la discussione orale della causa, il momento preclusivo della proposizione del regolamento di giurisdizione è costituito dal momento in cui, all’udienza fissata per la discussione, terminata quest’ultima, il giudice si riserva per la decisione.

Sez. U, n. 9283/2017, Campanile, Rv. 643779-01, ha ribadito che il regolamento preventivo non può più essere proposto, qualora la causa sia stata trattenuta in decisione – non solo perché ha inizio una fase inibita all’attività delle parti, che si chiude con la pubblicazione della sentenza, ma anche perché il regolamento non può più assolvere al fine di favorire una sollecita definizione del processo (oramai concluso) – precisando, tuttavia, che tale preclusione non opera, qualora la causa venga, poi, rimessa sul ruolo senza l’adozione di alcuna statuizione. In siffatta ipotesi, viene, infatti, meno, la stretta correlazione tra l’assunzione in decisione e la decisione, senza che abbia alcun rilievo la circostanza che la questione di giurisdizione sia comunque incidentalmente delibata in un provvedimento privo di natura decisoria, funzionale solo alla prosecuzione dell’istruttoria.

Sez. U, n. 26155/2017, Giusti, Rv. 646010-01, ha, poi, escluso che nel giudizio riassunto tardivamente si conservino gli effetti della pronuncia (di merito) con cui è stata declinata la giurisdizione del giudice originariamente adito, con la conseguenza che, dovendosi ritenere le parti svincolate dalla precedente statuizione, queste ultime possono validamente proporre regolamento preventivo di giurisdizione.

Sez. U, n. 4308/2017, Tria, Rv. 643112-01, ha, inoltre, ritenuto ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione, proposto nella prima fase del procedimento d’impugnativa di licenziamento di cui all’art. 1, commi 47 e segg., della legge del 28 giugno 1992 n. 92, anche ove sia stato emesso uno specifico provvedimento sulla giurisdizione, atteso che i principi di unitarietà della giurisdizione e di economia processuale rendono necessario che il giudice di quella fase esamini, e decida, anche le questioni in rito, posto che la suddetta ammissibilità non collide con la configurazione della fase stessa, quale volta alla rapida definizione della causa, poiché la pronuncia ex art. 41 c.p.c. rappresenta una corsia accelerata, coerente con il principio di ragionevole durata del processo, che non è incompatibile con l’idoneità al passaggio in giudicato dell’ordinanza conclusiva di quella fase, che opera solo in mancanza di attivazione della fase di giudizio a cognizione piena.

Analogamente, Sez. U, n. 13912/2017, Campanile, Rv. 644555-01, ha affermato che il decreto presidenziale assunto in sede di modifica delle condizioni di separazione tra coniugi che, nel fissare la comparizione delle parti, formuli rilievi di carattere meramente incidentale in ordine alla questione di giurisdizione sollevata dalla parte convenuta (la cui decisione è comunque di spettanza del collegio), non osta alla proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione, perché si tratta di provvedimento provvisorio e interinale, privo del carattere della decisorietà.

Sempre in tema di ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, deve richiamarsi Sez. U, n. 14649/2017, Di Virgilio, Rv. 644573-02, ove è stato precisato che la preclusione alla proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione, sancita dall’art. 41, comma 1, c.p.c. opera solo in presenza di una sentenza emessa dal giudice italiano, e non anche di un lodo pronunciato da arbitri stranieri, atteso che la condizione di esperibilità, posta dalla menzionata disposizione, è relazionata alla pendenza del giudizio di merito, da intendersi quale giudizio nel corso del quale è stato proposto il regolamento.

Nella stessa decisione appena menzionata (ma Rv. 644573-01), la S.C. ha, inoltre, ribadito un principio già più volte espresso, secondo il quale, in presenza di una clausola compromissoria di arbitrato estero, l’eccezione di compromesso − attesa la natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario da attribuirsi all’arbitrato rituale, in conseguenza delle disciplina complessivamente ricavabile dalla legge 5 gennaio 1994 n. 25 e dal decreto legislativo del 2 febbraio 2006 n. 40 − deve essere considerata come un’eccezione di rito, che dà luogo ad una questione di giurisdizione e che, pertanto, rende ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione.

In altre pronunce, la S.C. ha esaminato questioni relative all’ammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, ma per motivi diversi da quelli finora esaminati.

In particolare, Sez. U, n. 18977/2017, Petitti, Rv. 645033-01, conformandosi ad un orientamento già espresso (v. Sez. U, n. 1511/2003, Evangelista, Rv. 560198), ha evidenziato che il principio di inammissibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, proposto con un’unica istanza, in relazione a processi formalmente e sostanzialmente distinti, non trova applicazione, ove i diversi giudizi siano assolutamente identici per soggetti, petitum e causa petendi (nella specie, la S.C. ha ritenuto ammissibile il regolamento ex art. 41 c.p.c. proposto dalla stessa parte che aveva introdotto due procedimenti identici, uno davanti al tribunale superiore delle acque pubbliche e un altro davanti al giudice amministrativo, per ottenere l’annullamento del provvedimento di un’autorità di bacino).

Sez. U, n. 3557/2017, Campanile, Rv. 642439-01, ha, poi, affermato che deve ritenersi inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione per carenza di interesse ad agire, qualora non sussista alcun elemento di fatto o di diritto che possa far dubitare della giurisdizione del giudice adito e nessuna delle parti ne contesti la corretta individuazione.

In generale, con riferimento al procedimento che si instaura a seguito della proposizione del ricorso per il regolamento preventivo di giurisdizione, deve richiamarsi Sez. U, n. 11983/2017, Perrino, Rv. 644250-01), ove, è precisato che si configura il litisconsorzio necessario processuale tra tutte le parti del processo in cui il regolamento è richiesto.

Infine, con riguardo alle statuizioni adottate in tema di riassunzione del processo, si rinvia al paragrafo che segue, trattandosi di argomento che interessa tutti i casi in cui il giudizio deve proseguire a seguito di una statuizione sulla giurisdizione.

2. Questioni processuali.

Nel corso del 2017, la S.C. si è pronunciata in diverse occasioni sul tema dell’ammissibilità del ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, soprattutto con riferimento alla verifica della sussistenza o meno del giudicato (esplicito o implicito) sul punto.

In particolare, Sez. 3, n. 19498/2017, Sestini, Rv. 645387-01, ha evidenziato che il motivo di ricorso per cassazione, con il quale viene denunciato, per la prima volta, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, è inammissibile qualora sul punto si sia formato il giudicato esplicito o implicito, ricorrendo quest’ultimo tutte le volte in cui la causa sia stata decisa nel merito (escluse le sole decisioni che non implichino l’affermazione della giurisdizione) e le parti abbiano prestato acquiescenza, non contestando la statuizione sotto quel profilo.

Sez. U, n. 28503/2017, Lombardo, Rv. 646254-01, ha ribadito che il giudicato interno sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte in cui il giudice abbia statuito nel merito, affermando così implicitamente la propria giurisdizione, ma ha anche aggiunto che ciò non accade qualora vengano adottate decisioni che non implicano tale statuizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando, dalla motivazione della sentenza, risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum.

Sez. T, n. 17827/2017, Stalla, Rv. 645018-01, ha, poi, precisato che il giudicato implicito sulla sussistenza della giurisdizione, formatosi per effetto della non impugnazione sulla questione di giurisdizione della sentenza, che ha deciso il merito della controversia, impedisce anche la pronuncia di incostituzionalità della norma, sul cui presupposto il giudice ha deciso nel merito di produrre effetti nel processo, poiché il rilievo del difetto di giurisdizione è ormai precluso.

Allo stesso modo, Sez. U, n. 4879/2017, Virgilio, Rv. 643154-01, ha ritenuto che, in caso di ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte dei conti, pronunciata su impugnazione per revocazione, può sorgere una questione di giurisdizione solo con riferimento al potere giurisdizionale in ordine alla statuizione sulla revocazione medesima, restando esclusa la possibilità di mettere in discussione detto potere sulla precedente decisione di merito.

Sez. U, n. 11139/2017, De Stefano, Rv. 644049-01, ha, invece, rilevato che la pronuncia del giudice contabile, successivamente riformata, con la quale è stata accolta l’eccezione di nullità ai sensi dell’art. 17, comma 30 ter, del d.l. n. 78 del 2009, conv., con modif., dalla l. n. 102 del 2009, e successive modifiche, anche se riguarda una nullità propria del procedimento che si svolge dinanzi alla Corte dei conti (nullità degli atti processuali in relazione ad un’azione di risarcimento del danno erariale all’immagine promossa in assenza dei presupposti di legge), non implica, di per sé sola, alcun giudicato implicito sulla sua giurisdizione e non preclude quindi, essa sola, la proposizione della relativa eccezione.

Sez. U, n. 13912/2017, Campanile, Rv. 644555-01, con riferimento ad un a questione di giurisdizione tra giudice italiano e giudice straniero, ha affermato che l’accettazione della giurisdizione italiana nell’ambito del giudizio di separazione personale non esplica alcun effetto nel successivo procedimento di modifica delle condizioni della separazione, instaurato per ottenere l’affidamento di figli minori, sia perché quest’ultimo è un nuovo giudizio (come si evince anche dall’art. 12, par. 2, lett. a), del reg. CE n. 2201 del 2003), sebbene collegato al regolamento attuato con la decisione definitiva o con l’omologa della separazione consensuale non più reclamabili, sia perché il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla cd. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore, come delineato dalla Corte di giustizia UE, assume una pregnanza tale da comportare l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione.

In altre pronunce, la S.C. ha valutato l’ammissibilità del ricorso formulato per motivi inerenti alla giurisdizione, non con riferimento alla formazione del giudicato, ma con riguardo al divieto di proporre immediatamente ricorso per cassazione avverso le sentenze non definitive, previsto dall’art. 360, comma 3, c.p.c.

In particolare, Sez. U, n. 10937/2017, Frasca, Rv. 644048-02, ha affermato che la sentenza d’appello della Corte dei conti, che decida il gravame incidentale relativo alla statuizione affermativa della giurisdizione contabile, confermando la stessa, e non anche l’appello principale sul merito, sospendendo il giudizio su di esso in attesa della definizione di un altro procedimento, non è immediatamente ricorribile per cassazione, essendo riconducibile all’ambito operativo del disposto dell’art. 360, comma 3, c.p.c., divenendo dunque impugnabile solo quando sopraggiungerà la decisione definitiva d’appello.

Inoltre, Sez. U, n. 21194/2017, Barreca, Rv. 645311-01, dando atto del mutato orientamento della giurisprudenza di legittimità, che, da ultimo, ha ritenuto immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione la sentenza con cui il giudice d’appello riformi o annulli la decisione di primo grado e rimetta la causa al giudice a quo ex artt. 353 o 354 c.p.c., ritenendo trattarsi di sentenza definitiva, estranea al divieto di cui all’art. 360, comma 3, c.p.c. (così Sez. U, n. 25774/2015, Giusti, Rv. 637968-01, successivamente confermata da altre pronunce), ha, poi, affermato che la parte, che non ha proposto immediato ricorso per cassazione, facendo affidamento sul precedente orientamento giurisprudenziale, non ha diritto alla rimessione in termini, per impugnare immediatamente la sopra menzionata sentenza d’appello, in pendenza del giudizio di merito, riassunto dinanzi al primo giudice, perché la statuizione sulla giurisdizione del giudice del gravame può comunque essere impugnata con ricorso per cassazione, nell’ipotesi in cui la decisione del giudice di primo grado, eventualmente sfavorevole nel merito, dovesse trovare conferma in appello (nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso, con cui era stata chiesta – alla luce del mutamento interpretativo sull’art. 360, comma 3, c.p.c. – la rimessione in termini, per impugnare la sentenza di appello, che aveva affermato la giurisdizione del giudice ordinario, declinata dal primo giudice, rimettendo le parti davanti a quest’ultimo).

Per quanto riguarda il conflitto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudici speciali o tra giudici speciali ex art. 362, comma 2, c.p.c., Sez. U, n. 8246/2017, Chindemi, Rv. 643558-01, ha affermato che il ricorso per conflitto negativo di giurisdizione, nell’ipotesi in cui il giudice ordinario ed il giudice amministrativo abbiano entrambi negato con sentenza la propria giurisdizione sulla medesima controversia, pur senza sollevare essi stessi d’ufficio il conflitto, essendosi in presenza non di un conflitto virtuale di giurisdizione, risolvibile con istanza di regolamento preventivo ex art. 41 c.p.c., ma di un conflitto reale negativo di giurisdizione, denunciabile alle sezioni unite della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 362, comma 2, n. 1, c.p.c., in ogni tempo e, quindi, indipendentemente dalla circostanza che una delle due pronunce in contrasto sia passata in giudicato.

Sez. U, n. 11988/2017, Falaschi, Rv. 644071-01, ha, inoltre, evidenziato che, in tema di giurisdizione, la prima udienza entro cui, ai sensi dell’art. 11, comma 3, del decreto legislativo del 2 luglio 2010 n. 104 (codice del processo amministrativo), è consentito al giudice amministrativo, davanti al quale la causa sia stata riassunta, di sollevare anche d’ufficio il conflitto di giurisdizione, deve essere identificata con quella di discussione che, fissata ai sensi dell’art. 71 del medesimo decreto legislativo, dà luogo alla reale trattazione e decisione della causa, sicché non risultano ostative eventuali camere di consiglio su richieste cautelari, anche laddove sia stato emesso un provvedimento provvisorio per assicurare gli effetti della decisione di merito.

Anche Sez. U, n. 11143/2017, De Stefano, Rv. 644051-01, con riferimento al rito disciplinato dagli artt. 151 e ss. del regio decreto dell’11 dicembre 1933 n. 1775 dinanzi al tribunale superiore delle acque pubbliche, ha affermato nel caso in cui sia stata rimessa al tribunale superiore delle acque pubbliche la causa, dopo la declaratoria di difetto di giurisdizione da parte di altro giudice, la questione di giurisdizione non può essere ulteriormente di ufficio sottoposta alle sezioni unite della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 59, comma 3, della legge del 18 giugno 2009 n. 69, se non viene sollevata dal giudice delegato all’istruzione alla prima udienza tenuta davanti a lui, ferma la competenza del collegio, cui la questione sia stata rimessa dal detto giudice, siccome privo di poteri decisori ma non di poteri di rilievo delle questioni ufficiose, a provvedere sul punto all’esito dell’udienza di discussione.

In generale, sulle statuizioni in materia di giurisdizione, Sez. 2, n. 101/2017, Manna F., Rv. 642185-01, ha affermato che, qualora il giudice, che abbia definito il giudizio con una statuizione in rito di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), inserisca nella decisione anche delle argomentazioni di merito, rese ad abundantiam, la parte soccombente non ha l’onere, né l’interesse, a richiedere, con il mezzo di impugnazione, un sindacato in ordine a tale parte di motivazione, siccome ininfluente ai fini della decisione.

Sez. U, n. 13722/2017, Cirillo, Rv. 644369-02, ha inoltre precisato che, qualora il giudice di primo grado dichiari il difetto di giurisdizione sulla domanda, ritenendo che questa solleciti una pronuncia del giudice amministrativo, il giudice di secondo grado, che affermi la giurisdizione negata dalla prima sentenza, deve fare applicazione dell’art. 353 c.p.c., indipendentemente dal fatto che le parti abbiano formulato conclusioni di merito, e rimettere la causa al primo giudice, con la conseguenza che, ove a ciò non provveda, statuendo nel merito, la cassazione della relativa decisione deve essere disposta direttamente con rinvio al primo giudice, vertendosi in tema di violazione del principio di ordine pubblico del doppio grado di giurisdizione, senza che in ciò possa ravvisarsi una lesione della ragionevole durata del processo.

Inoltre, Sez. U, n. 1309/2017, Didone, Rv. 642001-01, ha evidenziato che l’attore, che abbia incardinato la causa dinanzi al giudice contabile e sia rimasto soccombente nel merito, non è legittimato ad impugnarne la sentenza per denunciarne il difetto di giurisdizione, in quanto non soccombente su tale, autonomo capo della decisione.

Per quanto riguarda la riassunzione del giudizio a seguito della statuizione che regola la giurisdizione, Sez. T, n. 4247/2017, De Masi, Rv. 643212-01, ha evidenziato che la traslatio iudicii, che assicura la salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda giudiziale, è applicabile, già anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 59 della l. n. 69 del 2009, anche nei rapporti tra diverse giurisdizioni e pure con riferimento alle pronunce declinatorie di giurisdizione dei giudici di merito, atteso che, da un lato, le differenze di organizzazione tra giudice ordinario e speciale non possono danneggiare l’efficienza e l’efficacia del servizio giustizia e, dall’altro, che le parti dispongono, per la soluzione dell’eventuale conflitto negativo di giurisdizione tra i giudici di merito, del ricorso per cassazione ex art. 362, comma 2, c.p.c. (in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto ammissibile, pur non essendo applicabile ratione temporis, l’art. 59 della l. n. 69 del 2009, la riassunzione della causa davanti al giudice tributario dopo che la sezione lavoro di un tribunale, di fronte alla tempestiva impugnazione di una cartella di pagamento, aveva declinato la propria giurisdizione).

Sez. T, n. 13734/2017, Fasano, Rv. 644359-01, ha inoltre precisato che, in tema di riassunzione del processo a seguito di declinatoria della giurisdizione, ove non sia stato indicato il termine per adire il giudice munito di giurisdizione, trova applicazione, in via analogica, quello di sei mesi previsto dall’art. 50 c.p.c., nella formulazione, applicabile ratione temporis anteriore alla l. n. 69 del 2009.

Infine, Sez. 2, n. 26344/2017, Cavallari, Rv. 645961-01, ha evidenziato che, qualora il giudice amministrativo declini la propria giurisdizione in favore di quello ordinario in relazione ad un giudizio per il quale l’art. 119, comma 2, c.p.a. prevede il dimezzamento dei termini processuali, il contenuto della pronuncia,fondato sulla dichiarazione d’incostituzionalità del regime giuridico di riparto preesistente, non comporta l’immediata cessazione dell’applicabilità della disciplina del processo amministrativo ma ne impone esclusivamente la conclusione seguendo il rito fino ad allora utilizzato. Ne consegue che il dies a quo dal quale decorre il termine perentorio per la riassunzione davanti al giudice ordinario, costituito dal passaggio in giudicato della pronuncia declinatoria della giurisdizione non notificata, si determina in tre mesi dalla pubblicazione del provvedimento, non trovando applicazione l’ordinario termine semestrale previsto dall’art.92, comma 3, c.p.a ma il regime speciale ex art. 119 c.p.a.

3. Limiti esterni alla giurisdizione.

Numerose sono le sentenze delle Sez. U che hanno affrontato questioni di rilievo relative al c.d. eccesso di potere giurisdizionale.

Dalle decisioni in esame emerge l’orientamento consolidato, secondo il quale il sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti è circoscritto, in virtù della formula restrittiva dell’art. 111, ultimo comma, Cost. ai “soli” motivi inerenti l’esistenza stessa della giurisdizione o il concreto superamento dei suoi limiti esterni.

La prima ipotesi si realizza qualora la giurisdizione sia esercitata nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero sia negata sull’erroneo presupposto che la materia non possa, in via assoluta, rientrare nella cognizione giurisdizionale, la seconda si verifica quando il giudizio verta su materie attribuite ad altra giurisdizione o sia declinata la giurisdizione sull’erroneo presupposto che essa appartenga ad altri, o ancora, per materie attribuite alla propria giurisdizione, venga compiuto un sindacato di merito, pur essendo la cognizione limitata alla indagine di legittimità degli atti amministrativi.

Tutti i vizi che investono i limiti interni alla giurisdizione ovvero alla correttezza e alle modalità del suo esercizio (ad esempio quelli relativi alla verifica dei presupposti processuali e delle condizioni dell’azione, alla violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, al controllo della esistenza, della sufficienza e della logicità della motivazione, alla violazione del giudicato e, più in generale all’interpretazione e alla corretta applicazione delle norme sostanziali e processuali) restano – al contrario – esclusi dai “motivi inerenti alla giurisdizione”.

In particolare, secondo Sez. U, n. 7295/2017, Frasca, Rv. 643338-01, non configura eccesso di potere giurisdizionale, per esercizio di attività riservata alla P.A., la declaratoria, ad opera del giudice amministrativo, di inefficacia del contratto conseguente all’annullamento di una gara di appalto, ex art. 122 del d.lgs. n. 104 del 2010, giacché a tale potere non corrisponde, tanto nella disciplina del d.lgs. n. 163 del 2006, quanto in quella introdotta dal d.lgs. n. 50 del 2016, analoga figura di provvedimento amministrativo di uguale contenuto, sicché difetta, sotto il profilo formale, l’oggetto della pretesa usurpazione, mentre, per altro aspetto, l’art. 122 disciplina un istituto di applicazione generalizzata, con esclusione dei soli casi regolati dagli artt. 121, comma 1, e 123 del d.lgs. n. 104 cit., affidata ad un potere di valutazione del giudice amministrativo, rispetto alla quale è indifferente che la gara debba essere rinnovata o meno salvo, in tale ultima ipotesi, l’obbligo di valutare, tra l’altro, la possibilità del ricorrente di subentrare nel contratto nonché l’avvenuta proposizione della domanda di subentro.

Secondo Sez. U, n. 11804/2017, Manna F., Rv. 644054-01, non costituisce rifiuto di giurisdizione la valutazione, da parte del giudice amministrativo, di sufficienza e congruità degli accertamenti, connotati da un elevato tasso di discrezionalità tecnica, svolti dall’Amministrazione, atteso che la natura impugnatoria della giurisdizione generale amministrativa di legittimità non consente un’indagine diretta sulla materia controversa, prescindendo dal tramite dell’attività denunciata, sicché la necessità di nominare un consulente tecnico, come previsto dall’art. 67 del d.lgs. n. 104 del 2010, all. 1, è funzionale al solo scrutinio di legittimità dell’atto impugnato e non anche alla ricerca dell’esatta soluzione tecnica della questione di merito.

Sez. U, n. 15275/2017, Scrima, Rv. 644913-01, poi, ha ritenuto non affetta dal vizio di eccesso di potere giurisdizionale la decisone adottata dal Consiglio di Stato, all’esito di giudizio di ottemperanza, con la quale lo stesso si era pronunciato su rinnovate valutazioni della P.A. prospettate, al contempo, come elusive del giudicato ed innovative – giacché fondate su circostanze sopravvenute – rispetto a quelle già ritenute illegittime dal giudice amministrativo.

Sempre in materia di giudizio di ottemperanza, Sez. U, n. 4092/2017, Armano, Rv. 642538-02, ha affermato che non incorre in eccesso di potere giurisdizionale il giudice amministrativo che, nel dare esecuzione ad una ingiunzione di pagamento emessa dal giudice ordinario nei confronti di un Comune, ne subordini il pagamento alla presentazione del DURC ad opera del creditore, trattandosi di certificazione che, attestando la regolarità contributiva di quest’ultimo, temporalmente fissata proprio al momento del menzionato pagamento, non incide sull’esistenza o l’entità del credito, integrando il giudicato sul decreto ingiuntivo con elementi estranei ad esso, ma conferma, piuttosto, un obbligo di legge congruente con la fase del giudizio di esecuzione.

Neppure integra motivo di giurisdizione, per c.d. eccesso del potere giurisdizionale, secondo Sez. U, n. 13977/2017, Frasca, Rv. 644558-01, la prospettazione in base alla quale il Consiglio di Stato, nel decidere su un ricorso contro una sentenza di primo grado del T.A.R., abbia ritenuto di disattendere il motivo di appello con cui si postulava che, per effetto di successive vicende fattuali, la situazione giuridica soggettiva, la cui tutela a suo tempo era stata correttamente introdotta davanti al giudice amministrativo, per appartenere alla sua giurisdizione, era divenuta qualificabile in diverso modo, tale da giustificarne la tutelabilità davanti al giudice ordinario e il venir meno dell’interesse a ricorrere davanti al giudice amministrativo.

Con riferimento alle regole del processo amministrativo, Sez. U, n. 964/2017, Ragonesi, Rv. 641821-01, ha, infine, precisato che l’eccesso del potere giurisdizionale è configurabile solo nel caso di un radicale stravolgimento delle norme diritto che implichi un evidente diniego di giustizia, sicché non è affetta da tale vizio la pronuncia con la quale il giudice amministrativo, facendo applicazione della sanzione prevista dall’art 40 del d.lgs. n. 104 del 2010, nonché dell’art. 3, comma 2 del medesimo d.lgs., abbia dichiarato l’inammissibilità dell’atto di appello per violazione dei doveri di specificità, chiarezza e sinteticità espositiva.

Per quanto riguarda le statuizioni della S.C. in tema di eccesso di potere giurisdizionale o comunque di superamento dei limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti, si rinvia al successivo par. 5, dedicato proprio alle attribuzioni del giudice contabile.

4. Reciproci confini della giurisdizione ordinaria ed amministrativa.

Il lavoro ermeneutico della S.C. sull’individuazione del perimetro di confine tra le due giurisdizioni, ordinaria e amministrativa, è stato particolarmente intenso anche quest’anno ed ha investito una molteplicità di settori. Si è preferito, pertanto, per comodità di lettura richiamare le pronunce raggruppandole in macro aree.

4.1. Attività negoziale della P.A.

Nel settore dell’attività negoziale è possibile individuare un primo gruppo di decisioni che fanno applicazione del criterio generale di ripartizione, secondo il quale sono devolute al giudice amministrativo tutte le controversie in cui si tratti dell’attività della P.A. connotata da discrezionalità, rispetto alla quale il privato vanta una posizione di interesse legittimo. In particolare, Sez. U, n. 23600/2017, Travaglino, Rv. 645658-01, ha individuato il criterio di riparto in ipotesi di caducazione, in sede di autotutela, di atti prodromici alla conclusione del contratto. Nella sentenza si precisa che al giudice amministrativo spetta la giurisdizione soltanto qualora l’esercizio del potere autoritativo di annullamento abbia la funzione di sindacare la legittimità degli atti appartenenti alla sequela procedimentale di carattere discrezionale che ha preceduto la successiva contrattazione con il privato. Sussiste, viceversa, la giurisdizione del giudice ordinario nell’ipotesi in cui la P.A. persegua l’obiettivo di sottrarsi ex post ad un vincolo contrattuale. La pronuncia è stata resa, con riconoscimento della giurisdizione al giudice ordinario, a fronte di un’impugnativa di una delibera comunale che, in sede di autotutela, aveva annullato due pregresse delibere con cui era stato dato corso alla stipulazione di contratti cd. “derivati”, sul rilievo che questi ultimi erano stati conclusi all’esito di una trattativa privata.

Sez. U, n. 23598/2017, Travaglino, Rv. 645657-01, è intervenuta, invece, con riguardo al servizio di rifornimento del carburante per aeromobili in aeroporto, chiarendo che appartiene alla giurisdizione del g.o. la controversia insorta tra due imprese (una compagnia aerea e un’impresa fornitrice di carburante per aeromobili), entrambe operanti nel libero mercato, avente ad oggetto la domanda di accertamento negativo della legittimità di una clausola contrattuale inserita nella convenzione negoziale, tra di esse stipulata, relativa al corrispettivo dovuto per l’erogazione del servizio, maggiorato dell’importo previsto dalla clausola cd. airport free (relativa al diritto del gestore dell’aeroporto per il rifornimento degli aeromobili cd. refuelling, ricompreso, come tale, nell’ambito dei servizi aeroportuali di cui all’All. B del d.lgs. 13 gennaio 1999, n. 18). In proposito, si è affermata l’irrilevanza della circostanza costituita dalla scelta di una delle parti di prevedere, mediante l’apposizione di tale clausola, il refluire in essa di un corrispettivo dovuto ad altro soggetto e sottoposto a regolazione pubblicistica.

In applicazione del principio generale sopra richiamato, in materia di disciplina delle cd. quote latte, Sez. U, n. 11985/2017, Falaschi, Rv. 644251-01, ha ritenuto devoluta al giudice ordinario la controversia tra il fornitore, che chiede il pagamento integrale delle forniture di latte effettuate, e l’acquirente, che, non contestando queste ultime, oppone la sussistenza del diritto di prelievo supplementare di latte di vaccino e suoi derivati e, dunque, il necessario accantonamento delle somme pretese, dovendo trattenere detta quota in qualità di delegata ex lege della P.A. A tale proposito la S.C. ha ritenuto che non incida sul diritto di credito fatto valere la circostanza che la disciplina delle quote latte sia connotata da molteplici profili pubblicistici, in rapporto ai quali è previsto il compimento di controlli amministrativi e di adempimenti pubblicitari ad opera dell’AIMA (ora AGEA), non risultando in alcun modo coinvolto l’esercizio di poteri autoritativi ad opera della P.A.

4.2. Indennità, canoni e altri corrispettivi.

Come principio generale è stato ribadito da Sez. U, n. 14428/2017, Campanile, Rv. 644563-01, che le controversie concernenti “indennità, canoni o altri corrispettivi” riservate alla giurisdizione del giudice ordinario dall’art. 5, comma 2, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 e, quindi, dall’art. 133, comma 1, lett. c), del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, sono essenzialmente quelle contrassegnate da un contenuto meramente patrimoniale, attinente al rapporto interno tra P.A. concedente e concessionario del bene o del servizio pubblico. Ove, invece, la lite esuli da tali limiti, coinvolgendo la verifica dell’azione autoritativa della P.A. sull’intera economia del rapporto concessorio, il conflitto tra P.A. e concessionario viene attratto nella sfera della competenza giurisdizionale del giudice amministrativo. Facendo applicazione di tale principio, la pronuncia citata ha ritenuto rientrante nella giurisdizione esclusiva di quest’ultimo, anche sotto il profilo della lesione dell’affidamento sulla legittimità dell’atto amministrativo, la controversia intrapresa da una casa di cura nei confronti di una AUSL ed inerente il tetto di spesa deliberato per una determinata annualità, la quale, pur formalmente rivolta ad ottenere il pagamento dei corrispettivi spettanti, investe, nella sostanza, la valenza dei budget assegnati ed involge un sindacato sull’incidenza dei poteri autoritativi e di controllo che l’Amministrazione regionale conserva anche nella fase attuativa dei rapporti di natura concessoria.

Poggia sulla medesima ratio, anche Sez. U, n. 9862/2017, Scrima, Rv. 643783-01, secondo cui ricade nella giurisdizione ordinaria la domanda del farmacista, nei confronti dell’ASL, diretta ad ottenere il pagamento di una parte della somma trattenuta ex art. 13, comma 1, lett. a), del d.l. n. 39 del 2009, conv., con modif., dalla l. n. 77 del 2009, trattandosi di una pretesa di contenuto meramente patrimoniale, avente la consistenza di diritto soggettivo.

Nella stessa direzione, Sez. U, n. 13723/2017, Perrino, Rv. 644370-01, ha affermato la devoluzione al giudice amministrativo della controversia sul pagamento di somme a titolo di corrispettivo per la prestazione di servizi concernenti l’uso delle infrastrutture e dei beni di aerostazione, sul presupposto che in tale ipotesi si verte in tema di liti su corrispettivi determinati in base a tariffe stabilite dalle stesse società titolari della gestione dei servizi, aventi natura di organismi di diritto pubblico. La S.C. ha precisato che queste ultime, anche quando siano a capitale integralmente privato, sono investite, quali sub concessionarie e sub gestori delle infrastrutture di aeroporto, ai sensi del d.lgs. 13 gennaio 1999, n. 18, attuativo della direttiva 96/67/CE, delle facoltà e dei diritti riconducibili al rapporto pubblicistico di concessione del bene, in merito alla erogazione, sotto vigilanza E.N.A.C., dell’attività di interesse generale di assistenza a terra.

4.3. Incentivazioni relative all’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili.

Significativi sono stati gli arresti in materia, anche alla luce della particolare rilevanza sociale del tema.

In generale è stato affermato che è di esclusiva spettanza del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. o), del d.lgs. n. 104 del 2010, la controversia introdotta dal soggetto produttore di energia fotovoltaica, ammesso, a seguito di specifica convenzione stipulata con il gestore dei servizi energetici, a beneficiare delle tariffe incentivanti previste dall’art. 7 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 del 2003, al fine di contestare la loro rimodulazione, disposta dall’art. 26 del d.l. 24 giugno 2014 n. 91, conv., con modif., dalla legge 11 agosto del 2014, n. 116. Ad avviso di Sez. U, n. 10795/2017, Tirelli, Rv. 643942-01, infatti, la predetta disposizione non ha definito per intero la vicenda, rimettendone la regolamentazione a successivi decreti ministeriali ed, infine, a singoli provvedimenti del gestore, chiamato ad intervenire non nella veste di mera controparte della convenzione (capace, perciò, di soli atti paritetici), ma come P.A., destinata ad operare in posizione di supremazia mediante l’esercizio di poteri autoritativi finalizzati ad assicurare l’attuazione della superiore volontà di legge.

Con riguardo alle tariffe incentivanti per l’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili prevista dal d.m. 28 luglio 2005, secondo Sez. U, n. 10409/2017, De Chiara, Rv. 643787-01, spetta altresì al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. o), del d.lgs. n. 104 del 2010, la domanda proposta dal soggetto produttore di energia elettrica fotovoltaica nei confronti di enti appartenenti alla pubblica amministrazione ed avente ad oggetto la legittimità della previsione retroattiva – contenuta nel combinato disposto degli artt. 4, comma 1, e 8, comma 1, del d.m. 6 febbraio 2006 – di soppressione dell’adeguamento alla variazione in aumento dei prezzi al consumo, calcolata dall’ISTAT. La S.C., in applicazione del criterio generale di riparto sopra richiamato, ha rilevato che, in tal caso, si tratta di un provvedimento concernente i criteri per l’incentivazione della produzione di energia elettrica da fonte solare secondo la previsione di cui all’art. 7 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 287.

Sotto il diverso, ma non meno importante, profilo della decadenza della società produttrice dal diritto alla tariffa incentivante, appartiene anche al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. o), dell’all. 1 al citato d.lgs. n. 104 del 2010, la controversia instaurata nei confronti della società cessionaria del credito, al fine di ottenere la restituzione dei contributi percepiti. Ha ben chiarito, infatti, Sez. U, n. 14653/2017, Giusti, Rv. 644574-01, che la previsione di contributi tariffari costituisce un efficace strumento di indirizzo della produzione energetica nazionale, riguardando appunto la «produzione di energia». In particolare è stato chiarito che, sebbene il cessionario non sia produttore di energia pulita, il credito ceduto non può essere considerato al di fuori del rapporto da cui trae origine, non essendo ipotizzabile un differente atteggiarsi del provvedimento di decadenza, e della giurisdizione che su di esso si innesta, a seconda dei destinatari dei suoi effetti giuridici.

Con riferimento, invece, alla richiesta di rimborso delle somme a titolo di incentivazione economica per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, Sez. U, n. 26150/2017, Cirillo E., Rv. 645817-01, ha riconosciuto che spetta al giudice amministrativo la giurisdizione sulla causa avente ad oggetto l’annullamento del provvedimento emesso dal gestore dei servizi energetici. La S.C. ha chiarito, in particolare, che in tale ipotesi viene in rilievo un atto che non ha incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, ma concerne l’indirizzo della produzione energetica nazionale.

4.4. Contributi e finanziamenti.

Assume rilievo, la pronuncia di Sez. U, n. 18985/2017, Armano, Rv. 645131-01, secondo cui rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2), del d.lgs. n. 104 del 2010, la controversia relativa alla revoca di contributi concessi con fondi statali e dell’Unione europea all’associazione “Civen” (Coordinamento interuniversitario veneto per la nanotecnologie) per la realizzazione di progetti nel settore delle nanotecnologie, trattandosi di erogazioni che trovano titolo in un accordo tra Pubbliche Amministrazioni, rilevante ai fini ed agli effetti di cui al combinato disposto degli artt. 15 della l. 7 agosto 1990, n. 241 e 34 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, norme che si pongono, tra loro, in rapporto di genere a specie. Quanto espresso costituisce un’applicazione estensiva di quanto disposto più in generale da Sez. U, n. 5923/2011, Piccininni, Rv. 616671-01, in relazione alle controversie relative alla formazione, conclusione ed esecuzione di accordi tra enti pubblici per il conseguimento di interessi comuni.

Di contro, le controversie sorte in relazione agli importi riconosciuti, ai sensi della legge 23 febbraio 1999, n. 44 artt. 1, 3 e 10, in favore delle vittime di attività estorsive, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario. I soggetti in questione, in presenza dei requisiti richiesti dalla legge sono, come ha rilevato Sez. U, n. 18983/2017, Armano, Rv. 645129-01, titolari di un vero e proprio diritto soggettivo all’erogazione del contributo.

Appartiene, altresì, al giudice ordinario la giurisdizione sulla controversia promossa dal privato per il riconoscimento e la quantificazione di contributi pubblici dopo il verificarsi di eventi sismici. A tale proposito, Sez. U, n. 8115/2017, Di Iasi, Rv. 643554-01, ha chiarito che, vertendosi in tema di erogazioni in cui l’attività della P.A. è rigorosamente vincolata dai criteri predisposti dalla legge, a tutela delle posizioni dei singoli danneggiati, si tratta di una situazione di diritto soggettivo, non ricompresa nelle materie dell’urbanistica ed edilizia, di cui non può scindersi l’astratta attribuzione dai suoi profili concreti inerenti quantum e quomodo.

Con riguardo al recupero di importi erogati si richiama Sez. U, n. 10939/2017, Di Iasi, Rv. 643944-01, secondo cui ricade nella giurisdizione ordinaria l’opposizione alla cartella di pagamento emessa dalla P.A. per recuperare somme erogate in base ad un provvedimento revocato, con cui si contesti l’esistenza del titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile. La pronuncia ha chiarito, infatti, che si tratta di un’opposizione ex art. 615 c.p.c., in cui non possono venire in rilievo profili cognitori di accertamento dell’obbligazione, ma solo le questioni attinenti al diritto del creditore di procedere all’esecuzione forzata sulla base di un titolo formalmente valido ed in assenza di cause sopravvenute di inefficacia.

4.5. Concessioni di lavori pubblici e appalti.

In tema di appalti pubblici, Sez. U, n. 14859/2017, Travaglino, Rv. 644576-01, ha effettuato un’importante precisazione in relazione ai criteri di riparto della giurisdizione con riferimento alle impugnative di atti prodromici alla stipulazione di un contratto. In particolare, l’annullamento in autotutela di un atto amministrativo prodromico alla stipulazione del contratto ha natura autoritativa e discrezionale, sicché il relativo vaglio di legittimità spetta al giudice amministrativo, la cui giurisdizione esclusiva si estende alla conseguente domanda per la dichiarazione di inefficacia o nullità del contratto, attesa la necessità di una trattazione unitaria. Sussiste, invece, la giurisdizione del giudice ordinario quando, conclusosi il giudizio amministrativo sull’atto presupposto, con passaggio in giudicato della relativa sentenza, alla domanda di nullità del contratto si aggiunga quella di accertamento negativo del credito, vertendosi in tema di diritti soggettivi vantati in posizione di parità dal privato nei confronti dell’ente pubblico, non riservati, in via esclusiva, alla giurisdizione del giudice amministrativo.

In tema di controversie relative a procedure di affidamento di appalti pubblici, Sez. U, n. 10935/2017, Di Iasi, Rv. 643943-01, ha affermato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a conoscere, non solo, della controversia inerente alla legittimità della revoca del bando di gara d’appalto ed alla conseguente efficacia del contratto, ma anche di quella volta ad ottenere il pagamento del corrispettivo. La revoca, infatti, benché sia un atto successivo alla stipula del contratto d’appalto, involge pur sempre il legittimo esercizio, da parte della P.A., di poteri autoritativi incidenti sul rapporto contrattuale, e la giurisdizione esclusiva sulle procedure di affidamento deve riguardare anche gli atti di secondo grado, ossia quelli incidenti su provvedimenti assunti nell’ambito delle suddette procedure (quali, appunto, gli atti di ritiro) e le relative conseguenze.

Viceversa, la controversia relativa alla risoluzione del contratto per inadempimento dell’aggiudicatario, afferendo esclusivamente alla fase esecutiva del rapporto, ad avviso di Sez. U, n. 10705/2017, Chindemi, Rv. 644249-01, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario.

Analogamente appartiene al giudice ordinario la cognizione in materia di appalti pubblici con particolare riguardo al servizio di trasporto per portatori di handicap a fini riabilitativi. A questo proposito, Sez. U, n. 20494/2017, Acierno, Rv. 645140-01, ha chiarito che l’obbligo dei comuni di concorrere alla spesa sostenuta dalle AUSL dà luogo ad un diritto di credito dell’Azienda Sanitaria, in quanto fondato su disposizioni normative di carattere vincolante.

Sono di pertinenza, invece, del giudice amministrativo, secondo Sez. U, n. 15637/2017, Nappi, Rv. 644582-01, le controversie in tema di “recesso della P.A. dal contratto di appalto per il sospetto di infiltrazioni mafiose nella società appaltatrice”, ai sensi dell’art. 11, comma 2, del d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252. La ratio poggia sul rilievo che la P.A. committente, che riceva dalla Prefettura informazioni circa possibili infiltrazioni mafiose nella società appaltatrice, mentre non ha il potere di sindacare la fondatezza di tali informazioni, ha la facoltà, e non l’obbligo, di recedere dal contratto di appalto in base ad una valutazione discrezionale che tenga conto del pubblico interesse, a fronte della quale il privato è portatore di un interesse legittimo.

Con riferimento all’azione di responsabilità promossa nei confronti del direttore dei lavori nominato dal contraente generale, ai sensi dell’art. 9, comma 2, del d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190, applicabile ratione temporis, per dedotti danni derivati alla stazione appaltante a seguito dello svolgimento dell’incarico, va esclusa la giurisdizione contabile ad avviso di Sez. U, n. 10231/2017, Bielli, Rv. 643936 – 01, stante l’insussistenza di un rapporto di servizio. Il direttore dei lavori, infatti, non esercita alcun potere autoritativo e non può, quindi, ritenersi funzionalmente inserito nell’apparato amministrativo della stazione appaltante.

In applicazione, poi, di quanto affermato da Sez. U, n. 11022/2014, Cappabianca, Rv. 630752-01, relativamente alla nozione unitaria di concessione di lavori pubblici, Sez. U, n. 21200/2017, Barreca, Rv. 645312-01, ha ribadito che non è più consentita la distinzione tra concessione di sola costruzione e concessione di gestione dell’opera, in quanto la gestione funzionale ed economica dell’opera costituisce la controprestazione principale e tipica a favore del concessionario. Facendo applicazione del principio, ha, dunque, affermato che competono alla giurisdizione ordinaria, ai sensi della legge 11 febbraio 1994, n. 109, art. 31-bis, e art. 133 c.p.a., comma 1, lett. e), n. 1, le controversie, se relative alla fase successiva all’aggiudicazione, anche qualora la domanda sia stata proposta anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e si riferisca a lavori concessi anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 109 del 1994. La pronuncia ha, dunque, confermato il superamento dell’orientamento espresso da Sez. U, n. 3518/2008, Luccioli M. G., Rv. 601784-01.

4.6. Concessioni su beni.

In materia di concessioni amministrative, in applicazione del generale criterio di riparto sopra richiamato, Sez. U, n. 16829/2017, Bruschetta, Rv. 644801-01, ha chiarito che sono riservate alla giurisdizione del giudice ordinario unicamente le controversie che, non coinvolgendo la verifica dell’azione autoritativa della P.A. sul rapporto concessorio sottostante, abbiano un contenuto meramente patrimoniale. Vale la pena precisare che il principio è stato espresso, dichiarando nella specie la giurisdizione del giudice amministrativo, con riferimento ad una controversia in cui il riconoscimento dell’obbligo di pagamento delle indennità relative a beni demaniali dipendeva dall’accertamento dell’esistenza della concessione amministrativa sulle aree, che è materia attribuita alla giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 5 della l. n. 1034 del 1971, applicabile ratione temporis.

Con riguardo, invece, ai canoni concessori annui c.d. convenzionali dovuti per l’installazione di impianti pubblicitari privati, a titolo di riconoscimento del diritto di proprietà dell’ente locale, Sez. U, n. 21545/2017, Bielli, Rv. 645317-01, applicando il criterio di riparto sopra ricordato, ha affermato che la cognizione dell’impugnazione della delibera che ha determinato i criteri generali sull’entità dei predetti canoni, rientra nella giurisdizione amministrativa; in tal caso, infatti la controversia concerne i presupposti generali della quantificazione del canone approvati con un atto generale amministrativo e, quindi, i poteri valutativo-discrezionali esercitati dall’amministrazione comunale, con una scelta che, implicando anche una valutazione comparativa degli interessi generali, non ha natura solo patrimoniale.

È stata affermata da Sez. U, n. 10560/2017, Barreca, Rv. 643789-01, la giurisdizione del giudice ordinario nella controversia avente ad oggetto l’escussione, da parte del comune, di una polizza fideiussoria rilasciata a garanzia dell’adempimento di obblighi ed oneri assunti dal privato in relazione ad un rapporto di concessione di beni pubblici, atteso che, in detta ipotesi, la P.A. agisce nell’ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri.

Sono, invece, devolute al giudice amministrativo, secondo, Sez. U, n. 6962/2017, Travaglino, Rv. 643283-01, le controversie aventi ad oggetto il rispetto degli obblighi nascenti da convenzioni stipulate tra comuni ed altri enti, pubblici o privati, ex art. 133, comma 1, lett. A), n. 2, del d.lgs. n. 104 del 2010, e correlate all’esecuzione di un accordo integrativo o sostitutivo di un provvedimento amministrativo. La pronuncia è stata resa in materia urbanistica.

Un’importante precisazione in materia di promozione dello sviluppo locale proviene da Sez. U, n. 26339/2017, Cirillo F.M., Rv. 645819-01, secondo cui il “protocollo d’intesa” siglato tra un Comune ed un privato, finalizzato alla creazione di una situazione idonea e necessaria all’adozione dei provvedimenti autorizzativi a favore del privato medesimo, senza che sia tuttavia prevista la concessione di un finanziamento, né l’individuazione di un responsabile del procedimento, non rientra tra i patti territoriali ex art. 2, comma 203, lett. d), della legge 23 dicembre 1996 n. 662, ma tra gli accordi integrativi del provvedimento, ex art. 11, della legge 7 agosto 1990 n. 241. Le relative controversie, pertanto, restano devolute alla giurisdizione del g.a.

4.7. Azioni a difesa della proprietà e su diritti immobiliari della P.A.

In tema di edilizia residenziale pubblica è stato ribadito il principio secondo cui rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia introdotta da chi si opponga ad un provvedimento dell’amministrazione comunale di rilascio di immobile occupato senza titolo e di assegnazione in locazione a terzi, essendo contestato il diritto di agire esecutivamente e configurandosi l’ordine di rilascio come un atto imposto dalla legge e non come esercizio di un potere discrezionale della P.A., la cui concreta applicazione richieda, di volta in volta, una valutazione del pubblico interesse. In particolare, Sez. U, n. 24148/2017, Manna F., Rv. 645660-01, ha precisato che la giurisdizione del giudice ordinario permane anche qualora l’opponente deduca il possesso dei requisiti per l’assegnazione dell’alloggio al di fuori di un procedimento amministrativo di assegnazione, ovvero al solo fine di paralizzare la pretesa di rilascio.

Facendo sempre applicazione dei criteri generali di riparto della giurisdizione sopra richiamati, in tema di azioni di nunciazione nei confronti della P.A., in linea di continuità con Sez. U, n. 604/2015, Mazzacane, Rv. 63364701, è stata affermata la giurisdizione del giudice ordinario, qualora il petitum sostanziale della domanda tuteli un diritto soggettivo e non lamenti l’emissione di atti o provvedimenti ricollegabili all’esercizio di poteri discrezionali spettanti alla P.A.; in particolare, il principio è stato ribadito da Sez. U, n. 25456/2017, D’Ascola, Rv. 645813-01, in una controversia di denuncia di nuova opera esercitata, da un privato, nei confronti di ente locale territoriale al fine di tutelare di una servitù di passaggio.

Analogamente sono devolute alla cognizione del giudice ordinario le controversie instaurate tra un privato ed un ente pubblico relative a rapporti tra proprietà finitime, alla loro effettiva estensione, nonché al regolamento dei rispettivi confini, in quanto, secondo Sez. 6-T, n. 22188/2017, Mocci, Rv. 645994-01, nessuna di esse può includersi nella “materia urbanistica ed edilizia” di cui all’art. 34 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 del 1998.

Un’importante precisazione, tuttavia, è stata effettuata in materia con riguardo alla realizzazione di una centrale eolica con installazione di aereogeneratori. In particolare, Sez. U, n. 18165/2017, Scarano, Rv. 645030-01, ha precisato che appartengono alla giurisdizione esclusiva amministrativa le domande del proprietario confinante, aventi ad oggetto la collocazione delle pale eoliche e le immissioni da esse provocate, laddove si traducano nella contestazione, non di un’attività materiale posta in essere al di fuori di quella autoritativa, bensì di quella esecutiva dei provvedimenti amministrativi e delle relative scelte discrezionali riguardanti l’individuazione e la determinazione dell’opera pubblica sul territorio. La ratio di tale principio risiede nel fatto che gli atti del gestore di tale servizio, funzionali alla sua costituzione ed alla determinazione delle sue modalità di esercizio, costituiscono un intervento di interesse pubblico.

È stato ben chiarito da Sez. U, n. 11988/2017, Falaschi, Rv. 644071 – 02, che se l’Amministrazione titolare di un bene demaniale si avvale dei mezzi ordinari a difesa della proprietà, anche qualora la controparte ne abbia la detenzione in virtù di precedente concessione, la controversia meramente patrimoniale rientra nella giurisdizione ordinaria, in quanto concerne un diritto soggettivo, laddove non si pongano questioni sul provvedimento o sull’azione autoritativa. L’arresto è stato reso in tema di indennizzo o di risarcimento del danno per l’occupazione abusiva.

Si richiama, infine, Sez. U, n. 9284/2017, Campanile, Rv. 643780-01, che ha ricondotto nell’alveo della giurisdizione ordinaria, in quanto rientrante nella previsione di cui all’art. 1079 c.c., la controversia attinente al rispetto del dovere scaturito dalla clausola di una convenzione inerente ad un piano di lottizzazione urbanistica con la quale, a fronte della cessione a titolo gratuito al comune di alcune aree destinate a verde pubblico da parte del privato, viene costituita, a favore della residua proprietà di quest’ultimo, una servitù non aedificandi a carico delle aree cedute.

Per quanto riguarda le controversie connesse e successive all’esplicazione di atti ablatori da parte della P.A., per una più approfondita trattazione, si rinvia al capitolo su L’espropriazione per pubblica utilità.

In ogni caso qui è utile brevemente ricordare che la S.C. ha confermato l’orientamento che riconosce la giurisdizione amministrativa laddove vi sia una riconducibilità anche mediata del comportamento della P.A. all’esercizio del potere amministrativo.

In applicazione di tali principi, nella materia dell’espropriazione per p.u. ex art. 133, comma 1, lett. g), del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, Sez. U, n. 17110/2017, Manna F., Rv. 644919-01, ha chiarito che l’eventuale controversia sull’usucapione della proprietà del fondo occupato a seguito dell’esercizio di un potere espropriativo appartiene, alla giurisdizione del giudice ordinario, non rilevando un’immediata riconducibilità della pretesa al pregresso esercizio di questo potere.

Nella medesima direzione Sez. U, n. 1092/2017, De Chiara, Rv. 641999-01 con riguardo alla mancata retrocessione di un bene, acquisito mediante decreto di esproprio, nonostante la sopravvenuta decadenza della dichiarazione di p.u.

In relazione alle controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità di occupazione legittima dovute in conseguenza di atti ablativi, Sez. U, n. 7303/2017, Cristiano, Rv. 643339-01, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell’art. 53, comma 2, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (oggi art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a.). È interessante quanto precisato sull’irrilevanza che la relativa domanda sia stata proposta dall’attore unitamente a quella, devoluta invece alla giurisdizione del giudice amministrativo, di risarcimento del danno da perdita del bene, stante la vigenza, nell’ordinamento processuale, del principio generale di inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione.

Nello stesso senso, per Sez. U, n. 1643/2017, Nappi, Rv. 642266-01, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia concernente il risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento di un contratto di transazione di liti promosse dinanzi al giudice amministrativo, aventi ad oggetto la parziale cessione di un immobile in favore dell’espropriante e la determinazione delle indennità spettanti per il diminuito valore della residua parte del bene.

4.8. Società.

Nel settore vengono segnalati alcuni arresti su materie di particolare interesse, fondati sull’applicazione del criterio di riparto della giurisdizione legato alla natura degli atti posti in essere dalla P.A. In particolare, ove la controversia verte su atti che sono espressione di poteri autoritativi, la giurisdizione è del giudice amministrativo, in quanto il privato, a fronte di questi è portatore di interessi legittimi; viceversa, qualora, riguardi controversie in cui l’Amministrazione operi come un soggetto privato e, dunque, si tratti di diritti soggettivi, la giurisdizione spetta al giudice ordinario.

Nell’ambito del nutrito contenzioso riguardante società partecipate da enti pubblici, si segnala Sez. U, n. 21299/2017, Scarano, Rv. 645313-01, secondo cui l’impugnazione di provvedimenti di nomina degli amministratori ricade nella cognizione del giudice ordinario. All’ente pubblico, infatti, non è consentito di incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società mediante l’esercizio di poteri autoritativi, potendo esso avvalersi solo degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina pubblica presenti negli organi della società. La pronuncia pone l’accento sulla natura degli atti posti in essere, in tal caso, uti socius dalla P.A.

Per contiguità di materia si segnala Sez. U, n. 11983/2017, Perrino, Rv. 644250-02, secondo cui l’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore unico o del dirigente della Ferrovie del Sud Est e Servizi Automobilistici s.r.l. appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto rientrante nell’ambito soggettivo di applicazione del d.lgs. n. 188 del 2003, attuativo delle direttive nn. 2001/12/CE, 2001/13/CE e 2001/14/CE, e, successivamente, del d.lgs. n. 115 del 2012, che ha abrogato il precedente decreto legislativo ed attuato la direttiva n. 2012/34/UE. Ne consegue che, al pari di ogni altra impresa ferroviaria di diritto interno, la detta società è contrassegnata, in conformità al diritto dell’Unione, dall’indipendenza e dall’autonomia, dall’apertura al libero mercato e dall’adozione del modello privatistico, che non ne consentono la riconducibilità all’ente pubblico o anche alla società in house.

In applicazione del criterio di riparto sopra richiamato, in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia conseguente all’impugnazione, da parte del privato, del provvedimento con il quale Ministero dello sviluppo economico autorizza l’organo della procedura a sospendere il procedimento di liquidazione di un ramo di azienda, al fine di sollecitare offerte migliorative. A tale proposito, Sez. U, n. 13451/2017, Campanile, Rv. 644365 – 01, ha, infatti, chiarito che i contratti che conducono alla liquidazione dei beni che appartengono all’impresa privata sono, a tutti gli effetti, negozi di diritto privato stipulati dai commissari per conto dell’impresa non sono assimilabili ai contratti ad evidenza pubblica.

4.9. Domande risarcitorie.

In materia vanno segnalati numerosi arresti della S.C., prevalentemente con riguardo a risarcimenti collegati alla realizzazione di opere pubbliche.

Su tale tema un’importante precisazione è stata effettuata da Sez. U, n. 21975/2017, Lombardo, Rv. 645322-01, secondo cui, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria proposta, occorre distinguere il caso nel quale il privato pretenda il risarcimento del danno derivante dalla illegittima progettazione e deliberazione dell’opera pubblica, nel quale, ponendosi in discussione la “legittimità” dell’esercizio del potere pubblico, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, da quello in cui lo stesso lamenti la “cattiva esecuzione” dell’opera pubblica, contestando le modalità esecutive dei lavori, nel quale la giurisdizione spetta al giudice ordinario, venendo in rilievo la violazione del generale dovere di neminem laedere. La pronuncia è stata resa con il riconoscimento della giurisdizione amministrativa, in riferimento a danni lamentati come derivati, dagli atti del procedimento amministrativo relativo alla linea ferroviaria ad alta velocità dal tracciato Roma-Napoli.

In tema di responsabilità precontrattuale, è stato chiarito da Sez. U, n. 16419/2017, Travaglino, Rv. 644799-01, che la relativa domanda di risarcimento del danno proposta da una P.A., in qualità di stazione appaltante, nei confronti del soggetto affidatario di lavori o servizi pubblici, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di richiesta afferente non alla fase pubblicistica della gara ma a quella prodromica, nella quale si lamenta la violazione degli obblighi di buona fede e correttezza. In tale ipotesi, in linea con Sez. U, n. 14833/2009, Goldoni, Rv. 608720-01, è stata attribuita rilevanza al criterio di riparto della giurisdizione fondato sulla natura della situazione soggettiva dedotta in giudizio e si è affermato che la lite verte su un diritto soggettivo la cui lesione sia stata non conseguente, bensì soltanto occasionata da un procedimento amministrativo di affidamento di lavori o servizi.

Con riguardo agli appalti pubblici Sez. U, n. 15640/2017, Nappi, Rv. 644583-01, ha chiarito che nella controversia risarcitoria proposta da colui che, avendo ottenuto l’aggiudicazione in una gara per l’affidamento di un appalto pubblico, successivamente annullata dal giudice amministrativo perché illegittima, deduca la lesione dell’affidamento ingenerato dal provvedimento di aggiudicazione apparentemente legittimo, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, non essendo chiesto in giudizio l’accertamento della illegittimità dell’aggiudicazione, ma della colpa consistita nell’averlo indotto a sostenere spese nel ragionevole convincimento della prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del termine previsto dal contratto stipulato a seguito della gara. In termini più generali e nello stesso senso Sez. U, n. 13454/2017, Cirillo E., Rv. 644366-01.

Nel diverso tema dell’organizzazione del servizio pubblico di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani, sono stati forniti criteri più certi, ai fini della qualificazione di pubblico servizio avente ad oggetto la gestione di rifiuti. In particolare, Sez. U, n. 9965/2017, Perrino, Rv. 643784-01 ha chiarito che esso è ravvisabile, in base al diritto dell’Unione europea, laddove il corrispettivo sia pagato direttamente dall’Amministrazione al prestatore del servizio stesso, il quale non ne sopporta il rischio. Diverso è il concessionario di servizi che trae, invece, la propria remunerazione dai proventi ricavati dagli utenti. In punto di giurisdizione, quindi ha chiarito che, è devoluta in via esclusiva al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 6 della l. 24 dicembre 1993, n. 537, come sostituito dall’art. 44 della l. 23 dicembre 1994, n. 724, applicabile ratione temporis, la controversia relativa alla revisione del corrispettivo contrattuale fondata non su di una specifica clausola, di cui, al contrario, è chiesta accertarsi la nullità, ma sull’esercizio del potere autoritativo dell’Amministrazione a tutela dell’interesse pubblico.

In materia ancora, Sez. 6-3, n. 22009/2017, De Stefano, Rv. 645718–01, ha affermato che le controversie aventi per oggetto il risarcimento dei danni conseguenti all’omessa adozione dei provvedimenti necessari a prevenire o impedire l’abbandono di rifiuti sulle strade, ovvero a rimuoverne gli effetti, appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. p), del d.lgs. n. 104 del 2010 e, in precedenza, ex art. 33, comma 2, lett. e), del d.lgs. n. 80 del 1998, nel testo modificato dall’art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205, ogniqualvolta la pretesa risarcitoria sia ricollegata a un danno (nella specie, causato dall’incendio di un cassonetto) derivante in via immediata e diretta dall’organizzazione del servizio pubblico di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani, inclusa l’ipotesi in cui sia contestata la cattiva o omessa gestione dei manufatti necessari al ciclo di tale raccolta (anche sotto il profilo della loro ubicazione, sorveglianza o custodia). Nella predetta ipotesi di giurisdizione esclusiva devono, infatti, ricondursi anche i generali obblighi incombenti sulla p.a., ai sensi dell’art. 2051 c.c. In tale ipotesi la S.C. ha fatto applicazione del criterio generale di riparto, secondo cui rientrano nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non solo le materie previste per legge, ma anche le connesse domande risarcitorie.

Di rilievo è altresì quanto precisato da Sez. U, n. 11142/2017, De Stefano, Rv. 644050-01, secondo cui, nonostante la sussistenza della giurisdizione esclusiva amministrativa in materia, appartiene alla giurisdizione ordinaria la domanda del privato che si dolga delle concrete modalità di esercizio del relativo ciclo produttivo, assumendone la pericolosità per la salute o altri diritti fondamentali della persona e chiedendo l’adozione delle misure necessarie per eliminare i danni attuali e potenziali e le immissioni intollerabili. Ha chiarito sul punto che la condotta contestata integra la materiale estrinsecazione di un’ordinaria attività di impresa, allorquando non siano dettate particolari regole esecutive o applicative tecniche direttamente nei provvedimenti amministrativi, sicché non risulta in alcun modo coinvolto il pubblico potere.

Di appannaggio della giurisdizione amministrativa è, infine, ad avviso di Sez. U, n. 18996/2017, De Stefano, Rv. 645136 – 01, la controversia risarcitoria avente ad oggetto i danni da rilascio del passaporto carente di requisiti formali indispensabili, atteso che l’incertezza sulla qualificazione della condotta della P.A. nel momento del rilascio del documento rende evidente l’esistenza di una lite rientrante nella generale previsione dell’art. 133, lettera u), c.p.a., anche solo quale questione pregiudiziale.

4.10. Diritti di elettorato attivo e passivo.

In materia Sez. U, n. 13403/2017, Perrino, Rv. 644363–01, ha precisato che le relative controversie appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, la quale non viene meno per il fatto che la questione relativa alla sussistenza, o non, dei diritti suddetti sia stata introdotta mediante l’impugnazione del provvedimento di proclamazione o di convalida degli eletti, perché anche in tali ipotesi la decisione non verte sull’annullamento dell’atto amministrativo impugnato, bensì direttamente sul diritto soggettivo perfetto inerente all’elettorato suddetto.

5. Perimetro della giurisdizione contabile.

Le decisioni della Suprema Corte che nel corso dell’anno 2017 hanno contribuito a delimitare l’ambito della giurisdizione della Corte dei conti possono essere esaminate distinguendo quelle che riguardano le azioni di responsabilità per danno erariale, i giudizi di conto e le controversie in materia pensionistica. Vi sono state anche alcune pronunce che hanno esaminato la questione del cd. eccesso di potere giurisdizionale, ovvero del superamento dei limiti esterni della giurisdizione da parte del giudice contabile (v. supra par. 3).

Tra le statuizioni da ultimo richiamate, in particolare, assume rilievo Sez. U, n. 11139/2017, De Stefano, Rv. 644049-03, ove è stato ritenuto legittimo, senza che comporti l’indebita creazione di una norma, ovvero eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento dai limiti propri della funzione, il sindacato esercitato dalla Corte dei conti sull’economicità della gestione della P.A. e, in particolare, la verifica dell’esistenza di un equilibrio tra obiettivi conseguiti e costi sostenuti, nonché della ragionevolezza dei mezzi impiegati in relazione agli obiettivi perseguiti (nella specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di condanna al risarcimento del danno erariale del delegato del sindaco che, esprimendo la volontà dell’ente in seno all’organo rappresentativo di una società pubblica, aveva indicato un numero di consiglieri sovradimensionato rispetto alle effettive necessità dell’ente, aumentando sproporzionatamente la loro retribuzione, pur in assenza di una norma che stabilisse tetti numerici e stipendiali).

In senso analogo, Sez. U, n. 6820/2017, Chiarini, Rv. 643280-01, ha affermato che la Corte dei conti può, e deve, verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini istituzionali dell’ente pubblico, che devono essere ispirati ai criteri di economicità ed efficacia, di cui all’art. 1 della legge del 7 agosto 1990 n. 241, i quali assumono rilevanza non già sul piano della mera opportunità ma della legittimità dell’azione amministrativa e consentono, in sede giurisdizionale, un controllo di ragionevolezza sulle scelte della pubblica amministrazione, onde evitare la deviazione di queste ultime dai fini istituzionali dell’ente e consentire la verifica della completezza dell’istruttoria, della non arbitrarietà e proporzionalità nella ponderazione e scelta degli interessi, nonché della logicità ed adeguatezza della decisione finale rispetto allo scopo da raggiungere (nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione impugnata, che aveva escluso la rispondenza ai criteri di economicità ed efficienza della scelta, operata da un ente pubblico consortile, di esternalizzare i compiti e servizi necessari alla propria attività ad un soggetto privo non solo di personale, ma anche di sede sociale).

Anche Sez. U, n. 29920/2017, Chindemi, Rv. 646330-01, ha evidenziato che, nel giudizio di responsabilità amministrativa, il divieto di sindacare nel merito le scelte discrezionali della P.A. non può essere interpretato nel senso che l’azione amministrativa non debba essere sottoposta al vaglio di alcun parametro normativo, in modo da trasformarsi in puro “arbitrio”, dovendo, infatti, escludersi che travalichi i limiti esterni della sua giurisdizione il giudice contabile che non compia una scelta di opportunità tra diverse soluzioni possibili ma giudichi della legittimità dei provvedimenti (nella specie, conferimenti di incarichi esterni), secondo il parametro normativo rappresentato dalle disposizioni vigenti nella materia e dai principi di rango costituzionale che conformano l’attività amministrativa, quali l’efficacia, l’efficienza e l’economicità.

Alle stesse conclusioni è pervenuta Sez. U, n. 30990/2017, Perrino, Rv. 646961-01, ove, sempre in tema di danno erariale − nel precisare che l’immunità prevista dall’art. 122, comma 4, Cost. comprende i voti espressi dai consiglieri nell’esercizio di funzioni di amministrazione attiva se si tratta di funzioni attribuite “in via diretta e immediata” da una legge dello Stato o di altre funzioni “ragionevolmente riconducibili” all’attività politica dei consigli regionali e dei loro componenti − ha rilevato che, in quest’ultimo caso, la valutazione di ragionevolezza deve essere effettuata in concreto, comportando la relatività (e non l’assolutezza) dell’immunità, che, infatti, non esclude in radice la giurisdizione contabile, ma attiene ai suoi limiti interni, regolati dai criteri di economicità ed efficacia, ai quali deve ispirarsi l’azione amministrativa, anche se discrezionale, e che rilevano sul piano della legittimità della stessa.

Per quanto riguarda la giurisdizione contabile in materia di danno erariale, occorre senza dubbio richiamare Sez. U, n. 7663/2017, De Chiara, Rv. 643343-01, che ha ribadito la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti sull’azione di responsabilità proposta da un comune nei confronti degli amministratori della società concessionaria del servizio delle pubbliche affissioni e della pubblicità per omesso versamento dei relativi introiti, atteso che l’attività di accertamento e riscossione dell’imposta comunale, svolta da detta società, ha natura di servizio pubblico e l’obbligazione di versare all’ente locale le somme a tale titolo incassate ha natura pubblicistica, sicché il rapporto tra società ed ente si configura come rapporto di servizio, in quanto il soggetto esterno si inserisce nell’iter procedimentale dell’ente pubblico, come compartecipe dell’attività pubblicistica di quest’ultimo, non rilevando, in contrario, la natura privatistica del soggetto affidatario del servizio, né il titolo giuridico in forza del quale il servizio viene svolto e neppure la compensabilità dell’obbligazione del concessionario con il credito relativo all’aggio, essendo configurabile l’operatività della compensazione anche nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico allorché specifiche norme la prevedano.

Anche Sez. U, n. 11139/2017, De Stefano, Rv. 644049-02, confermando un orientamento oramai consolidato, ha affermato che sussiste la giurisdizione della Corte dei conti in ordine all’azione risarcitoria proposta nei confronti del rappresentante di un ente locale, titolare di una partecipazione totalitaria in una società, che abbia esercitato, in nome e per conto dell’ente, i diritti e le facoltà inerenti alla posizione di socio, in modo non conforme al dovere di diligente cura del valore di tale partecipazione, così causando un pregiudizio diretto al patrimonio dell’ente medesimo (nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto sussistente la giurisdizione della Corte dei conti in ordine alla domanda di risarcimento del danno patrimoniale, proposta dal procuratore contabile nei confronti del delegato del sindaco che, esercitando i poteri spettanti a quest’ultimo quale rappresentante dell’ente in virtù dell’ampiezza inusitata della delega conferitagli, aveva arrecato un danno patrimoniale al comune, deliberando un aumento sia del numero che del compenso dei consiglieri di amministrazione di una società partecipata integralmente dall’ente, in via diretta o indiretta).

Sez. U, n. 30978/2017, D’Ascola, Rv. 646737-01, ha invece ritenuto attribuite al giudice ordinario, e non al giudice contabile, le azioni di responsabilità promosse nei confronti dei dipendenti di società, appartenente a una holding, ove la capogruppo è una società a partecipazione pubblica, quando non solo quest’ultima società, ma neppure le società controllate possono essere considerate in house providing, rilevando, nella specie (si è trattato del gruppo Ferrovie dello Stato), che l’affermata natura privatistica della capogruppo e il collegamento di derivazione infragruppo convergono in una piattaforma che stempera il legame con l’ente pubblico, facendo emergere l’autonomia e la specificità aziendale delle singole società operative, quale sintomatica riprova del regime civilistico applicato a detti enti, in conformità a quanto stabilito dall’art. 4, comma 13, del decreto legge 6 luglio 2012 n. 95, conv., con modif., nella legge 7 agosto 2012 n. 135 (applicabile ratione temporis), che, in assenza di diverse disposizioni, impone all’interprete di applicare la disciplina del codice civile in materia di società di capitali.

Sez. T, n. 25299/2017, Carbone, Rv. 645984-01, ha, inoltre, affermato che l’ufficiale giudiziario, il quale ometta o ritardi di versare le somme dovute ai sensi degli artt. 154 e 155 del decreto del Presidente della Repubblica del 15 dicembre 1959 n. 1229 è soggetto alla giurisdizione della Corte dei conti, trattandosi di somme per le quali egli è depositario di publica pecunia.

Sez. U, n. 18991/2017, De Stefano, Rv. 645133-01, ha, poi, rilevato, ai fini della configurabilità del danno erariale, che sussiste un rapporto di servizio tra la pubblica amministrazione erogatrice di un contributo o finanziamento statale ed i legali rappresentanti di società persone giuridiche private percettrici dei medesimi, ovvero coloro che con quelle intrattengano un rapporto organico, che, disponendo della somma erogata in modo diverso da quello preventivato o ponendo in essere i presupposti per la sua illegittima percezione, abbiano frustrato lo scopo perseguito dalla P.A., distogliendo le risorse conseguite dalle finalità cui erano preordinate, senza, peraltro, che un’eventuale responsabilità della società o di altri soggetti elida, di per sé sola, quella dei legali rappresentanti stessi, al più operando il concorso dell’una e dell’altra ed applicandosi l’art. 2055 c.c., né ostandovi la possibilità di costituzione di parte civile, sia perché l’art. 75, comma 3, c.p.p. non si applica al giudizio contabile, sia perché l’art. 538 c.p.p. può essere interpretato nel senso che al giudice contabile è riservata in via esclusiva la giurisdizione in punto di condanna specifica al risarcimento del danno.

Sez. n. 10231/2017, Bielli, Rv. 643936-01, in tema d’appalto di opera pubblica, ha invece evidenziato che il direttore dei lavori, nominato dal contraente generale ai sensi dell’art. 9, comma 2, del decreto legislativo 20 agosto 2002, applicabile ratione temporis, non esercita alcun potere autoritativo e non può, quindi, ritenersi funzionalmente inserito nell’apparato amministrativo della stazione appaltante, sicché, ove si assuma che dall’esercizio del relativo incarico sia derivato un danno all’ente pubblico, deve escludersi, in ragione dell’insussistenza di un rapporto di servizio, ancorché temporaneo, con quest’ultimo, che la cognizione della conseguente azione risarcitoria spetti alla giurisdizione contabile.

Con riferimento ai giudizi di conto, Sez. U, n. 1548/2017, Chindemi, Rv. 642006-01, ha precisato che, sebbene i consorzi di bonifica abbiano natura di enti pubblici economici – svolgendo attività di tipo imprenditoriale (non esclusa dalla equiparabilità dei contributi consortili ai tributi erariali quanto al profilo della loro imposizione ed esazione) – deve essere negata la giurisdizione contabile per la verificazione dei rendiconti dei loro direttori, non essendo configurabile un’attività di “maneggio” di fondi riconducibili ad una pubblica amministrazione, sussistendo invece quella ordinaria, in considerazione della mancanza di un’espressa previsione normativa, dell’irrilevanza, al fine indicato, dell’assoggettamento di detti consorzi a controllo amministrativo, e, infine, della non assimilabilità di tali consorzi a quelli fra enti locali territoriali.

In materia pensionistica, Sez. U, n. 15057/2017, De Stefano, Rv. 644579-01, ha precisato che, ai fini del riparto di giurisdizione nelle controversie funzionali al diritto alla pensione dei pubblici dipendenti, occorre distinguere tra domanda proposta nel corso del rapporto, che attiene agli obblighi − pur con connotazione previdenziale − del datore di lavoro, e domanda formulata dal dipendente già in quiescenza, diretta ad incidere esclusivamente sul rapporto previdenziale, dovendosi ritenere che mentre nel primo caso la controversia è devoluta al giudice del rapporto di lavoro, − e, quindi, al giudice amministrativo per le vicende anteriori al 30 giugno 1998 ed al giudice ordinario per quelle successive − nel secondo caso la lite appartiene alla giurisdizione della Corte dei conti (il principio è stato affermato in relazione ad una controversia relativa alla rivendicazione della copertura previdenziale da parte un medico del SSN, in ordine a pregresso periodo svolto in regime di convenzione, involgendo il diritto al versamento dei contributi e dunque la condotta datoriale, indispensabile per rendere effettiva l’anzidetta copertura, la cui cognizione, in base al principio enunciato, è dunque di spettanza del giudice ordinario).

Sez. U, n. 1306/2017, Bronzini, Rv. 641822-01, ha, poi confermato un orientamento già manifestato, affermando che è devoluta alla giurisdizione della Corte dei conti, non soltanto la domanda di accertamento della causa di servizio, proposta unitamente alla conseguente domanda di condanna dell’ente al pagamento del trattamento pensionistico, ma anche la sola domanda di mero accertamento della causa di servizio, quale presupposto del trattamento pensionistico privilegiato, atteso il carattere esclusivo di tale giurisdizione, affidata al criterio di collegamento costituito dalla materia.

Allo stesso modo, Sez. U, n. 7755/2017, Virgilio, Rv. 643550-01, ha ritenuto che anche la controversia relativa all’ammontare della ritenuta fiscale operata dall’istituto previdenziale sulla pensione di reversibilità attiene al trattamento pensionistico e, se derivante da rapporto di pubblico impiego, rientra nella giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, che ricomprende tutte le controversie funzionali e connesse al diritto alla pensione dei pubblici dipendenti.

Sez. U, n. 18172/2017, D’Antonio, Rv. 645127-01, ha, inoltre, rilevato che la controversia sull’obbligo di restituzione dei ratei di pensione riscossi dagli eredi nel periodo successivo alla morte del pensionato (già dipendente pubblico), appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto afferente alla sola fondatezza dell’azione di ripetizione di indebito promossa dall’INPS, rispetto alle somme versate dopo il decesso, e non alla determinazione dell’ammontare del trattamento pensionistico.

Per quanto riguarda le materie attribuite alla giurisdizione della esclusiva Corte dei conti in speciale composizione, Sez. U, n. 12496/2017, Scarano, Rv. 644253-01, ha affermato che il giudizio di impugnazione dell’elenco redatto annualmente dall’Istituto Nazionale di Statistica, ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge del 31 dicembre 2009 n. 196, nel quale sono inseriti gli enti compresi nel conto economico consolidato della P.A. (come, nella specie, la Federazione Italiana Golf, inclusa nell’elenco S 13 delle Federazioni sportive), ove presentino almeno uno dei cinque indicatori di controllo previsti dal vigente regolamento comunitario (cd. SEC 2010), appartiene alla giurisdizione piena ed esclusiva della Corte dei conti, sezioni riunite in speciale composizione ex art. 1, comma 169, della legge 24 dicembre 2012 n. 228, trovando detta giurisdizione la propria ragion d’essere sia nella attinenza dell’atto amministrativo compiuto dall’ISTAT, di natura meramente ricognitiva e non provvedimentale, alla materia della contabilità pubblica (art. 103, comma 2, Cost.), sia nell’assegnazione alla Corte dei conti del controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato (art. 100 Cost.). Inoltre, la legittimità della previsione della decisione in unico grado trova conferma nella insussistenza di una garanzia costituzionale al doppio grado di giurisdizione di merito, sussistendo, anzi, l’esigenza di assicurare tempi certi e celeri alla menzionata ricognizione degli enti, al fine di evitare possibili ripercussioni temporali negative in ordine alla formazione del conto economico consolidato.

6. Ambito della giurisdizione tributaria.

In generale è stato ribadito il principio espresso da Sez. U, n. 15031/2009, Merone, Rv. 608816-01, secondo cui le controversie tra il sostituto d’imposta ed il sostituito danno ingresso ad una lite tra privati la cui cognizione appartiene al giudice ordinario, non risultando coinvolto il rapporto d’imposta.

Sullo stesso solco Sez. U, n. 13721/2017, Cirillo E., Rv. 644368-02 ha chiarito che appartiene alla giurisdizione ordinaria, e non a quella del giudice tributario, la controversia insorta tra il professionista, erogatore della prestazione, ed il beneficiario, in ordine alla pretesa rivalsa dell’IVA esposta in fattura, atteso che la statuizione non investe il rapporto tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, risolvendosi, invece, in un accertamento incidentale nell’ambito del rapporto privatistico fra soggetto attivo e soggetto passivo della rivalsa, estraneo alla giurisdizione sul rapporto d’imposta devoluto al giudice tributario.

Può essere collocata nello stesso senso, Sez. U, n. 16833/2017, Bruschetta, Rv. 644802-01, che ha deciso per la giurisdizione ordinaria con riguardo ad una domanda di un avvocato, nei confronti della banca tesoriere di un comune, volta ad ottenere il rimborso della somma relativa alla ritenuta d’acconto applicata sulle spese di vari giudizi, anziché soltanto sui diritti ed onorari in essi liquidati.

È importante segnalare che la questione delle controversie aventi per oggetto l’iscrizione ipotecaria di cui all’art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, anche a seguito delle modifiche apportate all’art. 19, comma 1, lett. e)-bis, del d.lgs. del 31 dicembre 1992, n. 546 dall’art. 35, comma 26-quinquies, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv., con modif., dalla l. 4 agosto 2006, n. 248, applicabile ratione temporis, ha dato luogo a pronunce di segno opposto che, tuttavia sono da ritenersi superate dopo l’intervento delle Sezioni unite. In particolare, ad avviso di Sez. 5, n. 4802/2017, Zoso, Rv. 643288-01, sussisteva sempre la giurisdizione del giudice tributario, indipendentemente dalla natura del credito del quale l’ipoteca costituisce garanzia. Diversamente, secondo, Sez. U, n. 17111/2017, Chindemi, Rv. 644920-01, rileva la natura dei crediti posti a fondamento del provvedimento di iscrizione suddetta, con la conseguenza che la giurisdizione spetterà al giudice tributario o al giudice ordinario a seconda della natura tributaria, o meno, dei crediti, ovvero ad entrambi – ciascuno per il proprio ambito come appena individuato – se quel provvedimento si riferisce in parte a crediti tributari ed in parte a crediti non tributari.

Seguono una serie di pronunce che riconoscono la natura tributaria di alcuni prelievi. In particolare, partecipa di tale natura, ad avviso di Sez. U, n. 17113/2017, Chindemi, Rv. 644921-01, l’addizionale provinciale sulla Tariffa integrata ambientale (cd. TIA2), prevista dall’art. 19 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 in quanto la stessa disposizione istitutiva prevede un sistema di reperimento, attraverso un tributo, della provvista necessaria all’esercizio di utilità generale di funzioni di interesse pubblico; manca, poi, un rapporto di corrispondenza economica tra la prestazione della P.A. ed il vantaggio ricevuto dal privato.

Analogamente in materia di servizio idrico integrato, secondo Sez. U, n. 18994/2017, De Stefano, Rv. 645135-01, è devoluta alla giurisdizione del giudice tributario la controversia instaurata dal gestore del predetto servizio, che impugni atti dell’amministrazione regionale, con cui si solleciti in modo generico l’adempimento dell’obbligo di pagamento di un “canone” rapportato al consumo di acqua potabile, e destinato a confluire nel “fondo per la montagna”, dovendo esso qualificarsi tributo per la sua previsione in fonti normative, la sua doverosità e la sua funzionalizzazione alla fiscalità generale.

Sono di appannaggio delle commissioni tributarie le controversie relative ai contributi dovuti dagli utenti ai consorzi stradali obbligatori costituiti per la manutenzione, la sistemazione e la ricostruzione delle strade vicinali, ai sensi del d.lgt. 1 settembre 1918, n. 1446 ratione temporis vigente, attesa l’indubbia natura tributaria di tali oneri, come ha chiarito, Sez. U, n. 16693/2017, Chindemi, Rv. 644915-01.

Sotto un profilo diverso Sez. U, n. 13722/2017, Cirillo E., Rv. 644369-01, ha affermato che le controversie concernenti il trattamento economico per l’esercizio delle funzioni di componente delle commissioni tributarie centrali sono devolute al giudice ordinario, ai sensi dell’art. 3, comma 121, della l. 24 dicembre 2003, n. 350, venendo in rilievo il diritto patrimoniale al corretto esercizio della potestà amministrativa di scelta dei criteri di determinazione del compenso.

Esula, secondo Sez. U, n. 7666/2017, Petitti, Rv. 643344-01, dalla giurisdizione del giudice tributario la controversia concernente l’incidenza del mancato pagamento del contributo annuale previsto a carico degli avvocati ed in favore dei Consigli dell’Ordine di appartenenza sul diritto del professionista al mantenimento della efficacia della iscrizione all’albo, atteso che oggetto di un tale giudizio è l’accertamento della sussistenza delle condizioni per l’iscrizione e per poter esercitare la professione – questione che rientra nella competenza dei Consigli dell’Ordine e, in sede di impugnazione, del Consiglio Nazionale Forense – non anche della legittimità della pretesa del pagamento annuale gravante sul professionista per effetto dell’iscrizione predetta.

Con riguardo all’esecuzione forzata tributaria, l’opposizione agli atti esecutivi avverso l’atto di pignoramento asseritamente viziato per omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento (o di altro atto prodromico al pignoramento), è ammissibile e va proposta, ai sensi degli artt. 2, comma 1, e 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, dell’art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973 e dell’art. 617 c.p.c., davanti al giudice tributario. Per Sez. U, n. 13913/2017, Bielli, Rv. 644556-01, infatti, l’opposizione costituisce l’impugnazione del primo atto in cui si manifesta al contribuente la volontà di procedere alla riscossione di un ben individuato credito tributario.

In materia è stato precisato da Sez. U, n. 18979/2017, Di Iasi, Rv. 645035-01, che l’impugnazione delle cartelle di pagamento relative a spese processuali ed a somme dovute alla Cassa delle ammende ricade nella giurisdizione ordinaria, non attenendo a crediti tributari.

In tema di credito tributario Sez. U, n. 14648/2017, Di Virgilio, Rv. 644572-01, ha chiarito che, ove, in sede di ammissione al passivo fallimentare, sia eccepita dal curatore la prescrizione del credito tributario successivamente alla notifica della cartella di pagamento, viene in considerazione un fatto estintivo dell’obbligazione e, poiché trattasi di questione riguardante l’an ed il quantum del tributo, la giurisdizione sulla relativa controversia spetta al giudice tributario. Il giudice delegato dovrà, pertanto, ammettere il credito in oggetto con riserva, anche in assenza di una richiesta di parte in tal senso.

7. Giurisdizione e diritto internazionale.

In materia di diritto internazionale privato si devono richiamare alcuni significativi arresti in diversi settori, tra i quali quello relativo ai rapporti obbligatori, ma anche in materia processuale, fallimentare e tributaria.

In tema di protezione in sede europea della denominazione di origine protetta (DOP), in ipotesi di registrazione prima dell’entrata in vigore del Reg. CE n. 479 del 2008, Sez. U, n. 21191/2017, Acierno, Rv. 645310-01, ha ritenuto che la domanda di nullità della registrazione, avendo contenuto analogo a quella di nullità del marchio registrato, è soggetta alla giurisdizione del giudice italiano ai sensi dell’art. 120, comma 1, Codice della proprietà industriale, atteso che secondo l’art. 51 del detto Reg. CE le denominazioni già riconosciute a livello nazionale risultano automaticamente protette in sede europea, una volta trasmessi dagli Stati i fascicoli tecnici e le decisioni nazionali di approvazione, senza ulteriore sindacato da parte della Commissione.

In materia, poi, di contratti sotto il profilo del luogo di esecuzione dell’obbligazione, Sez. U, n. 26147/2017, Giusti, Rv. 645814-02, ha chiarito che, ai sensi dell’art. 5, n. 1), del regolamento CE n. 44 del 2001, la persona domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata, o deve essere, eseguita e in caso di pluralità di convenuti gli stessi possono essere citati davanti al giudice del luogo in cui uno di essi è domiciliato ai sensi dell’art. 6, n. 1), del medesimo regolamento.

È stato, tuttavia, precisato da Sez. U, n. 11519/2017, Campanile, Rv. 644154-01 che una persona domiciliata in uno Stato membro non può essere evocata in giudizio in altro Stato membro, ove è domiciliato uno degli altri convenuti, qualora le domande abbiano oggetto e titolo diversi, siano tra loro compatibili, e non una subordinata all’altra, e non sussista il rischio di decisioni incompatibili, ma solo la possibilità di una divergenza nella loro soluzione o la potenziale idoneità dell’accoglimento di una di esse a riflettersi sull’entità dell’interesse sotteso all’altra. La pronuncia richiamando la Corte di giustizia, nella sentenza del 20 aprile 2016, in C-366/2013, fonda il principio sul rilievo che l’art. 6, n. 1, del regolamento comunitario n. 44/2001, oggi sostituito dall’art. 8, n. 1, di quello n. 1215/2012, va interpretato restrittivamente, integrando una regola speciale in deroga a quella generale di cui al suo precedente art. 2.

La stessa pronuncia, Sez. U, n. 11519/2017, Campanile, Rv. 644154-03, afferma, inoltre, che rientra nella materia contrattuale ed è, dunque, sottoposta alla norma di cui all’art. 5 ora citato, anche l’azione di ripetizione dell’indebito.

Con riferimento alla clausola di proroga della giurisdizione, la medesima sentenza ha fatto una significativa precisazione. In particolare, l’inserimento di una clausola attributiva di giurisdizione in un prospetto di emissione di titoli obbligazionari può ritenersi una forma ammessa da un uso vigente nel commercio internazionale, ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. c), del regolamento comunitario n. 44/2001 (oggi sostituito dall’art. 25 di quello n. 1215/2012), che permette di presumere il consenso di colui al quale è opposta. La condizione della sua ammissibilità, tuttavia, è che venga dimostrato e accertato dal giudice nazionale, da un lato, che ciò avvenga generalmente e regolarmente nel settore in esame al momento della conclusione di contratti di questo tipo e, dall’altro, che i contraenti intrattenevano, in precedenza, rapporti commerciali regolari tra di loro o con altre parti operanti nello stesso settore oppure, in alternativa, che ciò è sufficientemente noto per poter essere considerato come una prassi consolidata.

Per quanto riguarda il requisito di forma richiesto per il patto di proroga della giurisdizione in favore di uno degli Stati membri imposto dall’art. 23 del Regolamento CE n. 44/2001 del 22 dicembre 2000, è intervenuta Sez. U, n. 8895/2017, Campanile, Rv. 643563-01, chiarendo che esso è rispettato, ove la clausola stessa figuri tra le condizioni generali di contratto, se il documento contrattuale sottoscritto da entrambe le parti contenga un richiamo espresso alle condizioni generali suddette recanti quella clausola, senza la necessità di una specifica approvazione per iscritto.

In materia processuale, Sez. U, n. 10233/2017, Tirelli, Rv. 643786-01, ha chiarito che qualora l’attore proponga nei confronti di un convenuto non residente in Italia una domanda principale ed una subordinata, la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano va verificata con esclusivo riferimento alla domanda principale.

Rilevante è, altresì, l’arresto di Sez. 6-3, n. 7615/2017, Frasca, Rv. 643819-01, per l’individuazione dei criteri di riparto in ipotesi di litispendenza internazionale. In particolare, si è affermato che spetta al giudice italiano individuare le regole di prevenzione fissate dalla legge dello Stato estero per verificare il tempo in cui è stato instaurato il giudizio straniero rispetto a quello nazionale.

In materia fallimentare di rilievo è quanto precisato da Sez. 1, n. 7470/2017, Acierno, Rv. 644824-01, con riguardo alla competenza ad aprire la procedura di insolvenza. La pronuncia, resa nel caso in cui una società aveva trasferito la propria sede all’estero anteriormente all’apertura della procedura di insolvenza, ha fornito i criteri per il superamento della presunzione iuris tantum di corrispondenza tra la sede legale e la sede effettiva, prevista dall’art. 3, comma 1, del regolamento CE n. 1346 del 2000, secondo cui la competenza ad aprire la procedura di insolvenza spetta al giudice dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore, da individuare fino a prova contraria, in caso di società, in quello del luogo in cui si trova la sede statutaria. In particolare, la condizione per affermare legittimamente la giurisdizione italiana è l’accertamento da parte del giudice di merito della presenza di indici probatori, riscontrabili, principalmente, nella discontinuità dell’attività svolta successivamente al trasferimento, nell’effettivo trasferimento dell’attività imprenditoriale, nella circostanza che l’organo amministrativo sia cittadino italiano e senza significativi collegamenti con lo Stato straniero ovvero nella fittizietà del trasferimento del centro dell’attività direttiva, amministrativa ed organizzativa dell’impresa.

In tema, inoltre, si richiama, Sez. U, n. 10233/2017, Tirelli, Rv. 643786-02, secondo cui l’azione revocatoria ordinaria promossa da una curatela fallimentare nei confronti di un convenuto non residente in Italia appartiene alla giurisdizione del giudice italiano, trattandosi di azione direttamente derivante dalla procedura e ad essa strettamente connessa. La pronuncia effettua un distinguo tra l’azione ex art. 66 l. fall. e quella prevista dall’art. 2901 c.c., precisando che la prima consiste in disposizione derogatoria rispetto alle comuni regole del diritto civile e commerciale, con la conseguenza che diventa rilevante, ai fini dell’applicazione delle disposizioni sulla competenza internazionale previste dagli artt. 3 e 25 del reg. CE n. 1346 del 2000 ed esclusione dell’applicazione del reg. CE n. 44 del 2001.

Con riguardo, invece, alla materia tributaria, Sez. 5, n. 6925/2017, Fuochi Tinarelli, Rv. 643597-01, ha fornito indicazioni sui criteri di riparto relativamente all’assistenza tra Stati dell’Unione europea per la riscossione dei crediti, chiarendo che la controversia appartiene alla giurisdizione dello Stato richiedente, qualora le contestazioni riguardino il credito od il titolo esecutivo, mentre ricade nella giurisdizione dello Stato destinatario quando le censure investano gli atti esecutivi.

8. Acque: criteri di riparto tra g.a, g.o. e Tribunale superiore delle acque pubbliche.

Le Sez. U sono intervenute in più occasioni a delineare la linea di confine tra le giurisdizioni in tema di regolamento delle acque.

Con riguardo, all’individuazione dell’ambito della giurisdizione affidata al cd giudice delle acque, si richiama Sez. U, n. 18977/2017, Petitti, Rv. 645033-02, che ha indicato i principi generali di ripartizione della giurisdizione. In particolare, sono devoluti alla cognizione del tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, tutti i ricorsi avverso i provvedimenti che, per effetto della loro incidenza sulla realizzazione, sospensione o eliminazione di un’opera idraulica riguardante un’acqua pubblica, concorrono, in concreto, a disciplinare le modalità di utilizzazione di quell’acqua. Devono in esso essere ricompresi anche i ricorsi avverso i provvedimenti che, pur costituendo esercizio di un potere non strettamente attinente alla materia delle acque ed inerendo ad interessi più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, riguardino comunque l’utilizzazione di detto demanio, così incidendo in maniera diretta ed immediata sull’uso delle acque, interferendo con provvedimenti riguardanti tale uso, nonché autorizzando, impedendo o modificando i lavori relativi.

In relazione, poi, alla ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, Sez. U, n. 7154/2017, Travaglino, Rv. 643336 – 01, ha chiarito che la controversia concernente la voltura di una subconcessione di derivazione per impianto idroelettrico, precedentemente autorizzata e formalizzata attraverso specifica convenzione, spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo. Il relativo giudizio, infatti, riguarda atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche, in cui rileva esclusivamente l’interesse al rispetto delle norme di legge nelle procedure amministrative funzionali all’affidamento di concessioni o appalti di opere relative a tali acque.

Occorre segnalare, anche per l’importanza della tematica, Sez. U, n. 18976/2017, Petitti, Rv. 645032 – 01, secondo cui la controversia vertente sull’annullamento dei provvedimenti conclusivi del procedimento amministrativo per il rilascio dell’autorizzazione allo scarico di un deposito di carburanti, nella parte in cui detto scarico viene assoggettato a limiti più restrittivi rispetto a quelli previsti dal d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152 appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo. È stato, infatti, chiarito che, in tale ipotesi, vengono maggiormente in rilievo i limiti imposti, in sede di autorizzazione, allo scarico di acque che, derivando dal trattamento di depositi di carburante, assumono la qualità di rifiuti. Si tratta, dunque, di prescrizioni che afferiscono essenzialmente alla disciplina degli scarichi industriali, rispetto alla quale operano prescrizioni tecniche, l’accertamento della legittimità delle quali rientra nella giurisdizione generale di legittimità e non anche in quella, delineata dall’art. 143, comma 1, del r.d. n. 1775 del 1993, del tribunale superiore delle acque pubbliche.

Secondo Sez. U, n. 16832/2017, Bruschetta, Rv. 644916 – 01 le controversie relative alla debenza del canone per la depurazione fognaria proposte dopo il 3 dicembre 2005 spettano al giudice ordinario, avendo la Consulta, con sentenza n. 39 del 2010, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3-bis, lett. b), del d.l. n. 203 del 2005, conv., con modif., dalla l. n. 248 del 2005, – che aveva ampliato la giurisdizione tributaria, tra l’altro, anche con riguardo al “canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue” – costituendo i canoni di cui all’art. 14 della l. n. 36 del 1994 (abrogato dal d.lgs. n. 152 del 2006) non un’imposta, ma il corrispettivo di una prestazione commerciale complessa.

9. Pubblico impiego contrattualizzato: rinvio.

Con riguardo alla fase di costituzione del rapporto d’impiego pubblico contrattualizzato, in particolare ai concorsi, alle graduatorie ed alle assunzioni si rinvia al Capitolo XXXVIII su Il processo del lavoro e previdenziale.

PARTE NONA IL PROCESSO

  • spese processuali
  • procedura civile
  • competenza giurisdizionale
  • interesse ad agire
  • procedimento giudiziario

CAPITOLO XXXIV

IL PROCESSO IN GENERALE

(di Francesca Miglio )

Sommario

1 Il giudice. - 1.1 Verifica della competenza. - 1.2 Questioni di competenza e questioni di rito. - 2 Competenza per materia. - 2.1 Competenza della sezione specializzata in materia di impresa e competenza funzionale del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo. - 2.2 Riparto di competenza tra giudice ordinario e tribunale regionale delle acque. - 3 Competenza per territorio. - 3.1 Iura novit curia. - 3.2 Concorrenza sleale. - 3.3 Clausola di deroga. - 3.4 Pattuizione di foro esclusivo. - 3.5 Amministrazione di sostegno. - 4 Competenza per valore. - 5 Regolamento di competenza. - 5.1 Potere di controllo della Corte di cassazione. - 5.2 Ammissibilità. - 5.3 Regolamento necessario di competenza. - 5.4 Regolamento di competenza di ufficio. - 6 Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione. - 6.1 Domanda riconvenzionale. - 6.2 Litispendenza. - 6.3 Continenza. - 6.4 Connessione. - 7 Riassunzione della causa dinanzi al giudice competente. - 8 Astensione e ricusazione. - 9 Gli ausiliari del giudice. - 9.1 Il consulente tecnico d’ufficio. - 10 Le parti e i difensori. - 10.1 Le parti. Rappresentanza e capacità processuale. - 10.2 I difensori. - 11 Le spese processuali. - 11.1 Responsabilità aggravata. - 12 Interesse ad agire. - 13 Legittimazione ad agire. - 14 Pluralità di parti. - 14.1 Litisconsorzio necessario. - 14.2 Litisconsorzio facoltativo improprio. - 15 Intervento volontario. - 16 Successione di parti. - 17 Il principio della domanda e la rilevabilità d’ufficio delle cause di nullità. - 18 Il principio di non contestazione. - 19 La valutazione delle prove. - 20 Il contenuto della sentenza. - 21 La comunicazione della sentenza. - 22 Le notificazioni. - 22.1 Le notificazioni a mezzo posta. - 22.2 Le notificazioni ex art. 143 c.p.c. - 22.3 Le notificazioni alle persone giuridiche. - 22.4 Le notificazioni autorizzate dal giudice. - 22.5 Le notificazioni telematiche. - 23 I termini. - 24 Nullità degli atti.

1. Il giudice.

Numerose sono le sentenze della Suprema Corte che hanno affrontato questioni di rilievo relative agli istituti che disciplinano l’individuazione del giudice competente e ne garantiscono la imparzialità.

1.1. Verifica della competenza.

Secondo Sez. 6-3, n. 20508/2017, Olivieri, Rv. 645705-01, la verifica della competenza va attuata alla stregua delle allegazioni contenute nella domanda e non anche delle contestazioni mosse alla pretesa dalla parte convenuta, tenendo altresì conto che, qualora uno stesso fatto possa essere qualificato in relazione a diversi titoli giuridici, spetta alla scelta discrezionale della parte attrice la individuazione dell’azione da esperire in giudizio, essendo consentito al giudice di riqualificare la domanda stessa soltanto nel caso in cui questa presenti elementi di ambiguità non altrimenti risolvibili.

1.2. Questioni di competenza e questioni di rito.

Sez. 2, n. 9198/2017, Scarpa, Rv. 643739-01, ha affermato che le questioni concernenti l’autorità giudiziaria dinanzi alla quale va introdotta una pretesa creditoria nei confronti di un debitore dichiarato fallito costituiscono questioni attinenti al rito, che non implicano questioni di competenza, quando il tribunale fallimentare coincida con il tribunale ordinario; pertanto, qualora una domanda sia diretta a far valere, nelle forme ordinarie, una pretesa creditoria soggetta al regime del concorso, il giudice adìto è tenuto a dichiarare non la propria incompetenza bensì, secondo i casi, l’inammissibilità, l’improcedibilità o l’improponibilità della domanda, siccome proposta secondo un rito diverso da quello previsto come necessario dalla legge e, quindi, inidonea a conseguire una pronuncia di merito, configurando detta questione una vicenda litis ingressum impediens, concettualmente distinta dalla incompetenza.

2. Competenza per materia.

2.1. Competenza della sezione specializzata in materia di impresa e competenza funzionale del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo.

In materia di competenza, può verificarsi, come nella fattispecie esaminata da Sez. 6-1 n. 19738/2017, Di Marzio M., Rv. 645691-01, che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo sia proposta domanda riconvenzionale rientrante nella competenza della sezione specializzata delle imprese di altro tribunale. In tal caso la S.C. ha ribadito che la competenza funzionale del giudice che ha emesso il decreto è inderogabile e immodificabile, anche per ragioni di connessione e che il giudice dell’opposizione è tenuto a separare le due cause, rimettendo quella relativa a quest’ultima domanda dinanzi al tribunale competente. Nello stesso ambito, Sez. 6-1, n. 5656/2017, Genovese, Rv. 643990-01, ha affermato che la competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa, ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. del 27 giugno 2003, n. 168, come modificato dall’art. 2 del d.l. del 24 gennaio 2012, n. 1 (conv. con modif. dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), va esclusa, in favore di quella della sezione ordinaria, nel caso di richiesta risarcitoria per sviamento della clientela riconducibile alla concorrenza sleale cd. pura ove non possa ravvisarsi un’interferenza neppure indiretta con l’esercizio di diritti di proprietà industriale o del diritto d’autore.

Ha espresso analogo orientamento Sez. 6-1, n. 11309/2017, Genovese, Rv. 644610-01, secondo la quale appartiene al tribunale ordinario, e non alle sezioni specializzate in materia di impresa, ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 168 del 2003, la competenza a decidere sulla domanda di accertamento di un’ipotesi di concorrenza sleale in cui la prospettata lesione degli interessi della società danneggiata riguardi l’appropriazione, mediante storno di dirigenti, di informazioni aziendali, di processi produttivi e di esperienze tecnico-industriali e commerciali (cd. “know how” aziendale, in senso ampio), ma non sia ipotizzata la sussistenza di privative o altri diritti di proprietà intellettuale, direttamente o indirettamente risultanti quali elementi costitutivi dell’illecito concorrenziale.

2.2. Riparto di competenza tra giudice ordinario e tribunale regionale delle acque.

Secondo Sez. 3, n. 9279/2017, Tatangelo, Rv. 643849-01, ai fini del riparto di competenza fra giudice ordinario e tribunale regionale delle acque pubbliche, in caso di contestazioni che attengono ai limiti dell’alveo e/o alle sponde di corsi d’acqua pubblici, il criterio di discrimine sta nella necessità, o meno, di indagini tecniche per stabilire se l’area di terreno della cui natura pubblica si discute rientri nel demanio idrico fluviale o lacuale, senza che rilevi che la questione abbia carattere pregiudiziale, o meramente incidentale, o sia stata proposta in via di eccezione, in quanto solo ove non sia necessaria una siffatta indagine sussiste la competenza del giudice ordinario.

3. Competenza per territorio.

3.1. Iura novit curia.

Sez. 6-3, n. 21184/2017, Frasca, Rv. 645485-01, ha affermato che in tema di competenza per territorio, rientra nei poteri del giudice, sottesi al principio iura novit curia, l’individuazione della norma che sorregge l’eccezione di incompetenza riservata alla parte, restando pertanto irrilevante che quest’ultima, nel sollevare l’eccezione e nell’indicare il foro reputato competente, non abbia anche invocato espressamente la norma a sostegno di tale indicazione o ne abbia indicata una erronea; pertanto, nell’ipotesi di chiamata in garanzia di una P.A., il radicamento della competenza presso il foro erariale prescinde dal richiamo che la stessa abbia fatto, nel sollevare l’eccezione d’incompetenza del giudice adito, al comma 1 dell’art. 6 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, anziché al comma 2, che disciplina le modalità di devoluzione della competenza in caso di chiamata in causa.

3.2. Concorrenza sleale.

Ha affermato Sez. 6-1, n. 5254/2017, Lamorgese, Rv. 643812-01, che in materia di concorrenza sleale attuata mediante commercializzazione di modelli contraffatti su di un sito “web”, la competenza per territorio spetta, ai sensi dell’art. 120, comma 6, del d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, che è norma speciale rispetto all’art. 18 c.p.c., al giudice nella cui circoscrizione i fatti sono stati commessi, da individuarsi nel luogo di stabilimento dell’inserzionista (ove sia stato avviato il processo tecnico finalizzato alla visualizzazione dell’annuncio) ovvero, in alternativa, in quello in cui ha sede la società che gestisce il sito.

3.3. Clausola di deroga.

Sez. 6-3, n. 14540/2017, Olivieri, Rv. 644631-02, ha ritenuto che nel giudizio con pluralità di parti in litisconsorzio passivo, la clausola di deroga della competenza territoriale con indicazione di diversa competenza territoriale esclusiva cui abbiano aderito tutti i condebitori, può essere efficacemente eccepita nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo proposto da uno soltanto dei debitori ingiunti ed è vincolante anche per gli altri condebitori, senza che possa intervenire alcuna modificazione della competenza per ragioni di connessione oggettiva ex art. 33 c.p.c., la quale presuppone, viceversa, l’estraneità di uno dei condebitori all’accordo derogatorio.

3.4. Pattuizione di foro esclusivo.

Sez. 6-1, n. 8548/2017, Di Marzio M., Rv. 644608-01, ha precisato che in tema di foro convenzionale, la clausola riferita a “qualsiasi controversia” deve essere interpretata quale deroga alla competenza ordinaria sia per le pretese fondate sul contratto sia per quelle, aventi ad oggetto la responsabilità aquiliana, in cui il contratto sia solo un fatto costitutivo dell’azione, congiunto ad altri, e, laddove attribuisca al giudice designato competenza esclusiva, non esige, ai fini dell’ammissibilità dell’eccezione, la contestazione di tutti i fori legali alternativamente concorrenti, essendo diretta proprio ad escludere il loro concorso.

3.5. Amministrazione di sostegno.

Secondo Sez. 6-1, n. 23772/2017, Bisogni, Rv. 645757-01, in tema di amministrazione di sostegno, la competenza territoriale si radica con riferimento alla dimora abituale del beneficiario e non alla sua residenza, in considerazione della necessità che egli interloquisca con il giudice tutelare, il quale deve tener conto, nella maniera più efficace e diretta, dei suoi bisogni e richieste, anche successivamente alla nomina dell’amministratore; né opera, in tal caso, il principio della perpetuatio iurisdictionis, trattandosi di giurisdizione volontaria non contenziosa, onde rileva la competenza del giudice nel momento in cui debbono essere adottati determinati provvedimenti sulla base di una serie di sopravvenienze.

4. Competenza per valore.

Il cumulo delle domande, stabilito agli effetti della competenza per valore dall’art. 10, comma 2, c.p.c., riguarda solo le domande proposte tra le stesse parti e non si riferisce all’ipotesi di domande proposte nei confronti dello stesso soggetto da diversi soggetti processuali, in ipotesi di litisconsorzio facoltativo disciplinato dall’art. 103 c.p.c., nel qual caso, non richiamando tale ultima norma l’art. 10, comma 2 c.p.c., la competenza si determina in base al valore di ogni singola domanda (Sez. 6-3, n. 3107/2017, Pellecchia, Rv. 642750-01).

5. Regolamento di competenza.

5.1. Potere di controllo della Corte di cassazione.

In sede di regolamento di competenza, l’ambito della contestazione e, quindi, il potere di controllo spettante alla S.C. sono limitati alla individuazione del giudice competente sulla base del rapporto processuale instaurato con le domande ed eccezioni proposte dalle parti, con esclusione di ogni altra questione attinente al merito della controversia ed estranea, pertanto al tema della competenza. Enunciando tale principio, Sez. 6-2, n. 12890/2017, Abete, Rv. 644612-01, ha escluso la possibilità di far valere, in sede di regolamento di competenza, la risoluzione del contratto contenente la clausola compromissoria originante la dichiarazione di incompetenza del giudice a quo, questione fondante l’assunta caducazione della clausola medesima.

5.2. Ammissibilità.

Sez. 6-3, n. 12394/2017, De Stefano, Rv. 644290-01, ha enunciato il principio secondo il quale in tema di procedimento per convalida di licenza o sfratto, è ammissibile il regolamento di competenza avverso il provvedimento con cui il tribunale ordinario, definita la fase sommaria senza concedere l’ordinanza provvisoria di rilascio, anziché disporre il mutamento del rito ai sensi dell’art. 667 c.p.c., accolga l’eccezione di incompetenza funzionale sollevata dall’intimato e rimetta impropriamente le parti ad altro giudice speciale o specializzato (nella specie, alla sezione specializzata agraria), trattandosi di pronuncia sulla competenza in senso tecnico e non meramente ordinatoria o provvisoria.

Secondo Sez. 6-1, n. 3665/2017, Scaldaferri, Rv. 643653-01, il provvedimento del giudice che, nel disattendere l’eccezione di incompetenza territoriale, affermi la propria competenza e disponga la prosecuzione del giudizio dinanzi a sé, previo invito alle parti ad esperire la procedura di mediazione obbligatoria ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, è insuscettibile di impugnazione con il regolamento ex art. 42 c.p.c., ove non preceduto dalla rimessione della causa in decisione e dal previo invito alle parti a precisare le rispettive integrali conclusioni anche di merito, non ricorrendo, in mancanza di rimessione in decisione della causa, un provvedimento a carattere decisorio sulla competenza.

5.3. Regolamento necessario di competenza.

Ha ritenuto Sez. 6-3, n. 6826/2017, Barreca, Rv. 643678-01, che qualora il giudice abbia dichiarato la litispendenza tra due giudizi, in relazione alle domande svolte, nel secondo, dalla parte chiamata in causa, in quanto già anteriormente proposte davanti a diverso giudice, e, contestualmente, preso in esame la domanda formulata dalla parte attrice, accogliendola nel merito, al pari di quella di garanzia formulata dal convenuto nei confronti della chiamata, la sentenza, benché unica sotto il profilo formale, contiene diverse decisioni, ciascuna relativa alle varie domande proposte. Ne consegue che il capo relativo alla pronuncia sulla litispendenza – essendo autonomo dagli altri e di tipo esclusivamente processuale – può, giusta l’art. 42 c.p.c., essere impugnato soltanto con l’istanza di regolamento di competenza.

Sez. 6-2, n. 17025/2017, Giusti, Rv. 645064-01, ha affermato che le pronunce sulla sola competenza, anche se emesse in grado di appello e pur quando abbiano riformato per incompetenza la decisione di primo grado riguardante anche il merito, sono impugnabili soltanto con il regolamento necessario di competenza, giusta l’art. 42 c.p.c., il quale non distingue tra sentenza di primo e secondo grado e configura, quindi, il regolamento suddetto come mezzo d’impugnazione tipico per ottenere la statuizione definitiva sulla competenza. Ne consegue che, in tale ipotesi, è inammissibile l’impugnazione proposta nelle forme del ricorso ordinario per cassazione, salva la possibilità di conversione in istanza di regolamento di competenza qualora risulti osservato il termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza impugnata sancito dall’art. 47, comma 2, c.p.c.

Secondo Sez. 6-3, n. 15374/2017, Frasca, Rv. 644740-01, poi, la sentenza che abbia pronunciato solo sulla competenza e che rechi anche una statuizione di condanna ex art. 96 c.p.c., deve essere impugnata con il regolamento di competenza, quale mezzo necessario per discutere anche su detta statuizione, che, invece, è suscettibile di autonoma impugnazione, proposta nei modi ordinari, quando la parte soccombente sulla competenza ed a carico della quale sia stata pronunciata condanna ai sensi della detta norma intenda censurare soltanto quest’ultimo capo.

5.4. Regolamento di competenza di ufficio.

Sez. 6-1, n. 6330/2017, Di Marzio M., Rv. 644381-01, ha ritenuto la inammissibilità del regolamento di competenza d’ufficio, proposto dalla corte d’appello in sede di impugnazione, in quanto l’istituto ha la funzione di dirimere un conflitto negativo di competenza insorto tra due giudici di primo grado e non può essere utilizzato quando, a seguito di dichiarazione di incompetenza del giudice di primo grado, il secondo giudice, dichiarato competente, si sia ritenuto effettivamente tale.

6. Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione.

6.1. Domanda riconvenzionale.

Sez. 2, n. 6846/2017, Grasso Giuseppe, Rv. 643373-01, ha affermato che in caso di più convenuti, la domanda formulata da uno di questi nei confronti di un altro ed avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità esclusiva del secondo rispetto alla domanda risarcitoria formulata dall’attore, va qualificata come domanda riconvenzionale e può essere proposta negli stessi limiti di quest’ultima.

6.2. Litispendenza.

Sez. 6-1, n. 19056/2017, Marulli, Rv. 645684-01 ha ribadito il principio secondo il quale, a norma dell’art. 39, comma 1, c.p.c., qualora una stessa causa venga proposta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito è tenuto a dichiarare la litispendenza, anche se la controversia iniziata in precedenza sia stata già decisa in primo grado e penda ormai davanti al giudice dell’impugnazione, senza che sia possibile la sospensione del processo instaurato per secondo, ai sensi dell’art. 295 c.p.c. o dell’art. 337, comma 2, c.p.c., a ciò ostando l’identità delle domande formulate nei due diversi giudizi.

In relazione alle controversie di lavoro ed, in particolare, nel giudizio ex art. 1, commi 48 e segg., della legge 28 giugno 2012, n. 92, Sez. 6-L, n. 18263/2017, Ghinoy, Rv. 645141-01, ha affermato che il vincolo di strumentalità tra la fase sommaria e quella a cognizione piena onera la parte resistente ad eccepire l’incompetenza sin dalla prima fase e determina la litispendenza anche durante il termine per l’opposizione di cui al successivo comma 51, sicché l’obbligo del giudice successivamente adito di dichiararla si protrae per il tempo durante il quale l’opposizione di fronte al giudice della fase sommaria può essere ancora proposta.

In materia di giudizio di cassazione, Sez. 2, n. 27920/2017, Dongiacomo, Rv. 646317-01, ha affermato che l’eccezione di litispendenza può essere proposta, a condizione che nei precedenti gradi del processo sia stato almeno allegato il fatto della pendenza della stessa causa davanti a diverso giudice e che l’interessato dimostri la persistenza, fino all’udienza di discussione, delle condizioni per l’applicabilità dell’art. 39 c.p.c.

6.3. Continenza.

Nella materia in esame, Sez. 6-3, n. 19460/2017, Scrima, Rv. 645355-01, ha ritenuto che ai sensi dell’art. 39, comma 2, c.p.c., la continenza di cause ricorre non solo quando due cause siano caratterizzate da identità di soggetti (identità non esclusa, peraltro, dalla circostanza che in uno dei due giudizi sia presente anche un soggetto diverso) e di titolo e da una differenza quantitativa dell’oggetto, ma anche quando fra le cause sussista un rapporto di interdipendenza, come nel caso in cui siano prospettate, con riferimento ad un unico rapporto negoziale, domande contrapposte o in relazione di alternatività e caratterizzate da una coincidenza soltanto parziale delle causae petendi, nonché quando le questioni dedotte con la domanda anteriormente proposta costituiscano il necessario presupposto (alla stregua della sussistenza di un nesso di pregiudizialità logico-giuridica) per la definizione del giudizio successivo, come nell’ipotesi in cui le contrapposte domande concernano il riconoscimento e la tutela di diritti derivanti dallo stesso rapporto e il loro esito dipenda dalla soluzione di una o più questioni comuni.

6.4. Connessione.

Sez. 6-3, n. 14224/2017, Tatangelo, Rv. 644626-01, ha affermato che la questione di incompetenza per connessione, ai sensi dell’art. 40 c.p.c., deve essere eccepita o rilevata d’ufficio dal giudice entro la prima udienza e non può intendersi implicitamente contenuta nell’eccezione di litispendenza e/o di continenza, ovvero in quella di sospensione per pregiudizialità, e neppure nella generica richiesta di riunione di due procedimenti, sicché il suo rilievo nel corso del giudizio presuppone che la stessa sia stata tempestivamente posta, dalle parti o dallo stesso giudice, con espresso richiamo alla specifica fattispecie ritenuta sussistente, i cui presupposti non possono essere rinvenuti nei fatti dedotti a fondamento della domanda di merito o di una diversa eccezione processuale eventualmente proposta.

In tema di controversie tra socio e cooperativa, Sez. 6-L, n. 12460/2017, Arienzo, Rv. 644584-01, ha ribadito il principio secondo cui l’art. 5, comma 2, della legge 3 aprile 2001, n. 142, come sostituito dall’art. 9 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, contempla la competenza del tribunale in composizione ordinaria limitatamente alle “controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica”, senza che detto assetto normativo sia stato mutato dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, posto che il principio della forza di attrazione del rito del lavoro, di cui all’art. 40, comma 3, c.p.c., costituisce regola cui deve riconoscersi carattere generale e preminente, per gli interessi di rilevanza costituzionale che la norma processuale è preordinata a garantire.

7. Riassunzione della causa dinanzi al giudice competente.

Il principio della translatio iudicii, che assicura la salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda giudiziale, è stato applicato da Sez. 5, n. 4247/2017, Di Iasi, Rv. 643212-01, anche nei rapporti tra diverse giurisdizioni e pure con riferimento alle pronunce declinatorie dei giudici di merito anteriori all’entrata in vigore dell’art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in quanto, da un lato, le differenze di organizzazione tra giudice ordinario e speciale non possono danneggiare l’efficienza ed efficacia del servizio giustizia e, dall’altro, le parti dispongono, per la soluzione dell’eventuale conflitto negativo di giurisdizione tra i giudici di merito, del ricorso per cassazione ex art. 362, comma 2, c.p.c.

8. Astensione e ricusazione.

Sez. 6-3, n. 21094/2017, Dell’Utri, Rv. 645706-01, ha ribadito il principio secondo cui, in difetto di ricusazione, la violazione dell’obbligo di astenersi da parte del giudice non è deducibile in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza da lui emessa, giacché l’art. 111 Cost., nel fissare i principi fondamentali del giusto processo (tra i quali, appunto, l’imparzialità e terzietà del giudice), ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina e, in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato sull’impulso paritario delle parti, non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire, nell’ipotesi anzidetta, l’imparzialità e terzietà del giudice tramite gli istituti dell’astensione e della ricusazione. Né detti istituti, cui si aggiunge quello dell’impugnazione della decisione nel caso di mancato accoglimento della ricusazione, possono reputarsi strumenti di tutela inadeguati o incongrui a garantire in modo efficace il diritto della parti alla imparzialità del giudice, dovendosi escludere un contrasto con la norma recata dall’art. 6 della Convenzione EDU, che, sotto l’ulteriore profilo dei contenuti di cui si permea il valore dell’imparzialità del giudice, nulla aggiunge rispetto a quanto già previsto dal citato art. 111 Cost.

9. Gli ausiliari del giudice.

9.1. Il consulente tecnico d’ufficio.

Sez. 2, n. 26893/2017, Falaschi, Rv. 645960-01 ha affermato il principio secondo cui il potere del consulente tecnico d’ufficio di attingere aliunde notizie e dati non rilevabili dagli atti processuali e concernenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamento è funzionale al corretto espletamento dell’incarico affidato e non comporta alcun potere di supplenza rispetto al mancato espletamento del rispettivo onere probatorio a carico delle parti; entro questi limiti dette indagini possono concorrere alla formazione del convincimento del giudice quando ne siano indicate le fonti, in modo che le parti stesse siano messe in grado di effettuarne il controllo a tutela del principio del contraddittorio.

10. Le parti e i difensori.

10.1. Le parti. Rappresentanza e capacità processuale.

Sez. 3, n. 15156/2017, Frasca, Rv. 644950-01, ha affermato che l’art. 182, comma 2, c.p.c. (nel testo applicabile “ratione temporis” anteriore alle modifiche introdotte dalla l. n. 69 del 2009) secondo cui il giudice che rilievi un difetto di rappresentanza, assistenza e autorizzazione“può” assegnare un termine per la regolarizzazione della costituzione in giudizio, deve essere interpretato, anche alla luce dell’art. 46 , comma 2, della l. n. 69 del 2009 nel senso che il giudice “deve” promuovere la sanatoria in qualsiasi fase e grado del giudizio e indipendentemente dalle cause del predetto difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti ex tunc, senza i limiti delle preclusioni derivanti da decadenze processuali.

10.2. I difensori.

Numerose sentenze vertono sul mandato alle liti. Tra queste, Sez. 6-3, n. 10071/2017, Scoditti, Rv. 643992-01, ha ritenuto che la procura speciale necessaria per la proposizione del ricorso per cassazione è inesistente ove conferita al difensore da una società estinta per pregressa cancellazione dal registro delle imprese, in quanto essa presuppone un rapporto di mandato tra l’avvocato ed il cliente che non può sussistere in mancanza del mandante, derivandone, pertanto, che l’attività processuale svolta resta nell’esclusiva responsabilità del legale, nei confronti del quale è conseguentemente ammissibile la condanna a pagare le spese del giudizio.

Nello stesso ambito, Sez. 2, n. 23563/2017, Dongiacomo, Rv. 645583-01, ha precisato che la cancellazione di una società di persone (nella specie, una s.n.c.) dal registro delle imprese, costituita in giudizio a mezzo di procuratore che tale evento non abbia dichiarato in udienza o notificato alle altre parti nei modi e nei tempi di cui all’art. 300 c.p.c., comporta, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che detto procuratore continua a rappresentare la parte come se l’evento interruttivo non si fosse verificato, con conseguente ammissibilità della notificazione dell’impugnazione presso di lui, ex art. 330, comma 1, c.p.c., senza che rilevi la conoscenza aliunde dell’avvenuta cancellazione da parte del notificante; viceversa, la medesima regola dell’ultrattività del mandato alla lite non consente al procuratore della società cancellata, pur quando la procura originariamente conferita sia valida anche per gli ulteriori gradi del processo, di proporre ricorso per cassazione giacché, da un lato, esso richiede la procura speciale e, dall’altro, l’operatività del predetto principio presuppone che si agisca in nome di un soggetto esistente e capace di stare in giudizio.

In tema di rito camerale di legittimità ex art. 380-bis, comma 1, c.p.c., come introdotto dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv. con modif., dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197, Sez. 6-2, n. 14330/2017, Criscuolo, Rv. 644941-01, ha ritenuto che la procura rilasciata in calce o a margine della copia notificata del ricorso principale, anziché del controricorso, pur non essendo idonea per la valida proposizione di quest’ultimo, legittima il deposito delle memorie in vista dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis, comma 2, c.p.c., rappresentando questa, per il controricorrente, una volta venuta meno la possibilità di essere sentito all’udienza, l’unica facoltà residua di estrinsecazione del suo diritto di difesa.

11. Le spese processuali.

Numerose sono state le pronunce della S.C. in materia di spese processuali.

Tra queste, Sez. 6-T, n. 22310/2017, Mocci, Rv. 645998-01, ha affermato che l’art. 92 c.p.c., nella formulazione vigente ratione temporis, va interpretato nel senso che le “gravi ed eccezionali ragioni”, da indicarsi esplicitamente nella motivazione, che ne legittimano la compensazione totale o parziale, devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa e non possono essere espresse con una formula generica (nella specie, la natura della controversia e le alterne vicende dell’iter processuale) inidonea a consentire il necessario controllo.

Sez. 3, n. 15642/2017, Frasca, Rv. 644952-02, pronunciata in materia di querela di falso in via incidentale, ha ritenuto che ai fini della liquidazione delle spese giudiziali, il valore della causa di falso deve ritenersi indeterminabile, giacché connaturato sia allo scopo del giudizio (che è quello di eliminare la verità del documento, anche al di là dell’utilizzo nella controversia in cui la querela è incidentalmente insorta) sia alle possibili implicazioni, al di fuori del processo, dell’accertamento della falsità.

Sez. 6-1, n. 27530/2017, Valitutti, Rv. 646776-02, ha affermato che, nel caso di azione o di impugnazione promossa dal difensore senza effettivo conferimento della procura da parte del soggetto nel cui nome egli dichiari di agire nel giudizio o nella fase di giudizio di che trattasi (come nel caso di inesistenza della procura ad litem o falsa o rilasciata da soggetto diverso da quello dichiaratamente rappresentato o per processi o fasi di processo diverse da quello per il quale l’atto è speso), l’attività del difensore non riverbera alcun effetto sulla parte e resta attività processuale di cui il legale assume esclusivamente la responsabilità e, conseguentemente, è ammissibile la sua condanna a pagare le spese del giudizio.

Sez. 6-3, n. 27369/2017, Sestini, Rv. 647139-01, ha affermato il principio secondo cui in tema di giudizio di cassazione, non può essere pronunciata la condanna del ricorrente soccombente al pagamento delle spese di lite in favore della controparte, qualora quest’ultima non abbia fornito prova dell’avvenuta notifica per via telematica del controricorso, per carenza della sottoscrizione autografa dell’attestazione di conformità sulla stampa cartacea della relata e dei documenti inviati).

Sez. U, n. 16990/2017, Cirillo E., Rv. 644917-01, ha ritenuto che le spese di assistenza legale stragiudiziale, diversamente da quelle giudiziali vere e proprie, hanno natura di danno emergente e la loro liquidazione, pur dovendo avvenire nel rispetto delle tariffe forensi, è soggetta agli oneri di domanda, allegazione e prova secondo le ordinarie scansioni processuali.

11.1. Responsabilità aggravata.

Tra le pronunce in tale materia, si segnala Sez. 6-3, n. 9532/2017, Vincenti, Rv. 643825-01, secondo la quale il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, ex art. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicché non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c.

Sez. 1, n. 3311/2017, Lamorgese, Rv. 643721-01, ha applicato l’art. 96, comma 3, c.p.c. (come modificato dall’art. 45, comma 12, della l. n. 69 del 2009) per sanzionare una condotta di abuso dello strumento processuale da parte di un soggetto il quale, percorrendo tutti i gradi di giudizio, aveva chiesto il risarcimento di un danno patrimoniale ipotetico, futile e, comunque, di lieve entità, consistente nell’avere ricevuto dieci e-mail indesiderate di contenuto pubblicitario nell’arco di tre anni, ed ha affermato il principio secondo il quale la norma in esame prevede una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato dalla condotta processuale dell’avversario.

Sez. 6-3, n. 12029/2017, Tatangelo, Rv. 644286-01, ha precisato che l’art. 96 c.p.c. si pone in rapporto di specialità rispetto all’art. 2043 c.c., sicché la responsabilità processuale aggravata, pur rientrando nella generale responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina del citato art. 96 c.p.c., senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo, tra le due fattispecie, risultando conseguentemente inammissibile la proposizione di un autonomo giudizio di risarcimento per i danni asseritamente derivati da una condotta di carattere processuale, i quali devono essere chiesti esclusivamente nel relativo giudizio di merito.

12. Interesse ad agire.

Interessante applicazione del principio dettato dall’art. 100 c.p.c. si rinviene nella pronuncia delle Sezioni Unite, n. 4090/2017, Di Iasi, Rv. 643111-01, in materia di frazionabilità della domanda, secondo la quale se l’interesse ad agire esprime il rapporto di utilità tra la lesione lamentata e la specifica tutela richiesta, è da ritenersi, nell’ottica di un esercizio responsabile del diritto di azione, che tale rapporto abbia ad oggetto anche le caratteristiche della suddetta tutela (ivi comprese la relativa “estensione” e le connesse modalità di intervento rispetto ad una più ampia vicenda sostanziale), con la conseguenza che l’interesse di cui all’art. 100 c.p.c. investe non solo la domanda ma anche, ove rilevante, la scelta delle relative”modalità” di proposizione. Quel che rileva è che il creditore abbia un interesse oggettivamente valutabile alla proposizione separata di azioni relative a crediti riferibili al medesimo rapporto di durata ed inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un ipotizzabile giudicato, ovvero fondati sul medesimo fatto costitutivo.

Sez. 3, n. 929/2017, Olivieri, Rv. 642700-01, ha, poi, affermato che la proposizione di separate azioni risarcitorie per danni diversi nascenti dallo stesso fatto illecito, avvenuta anteriormente all’arresto delle Sezioni Unite che ha affermato il principio della infrazionabilità della domanda giudiziale per i crediti derivanti da un unico rapporto, si sottrae all’applicazione del “prospective overruling”, secondo cui restano salvi gli effetti degli atti processuali compiuti dalla parte che abbia fatto incolpevole affidamento sulla stabilità di una previgente interpretazione giurisprudenziale, atteso che quella decisione non ha comportato il mutamento dell’interpretazione di una regola del processo che preveda una preclusione o una decadenza, ma ha sancito l’improponibilità delle domande successive alla prima in ragione del difetto di una situazione giuridica sostanziale tutelabile, per contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che non consente di accordare protezione ad una pretesa caratterizzata dall’uso strumentale del diritto di azione.

Con riferimento al tema del risarcimento dei danni derivanti da fatto illecito costituente reato, la medesima pronuncia ha-inoltre- precisato che il danneggiato il quale abbia chiesto il risarcimento dei danni alla persona con l’atto di costituzione di parte civile nel giudizio penale ed abbia contestualmente introdotto un autonomo giudizio civile per il risarcimento dei danni alle cose, non viola il principio di infrazionabilità della domanda qualora, a seguito della definizione del giudizio penale con sentenza di patteggiamento, introduca una nuova domanda innanzi al giudice civile per i medesimi danni già richiesti in sede penale, stante il carattere necessitato della riproposizione dell’azione risarcitoria, giacché imposto dalla disposizione dell’art. 444, comma 2, c.p.p.

Sez. 3, n. 22835/2017, Sestini, Rv. 645777-01, ha ritenuto che il creditore che abbia ottenuto la concessione di un sequestro conservativo su un bene immobile conserva l’interesse ad agire con azione revocatoria ex art. 2901 c.c., qualora il medesimo bene venga in seguito alienato dal debitore ad un terzo, atteso che tale azione consente di ottenere una tutela non equivalente e tendenzialmente più ampia rispetto a quella assicurata dal sequestro, in quanto ha ad oggetto l’intero immobile, senza soffrire dei limiti derivanti dall’importo fino a concorrenza del quale sia stata autorizzata la misura cautelare, esclude il concorso con gli altri creditori (che si realizza, invece, per effetto della conversione del sequestro in pignoramento), e non è condizionata dagli esiti del giudizio di merito sulla sussistenza del diritto cautelato.

In materia tributaria, Sez. 6-T, n. 22184/2017, Solaini, Rv. 645996-01, ha ritenuto che l’estratto di ruolo, che è atto interno all’Amministrazione, non può essere oggetto di autonoma impugnazione, ma deve essere impugnato unitamente all’atto impositivo, notificato di regola con la cartella, in difetto non sussistendo interesse concreto e attuale ex art. 100 c.p.c., ad instaurare una lite tributaria, che non ammette azioni di accertamento negativo del tributo.

Quanto alle azioni di mero accertamento, è stato affermato da Sez. L, n. 18511, Calafiore, Rv. 645110-01, che l’interesse ad agire è dato dalla contestazione di un diritto, non già di fatti, pur giuridicamente rilevanti, ma costituenti elementi frazionati della fattispecie costitutiva del diritto di cui l’attore sia o possa in futuro divenire titolare o per i quali possa avere necessità di contraddire, sicché non sussiste l’interesse ad agire del datore di lavoro per l’accertamento dell’esatto adempimento dell’obbligo contributivo, al fine di prevenire future azioni del dipendente finalizzate ad ottenere la regolarizzazione contributiva.

Sez. 1, n. 18641/2017, Marulli, Rv. 645076-01, ha ribadito che, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza.

13. Legittimazione ad agire.

Sez. 1, n. 279/2017, Falabella, Rv. 643246-02, ha affermato che il beneficium excussionis concesso ai soci illimitatamente responsabili di una società di persone, in base al quale il creditore sociale non può pretendere il pagamento da uno di essi se non dopo l’escussione del patrimonio sociale, opera esclusivamente in sede esecutiva, nel senso che il creditore sociale non può procedere coattivamente a carico del socio se non dopo aver agito infruttuosamente sui beni della società, ma non impedisce al predetto creditore di agire direttamente nei suoi confronti in sede di cognizione ordinaria. Infatti, la responsabilità del socio si configura come personale e diretta, anche se con carattere di sussidiarietà in relazione al preventivo obbligo di escussione del patrimonio sociale, sicché egli non può essere considerato terzo rispetto all’obbligazione sociale, ma debitore al pari della società per il solo fatto di essere socio. Tuttavia, ove il socio illimitatamente responsabile venga convenuto in giudizio per il pagamento dei debiti della società non nella sua qualità, ma in proprio, egli è carente di legittimazione, non potendo in tal caso far valere in sede esecutiva il beneficio della previa escussione del patrimonio sociale.

Sez. 1, n. 7776/2017, Nappi, Rv. 644832-01, ha ritenuto che la legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto, secondo la prospettazione della parte, mentre l’effettiva titolarità del rapporto controverso, attenendo al merito, rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio dei soggetti in lite. Ne consegue che il difetto di legitimatio ad causam, riguardando la regolarità del contraddittorio, costituisce un error in procedendo ed è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo.

14. Pluralità di parti.

14.1. Litisconsorzio necessario.

Passando in rassegna alcune fattispecie di litisconsorzio necessario, si osserva che, Sez. 3, n. 13145/2017, Barreca, Rv. 644404-01, ha ritenuto che la fattispecie della simulazione, sia essa assoluta o relativa, integra un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra le parti del contratto solo nel caso in cui il relativo accertamento risulti richiesto in via principale, con la conseguenza che il contraddittorio nel giudizio tra tutti i partecipanti, o i loro eredi, all’atto impugnato per simulazione è necessario quando la nullità che ne deriva all’atto venga posta a fondamento dell’azione, e non quando il suo accertamento formi oggetto di una mera eccezione o debba effettuarsi in via incidentale, senza efficacia di giudicato.

Sez. 5 n. 5161/2017 Locatelli, Rv. 643226-01, si è pronunciata sull’ordine di integrazione del contraddittorio, emesso in difetto dei presupposti per la sua emanazione, affermandone la improduttività di effetti, conseguendone che la mancata ottemperanza al medesimo, in quanto irrilevante, non può determinare l’inammissibilità dell’impugnazione.

Sez. 6-3, n. 21096/2017, Dell’Utri, Rv. 645482-01, ha ritenuto che nel giudizio di rinvio dalla Corte di cassazione, non può essere eccepita o rilevata di ufficio la non integrità del contraddittorio a causa di un’esigenza originaria di litisconsorzio (art. 102 c.p.c.) quando tale questione non sia stata dedotta con il ricorso per cassazione e rilevata dal giudice di legittimità, dovendosi presumere che il contraddittorio sia stato ritenuto integro in quella sede, con la conseguenza che nel giudizio di rinvio e nel successivo giudizio di legittimità possono e devono partecipare, in veste di litisconsorti necessari, soltanto coloro che furono parti nel primo giudizio davanti alla Corte di cassazione.

Sez. 6-1, n. 19057/2017, Marulli, Rv. 645685-01, ha affermato che la controversia diretta al riconoscimento della qualità di socio di una società di persone, coinvolge la distribuzione delle quote sociali e la composizione stessa del gruppo sociale e, pertanto, nel relativo processo, sono litisconsorti necessari sia la società sia i soci.

Sez. 6-2, n. 6649/2017, Scarpa, Rv. 643380-01, ha ritenuto che in tema di condominio negli edifici, qualora un condomino, convenuto dall’amministratore per il rilascio di uno spazio di proprietà comune occupato sine titulo, agisca in via riconvenzionale per ottenere l’accertamento della proprietà esclusiva su tale bene, il contraddittorio va esteso a tutti i condomini, incidendo la controdomanda sull’estensione dei diritti dei singoli; pertanto, ove ciò non avvenga e la domanda riconvenzionale sia decisa solo nei confronti dell’amministratore, l’invalida costituzione del contraddittorio può, in difetto di giudicato espresso o implicito sul punto, essere eccepita per la prima volta o rilevata d’ufficio anche in sede di legittimità, con conseguente rimessione degli atti al primo giudice.

Del litisconsorzio necessario processuale si è occupata Sez. 2, n. 24467/2017, Falaschi, Rv. 645797-01 che, in una fattispecie relativa a contratto preliminare di vendita di un immobile, stipulato da più soggetti, ha ritenuto che l’impossibilità che gli effetti del contratto si producano “pro quota” o nei confronti soltanto di alcuni dei promissari non esclude il diritto di ciascuno di essi di chiedere l’adozione di una pronuncia ai sensi dell’art. 2932 c.c., in base alla disciplina delle obbligazioni solidali, richiamata in materia dall’art. 1317 c.c., atteso che, quando una parte negoziale, intesa come centro di imputazione delle posizioni attive o passive nascenti dal contratto, ha carattere soggettivamente complesso, essa resta insensibile alle mutazioni attinenti ai soggetti che la costituiscono. Da ciò consegue, secondo la medesima pronuncia, che solo qualora tutti i promissari acquirenti agiscano congiuntamente in giudizio al fine di ottenere la pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c., si configura, in fase di gravame, un’ipotesi di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, determinato dall’esigenza di evitare pronunzie contraddittorie.

14.2. Litisconsorzio facoltativo improprio.

In tema di litisconsorzio facoltativo improprio si è pronunciata Sez. 3, n. 19373/2017, Saija, Rv. 645495-01, secondo la quale ove ricorra tale fattispecie di litisconsorzio (artt. 103 e 274 c.p.c.) le cause riunite conservano la loro autonoma individualità, senza che si verifichi alcuna fusione degli elementi di giudizio e delle prove acquisite nell’una o nell’altra; tale principio può essere mitigato per le prove costituende, in quanto formatesi nel contradditorio delle parti dopo che sia stata disposta la riunione, ma non anche per le prove precostituite, entrate nel processo per iniziativa di uno solo dei litisconsorti, a meno che la parte che intenda avvalersi di un documento prodotto da altri non lo faccia proprio, producendolo a sua volta o manifestando l’univoca intenzione di avvalersene, con una dichiarazione da rendere, senza formule sacramentali, entro il termine eventualmente assegnato per l’indicazione della prova diretta, o contraria, a seconda della sua finalità.

15. Intervento volontario.

Sez. 3, n. 16665/2017, Spaziani, Rv. 644960-01, ha ritenuto che la legittimazione ad intervenire volontariamente nel processo, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., presuppone la terzietà dell’interventore rispetto alle parti, formali e sostanziali, dello stesso; pertanto, il successore universale di una di esse che, per effetto della continuazione o della prosecuzione del processo, acquisti la qualità di parte non è legittimato a spiegare intervento volontario nel medesimo giudizio per far valere un diritto, connesso per l’oggetto o per il titolo con quello controverso, di cui sia titolare indipendentemente dalla successione, subentrando nella stessa posizione processuale del soggetto venuto meno e soggiacendo alle relative preclusioni.

16. Successione di parti.

Sez. L, n. 13183/2017, Manna A., Rv. 644517-01, ha affermato che la cancellazione della società di persone dal registro delle imprese determina l’estinzione della società stessa, privandola della capacità di stare in giudizio, sicché, quando ciò intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la medesima è parte, ancorché questo non sia interrotto per mancata dichiarazione del corrispondente evento da parte del suo difensore, la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferisce automaticamente, ai sensi dell’art. 110 c.p.c., ai soci quali successori a titolo universale divenuti partecipi della comunione in ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione.

Sul tema è ritornata Sez. 6-T, n. 10980/2017, Manzon, Rv. 643964-01 affermando, in materia di contenzioso tributario, con specifico riferimento all’accertamento del reddito da partecipazione in una società di persone, che in caso di estinzione dell’ente per cancellazione dal registro delle imprese, la qualità di successore universale dello stesso si radica in capo al socio per il fatto stesso dell’imputazione al medesimo del reddito della società in forza del principio di trasparenza ex art. 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, implicante una presunzione di effettiva percezione del precisato reddito. Ne consegue che, in queste controversie, i soci assumono la legittimazione attiva e passiva alla lite instaurata nei confronti della società – con o senza la partecipazione originaria anche dei soci – per effetto della mera estinzione della società, senza che si ponga alcun problema di integrazione del contraddittorio nei confronti dell’ente ormai estinto.

Sez. 3, n. 18767/2017, Graziosi, Rv. 645486-01, ha affermato che il successore a titolo particolare nel diritto controverso, il quale abbia spiegato intervento volontario, assume nel processo una posizione coincidente con quella del suo dante causa, divenendo titolare del diritto in contestazione; pertanto il suo intervento – che è regolato dall’art. 111 c.p.c. e non dall’art. 105 c.p.c. e dà luogo ad una fattispecie di litisconsorzio necessario – non può essere qualificato come intervento adesivo dipendente e, se svolto in appello, mediante mera riproposizione dei motivi dell’impugnazione proposta dal dante causa, non soggiace ai limiti di cui all’art. 344 c.p.c. e non integra un’impugnazione incidentale tardiva.

Sez. 6-3, n. 15622/2017, Barreca, Rv. 644943-01, ha affermato che in pendenza del processo esecutivo, la successione a titolo particolare nel diritto del creditore procedente non ha effetto sul rapporto processuale che, in virtù del principio stabilito dall’art. 111 c.p.c. – dettato per il giudizio contenzioso ma applicabile anche al processo esecutivo – continua tra le parti originarie; pertanto, in caso di cessione del diritto di credito per il quale è stata promossa espropriazione forzata, il cedente mantiene la legittimazione attiva a proseguire il processo, salvo che il cessionario si opponga.

17. Il principio della domanda e la rilevabilità d’ufficio delle cause di nullità.

Sez. 6-L, n. 16977/2017, Doronzo, Rv. 645039-01, ha ritenuto che il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di accertamento della nullità di un contratto o di una singola clausola contrattuale ha il potere-dovere di rilevare d’ufficio – previa instaurazione del contraddittorio sul punto – l’esistenza di una causa di nullità diversa da quella prospettata, che abbia carattere portante ed assorbente e che emerga dai fatti allegati e provati o comunque dagli atti di causa, salvo che non si tratti di nullità a regime speciale.

Sez. L, n. 7687/2017, Di Paolantonio, Rv. 643577-01, ha ribadito che la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa, che resta circoscritta all’atto e non è idonea a estendere l’oggetto del processo al rapporto, non essendo equiparabile all’azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati. Da tale principio, la Corte ha tratto la conseguenza che il giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte, trovando tale conclusione riscontro nella previsione dell’art. 18, comma 7, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, e dell’art. 4 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, nella parte in cui fanno riferimento alla applicazione delle tutele previste per il licenziamento discriminatorio, quindi affetto da nullità, “sulla base della domanda formulata dal lavoratore”.

18. Il principio di non contestazione.

Sez. 3, n. 22055/2017, Sestini, Rv. 646016-01, ha ritenuto che il principio di non contestazione non opera in difetto di specifica allegazione dei fatti che dovrebbero essere contestati, né tale specificità può essere desunta dall’esame dei documenti prodotti dalla parte, atteso che l’onere di contestazione deve essere correlato alle affermazioni presenti negli atti destinati a contenere le allegazioni delle parti, onde consentire alle stesse e al giudice di verificare immediatamente, sulla base delle contrapposte allegazioni e deduzioni, quali siano i fatti non contestati e quelli ancora controversi.

19. La valutazione delle prove.

In materia di valutazione delle prove, Sez. L, n. 1320/2017, Manna A., Rv. 642521-01, ha ritenuto che la deposizione de relato ex parte, con cui si riferiscano circostanze sfavorevoli alla parte medesima, ha natura giuridica di prova testimoniale di una confessione stragiudiziale fatta a un terzo, se supportata dal relativo elemento soggettivo, in quanto tale liberamente apprezzabile dal giudice ai sensi dell’art. 2735, comma 1, secondo periodo c.c., nonché sufficiente a fondare anche in via esclusiva il convincimento del giudice ed a suffragare altra testimonianza de relato.

20. Il contenuto della sentenza.

Sez. 2, n. 15846/2017, Scarpa, Rv. 644676-01, ha affermato il principio secondo cui, nella concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto della decisione, il giudice non deve dimostrare esplicitamente l’infondatezza o la non pertinenza di eventuali precedenti giurisprudenziali difformi (neppure se si tratti di cd. autoprecedenti e, cioè, decisioni rese in fattispecie analoghe o simili dallo stesso ufficio), poiché i motivi della decisione, intanto possono essere viziati, in quanto siano di per sé erronei, in fatto o in diritto, in relazione alla fattispecie concreta, non già perché eventualmente in contrasto con quelli addotti in decisioni riguardanti altre fattispecie analoghe, simili o addirittura identiche.

Sez. 3, n. 11227/2017, Rubino, Rv. 644191-01, ha affermato che in tema di provvedimenti giudiziali, la motivazione per relationem ad un precedente giurisprudenziale esime il giudice dallo sviluppare proprie argomentazioni giuridiche, ma il percorso argomentativo deve comunque consentire di comprendere la fattispecie concreta, l’autonomia del processo deliberativo compiuto e la riconducibilità dei fatti esaminati al principio di diritto richiamato, dovendosi ritenere, in difetto di tali requisiti minimi, la totale carenza di motivazione e la conseguente nullità del provvedimento.

21. La comunicazione della sentenza.

Sez. L, n. 25136/2017, Garri, Rv. 646110-01, ha ritenuto che in tema di ricorso per cassazione avverso la sentenza che definisce il procedimento di reclamo ex art. 1, comma 62, della l. n. 92 del 1992, la comunicazione via PEC a cura della cancelleria fa decorrere il termine breve di sessanta giorni per l’impugnazione ove risulti allegato il testo integrale della sentenza, senza che sia sufficiente il mero avviso del deposito, atteso che la parte deve essere posta in grado di conoscere le ragioni sulle quali la pronuncia è fondata e di valutarne la correttezza onde predisporne l’eventuale impugnazione.

Sez. 2, n. 22674/2017, Scarpa, Rv. 645434-01, ha affermato che la comunicazione telematica dell’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione, emessa in formato cartaceo, effettuata in data antecedente l’entrata in vigore dell’art. 16-bis, comma 9-bis, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. con mod. dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, (comma introdotto dall’art. 52, del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv. con modif. dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, e successivamente ancora modificato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, conv. con modif. dalla legge 6 agosto 2015, n. 132), seppur priva della firma digitale del cancelliere, deve ritenersi validamente avvenuta, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione ex art. 702-quater c.p.c., in presenza dell’attività del cancelliere consistita nel trasmettere all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario il testo integrale dell’ordinanza, comprensivo del dispositivo e della motivazione, in maniera che vi sia comunque certezza che il provvedimento sia stato portato a compiuta conoscenza delle parti e sia altresì certa la data di tale conoscenza.

22. Le notificazioni.

22.1. Le notificazioni a mezzo posta.

Sez. 5, n. 25912/2017, Tricomi, Rv. 646173-01, ha affermato che la notifica a mezzo servizio postale non si esaurisce con la spedizione dell’atto, ma si perfeziona con la consegna del relativo plico al destinatario e l’avviso di ricevimento, prescritto dall’art. 149 c.p.c. e dalle disposizioni della legge 20 novembre 1982, n. 890, è il solo documento idoneo a dimostrare sia l’intervenuta consegna sia la data di essa e l’identità e idoneità della persona a mani della quale è stata eseguita. Ne consegue che, anche nel processo tributario, qualora tale mezzo sia stato adottato per la notifica del ricorso, la mancata produzione dell’avviso di ricevimento comporta, non la mera nullità, ma la insussistenza della conoscibilità legale dell’atto cui tende la notificazione, nonché l’inammissibilità del ricorso medesimo, non potendosi accertare l’effettiva e valida costituzione del contraddittorio, in caso di mancata costituzione in giudizio della controparte.

22.2. Le notificazioni ex art. 143 c.p.c.

Sez. 6-3, n. 8638/2017, Dell’Utri, Rv. 643689-01, in tema di notificazioni ex art. 143 c.p.c., ha ribadito il principio secondo cui l’ufficiale giudiziario, ove non abbia rinvenuto il destinatario nel luogo di residenza risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca ed indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi, in difetto, la nullità della notificazione, con il conseguente obbligo per il giudice di disporne il rinnovo ai sensi dell’art. 291 c.p.c., previa fissazione di apposito termine perentorio.

22.3. Le notificazioni alle persone giuridiche.

Sez. 6-5, n. 27420/2017, Crucitti, Rv. 646424-01, ha ritenuto che, ai fini della regolarità della notificazione di atti a persona giuridica mediante consegna a persona addetta alla sede (art. 145, comma 1, c.p.c.), senza che consti la previa infruttuosa ricerca del legale rappresentante e, successivamente, della persona incaricata di ricevere le notificazioni, è sufficiente che il consegnatario si trovi presso la sede della persona giuridica destinataria non occasionalmente, ma in virtù di un particolare rapporto che, non dovendo essere necessariamente di prestazione lavorativa, può risultare anche dall’incarico, pur se provvisorio e precario, di ricevere le notificazioni per conto della persona giuridica, sicché, qualora dalla relazione dell’ufficiale giudiziario risulti la presenza di una persona che si trovava nei locali della sede, è da presumere che tale persona fosse addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica, anche se da questa non dipendente, laddove la società, per vincere la presunzione in parola, ha l’onere di provare che la stessa persona, oltre a non essere una sua dipendente, non era neppure addetta alla sede per non averne mai ricevuto incarico alcuno.

Sullo stesso tema Sez. 1, n. 2232/2017, Falabella, Rv. 643510-01, ha affermato che il vano esperimento delle forme previste dall’art. 145, commi 1 e 2, c.p.c. consente l’utilizzazione di quelle previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c., purché la notifica sia fatta alla persona fisica che rappresenta l’ente e non già all’ente in forma impersonale.

Sez. 6-1, n. 5253/2017, Lamorgese, Rv. 643973, ha affermato che la previsione dell’art. 10 l. fall., per il quale una società cancellata dal registro delle imprese può essere dichiarata fallita entro l’anno dalla cancellazione, implica che il procedimento prefallimentare e le eventuali successive fasi impugnatorie continuano a svolgersi, per fictio iuris, nei confronti della società estinta, non perdendo quest’ultima, in ambito concorsuale, la propria capacità processuale. Ne consegue che pure il ricorso per la dichiarazione di fallimento può essere validamente notificato presso la sede della società cancellata, ai sensi dell’art. 145, comma 1, c.p.c.

22.4. Le notificazioni autorizzate dal giudice.

Sez. 6-2, n. 23919/2017, Scalisi, Rv. 646794-01, in tema di notificazioni autorizzate dal giudice, ai sensi dell’art. 151 c.p.c., ha ritenuto che le forme devono trovare corrispondenza nello scopo dell’atto e le modalità prescelte debbono garantire i principi fondamentali del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio, affermando di conseguenza che è giuridicamente inesistente la notificazione a mezzo “fax” in quanto, difettando in tale caso la prova della consegna dell’atto e la conoscenza legale dello stesso da parte del destinatario, essa esorbita dallo schema legale previsto dagli artt. 137 ss. c.p.c.

22.5. Le notificazioni telematiche.

Sez. 6-3, n. 22320/2017, De Stefano, Rv. 645723-01, ha affermato che la notifica a mezzo PEC ex art. 3-bis della legge 21 maggio 1994, n. 53, di un atto del processo – formato fin dall’inizio in forma di documento informatico – ad un legale, implica, purché soddisfi e rispetti i requisiti tecnici previsti dalla normativa vigente, l’onere per il suo destinatario di dotarsi degli strumenti per decodificarla o leggerla, non potendo la funzionalità dell’attività del notificante essere rimessa alla mera discrezionalità del destinatario, salva l’allegazione e la prova del caso fortuito, come in ipotesi di malfunzionamenti del tutto incolpevoli, imprevedibili e comunque non imputabili al professionista coinvolto; peraltro, costituendo la normativa sulle notifiche telematiche la mera evoluzione della disciplina delle notificazioni tradizionali ed il suo adeguamento al mutato contesto tecnologico, l’onere in questione non può dirsi eccezionale od eccessivamente gravoso, in quanto la dotazione degli strumenti informatici integra un necessario complemento dello strumentario per l’esercizio della professione.

Sez. 1, n. 20625/2017, Falabella, Rv. 645225-01, ha affermato che l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dell’atto ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale.

Quanto al giudizio di legittimità, in cui attualmente non è possibile il deposito telematico di atti, ma non è stata prevista alcuna limitazione in ordine alla facoltà degli avvocati di procedere alle notifiche telematiche, si segnala Sez. 3, n. 17450/2017, Fanticini, Rv. 644968-01, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, qualora la notificazione della sentenza impugnata sia stata eseguita con modalità telematiche, per soddisfare l’onere di deposito della copia autentica della relazione di notificazione, il difensore del ricorrente, destinatario della suddetta notifica, deve estrarre copie cartacee del messaggio di posta elettronica certificata pervenutogli e della relazione di notificazione redatta dal mittente ex art. 3-bis, comma 5, della l. n. 53 del 1994, attestare con propria sottoscrizione autografa la conformità agli originali digitali delle copie analogiche formate e depositare nei termini queste ultime presso la cancelleria della S.C.

Secondo Sez. 3, n. 21597/2017, Ambrosi, Rv. 645733-01, la notifica della sentenza effettuata alla controparte a mezzo PEC (ex art. 3-bis della l. n. 53 del 1994, nel testo, applicabile ratione temporis, modificato dall’art. 16-quater, comma 1, lett. d), del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. con modif. dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228) è idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione nei confronti del destinatario, ove il notificante provi di aver allegato e prodotto la copia cartacea del messaggio di trasmissione a mezzo posta elettronica certificata, le ricevute di avvenuta consegna e accettazione e la relata di notificazione, sottoscritta digitalmente dal difensore, nonché la copia conforme della sentenza che, trattandosi di atto da notificare non consistente in documento informatico, sia stata effettuata mediante estrazione di copia informatica dell’atto formato su supporto analogico e attestazione di conformità ex art. 16 undecies del citato d.l. n. 179 del 2012.

23. I termini.

Sez. U, n. 21194/2017, Barreca, Rv. 645311-01, ha espresso il principio secondo cui la parte che non abbia proposto immediato ricorso per cassazione, facendo affidamento sull’interpretazione dell’art. 360, comma 3, c.p.c., che riteneva non immediatamente ed autonomamente impugnabile la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 353 c.p.c., non ha diritto alla rimessione in termini nella pendenza del giudizio di merito riassunto dinanzi al primo giudice, al fine di impugnare autonomamente detta sentenza d’appello, a seguito del mutamento della giurisprudenza di legittimità, potendo la statuizione sulla questione di giurisdizione della pronuncia d’appello essere impugnata in cassazione nell’ipotesi in cui la decisione, eventualmente sfavorevole nel merito, del giudice di primo grado abbia trovato conferma in appello.

Sempre in materia di termini, Sez. 6-2, n. 25453/2017, D’Ascola, Rv. 646817-01, ha ritenuto che l’omesso o tardivo deposito del ricorso per cassazione dopo la scadenza del ventesimo giorno dalla notifica del gravame comporta l’improcedibilità dello stesso, rilevabile anche d’ufficio e non esclusa dalla costituzione del resistente, posto che il principio – sancito dall’art. 156 c.p.c. – di non rilevabilità della nullità di un atto per mancato raggiungimento dello scopo si riferisce esclusivamente all’inosservanza di forme in senso stretto e non di termini perentori, per i quali vigono apposite e separate norme.

24. Nullità degli atti.

Secondo Sez. 6-3, n. 14338/2017, Vincenti, Rv. 644628-01, l’atto introduttivo del giudizio redatto in formato elettronico e privo di firma digitale è nullo, poiché detta firma è equiparata dal d.lgs. n. 82 del 2005 alla sottoscrizione autografa, che costituisce, ai sensi dell’art. 125 c.p.c., requisito di validità dell’atto introduttivo (anche del processo di impugnazione) in formato analogico.

Sez. 5 , n. 9440/2017, Aceto, Rv. 643767-01, ha – infine – affermato che la sentenza emessa da una commissione tributaria regionale, munita della sottoscrizione del giudice estensore e non anche del presidente del collegio, è affetta da nullità sanabile ai sensi dell’art. 161, comma 1, c.p.c., trattandosi di sottoscrizione insufficiente e non mancante, la cui sola ricorrenza comporta la non riconducibilità dell’atto al giudice, mentre una diversa interpretazione, che accomuni le due ipotesi con applicazione dell’art. 161, comma 2, c.p.c., deve ritenersi lesiva dei principi del giusto processo e della ragionevole durata.

  • giudice
  • procedura civile
  • procedimento giudiziario

CAPITOLO XXXV

IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO

(di Andrea Penta )

Sommario

1 L’introduzione della causa. - 2 La costituzione dell’attore. - 3 La costituzione del convenuto. - 4 Il ritiro dei fascicoli di parte. - 5 Le notificazioni e comunicazioni nel corso del procedimento. - 6 La designazione del giudice istruttore e i suoi poteri. - 7 Il difetto di rappresentanza o di autorizzazione. - 8 La trattazione della causa: la mutatio libelli. - 9 La trattazione ed istruzione della causa. - 10 La rimessione in termini. - 11 Il tentativo di conciliazione. - 12 Le ordinanze a contenuto decisorio. - 13 La fase decisoria. - 13.1 Le preclusioni ed i moduli decisori. - 14 L’intervento di terzi. - 15 La riunione dei procedimenti. - 16 La condanna generica. - 17 La correzione delle sentenze e delle ordinanze. - 17.1 Il regime giuridico delle ordinanze di correzione. - 17.2 L’integrazione dei provvedimenti istruttori. - 18 Le vicende anomale del processo: la sospensione. - 18.1 La pregiudizialità penale. - 18.2 Alcune fattispecie. - 18.3 Il regime giuridico dell’ordinanza di sospensione. - 19 L’interruzione del processo. - 19.1 Gli effetti dell’interruzione. - 20 L’estinzione del processo. - 21 Il procedimento davanti al giudice di pace.

1. L’introduzione della causa.

Sez. U, n. 26147/2017, Giusti, Rv. 645814-01, ha chiarito che i termini per comparire in giudizio stabiliti dall’art. 163-bis c.p.c. sono fissati, non in relazione ai luoghi delle possibili notificazioni, bensì al luogo in cui la notificazione è realmente e validamente avvenuta, avuto riguardo alla ratio di tale norma, che prevede un termine maggiore (di centoventi giorni, secondo il testo della disposizione ratione temporis applicabile) solo se il luogo della notificazione si trova non in Italia ma all’estero, dovendosi presumere la necessità di un maggior tempo per apprestare, dall’estero, una congrua difesa in Italia. Ne consegue che il termine più ampio non opera là dove la notifica dell’atto di citazione sia avvenuta a mani del convenuto in Italia, a nulla rilevando che questi, cittadino italiano, avesse formalmente all’estero, al tempo della notificazione, la propria residenza anagrafica.

Sez. 1, n. 5517/2017, Marulli, Rv. 644652-02, ha chiarito che nel procedimento disciplinato dagli artt. 702-bis e ss. c.p.c., in caso di inosservanza dei requisiti afferenti tanto all’editio actionis che alla vocatio in ius, è applicabile, allorché il convenuto non si costituisca sanando il vizio rilevato, la regola della rinnovazione dell’atto introduttivo nullo ai sensi dell’art. 164 c.p.c. con l’assegnazione, da parte del giudice, di un termine perentorio per provvedere ad una nuova notificazione.

2. La costituzione dell’attore.

Per Sez. 2, n. 13775/2017, Manna, Rv. 644331-01, la costituzione in giudizio dell’attore, avvenuta dopo il decimo giorno successivo al compimento di un’invalida notificazione dell’atto di citazione, non è qualificabile come tardiva, ex art. 171 c.p.c., giacché il termine di cui all’art. 165 c.p.c. decorre solo in presenza di una notifica valida; pertanto, ove, in simile ipotesi, il convenuto non si sia costituito (così sanando la nullità verificatasi), il giudice deve provvedere ai sensi dell’art. 291 c.p.c. e l’attore, rinnovata con successo la notifica, non deve reiterare la propria costituzione in giudizio, iscrivendo nuovamente la causa a ruolo.

Il principio della distinzione dei momenti di perfezionamento della notificazione per il notificante e per il destinatario dell’atto, con il riferimento, per il primo, a quello della consegna dell’atto per la notifica, trova applicazione solo quando dal protrarsi del procedimento notificatorio possano verificarsi conseguenze negative per il notificante medesimo (come la decadenza conseguente al tardivo compimento di attività riferibili all’ufficiale giudiziario o all’agente postale) e non, invece, ove sia previsto che un termine a suo carico debba iniziare a decorrere o un altro adempimento debba essere compiuto dal momento dell’avvenuta notificazione, poiché il consolidamento della notifica dipende anche per il notificante dal perfezionamento del procedimento suddetto nei confronti del destinatario. Tale principio è stato ribadito da Sez. 1, n. 4020/2017, Lamorgese, Rv. 644440-01, in una fattispecie in cui correttamente il giudice di merito aveva effettuato il computo della data di iscrizione della causa a ruolo dalla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario, anziché da quella di consegna dell’atto di citazione all’ufficiale giudiziario.

Sez. 1, n. 89/2017, Di Virgilio, Rv. 643019-01, ha nuovamente affermato il principio per cui, in relazione al processo civile di cognizione, anche dopo l’introduzione del modello processuale speciale del cd. rito societario, nel caso di chiamata in giudizio di più convenuti, il termine di dieci giorni per la costituzione dell’attore, di cui all’art. 165, comma 1, c.p.c., si consuma con il decorso di dieci giorni dal perfezionamento della prima notificazione verso uno dei convenuti dell’atto di citazione, conformemente alla lettera ed alla ratio del comma 2 dello stesso articolo, in base alla quale, entro dieci giorni dall’ultima notifica di esso, l’originale di tale atto va inserito nel fascicolo, il che presuppone l’avvenuta costituzione; tale costituzione può aver luogo con il deposito di una copia della citazione, estesa anche alla procura, se essa sia stata rilasciata a margine od in calce, ovvero con il deposito di tale copia unitamente alla procura (generale o speciale) rilasciata per atto pubblico o scrittura privata.

3. La costituzione del convenuto.

Sez. 6-3, n. 21184/2017, Frasca, Rv. 645485-02, ha chiarito che, nel caso in cui il giudizio introdotto con citazione non venga iscritto a ruolo da alcuna delle parti e venga successivamente riassunto tempestivamente da una di esse, a norma del disposto degli art. 171, comma 1, e 307, comma 1, c.p.c., le decadenze per il convenuto correlate al tempestivo deposito della comparsa di risposta a norma dell’art. 167 c.p.c. e, fra queste, quella dal diritto di chiamare in causa un terzo, non si possono ritenere verificate con riferimento al termine per la sua costituzione, che operava in relazione all’udienza indicata nell’originaria citazione introduttiva; pertanto, nel caso di riassunzione effettuata dal convenuto, le decadenze si correlano allo stesso atto di riassunzione di cui all’art. 125 disp. att. c.p.c. e, nel caso di riassunzione effettuata dall’attore, al termine di cui all’art. 166 c.p.c., calcolato in relazione all’udienza indicata dallo stesso attore nella comparsa di riassunzione.

Di contro, come ribadito da Sez. 2, n. 2299/2017, Scalisi, Rv. 642490-01, il rinvio d’ufficio dell’udienza, ex art. 168-bis, comma 4, c.p.c., non determina la riapertura dei termini per il deposito della comparsa, poiché l’art. 166 c.p.c., coordinato con i successivi artt. 167 e 343, contempla, quale ipotesi utile ad escludere la decadenza dalla proposizione della domanda riconvenzionale, soltanto quella connessa al termine indicato nell’atto di citazione ovvero, nel caso in cui abbia trovato applicazione l’art. 168-bis, comma 5, c.p.c., quella relativa alla data fissata dal giudice istruttore.

Con riferimento al contenuto della comparsa di riposta, Sez. 2, n. 22701/2017, Grasso Giuseppe, Rv. 645436-01, ha statuito che il convenuto, ai sensi dell’art. 167, comma 1, c.p.c., deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata a una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, ivi inclusa l’interpretazione delle clausole contrattuali, sulla cui valenza deve tempestivamente, integralmente ed irretrattabilmente esprimersi; sicché, se nulla abbia eccepito in relazione al significato di una determinata clausola ovvero, come nella specie, abbia concordato con la controparte sul suo significato, tale interpretazione deve considerarsi come pacifica, esonerando l’attore da qualsiasi prova al riguardo e rendendo inammissibile la contestazione successiva.

Secondo Sez. 2, n. 6846/2017, Giuseppe Grasso, Rv. 643373-01, in caso di più convenuti, la domanda formulata da uno di questi nei confronti di un altro ed avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità esclusiva del secondo rispetto alla domanda risarcitoria formulata dall’attore, va qualificata come domanda riconvenzionale, e può essere proposta negli stessi limiti di quest’ultima.

4. Il ritiro dei fascicoli di parte.

Se, al momento della decisione della causa, risulti la mancanza di taluni atti da un fascicolo di parte, il giudice è tenuto a disporne la ricerca o, eventualmente, la ricostruzione, solo se sussistano elementi per ritenere che tale mancanza sia involontaria, ovvero dipenda da smarrimento o sottrazione. Qualora, pur in presenza di tali elementi, il giudice ometta di disporre la ricerca o la ricostruzione degli atti mancanti, tale omissione, sì come ribadito da Sez. 2, n. 16212/2017, D’Ascola, Rv. 644677-01, può tradursi in un vizio della motivazione, ma la parte che intenda censurare un siffatto vizio in sede di legittimità ha l’onere di richiamare nel ricorso il contenuto dei documenti dispersi e dimostrarne la rilevanza ai fini di una decisione diversa.

Nello stesso solco, Sez. 6-3, n. 10224/2017, Scoditti, Rv. 643996-01, ha affermato che, in virtù del principio dispositivo delle prove, il mancato reperimento nel fascicolo di parte, al momento della decisione, di alcuni documenti ritualmente prodotti, deve presumersi espressione, in assenza della denuncia di altri eventi, di un atto volontario della parte stessa, che è libera di ritirare il proprio fascicolo e di omettere la restituzione di esso o di alcuni dei documenti ivi contenuti; ne consegue che è onere della parte dedurre quella incolpevole mancanza (ove ciò non risulti in maniera palese anche in assenza della parte e di una sua espressa segnalazione in tal senso) e che il giudice è tenuto ad ordinare la ricerca o disporre la ricostruzione della documentazione non rinvenuta solo ove risulti l’involontarietà della mancanza, dovendo, negli altri casi, decidere sulla base delle prove e dei documenti sottoposti al suo esame al momento della decisione. In applicazione di tale principio, la S.C., in un caso in cui, dopo il ritiro del fascicolo da parte del c.t.u., l’appellante non ne aveva dedotto l’incolpevole mancanza all’udienza di precisazione delle conclusioni, come era suo onere ai fini dell’esercizio della facoltà del relativo ritiro ex art. 169, comma 2, c.p.c. e dell’assolvimento del successivo onere di sua restituzione unitamente alla comparsa conclusionale, ha ritenuto conseguentemente precluso il rilievo officioso di detta mancanza ai fini della ricostruzione del fascicolo

5. Le notificazioni e comunicazioni nel corso del procedimento.

In tema di notificazione di atti processuali, Sez. 3, n. 920/2017, Pellecchia, Rv. 642694-01, ha confermato che la parte non ha alcun onere di eleggere esplicitamente domicilio presso il suo difensore, atteso che essa si intende domiciliata presso quest’ultimo, al quale devono essere notificati tutti gli atti ex art. 170 c.p.c. e, se il legale esercita attività defensionale nella circoscrizione del tribunale in cui si svolge il giudizio, il luogo nel quale devono essere effettuate la notificazioni va individuato nel domicilio effettivo dello stesso difensore, quale risulta dall’albo professionale, non essendo in tal caso applicabile l’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, che riguarda solo i procuratori esercenti extra districtum, prevedendo che – in mancanza di elezione di domicilio – la notifica sia effettuata presso la cancelleria del tribunale; ne deriva l’irritualità della notifica, eseguita ai sensi di tale disposizione, ad un legale esercente intra districtum, ciò che non dà luogo, però, ad un’ipotesi di inesistenza della notificazione, la quale deve ritenersi ristretta ai soli casi in cui la stessa sia stata omessa, bensì ad una sua nullità sanabile con la costituzione del destinatario, a nulla rilevando che quest’ultimo, nel costituirsi, abbia eccepito la predetta nullità.

6. La designazione del giudice istruttore e i suoi poteri.

L’inosservanza del principio della immutabilità del giudice istruttore, sancito dall’art. 174 c.p.c., e la trattazione della causa da parte di un giudice diverso da quello individuato secondo le tabelle, determinata da esigenze di organizzazione interna al medesimo ufficio giudiziario, pur in mancanza di un formale provvedimento di sostituzione da parte del presidente del tribunale, costituiscono, secondo Sez. L, n. 1912/2017, Lorito, Rv. 642786-01, una mera irregolarità di carattere interno che, in difetto di una espressa sanzione di nullità, non incide sulla validità degli atti, né è causa di nullità del giudizio o della sentenza.

Per Sez. 6-3, n. 23901/2017, Tatangelo, Rv. 646628-01, il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti.

7. Il difetto di rappresentanza o di autorizzazione.

L’art. 182, comma 2, c.p.c. (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte dalla l. n. 69 del 2009), secondo cui il giudice che rilevi un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione “può” assegnare un termine per la regolarizzazione della costituzione in giudizio, deve essere interpretato, anche alla luce della modifica apportata dall’art. 46, comma 2, della l. n. 69 del 2009, nel senso che il giudice “deve” promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio ed indipendentemente dalle cause del predetto difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti ex tunc, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali. In applicazione di tale principio, Sez. 6-1, n. 26948/2017, Genovese, Rv. 647047-01, ha cassato la sentenza impugnata che, non ritenendo ravvisabile un’autorizzazione implicita da parte del giudice delegato nei provvedimenti allegati dalla curatela, non aveva assegnato il termine di cui all’art. 182, comma 2, c.p.c.. In proposito, secondo Sez. 6-1, n. 26948/2017, Genovese, Rv. 647047-02, l’autorizzazione a stare in giudizio conferita dal giudice delegato tardivamente in via di ratifica, al curatore fallimentare, vale a sanare retroattivamente il difetto di legittimazione di quest’ultimo, ma fino al limite delle preclusioni già verificatesi.

Sulla stessa lunghezza d’onda, Sez. 3, n. 15156/2017, Frasca, Rv. 644950-01, ha cassato la sentenza impugnata, rilevando che non aveva doverosamente esercitato il potere di cui all’art. 182 c.p.c. nei confronti della società ricorrente, che aveva agito per il pagamento di canoni locatizi in forza di un contratto di affidamento dei servizi di gestione del patrimonio immobiliare dell’I.N.P.S., nel quale non era incluso l’immobile oggetto di controversia.

Per Sez. U, n. 26338/2017, D’Ascola, Rv. 645818-01, è affetta da mero errore materiale la procura speciale ad impugnare che, sebbene non congiunta materialmente all’atto, individui la pronuncia impugnata, sia corredata di data certa successiva alla stessa e provenga inequivocabilmente dalla parte ricorrente, in quanto l’art. 83, comma 3, c.p.c., non può essere interpretato in modo formalistico, avendo riguardo al dovere del giudice, ex art. 182 c.p.c., di segnalare alle parti i vizi della procura affinché possano porvi rimedio e, più in generale, al diritto di accesso al giudice, sancito dall’art. 6, par. 1, della CEDU, che può essere limitato soltanto nella misura in cui sia necessario per perseguire uno scopo legittimo.

Sez. U, n. 10414/2017, Barreca, Rv. 643938-02, ha chiarito, in una fattispecie in cui il difensore era stato radiato che nel giudizio dinanzi al Consiglio Nazionale Forense intrapreso, personalmente, da un avvocato privo di ius postulandi, perché non iscritto nell’albo speciale di cui all’art. 33 del r.d.l. 1578 del 1933 o sospeso dall’esercizio della professione, non è applicabile l’art. 182, comma 2, c.p.c., come modificato dalla l. n. 69 del 2009, che presuppone la regolarizzazione in favore del soggetto o del suo procuratore già costituiti e non consente, pertanto, la costituzione in giudizio di un soggetto diverso dal ricorrente, iscritto in quell’albo, previo rilascio di mandato speciale.

8. La trattazione della causa: la mutatio libelli.

In una fattispecie di frequente verificazione, Sez. 3, n. 24072/2017, Olivieri, Rv. 645833-01, ha affermato che, nel caso in cui l’attore abbia chiesto con l’atto di citazione il risarcimento del danno da colpa medica per errore nell’esecuzione di un intervento chirurgico (e, quindi, per la lesione del diritto alla salute), e domandi poi in corso di causa anche il risarcimento del danno derivato dall’inadempimento, da parte dello stesso medico, al dovere di informazione necessario per ottenere un consenso informato (inerente al diverso diritto alla autodeterminazione nel sottoporsi al trattamento terapeutico), si verifica una mutatio libelli e non una mera emendatio, in quanto nel processo viene introdotto un nuovo tema di indagine e di decisione, che altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, tanto da porre in essere una pretesa diversa da quella fatta valere in precedenza.

Parimenti, per Sez. 3, n. 16504/2017, De Stefano, Rv. 644957-01, in un giudizio di responsabilità per attività sanitaria, integra mutatio libelli, non consentita con la memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., la deduzione – in una domanda risarcitoria fondata sulla responsabilità di dipendenti di aziende sanitarie pubbliche ed ascritta a specifiche e ben determinate condotte – di un diverso titolo di responsabilità per differenti condotte, addebitate ad altri dipendenti o strutture sanitarie, benché facenti capo alla stessa azienda, nonché realizzate nell’ambito delle cure somministrate in occasione della medesima infermità.

Alla stessa stregua, secondo Sez. 1, n. 6389/2017, Lamorgese, Rv. 644664-01, la richiesta, avanzata in corso di causa (nella specie, davanti alla Corte di cassazione), di fondare la domanda di risarcimento del danno per occupazione illegittima sulla originaria illegittimità dell’immissione in possesso nel fondo privato costituisce una inammissibile mutatio libelli quando, con l’atto di citazione, si sia ricollegato l’illecito alla scadenza del periodo di occupazione legittima, comportando la diversità dei fatti costitutivi la necessità di nuovi temi di indagine, su cui sviluppare il contraddittorio delle parti.

Viceversa, la richiesta di risarcimento del danno per equivalente costituisce mera modificazione (emendatio), e non mutamento (mutatio), della domanda di reintegrazione in forma specifica. In applicazione di tale principio, Sez. 6-2, n. 12168/2017, Orilia, Rv. 644274-01, ha ritenuto ammissibile la richiesta, proposta nel corso del giudizio, con la quale la parte attrice, abbandonando l’originaria domanda di riparazione in forma specifica dei gravi difetti di costruzione di un immobile ai sensi dell’art. 1669 c.c., aveva chiesto il pagamento delle somme necessarie alla loro eliminazione.

Anche in tema di diritti cd. eterodeterminati, è ammessa, come affermato nuovamente da Sez. 3, n. 18956/2017, Scoditti, Rv. 645380-01, la modifica in corso di causa della domanda originaria, mediante l’allegazione di un diverso fatto costitutivo, che ne comporti la sostituzione con una nuova domanda ad essa alternativa, purché abbia ad oggetto il medesimo bene della vita e siano rispettate le preclusioni processuali previste dall’art. 183 c.p.c.

Sì come ribadito da Sez. 2, n. 13769/2017, D’Ascola, Rv. 644330-01, in seguito all’entrata in vigore della l. n. 353 del 1990, il giudice può rilevare d’ufficio la tardiva proposizione di una domanda nuova, dovendosi escludere, alla luce del regime delle preclusioni introdotto dalla citata legge, che alla mancata opposizione della controparte consegua la tacita accettazione del contraddittorio in ordine a tale domanda.

In quest’ottica, per Sez. 6-3, n. 19893/2017, Scoditti, Rv. 645475-01, in tema di risarcimento del danno, nel regime delle preclusioni introdotte con la l. n. 353 del 1990, è inammissibile il mutamento di una domanda di condanna specifica in domanda di condanna generica, a nulla rilevando che il convenuto vi abbia prestato acquiescenza.

9. La trattazione ed istruzione della causa.

Sez. 1, n. 7474/2017, Falabella, Rv. 644828-02, ha avuto modo di chiarire che, in forza del combinato disposto degli artt. 187, comma 1, c.p.c. e 80-bis disp. att. c.p.c., in sede di udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione della causa ex art. 183 c.p.c., la richiesta della parte di concessione di termine ai sensi del comma 6 di detto articolo non preclude al giudice di esercitare il potere di invitare le parti a precisare le conclusioni ed assegnare la causa in decisione, atteso che ogni diversa interpretazione delle norme suddette, comportando il rischio di richieste puramente strumentali, si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo, oltre che con il favor legislativo per una decisione immediata della causa desumibile dall’art. 189 c.p.c..

Con riferimento al rito societario già disciplinato dal d.lgs. n. 5 del 2003, Sez. 1, n. 29/2017, Falabella, Rv. 643010-01, ha sostenuto che le domande nuove che l’attore può proporre ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. b), devono essere conseguenza “delle difese proposte dal convenuto”, in tale ampia espressione dovendosi ricomprendere ogni possibile deduzione difensiva di quest’ultimo, e quindi non solo le eccezioni, in senso stretto o lato, ma anche le mere difese.

Ai sensi dell’art. 184 c.p.c., nel testo introdotto dall’art. 18 della legge 26 novembre 1990, n. 353 (e anteriore alle modifiche apportate dall’art. 39-quater del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito con modificazioni nella legge 23 febbraio 2006, n. 51), il momento in cui scatta per le parti la preclusione in tema di istanze istruttorie è quello dell’adozione dell’ordinanza di ammissione delle prove, ovvero − nel caso in cui il giudice, su istanza di parte, abbia rinviato tale adempimento ad altra udienza − dello spirare di un duplice termine, il primo concesso per la produzione dei nuovi mezzi di prova e l’indicazione dei documenti idonei a dimostrare l’esistenza dei fatti posti a fondamento della domanda attorea e delle eccezioni sollevate dal convenuto, il secondo previsto, invece, per l’indicazione della (eventuale) “prova contraria”, da identificarsi nella semplice “controprova” rispetto alle richieste probatorie ed al deposito di documenti compiuto nel primo termine. Ne consegue, come precisato da Sez. 2, n. 26574/2017, Criscuolo, Rv. 646074-01, che già entro lo scadere del primo termine parte interessata ha l’onere di richiedere prova contraria in relazione ai fatti allegati dalla controparte e definitivamente fissati nel thema decidendum, ai sensi dell’art. 183 c.p.c.

10. La rimessione in termini.

Sez. 5, n. 5946/2017, Esposito, Rv. 643241-01, ha avuto il merito di chiarire che la decadenza da un termine processuale, ivi compreso quello per impugnare, non può ritenersi incolpevole e giustificare, quindi, la rimessione in termini, ove sia avvenuta per errore di diritto, ravvisabile laddove la parte si dolga dell’omessa comunicazione della data di trattazione dell’udienza e/o della sentenza stessa, atteso che il termine di cui all’art. 327 c.p.c. decorre dalla pubblicazione della sentenza mediante deposito in cancelleria, a prescindere dal rispetto, da parte della cancelleria medesima, degli obblighi di comunicazione alle parti, e che, inoltre, rientra nei compiti del difensore attivarsi per verificare se siano state compiute attività processuali a sua insaputa.

11. Il tentativo di conciliazione.

La conciliazione giudiziale prevista dagli artt. 185 e 420 c.p.c. è una convenzione non assimilabile ad un negozio di diritto privato puro e semplice, caratterizzandosi strutturalmente per il necessario intervento del giudice e per le formalità previste dall’art. 88 disp. att. c.p.c. e funzionalmente, da un lato, per l’effetto processuale di chiusura del giudizio nel quale interviene, dall’altro, per gli effetti sostanziali derivanti dal negozio giuridico contestualmente stipulato dalle parti, che può avere anche ad oggetto diritti indisponibili del lavoratore. A differenza della conciliazione, la transazione, negozio anch’esso idoneo alla risoluzione delle controversie di lavoro qualora abbiano ad oggetto diritti disponibili, non richiede formalità ad substantiam, essendo la forma scritta prevista dall’art. 1967 c.c. ai soli fini di prova. In applicazione di questo principio, Sez. L, n. 25472/2017, Spena, Rv. 645894-01, ha cassato la sentenza del giudice di merito che aveva respinto la domanda di accertamento della transazione intervenuta tra le parti nel corso di una udienza, il cui verbale costituiva atto scritto idoneo ai fini probatori, in ragione della carenza della forma scritta e della relativa sottoscrizione.

12. Le ordinanze a contenuto decisorio.

La revoca dell’ordinanza di condanna al pagamento di somme non contestate, emessa ai sensi dell’art. 186-bis c.p.c. − in corso di causa o con la sentenza, definitiva o meno, in rito e/o nel merito, che decide la controversia − determina il venir meno di tutti gli effetti del provvedimento; conseguentemente, ha affermato Sez. 6-3, n. 20789/2017, Vincenti, Rv. 645363-01, l’eventuale esecuzione forzata che sia stata intrapresa in forza di detto titolo (e che non si sia ancora conclusa) diviene, per la caducazione sopravvenuta del medesimo titolo, illegittima ex tunc, in quanto l’esistenza di un valido titolo esecutivo costituisce presupposto dell’azione esecutiva stessa.

Secondo Sez. 2, n. 9194/2017, Criscuolo, Rv. 645850-01, nel caso in cui, nell’ambito di un processo che veda la proposizione cumulativa di domande, sia stata avanzata rituale istanza ex art. 186-quater c.p.c. solo su alcune delle stesse, ove il giudice erroneamente decida anche le domande per le quali l’istanza non era stata validamente o tempestivamente presentata, il giudice di appello dinanzi al quale sia stato denunciato l’errore, una volta dichiarata l’invalidità dell’ordinanza in parte qua, è tenuto a decidere nel merito la controversia anche per le domande non interessate da valida richiesta di emissione di ordinanza post-istruttoria, senza che sia possibile disporre per le medesime la remissione al primo giudice.

13. La fase decisoria.

Sez. 1, n. 7472/2017, Falabella, Rv. 644826-01, ha precisato che, nell’ipotesi di rimessione della causa al collegio, le parti possono sottoporre a quest’ultimo, ai sensi dell’art. 178, comma 1, c.p.c., tutte le questioni già definite dal giudice istruttore con ordinanza revocabile, senza bisogno di proporre specifica impugnazione, purché sia stata chiesta, in sede di precisazione delle conclusioni, la revoca della menzionata ordinanza. In caso contrario, resta precluso al collegio (ed anche al giudice unico, ove la controversia debba essere decisa dal tribunale in composizione monocratica) qualsivoglia scrutinio al riguardo.

Per Sez. 3, n. 19352/2017, Sestini, Rv. 645492-01, la parte che si sia vista rigettare dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni poiché, diversamente, le stesse debbono intendersi rinunciate e non possono essere riproposte in appello. Tale onere non è assolto attraverso il richiamo generico al contenuto dei precedenti atti difensivi, atteso che la precisazione delle conclusioni deve avvenire in modo specifico, coerentemente con la funzione sua propria di delineare con precisione il thema sottoposto al giudice e di porre la controparte nella condizione di prendere posizione in ordine alle (sole) richieste – istruttorie e di merito – definitivamente proposte.

Peraltro, Sez. 2, n. 17582/2017, Grasso, Rv. 644854-01, ha ribadito che la mancata riproposizione, in sede di precisazione delle conclusioni, di una domanda in precedenza formulata non autorizza alcuna presunzione di rinuncia in capo a colui che ebbe originariamente a proporla, essendo, a tal fine, necessario che, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte, possa desumersi inequivocabilmente il venir meno dell’interesse a coltivarla.

13.1. Le preclusioni ed i moduli decisori.

Sez. U, n. 9283/2017, Campanile, Rv. 643779-01, ha statuito che il regolamento preventivo di giurisdizione non può più proporsi dal momento in cui la causa sia stata trattenuta per la decisione di merito, segnando tale momento l’inizio dei poteri decisori del giudice, con apertura di una fase, inibita all’attività delle parti, che si conclude nella pubblicazione della sentenza e nella conseguente impossibilità che, dopo quel momento, il regolamento suddetto possa assolvere la sua funzione di favorire una sollecita definizione del processo. Ne consegue che il menzionato regolamento non è precluso dalla circostanza che la causa, precedentemente introitata per la decisione del merito, sia rimessa sul ruolo istruttorio per ulteriori adempimenti, venendo meno, in siffatta ipotesi, la stretta correlazione tra il trattenimento in decisione e la decisione stessa, e neppure quando la questione di giurisdizione sia stata delibata, in via incidentale, in un provvedimento privo di natura decisoria ed avente carattere meramente istruttorio.

Sez. 2, n. 1662/2017, Matera, Rv. 642477-01, ha chiarito che, nelle cause di competenza del tribunale in composizione collegiale, il giudice istruttore, invitate le parti a precisare le conclusioni innanzi a sé, non ha alcun obbligo di fissare un’ulteriore udienza davanti al collegio, dinnanzi al quale, tuttavia, ciascuna parte può chiedere, previa fissazione di udienza, la discussione orale, presentando un’istanza in tal senso, una prima volta, al momento della precisazione delle conclusioni e, una seconda, direttamente al presidente del tribunale, alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica.

Il principio di immutabilità del giudice, di cui all’art. 276 c.p.c., prevede che la decisione sia deliberata dai giudici che hanno assistito alla discussione, che non devono essere necessariamente gli stessi davanti ai quali la causa sia stata trattata nel corso di tutto il giudizio. In applicazione di tale principio, Sez. 6-5, n. 22238/2017, Solaini, Rv. 645997-01, ha ritenuto non nulla la sentenza dichiarativa dell’estinzione del giudizio emessa da un collegio differente da quello che aveva preventivamente disposto l’interruzione del processo.

Il modulo decisorio a trattazione mista, stabilito, per il procedimento di cognizione di primo grado, dall’art. 281 quinquies, comma 2, c.p.c., è stato esteso anche al giudizio di secondo grado, ancorché con una diversa articolazione endoprocedimentale, a seconda che il giudizio si svolga davanti al giudice monocratico (art. 352, comma 5, c.p.c.) o alla corte d’appello (art. 352, comma 2, c.p.c.), laddove la discussione orale − fissata per un’udienza stabilita con decreto presidenziale comunicato alle parti − segue alla concessione del termine sia per il deposito delle comparse conclusionali che per le repliche. In tale ultima ipotesi, nonostante la completezza delle difese scritte che caratterizzano l’assunzione del modello a trattazione mista davanti la corte suddetta, l’equipollenza tra i due moduli decisori e l’irrilevanza, ai fini dell’effettività del diritto di difesa, dell’omessa fissazione d’udienza, Sez. 1, n. 502/2017, Acierno, Rv. 643159-01, ha ritenuto che, una volta stabilita con decreto l’udienza di discussione, l’omesso avviso ad una delle parti costituisce un vulnus insanabile all’esercizio del diritto di difesa − in quanto produttivo di un’oggettiva alterazione della parità delle armi − con conseguente nullità della sentenza.

14. L’intervento di terzi.

La legittimazione ad intervenire volontariamente nel processo, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., presuppone la terzietà dell’interventore rispetto alle parti, formali e sostanziali, dello stesso; pertanto, il successore universale di una di esse che, per effetto della continuazione o della prosecuzione del processo, acquisti la qualità di parte non è legittimato a spiegare intervento volontario nel medesimo giudizio per far valere un diritto, connesso per l’oggetto o per il titolo con quello controverso, di cui sia titolare indipendentemente dalla successione, subentrando nella stessa posizione processuale del soggetto venuto meno e soggiacendo alle relative preclusioni. In applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 16665/2017, Spaziani, Rv. 644960-01, ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto ammissibile, perché spiegato nei termini previsti dall’art. 268 c.p.c., l’intervento litisconsortile con il quale i successori universali di una persona deceduta a causa delle lesioni riportate in seguito ad un incidente – già precedentemente costituitisi, iure hereditatis, in prosecuzione del giudizio risarcitorio iniziato dal dante causa – avevano domandato il risarcimento del danno iure proprio.

Sez. 3, n. 7407/2017, D’Arrigo, Rv. 643694-01, ha precisato che, nel caso di declaratoria d’inammissibilità per tardività dell’istanza di chiamata in causa in garanzia, a fronte di domanda risarcitoria, l’intervento adesivo dipendente del terzo non implica l’accettazione del contraddittorio rispetto alla domanda di manleva che non ha trovato ingresso nel processo.

15. La riunione dei procedimenti.

Per Sez. 6-3, n. 12441/2017, Scoditti, Rv. 644294-01, ove tra due procedimenti, pendenti dinanzi al medesimo ufficio o a sezioni diverse di quest’ultimo, esista un rapporto di identità o di connessione, il giudice del giudizio pregiudicato non può adottare un provvedimento di sospensione ex art. 295 c.p.c., ma deve rimettere gli atti al capo dell’ufficio, secondo le previsioni degli artt. 273 o 274 c.p.c., a meno che il diverso stato in cui si trovano i due procedimenti non ne precluda la riunione.

Il principio è stato affermato altresì da Sez. 6-3, n. 12436/2017, Olivieri, Rv. 644291-01, per la quale il giudice della causa pregiudicata non può sospenderla ex art. 295 c.p.c., ma deve rimetterla al presidente del tribunale ai sensi dell’art. 274 c.p.c., perché questi valuti l’opportunità di assegnarla al giudice della causa pregiudicante, a nulla rilevando che i due giudizi siano soggetti a riti diversi, soccorrendo, in tal caso, la regola dettata dall’art. 40 c.p.c.

Secondo Sez. 6-3, n. 25059/2017, Frasca, Rv. 646632-01, il rapporto tra la “materia” attribuita in primo grado alla sezione specializzata in materia di impresa istituita presso i Tribunali e in secondo grado alla sezione istituita presso le Corti di appello, da un lato, e le altre controversie attribuite al Tribunale o alla Corte di appello presso la quale la sezione è incardinata, dall’altro, non è riconducibile alla nozione di competenza, ma a quella di distribuzione degli affari all’interno dello stesso ufficio, sicché la sezione specializzata, qualora ravvisi un rapporto di identità tra una causa davanti ad essa introdotta ed una causa introdotta davanti al Tribunale in cui è incardinata, non può dichiarare la litispendenza, ma deve provvedere a norma dell’art. 273, comma 2, c.p.c. e, se la causa riguardo alla quale ravvisi il predetto rapporto di identità risulti cumulata ad altre inerenti le sue attribuzioni, a norma dell’art. 274, comma 2, c.p.c.; ne consegue che, in dette ipotesi, la decisione che pronuncia la litispendenza è impugnabile con il regolamento necessario e la S.C., ai sensi dell’art. 49, comma 2, c.p.c., nell’accogliere l’istanza di regolamento caducando la pronuncia, deve indicare tale modus procedendi al giudice di merito.

16. La condanna generica.

Per Sez. 3, n. 25113/2017, D’Arrigo, Rv. 646452-03, il convenuto non può opporsi ad una domanda di condanna generica, ma ha la facoltà di domandare in via riconvenzionale l’accertamento negativo della sussistenza del danno, con conseguente onere dell’attore, in tal caso, di dare piena prova dell’esistenza del danno e conseguente divieto per il giudice, ai sensi dell’art. 278 c.p.c., di rimettere la determinazione del quantum ad un separato giudizio.

Proposta una domanda di risarcimento del danno, il divieto di separazione del giudizio sull’an da quello sul quantum non opera se, alla richiesta avanzata dall’attore in tal senso, abbia prestato adesione il convenuto, sebbene non espressamente, purché in modo certo ed univoco, come si verifica quando non abbia sollevato alcuna eccezione al riguardo, anche se, ha precisato Sez. 1, n. 20894/2017, Nazzicone, Rv. 645397-01, ciò sia avvenuto nel momento in cui la controparte, nel precisare le conclusioni definitive, abbia limitato la propria domanda alla condanna generica, con riserva di richiedere il quantum in separato giudizio.

17. La correzione delle sentenze e delle ordinanze.

In tema di contenzioso tributario, il contrasto tra formulazione letterale del dispositivo e pronuncia adottata in motivazione che non incida sull’idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione, non integra un vizio attinente al contenuto concettuale e sostanziale della decisione, bensì un errore materiale emendabile con la procedura prevista dall’art. 287 c.p.c. (applicabile anche nel procedimento dinanzi alle commissioni tributarie), e non denunciabile con l’impugnazione della sentenza. In applicazione di tale principio, Sez. 6-5, n. 22433/2017, Conti, Rv. 646132-01, ha ritenuto che dalla lettura della motivazione della sentenza si evincessero le ragioni dell’accoglimento delle critiche esposte dell’appellante, costituendo, quindi, frutto univoco di errore materiale la statuizione di conferma della sentenza impugnata espressa in dispositivo).

L’omessa o inesatta indicazione del nome di una delle parti nell’intestazione della sentenza va considerata un mero errore materiale, emendabile con la procedura di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., quando dal contesto della sentenza risulti con sufficiente chiarezza l’esatta identità di tutte le parti; e comporta, viceversa, la nullità della sentenza qualora da essa si deduca che non si è regolarmente costituito il contraddittorio, ai sensi dell’art. 101 c.p.c., e quando sussiste una situazione di incertezza, non eliminabile a mezzo della lettura dell’intera sentenza, in ordine ai soggetti cui la decisione si riferisce. Sulla base di tale principio, Sez. 1, n. 22275/2017, Lamorgese, Rv. 645781-01, in riferimento a procedura promossa dal curatore del fallimento di società di persone, ha stabilito che, sebbene la dichiarazione di fallimento avesse riguardato anche il socio in proprio, che non risultava però indicato nell’intestazione della sentenza, non sussisteva alcuna situazione di incertezza, né un’ipotesi di violazione del contraddittorio, perché parte sostanziale del giudizio risultava essere il fallimento, che era stato parte del contratto oggetto di controversia.

Per Sez. 5, n. 21806/2017, Valitutti, Rv. 645625-01, la data di deliberazione della sentenza, a differenza della data di pubblicazione (che ne segna il momento di acquisto della rilevanza giuridica), non è un elemento essenziale dell’atto processuale, sicché tanto la sua mancanza, quanto la sua erronea indicazione, non integrano alcuna ipotesi di nullità, ma costituiscono fattispecie di mero errore materiale, come tale emendabile ex artt. 287 e 288 c.p.c.

Sez. 6-3, n. 12437/2017, Scrima, Rv. 644292-01, ha ribadito che, in caso di omessa pronuncia sull’istanza di distrazione delle spese proposta dal difensore, il rimedio esperibile, in assenza di un’espressa indicazione legislativa, è costituito dal procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., e non dagli ordinari mezzi di impugnazione, non potendo la richiesta di distrazione qualificarsi come domanda autonoma. La procedura di correzione, infatti, oltre ad essere in linea con il disposto dell’art. 93, comma 2, c.p.c. – che ad essa si richiama per l’ipotesi in cui la parte dimostri di aver soddisfatto il credito del difensore per onorari e spese –, consente il migliore rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, garantisce con maggiore rapidità lo scopo del difensore distrattario di ottenere un titolo esecutivo ed è un rimedio applicabile, ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c., anche nei confronti delle pronunce della Corte di cassazione.

17.1. Il regime giuridico delle ordinanze di correzione.

Per Sez. 3, n. 9363/2017, Barreca, Rv. 644004-01, nel procedimento di correzione di errore materiale di una sentenza di condanna non sono deducibili fatti estintivi del diritto sopravvenuti alla formazione del giudicato, i quali, se dedotti in tale sede ma non esaminati dal giudice, non sono coperti dal giudicato formatosi sulla sentenza così come risultante dalla correzione, potendo, pertanto, essere fatti valere con giudizio di opposizione all’esecuzione.

Sez. 6-1, n. 20691/2017, Valitutti, Rv. 645743-01, ha nuovamente affermato che l’impugnazione (principale o incidentale) della sentenza relativamente alla parte corretta in esito al procedimento di correzione di omissioni o errori materiali o di calcolo, che a norma dell’art. 288, comma 3, c.p.c., può essere proposta nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l’ordinanza di correzione, può avere ad oggetto solo la verifica della legittimità ed esattezza della disposta correzione e non anche il merito della sentenza impugnata. Per contro, l’impugnazione della sentenza oggetto di correzione relativa al merito della sentenza va proposta, a pena di inammissibilità, nel termine ordinario decorrente dalla data della sentenza stessa e non della correzione.

Si deve a Sez. 6-3, n. 10067/2017, Scoditti, Rv. 643831-01, il chiarimento secondo cui non può essere identificato un nuovo esercizio di potere giurisdizionale nella motivazione dell’ordinanza che rigetta l’istanza di correzione materiale, atteso che il principio secondo cui la portata precettiva del provvedimento va individuata tenendo conto anche delle enunciazioni della motivazione trova applicazione solo quando il dispositivo contenga comunque una statuizione positiva, e non quando si limiti al rigetto dell’istanza; in tal caso, infatti, il tenore della motivazione può valere unicamente ad integrare l’interesse ad agire per l’impugnazione della sentenza di cui si è chiesta invano la correzione, ricorrendone gli ulteriori presupposti, mentre resta esclusa l’applicabilità dell’art. 288, comma 4, c.p.c..

Avverso l’ordinanza che dispone la correzione di errore materiale, ai sensi dell’art. 288 c.p.c., è ammesso, secondo Sez. 1, n. 4610/2017, Falabella, Rv. 644312-01, il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., avente ad oggetto la statuizione di condanna di una delle parti al pagamento delle spese del procedimento di correzione, avendo detta statuizione non soltanto carattere decisorio, ma altresì definitivo, in quanto non impugnabile con il rimedio di cui all’ultimo comma del citato art. 288, preordinato esclusivamente al controllo della legittimità dell’uso del potere di correzione sotto il profilo della intangibilità del contenuto concettuale del provvedimento corretto.

Non si è, pertanto, al cospetto di un contrasto, allorquando Sez. 1, n. 608/2017, Ferro, Rv. 643345-01, ha affermato che il provvedimento di correzione di errore materiale, avendo natura ordinatoria, non è suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., neppure per violazione del contraddittorio, in quanto non realizza una statuizione sostitutiva di quella corretta e non ha, quindi, rispetto a quest’ultima, alcuna autonoma rilevanza, ripetendo, invece, da essa medesima la sua validità, così da non esprimere un suo proprio contenuto precettivo circa il regolamento degli interessi in contestazione: dall’art. 288, comma 4, c.p.c. è, infatti, espressamente prevista l’impugnabilità delle parti corrette, che costituisce rimedio diretto esclusivamente al controllo della legittimità della disposta correzione.

La notifica dell’istanza di correzione di errore materiale della sentenza è inidonea a far decorrere il termine breve ex art. 325 c.p.c., stante la natura amministrativa e non impugnatoria del procedimento di correzione, sicché, ha chiarito Sez. U, n. 5053/2017, Scarano, Rv. 643116-01, non può trovare applicazione il principio per il quale, ai fini della decorrenza del detto termine, la notifica dell’impugnazione equivale, sul piano della “conoscenza legale” da parte dell’impugnante, alla notificazione della sentenza impugnata.

17.2. L’integrazione dei provvedimenti istruttori.

Sez. 6-3, n. 15605/2017, Tatangelo, Rv. 644810-02, ha avuto il merito di precisare che, quando è stata proposta un’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., il giudice dell’esecuzione, con il provvedimento che sospende o chiude il processo, deve contestualmente fissare il termine per l’instaurazione della fase di merito del giudizio di opposizione (salvo che l’opponente stesso vi rinunzi) e, in mancanza, sarà possibile, per la parte interessata, chiedere l’integrazione del provvedimento ai sensi dell’art. 289 c.p.c., ovvero procedere direttamente all’instaurazione del suddetto giudizio di merito.

18. Le vicende anomale del processo: la sospensione.

Alla stregua di quanto sostenuto da Sez. 6-3, n. 26835/2017, Scrima, Rv. 647137-01, in tema di continenza di cause, le norme dettate dall’art. 39 c.p.c. non operano con riguardo alla situazione di pendenza di una causa in primo grado e dell’altra in appello, ma l’esigenza di coordinamento sottesa alla disciplina dell’art. 39, comma 2, dev’essere assicurata comunque ai sensi dell’art. 295 c.p.c., cioè per il tramite della sospensione della causa che avrebbe dovuto subire l’attrazione all’altra se avesse potuto operare detta disciplina, in attesa della definizione con sentenza passata in giudicato della causa che avrebbe esercitato l’attrazione.

Sez. 5, n. 21765/2017, Caiazzo, Rv. 645619-01, ha ribadito che la sospensione necessaria del processo, di cui all’art. 295 c.p.c., è applicabile anche al processo tributario, qualora risultino pendenti, davanti a giudici diversi, procedimenti legati tra loro da un rapporto di pregiudizialità, tale che la definizione dell’uno costituisca indispensabile presupposto logico-giuridico dell’altro, nel senso che l’accertamento dell’antecedente venga postulato con effetto di giudicato, in modo che possa astrattamente configurarsi l’ipotesi di conflitto di giudicati.

Ai fini della sospensione necessaria del processo, non è configurabile un rapporto di pregiudizialità necessaria tra cause pendenti fra soggetti diversi, seppur legate fra loro da pregiudizialità logica, in quanto la parte rimasta estranea ad uno di essi può sempre eccepire l’inopponibilità, nei propri confronti, della relativa decisione. In applicazione dell’enunciato principio, Sez. 6-2, n. 20072/2017, Scarpa, Rv. 645343-01, ha cassato l’ordinanza di sospensione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo per un credito a titolo di mediazione prestata dall’opposta, sulla base della ritenuta pregiudizialità della decisione di altra causa pendente tra la venditrice-opponente e l’acquirente dell’immobile ed avente ad oggetto il mancato avveramento di una condizione sospensiva del contratto di vendita.

18.1. La pregiudizialità penale.

Si inserisce nel solco di un orientamento ormai consolidato Sez. 1, n. 15470/2017, Genovese, Rv. 644464-01, secondo cui, in materia di rapporti tra giudizio civile e penale, l’art. 652 c.p.p., innovando rispetto alla disciplina di cui al previgente sistema, fondato sulla prevalenza del processo penale su quello civile, si ispira al principio della separatezza dei due giudizi, prevedendo che il giudizio civile di danno debba essere sospeso soltanto allorché l’azione civile, ex art. 75 c.p.p., sia stata proposta dopo la costituzione di parte civile in sede penale o dopo la sentenza penale di primo grado, in quanto esclusivamente in tali casi si verifica una concreta interferenza del giudicato penale nel giudizio civile di danno, che pertanto non può pervenire anticipatamente ad un esito potenzialmente difforme da quello penale in ordine alla sussistenza di uno o più dei comuni presupposti di fatto.

Inoltre, il giudizio civile di risarcimento del danno da fatto illecito è soggetto a sospensione necessaria per pregiudizialità penale, ai sensi dell’art. 295 c.p.c. ed in relazione all’art. 211 disp. att. c.p.p., solo quando tra i fatti costitutivi del diritto risarcitorio vi sia una fattispecie di reato ascritta al soggetto convenuto in giudizio, e non pure nel caso opposto in cui il giudizio penale riguardi una pretesa responsabilità dell’attore, sebbene in ordine a condotte collegate a tale fattispecie. Su tali basi, Sez. 6-3, n. 7617/2017, Frasca, Rv. 643820-01, ha accolto il regolamento di competenza proposto avverso l’ordinanza con cui – in un giudizio risarcitorio per fatti ascrivibili alle ipotesi delittuose di cui agli artt. 582, 585, 594 e 635 c.p., in ordine alle quali era già intervenuta sentenza di applicazione della pena su richiesta – era stata disposta la sospensione del processo, sul presupposto della pendenza di un duplice procedimento penale a carico dell’attore, sia per il delitto di calunnia, relativamente a quegli stessi fatti oggetto della pronuncia di patteggiamento, sia per altre ipotesi di reato asseritamente commesse in danno di uno dei convenuti e della di lui moglie.

In tema di rapporto tra giudizio civile e processo penale, il primo può essere sospeso, in base a quanto dispongono gli artt. 295 c.p.c., 654 c.p.p. e 211 disp. att. c.p.p., ove alla commissione del reato oggetto dell’imputazione penale una norma di diritto sostanziale ricolleghi un effetto sul diritto oggetto di giudizio nel processo civile, e sempre a condizione che la sentenza che sia per essere pronunciata nel processo penale possa esplicare nel caso concreto efficacia di giudicato nel processo civile. Pertanto, per rendere dipendente la decisione civile dalla definizione del giudizio penale, non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l’effetto giuridico dedotto nel processo civile sia collegato normativamente alla commissione del reato che è oggetto di imputazione nel giudizio penale. Così statuendo, Sez. 6-3, n. 6834/2017, Cirillo, Rv. 643415-01, ha annullato l’ordinanza di sospensione e disposto la prosecuzione del giudizio, avente ad oggetto domanda di risoluzione del contratto nei confronti di un convenuto, e di rilascio di un fondo nei confronti di altro, rilevando che solo riguardo a quest’ultima – in relazione ai fatti oggetto del coevo giudizio penale, concernente pretesa frode processuale per immutazione dello stato dei luoghi – poteva al più configurarsi un collegamento con il procedimento penale, così da potersi giustificare, previa separazione dei giudizi, la sospensione in parte qua del processo civile.

18.2. Alcune fattispecie.

In base alla regola generale di cui all’art. 295 c.p.c., nella formulazione introdotta dall’art. 33 della l. n. 353 del 1990, Sez. L, n. 11312/2017, Berrino, Rv. 644233-01, ha escluso che il giudizio di regresso instaurato dall’INAIL nei confronti del datore di lavoro, per il rimborso delle prestazioni economiche erogate al lavoratore infortunato, ex art. 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965, sia soggetto a sospensione necessaria in attesa dell’esito del processo penale pendente per gli stessi fatti; ove, poi, l’INAIL, eserciti la facoltà di costituirsi parte civile, ex art. 2 della l. n. 123 del 2007, poi sostituito dall’art. 61, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008, nel processo penale pendente contro il datore di lavoro per i medesimi fatti, la sospensione del giudizio civile è esclusa, ex art. 75, comma 2, c.p.p., in caso di proposizione dell’azione nella sede civile prima della sentenza penale di primo grado.

Parimenti, Sez. 2, n. 4672/2017, D’Ascola, Rv. 643364-02, ha escluso che tra il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per il pagamento di oneri condominiali e la controversia avente ad oggetto l’impugnazione della delibera assembleare posta a sostegno della ingiunzione sussista un rapporto di pregiudizialità necessaria, tale da giustificare la sospensione del procedimento di opposizione ex art. 295 c.p.c., tenuto conto, da un lato, che il diritto di credito del condominio alla corresponsione delle quote di spesa per il godimento delle cose e dei servizi comuni non sorge con la delibera assembleare che ne approva il riparto, ma inerisce alla gestione dei beni e servizi comuni, sicché l’eventuale venir meno della delibera per invalidità, se implica la perdita di efficacia del decreto ingiuntivo, non comporta anche l’insussistenza del diritto del condominio di pretendere la contribuzione alle spese per i beni e servizi comuni di fatto erogati e considerato, dall’altro, che l’eventuale contrasto tra giudicati che potrebbe, in ipotesi, verificarsi in seguito al rigetto della opposizione ed all’accoglimento della impugnativa della delibera, potrebbe essere superato in sede esecutiva, facendo valere la perdita di efficacia del decreto ingiuntivo come conseguenza della dichiarata invalidità della delibera.

Per Sez. L, n. 4442/2017, Patti, Rv. 643266-01, tra il giudizio sull’an debeatur e quello sul quantum, contemporaneamente pendenti davanti a due giudici diversi, sussiste un rapporto di pregiudizialità in senso logico, e non anche in senso tecnico-giuridico, sicché non ricorre un’ipotesi di sospensione necessaria, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., essendo eventualmente applicabile l’art. 337, comma 2, c.p.c., che, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di quest’ultimo, con esclusione del rischio di un conflitto di giudicati in quanto, giusta l’art. 336, comma 2, c.p.c., la riforma o la cassazione della sentenza sull’an debeatur determina l’automatica caducazione di quella sul quantum.

Come si è visto nell’analizzare la riunione dei procedimenti, ove tra due procedimenti, pendenti dinanzi al medesimo ufficio o a sezioni diverse di quest’ultimo, esista un rapporto di identità o di connessione, il giudice del giudizio pregiudicato non può adottare un provvedimento di sospensione ex art. 295 c.p.c., ma deve rimettere gli atti al capo dell’ufficio, secondo le previsioni degli artt. 273 o 274 c.p.c., a meno che il diverso stato in cui si trovano i due procedimenti non ne precluda la riunione (Sez. 6-3, n. 12441/2017, cit.).

Sez. 6-3, n. 14469/2017, Sestini, Rv. 644629-01, ha affermato l’importante principio secondo cui, in tema di sospensione del processo ex art. 295 c.p.c., se nel giudizio pregiudicato si pone una questione pregiudiziale di rito idonea alla sua definizione, il giudice dello stesso non può adottare il provvedimento di sospensione senza averla prima decisa, in quanto la sua eventuale fondatezza rende irrilevante il vincolo di pregiudizialità. In applicazione di tale principio, la S.C. ha accolto il regolamento di competenza contro una ordinanza, resa ex art. 295 c.p.c. dalla corte d’appello e fondata sulla pregiudizialità di una querela di falso proposta in via principale avverso la notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, nella quale era stato omesso il previo esame dell’eccezione, sollevata nel medesimo giudizio di gravame, di improcedibilità dello stesso per tardiva iscrizione a ruolo.

18.3. Il regime giuridico dell’ordinanza di sospensione.

Il termine per la riassunzione del processo a seguito della cessazione della causa di sospensione, costituita dall’esistenza di una controversia pregiudiziale, decorre solo in forza di una conoscenza legale del provvedimento finale, conseguita per effetto di un’attività svolta nel processo, della quale la parte sia destinataria o che essa stessa ponga in essere, che sia dunque normativamente idonea a determinare di per sé detta conoscenza, o tale, comunque, da farla considerare acquisita con effetti esterni rilevanti sul piano processuale. Nell’enunciare il detto principio, Sez. 1, n. 19936/2017, Nazzicone, Rv. 645201-01, ha cassato la sentenza con la quale la corte di appello aveva ritenuto che la cessazione della causa di sospensione fosse nota alla parte interessata posto che la controversia pregiudiziale pendeva tra le stesse parti e queste erano assistite dagli stessi difensori.

Secondo Sez. 6-1, n. 5645/2017, Cristiano, Rv. 643987-01, l’ordinanza con cui il giudice nega la sospensione del processo, sollecitata da una parte, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., non è impugnabile con il regolamento di competenza ai sensi dell’art. 42 dello stesso codice, essendo ciò escluso dalla formulazione letterale di quest’ultima norma, dalla ratio di essa (quella, cioè, di assicurare un controllo immediato sulla legittimità di un provvedimento idoneo ad incidere significativamente sui tempi di definizione del processo) e dall’impossibilità di accedere ad un’interpretazione analogica della norma, dato il suo carattere eccezionale.

19. L’interruzione del processo.

Il sequestro penale di prevenzione, ex art. 22 del d.lgs. n. 159 del 2011, delle quote del capitale di una società a responsabilità limitata, non determina un fenomeno successorio, né comporta il venir meno della personalità giuridica della compagine, ma solo una sostituzione nella titolarità dei poteri gestori e di godimento delle quote medesime. Su queste premesse Sez. 3, n. 14638/2017, De Stefano, Rv. 644648-01, ha affermato che la detta società rimane a pieno titolo parte del processo in corso, non essendo configurabile una ipotesi di interruzione del giudizio, né una necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli organi della procedura prevista dal d.lgs. citato.

Sez. 6-3, n. 14472/2017, De Stefano, Rv. 644630-01, ha ribadito che la morte o la perdita della capacità della parte costituita in giudizio, qualora sia dichiarata o notificata successivamente alla scadenza dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, non produce alcun effetto interruttivo, atteso che, nella disciplina introdotta dalla l. n. 353 del 1990, tale ipotesi è equiparabile a quella in cui l’evento si avveri o sia notificato dopo la chiusura della discussione davanti al collegio.

Viceversa, Sez. 6-3, n. 21002/2017, Scarano, Rv. 645479-01, ha confermato il principio consolidato a mente del quale la morte, nel corso del giudizio, dell’unico difensore della parte costituita, ancorché avvenuta nelle more della scadenza dei termini concessi ex art. 190 c.p.c., comporta automaticamente l’interruzione del processo, anche se il giudice e le altre parti non ne abbiano avuto conoscenza, e preclude ogni ulteriore attività processuale, con la conseguente nullità degli atti successivi e della sentenza eventualmente pronunciata, sicché l’irrituale prosecuzione del giudizio, nonostante il verificarsi dell’evento interruttivo, può essere dedotta e provata in sede di legittimità.

Alla stessa stregua, per Sez. 6-1, n. 5288/2017, Cristiano, Rv. 643975-01, l’art. 43, comma 3, l. fall. va interpretato nel senso che, intervenuto il fallimento, l’interruzione è sottratta all’ordinario regime dettato in materia dall’art. 300 c.p.c., nel senso, cioè, che è automatica e deve essere dichiarata dal giudice non appena sia venuto a conoscenza dall’evento, ma non anche nel senso che la parte non fallita sia tenuta alla riassunzione del processo nei confronti del curatore indipendentemente dal fatto che l’interruzione sia stata, o meno, dichiarata.

Sul tema, Sez. 1, n. 27829/2017, Genovese, Rv. 646188-01, ha, peraltro, precisato che la dichiarazione di fallimento di una delle parti che si sia verificata dopo la precisazione delle conclusioni e la rimessione della causa in decisione, è irrilevante ai fini dell’interruzione del processo, ferma restando l’inopponibilità al fallimento della decisione pronunciata nei confronti del fallito, derivante dalla perdita della sua legittimazione processuale, che si determina, ripetesi, automaticamente ai sensi dell’art. 43 l. fall. per effetto della sentenza di fallimento.

Sez. 3, n. 25823/2017, Frasca, Rv. 646460-01, ha chiarito che nel procedimento monitorio, ove la parte creditrice sia deceduta successivamente all’emissione del decreto, il suo difensore, in forza dell’ultrattività del mandato conferitogli con il ricorso, è legittimato a procedere alla notificazione del decreto ed a costituirsi nel giudizio di opposizione eventualmente promosso dall’ingiunto, nel corso del quale l’evento relativo alla parte costituita non assume rilevanza, ove non dichiarato dall’avvocato della stessa.

19.1. Gli effetti dell’interruzione.

Nel caso di evento con effetti interruttivi automatici il termine per la riassunzione del giudizio decorre dall’effettiva conoscenza dello stesso: ne deriva, sì come precisato da Sez. 3, n. 25831/2017, D’Arrigo, Rv. 646029-01, che, ove l’evento risulti dalla relata di notifica di un atto giudiziario, detto termine decorre non dalla data della relata, bensì da quella in cui l’atto è restituito dall’ufficiale giudiziario al notificante.

Nell’ipotesi di morte o perdita della capacità della parte costituita, la dichiarazione dell’evento interruttivo può essere validamente effettuata dal difensore della parte colpita dall’evento stesso al difensore della controparte, ai sensi del combinato disposto degli att. 170 e 300 c.p.c., ed il termine per la riassunzione decorre da tale data, nella quale si realizza la conoscenza legale dell’evento interruttivo, e non da quella della formale dichiarazione di interruzione del processo. In applicazione del principio, Sez. 6-3, n. 21375/2017, Tatangelo, Rv. 645921-01, ha confermato la sentenza impugnata che aveva dichiarato estinto il giudizio, per tardiva riassunzione, assumendo come dies a quo, ai fini della decorrenza del termine di cui all’art. 305 c.p.c., il momento nel quale l’evento, costituito dal fallimento della parte, era stato comunicato dal difensore della società fallita alla controparte mediante posta elettronica certificata.

Per Sez. 6-3, n. 13900/2017, Positano, Rv. 644392-01, la morte del procuratore produce, come si è visto, l’interruzione automatica del processo dal momento del suo verificarsi, indipendentemente dalla conoscenza che dell’evento abbiano le parti o il giudice, e la conoscenza legale del fatto interruttivo, intervenuta in altro processo, è idonea a far decorrere il termine per la riassunzione anche in relazione a distinti giudizi, pendenti tra le medesime parti, in cui la parte era patrocinata dallo stesso difensore colpito dal suddetto evento.

A Sez. 6-3, n. 21375/2017, Tatangelo, Rv. 645921-01, si deve il merito di aver chiarito che la comunicazione della dichiarazione dell’evento interruttivo del giudizio, effettuata mediante posta elettronica certificata dal difensore della parte interessata dallo stesso a quello della controparte, è equivalente, ai sensi dell’art. 48, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 82 del 2005, alla notificazione a mezzo posta ed è pertanto idonea, in mancanza di prova contraria, a dimostrare la conoscenza legale dell’evento da parte del destinatario.

Per effetto della riassunzione effettuata nei confronti degli eredi della parte defunta, con atto ad essi notificato impersonalmente ai sensi dell’art. 303 comma 2 c.p.c., ha evidenziato Sez. 3, n. 22797/2017, Travaglino, Rv. 645506-01, il processo prosegue non nei riguardi del gruppo degli eredi globalmente inteso, ma individualmente e personalmente nei confronti di ciascuno di essi, noto o ignoto, costituito o contumace, con la conseguenza che la causa deve essere decisa nel merito nei confronti di ciascuno di essi.

In proposito, Sez. 5, n. 8051/2017, Fasano, Rv. 643602-01, ha precisato che, in caso di interruzione del processo per morte della persona fisica, il ricorso per riassunzione ad opera della parte non colpita dall’evento interruttivo, notificato individualmente nei confronti dei chiamati all’eredità, è idoneo ad instaurare validamente il rapporto processuale tra notificante e destinatario della notifica se quest’ultimo rivesta la qualità di successore del de cuius, e non, ad esempio, allorquando il secondo abbia già rinunciato all’eredità al momento della proposizione dell’istanza di prosecuzione del giudizio.

Di importante rilievo pratico è il chiarimento offerto da Sez. 3, n. 9960/2017, Vincenti, Rv. 643858-01, secondo cui, nel caso di cumulo di cause scindibili, l’evento interruttivo riguardante il debitore principale non si propaga al debitore solidale in qualità di fideiussore, ed il giudice ha la facoltà, non l’obbligo, di separare le cause, sicché, ove non si avvalga di tale facoltà, una volta mancata la riassunzione nell’interesse della parte colpita dall’evento interruttivo e determinatasi l’estinzione (parziale) del giudizio nei confronti di quest’ultima, il processo deve continuare tra il fideiussore, che non ha alcun onere di provvedere alla riassunzione del giudizio, ed il creditore, non potendosi profilare l’estinzione anche di tale giudizio.

20. L’estinzione del processo.

Nell’ipotesi di rinuncia agli atti del giudizio effettuata prima della costituzione della controparte, il provvedimento dichiarativo dell’estinzione non deve statuire sulle spese processuali, che, ai sensi dell’art. 306, comma 4, c.p.c., vanno poste a carico del rinunciante solo ove la controparte, già costituita, abbia accettato la rinuncia, senza che, peraltro, assuma rilevanza la costituzione in causa all’esclusivo fine di ottenere il rimborso delle spese, in quanto è necessario che la parte che si oppone alla rinuncia vanti un interesse giuridicamente rilevante, ossia che possa ottenere dalla decisione sul merito un’utilità maggiore rispetto a quella derivante dall’estinzione. In applicazione di tale principio, Sez. 6-2, n. 23620/2017, Scarpa, Rv. 646792-01, ha annullato la decisione sulle spese resa in un procedimento di appello, agli atti del quale l’appellante aveva rinunciato prima della costituzione in giudizio delle altre parti, senza una valutazione, da parte del giudice di merito, su un interesse delle stesse alla prosecuzione del procedimento.

In tema di estinzione del processo, quando il giudice istruttore nel corso del giudizio a cognizione piena opera come giudice monocratico, il provvedimento con cui dichiara che il processo si è estinto non è soggetto a reclamo e, siccome determina la chiusura del processo in base alla decisione di una questione pregiudiziale attinente al processo, ha natura di sentenza, anche se emesso in forma di ordinanza, impugnabile con gli ordinari mezzi di impugnazione. Diversamente deve ritenersi, secondo quanto ribadito da Sez. 2, n. 27311/2017, Grasso Giuseppe, quando l’estinzione sia stata deliberata dal tribunale in composizione monocratica solo dopo che la causa, precisate le conclusioni, sia stata trattenuta in decisione, ai sensi dell’art. 189 c.p.c.: in tal caso, il giudice di appello, ove non la ritenga sussistente, non può rimettere la causa al giudice di primo grado − non ricorrendo l’ipotesi contemplata dall’art. 308, comma 2, c.p.c., richiamato dall’art. 354 comma 2, c.p.c. − ma deve trattenere la causa e deciderla nel merito.

Secondo Sez. 1, n. 21201/2017, Mercolino, Rv. 645843-01, l’estinzione del processo (sia stata o meno dichiarata dal giudice) elimina l’effetto permanente dell’interruzione della prescrizione prodotto dalla domanda giudiziale ai sensi dell’art. 2945, comma 2, c.c., ma non incide sull’effetto interruttivo istantaneo della medesima, comunque prodottosi, con la conseguenza che la prescrizione ricomincia a decorrere dalla data di detta domanda.

21. Il procedimento davanti al giudice di pace.

Nel procedimento davanti al giudice di pace, non è configurabile una distinzione tra udienza di prima comparizione e prima udienza di trattazione, pur essendo il rito caratterizzato dal regime di preclusioni tipico del procedimento davanti al tribunale.

Da ciò consegue che: 1) la produzione documentale, laddove non sia avvenuta nella prima udienza, rimane definitivamente preclusa, né il giudice di pace può restringere l’operatività di tale preclusione rinviando ad un’udienza successiva alla prima al fine di consentire la produzione non avvenuta tempestivamente, salvo che ricorra l’ipotesi di cui all’art. 320, comma 4, c.p.c., fattispecie peraltro non configurabile rispetto ad un presupposto di proponibilità della domanda, per il quale la documentazione deve essere prodotta già con l’atto introduttivo (Sez. 3, n. 19359/2017, Barreca, Rv. 645494-01); 2) le parti, all’udienza di cui all’art. 320 c.p.c., se possono ancora allegare fatti nuovi e proporre nuove domande od eccezioni, in considerazione del fatto che esse sono ammesse a costituirsi fino a detta udienza, dopo la prima udienza, in cui il giudice invita le parti a “precisare definitivamente i fatti”, non sono più abilitate a proporre nuove domande o eccezioni ed allegare a fondamento di esse nuovi fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi, né tale preclusione è disponibile dal giudice di pace mediante un rinvio della prima udienza, per consentire tali attività oramai precluse, né, parimenti, l’omissione, da parte del medesimo giudice, del formale invito impedisce la verificazione della preclusione (Sez. 2, n. 20840/2017, Orilia, Rv. 645421-01).

  • testimonianza
  • prova

CAPITOLO XXXVI

LE PROVE

(di Rosaria Giordano )

Sommario

1 Principio di non contestazione. - 2 Onere della prova. - 2.1 Controversie in tema di diritti reali. - 2.2 Controversie in materia negoziale. - 2.3 Controversie in tema di responsabilità. - 2.4 Controversie in materia di lavoro. - 3 Documenti. - 3.1 Riconoscimento, disconoscimento e verificazione della scrittura privata. - 3.2 Data certa della scrittura privata. - 3.3 Querela di falso. - 3.4 Riproduzioni meccaniche. - 3.5 Copie fotografiche di scritture. - 4 Confessione. - 5 Giuramento. - 6 Testimonianza. - 6.1 Limiti oggettivi di ammissibilità alla prova per testi. - 6.2 Assunzione della prova. - 7 Presunzioni. - 8 Libera valutazione delle prove e sindacato in sede di legittimità.

1. Principio di non contestazione.

La necessità di provare attiene ai soli fatti, tra quelli allegati in giudizio, controversi tra le parti, ovvero quelli, tenuto conto dell’attuale formulazione dell’art. 115, comma 2, c.p.c., non specificamente contestati dalle parti costituite.

Rispetto alla portata di tale previsione normativa, Sez. 6-2, n. 24052/2017, Scalisi, ha precisato che la stessa non ha introdotto una nuova ipotesi di prova legale, occorrendo in ogni caso una valutazione della “non contestazione”, la quale assurge a mezzo di prova solo se l’allegazione avversaria è specifica – mancando, altrimenti, coerenza logica con l’art. 115 c.p.c., giacché non si può specificamente contestare ciò che è genericamente dedotto – e se i fatti allegati dall’attore siano vicini o riferibili direttamente al convenuto (cd. principio di vicinanza della prova). In coerenza con tale generale assunto, Sez. 6-1, n. 19734/2017, Genovese, Rv. 645689-01, ha ritenuto che, in tema di verificazione del passivo, il principio di non contestazione, che pure ha rilievo rispetto alla disciplina previgente quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, non comporta l’automatica ammissione del credito allo stato passivo solo perché non sia stato contestato dal curatore (o dai creditori eventualmente presenti in sede di verifica), competendo al giudice delegato (ed al tribunale fallimentare) il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni in tema di verificazione dei fatti e delle prove.

Peraltro, ha rilevato Sez. 2, n. 22701/2017, Grasso Giuseppe, Rv. 645436-01, che il convenuto, ai sensi dell’art. 167, comma 1, c.p.c., deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata a una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, ivi inclusa l’interpretazione delle clausole contrattuali, sulla cui valenza deve tempestivamente, integralmente ed irretrattabilmente esprimersi, sicché, se nulla abbia eccepito in relazione al significato di una determinata clausola ovvero abbia concordato con la controparte sul suo significato, tale interpretazione deve considerarsi come pacifica, esonerando l’attore da qualsiasi prova al riguardo e rendendo inammissibile la contestazione successiva.

Tuttavia, resta fermo, come sottolineato da Sez. 3, n. 22055/2017, Sestini, Rv. 646016-01, che il principio di non contestazione non opera in difetto di specifica allegazione dei fatti che dovrebbero essere contestati, né tale specificità può essere desunta dall’esame dei documenti prodotti dalla parte, atteso che l’onere di contestazione deve essere correlato alle affermazioni presenti negli atti destinati a contenere le allegazioni delle parti, onde consentire alle stesse e al giudice di verificare immediatamente, sulla base delle contrapposte allegazioni e deduzioni, quali siano i fatti non contestati e quelli ancora controversi.

È stato anche chiarito, da parte di Sez. 6-3, n. 12840/2017, Cirillo F.M., Rv. 644383-01, che il motivo di ricorso per cassazione con il quale si intenda denunciare l’omessa considerazione, nella sentenza impugnata, della prova derivante dalla assenza di contestazioni della controparte su una determinata circostanza, deve indicare specificamente il contenuto della comparsa di risposta avversaria e degli ulteriori atti difensivi, evidenziando in modo puntuale la genericità o l’eventuale totale assenza di contestazioni sul punto.

2. Onere della prova.

L’art. 2697 c.c., in tema di riparto dell’onere probatorio tra le parti del giudizio, può assurgere a criterio di decisione dei fatti controversi. Invero, il divieto di non liquet posto in capo al giudice determina, in ogni sistema giuridico, l’esigenza di individuare una regola di giudizio che ripartisca il rischio dell’omessa prova tra le parti, affinché, nell’ipotesi in cui manchi, anche in via presuntiva, la dimostrazione dell’esistenza di un fatto idoneo a produrre determinate conseguenze giuridiche, la carenza di prova venga posta a carico della parte alla quale spettava l’onere di provare la sussistenza dello stesso.

La fondamentale importanza delle regole in materia di onere della prova è confermata dalla particolare attenzione riservata alla medesima, anche nel corso del 2017, dalla giurisprudenza di legittimità in diversi ambiti.

2.1. Controversie in tema di diritti reali.

Ha precisato Sez. 2, n. 1210/2017, Scarpa, Rv. 642466-01, che colui il quale agisca per ottenere il mero accertamento della proprietà o comproprietà di un bene, anche unicamente per eliminare uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto esercitato sullo stesso, è tenuto, al pari che per l’azione di rivendicazione ex art. 948 c.c., alla probatio diabolica della titolarità del proprio diritto, trattandosi di onere da assolvere ogni volta che sia proposta un’azione, inclusa quella di accertamento, che si fonda sul diritto di proprietà tutelato erga omnes.

Peraltro, Sez. 2, n. 472/2017, Scarpa, Rv. 642212-01, ha chiarito – premesso che l’azione negatoria servitutis, quella di rivendica e la confessoria servitutis si differenziano in quanto l’attore, con la prima, si propone quale proprietario e possessore del fondo, chiedendone il riconoscimento della libertà contro qualsiasi pretesa di terzi, con la seconda, si afferma proprietario della cosa di cui non ha il possesso, agendo contro chi la detiene per ottenerne, previo riconoscimento del suo diritto, la restituzione e con la terza, infine, dichiara di vantare sul fondo, che pretende servente, la titolarità di una servitù – che, sotto il profilo probatorio, nel primo caso egli deve dimostrare, con ogni mezzo ed anche in via presuntiva, di possedere il fondo in forza di un titolo valido; allorché, invece, agisca in rivendica, deve fornire la piena prova della proprietà, dimostrando il suo titolo di acquisto e quello dei suoi danti causa fino ad un acquisto a titolo originario; da ultimo, nell’ipotesi di confessoria servitutis, ha l’onere di provare l’esistenza della servitù che lo avvantaggia.

Sotto altro profilo, si è ritenuto, da parte di Sez. 2, n. 8511/2017, Scalisi, Rv. 643535-01, che, in tema di servitù prediali, il danno derivante dalla limitazione del relativo esercizio deve ritenersi in re ipsa, sicché non è necessaria la sua dimostrazione.

Quanto ai rapporti tra nudo proprietario ed usufruttuario si segnala, poi, Sez. 2, n. 14803/2017, Giusti, Rv. 644488-01, per la quale il nudo proprietario che chieda la decadenza dell’usufruttuario dal suo diritto in conseguenza dell’abuso fattone, ex art. 1015 c.c., consistente nella mancanza di ordinarie riparazioni che lasci perire i beni che ne formano oggetto, deve limitarsi a dimostrare la sussistenza di tale condizione al momento della proposizione della domanda, mentre grava sull’usufruttuario, che affermi che la mancanza di manutenzione preesisteva alla costituzione del suo diritto, l’onere di provare tale circostanza, trattandosi di un’eccezione diretta a paralizzare la pretesa fatta valere in giudizio.

Ha precisato Sez. 3, n. 14640/2017, Graziosi, Rv. 644649-01, che qualora si proponga una domanda avente come fatto costitutivo la detenzione della cosa da parte del convenuto, incombe sull’attore l’onere di provare la natura del potere fattuale esercitato dalla controparte, operando, in difetto, la presunzione di possesso sancita dall’art. 1141 c.c.

2.2. Controversie in materia negoziale.

Ha evidenziato Sez. 2, n. 24328/2017, Federico, Rv. 645796-01, che l’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo è tenuto, ex art. 2697, comma 1, c.c., a provare gli elementi costitutivi della domanda e, quindi, non solo la consegna, ma anche il titolo da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione.

In argomento, con riferimento ai rapporti bancari di conto corrente, si segnala, inoltre, Sez. 6-1, n. 24948/2017, Genovese, Rv. 64576-01, secondo cui, il correntista che agisca in giudizio per la ripetizione dell’indebito è tenuto a fornire la prova sia degli avvenuti pagamenti che della mancanza, rispetto ad essi, di una valida causa debendi, sicché il medesimo ha l’onere di documentare l’andamento del rapporto con la produzione di tutti gli estratti conto che evidenziano le singole rimesse suscettibili di ripetizione in quanto riferite a somme non dovute.

Per altro verso, ha chiarito Sez. 2, n. 5326/2017, Cosentino, Rv. 643061-01, che qualora l’azione di simulazione proposta dal creditore di una delle parti di un contratto di compravendita immobiliare si fondi su elementi presuntivi che, in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 2697 c.c., indichino il carattere fittizio dell’alienazione, l’acquirente ha l’onere di provare l’effettivo pagamento del prezzo, potendosi, in mancanza, trarre elementi di valutazione circa il carattere apparente del contratto, precisando che, tuttavia, tale onere probatorio non può ritenersi soddisfatto dalla dichiarazione relativa al versamento del prezzo contenuta nel rogito notarile, in quanto il creditore che agisce per far valere la simulazione è terzo rispetto ai soggetti contraenti.

Inoltre, Sez. 3, n. 3548/2017, Sestini, Rv. 642859-01, ha statuito che, in tema di locazione immobiliare, in caso di domanda di risoluzione ex art. 1578 c.c. grava sul conduttore, anche per ragioni di vicinanza della prova, l’onere di individuare e dimostrare l’esistenza del vizio che diminuisce in modo apprezzabile l’idoneità del bene all’uso pattuito, spettando, invece, al locatore convenuto provare, rispettivamente, che i vizi erano conosciuti o facilmente riconoscibili dal conduttore, laddove intenda paralizzare la domanda di risoluzione o di riduzione del corrispettivo, ovvero di averli senza colpa ignorati al momento della consegna, se intenda andare esente dal risarcimento dei danni derivanti dai vizi della cosa.

Nell’ambito dell’elaborazione relativa ai contratti tipici, Sez. 3, n. 249/2017, Sestini, Rv. 642353-01, ha chiarito che, nel contratto di trasporto di persone, il viaggiatore danneggiato ha l’onere di provare, oltre all’esistenza ed all’entità del danno, il nesso esistente tra il trasporto e l’evento dannoso, mentre incombe al vettore, al fine di liberarsi della presunzione di responsabilità posta a suo carico dall’art. 1681, comma 1, c.c., la prova che l’evento dannoso era imprevedibile e non evitabile usando la normale diligenza, ferma restando la possibilità che l’eventuale condotta colposa del danneggiato assuma rilievo ai sensi dell’art. 1227 c.c.

2.3. Controversie in tema di responsabilità.

Copiosa è, per altro verso, la giurisprudenza della Corte che ha svolto significative precisazioni sul riparto dell’onere probatorio nelle cause di responsabilità, contrattuale come extracontrattuale.

In particolare, Sez. 3, n. 18392/2017, Scoditti, Rv. 645164-01, ha precisato che, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della patologia (o l’insorgenza di una nuova malattia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza.

Sempre in tema di attività medico-chirurgica, ha osservato Sez. 3, n. 24074/2017, Olivieri, Rv. 645778-02, che la manifestazione del consenso informato alla prestazione sanitaria costituisce esercizio di un diritto soggettivo del paziente all’autodeterminazione, cui corrisponde, da parte del medico, l’obbligo di fornire informazioni dettagliate sull’intervento da eseguire, con la conseguenza che, in caso di contestazione del paziente, grava sul medico l’onere di provare il corretto adempimento dell’obbligo informativo preventivo, mentre, nel caso in cui tale prova non venga fornita, è necessario distinguere, ai fini della valutazione della fondatezza della domanda risarcitoria proposta dal paziente, l’ipotesi in cui il danno alla salute costituisca esito non attendibile della prestazione tecnica, se correttamente eseguita, da quella in cui, invece, il peggioramento della salute corrisponda ad un esito infausto prevedibile ex ante nonostante la corretta esecuzione della prestazione tecnico-sanitaria che si rendeva comunque necessaria, nel qual caso, ai fini dell’accertamento del danno, graverà sul paziente l’onere della prova, anche tramite presunzioni, che il danno alla salute è dipeso dal fatto che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento.

Per altro verso, ha sottolineato Sez. 3, n. 6488/2017, Barreca, Rv. 643410-01, che il creditore che voglia ottenere, oltre al rimborso delle spese sostenute, anche i danni derivanti dalla perdita di chance, ha l’onere di provare, benché solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta.

Quanto alla responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa, Sez. 6-3, n. 16637/2017, Rossetti, Rv. 644813-01, ribadito che l’esercente risponde dei danni derivanti dal suo svolgimento, a nulla valendo che il danneggiato sia un terzo piuttosto che un proprio incaricato e che i mezzi o le opere fonte di danno siano di proprietà di terzi, ha affermato che, per vincere la presunzione di colpa, posta a suo carico dall’art. 2050 c.c., non rileva, altresì, la semplice prova dell’imprevedibilità del danno, dovendosi, invece, dimostrare che esso non si sarebbe potuto evitare mediante l’adozione delle misure di prevenzione che le leggi dell’arte o la comune diligenza imponevano.

Nell’ambito delle decisioni circa il riparto degli oneri probatori in tema di responsabilità per le cose in custodia, si segnala Sez. 6-3, n. 18856/2017, Scarano, Rv. 645160-01, la quale, quanto alla responsabilità civile per danni ad immobili causati dall’invasione di acque piovane a seguito di allagamento della zona circostante, ha precisato che l’eccezionalità ed imprevedibilità delle precipitazioni atmosferiche può configurare il caso fortuito, idoneo ad escludere la responsabilità del custode delle strade adiacenti, solo quando costituiscano causa sopravvenuta autonomamente sufficiente a determinare l’evento, sicché il custode è tenuto a dimostrare, per superare la presunzione di colpa a proprio carico, di aver mantenuto la condotta diligente dovuta nel caso concreto, con particolare riferimento alla scrupolosa manutenzione e pulizia dei sistemi di deflusso delle acque meteoriche.

Con riferimento alla responsabilità per i danni causati da animali randagi, sull’assunto per il quale la stessa è disciplinata dalle regole generali di cui all’art. 2043 c.c. e non da quelle stabilite dall’art. 2052 c.c., Sez. 3, n. 18954/2017, Tatangelo, Rv. 645379-01, ha statuito che la stessa presuppone l’allegazione e la prova, da parte del danneggiato, di una concreta condotta colposa ascrivibile all’ente e della riconducibilità dell’evento dannoso, in base ai principi sulla causalità omissiva, al mancato adempimento di una condotta obbligatoria in concreto esigibile, mentre non può essere affermata in virtù della sola individuazione dell’ente al quale è affidato il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo, ovvero quello di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi.

Più in generale, Sez. 6-3, n. 3626/2017, Barreca, Rv. 642838-01, ha affermato che, in presenza di fatto illecito di cui siano coautori più persone, ove uno dei condebitori solidali agisca in regresso nei confronti degli altri, l’onere di provare le circostanze idonee a superare la presunzione del pari concorso di colpa, previsto per il caso di dubbio dall’art. 2055, comma 3, c.c., grava, rispettivamente, sull’attore che pretenda il rimborso di una somma superiore alla metà, o sul convenuto che contesti una richiesta pari alla metà, opponendo ad essa la propria totale assenza di colpa, ovvero il grado inferiore di questa.

2.4. Controversie in materia di lavoro.

Talune precisazioni sono intervenute con riguardo al contenzioso relativo ai licenziamenti.

In particolare, Sez. L, n. 2499/2017, Spena, Rv. 642871-01, ha precisato che, in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell’assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative.

Quanto al licenziamento individuale del dirigente di azienda, ha evidenziato Sez. L, n. 797/2017, Manna A., Rv. 642507-01, che, ove lo stesso sia basato su ragioni non oggettive attinenti ad esigenze di riorganizzazione aziendale, bensì concernenti la sua persona ed il suo contegno, postula quanto meno l’inadeguatezza del lavoratore rispetto all’incarico affidatogli o una violazione degli obblighi di correttezza e buona fede che presiedono lo svolgimento del rapporto, fermo restando, in ogni caso, che il relativo onere probatorio incombe sul datore di lavoro.

3. Documenti.

La S.C. è intervenuta, anche nel corso del 2017, per effettuare rilevanti precisazioni sia sulle complesse questioni afferenti il disconoscimento e la verificazione della scrittura privata, sia in ordine a talune problematiche concernenti il giudizio di falso.

3.1. Riconoscimento, disconoscimento e verificazione della scrittura privata.

Ha precisato Sez. 3, n. 22460/2017, Olivieri, Rv. 645771-01, che il riconoscimento della scrittura privata può essere anche implicito e può efficacemente essere compiuto in sede extragiudiziale, non essendo necessaria in tale sede la produzione del documento ad opera della controparte, atteso che detto riconoscimento, espresso o tacito, ove effettuato fuori dal processo, si inquadra nella fattispecie della dichiarazione confessoria stragiudiziale di cui all’art. 2735 c.c. ovvero della condotta concludente incompatibile con l’esercizio del disconoscimento in giudizio, sicché il sottoscrittore, il quale abbia, anche implicitamente, compiuto il riconoscimento in sede extragiudiziale, non può disconoscere la scrittura privata prodotta nel successivo giudizio e fatta valere contro di lui, ostando a tale possibilità i limiti imposti dall’art. 2732 c.c. alla revoca della confessione.

Quanto al riconoscimento in corso di causa, ha affermato Sez. 3, n. 22064/2017, Sestini, Rv. 645824-01, che, considerata la valenza generale dei criteri dettati dall’art. 215 c.p.c., deve aversi per riconosciuta la sottoscrizione non contestata per effetto della contumacia del convenuto e deve ritenersi che il tacito riconoscimento della sottoscrizione sia idoneo a fondare l’accertamento giudiziale della sottoscrizione di una scrittura contenente un atto soggetto a trascrizione, senza necessità di ulteriori accertamenti istruttori, in quanto superflui e contrari al principio di necessaria economia processuale.

Circa i termini entro i quali deve essere effettuato il disconoscimento della scrittura privata prodotta in giudizio, Sez. 3, n. 23669/2017, Scoditti, Rv. 645827-10, ha ritenuto che il convenuto contro il quale l’attore, in sede di costituzione in giudizio, abbia prodotto una scrittura privata, non è onerato di disconoscerla nel termine di venti giorni prima dell’udienza di comparizione, alla stessa stregua delle eccezioni non rilevabili d’ufficio, essendo sufficiente che il disconoscimento venga effettuato nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione.

Si segnala, per altro verso, Sez. 2, n. 24306/2017, Sabato, Rv. 645862-01, la quale ha precisato che, in tema di contratti per i quali sia richiesta, per legge o per volontà delle parti, la forma scritta ad probationem ovvero ad substantiam, colui che intenda avvalersi del documento in giudizio ha, ove la sottoscrizione non sia stata autenticata al momento dell’apposizione né riconosciuta, ancorché tacitamente, dalla controparte, l’onere di avviare, pur senza formule sacramentali, il procedimento di verificazione, producendo in giudizio il contratto in originale, non potendosi avvalere della prova testimoniale né di quella per presunzioni per dimostrare l’esistenza, il contenuto e la sottoscrizione del documento medesimo, salvo che ne abbia previamente dedotto e dimostrato la perdita incolpevole dell’originale.

Né, peraltro, ha chiarito Sez. 2, n. 4431/2017, Scarpa, Rv. 643051-01, quando, per l’esistenza di un determinato contratto, la legge richieda, a pena di nullità, la forma scritta, alla mancata produzione in giudizio del relativo documento può supplire il deposito di una scrittura contenente la confessione della controparte in ordine alla pregressa stipulazione del contratto de quo, nemmeno se da essa risulti che quella stipulazione fu fatta per iscritto.

3.2. Data certa della scrittura privata.

Ha precisato Sez. 6-1, n. 5346/2017, Scaldaferri, Rv. 643976-01, che, se la scrittura privata non autenticata forma un corpo unico con il foglio sul quale è impresso il timbro, la data risultante da quest’ultimo deve ritenersi data certa della scrittura, perché la timbratura eseguita in un pubblico ufficio deve considerarsi equivalente ad un’attestazione autentica che il documento è stato inviato nel medesimo giorno in cui essa è stata eseguita. Ne deriva, è stato altresì evidenziato, che grava sulla parte che contesti la certezza della data l’onere di provare la redazione del contenuto della scrittura in un momento diverso, bastando a tal fine la prova contraria e non occorrendo il ricorso alla querela di falso.

Su un piano generale, l’accertamento della data di una scrittura privata non autenticata e della sussistenza ed idoneità di fatti diversi da quelli specificamente indicati nell’art. 2704 c.c., ma equipollenti a questi ultimi, in quanto idonei a stabilire in modo egualmente certo l’anteriorità, o, eventualmente, la posteriorità, della formazione del documento, è compito esclusivo del giudice del merito, la cui valutazione non è sindacabile in sede di legittimità, se correttamente motivata, come evidenziato da Sez. 6-1, n. 4104/2017, Lamorgese, Rv. 643980-01.

3.3. Querela di falso.

L’elaborazione sulle complesse questioni processuali inerenti il giudizio di querela di falso ha interessato ampiamente, anche nel corso del 2017, la giurisprudenza della S.C.

In particolare, Sez. 3, n. 18757/2017, D’Arrigo, Rv. 645166-01, ha precisato, premesso che costituiscono atti pubblici, a norma dell’art. 2699 c.c., soltanto gli atti che i pubblici ufficiali formano nell’esercizio di pubbliche funzioni certificative delle quali siano investiti dalla legge, mentre esulano da tale nozione gli atti dei pubblici ufficiali che non siano espressione delle predette funzioni, ha evidenziato che non è proponibile querela di falso nei confronti della relazione di servizio redatta dai Carabinieri e dell’allegato rilevamento tecnico descrittivo, ove diretta avverso il contenuto informativo di quanto appreso o constatato dai verbalizzanti, atteso che tali atti, non essendo espressione di una funzione pubblica certificativa, godono di fede privilegiata relativamente alle sole circostanze certificate dai militari in relazione all’attività direttamente svolta (data di redazione dell’atto, nominativi dei verbalizzanti, ecc.), ma non anche relativamente alle informazioni in essi contenute.

Sempre in ordine alla delimitazione del concetto di atto pubblico, è intervenuta Sez. 6-2, n. 11375/2017, Scarpa, Rv. 644181-01, evidenziando che il verbale di un’assemblea condominiale, munito di sottoscrizione del presidente e del segretario, ha natura di scrittura privata, sicché il valore di prova legale è limitato alla provenienza delle dichiarazioni dai sottoscrittori e non si estende al contenuto della scrittura medesima, per impugnare la veridicità della quale non occorre la proposizione di querela di falso, potendosi far ricorso ad ogni mezzo di prova.

Peraltro, Sez. 2, n. 3990/2017, Cosentino, Rv. 643042-01, ha statuito che la querela di falso può avere ad oggetto anche una scrittura privata già disconosciuta ai sensi dell’art. 214 c.p.c., salvo, ove sia proposta in via incidentale, il potere del giudice di negare l’autorizzazione alla presentazione della stessa ex art. 222 c.p.c., evidenziando che, tuttavia, l’eventuale errore nella concessione di detta autorizzazione non determina l’inammissibilità della querela proposta, in quanto lo stesso potrebbe produrre effetti solo nel giudizio in cui è stata prodotta la scrittura ma non anche in quello di falso.

Inoltre, è stato affermato, da parte di Sez. 2, n. 24007/2017, Criscuolo, Rv. 645587-01, che la querela di falso, avendo lo scopo di privare il documento dell’efficacia probatoria qualificata che gli è attribuita dalla legge, può investire anche una sentenza, purché attenga alla parte in cui la stessa fa fede quale atto pubblico, ossia alla provenienza del documento dall’organo che l’ha sottoscritta, alla conformità al vero di quanto risulta dalla veste estrinseca del documento (data, sottoscrizione, composizione del collegio giudicante, ecc.) ed a ciò che il giudicante attesta essere avvenuto in sua presenza, mentre non è ammessa ove proposta nell’ambito del giudizio di impugnazione della sentenza della quale si adduce la falsità.

Peraltro, anche l’esistenza di copie autentiche di un atto pubblico tra loro difformi impone la proposizione della querela di falso contro quelle ritenute contraffatte, essendo questo lo strumento imprescindibile per neutralizzare il valore probatorio di tali documenti, come precisato da Sez. 3, n. 22469/2017, Frasca, Rv. 645505-02.

La medesima sentenza, oggetto di ulteriore massimazione, Sez. 3, n. 22469/2017, Frasca, Rv. 645505-01, ha chiarito, più in generale, che in un giudizio di querela di falso proposto contro una copia autentica di un atto pubblico rilasciata dallo stesso notaio che ha redatto l’originale, non è necessaria e funzionale per l’assolvimento dell’onere della prova della falsità, l’istanza di ordine di esibizione dell’originale, se il querelante abbia prodotto precedenti copie autentiche del medesimo atto, incombendo piuttosto sulla controparte l’onere di eccepire e dimostrare, producendo l’originale, che la copia impugnata di falso non è difforme da esso.

Diverse pronunce sono poi intervenute su problematiche inerenti la querela di falso proposta in via incidentale.

Si segnala, tra queste, Sez. 6-2, n. 20563/2017, Orilia, Rv. 645347-01, la quale ha precisato che la risposta affermativa all’interpello rivolto dal giudice alla parte, circa l’intenzione di avvalersi del documento contestato, è revocabile, poiché l’utilizzazione del documento resta nella disponibilità della parte che l’ha prodotto, la quale può, pertanto, dichiarare successivamente di non avvalersene, con la conseguente sopravvenuta carenza di interesse, in capo al querelante, a proseguire il giudizio sulla querela di falso.

Ai fini della liquidazione delle spese giudiziali, ha affermato Sez. 3, n. 15642/2017, Frasca, Rv. 644952/2017, che il valore della causa di falso proposta in via incidentale deve ritenersi indeterminabile, poiché connaturato sia allo scopo del giudizio (che è quello di eliminare la verità del documento, anche al di là dell’utilizzo nella controversia in cui la querela è incidentalmente insorta), sia alle possibili implicazioni, al di fuori del processo, dell’accertamento della falsità.

Peraltro, occorre tener presente, ha evidenziato Sez. 6-2, n. 7243/2017, Criscuolo, Rv. 643662-01, che la sentenza che decide la querela di falso incidentale è, di regola, definitiva, poiché conclude un procedimento autonomo che ha per oggetto l’accertamento della falsità di un atto avente fede privilegiata, fermo restando che detto principio deve essere bilanciato con quelli dell’apparenza e della tutela dell’affidamento delle parti, sicché la pronuncia va ritenuta non definitiva ove il tribunale la qualifichi espressamente tale, rimettendo la statuizione sulle spese all’esito del giudizio di merito, e la parte, sulla base della qualificazione formale del giudice, formuli riserva di impugnazione.

In ordine alla proposizione della querela di falso in appello ed al necessario intervento del P.M., ha chiarito Sez. 2, n. 22979/2017, Dongiacomo, Rv. 645572-01, che la corte, nel provvedere ai sensi dell’art. 355 c.p.c., non è tenuta a comunicare alcunché al P.M., il cui intervento nel giudizio di falso è necessario nella fase relativa all’accertamento del falso medesimo, ma non anche in quella preliminare, in cui si decide dell’ammissibilità dell’azione e della rilevanza del documento, poiché soltanto con l’effettiva promozione di accertamenti della falsificazione denunciata si coinvolge il generale interesse all’intangibilità della pubblica fede dell’atto, che l’organo requirente è chiamato a tutelare.

Si segnalano, per altro verso, precisazioni nella giurisprudenza della S.C. anche in ordine alla querela di falso proposta in via principale.

In particolare, Sez. 1, n. 19413/2017, Falabella, Rv. 645090-01, ha evidenziato che è legittimato a proporre querela di falso in via principale chiunque intenda conseguire una certezza, quanto alla falsità o genuinità di un documento, nei confronti di chi abbia inteso concretamente avvalersi di esso, sicché difetta l’interesse ad agire, con riferimento al tema della certezza dell’autenticità dello scritto, quando essa è già esistente, in quanto consacrata in un provvedimento giurisdizionale divenuto cosa giudicata.

Nel giudizio di cassazione, ove si adduca la falsità degli atti del procedimento di merito, ha chiarito Sez. 3, n. 10402/2017, D’Arrigo, Rv. 644013-01, che la querela di falso va proposta in via principale, atteso che l’impugnazione per revocazione ex art. 395, comma 1, n. 2, c.p.c. costituisce, una volta accertata la falsità dell’atto in questione, il solo mezzo per rescindere la sentenza fondata su atti dichiarati falsi, non potendosi dare luogo, nello stesso giudizio di cassazione, ad una mera declaratoria di “invalidità e/o nullità dei precedenti gradi di merito”, laddove la nozione di prova, dovendosi correlare al tipo di vizio di cui si dimostri che la sentenza è risultata essere affetta, può essere costituita anche dalla relata di notificazione di un atto processuale, allorché il vizio della sentenza derivi dalla violazione della norma sul procedimento che prevede la notificazione dell’atto.

3.4. Riproduzioni meccaniche.

Ha affermato Sez. 6-3, n. 5259/2017, Cirillo F.M., Rv. 643180-01, che la registrazione su nastro magnetico di una conversazione telefonica può costituire fonte di prova, ex art. 2712 c.c., se colui contro il quale la stessa è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta, né che abbia avuto il tenore risultante dal nastro, e purché almeno uno dei soggetti, tra cui la conversazione si svolge, sia parte in causa.

3.5. Copie fotografiche di scritture.

L’onere, stabilito dall’art. 2719 c.c., di disconoscere “espressamente” la copia fotostatica di una scrittura implica che il disconoscimento sia fatto in modo formale e specifico, con una dichiarazione che, in relazione ad uno o più determinati documenti prodotti in copia, contenga una non equivoca negazione della loro conformità all’originale, ma non impone anche la precisazione degli aspetti per i quali si assume tale difformità, come è stato chiarito da Sez. 1, n. 4912/2017, Scaldaferri, Rv. 644441-01.

Sotto altro profilo, ha affermato Sez. 6-3, n. 21003/2017, Tatangelo, n. 645480/01, che la produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia dell’atto processuale spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 149 c.p.c., richiesta dalla legge in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio, può avvenire anche mediante l’allegazione di fotocopie non autenticate, ove manchi contestazione in proposito, poiché la regola posta dall’art. 2719 c.c. trova applicazione generalizzata per tutti i documenti.

4. Confessione.

Alcune decisioni sono intervenute a precisare aspetti almeno in parte problematici in materia di confessione.

In particolare, per Sez. 6-1, n. 4860/2017, Acierno, Rv. 643656-01, poiché in tema di separazione personale dei coniugi le dichiarazioni rese da questi ultimi in sede di udienza presidenziale non hanno valore probatorio di confessione giudiziale, la loro omessa valutazione non integra il vizio di cui all’art. 112 c.p.c. in quanto elementi di fatto concorrenti alla complessiva valutazione finale da parte del giudice di merito.

È stato chiarito, poi, da Sez. L, n. 1320/2017, Manna A., Rv. 642521-01, che la deposizione de relato ex parte, con cui si riferiscano circostanze sfavorevoli alla parte medesima, ha la natura giuridica di prova testimoniale di una confessione stragiudiziale fatta a un terzo, se supportata dal relativo elemento soggettivo, in quanto tale liberamente apprezzabile dal giudice ai sensi dell’art. 2735, comma 1, secondo periodo, c.c., nonché sufficiente a fondare, anche in via esclusiva, il convincimento del giudice ed a suffragare altra testimonianza de relato.

Sotto altro profilo, ha precisato Sez. L, n. 2239/2017, Spena, Rv. 642870-01, che, in materia di retribuzione, il prospetto paga ha natura di confessione stragiudiziale, sicché, giusta gli artt. 2734 e 2735 c.c., ha piena efficacia di prova legale, vincolante quanto alle indicazioni ivi contenute, solo laddove queste siano chiare e non contraddittorie, mentre, qualora riporti altri fatti tendenti ad estinguere gli effetti dei credito del lavoratore riconosciuto nel documento (nella specie, l’indicazione di un controcredito del datore di lavoro per risarcimento del danno), esso è una fonte di prova soggetta alla libera valutazione del giudice, che dovrà estendersi al complesso dei fatti in esso esposti.

5. Giuramento.

Sez. 6-2, n. 11328/2017, Giusti, Rv. 644179-01, ha precisato che alla mancata prestazione del giuramento decisorio di cui all’art. 239 c.p.c. è legittimamente assimilabile l’ipotesi in cui il deferito presti il giuramento apportando modifiche alla formula ammessa dal giudice, tali da alterarne l’originaria sostanza.

6. Testimonianza.

6.1. Limiti oggettivi di ammissibilità alla prova per testi.

La S.C. è nuovamente intervenuta sulle non trascurabili questioni afferenti i limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale.

Sotto un primo e generale profilo, Sez. 1, n. 4601/2017, Falabella, Rv. 643881-01, ha affermato che i limiti legali di ammissibilità della prova orale non operano quando la stessa sia diretta non già a contestare il contenuto di un documento, ma a renderne esplicito il significato, evidenziando che, in particolare, il divieto dell’ammissione della prova testimoniale stabilito dall’art. 2722 c.c., in ordine ai patti aggiunti o contrari al contenuto negoziale di un documento, riguarda solo gli accordi diretti a modificare, ampliandolo o restringendolo, il contenuto del negozio, mentre non investe la prova diretta ad individuarne la reale portata attraverso l’accertamento degli elementi di fatto che determinarono il consenso dei contraenti.

In una fattispecie peculiare, Sez. 3, n. 7416/2017, Vivaldi, Rv. 643696-01, ha precisato che la prova per testimoni del pactum fiduciae è sottratta alle preclusioni stabilite dagli artt. 2721 e ss. c.c. soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, onde realizzare uno scopo ulteriore in rapporto a quello naturalmente inerente al tipo di contratto stipulato, senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento, mentre ove il patto si ponga in antitesi con quanto risulta dal contratto, la qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento.

6.2. Assunzione della prova.

Si segnala Sez. 2, n. 2132/2017, Scarpa, Rv. 642486-01, per la quale la parte rimasta contumace, dovendo accettare il processo nello stato in cui si trova nel momento in cui si costituisce, con tutte le preclusioni e decadenze già verificatesi, non può, ove la controparte, precedentemente alla sua tardiva costituzione, abbia rinunciato all’audizione dei testimoni e tale rinuncia sia stata, seppur implicitamente, autorizzata dal giudice istruttore, successivamente chiedere l’assunzione della prova, non avendo fatto esplicita e tempestiva dichiarazione di dissenso a detta rinuncia, ex art. 245, comma 2, c.p.c.

7. Presunzioni.

L’art. 2727 c.c. descrive le presunzioni come “le conseguenze che la legge o il giudice traggono da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, che costituisce il fatto primario controverso da provare in giudizio”. La prova critica o indiziaria è una prova in senso pieno e non un argomento di prova, poiché il fatto secondario deve essere dimostrato attraverso gli ordinari mezzi di prova e, soltanto in seguito, il giudice effettuerà un ragionamento mediante il quale potrà dichiarare l’esistenza o l’inesistenza del fatto primario e rilevante ai fini della decisione.

Sulle prove presuntive si segnala, in particolare, Sez. 3, n. 19485/2017, Frasca, Rv. 645496-01, secondo cui, posto che i limiti oggettivi di ammissibilità della prova per presunzioni sono dettati esclusivamente per la tutela di interessi privatistici e la loro inosservanza deve essere tempestivamente eccepita dalla parte interessata, la violazione commessa solo con la pronuncia della sentenza, nella quale il giudice espliciti il ragionamento presuntivo vietato, deve essere denunciata a pena di decadenza mediante l’impugnazione della stessa.

Ha inoltre precisato Sez. 6-5, n. 10973/2017, Manzon, Rv. 643968-01, che, in materia di prova presuntiva, compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo che i principi contenuti nell’art. 2729 c.c. siano applicati alla fattispecie concreta al fine della ascrivibilità di questa a quella astratta, evidenziando che, se è vero che è devoluta al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c. per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tuttavia, tale giudizio non può sottrarsi al controllo in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., se risulti che, violando i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice si sia limitato a negare valore indiziario a singoli elementi acquisiti in giudizio, senza accertarne l’effettiva rilevanza in una valutazione di sintesi.

8. Libera valutazione delle prove e sindacato in sede di legittimità.

Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove, salvo che non abbiano natura di prova legale, ha precisato Sez. 2, n. 11176/2017, Lombardo, Rv. 644208-01, che il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti.

Peraltro, ha sottolineato Sez. 3, n. 23940/2017, Olivieri, Rv. 645828-02, che il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non prefigura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., ma un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012.

In sostanza, ha osservato Sez. 3, n. 9356/2017, Rossetti, Rv. 644001-01, che in materia di ricorso per cassazione, mentre l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito – e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare – non è mai sindacabile in sede di legittimità, l’errore di percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c., per violazione dell’art. 115 del medesimo codice, norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte.

  • procedura civile

CAPITOLO XXXVII

LE IMPUGNAZIONI

(di Salvatore Saija )

Sommario

1 Le impugnazioni in generale. - 2 Appello. Le novità normative. Evoluzione applicativa. - 3 (segue) In generale. - 4 Cassazione. Le novità normative. Evoluzione applicativa. - 5 (segue) In generale. - 6 Revocazione. - 7 Le altre impugnazioni.

1. Le impugnazioni in generale.

Nel presente paragrafo, verranno riportate le più significative pronunce del 2017 con valenza generale per tutti i mezzi di impugnazione.

Riguardo ai poteri officiosi del giudice dell’impugnazione, Sez. 3, n. 923/2017, Vincenti, Rv. 642697-02, ha affermato che, riguardo alla nullità di protezione, il suo mancato rilievo da parte del giudice del merito integra omessa pronuncia nel solo caso in cui la questione sia stata specifico oggetto di una domanda o di una eccezione. Ne deriva che, in tal caso, tale nullità non può essere rilevata d’ufficio né in appello, né in cassazione, ostandovi il giudicato interno già formatosi.

Per quanto concerne la notificazione dell’impugnazione, in continuità con l’insegnamento di Sez. U, n. 14916/2016, Virgilio, Rv. 640603-01, è stato ribadito da Sez. 6-3, n. 2174/2017, Scoditti, Rv. 642740-01 che l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi − secondo il citato orientamento − consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa.

Pertanto, ha affermato Sez. U, n. 3702/2017, Manna A., Rv. 642537-02, la notifica dell’atto di appello eseguita mediante sua consegna al difensore domiciliatario, volontariamente cancellatosi dall’albo nelle more del decorso del termine di impugnazione e prima della notifica medesima, è nulla, giacché indirizzata ad un soggetto non più abilitato a riceverla, perché ormai privo di ius postulandi. Tale nullità, ove non sanata, retroattivamente, dalla costituzione spontanea dell’appellato o mediante il meccanismo di cui all’art. 291, comma 1, c.p.c., determina, altresì, la nullità del procedimento e della sentenza di appello, ma non anche il passaggio in giudicato della decisione di primo grado, giacché un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 301, comma 1, c.p.c. porta ad includere la cancellazione volontaria suddetta tra le cause di interruzione del processo, con la conseguenza che il termine di impugnazione non riprende a decorrere fino al relativo suo venir meno o fino alla sostituzione del menzionato difensore.

Sempre riguardo al luogo della notificazione ai fini dell’impugnazione, Sez. U, n. 3702/2017, Manna A., Rv. 642537-01, ha affermato che la notificazione dell’impugnazione alla parte presso il procuratore costituito equivale alla notificazione al procuratore stesso, nominativamente indicato, in quanto entrambe le forme assicurano la conoscenza della sentenza ad opera della parte per il tramite del proprio difensore.

Sez. T, n. 17309/2017, Picardi, Rv. 644903-01, ha ribadito che la notificazione di una impugnazione equivale alla notificazione della sentenza stessa ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare.

Con riferimento al c.d. domicilio digitale, corrispondente all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza, previsto dall’art. art. 16 sexies del d.l. n. 179 del 2012 (conv., con modif., dalla l. n. 221 del 2012), come modificato dal d.l. n. 90 del 2014 (conv., con modif., dalla l. n. 114 del 2014), Sez. 3, n. 17048/2017, D’Arrigo, Rv. 644961-01, ha affermato che in materia di notificazioni al difensore, non è più possibile procedere – ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934 – alle comunicazioni o alle notificazioni presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario ha omesso di eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra altresì la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario. Nello stesso senso, Sez. 6-3, n. 30139/2017, Vincenti, Rv. 647189-01.

Infine, Sez. L, n. 30698/2017, Riverso, Rv. 646512-01, ha ribadito che l’atto di impugnazione della sentenza, nel caso di morte della parte vittoriosa, deve essere rivolto e notificato agli eredi, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso è avvenuto, sia dalla eventuale ignoranza dell’evento, anche se incolpevole, da parte del soccombente; ove l’impugnazione sia proposta invece nei confronti del defunto, non può trovare applicazione la disciplina di cui all’art. 291 c.p.c.

In relazione allo ius postulandi, Sez. U, n. 26338/2017, D’Ascola, Rv. 645818-01, ha affermato che la procura speciale ad impugnare che, sebbene non congiunta materialmente all’atto, individui la pronuncia impugnata, sia fornita di data certa successiva e provenga in modo inequivoco dalla parte ricorrente, non è nulla, ma solo affetta da errore materiale, in quanto l’art. 83, comma 3, c.p.c., non può essere interpretato in modo formalistico, avuto riguardo al dovere del giudice, ex art. 182 c.p.c., di segnalare alle parti i vizi della procura affinché possano porvi rimedio e, più in generale, al diritto di accesso al giudice, sancito dall’art. 6, par. 1, della CEDU, che può essere limitato soltanto nella misura in cui ciò sia necessario per il perseguimento di uno scopo legittimo.

In tema di acquiescenza, Sez. 3, n. 12615/2017, De Stefano, Rv. 644402-01, ha affermato che essa costituisce atto dispositivo del potere di impugnare e, quindi, del diritto fatto valere in giudizio, sicché essa deve necessariamente riferirsi al soggetto che di quel diritto possa disporre, con la conseguenza che la relativa manifestazione di volontà deve essere ricostruita secondo le regole ermeneutiche sugli atti negoziali unilaterali. Pertanto, la erronea declaratoria della acquiescenza può essere censurata in sede di legittimità ai sensi degli artt. 1362 e ss. c.c.

Relativamente al termine per impugnare, Sez. 3, n. 2321/2017, Olivieri, Rv. 642713-01, ha affermato che la notificazione di una sentenza incompleta, perché priva di una o più pagine, non è idonea a far decorrere il c.d. termine breve, qualora il destinatario deduca e dimostri che, a causa della incompletezza, il suo diritto di difesa sia rimasto pregiudicato, non occorrendo, peraltro, proporre querela di falso avverso l’attestazione di conformità all’originale, apposta dal cancelliere del giudice a quo. La stessa sentenza ha poi precisato, Rv. 642713-02, che qualora il notificante voglia comunque avvalersi di detta notifica ai fini del decorso del termine cd. breve, deve provare che la copia della sentenza spedita per la notifica era completa e corredata di tutte le pagine che la componevano, essendo onerato della prova dei fatti costitutivi dell’eccezione di decadenza.

Sempre sul tema, Sez. L, n. 30873/2017, Blasutto, Rv. 646513-01, ha ribadito che l’omessa indicazione della data dell’eseguita notifica nella copia della sentenza consegnata al destinatario ai fini della relativa impugnazione comporta l’applicazione del termine “lungo” di cui all’art. 327 c.p.c. e non già di quello “breve” ex art. 326 c.p.c., in quanto la detta mancanza concreta una nullità insanabile, venendo ad ostacolare in maniera grave l’esercizio dei diritti del destinatario.

Ancora, per Sez. 6-3, n. 4374/2017, Scrima, Rv. 643126-01, la notificazione della sentenza eseguita alla controparte personalmente anziché al procuratore costituito è inidonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione, sia nei confronti del notificante che del destinatario, a meno che non si tratti di parte non costituita in giudizio.

Sez. T, n. 7257/2017, Filippini, Rv. 643312-01, ha poi ribadito che la notifica della sentenza presso il procuratore domiciliatario, effettuata in luogo diverso da quello indicato in sede di elezione di domicilio per effetto del trasferimento dello studio professionale, è comunque idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione, in quanto la variazione di indirizzo non incide sulla relazione dello studio con la parte interessata (regola affermata anche in relazione al giudizio tributario). Se invece detta notificazione venga comunque effettuata presso il domicilio non più attuale, per Sez. T, n. 14083/2017, Caiazzo, Rv. 644416-01, essa non ha alcun effetto giuridico, perché la parte notificante ha l’onere di effettuare apposite ricerche per individuare il luogo di notificazione, che consiste nello studio in cui è stato trasferito il domicilio reale del procuratore.

Sez. 6-L, n. 13825/2017, Pagetta, Rv. 644586-01, ha ribadito che la notifica della sentenza eseguita direttamente presso l’amministrazione statale parte in causa, anziché presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato del luogo in cui ha sede l’autorità giudiziaria che ha pronunciato la sentenza stessa, non è idonea a far decorrere il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c.

Sez. 1, n. 20625/2017, Falabella, Rv. 645225-02, ha ribadito che, ove la parte sia assistita da più difensori, la notificazione della sentenza ad uno soltanto è comunque idonea a far decorrere il termine breve per impugnare, anche se il destinatario della notifica non è il domiciliatario.

Di sicuro interesse è poi Sez. 6-3, n. 19714/2017, Scoditti, Rv. 645356-02, che ha affermato che, in caso di nullità della notificazione della sentenza ai fini della decorrenza del termine breve, essa è comunque suscettibile di sanatoria, sicché è onere dell’appellante – che abbia avuto notizia della stessa notificazione all’atto della costituzione in giudizio dell’appellato – sollevare la relativa eccezione nella prima difesa successiva.

Sez. 2, n. 21625/2017, Sabato, Rv. 645428-01, ha ribadito che, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare, la notificazione della sentenza non può essere sostituita da forme di conoscenza equipollenti, quali la conoscenza di fatto del provvedimento.

Nel caso in cui la notificazione della sentenza sia stata effettuata a mezzo PEC, Sez. 3, n. 21597/2017, Ambrosi, Rv. 645733-01, ha affermato che essa è idonea a far decorrere il termine breve per impugnare se il notificante provi di aver allegato e prodotto la copia cartacea del messaggio di trasmissione a mezzo PEC, le ricevute di accettazione e di avvenuta consegna e la relata di notificazione, sottoscritta digitalmente dal difensore, nonché la copia conforme della sentenza in documento informatico, previa estrazione dello stesso dal supporto analogico e attestazione di conformità ex art. 16-undecies del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 228 del 2012.

Tuttavia, Sez. 6-3, n. 28339/2017, Scrima, Rv. 647004-01, ha affermato che il deposito di documentazione concernente l’avvenuta notifica della sentenza effettuata alla controparte a mezzo PEC, ancorché non corredata dalla attestazione di conformità delle ricevute di avvenuta consegna e accettazione del messaggio, è comunque idonea a far decorrere il termine breve d’impugnazione nei confronti del destinatario qualora quest’ultimo non abbia sollevato alcuna obiezione o contestazione sulla regolarità di tale notifica.

Infine, Sez. 6-2, n. 27236/2017, Scarpa, Rv. 646948-01, ha affermato che il termine semestrale di cui al novellato art. 327 c.p.c. si applica ai soli giudizi instaurati in primo grado successivamente all’entrata in vigore della l. n. 69 del 2009, dovendo farsi riferimento, a tal fine, all’introduzione del giudizio di merito ed irrilevante essendo l’eventuale giudizio cautelare ante causam eventualmente svolto.

Riguardo alla legittimazione ad impugnare, Sez. 3, n. 9250/2017, Scarano, Rv. 643843-01, ha affermato che il successore a titolo particolare nel diritto controverso è legittimato ad impugnare la sentenza resa nei confronti del proprio dante causa allegando il titolo del subentro, sufficiente essendo darne indicazione nell’intestazione dell’impugnazione quando tale titolo sia di natura pubblica e sia quindi accertabile, ovvero sia rimasto del tutto incontestato o non idoneamente contestato dalla controparte.

Ha inoltre ribadito Sez. 6-1, n. 23439/2017, Mercolino, Rv. 645699-01, che il successore a titolo particolare nel diritto controverso può comunque intervenire nel giudizio di legittimità ove non si sia costituito il suo dante causa, altrimenti determinandosi una ingiustificata lesione del suo diritto di difesa.

Sez. T, n. 13584/2017, Stalla, Rv. 644356-01, ha poi ribadito che la legittimazione ad impugnare spetta solo a chi abbia assunto la veste di parte nel giudizio di merito, secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, a prescindere dalla correttezza e dalla corrispondenza della effettiva titolarità del rapporto sostanziale alle risultanze processuali.

Riguardo alla distrazione delle spese, Sez. 3, n. 13516/2017, D’Arrigo, Rv. 644633-01, ha affermato che la qualità di parte, ai fini dell’impugnazione, sussiste solo quando l’impugnazione riguarda la pronuncia di distrazione in sé considerata, con esclusione delle contestazioni relative all’ammontare delle spese.

Quanto invece alla legittimazione passiva, Sez. 6-T, n. 9225/2017, Mocci, Rv. 643794-01, ha stabilito che, poiché la rinunzia all’eredità è retroattiva, ai sensi dell’art. 521 c.c., l’impugnazione notificata al chiamato all’eredità che abbia rinunciato rende la stessa impugnazione inammissibile, per difetto di legitimatio ad causam.

Sul complementare profilo dell’interesse ad impugnare, Sez. 2, n. 101/2017, Manna F., Rv. 642185-01, ha stabilito che ove il giudice, definendo il giudizio con una pronuncia in rito di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione, oppure di incompetenza), abbia aggiunto nella decisione anche considerazioni o argomenti attinenti al merito, rese ad abundantiam, questa sono da considerare tamquam non essent, sicchè la parte soccombente non ha interesse a chiedere, con l’impugnazione, un sindacato su tale parte della motivazione.

Tuttavia, per Sez. 6-2, n. 30354/2017, Lombardo, Rv. 647172-01, non è applicabile nel caso, opposto, in cui il giudice di appello abbia rilevato l’inammissibilità dei motivi di gravame per difetto di specificità come espressione di mero obiter dictum, o di argomento ad abundantiam privo di effetti giuridici per il fatto di non aver precluso l’esame dei motivi nel merito e di non aver determinato alcuna influenza sul dispositivo della decisione, fondato su una diversa ratio decidendi (l’infondatezza nel merito dei motivi); in tal caso, è inammissibile per carenza di interesse il ricorso per cassazione col quale ci si dolga solo della ritenuta inammissibilità dei motivi di appello.

Sez. 2, n. 23531/2017, Sabato, Rv. 645738-01, ha ribadito che, qualora l’attore abbia proposto due domande in via subordinata, tra loro incompatibili, il rigetto di quella avanzata principaliter e l’accoglimento di quella subordinata non precludono alla parte di ripresentare nel giudizio di impugnazione la domanda principale.

Quanto alla decadenza dall’impugnazione, Sez. 3, n. 23968/2017, De Stefano, Rv. 645829-01, ha affermato che la notificazione dell’atto di impugnazione non andata a buon fine per trasferimento del destinatario, seguita da una comunicazione informale a mezzo posta elettronica da parte di soggetto non munito di mandato, è inesistente, sicché non giova al richiedente l’eventuale successiva costituzione del destinatario dell’atto, seppur effettuata al solo fine di eccepire l’inesistenza della notifica, giacché tale vizio non è suscettibile di sanatoria, con conseguente decadenza dall’impugnazione per carenza di notifica del suo atto introduttivo.

Circa l’individuazione del mezzo di impugnazione esperibile, Sez. L, n. 13381/2017, Spena, Rv. 644992-01, ha ribadito che occorre esclusivamente riferirsi alla qualificazione giuridica dell’azione effettuata dal giudice nel provvedimento impugnato, a prescindere dalla sua esattezza.

Quanto agli effetti della riforma o della cassazione della sentenza impugnata, Sez. 6-3, n. 1775/2017, Scrima, Rv. 642738-01, ha statuito che, allorché il giudice d’appello riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere ad una nuova regolamentazione delle spese processuali di primo grado, tenuto conto dell’esito complessivo della lite, in base al principio di cui all’art. 336 c.p.c., mentre, in caso di conferma, la decisione sulle spese può essere modificata solo nel caso in cui il relativo capo sia stato oggetto di specifica impugnazione.

In tema di cause scindibili e inscindibili, Sez. 3, n. 3129/2017, Frasca, Rv. 642724-01, ha affermato che la notifica dell’impugnazione a tutte le parti del precedente grado del giudizio, indipendentemente dal loro coinvolgimento nel giudizio di gravame ex artt. 331 o 332 c.p.c., determina il decorso del c.d. termine breve l’impugnazione incidentale per ciascuno dei destinatari, ex artt. 333 e 343, comma 1, c.p.c.

È stato poi ribadito da Sez. 6-T, n. 9773/2017, Iofrida, Rv. 643959-01, che in presenza di cause scindibili, la sentenza di primo grado, pur formalmente unica, ha in realtà deciso su distinti rapporti giuridici, con la conseguenza che, ove l’impugnazione sia proposta soltanto da (o nei confronti di) una o alcuna delle parti, il giudice deve ordinare la notificazione dell’impugnazione ex art. 332 c.p.c. ai fini della litis denuntiatio anche alle altre parti, per consentire loro di proporre eventualmente appello incidentale. L’omessa esecuzione della notificazione, pertanto, comporta soltanto la sospensione del processo fino a che non siano scaduti i termini per impugnare anche per le parti destinatarie dell’ordine ineseguito.

Infine, nel caso in cui un preteso responsabile di incidente stradale chiami in giudizio un terzo, indicandolo quale responsabile esclusivo, per Sez. 3, n. 25417/2017, Rossetti, Rv. 646454-01, tra le due cause si instaura un rapporto di litisconsorzio processuale, con la conseguenza che gli effetti dell’appello proposto da uno dei litisconsorti si estendono a tutte le altre parti.

Relativamente alle impugnazioni incidentali, Sez. U, n. 7074/2017, Frasca, Rv. 643334-02, ha affermato che, in virtù del principio di unità dell’impugnazione, il ricorso irritualmente proposto in forma autonoma da chi, ai sensi degli artt. 333 e 371 c.p.c., avrebbe potuto proporre soltanto impugnazione incidentale, può convertirsi in quest’ultima, a condizione che ne possieda i requisiti temporali e, quindi, solo se la notificazione non ecceda il termine di quaranta giorni dalla notificazione dell’impugnazione principale.

2. Appello. Le novità normative. Evoluzione applicativa.

Anche nel corso del 2017, si registrano importanti pronunce circa le novità introdotte all’istituto dell’appello dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni in l. 7 agosto 2012, n. 134.

Com’è noto, gli interventi legislativi sul procedimento in grado d’appello, dopo la riforma del 1950 (che segnò, sotto il profilo in esame, un passo indietro rispetto all’impostazione codicistica del 1940, determinando un ritorno verso l’appello quale novum judicium), volgono verso una tendenziale affermazione dell’appello come impugnazione vincolata, avente natura di revisio prioris istantiae. In questo solco si pone anche la cennata riforma, che, al dichiarato scopo di offrire una soluzione per lo smaltimento dell’arretrato che affligge le corti d’appello, ha riformulato gli artt. 342, comma 1, e 345, comma 3, c.p.c. e ha introdotto gli artt. 348-bis e 348 ter c.p.c., disposizioni tutte applicabili ai giudizi di secondo grado introdotti dal giorno 11 settembre 2012.

Tra le più significative decisioni al riguardo, va anzitutto segnalata, nell’alveo di Sez. U, n. 1914/2016, Di Iasi, Rv. 638368-01, la successiva Sez. 3, n. 2351/2017, Vincenti, Rv. 642719-01, ha individuato un ulteriore spazio per il ricorso straordinario, chiarendo che l’ordinanza di inammissibilità dell’appello resa ex art. 348 ter c.p.c. è ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., qualora essa sia stata emessa sul presupposto della tardività delle istanze istruttorie dedotte dall’appellante e il ricorrente lamenti l’erronea applicazione dell’art. 345, comma 3, c.p.c., atteso che tale supposto error in procedendo non potrebbe essere dedotto contro la sentenza di primo grado, ma unicamente contro la menzionata ordinanza, in caso contrario determinandosi la sostanziale insindacabilità della decisione che neghi alla parte la possibilità di potersi giovare dell’appello, seppur nei limiti del proposto gravame.

È stato poi specificato da Sez. 6-2, n. 3067/2017, Giusti, Rv. 642574-01, che il termine per il ricorso per cassazione di cui all’art. 348- ter c.p.c. è applicabile anche nell’ipotesi in cui sia ammessa l’impugnazione autonoma dell’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. per vizi suoi propri.

Ancora sul tema, Sez. 6-3, n. 12780/2017, Frasca, Rv. 644297-01, ha ribadito che quando l’ordinanza in discorso sia stata pronunciata in udienza, il termine per proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado, da identificare in quello “breve” di cui all’art. 325, comma 2, c.p.c., decorre dall’udienza stessa per le parti presenti, o che avrebbero dovuto esserlo, secondo la previsione di cui all’art. 176 c.p.c.

Sez. 3, n. 26303/2017, Scoditti, ha comunque precisato che la comunicazione dell’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. è idonea a far decorrere il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione solo quando permetta alla parte destinataria di conoscere la natura del provvedimento adottato (Nella specie, la S.C. ha ritenuto inidonea la comunicazione al difensore, tramite posta elettronica certificata, del solo esito della vicenda, avvenuta in termini di dichiarazione di inammissibilità del gravame senza alcun riferimento all’art. 348-bis c.p.c.).

Qualora poi l’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. assuma il carattere sostanziale di sentenza e sia quindi ricorribile per cassazione, secondo Sez. 3, n. 14622/2017, Frasca, Rv. 644646-01, essa può anche essere oggetto di revocazione, ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., nei termini previsti dall’art. 348-ter, comma 3, c.p.c. Costituisce esemplificazione della natura sostanziale di sentenza, assunta dall’ordinanza pur formalmente emessa ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., secondo Sez. 3, n. 15644/2017, D’Arrigo, Rv. 644750-01, l’ordinanza che proceda alla correzione della motivazione della sentenza di primo grado, sicché essa è direttamente ricorribile per cassazione.

Sez. 1, n. 5520/2017, Ferro, Rv. 644654-02, ha comunque escluso che la disciplina in tema di doppia conforme in facto, che ai sensi dell’art. 348-bis, comma 5, c.p.c., preclude la proponibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., sia applicabile al reclamo ex art. 18 l. fall., dovendo tenersi conto del peculiare effetto devolutivo che caratterizza detto giudizio di reclamo.

Peraltro, Sez. 6-3, n. 12440/2017, Scoditti, Rv. 644293-01, ha affermato che qualora con lo stesso ricorso siano impugnate sia la sentenza di primo grado che l’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c., le censure indirizzate contro detti provvedimenti devono essere trattate separatamente, salvo che il preteso errore li infici entrambi, occorrendo comunque individuare e illustrare tale identità, pena l’inammissibilità del ricorso per inidoneità al raggiungimento del suo scopo, che è quello della critica del provvedimento impugnato.

Ancora, Sez. 6-3, n. 20758/2017, De Stefano, Rv. 645477-01, ha affermato che ove l’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. sia stata emessa senza previamente sentire le parti, come disposto dall’art. 348 ter, comma 1, c.p.c., ciò costituisce vizio proprio dell’ordinanza di inammissibilità così resa, deducibile con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., dovendo anche escludersi che, in tal caso, debba valutarsi se da tale violazione sia derivato in concreto un effettivo pregiudizio al diritto di difesa delle parti.

3. (segue) In generale.

Sul piano generale, va in primo luogo segnalata Sez. 3, n. 2041/2017, Vincenti, Rv. 642710-01, che ha affermato che la notifica dell’atto di appello mancante di una o più pagine non determina l’inammissibilità dell’impugnazione, ma soltanto un vizio del procedimento notificatorio e a condizione che l’originale ritualmente depositato sia completo, sicché detto vizio può essere sanato ex tunc, mediante la rinnovazione della notifica, ovvero per effetto della costituzione dell’appellato.

Secondo Sez. 1, n. 279/2017, Falabella, Rv. 643246-01, ove il giudice d’appello abbia erroneamente disposto compiersi una determinata attività processuale, non può da ciò farsi derivare l’inammissibilità dell’appello, dovendo invece il giudice – in applicazione del principio del giusto processo e a tutela dell’affidamento della parte appellante – revocare l’ordine illegittimo ed emettere ordinanza conforme a diritto (nella specie, a fronte del mancato rispetto dei termini a comparire, era stato emesso l’ordine di notificare l’ordinanza di fissazione di nuova udienza, anziché di notificare nuovamente il gravame; la S.C. ha quindi stabilito che il giudice d’appello debba concedere all’appellante nuovo termine per la notifica dell’impugnazione).

Analogamente, Sez. T, n. 5161/2017, Locatelli, Rv. 643226-01, ha affermato che non può determinare l’inammissibilità dell’impugnazione la mancata ottemperanza all’ordine di integrazione del contraddittorio, emesso in difetto dei presupposti per la sua emanazione.

Sez. 2, n. 3527/2017, Giusti, Rv. 643035-01, ha affermato che ove l’appellante si sia costituito con il deposito di una copia dell’atto di citazione (cd. velina) in luogo dell’originale, senza che la copia contenga alcuna indicazione sull’avvenuta notifica, né ciò possa trarsi dall’atto prodotto dall’appellato, si determina l’improcedibilità del gravame ai sensi dell’art. 348, comma 1, c.p.c., qualora lo stesso appellante abbia depositato l’originale notificato oltre l’udienza di comparizione, senza richiedere la rimessione in termini.

Circa l’appellabilità di provvedimenti resi in primo grado, in tema di convalida di sfratto, Sez. 3, n. 14625/2017, D’Arrigo, Rv. 644647-01, ha affermato che l’emissione della relativa ordinanza, nonostante l’opposizione proposta dall’intimato, ha natura sostanziale di sentenza ed è quindi impugnabile con l’appello, proposto il quale il secondo giudice deve comunque decidere il merito della controversia, dovendo escludersi la rimessione al primo giudice.

Sez. 6-2, n. 19050/2017, Giusti, Rv. 645338-01, ha poi ribadito che l’unico rimedio impugnatorio ammesso per le sentenze emesse dal giudice di pace nell’ambito della sua giurisdizione equitativa necessaria e pubblicate dal 3 marzo 2006 è rappresentato dall’appello a motivi limitati, ex art. 339, comma 3, c.p.c., potendo esse impugnarsi direttamente per cassazione nel caso di accordo tra le parti, ovvero di pronuncia secondo equità adottata su concorde richiesta delle parti medesime, ex art. 114 c.p.c.

Ancora, Sez. 3, n. 21596/2017, Spaziani, Rv. 645853-01, ha ribadito che la costituzione dell’appellato nella fase relativa all’inibitoria, ex art. 351 c.p.c., non esplica effetti sulla seguente fase di merito, stante la natura autonoma del procedimento e considerando, tra l’altro, che l’automatica costituzione che così ne deriverebbe avrebbe quale conseguenza quella di anticipare il termine di proposizione dell’appello incidentale, rispetto a quello ordinariamente fissato dagli artt. 166 e 343 c.p.c.

Sul piano dell’interesse ad impugnare, Sez. 6-3, n. 2566/2017, Olivieri, Rv. 642742-01, ha ribadito che ove l’appellante si limiti a dedurre soltanto vizi di rito, ancorché con la prima pronuncia si sia deciso anche il merito in senso a lui sfavorevole, l’impugnazione è ammissibile nel solo caso in cui i vizi, se fondati, comportino la rimessione al primo giudice, nelle ipotesi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c. In caso contrario, ove l’appellante non censuri anche la statuizione di merito, l’appello va dichiarato inammissibile, anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione.

Nello stesso senso, Sez. 2, n. 9194/2017, Criscuolo, Rv. 645850-01, ha stabilito che, ove siano state proposte più domande, per alcune delle quali soltanto sia stata chiesta la decisione ai sensi dell’art. 186-quater c.p.c., la decisione del giudice così adottata per tutte le domande cumulativamente proposte, pur dichiarata illegittima dal giudice d’appello, non implica la rimessione al primo giudice, stante la tassatività delle cause di rimessione ex artt. 353 e 354 c.p.c., sicché il giudice d’appello deve conseguentemente decidere la controversia nel merito.

Sez. 6-3, n. 10678/2017, Dell’Utri, Rv. 644187-01, ha poi precisato che, ove il giudizio di convalida di sfratto si sia concluso con provvedimento di estinzione a seguito di concessione del c.d. termine di grazia, ex art. 55, comma 5, l. n. 392 del 1978, il giudice d’appello che ne accerti la nullità non può rimettere la causa al primo giudice, ex art. 354, comma 2, c.p.c., giacché detta norma si riferisce alle specifiche cause di estinzione per inattività delle parti, mentre l’ordinanza ex art. 55 cit. costituisce un provvedimento di merito, equiparabile ad una pronuncia di rigetto della domanda di risoluzione del contratto di locazione.

Qualora il giudice d’appello, rilevato il difetto di integrità del contraddittorio, rinvii la causa al primo giudice, ex art. 354, comma 1, c.p.c., secondo Sez. 6-2, n. 14495/2017, Scarpa, Rv. 644620-01, egli deve provvedere sulle spese di lite, condannando al loro pagamento la parte che ha dato causa alla nullità che ha determinato il rinvio.

Sul piano della legittimazione ad impugnare, Sez. 2, n. 20451/2017, Scalisi, Rv. 645104-01, ha precisato che una soccombenza soltanto teorica della parte (che, pur vittoriosa, non abbia visto l’integrale accoglimento delle sue tesi o eccezioni) non fa sorgere il suo interesse a ad appellare, sicché essa ha soltanto l’onere di manifestare in maniera esplicita e precisa la propria volontà di riproporre le domande ed eccezioni respinte o dichiarate assorbite nel giudizio di primo grado, al fine di superare la presunzione di rinuncia di cui all’art. 346 c.p.c.

Deve anche segnalarsi, sul tema, Sez. U, n. 11799/2017, Frasca, Rv. 644305-01, secondo cui qualora un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, comma 2, c.p.c. (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c.), né sufficiente la mera riproposizione, utilizzabile, invece, e da effettuarsi in modo espresso, ove quella eccezione non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure, chiarendosi, altresì, che, in tal caso, la mancanza di detta riproposizione rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di sua rilevazione è riservato solo alla parte, mentre, se competa anche al giudice, non ne impedisce a quest’ultimo l’esercizio ex art. 345, comma 2, c.p.c. Nello stesso senso, Sez. 6-3, n. 24658/2017, Rossetti, Rv. 645925-01.

In relazione al termine per impugnare, Sez. 6-2, n. 5840/2017, Giusti, Rv. 643261-01, ha affermato che nel procedimento sommario di cognizione, l’ordinanza di rigetto della domanda è, al pari di quella di accoglimento, appellabile ex art. 702-quater c.p.c., nel termine di trenta giorni decorrenti dalla data della sua notificazione ad istanza di parte ovvero, se anteriore, della sua comunicazione di cancelleria.

A tal riguardo, Sez. 3, n. 7401/2017, Scarano, Rv. 643833-01, ha precisato che, ai fini della decorrenza del termine di trenta giorni, previsto dall’art. 702-quater c.p.c., occorre che la comunicazione di cancelleria abbia ad oggetto il testo integrale della decisione, comprensivo del dispositivo e della motivazione. Sez. 2, n. 22674/2017, Scarpa, Rv. 645434-01, ha poi aggiunto che ciò vale anche nel caso in cui detta comunicazione telematica sia priva della firma digitale del cancelliere, ove vi sia certezza che il provvedimento sia stato portato a compiuta conoscenza delle parti e sia altresì certa la data di tale conoscenza.

Quanto al rito del lavoro, Sez. L, n. 12373/2017, Doronzo, Rv. 644344-01, ha affermato che la notificazione del solo dispositivo della sentenza di primo grado non determina il decorso del termine breve per impugnare, salva la particolare ipotesi di cui all’art. 433, comma 2, c.p.c.

Ove poi l’appellante abbia proposto il gravame con ricorso, anziché con atto di citazione, Sez. 2, n. 12413/2017, Picaroni, Rv. 644082-01, ha ribadito che l’appello deve considerarsi tempestivo qualora il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza siano notificati entro il termine di impugnazione; né l’appellante può dolersi, ove ciò sia reso impossibile dalla circostanza che il decreto sia stato emesso dopo la scadenza, ai fini di una eventuale rimessione in termini, trattandosi di errore a lui stesso imputabile.

Sempre sul tema, Sez. L, n. 23052/2017, Riverso, Rv. 646089-01, ha precisato che l’individuazione del rito applicabile in appello e il conseguente giudizio sulla tempestività dell’appello stesso deriva dal rito concretamente applicato, anche erroneamente, in primo grado, per il principio dell’ultrattività del rito.

Sull’appello incidentale, deve segnalarsi Sez. 6-3, n. 3081/2017, Barreca, Rv. 642747-01, che ha ribadito che, nel caso in cui il giudice d’appello si sia avvalso della facoltà di differire d’ufficio la prima udienza ai sensi dell’art. 168-bis, comma 5, c.p.c., il termine di cui all’art. 343, comma 1, c.p.c., per la proposizione dell’impugnazione va computato avuto riguardo all’udienza così differita, e non già a quella originariamente indicata nell’atto di citazione.

Riguardo all’onere di specificità dei motivi d’appello, sancito dall’art. 342 c.p.c., Sez. 1, n. 21566/2017, Mercolino, Rv. 645411-01, ha affermato che la specificità esige che le argomentazioni svolte nell’appello siano contrapposte a quelle contenute nella sentenza impugnata e siano destinate ad incrinarle.

Sez. 3, n. 13151/2017, Barreca, Rv. 644405-02, ha affermato che, qualora venga impugnato il capo di decisione concernente la condanna al pagamento delle spese in applicazione del principio della soccombenza, l’appellante non può limitarsi a dedurne l’ingiustizia, ma deve anche specificare le circostanze, costituenti gravi ed eccezionali ragioni, per le quali il primo giudice, secondo l’appellante, avrebbe potuto disporre la compensazione, ex art. 92, comma 2, c.p.c.

Sez. 6-1, n. 6529/2017, Genovese, Rv. 644598-01, ha ribadito che, nel caso di omessa pronuncia su una domanda (o su un punto di essa) da parte del primo giudice, l’appellante può limitarsi a dedurre la mera omessa pronuncia, così investendo il giudice d’appello del potere di decidere sulla relativa domanda, il che risponde anche ad esigenze di economia processuale; infatti, ove il giudice d’appello pronunciasse l’inammissibilità del gravame per difetto di specificità, non si formerebbe al riguardo alcun giudicato e l’appellante potrebbe riproporre ex novo la domanda in primo grado.

Per il caso in cui l’omessa pronuncia derivi dall’assorbimento, per Sez. 2, n. 17749/2017, Varrone, Rv. 644986-01, l’appellante non ha l’onere di formulare uno specifico motivo di gravame della questione assorbita, essendo sufficiente la mera riproposizione della domanda, ex art. 346 c.p.c.

Qualora l’appello sia stato rigettato per la mancata riproposizione, nelle conclusioni del giudizio di primo grado, delle istanze istruttorie disattese, e la questione sia stata rilevata d’ufficio senza essere sottoposta alle parti, per Sez. 3, n. 2340/2017, Scarano, Rv. 642716-01, si è in presenza di sentenza affetta da nullità (perché “della terza via”, o “a sorpresa”) per violazione del diritto di difesa, sicché la deduzione del relativo vizio col ricorso per cassazione determina la cassazione della sentenza con rinvio, affinché in tale sede sia dato spazio alle attività processuali omesse.

Non costituisce, invece, sentenza “a sorpresa”, per Sez. 2, n. 24312/2017, Sabato, Rv. 645795-01, la decisione del giudice d’appello di dichiarare d’ufficio l’improcedibilità del gravame per tardiva costituzione dell’appellante, trattandosi di questione di diritto, sulla quale le parti hanno ogni più ampia facoltà di esercitare ex ante il contraddittorio.

In relazione alla nuova formulazione dell’art. 342 c.p.c., Sez. 6-2, n. 21336/2017, Criscuolo, Rv. 645703-01, ha affermato che la proposizione dell’appello non richiede forme determinate, ma impone all’appellante di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame agli specifici capi della sentenza impugnata, nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal giudice di prime cure, in modo da esplicitare l’idoneità delle censure a determinare le auspicate modifiche alla decisione appellata. Nello stesso senso, va segnalata anche Sez. 3, n. 10916/2017, Rossetti, Rv. 644015-01, secondo cui non occorre svolgere un “progetto alternativo di sentenza”, né tantomeno trascrivere integralmente o parzialmente la sentenza appellata. Deve peraltro evidenziarsi che, con ordinanza interlocutoria Sez. 3, n. 8845/2017, De Stefano, non massimata, la questione, ritenuta di massima di particolare importanza, è stata rimessa al Primo Presidente per valutare l’assegnazione alle Sez. U.

Peraltro, con specifico riferimento al rito del lavoro (ma con decisione tendenzialmente avente valenza generale), va segnalata la recentissima Sez. U, n. 27199/2017, Cirillo F.M., Rv. 645911-01, secondo cui gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative F.M., Rv doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata.

Quanto ai poteri del giudice d’appello, Sez. 1, n. 500/2017, Acierno, Rv. 643025-01, ha affermato che, qualora la sentenza appellata abbia disposto la condanna al pagamento di somma di denaro, oltre rivalutazione ed interessi, e l’appellante – sebbene abbia investito col gravame la sentenza nella sua interezza – abbia specificamente impugnato soltanto i capi di sentenza concernenti il debito, senza dolersi neanche subordinatamente di quelli sugli accessori del credito, al giudice d’appello è preclusa ogni valutazione sul punto (nel caso i motivi proposti siano infondati), essendovi stata acquiescenza dell’appellante. Nello stesso senso, Sez. 2, n. 13780/2017, Proto, Rv. 644470-01.

Sez. 6-3, n. 12843/2017, Cirillo F.M., 644384-01, ha affermato che il giudice d’appello non può procedere ad una nuova qualificazione della domanda, diversa da quella operata dal primo giudice, ove questa non sia stata impugnata, stante la preclusione del giudicato sul punto.

Sul piano del procedimento decisorio, va segnalata Sez. 1, n. 502/2017, Acierno, Rv. 643159-01, che ha affermato che una volta esteso al giudizio di secondo grado il modulo decisorio a trattazione mista, ancorché in via diversificata, a seconda che si svolga dinanzi al giudice monocratico (art. 352, comma 5, c.p.c.), ovvero collegiale (art. 352, comma 2, c.p.c.), e ancorché in tal caso la fissazione dell’udienza di discussione comporti la concessione dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, con conseguente tendenziale completezza delle difese scritte, l’omessa comunicazione ad una delle parti del decreto con cui si fissa l’udienza di discussione comporta la nullità della sentenza, perché costituisce un vulnus insanabile all’esercizio del diritto di difesa, in quanto produttivo di un’oggettiva alterazione della parità delle armi.

Ancora, Sez. L, n. 8604/2017, Cinque, Rv. 643897-01, ha ribadito che, pur essendo l’appello limitato alle sole questioni oggetto di gravame, non viola il tradizionale principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di secondo grado che decida la controversia sulla base di ragioni diverse da quelle prospettate dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esaminando questioni da lui non proposte, purché esse siano implicitamente e direttamente connesse con i punti censurati della sentenza impugnata.

Diverse pronunce hanno poi interessato il tema della scindibilità o inscindibilità di cause.

Per il caso di chiamata in garanzia cd. impropria, in continuità con Sez. U, n. 7700/2016, Frasca, Rv. 639281-01, è stato ribadito da Sez. 6-2, n. 832/2017, D’Ascola, Rv. 642557-01, che in caso di rigetto della domanda principale e conseguente omessa pronuncia sulla domanda di garanzia condizionata all’accoglimento, la devoluzione di quest’ultima al giudice investito dell’appello sulla domanda principale non richiede la proposizione di appello incidentale, essendo sufficiente la riproposizione della domanda ai sensi dell’art. 346 c.p.c.

Ancora sulla chiamata in garanzia, Sez. 6-3, n. 21098/2017, Dell’Utri, Rv. 645483-01, ha ribadito che l’impugnazione del terzo chiamato avente ad oggetto il rapporto principale giova anche al soggetto garantito, senza necessità di una sua impugnazione incidentale, dovendo ravvisarsi un’ipotesi di litisconsorzio necessario processuale. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 25822/2017, Frasca, Rv. 646026-01, con la conseguenza che l’attore che impugna la sentenza a sé sfavorevole è tenuto ad evocare in giudizio anche il garante.

Ove la parte abbia proposto, nello stesso giudizio, due o più domande alternative, ma tra loro compatibili, ovvero in via subordinata, per Sez. 3, n. 8674/2017, Barreca, Rv. 643705-01, l’attore appellato – vittorioso sulla domanda principale o su quella alternativa compatibile – non ha l’onere di proporre appello incidentale ove voglia insistere anche sulle altre, essendo sufficiente la riproposizione mera, ex art. 346 c.p.c., ma deve invece proporre appello incidentale, qualora si tratti di domande incompatibili, o sia stata accolta la subordinata.

Infine, numerose pronunce hanno riguardato il tema dei nova in appello.

Così, Sez. 2, n. 659/2017, Scarpa, Rv. 642216-01, ha affermato che, proposta in primo grado domanda di accertamento dell’avvenuto trasferimento della proprietà di un immobile, non costituisce domanda nuova quella, proposta in appello, tendente ad ottenere una pronuncia ex art. 2932 c.c., giacché inerente alla medesima vicenda sostanziale dedotta in lite e non tale, pertanto, da determinare una compromissione delle potenzialità difensive della controparte, né l’allungamento dei tempi processuali.

Del pari, Sez. 6-2, n. 7743/2017, Scarpa, Rv. 643664-01, ha affermato che non costituisce domanda nuova la prospettazione, in appello, di una qualificazione giuridica della proprietà in termini di condominio edilizio, anziché di comunione ordinaria, ove la prospettazione si fondi sui medesimi fatti.

Sempre sul tema dei nova, deve poi segnalarsi Sez. U, n. 10790/2017, Manna A., Rv. 643939-01, che ha affermato che costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345, comma 3, c.p.c., nel testo previgente rispetto alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, quella che è di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia impugnata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado.

Ancora nel senso contrario, nel solco della più recente giurisprudenza, s’era espressa la precedente Sez. 6-2, n. 3654/2017, Criscuolo, Rv. 642578-01, mentre Sez. 1, n. 24164/2017, Di Virgilio, Rv. 645542-02, s’è allineata al pronunciamento delle Sez. U.

Con riferimento al nuovo testo dell’art. 345, comma 3, c.p.c., Sez. 2, n. 6590/2017, Oricchio, Rv. 643372-01, ha affermato che la modifica in senso restrittivo riguardo alla produzione documentale, in assenza di specifiche disposizioni transitorie, trova applicazione solo se la sentenza di primo grado sia stata pubblicata dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, e quindi dal giorno 11 settembre 2012.

Sempre riguardo al testo novellato, Sez. 3, n. 26522/2017, D’Arrigo, Rv. 646466-01, ha affermato che la norma pone il divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, senza che assuma alcuna rilevanza l’“indispensabilità” degli stessi, ferma la possibilità, per la parte, di dimostrare di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa non imputabile.

In tema di opposizione a decreto ingiuntivo, Sez. 2, n. 8693/2017, Falaschi, Rv. 643542-01, ha ribadito che l’art. 345, comma 3, c.p.c., va interpretato nel senso che i documenti prodotti in sede monitoria e rimasti a disposizione della controparte, seppur non versati in atti in primo grado, rimangono tuttavia nella sfera di cognizione del giudice dell’opposizione, in forza del principio “di non dispersione della prova” ormai acquisita al processo; ne deriva che essi, ove prodotti in appello, non possono considerarsi nuovi, sicché la loro produzione è pienamente ammissibile.

Riguardo alle eccezioni, Sez. 1, n. 7107/2017, Valitutti, Rv. 644755-01, ha ribadito che il relativo divieto, previsto dall’art. 345, comma 2, c.p.c., concerne soltanto le eccezioni in senso stretto, ossia quelle non rilevabili d’ufficio, e non anche le mere difese svolte dalle parti per resistere alle pretese o alle eccezioni di controparte.

Con specifico riferimento alla materia contrattuale, Sez. 2, n. 22983/2017, Cosentino, Rv. 645573-01, ha affermato che la deroga al divieto dei nova contenuta nell’art. 1453, comma 2, c.c., si estende anche alle domande consequenziali a quella di risoluzione proposta per la prima volta in appello.

4. Cassazione. Le novità normative. Evoluzione applicativa.

In ottica deflattiva, ma anche allo scopo di enfatizzare la funzione nomofilattica della Corte, l’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2012, oltre ad aver introdotto il cd. filtro in appello, ha anche apportato una significativa modifica all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., in tema di motivi di ricorso per cassazione, restringendo ampiamente la proponibilità di impugnazioni inerenti al vizio motivazionale.

Nella medesima ottica, il procedimento di cassazione è stato oggetto di un recente intervento normativo, apportato dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni dalla l. 25 ottobre 2016, n. 197.

In estrema sintesi, premessa la consueta tripartizione dei ricorsi relativamente alla destinazione, ossia a) quelli destinati ab origine alle Sez. U, b) i regolamenti di competenza e di giurisdizione e c) ogni altro ricorso alla Sezione ordinaria, la novella apportata al codice di rito ha introdotto, per questi ultimi, il sistema del “triplo binario”, come definito dai primi commentatori. In sostanza, è stata accentuata la cameralizzazione del procedimento (già prevista, com’è noto, dall’art. 375 c.p.c. e regolata dall’art. 380-bis c.p.c.), prevedendosi: aa) una procedura camerale di definizione accelerata (e senza partecipazione delle parti) per i ricorsi destinati alla declaratoria di inammissibilità o improcedibilità, ovvero manifestamente fondati o infondati, da definirsi in sesta sezione civile (c.d. sezione “filtro”); b) una procedura camerale di sezione semplice (anche qui, senza partecipazione delle parti), per i ricorsi di rilevanza non nomofilattica, ossia quelli in cui vengano in rilievo solo elementi attinenti allo ius litigatoris; c) la pubblica udienza per i ricorsi a rilevanza nomofilattica, ove cioè si presentino questioni attinenti allo ius constitutionis.

In relazione alla cennata riforma – che si applica a tutti i ricorsi già proposti alla data della sua entrata in vigore (avvenuta il 30 ottobre 2016), ma per i quali non era stata ancora fissata l’udienza – risultano adottate le prime interessanti decisioni.

Dal punto di vista del regime intertemporale, Sez. L, n. 4906/2017, Garri, Rv. 643423-01, ha affermato che alle parti costituitesi tardivamente (nei giudizi già pendenti) deve essere assicurato il diritto di depositare memorie scritte, nel termine di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c., al fine di evitare disparità di trattamento rispetto ai processi trattati in pubblica udienza ed in attuazione dei principi del giusto processo. Nello stesso senso, si veda Sez. 6-T, n. 4553/2017, Manzon, Rv. 643324-01.

Sotto diverso profilo, Sez. 6-3, n. 7701/2017, De Stefano, Rv. 643685-01, ha affermato che, in relazione ai giudizi di legittimità pendenti alla data di entrata in vigore della riforma, ove la parte abbia depositato procura notarile, senza notificare alcun controricorso, la perduta facoltà di partecipare comunque all’udienza di discussione o di essere sentito all’adunanza camerale (per il caso in cui il ricorso sia stato avviato al procedimento camerale) non esclude che egli possa esercitare le proprie difese con il deposito di memoria scritta ai sensi dell’art. 380-bis, comma 2, c.p.c. e che di tale attività, in caso di soccombenza della controparte, debba tenersi conto ai fini della liquidazione delle spese processuali.

In particolare, per Sez. 6-3, n. 395/2017, Vincenti, Rv. 642729-01, la scelta di assicurare un contraddittorio solo cartolare alla decisione priva di rilievo nomofilattico non è irragionevole esercizio del potere legislativo, sicché il nuovo testo dell’art. 380-bis c.p.c. non si pone in contrasto con l’art. 24 Cost., tanto più che il collegio non è vincolato dalla proposta del relatore e pertanto, ove intenda fondare la decisione su una questione rilevata d’ufficio, ben può sollecitare l’interlocuzione delle parti ai sensi dell’art. 384, comma 3, c.p.c., secondo una interpretazione costituzionalmente orientata dello stesso art. 380-bis c.p.c.

Nel senso che la disciplina dettata dall’art. 380-bis c.p.c. circa la previsione di termini sfalsati per il deposito delle memorie di parte e delle conclusioni scritte del P.G. non si ponga in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., si veda Sez. 3, n. 24088/2017, Olivieri, Rv. 645737-01.

Ancora, secondo Sez. 6-2, n. 7605/2017, Scarpa, Rv. 643667-01, lo stesso art. 380-bis c.p.c. stabilisce che la Corte deve rimettere la causa alla pubblica udienza soltanto se ritiene che non ricorrano le ipotesi previste dall’art. 375, comma 1, nn. 1 e 5, c.p.c.. In ogni caso, per Sez. 1, n. 8869/2017, Terrusi, Rv. 643516-02, va esclusa la sussistenza di un obbligo di rimessione alla pubblica udienza qualora il collegio, all’esito dell’adunanza camerale, rilevi che si tratta di questione rilevante o priva di precedenti, giacché la trattazione col rito camerale è pienamente rispettosa del diritto di difesa delle parti e assicura pienezza del contraddittorio, anche riguardo alle conclusioni del P.G.. In questo senso, Sez. 3, n. 22462/2017, D’Arrigo, Rv. 645772-01, ha escluso la necessità che, qualora la sezione “filtro” di cui all’art. 376 c.p.c., all’esito della camera di consiglio, abbia rimesso il ricorso alla sezione semplice, il processo sia trattato in pubblica udienza, salvo che l’ordinanza di rimessione faccia espresso riferimento alla sussistenza dei presupposti che, ai sensi dell’art. 375, comma 2, c.p.c., giustificano tale trattazione.

Sempre sul nuovo testo dell’art. 380-bis c.p.c., Sez. 6-3, n. 4541/2017, De Stefano, Rv. 643132-01, ha evidenziato che esso non implica che la “proposta” del relatore debba necessariamente essere motivata, sufficiente essendo che essa contenga sommarie o schematiche indicazioni, dal presidente ritenute meritevoli di essere segnalate alle parti, senza che a ciò corrisponda peraltro un corrispondente diritto delle parti stesse.

Sul tema, Sez. 2, n. 5533/2017, Cosentino, Rv. 643171-01, ha affermato che il collegio non è vincolato alla valutazione sulla rilevanza della questione operata dal presidente della sezione, sicché ben può lo stesso collegio rimettere la causa all’udienza pubblica, in applicazione analogica dell’art. 380-bis, comma 3, c.p.c.. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 19115/2017, Vincenti, Rv. 645766-01.

Sez. 6-T, n. 5371/2017, Manzon, Rv. 643480-01, ha poi affermato che il rito camerale di legittimità “non partecipato” costituisce attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo ex artt. 111 Cost. e 6 CEDU, nonché quello di effettività della tutela giurisdizionale; che – Rv. 643480-02 – il principio di pubblicità dell’udienza, pur previsto dallo stesso art. 6 CEDU e di rango costituzionale, non riveste carattere assoluto, potendo essere derogato in presenza di particolari ragioni giustificative, ove obiettive e razionali; e che – Rv. 643480-03 – la garanzia del contraddittorio è comunque assicurata dalla trattazione scritta della causa.

Va anche segnalata Sez. 6-3, n. 13093/2017, De Stefano, Rv. 644387-01, secondo cui anche in caso di inammissibilità del controricorso, perché tardivo, deve assicurarsi alla parte la possibilità di depositare memoria ex art. 380-bis, comma 2, c.p.c., atteso che essa è l’unica altra attività difensiva che può essere esperita nel procedimento camerale, ed è quindi equiparabile o sostitutiva della partecipazione all’udienza pubblica, da sempre pacificamente consentita pur in presenza di controricorso inammissibile.

Detta attività difensiva, per Sez. 6-2, n. 14330/2017, Criscuolo, Rv. 644941-01, deve essere consentita all’intimato ove la procura speciale sia rilasciata in calce o a margine della copia del ricorso notificatogli, benché inidonea a supportare la proposizione di autonomo controricorso, rappresentando la facoltà di depositare la memoria, una volta venuta meno la facoltà di essere sentito all’udienza pubblica, l’unica possibilità residua di estrinsecare il suo diritto di difesa.

Sempre sul tema, va segnalata Sez. 6-3, n. 24835/2017, De Stefano, Rv. 645928-01, secondo cui ove la parte intimata non abbia previamente notificato al ricorrente il controricorso nel termine previsto dall’art. 370 c.p.c., non può egli successivamente presentare una “memoria di costituzione”, né tantomeno può presentare memoria in vista dell’adunanza camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., qualora, alla data di entrata in vigore della riforma in discorso, non fossero ancora scaduti i termini di cui all’art. 370 c.p.c..

Anche nel 2017 si registrano poi diverse pronunce concernenti il ricorso per cassazione «per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», come oggi previsto dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

Anzitutto, si segnala Sez. 3, n. 5785/2017, Frasca, Rv. 643398-01, che ha ritenuto che l’omesso esame di fatti rilevanti ai fini dell’applicazione delle norme regolatrici del processo (nella specie, il decorso del termine ex art. 617 c.p.c.) non è riconducibile al vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., bensì a quello della nullità processuale, ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.

Di sicuro interesse è Sez. 6-2, n. 8986/2017, Criscuolo, Rv. 643675-01, in tema di negatoria servitutis, che ha affermato che, poiché il diritto di proprietà appartiene ai cc.dd. diritti “autodeterminati”, incorre nel vizio in parola il giudice d’appello che rigetti la domanda riconvenzionale del convenuto che abbia dapprima dedotto l’acquisto per usucapione e, successivamente, l’acquisto a titolo derivativo, sul presupposto dell’inesistenza di un atto utile a tanto, omettendo tuttavia di esaminare un documento, idoneo, ritualmente prodotto in primo grado.

Ancora, Sez. 1, n. 7472/2017, Falabella, Rv. 644826-02, ha escluso che, con il vizio in esame, possa denunciarsi il mancato ricorso del giudice del merito allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio, rientrando tale scelta nel suo potere discrezionale. Né con tale vizio, secondo Sez. 2, n. 14802/2017, Picaroni, Rv. 644485-01, può denunciarsi l’omessa valutazione di deduzioni difensive.

È stato poi affermato da Sez. 3, n. 5795/2017, D’Arrigo, Rv. 643401-01, che per “fatto” controverso o decisivo per il giudizio deve intendersi non un fatto meramente interpretativo, bensì un fatto vero e proprio, con la conseguenza che l’omesso esame della questione relativa all’interpretazione del contratto non è riconducibile al vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c..

Ancora, Sez. 3, n. 18391/2017, Scoditti, ha affermato che nell’ambito del vizio in discorso non può inquadrarsi la censura concernente deficienze argomentative della decisione riguardo al recepimento delle conclusioni della CTU, esigendosi invece che il ricorrente indichi le circostanze secondo le quali quel recepimento abbia comportato l’omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti.

In materia di “filtro”, a composizione di contrasto, Sez. U, n. 7155/2017, Didone, Rv. 643549-01, ha affermato che lo scrutinio di cui all’art. 360-bis, n. 1, c.p.c. – a mente del quale il ricorso è inammissibile quando il provvedimento impugnato ha deciso la controversia in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi di ricorso non offre elementi per mutare orientamento – impone una declaratoria di inammissibilità (e non di rigetto per manifesta infondatezza), atteso che la valutazione dev’essere effettuata al momento della decisione e per ciascun motivo di ricorso e che la funzione deflattiva della norma consiste nell’esonerare la S.C. dalla necessità di dover esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”.

Peraltro, Sez. T, n. 19190/2017, Luciotti, Rv. 645120-01, ha affermato che l’onere di individuare decisioni e argomenti, sui quali l’orientamento contestato si fonda, sussiste solo nell’ipotesi di un orientamento di legittimità consolidato nella materia oggetto di controversia, contrario alla tesi del ricorrente.

5. (segue) In generale.

Si segnalano di seguito le più significative pronunce sul giudizio di legittimità, rinviandosi per altri profili, comuni al ricorso per cassazione, al capitoli dedicati al processo del lavoro e al processo tributario.

Sul piano generale, merita di essere segnalata Sez. 3, n. 2033/2017, Frasca, Rv. 642708-01, che ha affermato che, ove la parte abbia assunto una determinata posizione in appello, con il proprio atto introduttivo o difensivo, essa non può mutarla col ricorso per cassazione per sostenere uno specifico motivo – a meno che ciò non origini dalla sentenza impugnata – determinandosi in tal caso una manifesta contraddizione rispetto alla logica che presiede l’esercizio del diritto di impugnazione in appello.

Numerose pronunce si sono occupate del tema della ricorribilità per cassazione avverso i provvedimenti diversi dalle sentenze rese in grado d’appello o in unico grado.

Prima di affrontare queste ultime pronunce, però, occorre segnalare Sez. U, n. 3556/2017, Frasca, Rv. 642438-02, che avuto riguardo al disposto dell’art. 360, comma 3, c.p.c., circa la non ricorribilità per cassazione della sentenza che decida questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio, ha precisato che soggiace al detto limite la sentenza non definitiva resa dal giudice d’appello ai sensi dell’art. 279, comma 2, n. 4, c.p.c., cui seguano i provvedimenti per l’ulteriore corso del giudizio, mentre è invece immediatamente ricorribile per cassazione la sentenza (definitiva) resa in grado d’appello avverso la sentenza non definitiva di primo grado, con cui quest’ultima sia stata confermata.

Sempre sul tema, Sez. 1, n. 11916/2017, Campanile, Rv. 644077-01, ha ribadito che il ricorso per cassazione immediato avverso la sentenza non definitiva che, decidendo questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, non definisca, neppure in parte, il giudizio, è inammissibile, ai sensi dell’art. 360, comma 3, c.p.c.

Venendo alla individuazione della tipologia di provvedimenti assoggettabili al ricorso straordinario, Sez. 6-1, n. 1032/2017, Di Virgilio, Rv. 642781-01, ha affermato che il decreto del tribunale che respinge il reclamo del fallito, ex art. 26 l. fall., avverso il diniego del giudice delegato dell’autorizzazione ad esaminare il fascicolo fallimentare e di estrarne copia, non è soggetto al ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111, comma 7, Cost., non trattandosi di provvedimento decisorio ed essendo sempre possibile, per il fallito, reiterare l’istanza con specifica indicazione delle ragioni che la supportano.

Al contrario, sempre in materia fallimentare, è stata affermata da Sez. 1, n. 3310/2017, Bernabai, Rv. 643868-01, la ricorribilità avverso il provvedimento di rigetto del reclamo avverso il decreto con cui il giudice delegato ordina la cancellazione delle ipoteche, ai sensi dell’art. 108, comma 2, l. fall., stante la sua incidenza sui diritti di garanzia e la impossibilità di impugnare altrimenti detto provvedimento.

Sempre in materia concorsuale, Sez. 1, n. 13527/2017, Terrusi, Rv. 644321-01, ha escluso la ricorribilità del provvedimento con cui il tribunale, in sede di ammissione alla procedura di concordato preventivo, abbia negato la natura prededucibile del credito del professionista incaricato di predisporre la relazione di cui all’art. 161, comma 3, l. fall., trattandosi di decisione priva dei requisiti di definitività e decisorietà.

Analoga decisione è stata resa da Sez. 6-1, n. 6516/2017, Genovese, Rv. 644270-01, in tema di sovraindebitamento, relativamente al decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento che ha dichiarato inammissibile la proposta di accordo di composizione della crisi, in quanto privo dei caratteri di decisorietà e di definitività. Riguardo all’analoga procedura del piano del consumatore, nello stesso senso, Sez. 6-1, n. 20917/2017, Nazzicone, Rv. 645745-01.

Sez. 6-L, n. 4365/2017, Pagetta, Rv. 643122-01, ha ritenuto la ricorribilità per cassazione del decreto di omologa di cui all’art. 445-bis c.p.c., limitatamente alla statuizione sulle spese ed indipendentemente dalla sua notificazione, nel termine semestrale ex art. 327 c.p.c., decorrente dalla sua data di deposito.

Prevenendo un possibile contrasto di giurisprudenza, Sez. U, n. 2610/2017, Petitti, Rv. 642267-01, ha affermato che l’ordinanza della corte d’appello che dichiari l’inammissibilità dell’azione di classe di cui all’art. 140-bis del cd. “Codice del consumo” non è ricorribile in cassazione, qualora detta azione miri ad ottenere la tutela risarcitoria di un pregiudizio subito dai singoli appartenenti alla classe e non anche di un interesse collettivo, e ciò in quanto detto pregiudizio può essere tutelato attraverso l’azione individuale.

Sez. 2, n. 20954/2017, Cortesi, Rv. 645244-01, ha poi ribadito che, ancorché in ipotesi affetta da abnormità, l’ordinanza resa dal collegio in sede di reclamo avverso un provvedimento di natura cautelare o possessoria non è ricorribile per cassazione, trattandosi di decisione a carattere strumentale ed interinale, destinata ad essere sostituita dalla decisione di merito.

Riguardo alla notificazione del ricorso, di particolare interesse è Sez. 6-1, n. 6518/2017, Genovese, Rv. 644271-01, che ha affermato che, in caso di notifica del ricorso per cassazione mediante posta elettronica certificata (PEC), la mancanza della firma digitale del notificante, nella relata, non implica l’inesistenza dell’atto, giacché la stessa può essere riscontrata mediante altri elementi di individuazione dell’esecutore della notifica, come ad esempio l’identità del soggetto indicato come notificante e il difensore munito di procura speciale, essendosi comunque raggiunti la conoscenza dell’atto e lo scopo della notifica.

Sempre sul tema, deve segnalarsi l’importante pronuncia di Sez. 6, n. 30766/2017, Curzio, Rv. 647030-01, che ha affermato che ai sensi dell’art. 16-septies del d.l. n. 179 del 2012, convertito con modif. Dalla l. n. 221 del 2012, qualora la notifica con modalità telematiche venga richiesta, con rilascio della ricevuta di accettazione, dopo le ore 21.00, essa si perfeziona alle ore 7.00 del giorno successivo. È pertanto inammissibile, perché non tempestivo, il ricorso per cassazione la cui notificazione sia stata richiesta, con rilascio della ricevuta di accettazione dopo le ore 21.00 del giorno di scadenza del termine per l’impugnazione.

Sez. 3, n. 18758/2017, Chiarini, Rv. 645167-01, ha poi affermato che ai sensi dell’art. 3-bis, comma 3, e 6, comma l, della legge n. 53 del 1994, come modificata dal d.l. n. 179 del 2012, convertito dalla legge n. 228 del 2012, per la regolarità della notifica del controricorso costituito dalla copia informatica dell’atto originariamente formato su supporto analogico, è sufficiente che la copia telematica sia attestata conforme all’originale, secondo le disposizioni vigenti ratione temporis (nella specie, a norma dell’art. 22, comma 2, del d.lgs. n. 82 del 2005). La pronuncia ha altresì affermato che, depositato l’atto senza modalità telematiche, dell’avvenuta sua notificazione per via telematica va data prova mediante il deposito – in formato cartaceo, con attestazione di conformità ai documenti informatici da cui sono tratti – del messaggio di trasmissione a mezzo PEC, dei suoi eventuali allegati e delle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna previste dall’art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 68 del 2005.

Nello stesso senso la recentissima Sez. 6, n. 30918/2017, Curzio, Rv. 647031-01, secondo cui il ricorso per cassazione è improcedibile, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., quando, nel termine di venti giorni dalla notificazione, siano state depositate solo copie analogiche del ricorso, della relazione di notificazione con messaggio p.e.c. e relative ricevute, sena attestarne la conformità, ai sensi dell’art. 9, comma 1-bis, della legge n. 53 del 1994 e successive integrazioni, ai documenti informatici da cui sono tratte.

Relativamente all’interesse ad impugnare, Sez. T, n. 2047/2017, Cricenti, Rv. 642458-01, ha affermato che esso difetta, con conseguente inammissibilità del ricorso per cassazione, in capo a colui che deduca l’omessa pronuncia relativamente a domanda proposta da controparte, non essendo al riguardo configurabile alcuna soccombenza.

Sez. U, n. 10553/2017, Barreca, Rv. 643788-01, ha ribadito che la revoca della sentenza d’appello impugnata col ricorso per cassazione determina la cessazione della materia del contendere, con conseguente inammissibilità del ricorso per sopravvenuto difetto d’interesse, in quanto l’interesse ad agire deve sussistere non solo al momento della proposizione dell’impugnazione, ma anche al momento della decisione, a nulla rilevando, infine, che la stessa sentenza che ha disposto la revocazione sia suscettibile di essere a sua volta impugnata con ulteriore ricorso per cassazione.

Analogamente, Sez. 6-T, n. 11204/2017, Iofrida, Rv. 644165-01, ha stabilito che l’accoglimento dell’istanza di correzione materiale della sentenza pure impugnata con ricorso per cassazione, che determini la cessazione della materia del contendere, ne comporta l’inammissibilità per sopravvenuta carenza d’interesse.

Ancora, Sez. 1, n. 19759/2017, Falabella, Rv. 645194-01, ha ribadito che la parte che denunci la nullità della sentenza per un vizio di attività del giudice lesivo del proprio diritto di difesa, ha l’onere di specificare in cosa detto vizio gli abbia concretamente arrecato pregiudizio, giacché l’ordinamento non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma mira ad eliminare il concreto pregiudizio subito dalla parte, sicché l’annullamento della sentenza impugnata è necessario solo se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole.

Nello stesso senso, riguardo al caso di decisione della controversia con rito diverso da quello applicabile, si veda Sez. 6-1, n. 23682/2017, Marulli, Rv. 645755-01, nonché, riguardo alla censura concernente pretesa violazione dei “principi regolatori del giusto processo”, Sez. 3, n. 22341/2017, Frasca, Rv. 646020-03, e ancora, in caso di mancata fissazione della discussione orale in appello, pur ritualmente richiesta, Sez. 2, n. 28229/2017, Orilia, Rv. 646319-01.

Sul piano della legittimazione attiva, Sez. 2, n. 4924/2017, Falaschi, Rv. 643163-01, ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione proposto, quale parte formale, dal procuratore speciale della parte sostanziale, ove non siano stati prodotti, al più tardi nel termine di cui all’art. 372 c.p.c., i documenti giustificativi del potere rappresentativo, anche per consentire alla Corte di valutarne i limiti.

Quanto agli aspetti più strettamente procedimentali, Sez. 3, n. 7477/2017, Falabella, Rv. 645844-01, ha ribadito che nel giudizio di legittimità, dominato dal principio dell’impulso d’ufficio, non opera l’istituto dell’interruzione del processo, sicché la dichiarazione di fallimento di una delle parti non ne preclude la prosecuzione.

Sez. T, n. 7621/2017, Aceto, Rv. 643472-01, ha ribadito che la mancata richiesta di trasmissione del fascicolo d’ufficio, ai sensi dell’art. 369, comma 3, c.p.c., non determina l’improcedibilità dell’impugnazione, ove l’esame degli atti in esso contenuti non risulti indispensabile ai fini della decisione.

Sez. 6-2, n. 6369/2017, Giusti, Rv. 643378-01, ha affermato che, dopo l’entrata in vigore del d.m. Giustizia del 19.1.2016 (avvenuta il 15 febbraio 2016), la notificazione al difensore del decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio e della proposta del relatore, ex art. 380-bis c.p.c., deve essere necessariamente compiuta per via telematica, ex art. 16, comma 4, del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 221 del 2012, salvo il caso di impossibilità di ricorrere alla posta elettronica certificata, nel qual caso essa può effettuarsi mediante deposito nella cancelleria.

Ancora, Sez. 2, n. 20543/2017, Cortesi, Rv. 645236-01, ha affermato che, nel caso in cui il ricorrente abbia notificato più volte il ricorso alla stessa parte, il termine di venti giorni per il deposito del ricorso, previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369, comma 1, c.p.c., decorre dalla prima notificazione validamente eseguita, essendo le altre superflue.

Sempre sul tema, Sez. 2, n. 24715/2017, Cosentino, Rv. 645740-02, ha ribadito che il termine di venti giorni dall’ultima notifica ai fini del deposito del ricorso, ex art. 369, comma 1, c.p.c., deve calcolarsi rispetto all’ultima notifica effettuata nei confronti di una delle più controparti destinatarie, e non anche rispetto a quella reiterata nei confronti della medesima parte, a meno che la prima non fosse affetta da nullità.

Per quanto concerne la rinuncia al ricorso per cassazione, deve segnalarsi Sez. L, n. 20112/2017, Cavallaro L., Rv. 645439-01, secondo cui qualora, dopo la notificazione del ricorso, il ricorrente abbia notificato alla controparte, in pari data, una rinuncia agli atti del procedimento ed una contestuale rinnovazione dell’impugnazione, il perfezionarsi della rinuncia, per effetto dell’accettazione del destinatario, determina l’estinzione del giudizio e il passaggio in giudicato della sentenza d’appello, a prescindere dalle intenzioni del rinunciante.

Riguardo allo ius postulandi, Sez. 3, n. 3769/2017, Tatangelo, Rv. 642863-01, ha ribadito che è ammissibile il ricorso proposto dai genitori di figlio minorenne, quali legali rappresentanti dello stesso, nelle more divenuto maggiorenne, sebbene questi non si sia costituito, non essendo il procedimento di legittimità soggetto ad interruzione per la perdita della capacità della parte.

Sez. 6-3, n. 7443/2017, Vincenti, Rv. 643817-01, ha ribadito che la firma apposta dal difensore in calce alla procura speciale a margine del ricorso ai fini dell’autenticazione della firma vale anche quale sottoscrizione del ricorso, in quanto consente di attribuire al difensore anche la parternità del ricorso stesso.

Sez. 3, n. 15174/2017, Cirillo F.M., Rv. 644746-01, ha poi affermato che, qualora il mandato alle liti sia stato conferito a più difensori, in difetto di una inequivoca volontà della parte circa il carattere congiuntivo del mandato, è valido il ricorso per cassazione anche se sottoscritto da uno solo dei difensori e anche se l’altro non sia iscritto nell’albo speciale.

Sez. 6-1, n. 26429/2017, Ferro, Rv. 647022-01, ha ribadito che la rinuncia del difensore al mandato, comunicata alla Corte prima dell’udienza già fissata, è priva di effetto nell’ambito del giudizio di cassazione.

Infine, Sez. 6-1, n. 24598/2017, Cristiano, Rv. 646047-01, ha ribadito che la specialità del mandato apposto a margine o in calce al ricorso può di per sé ricavarsi dalla sua collocazione (formando materialmente corpo con l’atto processuale cui accede), non occorrendo per la sua validità alcuno specifico riferimento al procedimento in corso o alla sentenza impugnata.

Relativamente all’impugnazione incidentale, Sez. 2, n. 134/2017, Falaschi, Rv. 642189-01, ha ribadito che, ove nel giudizio di merito la parte vittoriosa avesse proposto domande non esaminate perché ritenute assorbite dalla statuizione adottata, la stessa parte, resistente nel giudizio di legittimità, non può proporre ricorso incidentale, benché condizionato, poiché tali domande rimangono impregiudicate e possono riproporsi, in caso di cassazione della sentenza, nel giudizio di rinvio. Nello stesso senso, Sez. T, n. 22095/2017, Caiazzo, Rv. 645632-01.

Ancora, Sez. 2, n. 3223/2017, Cosentino, Rv. 643033-01, ha affermato che, affinché il ricorso incidentale condizionato sia dichiarato assorbito, per effetto del rigetto del ricorso principale, è necessario che esso sia nondimeno ammissibile.

Quanto alla memoria ex art. 378 c.p.c. e a quella omologa di cui all’art. 380-bis c.p.c., Sez. 6-3, n. 19988/2017, De Stefano, Rv. 645360-02, ha affermato che il rispetto del termine per il relativo deposito deve essere verificato riguardo alla data di ricezione in cancelleria, e non già di spedizione, atteso che le modalità di spedizione previste, in via eccezionale, per il ricorso ed il controricorso, non vi si possono estendere e che non sono ancora operative, per il giudizio di legittimità, le regole del c.d. processo telematico, con la conseguenza che deve essere assicurato alla controparte il diritto di prenderne visione entro un tempo ragionevole.

Sez. 2, n. 24007/2017, Criscuolo, Rv. 645587-01, ha poi ribadito che la funzione delle memorie ex art. 378 c.p.c. è solo quella di illustrare e chiarire i motivi dell’impugnazione, ovvero di confutazione delle tesi avversarie, mentre non possono essere dedotte nuove censure, né sollevate questioni nuove, che non siano rilevabili d’ufficio, sicché è irrituale la querela di falso proposta in tale sede.

Riguardo all’onere di depositare la copia conforme della sentenza impugnata a pena di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., va anzitutto segnalata Sez. U, n. 10648/2017, D’Ascola, Rv. 643945-01, che a composizione di contrasto ha affermato che deve escludersi la possibilità di applicazione della sanzione della improcedibilità al ricorso contro una sentenza notificata di cui il ricorrente non abbia depositato, unitamente al ricorso, la relata di notifica, ove quest’ultima risulti comunque nella disponibilità del giudice perché prodotta dalla parte controricorrente ovvero acquisita mediante l’istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio.

Sempre sul tema, Sez. 6-2, n. 21386/2017, Criscuolo, Rv. 645764-01 ha poi precisato che la sanzione, in caso di mancata produzione di copia autentica della sentenza con la relata di notifica, deve applicarsi anche se il ricorso sia stato notificato nel termine breve dalla data di notificazione della sentenza, atteso che la verifica sulla procedibilità precede quella sulla ammissibilità del ricorso. Quanto poi alla rinvenibilità della relata nel fascicolo d’ufficio (questione su cui si sofferma la massima della sentenza a Sezioni Unite che precede), la stessa pronuncia ha evidenziato l’improbabilità della sua verificazione, trattandosi di attività che non attiene all’iniziativa dell’ufficio e che interviene dopo la definizione del giudizio.

Sez. 1, n. 19602/2017, Falabella, Rv. 645182-01, ha precisato che detto onere concerne anche il caso di ricorso avverso sentenza non definitiva, ancorché detta norma non consideri espressamente l’ipotesi; ne deriva che, nel caso di ricorso che investa sia la sentenza non definitiva, che quella definitiva, il mancato deposito di copia autentica della prima (ma non anche della seconda) determina l’improcedibilità del ricorso stesso limitatamente alle censure che la riguardano.

Sez. 2, n. 7089/2017, Federico, Rv. 643518-01, ha precisato che in tema di sentenza non definitiva, ove sia formulata riserva, i termini per la proposizione del ricorso per cassazione decorrono dalla notificazione o dalla pubblicazione della sentenza definitiva, sicché, qualora il ricorrente abbia implicitamente allegato che detta sentenza gli è stata notificata, la mancata produzione della stessa, corredata dalla relata di notifica, determina l’improcedibilità dell’unico ricorso proposto avverso le due sentenze, a nulla rilevando il rituale deposito della sentenza non definitiva.

Di rilevante interesse, per le ricadute pratiche che ne derivano, è poi la pronuncia di Sez. 3, n. 17450/2017, Fanticini, Rv. 644968-01, secondo cui, qualora la notificazione della sentenza impugnata sia stata effettuata con modalità telematiche, per soddisfare l’onere di deposito della copia autentica della relazione di notificazione, il difensore del ricorrente, che ne è destinatario, a) deve estrarre copie cartacee del messaggio di posta elettronica pervenutogli e della relazione di notificazione redatta dal mittente ex art. 3-bis, comma 5, della l. n. 53 del 1994, b) attestare con propria sottoscrizione autografa la conformità agli originali digitali delle copie analogiche formate e c) depositare nei termini queste ultime presso la cancelleria della S.C.

Detta pronuncia è stata seguita in termini dalla successiva Sez. 6-3, n. 26612/2017, Tatangelo, Rv. 646838-01, nonché da numerose altre pronunce non massimate, ma con la recentissima ordinanza interlocutoria Sez. 3, n. 30622/2017, Rossi, non massimata, è stata disposta la rimessione al Primo Presidente perché valuti se assegnare la questione, ritenuta di massima di particolare importanza, alle Sez. U.

Tuttavia, deve ulteriormente registrarsi la recentissima ordinanza di Sez. 6, n. 30765/2017, Curzio, Rv. 647029-01, che ha stabilito che ai fini del rispetto di quanto imposto, a pena d’improcedibilità, dall’art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., il difensore che propone ricorso per cassazione contro un provvedimento che gli è stato notificato con modalità telematiche, deve depositare nella cancelleria della Corte di cassazione copia analogica, con attestazione di conformità ai sensi dei commi 1-bis e 1-ter dell’art. 9 della legge n. 53/1994, del messaggio di posta elettronica certificata ricevuto, nonché della relazione di notifica e del provvedimento impugnato, allegati al messaggio. Non è necessario anche il deposito di copia autenticata del provvedimento impugnato estratta direttamente dal fascicolo informatico.

Sul tema della produzione documentale, Sez. U, n. 2735/2017, Manna, Rv. 642419-01, ha affermato che il principio per cui il giudicato esterno può essere rilevato d’ufficio quando ciò emerga dagli atti e anche ove si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, con conseguente possibilità di produrre la relativa documentazione ai sensi dell’art. 372 c.p.c., non opera quando detto giudicato sia invocato al fine di dimostrare l’effettiva sussistenza, o meno, dei fatti, perché in tal caso il giudicato non ha valenza di regola di diritto cui conformarsi.

Sez. 3, n. 3132/2017, Dell’Utri, Rv. 642725-01, ha ribadito che non sussiste l’improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c. ove il ricorrente, depositatane una copia fotostatica priva della relata di notifica, provveda tuttavia a depositare l’originale notificato, separatamente, a norma dell’art. 372 c.p.c., entro venti giorni dall’ultima notifica, non essendo ammissibile il recupero di una condizione di procedibilità del ricorso mancante al momento della scadenza del termine per il deposito del ricorso.

In ogni caso, per Sez. 6-2, n. 25543/2017, D’Ascola, l’omesso o tardivo deposito del ricorso comporta l’improcedibilità anche nell’ipotesi in cui il resistente si sia costituito senza nulla eccepire, non essendo applicabile, nel caso di inosservanza di termini perentori, il principio di sanatoria delle nullità per il raggiungimento dello scopo, ex art. 156 c.p.c.

Ancora, Sez. T, n. 3349/2017, Stalla, Rv. 642892-01, ha affermato che non è inammissibile la produzione di documenti, ex art. 372 c.p.c., atti a dimostrare l’applicabilità alla fattispecie della ius superveniens, ove rilevante ai fini della riforma della decisione di merito.

Sez. T, n. 2444/2017, Iannello, Rv. 642885-01, ha poi affermato che il ricorso per cassazione proposto dall’ex rappresentante della società di capitali cancellata dal registro delle imprese è inammissibile, sia perché il principio di ultrattività del mandato eventualmente conferito al difensore per i precedenti gradi di giudizio presuppone che il soggetto conferente sia esistente e capace di stare in giudizio, sia perché la proposizione di quel ricorso necessita di procura speciale. Allo stesso tempo, è inammissibile il ricorso proposto dagli ex soci, quali successori, nel caso in cui la loro legittimazione ad causam sia contestata ed essi non provino, eventualmente producendo la relativa documentazione ai sensi dell’art. 372 c.p.c., la loro qualità.

Circa i requisiti di forma e contenuto del ricorso, Sez. 3, n. 240/2017, Chiarini, Rv. 642351-01 ha ribadito che il requisito dell’indicazione delle parti, previsto dall’art. 366, n. 1, c.p.c., deve intendersi nel senso proprio della norma generale dettata dall’art. 163, n. 2, c.p.c., e pertanto l’inesatta indicazione della parte nell’intestazione dell’atto non ne determina l’inammissibilità, se il suo complessivo contenuto ne rende evidente la natura di mero errore materiale.

Nel solco di consolidato orientamento, poi, Sez. L, n. 3633/2017, Amendola, Rv. 643086-01, ha ribadito che, nel caso in cui la decisione impugnata si regga su più rationes decidendi ciascuna delle quali idonea a giustificare la decisione, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze in relazione a tutte le predette rationes. Nello stesso senso, Sez. 6-T, n. 9752/2017, Manzon, Rv. 643802-01, nonché Sez. 3, n. 15350/2017, Frasca, Rv. 644814-01.

Per il caso in cui la copia notificata del ricorso manchi di una o più pagine e l’originale sia stato tempestivamente depositato, Sez. U, n. 4092/2017, Armano, Rv. 642538-01, ha ribadito che ciò non comporta l’inammissibilità del ricorso, ma costituisce vizio della notifica, sanabile ex tunc, mediante nuova notifica di copia integrale, su iniziativa dello stesso ricorrente o entro un termine fissato dalla Corte di cassazione, ovvero per effetto della costituzione dell’intimato, salva la concessione di un termine a quest’ultimo per integrare le sue difese.

Ancora, Sez. T, n. 12461/2017, Perrino, Rv. 644151-01, ha ribadito che la tecnica del c.d. “assemblaggio”, mediante la quale il ricorrente, anziché procedere all’esposizione sommaria dei fatti di causa prevista dall’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., riproduca pedissequamente gli atti di causa e la sentenza impugnata, mediante “spillatura”, cartacea o elettronica che sia, comporta un mascheramento dei dati effettivamente rilevanti, a meno che l’insieme dei documenti integralmente riprodotti, essendo facilmente individuabile ed isolabile, possa essere separato ed espunto dal ricorso, così potendosene valutare l’autosufficienza alla luce degli ordinari criteri di valutazione relativi ai singoli motivi.

Sez. 1, n. 19018/2017, Falabella, Rv. 645086-01, ha ribadito che, onde soddisfare il requisito di cui all’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., il ricorso deve contenere una esauriente e chiara esposizione, seppur non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, in modo da far risultare le pretese delle parti, con gli elementi di fatto e le ragioni di diritto su cui si fondano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte, lo svolgersi delle vicende processuali nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si chiede alla Corte una diversa valutazione.

Sez. 6-3, n. 7009/2017, Barreca, Rv. 643681-01, ha affermato che ove il motivo di impugnazione prospetti una pluralità di questioni precedute dall’elenco delle norme asseritamente violate, esso è inammissibile se la sua formulazione non consente o rende difficoltosa l’individuazione delle questioni prospettate (nella specie, con unico motivo, dedotto in 27 pagine, era stata prospettata la violazione di 32 diverse disposizioni pretesamente violate, senza che fossero stati esposti gli argomenti tendenti a dimostrare il contrasto tra dette norme e il contenuto della decisione impugnata).

Sez. 6-1, n. 20910/2017, Marulli, Rv. 645744-01, ha ribadito che la proposizione, col ricorso, di censure prive di attinenza al decisum della sentenza impugnata equivale alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., con conseguente inammissibilità del ricorso così proposto.

Sez. 6-T, n. 25557/2017, Manzon, Rv. 646414-01, ha poi ribadito che l’erronea intitolazione di un motivo di ricorso non osta alla sua riqualificazione, secondo una delle ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., se dalla sua lettura è possibile evincere chiaramente il tipo di vizio denunciato. Nello stesso senso, Sez. 6-T, n. 26310/2017, Manzon, Rv. 646419-01.

Quanto in particolare al requisito di autosufficienza del ricorso, di cui si rinviene la fonte normativa nell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., va qui segnalata Sez. 1, n. 2771/2017, Valitutti, Rv. 643715-01, che ha affermato che, nel caso si denunci la violazione di norme processuali, ai fini del rispetto di quel requisito e pur essendo in tal caso il giudice di legittimità anche giudice del “fatto processuale” e abilitato ad esaminare direttamente gli atti di causa, si devono nondimeno specificare gli elementi fattuali che in concreto condizionano l’ambito di operatività della violazione, pena l’inammissibilità. Nello stesso senso, avuto riguardo al problema di plurimi interventi legislativi che abbiano modificato più volte la norma da applicare alla fattispecie, si veda Sez. L, n. 31082/2017, Di Paolantonio, Rv. 646554-01, che ha affermato che il ricorrente deve fornire alla S.C. gli elementi di fatto necessari per individuare la normativa applicabile ratione temporis.

Nello stesso senso, Sez. T, n. 22880/2017, De Masi, Rv. 645637-01, ha poi ribadito che, nel caso di error in procedendo, il ricorrente deve comunque specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando specificamente in ricorso i relativi fatti processuali, nel rispetto del principio di autosufficienza.

Ancora, Sez. U, n. 7074/2017, Frasca, Rv. 643334-01, ha affermato che ove la sentenza d’appello sia stata motivata per relationem rispetto alla sentenza di primo grado, il rispetto del requisito in parola implica che il ricorrente indichi specificamente il passaggio della motivazione del primo giudice condivisa dal giudice d’appello, nonché le critiche a questa mosse col gravame.

Tuttavia, per Sez. 6-T, n. 22022/2017, Vella, Rv. 645333-01, la sentenza così motivata è da ritenersi nulla qualora la laconicità della motivazione adottata dal secondo giudice non consenta di appurare che la condivisione della prima decisione è stata adottata attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi d’appello.

Sempre sul tema, Sez. 2, n. 12415/2017, Criscuolo, Rv. 644083-01, ha precisato che non è precluso alla parte, in sede di legittimità, documentare le proprie doglianze anche con modalità di rappresentazione ulteriori rispetto alle espressioni verbali, quali la riproduzione, nel corpo del ricorso, di fotografie, immagini e grafici, a condizione che ciò non implichi l’elusione del divieto di cui all’art. 372 c.p.c. e che detto inserimento sia rispettoso dei canoni di cui all’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c.

Ancora, Sez. T, n. 14107/2017, Chindemi, Rv. 644546-01, ha precisato che, ove il ricorrente intenda far valere l’omessa o inesatta valutazione di atti e documenti, anche nel caso in cui si denunci violazione o falsa applicazione di norma di diritto, egli è tenuto anche a trascrivere integralmente il contenuto degli atti e dei documenti, così da rendere immediatamente apprezzabile alla Suprema Corte il vizio dedotto.

Allo stesso modo, per Sez. 3, n. 14279/2017, Scoditti, Rv. 644642-01, la denuncia del vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., implica che il ricorrente debba adeguatamente indicare la situazione di fatto della quale chiede una determinata valutazione giuridica, diversa da quella compiuta dal giudice a quo.

Ancora, secondo Sez. 6-3, n. 19985/2017, Scoditti, Rv. 645357-01, ove si denunci il difetto di motivazione sulla mancata ammissione di un mezzo istruttorio, il ricorrente ha l’onere di trascrivere specificamente le circostanze oggetto di prova, allo scopo di consentire la valutazione circa la decisività dei fatti da provare, per il principio di autosufficienza del ricorso.

Infine, sul tema, Sez. 6-3, n. 23452/2017, Frasca, Rv. 646334-01, ha ribadito che le prescrizioni di cui all’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., sono funzionali al regolare svolgimento del processo di legittimità e non determinano la violazione del diritto ad un equo processo.

Quanto ai poteri della S.C., Sez. 1, n. 16863/2017, Genovese, Rv. 644842-01, ha affermato che la Suprema Corte può rilevare d’ufficio una causa di inammissibilità dell’appello che il giudice di merito non abbia riscontrato, con conseguente cassazione senza rinvio della decisione impugnata, non potendo riconoscersi al gravame inammissibilmente spiegato alcuna efficacia conservativa del processo di impugnazione.

Sez. 3, n. 18775/2017, Scoditti, Rv. 645168-01, ha poi affermato che la S.C. può accogliere il ricorso per una ragione di diritto anche diversa da quella prospettata dal ricorrente, purché essa sia fondata sui medesimi fatti come prospettati dalle parti e fermo restando che il potere di qualificazione non può comportare la modifica officiosa della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’introduzione nel giudizio di una eccezione in senso stretto.

Sez. 1, n. 25319/2017, Campanile, Rv. 645791-01, ha poi ribadito che nel giudizio di legittimità non possono essere prospettate nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che importino nuovi temi di indagine o accertamenti in fatto non precedentemente effettuati, neanche se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio.

Sez. T, n. 20806/2017, Tedesco, Rv. 645301-01, ha ribadito che il potere di correzione della motivazione della sentenza impugnata, ex art. 384, ultimo comma, c.p.c., presuppone che la correzione sia solo in diritto e che non implichi nuove indagini o valutazioni di fatto, o ancora non importi violazioni del principio dispositivo, ossia non si pronunci su eccezioni non sollevate dalle parti e non rilevabili d’ufficio.

Un cospicuo numero di pronunce ha ovviamente riguardato il tema dei vizi denunciabili col ricorso.

Anzitutto, deve segnalarsi Sez. 3, n. 3554/2017, Scoditti, Rv. 642860-01, che ha affermato che la censura di omessa valutazione della vessatorietà di una clausola contrattuale è inammissibile, involgendo essa una mescolanza inscindibile tra vizio motivazionale e violazione di legge, giacché implicante sia l’interpretazione, rimessa al giudice del merito, che la sua qualificazione.

Sul tema della interpretazione dei contratti, Sez. 3, n. 15350/2017, Frasca, Rv. 644814-02, ha affermato che la denuncia della violazione dei canoni di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. postula che il ricorrente enunci puntualmente e con precisione le ragioni per le quali un dato criterio sarebbe stato erroneamente applicato, non assumendo rilievo la circostanza che nella sentenza impugnata risulti omesso l’espresso riferimento ad uno specifico criterio interpretativo legale.

Ancora, Sez. 2, n. 20964/2017, Criscuolo, Rv. 645246-01, ha ribadito che, ove si denunci violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione di una clausola contrattuale, occorre parimenti denunciare la violazione delle regole ermeneutiche di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., giacché in caso contrario, trattandosi di interpretare la clausola e valutare il comportamento delle parti, il ricorso è inammissibile.

Sez. 3, n. 9356/2017, Rossetti, Rv. 644001-01, ha affermato che il cattivo esercizio del potere di valutazione delle prove da parte del giudice del merito non rientra tra i vizi denunciabili con il ricorso per cassazione, mentre l’errore di percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c., norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte.

Sempre Sez. 3, n. 23940/2017, Olivieri, Rv. 645828-02, ha però precisato che il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, bensì un errore di fatto, che può essere censurato in sede di legittimità nei limiti consentiti dalla previsione del vigente art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

Ancora Sez. 3, n. 12461/2017, Travaglino, Rv. 644200-01, ha escluso possa denunciarsi in sede di legittimità la nullità processuale della sentenza di secondo grado per pretesa illegittimità della costituzione dell’appellante a cagione della invalidità della procura ad litem, ove la questione non sia stata tempestivamente sollevata nel secondo grado di giudizio.

Ancora, Sez. 6-3, n. 12840/2017, Cirillo F.M., Rv. 644383-01, ha affermato che la denuncia della omessa considerazione – al fine di ritenere raggiunta la prova su un fatto – della mancata contestazione di controparte, deve espressamente indicare il contenuto della comparsa di risposta e degli ulteriori atti difensivi, evidenziando in modo puntuale l’assenza o la genericità delle contestazioni sul punto. Nello stesso senso, Sez. 6-1, n. 24062/2017, Falabella, Rv. 645760-01.

Sez. 6-3, n. 6835/2017, Frasca, Rv. 643679-01, ha affermato che l’omessa pronuncia da parte del giudice di merito non può essere denunciata come “omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”, occorrendo invece censurare l’“error in procedendo” ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla previsione di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., e ciò in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello. Nello stesso senso, Sez. 6-1, n. 23930/2017, Falabella, Rv. 646046-01.

Ancora, Sez. T, n. 16171/2017, Chindemi, Rv. 644892-01, ha affermato che, nel caso di accoglimento del ricorso per omesso esame di un motivo d’appello, la S.C. – in applicazione del principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c. − può procedere all’esame del merito senza cassare con rinvio, quando la questione di diritto posta da quel motivo sia infondata, sicché la statuizione da rendere è confermativa del dispositivo della sentenza di appello e sempre che non siano necessari ulteriori accertamenti in fatto. Nello stesso senso, avuto riguardo alla violazione di norme processuali in genere, Sez. T, n. 24866/2017, De Masi, Rv. 645974-01.

Sez. 6-1, n. 4868/2017, Scaldaferri, Rv. 643657-01, ha affermato che quando si assuma che il giudice del merito è incorso in un errore di conteggio aritmetico, che implica travisamento dei dati e che si riduce alla percezione di circostanze in modo contrario a quanto risulta dagli atti di causa, si è al cospetto di un vizio non denunciabile con ricorso per cassazione, bensì di un tipico vizio revocatorio, che può essere fatto valere solo con lo specifico strumento della revocazione, disciplinato dall’art. 395, comma 4, c.p.c.

In relazione all’error in procedendo, consistente nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., denunciabile a norma dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per inosservanza del minimo costituzionale richiesto per la motivazione, Sez. 3, n. 9952/2017, Rossetti, Rv. 643855-01, ha affermato che ciò può configurarsi ove il provvedimento giurisdizionale dapprima non esamini le prove richieste dalla parte, né per accoglierle, né per rigettarle, e poi rigetti la domanda ritenendola indimostrata. Nello stesso senso, Sez. 6-3, n. 26538/2017, Rossetti, Rv. 646837-01.

Sempre sul tema, Sez. 3, n. 16502/2017, De Stefano, Rv. 644818-01, ha affermato che la S.C. può verificare l’estrinseca correttezza del giudizio di fatto sotto il profilo della manifesta implausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze, sicché essa può sindacare la manifesta fallacia o non verità delle premesse o l’intrinseca contraddittorietà degli argomenti, onde ritenere inficiato il procedimento inferenziale ed il risultato cui esso è pervenuto, per escludere la corretta applicazione della norma entro cui è stata sussunta la fattispecie.

Ancora sulla nullità processuale, Sez. 6-3, n. 21094/2017, Dell’Utri, Rv. 645706-01, ha poi ribadito che, in difetto di ricusazione, la violazione dell’obbligo di astenersi da parte del giudice non è deducibile come motivo di nullità della sentenza da lui emessa.

In relazione alla pronuncia sulle spese di lite, Sez. 2, n. 30592/2017, Abete, Rv. 646611-01, ha affermato che la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente.

Quanto al cd. overruling (che consiste nel mutamento di precedente consolidata interpretazione della norma processuale), avuto riguardo al disposto dell’art. 360, comma 3, c.p.c., dapprima interpretato nel senso che si riteneva non immediatamente impugnabile la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 353 c.p.c. e oggetto, appunto, di revirêment, Sez. U, n. 21194/2017, Barreca, Rv. 645311-01, ha affermato che la parte pregiudicata non ha diritto alla rimessione in termini nella pendenza del giudizio di merito riassunto dinanzi al primo giudice ai fini dell’impugnazione della sentenza d’appello, giacché la statuizione sulla giurisdizione, eventualmente decisa in senso sfavorevole dal giudice di primo grado, potrà comunque essere oggetto di ricorso per cassazione, se confermata nel nuovo giudizio di appello.

Relativamente al regime delle spese, Sez. 6-3, n. 27369/2017, Sestini, Rv. 647139-01, ha affermato che non può disporsi la condanna del ricorrente soccombente al pagamento delle spese di lite qualora il resistente non dimostri di aver validamente notificato il controricorso (nella specie, effettuato per via telematica, ma senza attestazione di conformità da parte del difensore).

Riguardo alla temerarietà della lite nel giudizio di cassazione, Sez. 3, n. 28657/2017, Spaziani, Rv. 646712-01, ha affermato che la condanna ex art. 385, comma 4, c.p.c. (applicabile ratione temporis), a differenza di quella comminabile ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.c., non presuppone una domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, almeno la colpa grave della parte soccombente che sussiste nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, riscontrabile ove, con il ricorso per cassazione, vengano formulate censure basate su di un errore nell’interpretazione di norme sostanziali o processuali in contrasto con un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità ovvero su argomenti non seri o pretestuosi o addirittura incomprensibili oppure si riconducano, non alla sentenza impugnata con lo stesso ricorso per cassazione, ma ad una decisione oggetto di una precedente impugnazione.

Avuto poi riguardo al regime introdotto dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, l. n. 228 del 2012, Sez. 3, n. 3542/2017, Tatangelo, Rv. 642858-01, ha affermato che l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato grava sul ricorrente la cui impugnazione sia stata respinta, o dichiarata inammissibile o improcedibile, ma non anche ove la declaratoria di inammissibilità discenda dalla cessata materia del contendere, ciò comportando la caducazione di tutte le pronunce emanate nei precedenti gradi di giudizio e non passate in cosa giudicata.

Analogamente, per Sez. 6-T, n. 7368/2017, Napolitano, Rv. 643484-01, detto onere non sussiste ove il ricorrente sia stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato, stante il meccanismo della prenotazione a debito. Ove, ciononostante, una tale pronuncia sia stata adottata dal giudice d’appello, per Sez. L, n. 13935/2017, Cinque, Rv. 644533-01, il vizio può essere denunciato con autonomo ricorso per cassazione, giacché la possibile alternativa (ossia, la segnalazione dell’erronea declaratoria in sede di riscossione) si porrebbe in contrasto con l’art. 6 CEDU e con l’art. 47 della Carta Fondamentale dell’Unione Europea. Nello stesso senso, Sez. 6-1, n. 23281/2017, Mercolino, Rv. 645474-02.

Infine, per Sez. 6-2, n. 18348/2017, Lombardo, Rv. 645149-01, non può assoggettarsi al pagamento del doppio contributo il controricorrente il cui ricorso incidentale tardivo sia stato dichiarato inefficace a cagione dell’inammissibilità del ricorso principale, trattandosi di sanzione prevista per le sole declaratorie di infondatezza nel merito, ovvero di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione.

Relativamente al giudizio di rinvio, sul piano generale, Sez. 2, n. 30529/2017, Scarpa, Rv. 646610-01, ha ribadito che la riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio, – a norma dell’art. 125 disp. att. c.p.c. in relazione agli artt. 392 e 394 c.p.c. – non dà luogo ad un nuovo procedimento ma ad un giudizio che si configura come prosecuzione dei precedenti gradi di merito, restando perciò escluso, ai sensi delle stesse norme, che, ai fini della validità dell’atto riassuntivo (il quale opera come mero strumento di impulso processuale volto a riattivare la prosecuzione del giudizio conclusosi con la sentenza cassata), sia richiesta una specifica indicazione del petitum e della causa petendi, ovvero una integrale o testuale riproduzione di domande, eccezioni e conclusioni, ed essendo invece sufficiente, a detti fini, che in tale atto siano richiamati l’atto introduttivo del giudizio ed il contenuto del provvedimento in base al quale avviene la riassunzione (ossia il provvedimento della Corte di Cassazione).

Sez. 3, n. 403/2017, Ambrosio, Rv. 642356-01, richiamando risalente orientamento, in forza della preclusione dettata dalla sentenza di cassazione, ha stabilito che né il giudice del rinvio, né le parti, né eventualmente la stessa Corte di cassazione, nuovamente adita dopo il giudizio di rinvio, possono per la prima volta porre in discussione l’esistenza della legittimazione processuale nel giudizio di primo grado e la nullità della costituzione del rapporto processuale per difetto di rappresentanza organica, in quella fase, dell’organo costituito per l’ente.

Sez. L, n. 1553/2017, Negri della Torre, Rv. 642523-01, ha poi ribadito che la designazione del giudice del rinvio, da parte della Corte di cassazione, salvi i casi di errore materiale, non è modificabile, non già perché si tratta di competenza funzionale ed inderogabile, ma perché le decisioni della stessa Corte di cassazione non sono impugnabili, se non col rimedio della revocazione, sicché su detta designazione deve ritenersi essersi verificato il giudicato formale.

Ancora, Sez. 6-3, n. 7506/2017, De Stefano, Rv. 643683-01, ha escluso che in sede di giudizio di rinvio, stante la sua natura “chiusa”, possa essere eccepito in compensazione, per la prima volta, un credito che non discenda direttamente dalla sentenza di cassazione, giacché le parti sono obbligate a riproporre la controversia negli stessi termini e nel medesimo stato di istruzione della sentenza appellata.

Infine, Sez. 6-3, n. 10009/2017, Sestini, Rv. 643829-01, ha affermato che, ove nel giudizio di rinvio l’originario appellante sia rimasto contumace, ciò non determina l’improseguibilità dell’impugnazione, né il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, giacché il giudizio di rinvio è destinato a concludersi con una sentenza che, per la prima volta, statuisce sulle domande delle parti.

6. Revocazione.

Va anzitutto segnalata Sez. 6-T, n. 12215/2017, Iofrida, Rv. 644173-01, che ha ribadito che il giudice della fase rescissoria deve decidere nuovamente la causa prescindendo del tutto dalle rationes decidendi della sentenza revocata, procedendo ad un nuovo esame a prescindere dall’iter logico-giuridico da questa seguito.

Riguardo ai singoli motivi di revocazione, Sez. 1, n. 3200/2017, Genovese, Rv. 643866-01, ha affermato che l’art. 395, n. 4, c.p.c., circoscrive la rilevanza e la decisività dell’errore di fatto nel solo caso in cui la decisione sia fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità sia incontrastabilmente esclusa ovvero sull’inesistenza di un fatto la cui verità sia positivamente stabilita, e sempre che il fatto non abbia costituito un punto controverso, sul quale la sentenza abbia pronunciato. Ne deriva che non integra, di per sé, vizio revocatorio la circostanza che il giudice non abbia preso in considerazione un determinato fatto storico, a meno che ciò non implichi necessariamente la negazione della sua materiale esistenza.

Analogamente, non può costituire vizio revocatorio, per Sez. L, n. 8828/2017, Blasutto, Rv. 643752-01, il preteso vizio con cui si imputi alla sentenza un’erronea valutazione delle prove raccolte, investendo tale ipotesi un tipico errore di giudizio, e non già di percezione.

Ancora, Sez. L, n. 27348/2017, Cavallaro, Rv. 646351-01, ha ribadito che, perché una sentenza possa considerarsi contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, e possa essere quindi suscettibile di revocatoria, occorre che tra i due giudizi vi sia identità di soggetti e di oggetto.

Per quanto concerne, infine, la revocazione della sentenza della Corte di cassazione, Sez. 6-3, n. 3268/2017, Frasca, Rv. 642753-01, ha precisato che il ricorso ex art. 391-bis c.p.c. è improcedibile qualora il ricorrente non abbia depositato copia autentica della sentenza impugnata.

Per Sez. 6-L, n. 8615/2017, Pagetta, Rv. 643949-01, poi, l’errore di fatto che potrebbe giustificare la revocazione della sentenza della S.C. non può consistere in una mera erronea valutazione dei motivi di ricorso. Né tantomeno, per Sez. 3, n. 19510/2017, Barreca, Rv. 645388-01, può integrare detto errore la decisione che si fondi su una costruzione logico-giuridica incompatibile con i motivi asseritamente non esaminati.

Ancora, per Sez. 2, n. 14002/2017, Manna F., Rv. 644473-01, deve escludersi l’ammissibilità della revocazione quando il preteso errore in cui sarebbe incorsa la Corte necessita, per essere dimostrato, della produzione di documenti nuovi, non depositati nelle precedenti fasi di giudizio e non richiamati, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., nell’originario ricorso per cassazione.

Infine, la recentissima Sez. U, n. 30944/2017, Cirillo E., ha affermato che la combinazione dell’art. 391-bis e dell’art. 395 n. 4, c.p.c., non prevede come causa di revocazione della sentenza di cassazione l’errore di diritto sostanziale o processuale e l’errore di giudizio o di valutazione. Né, con riguardo al sistema delle impugnazioni, la Costituzione impone al legislatore ordinario altri vincoli oltre a quelli, previsti dall’art. 111 Cost., della ricorribilità in cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, non apparendo irrazionale la scelta del legislatore di riconoscere ai motivi di revocazione una propria specifica funzione, escludendone gli errori giuridici e quelli di giudizio o valutazione, proponibili solo contro le decisioni di merito nei limiti dell’appello e del ricorso per cassazione.

7. Le altre impugnazioni.

Un breve cenno, infine, meritano alcune pronunce concernenti altri mezzi di impugnazione.

Anzitutto, in tema di opposizione di terzo, Sez. 2, n. 4436/2017, Giusti, Rv. 643052-01, ha affermato che i singoli condomini non possono impugnare con l’opposizione ordinaria, ex art. 404, comma 1, c.p.c., la sentenza pronunciata nei confronti del condominio, in persona del suo amministratore, giacché essi non sono titolari di un diritto autonomo rispetto alla situazione giuridica affermata in tale decisione ed ancorché essi non siano intervenuti nel giudizio.

Al contrario, in tema di esecuzione per consegna o rilascio, avviata in forza di sentenza resa inter alios, qualora il terzo lamenti una lesione della propria situazione soggettiva che gli deriva non già da un errore proprio del processo esecutivo, bensì dalla portata del titolo esecutivo azionato, che ha accertato un diritto incompatibile con quello vantato dallo stesso terzo, per Sez. 3, n. 7041/2017, Vivaldi, Rv. 643414-01, questi non può proporre l’opposizione di terzo all’esecuzione, ex art. 619 c.p.c., ma deve invece impugnare il provvedimento con l’opposizione di terzo ordinaria, ex art. 404, comma 1, c.p.c.

Infine, riguardo all’opposizione di terzo revocatoria, Sez. 1, n. 6378/2017, De Chiara, Rv. 644660-01, ha affermato che la legittimazione attiva compete al creditore titolare di un credito certo, non essendo sufficiente la sua mera allegazione ovvero la produzione di un titolo giudiziale solo provvisoriamente esecutivo e contestato dal debitore, occorrendo invece che il credito sia stato accertato, anche incidentalmente, dal giudice dell’opposizione, sulla base delle prove fornite dallo stesso opponente.

Quanto al regolamento di competenza, merita di essere segnalata Sez. 6-1, n. 3665/2017, Scaldaferri, Rv. 643653-01, secondo cui il provvedimento con cui il giudice disattenda l’eccezione di incompetenza territoriale e disponga la prosecuzione del giudizio dinanzi a sé, assegnando un termine per l’esperimento della procedura di mediazione obbligatoria ai sensi del’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, non può essere impugnato col regolamento, difettando, in mancanza di rimessione in decisione della causa, un provvedimento a carattere decisorio sulla competenza.

Ancora, Sez. 6-1, n. 5645/2017, Cristiano, Rv. 643987-01, ha escluso l’impugnabilità con regolamento di competenza della decisione con cui il giudice abbia negato la sospensione del processo, ex art. 295 c.p.c., essendo ciò escluso dalla ratio della norma di cui all’art. 42 c.p.c. e dall’impossibilità di procedere all’applicazione analogica, stante il suo carattere eccezionale.

Infine, Sez. 6-1, n. 6330/2017, Di Marzio M., Rv. 644381-01, ha ribadito l’inammissibilità del regolamento di competenza proposto d’ufficio dalla corte d’appello, giacché tale mezzo di impugnazione presuppone il conflitto negativo di competenza tra giudici di primo grado.

  • giurisdizione amministrativa
  • giurisdizione tributaria
  • competenza giurisdizionale
  • giurisdizione del lavoro

CAPITOLO XXXVIII

IL PROCESSO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE

(di Giovanni Armone )

Sommario

1 Questioni di giurisdizione. - 1.1 Rapporti tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa. - 1.1.1 Lavoro pubblico contrattualizzato e diritto intertemporale. - 1.1.2 La fase di costituzione del rapporto d’impiego pubblico contrattualizzato: concorsi, graduatorie, assunzioni. - 1.1.3 Personale in regime di diritto pubblico. - 1.1.4 L’emersione del lavoro irregolare. - 1.1.5 Mancato riconoscimento dello status di orfano di servizio. - 1.1.6 Previdenza sociale. - 1.2 Rapporti con la giurisdizione contabile. - 1.3 Giudice del lavoro e giurisdizione tributaria. - 1.4 I rapporti di lavoro con Stati ed enti esteri. - 2 Questioni di competenza. - 2.1 Controversie di lavoro e procedure concorsuali. - 2.2 Il socio lavoratore di società cooperativa. - 2.3 Competenza per materia: altre questioni. - 2.4 La competenza territoriale. - 3 Il mutamento del rito. - 4 Gli atti introduttivi. Il ricorso: requisiti di validità ed effetti della domanda. - 4.1 La costituzione del convenuto: oneri di contestazione. - 4.2 L’ampliamento del thema decidendum. - 5 Le prove. - 6 La decisione della causa. - 7 L’appello. - 8 Il ricorso per cassazione. - 9 Il cd. rito Fornero. - 10 La conciliazione giudiziale. - 11 L’arbitrato irrituale. - 12 La sospensione feriale dei termini. - 13 Il processo previdenziale. - 13.1 Requisiti di ammissibilità. - 13.2 Questioni processuali. - 13.3 Opposizione a cartella esattoriale in materia contributiva. - 13.4 L’accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c.

1. Questioni di giurisdizione.

La materia lavoristica e previdenziale dà luogo a molteplici questioni di riparto di giurisdizione.

1.1. Rapporti tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa.

Il primo confine a venire in rilievo è quello che corre tra le attribuzioni del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, e quelle del giudice amministrativo.

1.1.1. Lavoro pubblico contrattualizzato e diritto intertemporale.

In tema di disciplina transitoria del lavoro pubblico cd. contrattualizzato, Sez. U, n. 3560/2017, Manna A., Rv. 642442-01, ha ribadito che, ai sensi dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ove il lavoratore istante riferisca le proprie pretese ad un periodo in parte anteriore ed in parte successivo al 30 giugno 1998, la regola del frazionamento della competenza giurisdizionale tra giudice amministrativo in sede esclusiva e giudice ordinario, in relazione ai due periodi interessati, trova temperamento in caso di illecito permanente, sicché, qualora la lesione del diritto del lavoratore abbia origine da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro, il discrimine temporale di giurisdizione va individuato con riferimento al momento della cessazione della permanenza; ne consegue che va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo allorché tale cessazione sia anteriore al 30 giugno 1998, e ciò indipendentemente dal momento di percepibilità e riconoscibilità dell’illecito da parte del danneggiato, rilevante ai diversi fini del decorso del termine di prescrizione nei casi di illecito istantaneo ad effetti permanenti.

La ratio di tale indirizzo va ricercata, come chiarito da Sez. U, n. 7305/2017, Tria, Rv. 643341-01, nel fatto che la sopravvivenza della giurisdizione del giudice amministrativo, regolata dal citato art. 69, comma 7, costituisce, nelle intenzioni del legislatore, ipotesi assolutamente eccezionale, sicché, per evitare il frazionamento della tutela giurisdizionale, quando il lavoratore deduce un inadempimento unitario dell’amministrazione, la protrazione della fattispecie oltre il discrimine temporale del 30 giugno 1998 radica la giurisdizione presso il giudice ordinario anche per il periodo anteriore a tale data, non essendo ammissibile che sul medesimo rapporto abbiano a pronunciarsi due giudici diversi, con possibilità di differenti risposte ad una stessa istanza di giustizia.

La sentenza appena citata ha poi precisato che l’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, fissa il discrimine temporale per il passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria alla data del 30 giugno 1998, con riferimento al “momento storico” dell’avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze, in relazione alla cui giuridica rilevanza sia insorta controversia; ove la lesione del diritto del lavoratore sia prodotta da un atto, provvedimentale o negoziale, deve perciò farsi riferimento all’epoca della sua emanazione, assumendo rilievo, qualora l’Amministrazione si sia pronunciata con una pluralità di atti, lo specifico provvedimento che ha inciso sulla posizione del dipendente, la cui eventuale portata retroattiva non influisce sulla determinazione della giurisdizione, ciò significando che occorre far riferimento al momento in cui, in concreto, la pretesa dedotta in giudizio sia divenuta azionabile.

In linea con tale puntualizzazione, sembrano collocarsi sia Sez. U, n. 687/2017, Berrino, Rv. 643561-01, sia Sez. U, 28368/2017, Berrino, Rv. 646253-02.

La prima pronuncia ha riguardato un caso di risarcimento del danno patrimoniale da tardiva assunzione: ove la stessa sia avvenuta tramite contratto, seguito all’annullamento di un precedente provvedimento amministrativo, successivo al 30 giugno 1998, la giurisdizione è del giudice ordinario, posto che la lesione del diritto azionato si consuma con la conclusione di quel contratto, momento cui occorre fare riferimento per l’individuazione della giurisdizione, considerato il discrimine temporale di cui all’art. 69, comma 7.

La seconda pronuncia concerneva invece il diritto all’inquadramento in mansioni superiori e la conseguente richiesta di condanna al pagamento sia delle differenze retributive che del risarcimento dei danni, per un’attività lavorativa svolta a cavaliere del suddetto limite temporale: anche qui è stata affermata la giurisdizione del giudice ordinario.

1.1.2. La fase di costituzione del rapporto d’impiego pubblico contrattualizzato: concorsi, graduatorie, assunzioni.

La giurisprudenza degli ultimi anni sembra aver tracciato definitivamente i confini tra le due giurisdizioni a proposito delle procedure concorsuali di accesso o progressione in carriera nel pubblico impiego. La fase costitutiva del rapporto di pubblico impiego continua così a generare questioni di giurisdizione, ma su aspetti più specifici e caratterizzati.

Di tal genere è il caso esaminato da Sez. U, n. 11800/2017, Berrino, Rv. 644052-01, la quale fa tesoro dei precedenti dell’ultimo quinquennio e in particolare valorizza l’elemento della concorrenzialità tra i partecipanti alla selezione per devolvere al giudice amministrativo la controversia relativa all’impugnazione di un avviso di mobilità, indetto, ex art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, per la copertura di posti di cancelliere a tempo pieno ed indeterminato; si trattava infatti di una procedura concorsuale selettiva, attuata mediante il sistema della mobilità esterna, destinata a concludersi con l’approvazione di una graduatoria finale e la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro tra il vincitore e la Pubblica Amministrazione che aveva indetto la selezione.

Per ravvisare la concorsualità, però, non basta che la procedura sia aperta all’esterno, ma devono sussistere altri elementi, quali la previsione di una commissione esaminatrice, la formazione di una griglia di punteggi riferita ai titoli prescritti e la formazione di una graduatoria finale di merito: in difetto, la valutazione comparativa dei candidati è di carattere discrezionale e la giurisdizione appartiene al giudice ordinario (v. Sez. U, n. 8799/2017, Manna F., Rv. 643562-01, in un caso di procedura di interpello per il conferimento di incarichi dirigenziali generali priva di tali caratteri).

Coerente con tali assunti appare la decisione resa da Sez. U, n. 24879/2017, Manna A., Rv. 645663-01, a proposito delle controversie in materia di conseguenze economico-normative della mancata comunicazione, da parte della P.A., della possibilità di partecipazione ai percorsi formativi finalizzati a consentire, ai dipendenti privi dei requisiti curriculari alternativi al titolo di studio richiesto per il passaggio di area, di prendere parte alle selezioni interne previste dal c.c.n.l. di settore: qui non si verte infatti in tema di costituzione del rapporto di lavoro, né di sua novazione oggettiva attraverso una progressione verticale per passaggio del dipendente ad altra area professionale, bensì di crediti fatti valere all’interno di un rapporto già in essere e di diritto ad un superiore inquadramento contrattuale, a prescindere da prove concorsuali o selettive interne.

In tema di stabilizzazione del personale precario, sono necessarie alcune precisazioni.

Le procedure che conducono alla stabilizzazione sono suscettibili di derogare alle normali procedure di reclutamento limitatamente al carattere – riservato e non aperto – dell’assunzione, ma non anche alla necessità del possesso del titolo di studio, ove previsto per la specifica qualifica, né al preventivo svolgimento di procedure selettive, che sono necessarie nell’ipotesi in cui la stabilizzazione riguardi dipendenti che non abbiano già sostenuto “procedure selettive di tipo concorsuale”.

Come affermato da Sez. U, n. 19166/2017, Manna A., Rv. 645037-01, e da Sez. U, n. 29915/2017, D’Antonio, Rv. 646305-01, le relative controversie appartengono pertanto alla cognizione del giudice amministrativo.

La sentenza appena citata, unitamente a Sez. U, n. 4229/2017, Tria, Rv. 642789-01, precisa però che, quando l’immissione riguardi il personale da assumersi obbligatoriamente o l’avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento in applicazione delle graduatorie (è il caso dei lavori socialmente utili), la P.A. svolge un’attività vincolata ai criteri predeterminati dalla legge nella scelta dei singoli lavoratori, che non può che giustificare la giurisdizione del giudice ordinario.

L’approvazione della graduatoria costituisce dunque il discrimine fondamentale per il radicamento della giurisdizione nei casi dubbi.

Lo ha ribadito Sez. U, n. 29916/2017, D’Antonio, Rv. 646306-01, nell’ipotesi della pretesa allo “scorrimento” della graduatoria: quando tale pretesa si fondi su «eventi successivi alla definizione del procedimento concorsuale … o in applicazione di specifiche previsioni del bando, contemplanti l’ammissione alla stipulazione del contratto di lavoro degli idonei fino ad esaurimento dei posti messi a concorso; ovvero perché viene conservata … l’efficacia della graduatoria» detta pretesa «si colloca di per sé fuori dall’ambito della procedura concorsuale … ed è conosciuta dal giudice ordinario quale controversia inerente al “diritto all’assunzione”».

E lo stesso discrimine vale anche quando il pubblico dipendente, dopo l’espletamento di una procedura concorsuale, chieda il risarcimento dei danni da tardivo riconoscimento dell’inquadramento quale dirigente (Sez. U, n. 27196/2017, D’Antonio, Rv. 646237-01) o quando l’intera procedura concorsuale sia affetta da assoluta e insanabile nullità e si discuta del diritto del dirigente al mantenimento dell’incarico ottenuto all’esito di tale procedura (Sez. U, n. 7483/2017, D’Antonio, Rv. 643342-01, e Sez. U, n. 27197/2017, D’Antonio, Rv. 645989-01, hanno affermato in tali ipotesi la giurisdizione ordinaria, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti, ai sensi dell’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, atteso che il provvedimento di revoca di tale qualifica costituisce un atto di natura privatistica, di micro organizzazione attinente alla gestione del rapporto di lavoro già instaurato tra il dipendente e la P.A.; con l’approvazione della graduatoria concorsuale, si esaurisce l’ambito riservato al procedimento amministrativo ed all’attività autoritativa dell’amministrazione e subentra una fase in cui i comportamenti dell’amministrazione vanno ricondotti all’ambito privatistico, espressione del potere negoziale della P.A. nella veste di datrice di lavoro, mentre nel patrimonio dell’interessato si consolida una situazione giuridica individuale di diritto soggettivo, nella quale rientrano tutti gli atti successivi alla stipulazione del contratto di lavoro, compresi quelli volti a disporne l’annullamento unilaterale o la caducazione automatica).

Diverso è il caso – esaminato da Sez. U, n. 4881/2017, Manna A., Rv. 643113-01 – in cui, pur chiedendosi la revoca dell’atto di conferimento di un incarico dirigenziale, la contestazione investa direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo mediante la deduzione della non conformità a legge degli atti di macro organizzazione attraverso cui le amministrazioni pubbliche definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici ed i modi di conferimento della titolarità degli stessi (nella specie, il regolamento regionale cui era seguita la ricerca di professionalità esterne per l’incarico in discussione). La S.C. ha qui avuto occasione di chiarire i limiti del potere disapplicativo del giudice ordinario: lo stesso presuppone la deduzione di un diritto soggettivo su cui incide il provvedimento amministrativo, e non una situazione giuridica suscettibile di assumere la consistenza di diritto soggettivo solo all’esito della rimozione del provvedimento di macro organizzazione.

Più delicata è l’ipotesi della riammissione in servizio del dipendente già dimissionario: qui la giurisdizione è quella ordinaria, poiché, a seguito della cd. privatizzazione, il potere dell’amministrazione si esercita mediante atti di natura negoziale e nel caso del dimissionario la sua domanda di rientro – configurabile come proposta contrattuale – si fonda sull’esistenza di un precedente rapporto lavorativo, sicché non ricorre un’ipotesi di assunzione ex novo (Sez. U, n. 15053/2017, Manna A., Rv. 644578-01).

Infine, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto il diritto di precedenza, previsto dall’art. 3, comma 101, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, in favore dei lavoratori assunti a tempo parziale che abbiano proposto richiesta di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno, in caso di assunzione di personale a tempo pieno da parte dell’ente datore di lavoro, non venendo in questione profili di interesse legittimo nell’ambito della procedura concorsuale, ma situazioni giuridiche attinenti alla fase esecutiva del rapporto di lavoro aventi consistenza di diritto soggettivo (Sez. U, n. 27439/2017, Tria, Rv. 646239-01).

1.1.3. Personale in regime di diritto pubblico.

È noto come, anche dopo la privatizzazione, alcuni rapporti di lavoro pubblico siano sottratti alla contrattualizzazione e continuino a essere sottoposti alla disciplina dei rispettivi ordinamenti (art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001). Se per alcune categorie la menzione esplicita non lascia adito a dubbi, per altre possono porsi questioni di giurisdizione non facili da dipanare.

A proposito della domanda di un vice procuratore onorario volta ad ottenere l’accertamento di un rapporto di impiego di fatto con il Ministero della Giustizia, per lo svolgimento delle stesse funzioni giurisdizionali espletate dai magistrati togati e per l’inserimento nell’organizzazione di un ufficio di Procura, Sez. U, n. 27198/2017, D’Antonio, Rv. 645990-01, ha fatto leva sulla tipologia di rapporto rivendicata per devolvere la relativa controversia alla giurisdizione amministrativa.

1.1.4. L’emersione del lavoro irregolare.

Peculiare è l’ipotesi della controversia concernente la domanda del datore di lavoro di inserimento nella procedura per la emersione del lavoro irregolare e di accesso alle agevolazioni di cui alla legge 27 dicembre 2006, n. 296: Sez. U, n. 21522/2017, Bielli, Rv. 645315-01, ha precisato che essa appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto non discende da una valutazione discrezionale della pubblica amministrazione, ma dall’accertamento del diritto soggettivo di accesso alla procedura stessa che non rientra, inoltre, tra le materie per le quali è prevista la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133 c.p.a.

1.1.5. Mancato riconoscimento dello status di orfano di servizio.

Nella materia lavoristica, vi sono situazioni di confine nelle quali risulta decisivo, ai fini del riparto della giurisdizione, il «bene della vita» al cui conseguimento la domanda era finalizzata.

Ove dunque tale bene sia un diritto fondamentale come il diritto al lavoro, e in particolare il diritto a non perdere lo stipendio che l’istante stava riscuotendo in dipendenza di un rapporto di lavoro subordinato in precedenza instaurato, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia promossa contro il Ministero dell’interno, avente ad oggetto la richiesta di risarcimento dei danni da ritardo nella valutazione, da parte della p.a., della domanda presentata da un privato per ottenere il riconoscimento dello status di orfano per causa di servizio, con la dichiarata finalità di essere esonerato dal servizio militare di leva obbligatorio.

Lo ha affermato Sez. U, n. 7304/2017, Tria, Rv. 643340-01, sottolineando come in tal caso la fonte del pregiudizio lamentato non sia tanto la violazione dei termini (perentori o ordinatori) previsti per il procedimento amministrativo, quanto il ritardo nell’attribuzione del bene suddetto.

1.1.6. Previdenza sociale.

Meno numerose sono le questioni di giurisdizione nella materia previdenziale.

Sez. U, n. 21302/2017, Berrino, Rv. 645314-01, ha chiarito che la domanda di accertamento del diritto alla costituzione della rendita vitalizia ai sensi dell’art. 13, legge 13 agosto 1962, n. 1338 – strumentale alla costituzione della riserva matematica per la regolarizzazione della posizione contributiva – appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario ove proposta in relazione ad un rapporto di natura privatistica antecedente a quello di pubblico impiego.

Sez. U, n. 18173/2017, D’Antonio, Rv. 645128-01, ha esaminato invece una fattispecie peculiare, in cui sembravano venire in evidenza questioni previdenziali, ma che in realtà riguardava il contegno di un ente pubblico. Il lavoratore aveva chiesto di accedere ai benefici contributivi ricollegati all’esposizione ultradecennale all’amianto, ma era stato costretto a prolungare la propria permanenza in servizio, a causa del ritardo con cui l’Inail aveva riconosciuto l’esposizione all’agente nocivo. Chiesta la condanna dell’ente al risarcimento del danno per il ritardo con cui era stata evasa la domanda presentata, la S.C. ha affermato la giurisdizione del giudice amministrativo, in ragione «della intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio ed individuata dal giudice stesso con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico di cui essi sono manifestazione e dal quale la domanda viene identificata».

1.2. Rapporti con la giurisdizione contabile.

Le controversie in materia di pensioni dei pubblici dipendenti appartengono alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti (artt. 13 e 62, r.d. 12 luglio 1934, n. 1214).

Da tale forza attrattiva discende, ad esempio, che appartiene alla giurisdizione contabile la controversia relativa all’ammontare della ritenuta fiscale operata dall’istituto previdenziale sulla pensione di reversibilità attiene al trattamento pensionistico, se derivante da rapporto di pubblico impiego (Sez. U, n. 7755/2017, Virgilio, Rv. 643550-01).

Alcune precisazioni sono tuttavia necessarie.

Come chiarito da Sez. U, n. 15057/2017, De Stefano, Rv. 644579-01, occorre anzitutto distinguere tra la domanda proposta nel corso del rapporto, attinente agli obblighi, pur con connotazione previdenziale, del datore di lavoro e la domanda, formulata dal dipendente già in quiescenza, diretta ad incidere esclusivamente sul rapporto previdenziale: nel primo caso la controversia è devoluta al giudice del rapporto di lavoro, e, quindi, al giudice amministrativo per le vicende anteriori al 30 giugno 1998 ed al giudice ordinario per quelle successive; nel secondo caso, la lite appartiene alla giurisdizione della Corte dei conti (principio espresso in una causa relativa alla rivendicazione della copertura previdenziale da parte di un medico del SSN, in ordine a pregresso periodo svolto in regime di convenzione, riguardante il diritto al versamento dei contributi e dunque la condotta datoriale indispensabile per rendere effettiva l’anzidetta copertura).

Ancor più peculiare è la fattispecie esaminata da Sez. U, n. 18172/2017, D’Antonio, Rv. 645127-01, in cui si controverteva dell’obbligo di restituzione dei ratei del trattamento pensionistico riguardanti periodi successivi alla morte della pensionata e ritenuti indebitamente riscossi dal figlio di questa. Non vertendosi in tema di determinazione dell’ammontare del trattamento pensionistico, la S.C. non ha ravvisato «ragioni per assegnare alla cognizione della Corte dei Conti la controversia in questione spettante alla cognizione del giudice ordinario».

1.3. Giudice del lavoro e giurisdizione tributaria.

Nella delimitazione dei confini con la giurisdizione tributaria, l’unica decisione che si è pronunciata su questioni sostanziali è Sez. U, n. 26149/2017, Cirillo E., Rv. 645816-01, la quale ha affermato che la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, in funzione di giudice del lavoro, sulle controversie concernenti la legittimità delle trattenute assicurativo-previdenziali operate dal datore di lavoro su somme corrisposte al lavoratore, trattandosi di materia previdenziale alla quale è del tutto estranea la giurisdizione tributaria, mancando del tutto un atto qualificato, rientrante nelle tipologie di cui all’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 o ad esse assimilabili, che costituisca esercizio del potere impositivo sussumibile nello schema potestà-soggezione proprio del rapporto tributario.

È stata poi una controversia di natura tributaria ad aver fornito l’occasione a Sez. 5, n. 4247/2017, De Masi, Rv. 643212-01, per affermare che la traslatio iudicii, che assicura la salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda giudiziale, è applicabile, già anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69, anche nei rapporti tra diverse giurisdizioni e pure con riferimento alle pronunce declinatorie di giurisdizione dei giudici di merito, atteso che, da un lato, le differenze di organizzazione tra giudice ordinario e speciale non possono danneggiare l’efficienza e l’efficacia del servizio giustizia e, dall’altro, che le parti dispongono, per la soluzione dell’eventuale conflitto negativo di giurisdizione tra i giudici di merito, del ricorso per cassazione ex art. 362, comma 2, c.p.c.

1.4. I rapporti di lavoro con Stati ed enti esteri.

Le controversie che involgono il problema della giurisdizione ordinaria del lavoro in rapporto a quella del giudice straniero non sono frequenti, ma sollevano solitamente questioni di difficile soluzione, a causa della commistione tra profili che attengono all’oggetto della domanda e altri che coinvolgono la qualifica soggettiva del lavoratore coinvolto e/o la natura giuridica del datore di lavoro straniero. In continuità con un orientamento ormai abbastanza consolidato, Sez. U, n. 4882/2017, Manna A., Rv. 643114-01 ha statuito che in tema di controversie relative a rapporti di lavoro alle dipendenze di Stati esteri o enti internazionali ad essi equiparati (nella specie, dipendente di ambasciata), sussiste la giurisdizione del giudice italiano non solo quando oggetto del rapporto di lavoro sia l’esecuzione di un’attività meramente ausiliaria delle funzioni istituzionali del datore convenuto, ma anche quando, pur avendo ad oggetto lo svolgimento di attività strettamente inerenti alle predette funzioni, la decisione richiesta al giudice italiano attenga solo ad aspetti patrimoniali, quali il pagamento di differenze retributive, e non sia pertanto idonea ad incidere sull’autonomia e le potestà pubblicistiche dell’ente, sempre che non ricorrano le ragioni di sicurezza ex art. 2, lettera d), della Convenzione delle Nazioni Unite adottata a New York il 2 dicembre 2004, e ratificata in Italia dalla l. 14 gennaio 2013, n. 5.

La giurisdizione del giudice italiano difetta invece quando possa essere investito direttamente l’esercizio di poteri pubblicistici dell’ente straniero, come nell’ipotesi di domanda diretta a sentir dichiarare l’inesistenza, la nullità e l’inefficacia, ed in ogni caso l’illegittimità del licenziamento intimato e a ottenere la correlata reintegra nel posto di lavoro: qui la giurisdizione del giudice italiano difetta, attesa l’operatività del principio dell’immunità ristretta, recepito dall’art. 11 della stessa Convenzione ONU appena citata (Sez. U, n. 13980/2017, Tria, Rv. 644560-01).

La distinzione appena tracciata non opera però per tutti i datori di lavoro stranieri, essendo necessario che l’ente coinvolto sia idoneo a compiere atti iure imperii: Sez. U, n. 21541/2017, Bielli, Rv. 645316-01, ha escluso che faccia parte di tale categoria la Pontificia Università Lateranense, la quale rientra tra gli istituti ecclesiastici di educazione ed istruzione e, come tale, non è un soggetto sovrano internazionale (o un suo organo), né è annoverabile tra gli enti centrali della Chiesa cattolica, esentati da ogni ingerenza da parte dello Stato italiano, ai sensi dell’art. 11 del Trattato lateranense dell’11 febbraio 1929; ne consegue che la controversia inerente al rapporto di lavoro di un suo dipendente (nella specie: un docente) appartiene integralmente alla giurisdizione del giudice italiano, inclusa la pretesa diretta alla reintegra nel posto di lavoro, dato che detta domanda, una volta esclusa la natura di soggetto sovrano e di ente centrale della Chiesa cattolica dell’università, è sottratta sia al principio consuetudinario di diritto internazionale della cd immunità ristretta, riguardanti le sole pretese che, pur attenendo a un rapporto lavorativo iure privatorum, possono incidere sul potere pubblicistico sovrano relativo all’organizzazione e all’esercizio delle potestà e funzioni istituzionali dell’ente, sia al principio di immunità reale garantito dall’art. 15 del Trattato cit. agli immobili e alle sedi degli enti centrali, nonché alle attività ivi svolte.

2. Questioni di competenza.

Anche le questioni di competenza involgono molteplici profili, che necessitano di essere analizzati partitamente.

2.1. Controversie di lavoro e procedure concorsuali.

In primo luogo, meritano di essere segnalate le pronunce di legittimità volte a dirimere i conflitti tra giudice del lavoro e giudici delle procedure concorsuali latamente intese.

La S.C. ha ribadito il proprio orientamento consolidato in materia.

Sez. 1, n. 21204/2017, Lamorgese, Rv. 645399-01, ha ricordato che le domande proposte dal lavoratore, una volta intervenuto il fallimento del datore di lavoro, per veder riconoscere il proprio credito e il relativo grado di prelazione, devono essere introdotte nelle forme dell’insinuazione nello stato passivo, pertanto non dinanzi al giudice del lavoro, bensì dinanzi al Tribunale fallimentare, il cui accertamento è l’unico titolo idoneo per l’ammissione allo stato passivo e per il riconoscimento di eventuali diritti di prelazione.

Per converso, ma coerentemente, Sez. L, n. 23418/2017, Riverso, Rv. 645807-01, in un caso di ricorso del lavoratore volto all’accertamento della propria qualifica nei confronti del datore di lavoro fallito, ha rifiutato ogni invito alla rivisitazione dell’orientamento consolidato e ha quindi ribadito che le domande di accertamento o costitutive di diritti del lavoratore, anche se seguite da richieste di condanna al risarcimento dei danni o al pagamento del crediti, rientrano nella competenza del giudice del lavoro, il quale dovrà però limitare la propria pronuncia all’accertamento o alla costituzione del diritto (senza pronunciare condanne). Questa distinzione ha una duplice giustificazione: da un lato, vi sono la lettera e la ratio dell’art. 24 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (l. fall.), che ha la funzione di far convergere nella procedura concorsuale tutte le azioni che abbiano per oggetto crediti nei confronti del fallito, in modo da assoggettarle ad una disciplina unitaria, onde realizzare i fini fondamentali dell’istituto, cioè l’unità dell’esecuzione e la par condicio creditorum; dall’altro lato, tutto ciò che non è funzionale a tale ultima esigenza non viene attratto dal tribunale fallimentare, dovendo anzi prevalere la considerazione della natura dei diritti di cui si chiede tutela − i quali hanno una prioritaria dimensione non patrimoniale confermata dalla protezione accordata agli stessi dalle norme costituzionali – e la necessità di garantire un rapido scrutinio della domanda da parte del giudice del lavoro nelle forme del rito del lavoro, in vista dell’ipotesi in cui l’attività continui o vi sia ripresa dell’attività lavorativa, o per tutelare i connessi diritti previdenziali.

Tale funzionalizzazione determina, come ha chiarito, Sez. L, n. 2975/2017, Manna A., Rv. 643076-01, che nel caso di domanda di reintegra nel posto di lavoro la competenza funzionale è del giudice del lavoro, il quale può emettere – sempre che in concreto ne sussistano gli estremi – i provvedimenti richiesti (reintegra nel posto di lavoro e altre statuizioni a tutela di diritti non patrimoniali), senza che a ciò sia di ostacolo la cessazione dell’attività della società fallita; la pronuncia di reintegra non ha ad oggetto solo il concreto ripristino della prestazione lavorativa (che presuppone la ripresa dell’attività aziendale previa autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’impresa), ma anche le possibili utilità connesse al ripristino del rapporto, che viene a trovarsi in uno stato di quiescenza da cui possono scaturire una serie di utilità, quali la ripresa del lavoro (in relazione all’eventualità di un esercizio provvisorio, d’una cessione dell’azienda o della ripresa della sua amministrazione da parte del fallito a seguito di concordato fallimentare o di ritorno in bonis) o l’eventuale ammissione ad una serie di benefici (indennità di cassa integrazione, di disoccupazione, di mobilità).

Più complesse sono invece le questioni derivanti da quella nuova forma di procedura concorsuale costituita dallo speciale procedimento incidentale di verifica dei crediti previsto dagli artt. 52 e ss. del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, in materia di sequestro e confisca di prevenzione. A tale riguardo, Sez. 6-L, n. 7445/2017, Fernandes, Rv. 643633-01, ha tracciato la fondamentale distinzione tra quote societarie e patrimonio societario riferibile alla persona giuridica che ne è titolare; in caso di sequestro delle prime, la società conserva la propria personalità giuridica ed autonomia patrimoniale, con la conseguenza che i creditori dell’ente non sono tenuti ad attivare la speciale procedura prevista dal codice antimafia e non sussiste la competenza funzionale del Tribunale per le misure di prevenzione che ha adottato il sequestro; pertanto, qualora il giudizio abbia ad oggetto un credito di lavoro, è competente il Tribunale in funzione di giudice del lavoro.

2.2. Il socio lavoratore di società cooperativa.

Molto controverso è poi il problema del giudice che deve decidere le cause del socio lavoratore di società cooperativa, benché esso non involga questioni di competenza in senso proprio, ma solo di ripartizione degli affari all’interno dello stesso ufficio.

Sez. 6-L, n. 12460/2017, Arienzo, Rv. 644584-01, ha tracciato al riguardo la seguente distinzione: l’art. 5, comma 2, della legge 3 aprile 2001, n. 142, come sostituito dall’art. 9 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, contempla la competenza del tribunale in composizione ordinaria limitatamente alle “controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica”, senza che detto assetto normativo sia stato mutato dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, posto che il principio della forza di attrazione del rito del lavoro, di cui all’art. 40, comma 3, c.p.c., costituisce regola cui deve riconoscersi carattere generale e preminente, per gli interessi di rilevanza costituzionale che la norma processuale è preordinata a garantire (la fattispecie era peraltro molto peculiare, posto che il petitum era costituito dalla richiesta di condanna della società committente, reale datrice di lavoro, al pagamento dei corrispettivi in favore dei soci–lavoratori, anche se in solido con alcune società interposte; la S.C. ha ritenuto la competenza del giudice del lavoro, considerando irrilevante l’ulteriore domanda diretta all’accertamento della simulazione del rapporto di lavoro mediante lo schema cooperativistico).

2.3. Competenza per materia: altre questioni.

Sempre in tema di competenza per materia, Sez. 6-3, n. 14336/2017, Vincenti, Rv. 644627-01, ha avuto modo di confermare che il credito azionato in executivis dal difensore del lavoratore munito di procura nella sua veste di distrattario delle spese di lite, ancorché consacrato in un provvedimento del giudice del lavoro, non condivide la natura dell’eventuale credito fatto valere in giudizio, cui semplicemente accede, ma ha natura ordinaria, corrispondendo ad un diritto autonomo del difensore, che sorge direttamente in suo favore e nei confronti della parte dichiarata soccombente. Conseguentemente, non opera con riferimento al detto credito la competenza per materia del giudice del lavoro, prevista per l’opposizione all’esecuzione dall’art. 618-bis c.p.c.

2.4. La competenza territoriale.

Ricca, come di consueto, la casistica in materia di competenza territoriale.

Anzitutto, vanno riportate alcune decisioni di portata generale.

La competenza territoriale in ordine alle controversie di lavoro e previdenziali è inderogabile, non rilevando in senso contrario l’adesione dell’attore all’eccezione sollevata dal convenuto o la (inammissibile) rinuncia di quest’ultimo all’eccezione già ritualmente proposta (Sez. 6-3, n. 1381/2017, Scrima, Rv. 642734-01).

Il definitivo radicamento di un determinato foro può essere però la conseguenza anche del concomitante operare di altri fattori: così, Sez. 6-L, n. 18264/2017, Marotta, Rv. 645142-01, ha avuto modo di precisare che nel rito del lavoro la scelta del foro competente operata dal ricorrente che agisce in sede cautelare ante causam, in caso di esplicito accertamento della correttezza della scelta da parte del giudice o di mancata formulazione dell’eccezione o del rilievo d’ufficio, determina il definitivo radicamento della competenza anche per il giudizio di merito, stante il principio di auto responsabilità e affidamento processuale e il sistema di individuazione della competenza cautelare che, in presenza di fori alternativi ex art. 413 c.p.c., è a maggior ragione incentrato sullo stretto collegamento con la competenza in ordine alla causa di merito.

Sul momento in cui l’eventuale incompetenza per territorio può essere rilevata, Sez. 6-L, n. 14061/2017, Curzio, Rv. 644587, ha escluso che il giudice possa provvedervi d’ufficio successivamente all’assunzione della prova testimoniale, in quanto mezzo istruttorio diverso dalle sommarie informazioni di cui al comma 4 dell’art. 38 c.p.c.

Confermativa di un indirizzo consolidato è Sez. L, n. 3469/2017, Ghinoy, Rv. 643084-01: la competenza per territorio del giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto, ai sensi della prima ipotesi dell’art. 413, comma 2, c.p.c., sussiste anche ove risulti successivamente trasferita in altro luogo la sede dell’azienda e la domanda sia stata proposta dopo il decorso di sei mesi da detto trasferimento; il successivo comma 3, secondo cui la competenza territoriale permane dopo il trasferimento dell’azienda o la cessazione di essa, purché la domanda sia proposta entro sei mesi, va riferito esclusivamente agli altri fori alternativi previsti dal comma 2 (luogo in cui si trova l’azienda o la dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale prestava la sua opera al momento della fine del rapporto) e non anche al forum contractus.

A proposito di forum contractus, e passando all’esame di fattispecie più particolari, Sez. 6-L, n. 25402/2017, Ghinoy, Rv. 645822-01, ha poi avuto cura di precisare che il meccanismo previsto dagli artt. 1326, comma 1, e 1335 c.c. opera solo se manchino elementi per ritenere che una conoscenza dell’intervenuta accettazione si è avuta nel medesimo contesto di tempo e di luogo in cui è avvenuta la sottoscrizione della proposta per accettazione; la S.C. ha quindi valorizzato, quale elemento presuntivo, la circostanza che il rapporto di lavoro avesse avuto inizio nella stessa data e nello stesso luogo in cui il lavoratore aveva firmato la proposta, ne ha dedotto che di tale accettazione il datore di lavoro aveva avuto contestuale conoscenza in tale luogo e ha affermato la competenza del giudice di tale ultimo luogo e non di quello ove il datore di lavoro aveva sottoscritto la proposta, poi trasmessa al lavoratore.

Con crescente frequenza, sorgono poi questioni di competenza territoriale nelle ipotesi di rapporti plurisoggettivi collegati a contratti di appalto o di somministrazione, qualora il lavoratore agisca contro l’appaltatore ed il committente, facendo valere, nei confronti di quest’ultimo, la responsabilità solidale con il primo ai sensi dell’art. 29, comma 2, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276. A rigore, tali rapporti non danno luogo a connessione qualificata, con conseguente scindibilità delle relative cause. La S.C. da alcuni anni va tuttavia affermando – e Sez. 6-L, n. 3086/2017, Garri, Rv. 642832-01, lo ha ribadito – che anche in questi casi ricorre una particolare connessione, che, in analogia con le ipotesi più intense ex art. 31 e ss. c.p.c., consente di instaurare, anche in deroga ai fori speciali inderogabili di cui all’art. 413 c.p.c., un unico giudizio davanti al giudice territorialmente competente per l’una o l’altra delle cause connesse.

Rare sono le questioni di competenza territoriale in materia di pubblico impiego.

Il 2017 ne ha però portate in evidenza due, dotate di forti connotati di peculiarità.

Nella fattispecie decisa da Sez. 6-L, n. 3087/2017, Mancino, Rv. 642833-01, la domanda prospettava l’esistenza di un rapporto di lavoro parasubordinato con la P.A., chiedendone l’accertamento: la S.C. ha stabilito che deve trovare applicazione il criterio di collegamento del domicilio di cui all’art. 413, comma 4, c.p.c., che dà rilievo alla natura della prestazione e non alla qualità, pubblica o privata, della controparte della prestazione dell’opera, operando il successivo comma 5 nella diversa ipotesi di domanda di costituzione di un rapporto di lavoro pubblico dipendente.

Ancor più problematico è il caso affrontato da Sez. 6-L, n. 3936/2017, Marotta, Rv. 642834-01. È noto come, tra le rarissime ipotesi in cui la competenza funzionale del giudice del lavoro non implica l’applicazione del rito speciale dettato dagli art. 409 ss. c.p.c., vi sia quella dell’azione per ottenere l’accertamento e la repressione di una condotta discriminatoria sul lavoro, ed il conseguente risarcimento del danno (art. 28, del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, in relazione agli art. 3 e 4, del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216). Secondo la sentenza citata, dall’assoggettamento di tale azione al rito sommario di cognizione (art. 702-bis ss. c.p.c.) discende tra l’altro l’applicazione inderogabile del foro speciale stabilito dall’art. 28 (foro del domicilio del ricorrente), destinato a prevalere sui fori speciali dell’art. 413, incluso il foro per le controversie con la P.A., quando la condotta discriminatoria, per come lamentata e prospettata, sia posta in essere nell’ambito di un rapporto d’impiego pubblico.

3. Il mutamento del rito.

Il passaggio dal rito ordinario al rito speciale nelle cause di lavoro è regolato dall’art. 426 c.p.c., norma che prevede l’assegnazione alle parti di un termine per l’integrazione degli atti introduttivi, nel senso di un loro adeguamento al sistema preclusivo che regge il rito speciale.

Nel 2017 sono giunte due importanti precisazioni su tale passaggio.

La prima è di Sez. L, n. 10569/2017, Patti, Rv. 644086-01, la quale ha ricordato che il mutamento del rito non comporta una rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua della normativa del rito ordinario, dovendosi correlare l’integrazione, prevista dall’art. 426 c.p.c., degli atti introduttivi, alle decadenze di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c. Deve pertanto giudicarsi tardiva, perché formulata dal lavoratore soltanto con la memoria difensiva successiva al mutamento del rito, l’eccezione di illegittimità di un secondo licenziamento, che era proponibile sin dalla comparsa di costituzione e risposta.

Sez. L, n. 14186/2017, Spena, Rv. 644540-01 ha poi confermato che la mancata assegnazione di detto termine vizia il procedimento, fino a poter determinare la nullità della sentenza, qualora la suddetta omissione abbia in concreto comportato pregiudizi o limitazioni del diritto di difesa.

4. Gli atti introduttivi. Il ricorso: requisiti di validità ed effetti della domanda.

Nel solco della giurisprudenza che esige dal ricorso introduttivo di cui all’art. 414 c.p.c. un adeguato grado di specificità, Sez. L, n. 3176/2017, Amendola F., Rv. 643080-01, ha statuito che la domanda avente per oggetto l’accertamento della illegittimità di un licenziamento collettivo, intimato in sede di procedura di mobilità in forza della legge 23 luglio 1991, n. 223, non può risolversi in una generica contestazione della procedura, con la conseguenza che la causa petendi rimane circoscritta agli specifici motivi di impugnazione addotti in primo grado, che non possono esserne proposti altri nel giudizio di appello e che il giudice di merito non può rilevare d’ufficio eventuali ragioni di illegittimità.

Ciò non vuol dire assecondare derive formalistiche: Sez. L, n. 25148/2017, Cinque, Rv. 645888-01, ha perciò puntualizzato che l’impossibilità di contestare o richiedere prova – oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di rito – su fatti non allegati, nonché su circostanze che, pur configurandosi come presupposti o elementi condizionanti il diritto azionato, non siano state esplicitate in modo espresso e specifico nel ricorso introduttivo, viene meno quando il fatto é stato allegato correttamente ma, per mero errore, é stato prodotto un documento non pertinente.

Parimenti, non determina alcuna nullità del ricorso l’omessa o errata indicazione del contratto collettivo applicabile: rientra infatti nel potere-dovere del giudice acquisirlo d’ufficio ex art. 421 c.p.c., qualora vi sia solo contestazione circa la sua applicabilità, non comportando tale acquisizione una supplenza ad una carenza probatoria su fatti costitutivi della domanda, ma piuttosto il superamento di una incertezza su un fatto indispensabile ai fini del decidere (Sez. 6-L, n. 6610/2017, Marotta, Rv. 643453-01).

In tema di forma dell’atto introduttivo, Sez. 6-L, n. 8874/2017, Pagetta, Rv. 644157-01 ha chiarito che ai sensi dell’art. 618 c.p.c. (nel testo attualmente vigente), l’introduzione del giudizio di merito nel termine perentorio fissato dal giudice dell’esecuzione, all’esito dell’esaurimento della fase sommaria, deve avvenire con la forma dell’atto introduttivo relativa al rito con cui va trattata l’opposizione nella fase a cognizione piena, sicché ove si applichi, ex art. 618-bis, comma 1, c.p.c., il rito del lavoro, quel giudizio va instaurato con ricorso da depositarsi nella cancelleria del giudice competente entro il termine perentorio suddetto e, qualora l’opponente ometta di osservarlo, non è possibile assegnarne uno nuovo; in tal caso, l’opposizione è inammissibile e la sentenza che eventualmente l’abbia accolta è nulla (v. anche Sez. 6-3, n. 1218/2017, Armano, Rv. 642730-01).

Sugli effetti sostanziali della domanda a fini interruttivi della prescrizione, nel corso del 2017 la giurisprudenza di legittimità ha confermato i propri orientamenti più recenti.

Resta così fermo che, di regola, l’effetto interruttivo si produce con la notifica al debitore dell’atto introduttivo (conoscenza legale, non effettiva) e non con il semplice deposito del ricorso nella cancelleria del giudice (Sez. L, n. 24031/2017, Calafiore).

Tuttavia, sulla scia delle Sezioni Unite e della Corte costituzionale, Sez. L, n. 10016/2017, Negri Della Torre, Rv. 643762, ha precisato che tale regola non può valere in caso di proposizione di azione giudiziale di annullamento del licenziamento. Al pari delle altre azioni costitutive, rientranti nella più ampia categoria dei diritti potestativi, l’impugnativa del licenziamento è connotata, per un verso, dalla condizione di “soggezione”, anziché di obbligo, in cui versa il soggetto passivo (e cioè dall’irrilevanza di ogni suo comportamento ai fini della realizzazione del diritto, la quale è rimessa soltanto all’attività del titolare dello stesso) e, per altro verso, dal fatto che la realizzazione del diritto si sostanzia in un mutamento di natura soltanto giuridica e non materiale. Tale duplice caratteristica esclude la possibilità di atti interruttivi. Ne scaturisce che il termine di prescrizione di cui all’art. 1442 c.c. è validamente interrotto dal solo deposito del ricorso introduttivo del giudizio nella cancelleria del giudice adito, senza che, a tali fini, sia necessaria anche la notificazione dell’atto al datore di lavoro, dovendosi evitare che sul soggetto che agisce in giudizio ricadano i tempi di emanazione del decreto di fissazione dell’udienza di discussione, con una compressione del termine assegnato.

4.1. La costituzione del convenuto: oneri di contestazione.

Oltre a Sez. L, n. 11417/2017, Cavallaro, Rv. 644235-01, di cui si parlerà infra, in tema di oneri di contestazione da parte del convenuto va menzionata Sez. L, n. 7784/2017, Calafiore, Rv. 643578-01, cui si deve la precisazione che il principio di non contestazione può essere invocato dall’attore purché il fatto costitutivo oggetto di asserita non contestazione sia stato specificamente allegato nel ricorso introduttivo, non essendo sufficiente che sia stato precisato dalla parte unicamente con l’atto di appello.

4.2. L’ampliamento del thema decidendum.

Sez. L, n. 24750/2017, Garri, Rv. 646373-01, si è pronunciata sulla distinzione tra emendatio libelli e controeccezione in senso lato: appartiene a questa seconda categoria, ed è dunque consentita, la deduzione con cui il lavoratore ricorrente, nel giudizio di accertamento della continuità del rapporto di lavoro, a fronte dell’eccezione datoriale di intervenute dimissioni del lavoratore miri a far constatare la nullità del relativo negozio per vizio di forma.

Della possibilità di ampliare il thema decidendum nella fase di opposizione del procedimento introdotto dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, si è occupata Sez. L, n. 27655/2017, Tricomi I., Rv. 646437-01, su cui ci si soffermerà infra.

Particolarmente controversa è la questione della possibilità che sia il giudice d’ufficio ad ampliare il tema decisionale, nelle ipotesi di nullità degli atti privatistici che vengono in evidenza nel processo.

Sulla scia di due notissimi arresti delle Sezioni Unite del 2014 (Sez. U, n. 26242/2017, Travaglino, Rv. 633505-01 e Sez. U, n. 26243/2017, Travaglino, Rv. 633566-01), la Sez. L nel 2015 aveva affermato la possibilità del rilievo officioso delle nullità lavoristiche, rientranti nella categoria delle nullità protettive (Sez. L, n. 17286/2015, Manna A., Rv. 636802-01).

Nel corso del 2017, Sez. L, n. 7687/2017, Di Paolantonio, Rv. 643577-01, si è posta in consapevole contrasto con tale ultimo indirizzo e, per negare la possibilità di un rilievo officioso dei licenziamenti nulli, ha utilizzato anche argomenti di carattere processuale.

La sentenza ha anzitutto mostrato di non condividere l’automatica estensione alla materia lavoristica dei principi elaborati dalle Sez. U a proposito della applicabilità agli atti unilaterali della normativa che regola la materia contrattuale; in tema di licenziamenti, esiste infatti «una normativa speciale che, a partire dalla legge n. 604 del 1966 sino al recente d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, pur utilizzando le categorie civilistiche della inefficacia, nullità e annullabilità, si discosta, quanto al regime giuridico, dalla disciplina generale, tanto da prevedere anche per il licenziamento nullo che lo stesso debba essere impugnato nel termine di decadenza previsto dall’art. 6 della richiamata legge n. 604 del 1966 … e la successiva azione debba essere promossa entro termini perentori particolarmente contenuti … Non vi è dubbio, poi, che la specialità debba essere affermata anche in relazione ai successivi interventi normativi che, nel ridurre l’ambito della tutela reintegratoria piena, hanno attribuito rilievo alla natura del vizio e alle cause di nullità del recesso, ma sempre differenziando la disciplina rispetto all’azione generale di nullità. In relazione al tema che qui viene in rilievo della applicabilità dell’art. 1421 c.c. proprio detti ultimi interventi forniscono un riscontro alla tesi della non rilevabilità d’ufficio di profili di nullità del licenziamento non dedotti dalla parte, posto che, in un sistema processuale fondato sul principio della domanda e sul conseguente divieto di ultrapetizione, non si giustificherebbe diversamente la previsione dell’art. 18, comma 7, della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, e dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui fanno riferimento all’applicazione delle tutele previste per il licenziamento discriminatorio (quindi affetto da nullità) “sulla base della domanda formulata dal lavoratore”».

5. Le prove.

La rigidità che caratterizza, nel rito del lavoro, il sistema di preclusioni istruttorie deve essere correttamente intesa. Pertanto, come puntualizzato da Sez. L, n. 25652/2017, Amendola F., Rv. 646376-01, qualora i mezzi di prova siano stati tempestivamente articolati negli atti introduttivi del giudizio di primo grado, non può presumersi il loro abbandono né ritenersi maturata alcuna decadenza dalla mancata presentazione di un’ulteriore istanza di ammissione nelle udienze successive alla prima; ne consegue che il giudice d’appello può ammettere le prove che, ritualmente richieste, non siano state ammesse in primo grado, essendo a tal fine sufficiente, ove chi vi abbia interesse sia completamente vittorioso, che la parte riproponga l’istanza di ammissione nella memoria di costituzione nel giudizio di secondo grado.

A proposito delle prove utilizzabili dal giudice nella formazione del proprio convincimento, Sez. L, n. 5317/2017, Di Paolantonio, Rv. 643273-01, ha affermato, in una controversia relativa a un licenziamento per giusta causa, la valutabilità degli atti delle indagini preliminari e delle intercettazioni telefoniche ivi assunte, anche ove sia mancato il vaglio critico del dibattimento penale.

La norma sui poteri istruttori officiosi (art. 421 c.p.c.), solitamente foriera di molti contrasti interpretativi, nel corso del 2017 ha dato luogo a un numero limitato di pronunce.

Tra queste, a meritare segnalazione è anzitutto Sez. L, n. 25374/2017, Tricomi I., Rv. 645890-01, secondo cui è certamente vero che l’uso dei poteri istruttori da parte del giudice ex artt. 421 e 437 c.p.c., non ha carattere discrezionale, ma costituisce un potere-dovere del cui esercizio o mancato esercizio questi è tenuto a dar conto; tuttavia, perché sia possibile censurare in sede di ricorso per cassazione l’inesistenza o la lacunosità della motivazione sulla mancata attivazione di tali poteri, occorre dimostrare di averne sollecitato l’esercizio, in quanto diversamente si introdurrebbe per la prima volta in sede di legittimità un tema del contendere totalmente nuovo rispetto a quelli già dibattuti nelle precedenti fasi di merito.

Particolare è poi la fattispecie esaminata da Sez. L, n. 14197/2017, Blasutto, Rv. 644542-01. In una controversia sul riconoscimento della causa di servizio e dell’equo indennizzo, il giudice di merito non aveva accolto l’istanza di nomina di un c.t.u. che verificasse la sussistenza delle condizioni per la sussistenza del diritto, sul presupposto che il ricorrente potesse contestare solo la regolarità del procedimento, ma non il merito degli accertamenti svolti dagli organi tecnici pubblici. La Suprema Corte ha negato la validità di tali presupposti: è sempre possibile il sindacato giudiziale delle determinazioni assunte da tali organi, ai fini dell’accertamento della esattezza delle relative determinazioni, cosicché il giudice è autorizzato a esercitare i propri poteri officiosi ex art. 421 e 437 c.p.c.

6. La decisione della causa.

Due sono state, nel corso del 2017, le pronunce di legittimità che si sono soffermate sulla fase decisionale.

Sez. 6-L, n. 8441/2017, Fernandes, Rv. 643790-01 ha espresso il principio per cui, nel rito del lavoro, sussiste violazione dell’art. 429 c.p.c., con conseguente nullità della sentenza, qualora, pur essendo stato disposto il rinvio dell’udienza, venga pronunciata sentenza senza che le parti abbiano potuto procedere alla discussione orale, in violazione del diritto di difesa e del conseguente principio del contraddittorio, che deve realizzarsi nella sua piena effettività durante tutto lo svolgimento del processo.

Vi è poi una questione che aveva molto affaticato gli interpreti all’indomani della riforma dell’art. 429 c.p.c., realizzata dal d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. con modif., dalla legge 6 agosto 2008, n. 133: quella della decorrenza del termine cd. lungo ex art. 327 c.p.c. per impugnare.

Al riguardo, vi è la precisazione fornita da Sez. L, n. 13617/2017, Amendola F., Rv. 644523-01: nell’ipotesi in cui il giudice decida la causa mediante la lettura del dispositivo e delle ragioni in fatto e diritto della decisione, detto termine decorre dalla data della pronuncia, che equivale, unitamente alla sottoscrizione del relativo verbale da parte del giudice, alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall’art. 133 c.p.c., con esonero, quindi, della cancelleria dalla comunicazione della sentenza; viceversa, nella residuale ipotesi di particolare complessità della controversia, in cui il giudice fissi un termine non superiore a sessanta giorni per il deposito della sentenza, ai sensi dell’art. 430 c.p.c., il termine decorrerà dalla comunicazione alle parti dell’avvenuto deposito da parte del cancelliere.

7. L’appello.

Si ricollega al tema affrontato nel precedente §, ma concerne più da vicino il giudizio di appello, la pronuncia di Sez. L, n. 12372/2017, Doronzo, Rv. 644344-01, con cui la S.C. ha affermato che, nel rito del lavoro, la sentenza appellabile, salva la particolare ipotesi contemplata nel comma 2 dell’art. 433 c.p.c., è quella che contiene tutti gli elementi elencati nell’art. 132, comma 1, c.p.c., e che è pubblicata ai sensi dell’art. 133 c.p.c.; di conseguenza, nel caso di notificazione del solo dispositivo della sentenza, sempre che non ricorra l’ipotesi prevista dall’art. 433, comma 2, c.p.c., non decorre il termine breve per l’impugnazione; ove, peraltro, il dispositivo non sia seguito dalla motivazione, bensì da un atto che attesti il mancato deposito della motivazione per impedimento del giudice, l’onere di impugnazione decorre solo dalla comunicazione del mancato deposito della motivazione.

In tema di introduzione del giudizio d’appello, Sez. L, n. 5853/2017, Tricomi I., Rv. 643276-01, ha enunciato il principio per cui la notificazione dell’atto di appello eseguita direttamente all’amministrazione statale – parte del rapporto di lavoro e costituita nel giudizio di primo grado tramite un proprio dipendente ex art. 417-bis c.p.c. – anziché presso l’Avvocatura dello Stato è affetta da nullità, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 11 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, ed è quindi suscettibile di rinnovazione ex art. 291 c.p.c., se non sanata dalla costituzione della parte intimata.

Due pronunce poi in tema di appello incidentale.

Anzitutto, Sez. L, n. 24742/2017, Spena, Rv. 646371-01, ha ribadito il costante orientamento, secondo cui la sanzione dell’inammissibilità colpisce l’appello incidentale nella sola ipotesi di mancato deposito in cancelleria della memoria difensiva dell’appellato entro il termine di dieci giorni prima dell’udienza di discussione; ogni altro vizio della fase introduttiva, tra cui soprattutto l’omessa notificazione dell’appello incidentale, determina invece (Sez. L, n. 8595/2017, Doronzo, Rv. 643895-01) l’improcedibilità dell’impugnazione e non consente neppure, ove l’appellante incidentale non sia comparso all’udienza di discussione, il rinvio di quest’ultima ai sensi dell’art. 348, comma 2, c.p.c.

8. Il ricorso per cassazione.

Ai fini della procedibilità del ricorso per cassazione avverso la sentenza che definisce il reclamo ex art. 1, comma 62, della l. n. 92 del 2012, Sez. L, n. 25136/2017, Garri, Rv. 646110-01, ha giudicato sufficiente il deposito della comunicazione avvenuta via Pec che, per la decorrenza del termine breve di decadenza per l’impugnazione, deve però avere ad oggetto la sentenza nel suo testo integrale; non basta il mero avviso del deposito, atteso che la parte deve essere posta in grado di conoscere le ragioni sulle quali la pronuncia è fondata e di valutarne la correttezza onde predisporne l’eventuale impugnazione.

Nelle controversie relative ai rapporti di lavoro del pubblico impiego privatizzato, l’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001 consente di denunciare direttamente in sede di legittimità la violazione o falsa applicazione dei contratti ed accordi collettivi. Sez. L, n. 14449/2017, Torrice, Rv. 644993-01, ha ribadito il costante orientamento della S.C., secondo cui tale possibilità deve tuttavia intendersi limitata ai contratti ed accordi nazionali di cui all’art. 40 dello stesso d.lgs., con esclusione dei contratti integrativi contemplati nello stesso articolo, in relazione ai quali il controllo di legittimità è finalizzato esclusivamente alla verifica del rispetto dei canoni legali di interpretazione e dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione sufficiente e non contraddittoria (fattispecie in materia di contratti collettivi integrativi relativi alla mobilità del personale docente ed educativo ed ATA).

Confermativa di un orientamento consolidato è Sez. L, n. 8752/2017, Ghinoy, Rv. 644059-01, in ordine al sindacato di legittimità sull’esercizio dei poteri officiosi, peraltro nella vigenza del vecchio testo dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.: si tratta di un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale, che può essere sottoposto al sindacato di legittimità soltanto come vizio di motivazione, qualora la sentenza di merito non adduca un’adeguata spiegazione per disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione.

9. Il cd. rito Fornero.

Il cd. rito Fornero, introdotto dall’art. 1, commi 48 ss., della l. n. 92 del 2012, presenta molti nodi problematici. Nel corso del 2017, la S.C. si è soffermata soprattutto sui seguenti.

Anzitutto, da parte di Sez. L, n. 2621/2017, Manna A., Rv. 643071-01, si è chiarito che nell’ambito del cd. rito Fornero, così come in quello del lavoro, ove risulti omessa o inesistente la notifica del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell’udienza, è ammessa l’assegnazione di un nuovo termine, perentorio, ex art. 291, comma 1, c.p.c., per il rinnovo della stessa, non ostandovi le esigenze di celerità che lo ispirano né il principio della ragionevole durata del processo, atteso che l’eventuale inammissibilità o improcedibilità del ricorso non ne precludono la riproposizione, con una ulteriore dilatazione del tempo necessario ad ottenere una pronuncia di merito.

Vi è poi la questione, ampiamente dibattuta nella dottrina e nella giurisprudenza di merito, della possibilità di unificare le due fasi in cui si articola il procedimento di primo grado.

Due importanti arresti del 2017 (Sez. L, n. 8467/2017, Lorito, Rv. 643592-01, seguita da Sez. L, n. 15976/2017, Bronzini) hanno sancito che il principio della prevalenza della sostanza sulla forma nell’interpretazione dei provvedimenti giurisdizionali e l’esigenza di riduzione dei tempi delle decisioni sulla legittimità dei licenziamenti comportano che, qualora il giudice, all’esito della prima fase del giudizio, sia pervenuto, nel rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti, ad una pronuncia avente forma di sentenza e contenuto decisorio, il rimedio contro tale provvedimento non consiste nell’opposizione dinanzi allo stesso giudice che l’ha emesso, ai sensi dell’art. 1, commi 51 ss., l. n. 92 del 2012, bensì nel gravame innanzi alla corte d’appello.

Significativa è poi anche Sez. L, n. 27655/2017, Tricomi I., Rv. 646437-01, la quale ha ribadito che la fase di opposizione all’ordinanza emessa nella fase sommaria non è una revisio prioris instantiae, non è dunque un’impugnazione in senso proprio e consente di devolvere al giudice di quella fase anche motivi di contestazione della legittimità del licenziamento non fatti valere inizialmente (la sentenza ha invece escluso, sia pure incidentalmente, la rilevabilità officiosa delle cause di nullità del licenziamento, richiamando la citata Sez. L, n. 7687/2017, Di Paolantonio, Rv. 643577-01).

Di rilevante importanza pratica è infine l’affermazione contenuta in Sez. L, n. 856/2017, Ghinoy, Rv. 642513-01, in base alla quale, ai fini della decorrenza del termine breve di cui all’art. 1, comma 58, della l. n. 92 del 2012, non é sufficiente il mero avviso di deposito del provvedimento, ma è necessaria la comunicazione del testo integrale della sentenza che, analogamente a quanto avviene per la notificazione, consente alla parte di avere conoscenza delle ragioni sulle quali la pronuncia è fondata e di valutarne la correttezza; la disposizione, infatti, sebbene di carattere speciale, nulla specifica in merito alla forma della comunicazione, sicché vale, al riguardo, la disciplina dettata dal codice di rito all’art. 45, comma 2, disp. att. c.p.c., come modificato dall’art. 16, comma 3, lett. b) e c), del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. con modif., dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221.

10. La conciliazione giudiziale.

In tema di conciliazione giudiziale, Sez. L, n. 25472/2017, Spena, Rv. 645894-01, ha ribadito una importante distinzione: la conciliazione giudiziale prevista dagli artt. 185 e 420 c.p.c. è una convenzione non assimilabile ad un negozio di diritto privato puro e semplice, caratterizzandosi, strutturalmente, per il necessario intervento del giudice e per le formalità previste dall’art. 88 disp. att. c.p.c. e, funzionalmente, da un lato per l’effetto processuale di chiusura del giudizio nel quale interviene, dall’altro per gli effetti sostanziali derivanti dal negozio giuridico contestualmente stipulato dalle parti, che può avere anche ad oggetto diritti indisponibili del lavoratore. Questo costituisce il tratto distintivo rispetto alla transazione.

Quando la conciliazione giudiziale è relativa alla definizione delle pendenze riconducibili alla cessazione ed estinzione del rapporto di lavoro subordinato sottostante, essa ha natura novativa, costituendo l’unica ed originaria fonte dei diritti e degli obblighi successivi alla risoluzione, con la conseguenza che le somme dovute al lavoratore, ancorché aventi natura retributiva, restano disancorate dal preesistente rapporto e il relativo importo non può essere computato per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale (Sez. L, n. 19587/2017, Cavallaro, Rv. 645275-01).

11. L’arbitrato irrituale.

In materia di arbitrato e controversie di lavoro, l’unica pronuncia del 2017 è stata Sez. 6-1, n. 20653/2017, Di Virgilio, Rv. 645696-01, secondo la quale il dirigente di azienda industriale che, ai sensi delle disposizioni del contratto collettivo di categoria integranti una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, abbia adito il collegio arbitrale, senza che a ciò si sia opposta la controparte, per la determinazione dell’indennità supplementare dovuta in ragione della mancanza di giustificazione del proprio licenziamento, non può, salvo che il collegio predetto si sia dichiarato privo di legittimazione a decidere la controversia o che il procedimento non sia pervenuto alla sua conclusione con il lodo o che il relativo patto sia divenuto per qualsiasi ragione inoperante, proporre la medesima azione in sede giudiziaria; egli non è infatti abilitato a trasferire unilateralmente la questione davanti al giudice dopo il compimento di atti incompatibili con la volontà di avvalersi di tale tutela ed in mancanza di una volontà del datore di lavoro contraria all’utilizzazione del procedimento arbitrale; ove il dirigente medesimo non abbia attivato la procedura arbitrale, invece, ben può proporre l’azione giudiziaria, in conformità al principio di alternatività delle tutele consentite in relazione alla specificità delle ipotesi delle controversie di lavoro, ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge 11 agosto 1973, n. 533.

12. La sospensione feriale dei termini.

L’art. 3 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, prevede che la sospensione feriale dei termini non operi nelle controversie di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatoria.

La portata di tale inoperatività è tendenzialmente omnicomprensiva, investendo infatti anche i giudizi per l’accertamento dei crediti concorsuali nei quali si controverta dell’ammissione allo stato passivo dei crediti di lavoro (Sez. U, n. 10944/2017, Cristiano, Rv. 643946-01), nonché il termine lungo per la proposizione del ricorso per revocazione ex art. 395, n. 4 c.p.c. avverso le sentenze di legittimità (Sez. L, n. 23698/2017, Tricomi I., Rv. 646095-01).

13. Il processo previdenziale.

13.1. Requisiti di ammissibilità.

Nel corso del 2017, la Suprema Corte ha confermato la propria rigorosa giurisprudenza in tema di accesso alla giustizia previdenziale.

Si è così ribadito (Sez. L, n. 5453/2017, Doronzo, Rv. 643427-01, seguita da Sez. 6-L, n. 19767/2017, Ghinoy, Rv. 645666-01) che, in tema di prestazioni previdenziali e assistenziali, la preventiva presentazione della domanda amministrativa costituisce condizione di proponibilità della domanda giudiziale, la cui omissione è rilevabile in qualsiasi stato e grado del giudizio, senza che tale difetto possa essere sanato dalla presentazione di domanda amministrativa concernente prestazione previdenziale diversa, ancorché compatibile con quella poi richiesta in sede giudiziaria (in specie, la domanda giudiziale volta a ottenere il beneficio pensionistico per i ciechi assoluti è stata considerata improponibile in mancanza della corrispondente domanda amministrativa, a nulla rilevando che l’istante avesse presentato in sede amministrativa una richiesta finalizzata al riconoscimento dell’invalidità civile).

Ciò vale anche per la domanda volta all’ottenimento della rivalutazione contributiva da esposizione all’amianto. Sez. 6-L, n. 11438/2017, Marotta, Rv. 644255-01, ha sancito che la domanda amministrativa della prestazione all’ente erogatore, ex art. 7 della l. n. 533 del 1973, è condizione di ammissibilità di quella giudiziale, diversamente dal ricorso introduttivo del procedimento contenzioso amministrativo ex art. 443 c.p.c., avendo disposto il legislatore che il privato non affermi un diritto davanti all’autorità giudiziaria prima che esso sia sorto, ossia prima del perfezionamento della relativa fattispecie a formazione progressiva, nella quale la presentazione della domanda segna la nascita dell’obbligo dell’ente previdenziale e, in quanto tale, non può essere assimilata ad una condizione dell’azione, rilevante anche se sopravvenuta nel corso del giudizio.

Ne consegue che l’azione iniziata senza la presentazione in sede amministrativa della corrispondente istanza comporta l’improponibilità della domanda giudiziale, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, con conseguente nullità di tutti gli atti del processo.

Un’altra barriera posta all’accesso alla giustizia previdenziale è costituita dalla previsione del termine semestrale di decadenza ex art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639.

Un’articolata pronuncia di legittimità (Sez. L, n. 15969/2017, Riverso, Rv. 644790-01) ha svolto alcune importanti precisazioni in ordine alla decorrenza di detto termine. Dopo avere enunciato due diverse decorrenze della decadenza (dalla data della comunicazione della decisione del ricorso amministrativo o da quella di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della detta decisione), la S.C. ha individuato – nella «scadenza dei termini prescritti per l’esaurimento del procedimento amministrativo» – la soglia di trecento giorni (risultante dalla somma del termine presuntivo di centoventi giorni dalla data di presentazione della richiesta di prestazione, di cui all’art. 7 della l. n. 533 del 1973, e di centottanta giorni, previsto dall’art. 46, commi 5 e 6, della l. 9 marzo 1989, n. 88), oltre la quale la presentazione di un ricorso tardivo – pur restando rilevante ai fini della procedibilità dell’azione giudiziaria – non consente lo spostamento in avanti del dies a quo per l’inizio del computo del termine di decadenza (di tre anni o di un anno); tale disposizione, quale norma di chiusura volta ad evitare una incontrollabile dilatabilità del termine di una decadenza avente natura pubblica, deve trovare applicazione anche se il ricorso amministrativo, o la relativa decisione, siano intervenuti in ritardo rispetto al termine previsto.

Sez. L, n. 15064/2017, Berrino, Rv. 644777-01, ha invece escluso che la decadenza di cui all’art. 47 (in combinato disposto con l’art. 6 del d.l. 29 marzo 2001, n. 103, conv., con modif., dalla legge 1° giugno 2001, n. 166) si applichi al ricorso giudiziale volto ad ottenere la riliquidazione dell’indennità di disoccupazione agricola, per asserita erronea individuazione della base di calcolo, trattandosi di domanda giudiziale rivolta ad ottenere solo il suo adeguamento a quello dovuto.

Le implicazioni processuali di tale statuizione sono importanti: qualora infatti il giudice di merito abbia dichiarato la detta decadenza in forza del criterio della cd. ragione più liquida, senza esaminare la spettanza del diritto oggetto di lite, l’esclusione in sede di legittimità della decadenza comporta la cassazione della sentenza e la decisione ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., non ostandovi il rilievo d’ufficio della questione relativa all’inserimento della quota di t.f.r. nella base di calcolo dell’indennità, non trattandosi di giudicato implicito, bensì di assorbimento cd. improprio che non impone l’impugnazione da parte del soggetto vittorioso in appello.

Anche in tema di assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali sono previsti termini decadenziali. Sez. L, n. 19784/2017, Doronzo, Rv. 645593-01, ha precisato che la decadenza di cui all’art. 137 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, per la quale la domanda va proposta non oltre un anno dalla scadenza del termine di quindici anni dalla costituzione della rendita, si riferisce esclusivamente alla domanda di aggravamento eventuale e conseguenziale dell’inabilità derivante dalla naturale evoluzione della originaria malattia, non all’ipotesi in cui il protrarsi dell’esposizione al medesimo rischio patogeno determini nel beneficiario della rendita una “nuova” inabilità, seppure della stessa natura della prima, che risulti superiore a quella già riconosciuta.

Nei giudizi per prestazioni previdenziali, un altro requisito di ammissibilità del ricorso è fissato nell’art. 152 disp. att. c.p.c. e consiste nell’onere di dichiarare l’esatto valore della prestazione dedotta in giudizio: Sez. 6-L, n. 8614/2017, Pagetta, Rv. 643948-01 ha però chiarito che detto onere sussiste solo per il ricorso introduttivo del giudizio e non anche per quelli concernenti i gradi successivi al primo.

13.2. Questioni processuali.

Di portata generale è l’affermazione, contenuta in Sez. L, n. 11417/2017, Cavallaro, Rv. 644235-01, secondo cui il principio di non contestazione si applica anche ai diritti a prestazioni previdenziali, senza che rilevi il loro carattere indisponibile: la mancata contestazione opera in relazione alla prova dei fatti costitutivi del diritto – ancorché non necessariamente comuni alle parti in causa – e non alla disponibilità del diritto medesimo.

La natura indisponibile dei diritti coinvolti nelle questioni previdenziali fa sì che il giudice debba sempre accertare l’esistenza dei requisiti necessari per l’erogazione della prestazione, anche nel caso in cui, in sede amministrativa, sia stato già emanato un provvedimento ricognitivo del diritto fatto valere dall’assicurato (Sez. 6-L, n. 11516/2017, Mancino, Rv. 644372-01).

Sulla continenza, Sez. 6-L, n. 21072/2017, Marotta, Rv. 645667-01, ha escluso che sia ravvisabile un rapporto di tal genere qualora, in relazione al medesimo infortunio, siano state proposte innanzi a giudici diversi una domanda di risarcimento del danno proposta dal soggetto infortunato nei confronti del responsabile civile e una domanda di regresso proposta dall’INAIL, ai sensi degli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124 del 1965, ostandovi la diversità dei soggetti e dei titoli e la insussistenza di alcun rapporto di pregiudizialità.

13.3. Opposizione a cartella esattoriale in materia contributiva.

In tema di opposizione a cartella esattoriale finalizzata alla riscossione di contributi previdenziali, vanno anzitutto menzionate le sentenze che, nel corso del 2017, hanno dato continuità agli orientamenti di legittimità inerenti alla natura del procedimento di opposizione e alle conseguenti posizioni processuali delle parti.

È stato così confermato che l’opposizione avverso la cartella esattoriale di pagamento dà luogo ad un giudizio ordinario di cognizione su diritti ed obblighi inerenti al rapporto previdenziale.

Ne discende che l’ente previdenziale convenuto assume la posizione di attore in senso sostanziale e, in tale veste, ha l’onere di provare i fatti costitutivi della propria pretesa, ad es. la natura subordinata del rapporto di lavoro (Sez. L, n. 10583/2017, Doronzo, Rv. 644089-01); lo stesso ente però può chiedere, oltre al rigetto dell’opposizione, anche la condanna dell’opponente all’adempimento dell’obbligo contributivo portato dalla cartella, sia pure nella misura residua ancora dovuta, senza che ne risulti mutata la domanda (Sez. 6-L, n. 11515/2017, Mancino, Rv. 644371-01).

Per la loro portata garantistica, si segnalano poi due pronunce relative ai requisiti che la cartella esattoriale deve possedere.

Sez. L, n. 25667/2017, Mancino, Rv. 646378-01, ha stabilito che ove la cartella contenga l’indicazione di un termine per proporre opposizione superiore rispetto a quello previsto dalla legge, vale il termine indicato in cartella e non quello fissato dal legislatore, dovendosi ritenere che l’errore di diritto commesso nell’atto notificato sia idoneo, anche alla luce del principio di congruità e intellegibilità della motivazione del provvedimento amministrativo, a ingenerare nel destinatario un errore scusabile, tale da far sorgere in lui un ragionevole affidamento nel diverso e maggiore termine indicato dall’autorità competente.

Sez. L, n. 5691/2017, Riverso, Rv. 643431-01, ha invece sancito che la mancata indicazione, nella copia notificata della cartella esattoriale, della data di consegna dell’atto al destinatario comporta una nullità insanabile della notifica, che l’eventuale opposizione tardiva non è idonea a rimuovere, senza alcun onere del notificato di dedurre l’esistenza di un pregiudizio.

Ad altra tematica fa riferimento Sez. L, n. 9159/2017, Riverso, Rv. 644026-01, secondo la quale il potere di iscrizione a ruolo dei crediti previdenziali non subisce alcuna interdizione quando è stato impugnato in giudizio un autonomo credito iscritto a ruolo e portato a conoscenza della parte debitrice, in quanto l’art. 24, comma 3, del d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, riconnette l’effetto impeditivo all’atto di accertamento posto a monte e non già all’atto esecutivo che sta a valle.

13.4. L’accertamento tecnico preventivo ex art. 445-bis c.p.c.

In materia di accertamento tecnico preventivo obbligatorio (art. 445-bis c.p.c.), vanno distinte le questioni che afferiscono alla natura di tale procedimento da quelle riguardanti il regime delle impugnazioni del provvedimento di omologa che le conclude.

Su questo secondo tema, anche nel corso del 2017 la S.C. ha confermato che il decreto di omologa che chiude il relativo procedimento è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., limitatamente alla statuizione sulle spese, ed indipendentemente dalla sua notificazione, nel termine semestrale previsto dall’art. 327 c.p.c. decorrente dalla data del suo deposito (Sez. 6-L, n. 4365/2017, Pagetta, Rv. 643122-01).

  • espropriazione

CAPITOLO XXXIX

IL PROCESSO DI ESECUZIONE

(di Raffaele Rossi )

Sommario

1 Titolo esecutivo. - 2 Precetto. - 3 Espropriazione mobiliare. - 4 Espropriazione presso terzi. - 5 Espropriazione immobiliare. - 6 Opposizioni esecutive: profili comuni. - 6.1 Opposizione all’esecuzione, opposizione agli atti esecutivi, opposizione di terzo all’esecuzione. - 7 Sospensione ed estinzione dell’esecuzione.

1. Titolo esecutivo.

La giurisprudenza di legittimità dell’anno in rassegna si muove secondo linee direttrici di sostanziale continuità con l’elaborazione degli anni precedenti: la riaffermazione di orientamenti consolidati, da un lato, e la puntualizzazione (in chiave di ulteriore specificazione e non senza aspetti innovativi) di alcuni principi generali, dall’altro, delineano oramai un organico statuto di disciplina del processo esecutivo, idoneo (in ciò assolvendosi pienamente la funzione di nomofilachia) ad orientare l’interprete in un settore interessato negli ultimi anni da reiterati ed assai incidenti interventi riformatori legislativi.

Il primo fondamento dell’intero sistema è la devoluzione in via esclusiva della giurisdizione sul complesso delle procedure esecutive al giudice ordinario.

Presupposto del processo di esecuzione è, infatti, l’esistenza di un titolo esecutivo che incorpori un diritto certo, liquido ed esigibile, senza che possano venire in rilievo profili cognitori di accertamento dell’obbligazione: ciò, ad avviso di Sez. U, n. 10939/2017, Di Iasi, Rv. 643944-01, esclude in radice la prospettabilità di questioni di giurisdizione in sede di opposizione a precetto, non potendosi individuare altro giudice competente sulla materia diverso dal giudice civile.

Il principio nulla executio sine titulo è nozione da intendersi in senso dinamico, cioè a dire come immanenza del titolo esecutivo rispetto alla procedura, necessaria esistenza di un titolo, valido ed efficace, dalla notifica del prodromico atto di precetto sino al compimento dell’atto terminale del procedimento esecutivo.

Ne deriva che la sopravvenuta caducazione del titolo − quale effetto dello sviluppo del giudizio di cognizione in cui esso si è formato o dei gradi di impugnazione − travolge gli atti esecutivi compiuti in forza dello stesso, privati ex tunc di ogni efficacia: lo ha ribadito Sez. 6-3, n. 20789/2017, Vincenti, Rv. 645363-01, in relazione all’ordinanza di condanna al pagamento di somme non contestate ex art. 186-bis c.p.c. revocata in corso di causa o con la sentenza, definitiva o meno, in rito o nel merito, che decide la controversia.

Caratteristica imprescindibile del titolo esecutivo è la sua autosufficienza, ovvero la necessaria idoneità di esso ad individuare compiutamente il comando da attuare, senza bisogno di ulteriori attività di accertamento cognitivo, tendenzialmente bandite (salve le pur significative deroghe) nell’ambito del processo esecutivo.

Dal punto di vista oggettivo, l’autosufficienza si traduce nella esatta individuazione del bene da conseguire o dell’obbligo da realizzare coattivamente, non essendo consentito al giudice dell’esecuzione (o dell’opposizione all’esecuzione) qualsivoglia integrazione o correzione del titolo esecutivo: così, in tema di esecuzione forzata fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi che ha comminato, limitandosi alla generica qualificazione degli stessi in termini di “interessi legali” o “di legge”, si devono ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’art. 1284 c.c., in ragione della portata generale di questa disposizione, rispetto alla quale le altre ipotesi di interessi previste dalla legge hanno natura speciale (Sez. 3, n. 22457/2017, D’Arrigo, Rv. 645770-01).

Sotto l’aspetto soggettivo, sempre in forza del principio di autosufficienza, esclusivamente sulla base del contenuto del titolo si determina la legittimazione, attiva e passiva, all’azione esecutiva, spettando la stessa ai soggetti rispettivamente indicati come creditore e debitore nel titolo esecutivo.

Questa ordinaria corrispondenza soffre eccezioni nelle ipotesi di efficacia cd. ultra partes del titolo esecutivo, in cui cioè esso può essere fatto valere da o nei confronti di soggetti terzi, conseguenza del verificarsi di un fenomeno successorio nella titolarità della situazione giuridica sostanziale (creditoria o debitoria) oppure, dal lato passivo, dell’operare di nessi di pregiudizialità – dipendenza tra situazioni giuridiche sostanziali.

Sull’ampliamento dell’efficacia esecutiva del titolo dal lato creditorio, Sez. 3, n. 20155/2017, Graziosi, Rv. 645498-01, ha chiarito che il titolo esecutivo giudiziale emesso in favore di una società non perde efficacia in caso di estinzione della stessa per cancellazione dal registro delle imprese, sicché esso può essere fatto valere, al fine di esercitare il relativo diritto a procedere ad esecuzione forzata, dalla persona fisica nei cui confronti si integra il fenomeno successorio derivante dall’estinzione.

Ex latere debitoris, con riferimento a vicenda di assai frequente verificazione, pacifica la natura parziaria della responsabilità del singolo condomino per le obbligazioni (di natura contrattuale) contratte dal condominio, Sez. 6-3, n. 8150/2017, Rubino, Rv. 643823-01, ha riaffermato che l’esecuzione nei confronti del singolo condomino, sulla base di titolo esecutivo ottenuto nei confronti del condominio, postula la preventiva notificazione del titolo − anche in caso di decreto ingiuntivo, non essendo applicabile in tale ipotesi l’art. 654 c.p.c. − e del precetto al singolo condomino contro cui si intende procedere e può avere luogo esclusivamente nei limiti della quota millesimale dello stesso. Qualora il creditore ometta, in precetto, di specificare la misura della quota oppure intimi il pagamento dell’importo totale portato dal titolo ad un solo condomino, quest’ultimo può proporre opposizione all’esecuzione, deducendo di non essere affatto condomino o contestando la misura della quota allegata dal creditore: nel primo caso, l’onere di provare il fatto costitutivo della qualità di condomino spetta al creditore ed in mancanza il precetto deve essere dichiaro inefficace per l’intero; nel secondo caso, invece, è lo stesso opponente a dover dimostrare l’effettiva misura della propria quota condominiale, ai fini della declaratoria di inefficacia dell’atto di precetto per l’eccedenza, ed in mancanza l’opposizione non può essere accolta, restando efficace l’intimazione per l’intera somma (Sez. 3, n. 22856/2017, Tatangelo, Rv. 645511-01).

Il catalogo dei titoli esecutivi (costituenti un numerus clausus, ovvero fattispecie tassativamente previste dalla legge) non si esaurisce nell’art. 474 c.p.c., per essere in altre disposizioni, anche ultronee al codice di rito, positivamente regolate ipotesi di atti o provvedimenti muniti di idoneità alla coattiva attuazione: con riguardo a titoli esecutivi originati dal processo penale, va segnalata Sez. 3, n. 6022/2017, D’Arrigo, Rv. 643406-01, secondo cui per l’esecuzione forzata della condanna provvisionale pronunziata dal giudice penale è sufficiente la notificazione del solo dispositivo – della quale tiene luogo la lettura in udienza se la parte è presente o deve considerarsi tale – non occorrendo invece attendere il deposito delle motivazioni né, tantomeno, procedere alla notificazione del provvedimento comprensivo delle ragioni della decisione.

2. Precetto.

Sulla natura del precetto, una compiuta ricognizione, condotta sulla base dell’analisi delle norme del codice di rito, è operata da Sez. 3, n. 18759/2017, Chiarini, Rv. 645167-01: il precetto concreta una mera minaccia di esecuzione, finalizzato alla realizzazione del diritto portato dal titolo attraverso l’adempimento spontaneo dell’obbligato; è dunque atto preliminare stragiudiziale, presupposto estrinseco all’esecuzione, avente carattere preparatorio indefettibile del procedimento esecutivo, non introduttivo di esso.

Da siffatta definizione discende l’esclusione della applicabilità al precetto (salva espressa previsione contraria della legge come, ad esempio, l’art. 125 c.p.c.) della disciplina dettata per gli atti processuali, e la possibilità di una sua notificazione a mezzo del servizio postale ad opera di qualunque ufficiale giudiziario, senza limitazioni territoriali, ai sensi dell’art. 107, comma 2, del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229.

Sui requisiti di contenuto-forma del precetto, previsti sotto comminatoria di nullità dell’atto dall’art. 480 c.p.c., l’indirizzo ermeneutico del giudice della nomofilachia è ispirato ad una visione non rigorosa, che valorizza il principio della strumentalità delle forme e nega la invalidità dell’atto se in concreto comunque idoneo al raggiungimento dello scopo, costituito dall’assegnare al debitore un termine per l’adempimento dell’obbligazione nascente dal titolo e dal preannunciare, per il caso di mancato adempimento, l’esercizio dell’azione esecutiva.

In questa linea interpretativa ben si colloca Sez. 6-3, n. 15316/2017, Rubino, Rv. 644737-01, secondo cui l’omessa indicazione della data di notificazione del titolo esecutivo non determina la nullità del precetto quando l’esigenza di individuazione del titolo risulti comunque soddisfatta attraverso altri elementi contenuti nel precetto stesso, la cui positiva valutazione da parte del giudice di merito può essere utilmente ancorata al successivo comportamento del debitore (in particolare, nella vicenda esaminata, è stata esclusa la nullità di un precetto intimato in rinnovazione di precedente precetto e contenente la menzione degli estremi della sentenza di condanna, notificata assieme al primo precetto, sulla base della quale sia il primo che il secondo precetto erano stati intimati).

3. Espropriazione mobiliare.

Di rado questioni concernenti l’espropriazione mobiliare giungono al vaglio del giudice di legittimità: nell’anno in rassegna si segnalano due decisioni sulla aggredibilità in executivis di peculiari species di beni mobili, accomunate dal connotato della immaterialità.

Del pignoramento di titoli azionati nominativi si è occupata Sez. 1, n. 1588/2017, Terrusi, Rv. 643502-01, così statuendo: in base al generale principio di incorporazione, i vincoli reali (pegno, sequestro, pignoramento) su diritti portati da titoli di credito si attuano, giusta la previsione degli artt. 1997 e 2024 c.c., mediante l’annotazione del vincolo sul documento (di cui necessita la previa materiale apprensione) incorporante il diritto, così realizzandosi l’efficacia del pignoramento nei confronti dei terzi, senza che assuma alcuna rilevanza la condizione soggettiva di buona o mala fede del portatore del titolo; per i titoli azionari nominativi, tale regime giuridico rinviene espresso riscontro nella disciplina dettata dall’art. 3 del r.d. 29 marzo 1942, n. 239, che va inteso nel senso di richiedere, per la valida ed efficace costituzione del pignoramento, lo spossessamento del titolo e la duplice annotazione del vincolo sullo stesso e sul registro dell’emittente.

Relativa all’espropriazione di partecipazioni in società a responsabilità limitata è invece Sez. 3, n. 20170/2017, Barreca, Rv. 645500-01, la quale, chiamata a decidere sui criteri di risoluzione del conflitto tra creditore pignorante ed acquirente della partecipazione, ha reputato l’applicabilità dell’art. 2914, n. 1, c.c., dettato per i beni mobili iscritti in pubblici registri (e non aventi consistenza corporale, nel caso della quota sociale), e ne ha desunto la inefficacia nei confronti del creditore procedente delle alienazioni iscritte nel registro delle imprese successivamente all’iscrizione del pignoramento, irrilevante essendo lo stato soggettivo di buona fede dell’acquirente, attesa l’inapplicabilità dell’art. 2470, comma 3, c.c., disciplinante la diversa situazione del conflitto tra plurimi acquirenti della medesima partecipazione sociale.

4. Espropriazione presso terzi.

Mediante la procedura di espropriazione presso terzi sono assoggettabili a pignoramento crediti, pur non esigibili, condizionati e finanche eventuali, con il solo limite della riconducibilità degli stessi ad un rapporto giuridico identificato e già esistente: in tal senso, Sez. 6-3, n. 15607/2017, Tatangelo, Rv. 644742-01, relativa alla pignorabilità di un credito per la restituzione del prezzo della vendita di un’azienda sottoposto alla condizione della riconsegna dell’azienda stessa.

Ancora in ordine all’oggetto dell’espropriazione, decidendo su questione di massima di particolare importanza, Sez. U, n. 1545/2017, Spirito, Rv. 642004-03, premessa la totale equiparazione, ai fini della aggredibilità in executivis, di stipendi e salari percepiti in base a rapporti di lavoro pubblico e di lavoro privato e, quindi, la soggezione al generale limite di pignorabilità del quinto anche degli emolumenti aventi origine in rapporti di lavoro parasubordinato (disciplinati dall’art. 409, comma 1, num. 3, c.p.c.), ha ritenuto la pignorabilità, senza i limiti previsti dall’art. 545, comma 4, c.p.c., dei compensi spettanti per funzioni svolte in ambito societario all’amministratore unico o al consigliere di amministrazione di una s.p.a., in quanto soggetti legati da un tipo di rapporto che, in ragione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è riconducibile al lavoro parasubordinato.

Significativa valenza chiarificatrice in ordine alla figura del terzo pignorato assumono varie decisioni pronunciate nell’anno.

Coinvolto nel processo esecutivo in quanto parte di un rapporto sostanziale con il debitore esecutato, il terzo pignorato ricopre le vesti di ausiliario del giudice dell’esecuzione (salvo ad assumere la qualità di parte nell’eventuale incidente di accertamento dell’obbligo del terzo), tenuto ad una collaborazione con l’ufficio esecutivo, che si estrinseca nel rendere la dichiarazione di quantità ex art. 547 c.p.c. ed è finalizzata alla verifica, con efficacia endoprocedimentale, dell’esistenza e della titolarità del bene o credito staggito, ovvero, in ultima analisi, all’individuazione dell’oggetto del pignoramento.

Sul contenuto della dichiarazione, Sez. 3, n. 5037/2017, Barreca, Rv. 643141-01, ha chiarito che il terzo pignorato deve fornire indicazioni complete e dettagliate dal punto di vista oggettivo, in modo da consentire l’identificazione dell’oggetto della prestazione dovuta al debitore esecutato, compresi il titolo ed il quantum del credito pignorato; dal punto di vista soggettivo, invece, è necessaria e sufficiente la menzione dei rapporti intrattenuti soltanto col soggetto evocato nell’atto di pignoramento come debitore sottoposto ad esecuzione, non estendendosi il dovere di collaborazione fino al punto di imporre la specificazione di rapporti correnti con soggetti diversi dall’esecutato, ancorché riconducibili, dal punto di vista economico, alla sua sfera patrimoniale.

Per errore incolpevole, la dichiarazione di quantità, è revocabile dal terzo pignorato sino all’emissione dell’ordinanza di assegnazione, mentre, se l’errore emerge successivamente, il terzo ha l’onere di proporre, nel termine ex art. 617 c.p.c., opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza stessa (Sez. 3, n. 10912/2017, Rossetti, Rv. 644190-01).

Ad avviso di Sez. 3, n. 5037/2017, Barreca, Rv. 643141-02, la peculiare posizione del terzo pignorato, quale collaboratore o ausiliario del giudice dell’esecuzione, comporta, in caso di dichiarazione di quantità reticente o elusiva, idonea a favorire il debitore ed arrecare pregiudizio al creditore istante, la configurabilità a carico di detto terzo non già della responsabilità processuale aggravata di cui all’art. 96 c.p.c. (non rivestendo egli, al momento della dichiarazione, la qualità di parte), bensì della responsabilità per illecito aquiliano, a norma dell’art. 2043 cod. civ., per la lesione del credito altrui integrata dal ritardo nel soddisfacimento provocato con quel comportamento doloso o colposo. Come ha precisato ancora Sez. 3, n. 5037/2017, Barreca, Rv. 643141-03, l’azione di responsabilità ex art. 2043 c.c. da parte del creditore procedente può essere esperita in giudizio autonomo e distinto rispetto alla procedura esecutiva, atteso che l’instaurazione del giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo (ovvero, nel regime attuale, il subprocedimento incidentale regolato dall’art. 549 c.p.c.) non configura condizione di proponibilità della domanda risarcitoria, potendo tutt’al più la mancata contestazione della dichiarazione del terzo rilevare come fatto colposo del creditore, valutabile ai sensi dell’art. 1227 c.c..

Atto conclusivo del procedimento di espropriazione presso terzi è l’ordinanza di assegnazione ex art. 553 c.p.c., determinante il trasferimento (sub specie di cessione coattiva) del credito pignorato dal debitore esecutato al creditore procedente, senza che, a tal fine, rilevi il disposto dell’art. 2928 c.c., secondo il quale il diritto dell’assegnatario verso il debitore si estingue solo con la riscossione del credito assegnato (Sez. 3, n. 19394/2017, Di Amato, Rv. 645386-01).

Muovendo da analoghe premesse, Sez. 6-3, n. 18719/2017, Rubino, Rv. 645158-01, ha ribadito che l’ordinanza di assegnazione al creditore del credito spettante verso il terzo al debitore esecutato, in quanto disposta in pagamento pro solvendo e non pro soluto, ai sensi dell’art. 553 c.p.c., non è immediatamente estintiva del credito del debitore verso il terzo pignorato, all’uopo occorrendo che questi proceda al pagamento in favore del creditore assegnatario.

Qualora non volontariamente ottemperata, l’ordinanza di assegnazione acquista efficacia di titolo esecutivo nei confronti del terzo ma soltanto dal momento in cui venga portata a conoscenza di quest’ultimo (ovvero con il decorso del termine eventualmente e specificamente stabilito nel provvedimento stesso), sicché, ove l’ordinanza, in difetto di preventiva comunicazione, venga notificata in forma esecutiva al terzo contestualmente al precetto, le spese sostenute per il precetto restano a carico del creditore intimante (Sez. 6-3, n. 19986/2017, Scoditti, Rv. 645358-01).

Avverso l’ordinanza di assegnazione del credito l’unico rimedio esperibile è l’opposizione agli atti esecutivi, anche quando − come nel caso esaminato da Sez. 6-3, n. 7706/2017, De Stefano, Rv. 643821-02 − l’ordinanza risolva questioni relative alla partecipazione dei creditori alla distribuzione della somma di cui il terzo si è dichiarato debitore.

5. Espropriazione immobiliare.

Il pignoramento avente ad oggetto un diritto reale su un bene immobile si definisce come una fattispecie complessa a formazione progressiva che contempla, quali elementi strutturali, le attività, differenti per funzioni ma tra di loro complementari, della notificazione dell’atto al debitore esecutato e della sua trascrizione nei registri immobiliari, quest’ultima condizione di efficacia nei confronti dei terzi (preordinata alla opponibilità ad essi della vendita o dell’assegnazione) ma anche presupposto imprescindibile per la messa in vendita del bene.

Possibili invalidità del pignoramento scaturiscono da errori nella direzione soggettiva dell’atto oppure sui requisiti di contenuto – forma di individuazione della res staggita: si tratta di elementi essenziali per la funzionalità e il raggiungimento dei fini istituzionali dell’espropriazione forzata, la cui esistenza, al pari delle condizioni dell’azione esecutiva e dei presupposti processuali, è oggetto della verifica officiosa ad opera del giudice dell’esecuzione.

È questo, in sintesi, l’iter argomentativo che ha indotto Sez. 3, n. 2043/2017, De Stefano, Rv. 642711-01, a reputare corretto il provvedimento del giudice dell’esecuzione statuente, su rilievo di ufficio, la chiusura anticipata della procedura esecutiva immobiliare intentata in danno di un trust in persona del trustee, anziché di quest’ultimo: pignoramento illegittimo, in quanto il trust è un ente privo di personalità giuridica, costituendo un mero insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, formalmente intestati al trustee, il quale è l’unico soggetto che, nei rapporti con i terzi, è titolare dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato.

Ancora in ordine alla corretta direzione soggettiva dell’atto introduttivo dell’espropriazione, in una fattispecie del tutto peculiare, Sez. 3, n. 7403/2017, Barreca, Rv. 643693-01, ha ritenuto nullo l’atto di pignoramento notificato personalmente al debitore esecutato privo di capacità processuale, perché in stato di interdizione legale, specificando tuttavia che tale nullità − qualora il debitore interdetto, già costituito in proprio, e non in persona del tutore, legale rappresentante, riacquisti la capacità processuale in pendenza del processo esecutivo − è sanabile, con efficacia ex tunc e che tale sanatoria esclude l’invalidità dell’atto di pignoramento, ma non anche degli atti del processo esecutivo svolto in violazione del principio del contraddittorio, che va fatta valere con opposizione agli atti esecutivi da proporsi nel termine di venti giorni dalla data di cessazione dello stato di incapacità processuale.

Sotto il profilo oggettivo, la compiuta identificazione del bene staggito secondo i canoni prescritti dall’art. 555 c.p.c., teleologicamente orientati a consentire la successiva circolazione del diritto secondo le regole della pubblicità immobiliare, è requisito imprescindibile dell’atto di pignoramento.

La mancata o incompleta individuazione del bene aggredito in executivis, ove comporti assoluta incertezza in ordine allo stesso, inficia l’atto di pignoramento di nullità non suscettibile di sanatoria, perché impedisce di pervenire alla vendita del bene, cioè all’esito fisiologico del processo: la deduzione del vizio, afferendo alla regolarità formale della procedura e non al diritto di procedere ad esecuzione, configura motivo di opposizione agli atti esecutivi la quale, tuttavia, come ha specificato Sez. 6-3, n. 21379/2017, Barreca, Rv. 645708-01, sfugge alla preclusione derivante dal termine ex art. 617 c.p.c., per essere l’opposizione proponibile contro ogni atto dell’esecuzione successivo al pignoramento.

La erronea indicazione, nell’atto di pignoramento e nella nota di trascrizione, dei dati identificativi dell’immobile staggito non è nemmeno sanabile mediante un pignoramento cd. “in rettifica”, dacché quest’ultimo, se eseguito mediante la rinnovazione delle attività di notifica e trascrizione, assume la valenza di un nuovo pignoramento, con effetti autonomi e non saldati al precedente, cioè a dire opponibile ai terzi dalla data di trascrizione del secondo atto notificato, con salvezza dei diritti acquistati dai terzi con atti trascritti medio tempore (Sez. 3, n. 5780/2017, Chiarini, Rv. 643396-01).

L’ordinario svolgimento dell’espropriazione immobiliare è scandito da una sequenza di atti di impulso (iscrizione a ruolo, istanza di vendita, deposito della documentazione ipocatastale) da compiersi, a cura e onere del ceto creditorio, entro termini acceleratori a carattere perentorio, a pena di perdita di efficacia ab origine del pignoramento ed estinzione della procedura.

Il dies a quo per il deposito dell’istanza di vendita − decorrente, secondo il dettato dell’art. 497 c.p.c., dal «compimento» del pignoramento − va riferito, nella struttura complessa e a formazione progressiva del pignoramento immobiliare, alla data di notificazione dell’atto ex art. 555 c.p.c.: più precisamente, secondo Sez. 3, n. 18758/2017, Chiarini, Rv. 645167-02, il termine decorre dal perfezionamento di tale notifica, non operando il principio della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario dell’atto, applicabile solo quando dall’intempestivo esito del procedimento notificatorio, per la frazione di esso sottratta alla disponibilità del notificante, potrebbero derivare conseguenze negative per quest’ultimo, e non, invece, quando un termine debba decorrere o un altro adempimento debba essere compiuto dal tempo dell’avvenuta notifica.

La trascrizione del pignoramento rende giuridicamente inefficaci nei confronti del ceto creditorio atti traslativi del diritto pignorato o atti costitutivi di diritti reali (anche di garanzia) sull’immobile staggito successivi all’apposizione del vincolo: possono tuttavia egualmente verificarsi vicende che, indipendenti dal regime di pubblicità immobiliare, incidono sull’oggetto dell’azione esecutiva ed impediscono la prosecuzione del processo.

Tra siffatte eventualità si colloca la sopravvenienza, nelle more del procedimento esecutivo, di un decreto di espropriazione per pubblica utilità sul bene staggito, fattispecie esaminata da Sez. 3, n. 21591/2017, Frasca, Rv. 645732-01: tale decreto determina, ai sensi dell’art. 25 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, l’estinzione del processo, dichiarabile anche d’ufficio dal giudice dell’esecuzione, in ragione della natura imperativa della richiamata disposizione e dell’interesse pubblicistico sotteso alla procedura espropriativa.

Analoga conseguenza sul processo esecutivo comporta l’emissione di un’ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile del Comune dell’immobile pignorato, siccome costruito in totale difformità o assenza della concessione edilizia: essa, infatti, a parere di Sez. 6-3, n. 23453/2017, D’Arrigo, Rv. 646627-01, dà luogo ad acquisto a titolo originario, con derivante caducazione, unitamente al precedente diritto dominicale, dell’ipoteca e degli altri eventuali pesi e vincoli preesistenti, senza rilievo dell’eventuale anteriorità della trascrizione o iscrizione.

La vendita forzata determina, come è noto, un acquisto a titolo derivativo in favore dell’aggiudicatario, traducendosi nella trasmissione a questi, contro la volontà del precedente titolare, dello stesso diritto esistente in capo al debitore esecutato: da ciò consegue − come ha avuto cura di chiarire Sez. 2, n. 20608/2017, Orilia, Rv. 645107-01 − che, laddove l’immobile sia assoggettato al sistema tavolare operante in una ristretta porzione del territorio nazionale, l’acquisto in sede di espropriazione forzata si compie con l’iscrizione del diritto nel libro fondiario, in ossequio alla speciale regola di efficacia prevista per gli atti inter vivos dettata dall’art. 2 del r.d. 28 marzo 1929, n. 499.

Un peculiare regime di stabilità connota la vendita forzata e si esprime in una tutela rafforzata della posizione del soggetto aggiudicatario, indifferente, in forza del disposto degli art. 632 c.p.c. e 187-bis disp. att. c.p.c., a possibili eventi con effetto estintivo verificatisi posteriormente all’aggiudicazione: in caso di rinuncia dei creditori manifestata dopo l’aggiudicazione provvisoria in esito a vendita avvenuta con incanto e pur in presenza di tempestiva offerta in aumento ex art. 584 c.p.c., l’estinzione della procedura non cagiona la caducazione dell’aggiudicazione la quale, anzi, resta ferma, con diritto dell’aggiudicatario ad ottenere il trasferimento del bene in suo favore (Sez. 3, n. 5604/2017, Barreca, Rv. 643388-02).

Ai fini della partecipazione alla distribuzione del ricavato, particolari oneri sono stati individuati dalla S.C. a carico dei creditori spieghino intervento nell’espropriazione immobiliare.

Con riferimento ad intervento avvenuto in epoca anteriore alla novella dell’art. 499 c.p.c. dell’anno 2006, Sez. 3, n. 2044/2017, De Stefano, Rv. 642712-01, valorizzando il potere di direzione del processo attribuito ex art. 484 c.p.c. al giudice dell’esecuzione come inclusivo della facoltà di fissazione di termini, anche non formalmente perentori, per il compimento delle relative attività e il correlato dovere di cooperazione dei soggetti coinvolti nel processo (quale espressione del più generale principio di lealtà e correttezza delle parti), ha ritenuto legittima la espunzione dal progetto di distribuzione delle ragioni di credito fatte valere da interventori che non abbiano prodotto documenti dimostrativi del credito entro il termine a tale scopo fissato dal giudice dell’esecuzione o dal professionista da lui delegato.

Analoghi principi ispirano Sez. 3, n. 13163/2017, Tatangelo, Rv. 644407-01, riferita però alla diversa ipotesi di intervento assistito da titolo esecutivo: il creditore così intervenuto, ha opinato la S.C., acquisisce una posizione processuale analoga a quella del creditore pignorante; pertanto, a mente dell’art. 557 c.p.c., è onerato, sotto pena di esclusione dal progetto di distribuzione, del deposito, nel termine all’uopo fissato dal giudice, dell’originale del titolo medesimo (o di copia del provvedimento, regolarmente spedita in forma esecutiva, se si tratti di un titolo giudiziale), che deve restare acquisito al fascicolo della procedura esecutiva quanto meno sino a quando essa si concluda con l’assegnazione delle somme dovute, salva la possibilità di restituzione (previa sostituzione con copia conforme), su disposizione del giudice, nell’ipotesi in cui il titolo richieda ulteriore attività esecutiva per il soddisfacimento del credito da esso portato.

6. Opposizioni esecutive: profili comuni.

Anche nell’anno in rassegna, le più significative pronunce del giudice di legittimità in tema di opposizioni in senso stretto (le opposizioni, cioè, proposte dopo l’inizio della procedura esecutiva) argomentano, a mò di prodromo necessario, dalla struttura caratterizzante siffatte controversie già delineata con orientamenti in passato espressi.

Costituisce convincimento radicato l’articolazione dei giudizi di opposizione esecutiva in una duplice fase: la prima, di carattere necessario, introdotta da un ricorso diretto al giudice dell’esecuzione e svolta nelle forme del rito camerale (richiamato dall’art. 185 disp. att. c.p.c.) conclusa da un’ordinanza – avente natura e contenuto cautelare – che decide sull’istanza di sospensione della procedura (ovvero, nell’ipotesi di opposizione agli atti esecutivi, di adozione dei provvedimenti indilazionabili), statuendo altresì sulle spese della fase; la seconda, meramente eventuale, svolta innanzi al giudice competente ai sensi dell’art. 27, comma 2, c.p.c., secondo le modalità (inerenti, innanzitutto, la forma dell’atto introduttivo) del processo ordinario di cognizione (ovvero, nei casi previsti dall’art. 618-bis c.p.c., secondo il rito speciale) avente ad oggetto il merito della lite e definita con sentenza idonea al giudicato. L’anello di congiunzione tra i due descritti segmenti è rappresentato dal termine perentorio, stabilito nella ordinanza conclusiva della prima fase, per la introduzione (o per la riassunzione) della causa di merito innanzi al giudice competente; la cesura che così si configura è tuttavia unicamente funzionale all’attribuzione della cognizione sul merito dell’opposizione ad un giudice tendenzialmente diverso da quello che ha trattato la fase sommaria, ma non esclude − in ragione dello stretto ed ineludibile collegamento tra le due fasi − il carattere unitario del processo di opposizione.

Dalla illustrata connotazione delle opposizioni esecutive come giudizi unitari a bifasicità eventuale discendono, in linea di logica coerenza, i seguenti, specifici, postulati, tratti da vicende esaminate dalla S.C.:

− il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione definisce la fase sommaria omettendo la fissazione del termine per instaurare il giudizio di merito non è impugnabile con il ricorso straordinario per cassazione, in quanto privo del carattere della definitività, potendo la parte introdurre autonomamente il giudizio a cognizione piena (Sez. 6-3, n. 9652/2017, Tatangelo, Rv. 643828-01) oppure richiedere al giudice dell’esecuzione, con istanza ex art. 289 c.p.c., l’integrazione dell’ordinanza con la fissazione del termine (Sez. 6-3, n. 3082/2017, Barreca, Rv. 642748-01);

− rileva il momento di introduzione della fase sommaria, con il deposito del ricorso dinanzi al giudice dell’esecuzione, ai fini dell’applicazione del termine semestrale d’impugnazione della sentenza conclusiva del giudizio, previsto dall’art. 327 c.p.c., nella formulazione novellata della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Sez. 3, n. 9352/2017, Frasca, Rv. 644000-01) nonché ai fini della rilevabilità di ufficio dell’estinzione del giudizio di merito sull’opposizione per tardiva riassunzione dello stesso ai sensi dell’art. 307, ultimo comma, c.p.c., come modificato sempre dalla l. n. 69 del 2009 (Sez. 3, n. 5608/2017, Frasca, Rv. 643389-01);

− qualora l’ordinanza conclusiva della fase cautelare assegni un termine ne ultra quem per l’introduzione del giudizio di merito che sia indeterminato o inapplicabile nella decorrenza, nella durata e nella scadenza e pertanto da considerarsi omesso o giuridicamente inesistente, è tempestiva l’autonoma introduzione del giudizio di merito eseguita dalla parte interessata nel termine di legge, (Sez. 3, n. 5779/2017, Chiarini, Rv. 643395-01).

Il modus ingrediendi del giudizio di merito si correla alla materia oggetto di controversia ed alla disciplina processuale di riferimento, sicché, nelle ipotesi ordinarie di soggezione della causa al modello paradigmatico del rito a cognizione piena, l’atto introduttivo deve rivestire la forma della citazione da notificare entro il termine perentorio stabilito all’esito della fase sommaria (Sez. 6-3, n. 26501/2017, Tatangelo, Rv. 646834-01).

Qualora invece la controversia di merito appartenga per materia alla competenza del giudice del lavoro (in quanto relativa ad esecuzione forzata promossa in base a provvedimenti emessi dal giudice del lavoro), trova applicazione la disciplina dettata dall’art. 618-bis c.p.c., per cui: la fase a cognizione piena va introdotta, a pena di inammissibilità dell’opposizione, con ricorso da depositare nella cancelleria del giudice competente entro il termine perentorio fissato dal giudice dell’esecuzione (Sez. 6-L, n. 8874/2017, Pagetta, Rv. 644157-01); il ricorso, tempestivamente depositato, deve essere notificato, unitamente al pedissequo decreto di fissazione dell’udienza, con conseguente improcedibilità dell’opposizione quando detta notificazione sia del tutto mancata, non essendo consentito al giudice di assegnare all’opponente un termine perentorio entro il quale provvedere ad una nuova notifica a norma dell’art. 291 c.p.c. (Sez. 6-3, n. 20637/2017, Armano, Rv. 645919-01).

Dalla rigorosa declinazione in cadenza bifasica dei giudizi oppositivi si fa discendere la negazione della impugnabilità diretta – né con l’opposizione agli atti esecutivi né, tampoco, con il ricorso straordinario per cassazione – delle ordinanze conclusive della prima fase, ancorché aventi contenuto impropriamente decisorio, dovendosi, in tale evenienza, dar corso esclusivamente alla fase di merito dell’opposizione.

In questa prospettiva, con riguardo ad una esecuzione forzata per obblighi di fare, Sez. 3, n. 7402/2017, Frasca, Rv. 643692-01, ha ritenuto che l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 612 c.p.c., che abbia assunto contenuto decisorio in ordine alla portata sostanziale del titolo esecutivo ed all’ammissibilità dell’azione esecutiva, non può considerarsi − neppure quando abbia provveduto sulle spese giudiziali − come una sentenza conclusiva di un’opposizione all’esecuzione (e quindi impugnabile con i rimedi all’uopo previsti), consistendo essa nel provvedimento definitivo della fase sommaria di tale opposizione, sicché la parte interessata può tutelarsi introducendo il relativo giudizio di merito ex art. 616 c.p.c.

Un parziale temperamento alla descritta inimpugnabilità si rinviene in Sez. 6-3, n. 15605/2017, Tatangelo, Rv. 644810-01, la quale ha affrontato, con esaustive puntualizzazioni, la questione, di frequente verificazione concreta, della concorrenza dei poteri officiosi del giudice dell’esecuzione di controllo dell’esistenza del titolo con la facoltà della parte di sollevare opposizioni esecutive per le stesse ragioni.

La proposizione di una opposizione all’esecuzione da parte del debitore non priva il giudice dell’esecuzione dei poteri officiosi di rilievo della mancanza (originaria o sopravvenuta) o di inefficacia del titolo esecutivo e di verifica della estinzione del credito azionato o della corrispondenza di quanto preteso con il dictum del titolo: pertanto, qualora il giudice, nell’esercizio di tali poteri, adotti un provvedimento di definizione o chiusura della procedura esecutiva (nel quale resta assorbita la istanza cautelare formulata dall’opponente) disponendo (con statuizione espressa o comunque inequivocabile) la liberazione dal vincolo dei beni pignorati, detto provvedimento è impugnabile unicamente con l’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. Resta fermo, ha chiarito ancora Sez. 6-3, n. 15605/2017, Tatangelo, Rv. 644810-02, che con tale provvedimento va fissato altresì il termine per instaurare la fase di merito dell’opposizione (potendo, in mancanza, la parte interessata chiedere l’integrazione ex art. 289 c.p.c. oppure promuovere direttamente il giudizio di merito); tuttavia, ove il procedimento esecutivo sia stato definito e non sia stata spiegata con esito positivo l’opposizione agli atti esecutivi, la pronuncia sul merito dell’opposizione all’esecuzione avrà efficacia di giudicato tra le parti solo ai fini di futuri eventuali nuovi processi ma non potrà consentire la riassunzione dell’esecuzione, stabilmente conclusa.

Nello stesso ordine di idee, si è mossa anche Sez. 6-3, n. 13108/2017, De Stefano, Rv. 644389-01: può essere impugnato esclusivamente con opposizione agli atti esecutivi il provvedimento con cui il giudice dell’esecuzione, anche a seguito di contestazione del debitore, abbia definito il procedimento esecutivo per riscontrata estinzione del credito azionato e contestualmente disposto la liberazione dei beni pignorati, qualificandosi siffatto provvedimento come di chiusura anticipata dell’esecuzione e non già terminativo della fase sommaria della opposizione esecutiva.

6.1. Opposizione all’esecuzione, opposizione agli atti esecutivi, opposizione di terzo all’esecuzione.

Nella scarna produzione giurisprudenziale dell’anno relativa ad aspetti specifici dell’opposizione all’esecuzione, meritano menzione:

− Sez. 3, n. 8684/2017, Tatangelo, che ha ritenuto inammissibile per difetto ad agire l’opposizione all’esecuzione con cui il debitore deduca di non essere proprietario dei beni pignorati, non potendo derivare alcun pregiudizio, all’opponente, dall’espropriazione del bene di un terzo;

− Sez. 6-3, n. 20924/2017, Tatangelo, Rv. 645478-01, secondo cui nell’esecuzione per rilascio di immobile la conclusione della procedura esecutiva per spontanea riconsegna del bene da parte dell’esecutato (al solo scopo di evitare la coattiva attuazione della pretesa e non in base ad accordo tra le parti) non provoca la cessazione della materia del contendere nel giudizio di opposizione all’esecuzione, in quanto permane l’interesse dell’opponente ad una decisione sull’insussistenza del diritto del creditore a procedere ad esecuzione, il cui accertamento comporta la inefficacia degli atti compiuti e fa sorgere il diritto dell’esecutato a rientrare nella disponibilità del bene di cui sia stato illegittimamente spossessato.

Di sicuro interesse alcune pronunce riguardanti, sotto vari profili, la disciplina dell’opposizione agli atti esecutivi.

Innanzitutto, dall’oggetto del giudizio, inteso come diretto a valutare la regolarità formale di un segmento del processo esecutivo e la conformità di un atto o un provvedimento alle norme che lo regolano, Sez. 6-3, n. 1919/2017, Frasca, Rv. 642739-01, ha inferito il potere dovere del giudice adito nella fase a cognizione piena di acquisire di ufficio il fascicolo della procedura esecutiva, per prendere diretta conoscenza dello svolgimento di essa.

Quid proprium dell’opposizione agli atti, legato alla funzione di meccanismo di stabilizzazione degli effetti dell’esecuzione, è il rigoroso limite temporale, a pena di preclusione, per l’esperibilità del rimedio, decorrente dalla conoscenza, legale o di fatto, dell’atto che si assume viziato.

Il principio ha trovato conferma nella vicenda portata all’attenzione di Sez. 6-3, n. 18723/2017, Rubino, Rv. 645159-01: colui il quale propone opposizione agli atti oltre il termine di cui all’art. 617, comma 2, c.p.c. dall’ultimo atto del procedimento, invocandone la nullità per derivazione dal vizio di omessa notifica di un atto presupposto (nella specie, l’ordinanza dispositiva della vendita immobiliare emessa fuori udienza), è tenuto ad allegare e dimostrare quando, di fatto, ha avuto conoscenza di detto atto e di quelli conseguenti, in quanto l’opposizione deve ritenersi tempestiva solo se proposta nel termine di venti giorni da tale conoscenza di fatto.

Nella controversia di opposizione agli atti esecutivi proposta nell’ambito di procedura di espropriazione presso il terzo proprietario sussiste litisconsorzio necessario tra creditore, terzo proprietario e debitore diretto: a parere di Sez. 3, n. 2333/2017, Frasca, Rv. 642714-01, si ravvisa l’interesse del debitore al controllo di regolarità formale sullo svolgimento del processo esecutivo, implicando la decisione sull’opposizione effetti potenziali anche sulla propria situazione sostanziale.

Quanto agli atti opponibili ex art. 617 c.p.c., Sez. 3, n. 2353/2017, Barreca, Rv. 642720-01, ha negato la esperibilità del rimedio per impugnare l’ordinanza adottata ai sensi dell’art. 618, comma 2, c.p.c., contenente provvedimenti indilazionabili o sulla sospensione dell’esecuzione nonché provvedimenti ordinatori per la prosecuzione del giudizio in sede di merito.

In tema di opposizione di terzo all’esecuzione, Sez. 6-3, n. 26537/2017, Rossetti, Rv. 646836-01, ha riconosciuto la legittimazione attiva al terzo che assuma di avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati, oppure che si presenti come titolare di alcuni particolari diritti di credito ad efficacia reale, suscettibili di soddisfarsi sulla cosa oggetto dell’esecuzione, e dunque prevalenti sulla pretesa del creditore procedente; ha, per converso, escluso che l’opposizione in discorso possa essere proposta dal terzo che vanti un diritto di credito derivante da spese (per migliorie) sostenute per la cosa pignorata.

Ancora sulla legittimazione attiva al mezzo ex art. 619 c.p.c., con particolare riguardo al discrimen rispetto all’opposizione di terzo ordinaria ex art. 404 c.p.c. nelle esecuzioni in forma specifica, degna di interesse è Sez. 3, n. 7041/2017, Vivaldi, Rv. 643413-01, la quale, in tema di esecuzione forzata per rilascio, ha negato l’ammissibilità dell’opposizione ex art. 619 c.p.c. proposta dal terzo che lamenti una lesione della sua situazione soggettiva derivante non già da un errore compiuto nel procedimento esecutivo bensì dalla statuizione giudiziale azionata che abbia accertato un diritto incompatibile con quello da lui vantato, in tal caso dovendosi esperire il rimedio disciplinato dall’art. 404 c.p.c..

Configurato il giudizio di opposizione di terzo all’esecuzione come un’azione di accertamento dell’illegittimità dell’esecuzione in rapporto al suo oggetto e di fronte al diritto vantato dal terzo, Sez. 3, n. 6016/2017, Chiarini, Rv. 643403-01, ha affermato che la caducazione del titolo esecutivo produce l’effetto di rendere superflua l’invocata affermazione giudiziale sulla sottoponibilità dei beni ad espropriazione, cioè a dire concreta un’ipotesi di cessazione della materia del contendere per il verificarsi di un evento di indole processuale elidente l’interesse alla decisione sul merito della lite, con conseguente necessità di regolare le spese dell’opposizione secondo il criterio della soccombenza virtuale.

7. Sospensione ed estinzione dell’esecuzione.

Le differenti tipologie di sospensione dell’esecuzione forzata previste dalla legge sono state oggetto, nell’anno in rassegna, di plurimi arresti della S.C. di chiaro tenore nomofilattico.

Sulle modalità di riattivazione dell’esecuzione sospesa su accordo delle parti ex art. 624-bis c.p.c., esaustive indicazioni offre la lettura di Sez. 3, n. 6015/2017, Chiarini, Rv. 643402-01.

Muovendo dalla lacunosità del citato dato positivo (limitata alla previsione della necessità di una istanza di parte ed alla fissazione per tale incombente del termine, avente natura perentoria, di dieci giorni decorrente dalla cessazione del periodo di concordata quiescenza), ai fini della regolamentazione della forma dell’atto riassuntivo e del modo di prosecuzione dell’esecuzione, la pronuncia ha escluso l’applicabilità, in via analogica, delle regole prescritte per il giudizio di cognizione dall’art. 297 c.p.c., in considerazione dell’atteggiarsi in maniera semplificata del principio del contraddittorio nel processo esecutivo (in quanto finalizzato allo scopo di consentire al giudice dell’esecuzione il migliore esercizio della potestà ordinatoria lui spettante); ha ritenuto l’operatività, invece, delle disposizioni stabilite per l’espropriazione forzata in generale dagli art. 483 e ss. del codice di rito e, pertanto, concluso nel senso che in caso di sospensione ex art. 624-bis c.p.c. la parte interessata alla riassunzione è, sotto pena di inattività rilevante ex art. 630 c.p.c., tenuta unicamente al deposito di tempestivo ricorso diretto al giudice dell’esecuzione, dipanandosi l’ulteriore svolgimento della procedura attraverso adempimenti gravanti sull’ufficio esecutivo (segnatamente, la fissazione, da parte del giudice, della udienza di comparazione delle parti con decreto da comunicarsi alle parti a cura del cancelliere).

Circa la disciplina della riattivazione del processo sospeso ex art. 624 c.p.c. a seguito di opposizione all’esecuzione (nonché, analogamente, per la sospensione disposta ex art. 618 c.p.c. in sede di opposizione agli atti esecutivi), Sez. 3, n. 8683/2017, Tatangelo, Rv. 643842-01, ha chiarito che l’art. 627 c.p.c., nella parte in cui prevede per la riassunzione del processo esecutivo il termine di sei mesi dal passaggio in cosa giudicata della sentenza di primo grado che rigetta l’opposizione all’esecuzione, intende stabilire il dies ad quem per detta attività, nel senso che la riassunzione deve compiersi non oltre tale momento (ovvero, se la sentenza viene impugnata, non oltre sei mesi dalla comunicazione della sentenza di appello che rigetti l’opposizione), ma non identifica il momento di insorgenza del potere di riassumere, il quale va ricondotto alla pubblicazione della sentenza di primo grado di rigetto dell’opposizione, in virtù del principio di immediata efficacia sancito dall’art. 282 c.p.c.. A sostegno della conclusione, la Corte ha poi argomentato dalla natura cautelare del provvedimento di sospensione dell’esecuzione, reso dal giudice dell’esecuzione in base ad una delibazione sommaria, pertanto necessariamente destinato a venir meno ove sia accertata l’infondatezza dell’opposizione con sentenza all’esito di un giudizio a cognizione piena.

Con decisione resa ai sensi dell’art. 363 c.p.c. nell’interesse della legge, il giudice di legittimità, nella composizione allargata prescritta per la risoluzione di questioni di massima di particolare importanza, si è occupato (Sez. U, n. 21854/2017, Frasca, Rv. 645319-01) delle problematiche afferenti la sospensione dei termini delle procedure esecutive promosse nei confronti di vittime dell’usura prevista dall’art. 20, comma 7, della legge 23 febbraio 1999, n. 44, come modificato dalla legge 27 gennaio 2012, n. 3.

Investita di apposita richiesta del P.G., la S.C. ha tracciato gli ambiti e i confini dei poteri valutativi delle autorità giudiziarie necessariamente coinvolte nella fattispecie, ovvero il P.M., titolare delle indagini per i delitti di usura in danno del debitore esecutato, e il giudice designato per la trattazione della relativa procedura esecutiva in sede civile.

In sintesi, ha così ricostruito l’istituto: il P.M., agendo nello svolgimento delle sue funzioni inerenti la giurisdizione penale, adotta il provvedimento che dispone la sospensione dei termini della procedura esecutiva a carico di un soggetto cha abbia chiesto il beneficio ex l. n. 44 del 1999, previa valutazione sulla sussistenza del presupposto della provvidenza sospensiva e sulla idoneità della procedura esecutiva ad incidere sull’efficacia dell’elargizione richiesta dall’interessato; una volta trasmesso detto provvedimento, esclusivamente ad opera del P.M. (irrilevante essendo una eventuale iniziativa assunta dal beneficiario debitore esecutato), il giudice dell’esecuzione, senza poter ridiscutere gli apprezzamenti compiuti dal P.M., aventi per legge carattere vincolante in sede civile, è tenuto a controllare se il provvedimento inoltratogli sia riconducibile alla tipologia regolata dall’art. 20, comma 7, della l. n. 44 del 1999, ad accertare se esso riguardi uno o più processi esecutivi pendenti innanzi il suo ufficio, a verificare se nel processo esecutivo pendente il beneficiario della elargizione sia parte esecutata e se in detto processo decorra un termine in ordine al quale il provvedimento del P.M. possa dispiegare i suoi effetti; il provvedimento del giudice dell’esecuzione − reso previa interlocuzione delle parti interessate, in ossequio al principio del contraddittorio − è soggetto al generale rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi, esperibili, in caso di diniego di sospensione, dall’esecutato e non già dal P.M. il quale non assume la qualità di parte nella procedura esecutiva.

Al dichiarato fine di ottenere una deflazione dei giudizi di opposizione esecutiva (e in particolare di quelli in relazione ai quali risulta operata in sede cautelare una sommaria valutazione di presumibile fondatezza), l’art. 624, comma 3, c.p.c. (nella versione modificata dalla l. n. 69 del 2009), attribuisce al provvedimento di sospensione dell’esecuzione emesso dal g.e. a seguito di opposizione l’effetto di determinare l’estinzione della procedura esecutiva «se l’ordinanza non viene reclamata o viene confermata in sede di reclamo e il giudizio di merito non è stato introdotto nel termine perentorio assegnato ai sensi dell’art. 616».

Sull’argomento, invero assai dibattuto, è intervenuta, con diffusa ed analitica motivazione, Sez. 3, n. 7043/2017, Tatangelo, Rv. 643832-01: individuata la finalità deflattiva perseguita dal legislatore attribuendo alla sospensione dell’esecuzione ex art. 624 c.p.c., provvedimento cautelare di natura ontologicamente conservativa, la capacità potenziale di determinare effetti analoghi a quelli di un provvedimento (parzialmente) anticipatorio degli esiti della decisione di merito, la S.C. ha ritenuto operante il meccanismo di “stabilizzazione evolutiva” della sospensione in estinzione ex art. 624, comma 3, c.p.c. in caso di mancata introduzione o riassunzione del giudizio di merito anche laddove il provvedimento di sospensione sia stato pronunciato per la prima volta dal Tribunale in sede di reclamo, e non solo quando esso sia stato emesso direttamente dal giudice dell’esecuzione e non sia stato reclamato o sia stato confermato in sede di reclamo.

Ragioni di logica coerenza sistematica, in uno ad argomenti di stretto diritto positivo (la disciplina completa ed autosufficiente dettata dall’art. 624, comma 3, c.p.c., escludente l’applicabilità della regola sancita per il procedimento cautelare uniforme dall’art. 669-novies, comma 1, c.p.c.; il prodursi dell’inefficacia di tutti gli atti processuali in caso di estinzione del giudizio a cognizione piena, a mente dell’art. 310 c.p.c.) hanno poi indotto la medesima Sez. 3, n. 7043/2017, Tatangelo, Rv. 643832-02, a ritenere il verificarsi dell’estinzione dell’esecuzione ex art. 624, comma 3, c.p.c. anche nell’ipotesi di estinzione del giudizio di merito sull’opposizione, pur tempestivamente introdotto o riassunto.

Sull’estinzione del processo esecutivo, in generale, di assoluta rilevanza, per le notevoli ricadute pratico-operativi, risulta Sez. 3, n. 27545/2017, Fanticini, Rv. 646845-02, che ha attribuito al provvedimento di estinzione pronunciato dal giudice dell’esecuzione natura meramente dichiarativa dell’effetto estintivo (istantaneo) già prodotto al verificarsi delle condizioni stabilite dalla legge, ovvero, nel caso esaminato, al momento del deposito dell’atto di rinuncia dell’unico creditore, con conseguente inidoneità ai fini della prosecuzione della procedura di interventi di altri creditori spiegati dopo tale momento.

  • separazione legale
  • sequestro di beni
  • ingiunzione
  • sfratto

CAPITOLO XL

I PROCEDIMENTI SPECIALI

(di Andrea Penta )

Sommario

1 Il procedimento d’ingiunzione. - 2 Il giudizio di opposizione: termini e modalità di proposizione. - 2.1 La competenza funzionale del giudice che ha emesso il provvedimento monitorio. - 2.2 La fase decisoria. - 2.3 L’opposizione tardiva. - 3 I crediti di natura condominiale. - 4 Procedimento per convalida di sfratto. - 4.1 L’efficacia dell’ordinanza di convalida di sfratto. - 5 I procedimenti cautelari. - 6 Il sequestro. - 7 I procedimenti di istruzione preventiva. - 8 Il procedimento sommario di cognizione. - 8.1 L’appello. - 9 Il procedimento di separazione dei coniugi. - 10 La modificazione dei provvedimenti relativi alla separazione. - 11 Interdizione, inabilitazione ed amministrazione di sostegno. - 12 Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari. - 13 I procedimenti in camera di consiglio. - 13.1 Il reclamo e l’efficacia dei provvedimenti camerali. - 14 Altri procedimenti speciali. - 15 Lo scioglimento di comunioni.

1. Il procedimento d’ingiunzione.

Sez. 1, n. 26/2017, Cristiano, Rv. 643009-01, ha affermato che nella richiesta di decreto ingiuntivo in forza di titolo di credito scaduto è implicita la proposizione anche dell’azione causale, derivante dal rapporto sottostante, mediante utilizzazione del titolo medesimo quale promessa di pagamento, ai sensi dell’art. 1988 c.c., sicché l’opposizione avverso quel decreto non può trovare fondamento nella sola circostanza della prescrizione dell’azione cartolare, spettando all’opponente di fornire la prova contraria alla presunzione di esistenza del rapporto fondamentale, fissata in favore del creditore dal citato art. 1988 c.c.

Per Sez. 6-1, n. 23325/2017, Valitutti, Rv. 646037-01, sulla validità della notificazione del ricorso, sottoscritto dal difensore munito di mandato di data certa anteriore, non incide la mancata menzione di tale mandato nel ricorso stesso, trattandosi di formalità non prescritta dall’art. 638 c.p.c.

Sez. 3, n. 25823/2017, Frasca, Rv. 646460-02, ha chiarito che, se dopo l’emissione del decreto ingiuntivo si verifica il decesso della parte creditrice, il difensore della stessa, previo rilascio di nuova procura da parte degli eredi, può notificare il decreto rappresentando la vicenda successoria, con la conseguenza che, in detta ipotesi, l’opposizione deve essere proposta contro gli eredi, equivalendo quella notificazione a prosecuzione volontaria del giudizio da parte dei medesimi.

Il principio secondo cui l’autorità del giudicato spiega i suoi effetti non solo sulla pronuncia esplicita della decisione, ma anche sulle ragioni che ne costituiscono, sia pure implicitamente, il presupposto logico-giuridico, trova applicazione anche in riferimento al decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro, il quale, ove non sia proposta opposizione, acquista efficacia di giudicato non solo in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso, precludendo in tal modo ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a giustificazione della relativa domanda. In applicazione di tale principio, Sez. 3, n. 28318/2017, Olivieri, Rv. 646711-01, ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto precluso dal vincolo del giudicato formatosi, per mancata opposizione avverso il decreto, sull’esistenza e validità della garanzia fideiussoria, il successivo accertamento richiesto dal debitore con il quale era contestato il medesimo titolo negoziale.

Sempre in proposito, Sez. 6-1, n. 25191/2017, Falabella, Rv. 646245-01, ha ribadito che, in assenza di opposizione, il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c. Tale funzione si differenzia dalla verifica affidata al cancelliere dall’art. 124 o dall’art. 153 disp. att. c.p.c. e consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione e a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo. Ne consegue che il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento, neppure nell’ipotesi in cui il decreto ex art. 647 c.p.c. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito, deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell’art. 52 l. fall. In quest’ottica, il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato sostanziale, idoneo a costituire titolo inoppugnabile per l’ammissione al passivo, solo nel momento in cui il giudice, dopo avere controllato la ritualità della sua notificazione, lo dichiari, in mancanza di opposizione o di costituzione dell’opponente, esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c. In applicazione del detto principio, Sez. 6-1, n. 23775/2017, Terrusi, Rv. 646045-01, ha confermato la pronuncia del giudice di merito, di rigetto di una opposizione allo stato passivo, promossa da un creditore che, ponendo a base della domanda un decreto ingiuntivo privo della dichiarazione giudiziale di esecutorietà, aveva affermato il proprio diritto all’ammissione al passivo delle spese legali della procedura monitoria.

2. Il giudizio di opposizione: termini e modalità di proposizione.

Il potere, attribuito al giudice dall’art. 641, comma 2, c.p.c., di ridurre o aumentare il termine entro il quale il debitore può proporre opposizione al decreto ingiuntivo “se concorrono giusti motivi” non si sottrae all’obbligo di motivazione imposto dal precedente comma 1 (“con decreto motivato”) per l’emissione del provvedimento di ingiunzione, se esistono le condizioni previste dall’art. 633 c.p.c.; pertanto, i motivi che consentono la modifica della durata di detto termine, nonché le ragioni che li caratterizzano come “giusti”, devono essere enunciati nel provvedimento, quantomeno con rinvio implicito alle condizioni che ne giustificano la sussistenza, specificamente rappresentate dal creditore nel testo del ricorso, in modo che si possa ritenere che il giudice le abbia vagliate e, quindi, accolte. In applicazione di tale principio, Sez. 6-2, n. 20561/2017, D’Ascola, Rv. 645346-01, ha ritenuto rispettato l’obbligo di motivazione della riduzione del termine, mediante l’espresso riferimento all’esiguità della somma ingiunta, al lungo lasso di tempo trascorso, nonché ai reiterati solleciti.

In tema di opposizione a decreto ingiuntivo, l’art. 2 della l. 29 dicembre 2011, n. 218, ha modificato l’art. 645, comma 2, c.p.c., sopprimendo l’inciso che prevedeva la riduzione a metà dei termini di comparizione, ed ha fornito l’interpretazione autentica dell’art. 165, comma 1, c.p.c., stabilendo, in riferimento ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore dell’art. 2 cit., che la riduzione del termine di costituzione dell’attore prevista dalla predetta disposizione si applica soltanto nell’ipotesi in cui l’opponente abbia assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello di cui all’art. 163-bis, comma 1, c.p.c. In proposito, Sez. 1, n. 2483/2017, Mercolino, Rv. 643712-01, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della menzionata disposizione, atteso che la portata retroattiva ed innovativa della stessa non contrasta con i principi del giusto processo ed è ragionevole la correlazione tra la dimidiazione del termine di costituzione dell’opponente e la scelta acceleratoria da lui compiuta attraverso l’assegnazione all’opposto di un termine di comparizione ridotto. Alla luce della menzionata norma di interpretazione autentica dell’art. 165, comma 1, c.p.c., Sez. 1, n. 3200/2017, Genovese, Rv. 643866-01, ha escluso che ricorressero i presupposti per l’eccepita improcedibilità dell’opposizione perché iscritta a ruolo oltre il quinto giorno successivo alla notificazione dell’atto di opposizione, risultando dagli atti che l’opponente non aveva assegnato all’opposto un termine per comparire inferiore a quello stabilito dall’art. 163-bis, comma 1, c.p.c.

Sez. 6-3, n. 21671/2017, De Stefano, Rv. 645711-01, ha chiarito che l’opposizione a decreto ingiuntivo concesso in materia di locazione, come tale soggetta al rito speciale di cui all’art. 447-bis c.p.c., deve ritenersi tempestiva anche se erroneamente proposta con citazione, anziché con ricorso, qualora entro il termine previsto dall’art. 641 c.p.c., avvenga l’iscrizione a ruolo mediante deposito in cancelleria dell’atto di citazione o di una copia di esso (cd. velina) purché, in quest’ultimo caso, segua poi il deposito dell’originale dell’atto.

Sulla stessa lunghezza d’onda, per Sez. 6-2, n. 11479/2017, Giusti, Rv. 644183-01, l’opposizione, ex art. 645 c.p.c., al decreto ingiuntivo ottenuto dall’avvocato per prestazioni giudiziali è regolata dal rito sommario di cognizione ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., secondo quanto previsto dall’art. 14 del d.lgs. 11 settembre 2011, n. 150, sicché il relativo atto introduttivo deve avere la forma del ricorso e non dell’atto di citazione. Tuttavia, in proposito, si è in attesa della pronuncia a Sezioni Unite sulla questione concernente la necessità o meno di trattare con la procedura prevista dall’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 le controversie previste dall’art. 28 della legge 13 giugno 1942 n. 794, come modificato dall’art. 34 d.lgs. n. 150 del 2011, ed a seguito dell’abrogazione degli artt. 29 e 30 legge 13 giugno 1942, n. 794, per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente da parte dell’avvocato, anche nell’ipotesi in cui la domanda riguardi l’an della pretesa (questione di massima di particolare importanza sollevata dalla Sez. 2 con ordinanza interlocutoria n. 1081 del 21.01.2016).

In tema di liquidazione a periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori, la legge 8 luglio 1980, n. 319, ha carattere di specialità, con la conseguenza che, essendo il rimedio previsto dal relativo art. 11 esperibile solo nel caso in cui il provvedimento di liquidazione del compenso riguardi uno degli indicati ausiliari, avverso il provvedimento giudiziale di liquidazione emesso, ex art. 52 disp. att. c.p.c., in favore di ausiliario estraneo alle categorie previste dalla norma speciale, può essere proposta opposizione ex art. 645 c.p.c., tenuto conto della natura monitoria dell’anzidetto provvedimento, ove agisca in giudizio la parte tenuta a corrispondere il compenso, ovvero l’azione ordinaria da parte dell’ausiliario, nel caso di diniego della liquidazione. In una fattispecie, relativa ad un ingegnere incaricato dalla P.M. di accertare la superficie di tutti gli immobili di un Comune, Sez. 2, n. 23972/2017, D’Ascola, Rv. 645585–01, ha cassato la sentenza di merito che, nonostante la non riconducibilità dell’ausiliario ad alcuna delle categorie previste dalla l. n. 319 del 1990, aveva dichiarato l’inammissibilità della domanda di liquidazione del compenso professionale proposta con citazione ordinaria anziché ai sensi della l. n. 319 cit..

Secondo Sez. 6-3, n. 21692/2017, Cirillo F.M., Rv. 645715-01, l’opponente costituitosi tardivamente non può invocare la rimessione in termini per causa non imputabile, ove la relativa istanza sia basata sul ritardo con cui l’ufficiale giudiziario ha consegnato l’originale della citazione con l’attestazione della intervenuta notificazione, dal momento che, ai fini della costituzione in giudizio, il perfezionamento della notificazione non è necessario e l’opponente può depositare in cancelleria anche un atto equipollente, costituito dalla semplice copia (cd. velina) della citazione.

Sez. 6-2, n. 2946/2017, Giusti, Rv. 642571-01, ha precisato che nel giudizio introdotto con opposizione a decreto ingiuntivo, la richiesta dell’opponente di ripetizione delle somme versate in forza della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo opposto non è qualificabile come domanda nuova e deve ritenersi implicitamente contenuta nell’istanza di revoca del decreto stesso, così come formulata nell’atto di opposizione, costituendo essa solo un accessorio di tale istanza ed essendo il suo accoglimento necessaria conseguenza, ex art. 336 c.p.c., dell’eliminazione dalla realtà giuridica dell’atto solutorio posto in essere.

2.1. La competenza funzionale del giudice che ha emesso il provvedimento monitorio.

Sez. 6-1, n. 19738/2017, Di Marzio M., Rv. 645691-01, ha ribadito che, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, la competenza funzionale del giudice che ha emesso il provvedimento è inderogabile ed immodificabile, anche per ragioni di connessione. Ne deriva che il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo, in caso sia proposta domanda riconvenzionale di competenza della sezione specializzata delle imprese di altro tribunale, è tenuto a separare le due cause, rimettendo quella relativa a quest’ultima domanda dinanzi al tribunale competente, ferma restando nel prosieguo l’eventuale applicazione delle disposizioni in tema di sospensione dei processi.

Peraltro, per Sez. 6-3, n. 18863/2017, Rubino, Rv. 645072-01, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo dinanzi al giudice di pace, ove venga proposta dall’opposto domanda riconvenzionale eccedente i limiti di valore della competenza del giudice adito, questi non è tenuto a separare le due cause, trattenendo quella relativa all’opposizione e rimettendo l’altra al tribunale, in quanto detta domanda è inammissibile e, pertanto, inidonea ad incidere sia sulla competenza per valore del giudice adito, sia sulle sorti del processo.

2.2. La fase decisoria.

La fase monitoria e quella di opposizione del procedimento di ingiunzione fanno parte di un unico processo, il cui complessivo svolgimento ed esito finale determinano la regolamentazione delle spese processuali. Pertanto, sì come precisato da Sez. 6-2, n. 27234/2017, Scarpa, Rv. 646819-01, ove successivamente alla domanda monitoria il debitore provveda all’integrale pagamento della sorte capitale e l’ingiungente notifichi ugualmente il decreto ingiuntivo, le spese dovranno essere poste a carico di quest’ultimo, dovendo la fondatezza del decreto essere verificata, ai fini della soccombenza, non al momento del deposito del ricorso, ma a quello di notificazione del decreto.

Sez. 6-3, n. 20868/2017, Barreca, Rv. 645366-01, ha precisato che l’accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo comporta la definitiva caducazione del provvedimento monitorio, sicché l’eventuale riforma della sentenza di primo grado da parte del giudice d’appello – anche ove impropriamente conclusa con un dispositivo con il quale si “conferma” lo stesso – non determina la “riviviscenza” del decreto ingiuntivo già revocato, che, pertanto, non può costituire titolo per iniziare o proseguire l’esecuzione forzata.

Il decreto ingiuntivo non opposto acquista efficacia di giudicato tanto in ordine all’oggetto che ai soggetti del rapporto giuridico, impedendo che quest’ultimo possa essere nuovamente posto in discussione in altro, successivo giudizio; detta efficacia si estende ai soli accertamenti che costituiscono i necessari e inscindibili antecedenti o presupposti logico-giuridici della pronunzia d’ingiunzione, restando escluso che essa investa la pretesa risarcitoria afferente un diverso ed autonomo rapporto contrattuale. In applicazione dell’enunciato principio, Sez. 1, n. 25317/2017, Dolmetta, Rv. 646031-01, ha cassato con rinvio la pronuncia di merito che aveva ritenuto preclusa dal giudicato l’azione risarcitoria intrapresa dal cliente per violazioni di un contratto uniforme di strumenti derivati asseritamente commesse da una banca, ancorché il provvedimento monitorio passato in giudicato concernesse il credito vantato da quest’ultima in relazione ad un distinto negozio di conto corrente.

Nel caso in cui la dichiarazione di fallimento del debitore sopravvenga nelle more dell’opposizione da lui proposta contro il decreto ingiuntivo, il curatore, ha ribadito Sez. 6-1, n. 23679/2017, Campanile Rv. 646044-01, non è tenuto a riassumere il giudizio, poiché il provvedimento monitorio, quand’anche provvisoriamente esecutivo, non è equiparabile ad una sentenza non ancora passata in giudicato, che viene emessa nel contraddittorio delle parti, ed è, come tale, totalmente privo di efficacia nei confronti del fallimento.

Il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato sostanziale, idoneo a costituire titolo inoppugnabile per l’ammissione al passivo, solo nel momento in cui il giudice, dopo aver controllato la ritualità della sua notificazione, lo dichiari, in mancanza di opposizione o di costituzione dell’opponente, esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c.

2.3. L’opposizione tardiva.

Ai fini dell’ammissibilità dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo occorre che l’opponente provi di avere avuto, a causa della irregolarità della sua notificazione, una conoscenza “non tempestiva” del decreto, avendola acquisita dopo il termine per la proposizione dell’opposizione tempestiva, ovvero in un momento in cui l’opposizione non poteva essere più predisposta e proposta in modo adeguato: tale onere, secondo Sez. 6-2, n. 25391/2017, Scalisi, Rv. 646626-02, può essere assolto mediante il ricorso a presunzioni ed in particolare, trattandosi di un fatto negativo, attraverso la dimostrazione del fatto positivo rappresentato dal modo e dal quando la detta conoscenza sia avvenuta.

Sez. U, n. 7075/2017, Frasca, Rv. 643335-01, ha statuito che, in tema di ingiunzione di pagamento europea, il termine per la proposizione del riesame, nei casi di cui all’art. 20, comma 1, del Reg. CE n. 1896 del 2006, si identifica in quelli desumibili dall’art. 650 c.p.c., quale disposizione che disciplina il relativo procedimento in Italia, sicché esso va individuato nel termine previsto dall’ordinamento italiano per l’opposizione tempestiva a decreto ingiuntivo, qualora non sia iniziata l’esecuzione, ovvero, quale termine finale, in quello di cui al terzo comma del cit. art. 650, quando l’esecuzione sia iniziata.

Ai fini della legittimità dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, non è sufficiente l’accertamento dell’irregolarità della notificazione del provvedimento monitorio, ma occorre, altresì, la prova – il cui onere incombe sull’opponente – che a causa di quella irregolarità egli, nella qualità di ingiunto, non abbia avuto tempestiva conoscenza del suddetto decreto e non sia stato in grado di proporre una tempestiva opposizione. In applicazione di tale principio, Sez. 6-1, n. 27529/2017, Valitutti, Rv. 646775-01, ha confermato la sentenza con la quale la corte di appello aveva dichiarato inammissibile l’opposizione tardiva valorizzando una missiva nella quale il legale dell’opponente riconosceva esplicitamente che il suo cliente aveva avuto tempestiva conoscenza del provvedimento monitorio.

Ai medesimi fini, occorre che l’opponente provi di avere avuto, a causa della irregolarità della sua notificazione, una conoscenza “non tempestiva” del decreto, avendola acquisita dopo il termine per la proposizione dell’opposizione tempestiva, ovvero in un momento in cui l’opposizione non poteva essere più predisposta e proposta in modo adeguato: tale onere, per Sez. 6-2, n. 25391/2017, Scalisi, Rv. 646626-02, può essere assolto mediante il ricorso a presunzioni ed in particolare, trattandosi di un fatto negativo, attraverso la dimostrazione del fatto positivo rappresentato dal modo e dal quando la detta conoscenza sia avvenuta.

3. I crediti di natura condominiale.

In tema di riscossione degli oneri condominiali, Sez. 2, n. 4672/2017, D’Ascola, Rv. 643364-03, ha escluso che costituisca motivo di revoca dell’ingiunzione, ottenuta sulla base della delibera di approvazione di una spesa, la mancata approvazione del relativo stato di riparto, atteso che le spese deliberate dall’assemblea si ripartiscono tra i condomini secondo le tabelle millesimali, ai sensi dell’art. 1123 c.c., cosicché ricorrono le condizioni di liquidità ed esigibilità del credito che consentono al condominio di richiederne il pagamento con procedura monitoria nei confronti del singolo condomino.

Sez. 2, n. 4672/2017, D’Ascola, Rv. 643364-01 ha anche ribadito che nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice deve limitarsi a verificare la perdurante esistenza ed efficacia delle relative delibere assembleari, senza poter sindacare, in via incidentale, la loro validità, essendo tale sindacato riservato al giudice davanti al quale dette delibere sono state impugnate.

In quest’ottica, sempre Sez. 2, n. 4672/2017, D’Ascola, Rv. 643364–02, ha confermato che tra il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per il pagamento di oneri condominiali e la controversia avente ad oggetto l’impugnazione della delibera assembleare posta a sostegno della ingiunzione non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità necessaria, tale da giustificare la sospensione del procedimento di opposizione ex art. 295 c.p.c., tenuto conto, da un lato, che il diritto di credito del condominio alla corresponsione delle quote di spesa per il godimento delle cose e dei servizi comuni non sorge con la delibera assembleare che ne approva il riparto, ma inerisce alla gestione dei beni e servizi comuni, sicché l’eventuale venir meno della delibera per invalidità, se implica la perdita di efficacia del decreto ingiuntivo, non comporta anche l’insussistenza del diritto del condominio di pretendere la contribuzione alle spese per i beni e servizi comuni di fatto erogati e considerato, dall’altro, che l’eventuale contrasto tra giudicati che potrebbe, in ipotesi, verificarsi in seguito al rigetto della opposizione ed all’accoglimento della impugnativa della delibera, potrebbe essere superato in sede esecutiva, facendo valere la perdita di efficacia del decreto ingiuntivo come conseguenza della dichiarata invalidità della delibera.

Sez. 2, n. 9920/2017, Giusti, Rv. 643746-02, ha evidenziato che, proposta opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto per il pagamento degli oneri condominiali, costituisce mera emendatio libelli, consentita, la richiesta, formulata dal condominio opposto in sede di comparsa di costituzione e risposta, di condanna dell’opponente al pagamento di un importo inferiore a quello ingiunto e corrispondente alle sole spese condominiali di manutenzione e di amministrazione ordinaria, con esclusione di quelle di straordinaria amministrazione, in ragione della titolarità, in capo all’obbligato, anziché del diritto di proprietà, come esposto nel ricorso monitorio, del diritto reale di abitazione sulla stessa unità immobiliare.

4. Procedimento per convalida di sfratto.

Inserendosi nel solco delle pronunce delle Sezioni Unite, Sez. 6-3, n. 2742/2017, F.M. Cirillo, Rv. 642744-01, ha affermato che nell’ipotesi di azione di sfratto per morosità, la declaratoria di nullità del contratto per mancata registrazione, con contestuale condanna del conduttore al rilascio dell’immobile, non implica un vizio di ultrapetizione, né la violazione del diritto di difesa dell’intimato.

Sez. 6-3, n. 12394/2017, De Stefano, Rv. 644290-01, ha precisato che è ammissibile il regolamento di competenza avverso il provvedimento con cui il tribunale ordinario, definita la fase sommaria senza concedere l’ordinanza provvisoria di rilascio, anziché disporre il mutamento del rito ai sensi dell’art. 667 c.p.c., accolga l’eccezione di incompetenza funzionale sollevata dall’intimato e rimetta impropriamente le parti ad altro giudice speciale o specializzato (nella specie, alla sezione specializzata agraria), trattandosi di pronuncia sulla competenza in senso tecnico e non meramente ordinatoria o provvisoria.

Nel procedimento per convalida di sfratto, l’opposizione dell’intimato ex art. 665 c.p.c. determina la conclusione di un procedimento a carattere sommario e l’instaurazione di uno nuovo ed autonomo a cognizione piena, sicché è consentito al locatore, con la memoria ex art. 426 c.p.c., domandare il pagamento dei canoni maturati dopo l’intimazione di sfratto per morosità e la ripetizione dell’indennità di avviamento (Sez. 3, n. 7423/2017, Scoditti, Rv. 643697-01) ed altresì dei canoni pregressi non dedotti nell’intimazione di sfratto per morosità (Sez. 3, n. 7430/2017, Scoditti, Rv. 643698-02).

4.1. L’efficacia dell’ordinanza di convalida di sfratto.

Secondo Sez. 3, n. 411/2017, Barreca, Rv. 642691-01, l’ordinanza di convalida di licenza o di sfratto per finita locazione, preclusa l’opposizione tardiva, acquista efficacia di cosa giudicata sostanziale non solo sull’esistenza della locazione, sulla qualità di locatore dell’intimante e di conduttore dell’intimato, sull’intervento di una causa di cessazione o risoluzione del rapporto, ma anche sulla sua qualificazione, se la scadenza del medesimo, richiesta e accordata dal giudice, è strettamente collegata alla tipologia del contratto.

L’ordinanza di convalida dello sfratto per morosità ha efficacia di cosa giudicata sostanziale su ogni questione in merito alla risoluzione del contratto ed al possesso di fatto della cosa locata, ma non preclude, nell’autonomia dei rispettivi e correlativi diritti, né al locatore di instaurare separato giudizio per il pagamento dei canoni, né al conduttore di chiedere in giudizio l’accertamento dell’obbligo del pagamento e di eccepire e contrastare, nell’indagine sui rapporti di dare e di avere in relazione ai canoni, la misura di questi, tranne il caso in cui allo sfratto per morosità si sia accompagnata contestualmente l’ingiunzione di pagamento per i canoni, risultando, in tale ipotesi, coperti dal giudicato anche i fatti impeditivi/estintivi del relativo obbligo. Sulla base di queste premesse, Sez. 3, n. 17049/2017, Moscarini, Rv. 644962-01, correggendo sul punto la motivazione della sentenza di merito, ha escluso che vi fosse alcuna preclusione, derivante dal passaggio in giudicato dell’ordinanza di convalida di sfratto per morosità, riguardo all’esame dell’anteriore domanda di accertamento degli inadempimenti del locatore, né che potesse ritenersi assorbita l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., dedotta dal conduttore anteriormente all’intimazione della convalida, ancorché non riproposta nel successivo giudizio di sfratto per morosità.

Sez. 3, n. 14625/2017, D’Arrigo, Rv. 644647-01, ha precisato che l’ordinanza di convalida di sfratto, ove erroneamente emessa malgrado l’opposizione dell’intimato, assume natura decisoria e contenuto sostanziale di sentenza, sicché è impugnabile con l’appello, potendo con tale atto l’intimato chiedere la rimessione in termini per espletare l’attività difensiva impeditagli in primo grado, fermo restando che il giudice del gravame deve decidere la controversia nel merito, atteso che l’omissione del mutamento di rito, di cui all’art. 667 c.p.c., non integra alcuna delle ipotesi tassativamente previste dagli artt. 343 e 354 c.p.c. per la rimessione della causa al primo giudice.

5. I procedimenti cautelari.

I procedimenti di nunciazione si articolano in due fasi, la prima delle quali, di natura cautelare, si esaurisce con l’emissione di un’ordinanza che concede o nega la tutela interinale, e la seconda, di merito, destinata alla definitiva decisione sull’effettiva titolarità della situazione soggettiva azionata e sulla meritevolezza della tutela possessoria o petitoria invocata: ne consegue che, sì come sostenuto da Sez. 6-2, n. 16259/2017, Scarpa, Rv. 645858-01, l’ordinanza emessa in sede di reclamo, ex art. 669-terdecies c.p.c., avverso il provvedimento reso all’esito della fase cautelare, condividendo i caratteri di provvisorietà e non decisorietà propri di quest’ultimo, è inidonea ad acquisire, dal punto di vista formale e sostanziale, efficacia di giudicato e non è, pertanto, ricorribile per cassazione, neppure limitatamente al profilo concernente le spese, la cui contestazione – ove il soccombente non intenda iniziare il giudizio di merito – va effettuata in sede di opposizione al precetto intimato su tale titolo ovvero all’esecuzione, ove iniziata sulla base di esso.

Per Sez. 2, n. 13631/2017, Cosentino, Rv. 644329-01, i documenti depositati nel corso di un procedimento cautelare instaurato in pendenza del giudizio di merito sono utilizzabili anche in quest’ultimo processo, purché la relativa produzione sia avvenuta prima che in esso siano maturate le preclusioni istruttorie.

Sez. 6-3, n. 1613/2017, Scrima, Rv. 642735-01, ha ribadito che in tema di procedimenti cautelari è inammissibile la proposizione del regolamento di competenza, sia in ragione della natura giuridica dei provvedimenti declinatori della competenza – inidonei, in quella sede, ad instaurare la procedura di regolamento, in quanto caratterizzati dalla provvisorietà e dalla improponibilità illimitata – sia perché l’eventuale decisione, pronunciata in esito al procedimento disciplinato dall’art. 47 c.p.c., sarebbe priva del requisito della definitività, atteso il peculiare regime giuridico del procedimento cautelare nel quale andrebbe ad inserirsi.

Sulla stessa lunghezza d’onda, per Sez. 2, n. 20954/2017, Cortesi, Rv. 645244-01, il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. è proponibile avverso provvedimenti giurisdizionali emessi in forma di ordinanza o di decreto solo quando essi siano definitivi ed abbiano carattere decisorio, essendo in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale: donde l’inammissibilità dell’impugnazione con tale mezzo dell’ordinanza adottata dal tribunale in sede di reclamo avverso un provvedimento di natura cautelare o possessoria, ancorché se ne deduca la “abnormità”, siccome recante statuizioni eccedenti la funzione meramente cautelare, trattandosi di decisione a carattere strumentale ed interinale, operante per il limitato tempo del giudizio di merito e sino all’adozione delle determinazioni definitive all’esito di esso, come tale inidonea a conseguire efficacia di giudicato, sia dal punto di vista formale che da quello sostanziale.

Sez. 3, n. 5624/2017, Rubino, Rv. 643393-01, ha avuto il merito di chiarire che il procedimento ex art. 669 novies c.p.c., volto alla declaratoria di inefficacia di un provvedimento cautelare, ove non sia configurabile la non contestazione del resistente, è un giudizio ordinario a cognizione piena che si definisce con sentenza provvisoriamente esecutiva, soggetto, anche nella fase di impugnazione, alla ordinaria sospensione feriale dei termini processuali prevista dalla legge 7 ottobre 1969, n. 742.

6. Il sequestro.

Di notevole impatto pratico è Sez. 3, n. 22835/2017, Sestini, Rv. 645777-01, secondo cui il creditore che abbia ottenuto la concessione di un sequestro conservativo su un bene immobile conserva l’interesse ad agire con azione revocatoria ex art. 2901 c.c., qualora il medesimo bene venga in seguito alienato dal debitore ad un terzo, atteso che tale azione consente di ottenere una tutela non equivalente e tendenzialmente più ampia rispetto a quella assicurata dal sequestro, in quanto ha ad oggetto l’intero immobile, senza soffrire dei limiti derivanti dall’importo fino a concorrenza del quale sia stata autorizzata la misura cautelare, esclude il concorso con gli altri creditori (che si realizza, invece, per effetto della conversione del sequestro in pignoramento), e non è condizionata dagli esiti del giudizio di merito sulla sussistenza del diritto cautelato.

Sez. 6-3, n. 20745/2017, Olivieri, Rv. 646332-01, ha precisato che, in tema di obbligo alla riconsegna di un immobile (nella specie a seguito di cessazione di un rapporto locativo), il decreto del presidente della corte di appello che decide sul reclamo proposto, ex art. 79, comma 2, disp. att. c.c., avverso la nomina del sequestratario effettuata ai sensi dell’art. 1216 comma 2 c.c., non è impugnabile col ricorso straordinario ex art. 111, comma 7, Cost., trattandosi di provvedimento che non è idoneo ad incidere su posizioni di diritto soggettivo ed è quindi privo dei caratteri della decisorietà e definitività in senso sostanziale, e ciò sia se lo si riconduca nell’alveo della giurisdizione volontaria, sia se lo si ponga in relazione con la misura cautelare di cui all’art. 687 c.p.c.

7. I procedimenti di istruzione preventiva.

Sez. 3, n. 14268/2017, De Stefano, Rv. 644644-03, ha affermato nuovamente il principio secondo cui le spese dell’accertamento tecnico preventivo ante causam vanno poste, a conclusione della procedura, a carico della parte richiedente e vanno prese in considerazione nel successivo giudizio di merito (ove l’accertamento stesso venga acquisito) come spese giudiziali, da porre, salva l’ipotesi di possibile compensazione totale o parziale, a carico del soccombente e da liquidare in un unico contesto.

8. Il procedimento sommario di cognizione.

In attesa della decisione delle Sezioni Unite sulla questione, Sez. 6-2, n. 5843/2017, Giusti, Rv. 643262-01, ha sostenuto che le controversie per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti dell’avvocato nei confronti del proprio cliente previste dall’art. 28 della l. n. 794 del 1942 – come risultante all’esito delle modifiche apportategli dall’art. 34 del d.lgs. n. 150 del 2011 e dell’abrogazione degli artt. 29 e 30 della medesima legge – devono essere trattate con la procedura prevista dall’art. 14 del menzionato d.lgs. n. 150, anche ove la domanda riguardi l’an della pretesa, senza possibilità, per il giudice adito, di trasformare il rito sommario in ordinario, ovvero di dichiarare l’inammissibilità della domanda.

Per Sez. 1, n. 5517/2017, Marulli, Rv. 644652-02, nel procedimento disciplinato dagli artt. 702-bis e ss. c.p.c., in caso di inosservanza dei requisiti afferenti tanto all’editio actionis che alla vocatio in ius, è applicabile, allorché il convenuto non si costituisca sanando il vizio rilevato, la regola della rinnovazione dell’atto introduttivo nullo ai sensi dell’art. 164 c.p.c. con l’assegnazione, da parte del giudice, di un termine perentorio per provvedere ad una nuova notificazione.

Innovativa è la decisione adottata da Sez. 1, n. 6563/2017, Dolmetta, Rv. 644753-02, secondo cui la verifica della compatibilità tra istruzione sommaria propria del procedimento di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c. e fattispecie concretamente portata in giudizio va effettuata con riferimento non alle sole deduzioni probatorie formulate dalle parti, bensì all’intero complesso delle difese ed argomentazioni che vengono svolte in quel dato giudizio, tenendo conto, tra l’altro, della complessità della controversia, del numero e della natura delle questioni in discussione.

8.1. L’appello.

Sez. 2, n. 22674/2017, Scarpa, Rv. 645434-01, ha ritenuto la comunicazione telematica dell’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione emessa in formato cartaceo, effettuata in data antecedente l’entrata in vigore dell’art. 16-bis, comma 9-bis, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. con mod. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221 (introdotto dall’art. 52, del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv. con modif. dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, e successivamente ancora modificato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, conv. con modif. dalla l. 6 agosto 2015, n. 132), seppur priva della firma digitale del cancelliere, validamente avvenuta, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione ex art. 702-quater c.p.c., in presenza dell’attività del cancelliere consistita nel trasmettere all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario il testo integrale dell’ordinanza, comprensivo del dispositivo e della motivazione, in maniera che vi sia comunque certezza che il provvedimento sia stato portato a compiuta conoscenza delle parti e sia altresì certa la data di tale conoscenza.

Sez. 6-2, n. 11331/2017, Giusti, Rv. 644180-01, ha reputato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – per asserita violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. – dell’art. 702-quater c.p.c., nella parte in cui stabilisce che l’ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione è appellabile entro il termine breve di trenta giorni dalla sua comunicazione ad opera della cancelleria, trattandosi di una scelta discrezionale del legislatore, ragionevolmente in linea con la natura celere del procedimento, né lesiva del diritto di difesa, in quanto il detto termine decorre dalla piena conoscenza dell’ordinanza, che si ha con la comunicazione predetta ovvero con la notificazione ad istanza di parte.

Sez. 6-2, n. 5840/2017, Giusti, Rv. 643261-01, ha precisato che l’ordinanza di rigetto della domanda è, al pari di quella di accoglimento, appellabile ex art. 702-quater c.p.c., nel termine di trenta giorni decorrenti dalla data della sua notificazione ad istanza di parte ovvero, se anteriore, della sua comunicazione di cancelleria, stante la loro equiparazione ai fini della produzione degli effetti della cosa giudicata, ai sensi del cit. art. 702-quater.

Peraltro, per Sez. 3, n. 7401/2017, Scarano, Rv. 643833-01, ai fini della decorrenza del termine di trenta giorni previsto dall’art. 702-quater c.p.c. per la proposizione dell’appello avverso l’ordinanza emessa ex art. 702 ter, comma 6, c.p.c., la comunicazione di cancelleria deve avere ad oggetto il testo integrale della decisione, comprensivo del dispositivo e della motivazione.

Sez. 2, n. 4423/2017, Lombardo, Rv. 642866-01, ha offerto l’importante chiarimento in virtù del quale, ai sensi dell’art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 34, comma 17, del d.lgs. n. 150 del 2011, l’opposizione avverso il decreto di pagamento dei compensi degli ausiliari del giudice deve essere proposta entro il termine per impugnare previsto dall’art. 702-quater c.p.c. per il procedimento sommario di cognizione, le cui disposizioni regolano il giudizio di opposizione; ne deriva che detto termine è pari a trenta giorni, decorrenti dalla comunicazione o notificazione del provvedimento.

Sez. 6-1, n. 17420/2017, Di Virgilio, Rv. 644940-01 (conf. Sez. 6-1, n. 23680/2017, Campanile, Rv. 644940-01) ha precisato che l’appello, proposto ex art. 702-quater c.p.c., avverso la decisione del tribunale reiettiva della domanda volta al riconoscimento della protezione internazionale, deve essere introdotto con citazione e non con ricorso, anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, atteso che il riferimento al “ricorso in appello” di cui all’art. 27, comma 1, lett. f), è volto a regolare i tempi e non la forma di introduzione del giudizio di secondo grado, sicché la tempestività del gravame va verificata calcolando, in ogni caso, il termine di trenta giorni dalla data di notifica dell’atto introduttivo alla parte appellata.

Da ultimo, Sez. 6-1, n. 5241/2017, Acierno, Rv. 643972-01, sulla premessa che, in tema di immigrazione, il procedimento di appello è introdotto e regolato dall’art. 702-quater c.p.c., ha affermato che, nel corso dello stesso, possono essere ammessi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione.

9. Il procedimento di separazione dei coniugi.

Sez. 6-1, n. 4109/2017, Di Virigilio, Rv. 643981-01, ha ribadito il principio per cui, ai fini dell’individuazione del tribunale territorialmente competente sulla domanda di separazione personale dei coniugi, l’art. 706, comma 1, c.p.c. impone, quale criterio principale di collegamento, l’ultima residenza comune, e, solo nell’ipotesi in cui non vi sia mai stata convivenza tra i coniugi, il criterio subordinato della residenza o del domicilio della parte convenuta.

Si deve a Sez. 6-1, n. 4860/2017, Acierno, Rv. 643656-01, la rilevante precisazione per cui, in tema di separazione personale dei coniugi, le dichiarazioni rese da questi ultimi in sede di udienza presidenziale non hanno valore probatorio di confessione giudiziale e, pertanto, la loro omessa valutazione non integra il vizio di cui all’art. 112 c.p.c. in quanto elementi di fatto concorrenti alla complessiva valutazione finale da parte del giudice di merito.

Si deve a Sez. 6-1, n. 27358/2017, Valitutti, Rv. 646774-01, il chiarimento secondo cui il procedimento ex art. 709 ter c.p.c. si instaura nel luogo di residenza abituale del minore, senza che assumano rilievo la mera residenza anagrafica o eventuali trasferimenti contingenti o temporanei, atteso che nella individuazione in concreto del luogo di abituale dimora non può farsi riferimento ad un dato meramente quantitativo, rappresentato dalla prossimità temporale del trasferimento di residenza e dalla maggiore durata del soggiorno in altra città, essendo, invece, necessaria una prognosi sulla probabilità che la nuova dimora diventi l’effettivo e stabile centro d’interessi del minore, ovvero resti su un piano di verosimile precarietà o sia un mero espediente per sottrarlo alla vicinanza dell’altro genitore o alla disciplina della competenza territoriale.

10. La modificazione dei provvedimenti relativi alla separazione.

Sez. U, n. 13912/2017, Campanile, Rv. 644555-02, ha statuito che l’accettazione della giurisdizione italiana nell’ambito del giudizio di separazione personale non esplica alcun effetto nel successivo procedimento di modifica delle condizioni della separazione instaurato per ottenere l’affidamento di figli minori, sia perché quest’ultimo è un nuovo giudizio (come si evince anche dall’art. 12, par. 2, lett. a), del reg. CE n. 2201 del 2003), sebbene ricollegato al regolamento attuato con la decisione definitiva o con l’omologa della separazione consensuale non più reclamabile, in base al suo carattere di giudicato rebus sic stantibus, sia perché il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla cd. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore come delineato dalla Corte di giustizia della UE, assume una pregnanza tale da comportare l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione.

La medesima pronuncia ha chiarito che il decreto presidenziale assunto in sede di modifica della separazione personale dei coniugi che, nel fissare la comparizione delle parti anche al fine dell’assunzione dei necessari provvedimenti istruttori, formuli rilievi di carattere meramente incidentale in ordine alla questione di giurisdizione sollevata dalla parte convenuta (la cui decisione, peraltro, è di competenza del collegio), non osta alla proponibilità del regolamento di giurisdizione, non esorbitando dalla funzione attribuita ai provvedimenti assunti ex art. 708 c.p.c., che è meramente provvisoria ed interinale e, dunque, priva del carattere della decisorietà.

In tema di separazione personale tra coniugi, il giudice investito dal reclamo avverso le statuizioni che abbiano regolato in prime cure l’affidamento della prole è competente, anche ultra petitum, ad assumere, con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale dei figli, i provvedimenti che la riguardano. In applicazione di tale principio, Sez. 6-1, n. 25055/2017, Mercolino, Rv. 646055-01, ha confermato il decreto della Corte d’appello che aveva ritenuto di includere fra le spese straordinarie da concordare preventivamente fra i genitori, oltre alle spese sportive e ricreative, anche quelle mediche e scolastiche, ancorché non costituissero oggetto del reclamo.

11. Interdizione, inabilitazione ed amministrazione di sostegno.

Sez. 1, n. 14158/2017, Acierno, Rv. 644450-01, ha enunciato, ex art. 360, comma 3, c.p.c., il principio secondo cui nei procedimenti in tema di amministrazione di sostegno, avverso il decreto con cui il giudice tutelare si sia pronunciato sulla domanda proposta dall’amministratore di sostegno di autorizzazione ad esprimere, in nome e per conto dell’amministrato, il consenso o il rifiuto alla sottoposizione a terapie mediche, è sempre ammesso il reclamo alla corte d’appello, ai sensi dell’art. 720-bis, comma 2, c.p.c., trattandosi di provvedimento definitivo avente natura decisoria su diritti soggettivi personalissimi.

Sez. U, n. 1093/2017, Didone, Rv. 642000-01, ha statuito che, in tema di procedimento per la nomina di amministratore di sostegno, la mancata partecipazione del P.M. ad entrambi i gradi di merito comporta la cassazione del decreto della corte di appello e la remissione del giudizio dinanzi al giudice di primo grado, atteso che in tale procedimento l’intervento del P.M., il quale è titolare anche del relativo potere di azione ai sensi del combinato disposto degli artt. 406, comma 1, e 417 c.c., rientra nell’ipotesi di cui all’art. 70, comma 1, n. 1 c.p.c., che è norma attinente alla disciplina del contraddittorio e, pertanto, dà luogo ad un litisconsorzio necessario.

È inammissibile il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti di designazione o nomina dell’amministratore di sostegno emessi in sede di reclamo, in quanto logicamente e tecnicamente distinti da quelli che dispongono l’amministrazione, dovendosi limitare la facoltà di ricorso ex art. 720-bis, ultimo comma, c.p.c. a tali ultimi decreti, aventi carattere decisorio poiché assimilabili, per loro natura, alle sentenze di interdizione ed inabilitazione, senza estendersi ai provvedimenti a carattere gestorio, sicché le diverse statuizioni contenute nel medesimo decreto seguono ognuna il regime impugnatorio proprio della categoria di appartenenza. In applicazione di tale principio, Sez. 1, n. 22693/2017, Di Marzio P., Rv. 645524-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno contenente provvedimento gestorio di nomina di amministratore, quest’ultimo peraltro già reclamato ex art. 739 c.p.c. innanzi al tribunale in composizione collegiale, per il non gradimento del nominato, in quanto persona estranea alla famiglia del beneficiario.

Per Sez. 6-1, n. 14983/2016, Acierno, Rv. 640716-01, il decreto della corte d’appello che nega l’apertura dell’amministrazione di sostegno è ricorribile per cassazione.

12. Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari.

In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari, di cui agli artt. 342-bis e 342-ter c.c., Sez. 1, n. 15482/2017, Genovese, Rv. 644764-01, ha affermato che l’attribuzione della competenza al tribunale in composizione monocratica, stabilita dall’art. 736-bis, comma 1, c.p.c., non esclude la vis actrativa del tribunale in composizione collegiale chiamato a giudicare in ordine al conflitto familiare che sia stato già incardinato avanti ad esso, atteso che una diversa opzione ermeneutica, che faccia leva sul solo tenore letterale delle citate disposizioni, ne tradirebbe la ratio, che è quella di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele ed evitare, a garanzia del preminente interesse del minore che sia incolpevolmente coinvolto, o del coniuge debole che esiga una tutela urgente, il rischio di decisioni intempestive o contrastanti ed incompatibili con gli accertamenti resi da organi giudiziali diversi.

13. I procedimenti in camera di consiglio.

In tema di immigrazione, Sez. 1, n. 22932/2017, Genovese, Rv. 645527-01, ha affermato l’importante principio per cui, in applicazione del disposto di cui all’art. 15 della Direttiva n. 115/2008/CE del Parlamento Europeo e della sentenza della CGUE del 28 aprile 2011, in causa C-61/11, è sempre consentita la domanda di riesame del provvedimento di trattenimento presso centro CIE da introdurre, in mancanza di apposita disciplina normativa al riguardo, con lo strumento del procedimento camerale ex art. 737 c.p.c., sicché per il principio della concentrazione delle tutele la competenza deve essere riferita al giudice della convalida e delle proroghe da identificarsi nel giudice di pace.

Parimenti, Sez. 6-1, n. 19478/2017, Marulli, Rv. 645471-01, ha ribadito che nel procedimento di reclamo disciplinato dall’art. 26 l. fall., quando si controverta su situazioni incidenti su diritti soggettivi, trovano applicazione le regole generali sui giudizi camerali ex artt. 737 segg. c.p.c. ed il tribunale è tenuto a decidere il reclamo anche nel caso in cui il ricorrente non compaia in camera di consiglio, sicché, qualora dichiari erroneamente “non luogo a provvedere” sul medesimo, questo provvedimento è impugnabile con ricorso per cassazione, ex art. 111 Cost.

Il provvedimento con cui l’autorità giudiziaria nomina, ex art. 1105, comma 4, c.c., un amministratore della cosa comune, al fine di supplire all’inerzia dei partecipanti alla comunione, ha natura di atto di giurisdizione volontaria, perciò privo di carattere decisorio o definitivo, in quanto revocabile e reclamabile ai sensi degli artt. 739, 742 e 742-bis c.p.c. e, conseguentemente, non ricorribile per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., salvo che il provvedimento, travalicando i limiti previsti per la sua emanazione, abbia risolto in sede di volontaria giurisdizione una controversia su diritti soggettivi. In applicazione di tale principio, Sez. 6-2, n. 15548/2017, Scarpa, Rv. 644623-01, ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale si lamentava l’irregolare costituzione del contraddittorio nel giudizio di reclamo innanzi alla corte di appello, in virtù delle concrete modalità di notifica dell’atto introduttivo di detta fase processuale.

13.1. Il reclamo e l’efficacia dei provvedimenti camerali.

Sez. 6-1, n. 22314/2017, Lamorgese, Rv. 645751-01, ha confermato l’orientamento per cui, nei procedimenti in camera di consiglio che si svolgono nei confronti di più parti ed anche in quelli contenziosi assoggettati per legge al rito camerale, è la notificazione del decreto effettuata ad istanza di parte e non la comunicazione del cancelliere a far decorrere – tanto per il destinatario della notifica quanto per il notificante – il termine di dieci giorni per la proposizione del reclamo ai sensi dell’art. 739, comma 2, c.p.c.

Secondo Sez. 6-1, n. 3302/2017, Genovese, Rv. 643362-01, il decreto emesso ai sensi dell’art. 317-bis c.c. (in tema di esercizio della potestà) ha natura sostanziale di sentenza, presentando i requisiti della decisorietà, risolvendo una controversia tra contrapposte posizioni di diritto soggettivo, e della definitività, con efficacia assimilabile, rebus sic stantibus, a quella del giudicato; pertanto, in relazione a tale decreto, debbono applicarsi i termini di impugnazione dettati dagli artt. 325 e 327 c.p.c., trattandosi di appello da proporsi mediante ricorso, e non di reclamo ex art. 739 c.p.c.

Sez. 2, n. 454/2017, Scarpa, Rv. 642210-01, ha precisato che il provvedimento camerale di revoca dell’amministratore del condominio ha efficacia, ex art. 741 c.p.c., dalla data dell’inutile spirare del termine per il reclamo avverso di esso, sì che gli atti compiuti dall’amministratore anteriormente al momento in cui tale revoca diviene efficace non sono viziati da alcuna automatica invalidità, continuando a produrre effetti e ad essere giuridicamente vincolanti nei confronti del condominio.

14. Altri procedimenti speciali.

Sez. 6-2, n. 14202/2017, Criscuolo, Rv. 644618-01, ha escluso che l’ordinanza con cui il tribunale provveda, in sede di reclamo, a revocare il provvedimento del tribunale in composizione monocratica che aveva fissato al legatario un termine ex art. 749 c.c. entro il quale assolvere all’onere testamentario, abbia contenuto decisorio, non incidendo in via definitiva su posizioni di diritto soggettivo in conflitto, e, pertanto, non è impugnabile con il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.

In tema di accettazione beneficiata dell’eredità, Sez. 6-2, n. 5460/2017, Criscuolo, Rv. 643124-01, ha affermato il principio per cui il provvedimento che decide sul reclamo proposto avverso i provvedimenti emessi a seguito di istanza di modifica del decreto di autorizzazione alla redazione dell’inventario, non è impugnabile col ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., in quanto riconducibile, al pari del decreto di cui all’art. 769 c.p.c., alla giurisdizione volontaria e, pertanto, privo del carattere della decisorietà e della idoneità al passaggio in giudicato.

15. Lo scioglimento di comunioni.

Per Sez. 2, n. 13205/2017, Abete, Rv. 644217-01, in tema di giudizio divisorio, non sussiste alcuna nullità della divisione disposta dal tribunale con sentenza anziché dal giudice istruttore con ordinanza, pur non essendo state sollevate contestazioni in ordine al diritto di divisione ed all’attribuzione delle quote secondo il progetto predisposto dal consulente tecnico.

Sez. 2, n. 13621/2017, D’Ascola, Rv. 644327-01, ha affermato l’importante principio per cui, nel procedimento per lo scioglimento di una comunione, non occorre una formale osservanza delle disposizioni previste dall’art. 789 c.p.c. − ovvero la predisposizione di un progetto di divisione da parte del giudice istruttore, il suo deposito in cancelleria e la fissazione dell’udienza di discussione dello stesso − essendo sufficiente che il medesimo giudice istruttore faccia proprio, sia pure implicitamente, il progetto approntato e depositato dal c.t.u., così come non è necessaria la fissazione dell’apposita udienza di discussione del progetto quando le parti abbiano già escluso, con il loro comportamento processuale (nella specie, richiedendo concordemente di differire la causa all’udienza di precisazione delle conclusioni e sollecitando, per quanto concerne la posizione di tre dei comunisti, l’assegnazione di una quota personale, in luogo di assegnazioni congiunte), la possibilità di una chiusura del procedimento mediante accettazione consensuale della proposta divisione, in tal modo giustificandosi la diretta rimessione del giudizio alla fase decisoria.

  • adozione di minore
  • matrimonio
  • filiazione
  • separazione legale
  • reddito delle famiglie
  • divorzio
  • diritto di famiglia

CAPITOLO XLI

LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEI BISOGNOSI: PROFILI PROCESSUALI

(di Paolo Di Marzio )

Sommario

1 Il regime patrimoniale della famiglia. - 2 L’impugnazione del matrimonio. - 3 Il giudizio di separazione personale dei coniugi. Le controversie sull’esercizio della potestà dei genitori: competenza territoriale. - 4 Separazione personale dei coniugi: questioni patrimoniali. - 5 Il giudizio di divorzio. - 6 L’assegno per il coniuge in conseguenza del divorzio. - 7 La casa coniugale. - 8 I figli nati da genitori non uniti in matrimonio. - 9 L’azione di disconoscimento della paternità. - 10 Sottrazione internazionale di minori. - 11 Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari. - 12 L’accertamento dello stato di abbandono e la dichiarazione di adottabilità del minore. - 13 Il diritto del figlio nato da parto anonimo alla conoscenze delle proprie origini. - 14 Istituti di protezione dei soggetti bisognosi. - 15 Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio.

1. Il regime patrimoniale della famiglia.

La Suprema Corte ha statuito doversi escludere che i figli minori del debitore siano litisconsorti necessari nel giudizio promosso dal creditore per sentire dichiarare l’inefficacia dell’atto con il quale il primo abbia costituito alcuni beni di sua proprietà in fondo patrimoniale. Tanto deve affermarsi perché la costituzione del fondo patrimoniale determina soltanto un vincolo di destinazione sui beni confluiti nel fondo affinché, sia assicurato il soddisfacimento dei bisogni della famiglia con i loro frutti, ma non incide sulla titolarità dei beni stessi, né implica l’insorgere di una posizione di diritto soggettivo in favore dei singoli componenti del nucleo familiare, neppure con riguardo ai vincoli di disponibilità, Sez. 3, n. 19376/2017, Barreca, Rv. 645384-01. Nella medesima decisione la Cassazione ha chiarito che l’interesse alla corretta amministrazione del patrimonio in trust non integra una posizione di diritto soggettivo attuale in favore dei beneficiari ai quali siano attribuite dall’atto istitutivo soltanto facoltà, non connotate da realità, assoggettate a valutazioni discrezionali del trustee; conseguentemente, deve escludersi che i beneficiari non titolari di diritti attuali sui beni siano legittimati passivi e litisconsorti necessari nell’azione revocatoria avente ad oggetto i beni in trust, spettando invece la legittimazione, oltre al debitore, al trustee, in quanto unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, Sez. 3, n. 19376/2017, Barreca, Rv. 645384-02.

2. L’impugnazione del matrimonio.

Il coniuge che impugni il matrimonio per errore, ai sensi dell’art. 122 c.c., ha chiarito la Cassazione, è tenuto a provare l’esistenza di una malattia fisica o psichica dell’altro coniuge e la mancata conoscenza della stessa prima della celebrazione del matrimonio, oltre all’influenza di detta mancata conoscenza sul proprio consenso, mentre è rimesso al giudice l’apprezzamento della rilevanza della infermità ai fini dell’ordinario svolgimento della vita familiare. Nella concreta vicenda processuale, la Corte ha confermato la sentenza impugnata che non aveva ritenuto un impedimento rilevante al normale svolgimento della vita coniugale l’orchite epididimite di cui era affetto il marito della ricorrente, patologia insorta successivamente al matrimonio e comunque curabile con ordinaria terapia antibiotica, Sez. 6-1, n. 3742/2017, Acierno, Rv. 643654-01.

3. Il giudizio di separazione personale dei coniugi. Le controversie sull’esercizio della potestà dei genitori: competenza territoriale.

In tema di separazione personale dei coniugi, ha specificato la Suprema Corte, l’indagine sulla responsabilità di uno o di entrambi i coniugi nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza è riservata al giudice del merito ed è, quindi, censurabile in sede di legittimità nei limiti previsti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., Sez. 1, n. 2960/2017, Lamorgese, Rv. 643860-01.

Proposta nei confronti del coniuge, nell’ambito di un giudizio di separazione personale, soggetto al rito camerale, una domanda di restituzione di somme di danaro o di beni mobili al di fuori delle ipotesi di connessione qualificata di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c., la mancanza di una ragione di connessione idonea a consentire, ai sensi dell’art. 40, comma 3, c.p.c., la trattazione unitaria delle cause, può essere eccepita dalle parti o rilevata dal giudice non oltre la prima udienza, in analogia a quanto disposto dal medesimo art. 40, comma 2, ha chiarito la Cassazione, sicché essa non può essere rilevata d’ufficio per la prima volta in appello al fine di dichiarare l’inammissibilità della domanda di restituzione, esaminata e decisa nel merito in primo grado, Sez. 1, n. 3316/2017, Falabella, Rv. 643722-01.

Ai fini dell’individuazione del tribunale territorialmente competente sulla domanda di separazione personale dei coniugi, l’art. 706, comma 1, c.p.c. impone, quale criterio principale di collegamento, ha rilevato il giudice di legittimità, l’ultima residenza comune, e, solo nell’ipotesi in cui non vi sia mai stata convivenza tra i coniugi, il criterio subordinato della residenza o del domicilio della parte convenuta, Sez. 6-1, n. 4109/2017, Di Virgilio, Rv. 643981-01.

In tema di separazione personale dei coniugi, ha chiarito la Cassazione, le dichiarazioni rese da questi ultimi in sede di udienza presidenziale non hanno valore probatorio di confessione giudiziale e, pertanto, la loro omessa valutazione non integra il vizio di cui all’art. 112 c.p.c. in quanto elementi di fatto concorrenti alla complessiva valutazione finale da parte del giudice di merito, Sez. 6-1, n. 4860/2017, Acierno, Rv. 643656-01.

La pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ha spiegato la Suprema Corte, operando ex nunc dal momento del passaggio in giudicato, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di separazione personale che sia iniziato anteriormente e sia tuttora in corso, ove esista l’interesse di una delle parti alla operatività della pronuncia e dei conseguenti provvedimenti patrimoniali, come nel caso in cui permanga quello alla definitiva regolamentazione dell’assegno di mantenimento fino alla cessazione del relativo obbligo, Sez. 1, n. 5062/2017, Mercolino, Rv. 644316-01.

Il decreto presidenziale assunto in sede di modifica della separazione personale dei coniugi che, nel fissare la comparizione delle parti anche al fine dell’assunzione dei necessari provvedimenti istruttori, formuli rilievi di carattere meramente incidentale in ordine alla questione di giurisdizione sollevata dalla parte convenuta (la cui decisione, peraltro, è di competenza del collegio), ha statuito la Suprema Corte, non osta alla proponibilità del regolamento di giurisdizione, non esorbitando dalla funzione attribuita ai provvedimenti assunti ex art. 708 c.p.c., che è meramente provvisoria ed interinale e, dunque, priva del carattere della decisorietà, Sez. U, n. 13912/2017, Campanile, Rv. 644555-01. Nella medesima decisione, le Sezioni Unite hanno pure chiarito che l’accettazione della giurisdizione italiana nell’ambito del giudizio di separazione personale non esplica alcun effetto nel successivo procedimento di modifica delle condizioni della separazione instaurato per ottenere l’affidamento di figli minori, sia perché quest’ultimo è un nuovo giudizio (come si evince anche dall’art. 12, par. 2, lett. a), del reg. CE n. 2201 del 2003), sebbene ricollegato al regolamento attuato con la decisione definitiva o con l’omologa della separazione consensuale non più reclamabile, in base al suo carattere di giudicato rebus sic stantibus, sia perché il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla cd. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore come delineato dalla Corte di giustizia della UE, assume una pregnanza tale da comportare l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione, Sez. U, n. 13912/2017, Campanile, Rv. 644555-02.

La disposizione di cui all’art. 709-bis c.p.c., come modificata dall’art. 1, comma 4, della legge n. 263 del 2005, ha evidenziato la Corte di legittimità, sancisce esplicitamente in materia di pronuncia immediata sullo status, la già ritenuta equiparazione fra il procedimento di separazione tra i coniugi e quello di divorzio, così evitando condotte processuali dilatorie tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio status, Sez. 1, n. 20666/2017, Bisogni, Rv. 645698-01. Nella stessa decisione, la Cassazione ha avuto modo di precisare che la sentenza non definitiva di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, che il tribunale è tenuto a pronunciare d’ufficio quando la causa sia sul punto matura per la decisione, ed alla quale faccia seguito la prosecuzione del giudizio per le altre statuizioni, costituisce uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo che non determina un’arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perchè è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 898 del 1970, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l’effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell’assegno di divorzio. In conseguenza, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 9, della legge n. 898 del 1970 (nel testo sostituito dell’art. 8 della legge n. 74 del 1987), sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., Sez. 1, n. 20666/2017, Bisogni, Rv. 645698-02.

In tema di separazione personale tra coniugi e di divorzio, ed anche con riferimento ai figli di genitori non coniugati, il criterio fondamentale cui devono ispirarsi i relativi provvedimenti è rappresentato dall’esclusivo interesse morale e materiale dei figli (previsto in passato dall’art. 155 c.c. e ora dall’art. 337 ter c.c.) con la conseguenza che il giudice non è vincolato alle richieste avanzate ed agli accordi intercorsi tra le parti e può quindi pronunciarsi anche ultra petitum. Nel caso di specie la Suprema Corte ha confermato il decreto della Corte d’appello che aveva ritenuto di includere fra le spese straordinarie da concordare preventivamente fra i genitori, oltre alle spese sportive e ricreative, anche quelle mediche e scolastiche, ancorché non costituissero oggetto del reclamo, Sez. 6-1, n. 25055/2017, Mercolino, Rv. 646055-01.

Il procedimento ex art. 709 ter c.p.c., ha statuito la Corte di cassazione, si instaura nel luogo di residenza abituale del minore, senza che assumano rilievo la mera residenza anagrafica o eventuali trasferimenti contingenti o temporanei, atteso che nella individuazione in concreto del luogo di abituale dimora non può farsi riferimento ad un dato meramente quantitativo, rappresentato dalla prossimità temporale del trasferimento di residenza e dalla maggiore durata del soggiorno in altra città, essendo, invece, necessaria una prognosi sulla probabilità che la nuova dimora diventi l’effettivo e stabile centro d’interessi del minore, ovvero resti su un piano di verosimile precarietà o sia un mero espediente per sottrarlo alla vicinanza dell’altro genitore o alla disciplina della competenza territoriale, Sez. 6-1, n. 27358/2017, Valitutti, Rv. 646774-01.

La morte di uno dei coniugi, sopravvenuta in pendenza del giudizio di separazione personale, anche nella fase di legittimità, comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere, ha deciso la Suprema Corte, travolgendo tutte le precedenti pronunce emesse non ancora passate in giudicato, anche con riferimento alle istanze accessorie circa la regolamentazione dei rapporti patrimoniali attinenti alla cessazione della convivenza, mentre restano salve le domande autonome che, proposte nello stesso giudizio, riguardano diritti e rapporti patrimoniali indipendenti dalla modificazione soggettiva dello status, già acquisiti al patrimonio dei coniugi, e nei quali subentrano gli eredi, Sez. 6-1, n. 29669/2017, Mercolino, Rv. 646789-01.

4. Separazione personale dei coniugi: questioni patrimoniali.

In materia di separazione personale dei coniugi, il giudice di legittimità ha specificato che la controversia relativa al rimborso della quota parte delle spese straordinarie relative ai figli, sostenute dal coniuge affidatario, non è solo soggetta agli ordinari criteri di competenza, in quanto diversa da quella concernente il regolamento dei rapporti tra coniugi, ma, ove le somme non risultino previamente determinate o determinabili, in base al titolo e con un semplice calcolo aritmetico, è anche caratterizzata dalla necessità di un accertamento circa l’insorgenza dell’obbligo di pagamento e dell’esatto ammontare della spesa, da effettuarsi in comparazione con quanto stabilito dal giudice della separazione, Sez. 1, n. 1161/2017, Terrusi, Rv. 643493-01.

La Corte di legittimità ha confermato che, diversamente da quanto avviene nel giudizio di divorzio, ove le ragioni della decisione e più genericamente le condizioni dei coniugi assumono rilievo ai fini della determinazione dell’assegno insieme con numerosi altri elementi, nel giudizio di separazione personale le condizioni alle quali sono sottoposti il diritto al mantenimento, ed il suo concreto ammontare, consistono soltanto: nella non addebitabilità della separazione al coniuge in favore del quale viene disposto il mantenimento, nella mancanza, per il beneficiario, di adeguati redditi propri, e nella sussistenza di una disparità economica fra i due coniugi. Ne consegue che il coniuge cui non sia stata addebitata la separazione ha diritto al mantenimento, al ricorrere delle altre condizioni, a prescindere dal fatto che la separazione sia stata promossa con o senza addebito alla controparte, Sez. 1, n. 5251/2017, Lamorgese, Rv. 643811-01.

Il credito vantato dal coniuge separato per assegno di mantenimento dovuto, ex art. 156 c.c., dall’altro coniuge, ha chiarito la Suprema Corte, sebbene dia luogo ad un’obbligazione periodica, avente ad oggetto prestazioni, autonome e distinte nel tempo, che diventano esigibili alle rispettive scadenze, è tutelabile, come tale, dal momento della sua insorgenza in forza di provvedimento giudiziale, mediante azione revocatoria ordinaria a fronte dell’alienazione immobiliare compiuta, in modo pregiudizievole, dal coniuge obbligato, Sez. 3, n. 5618/2018, Vincenti, Rv. 643391-01.

Il coniuge che abbia integralmente adempiuto l’obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all’altro coniuge, è legittimato ad agire iure proprio nei confronti di quest’ultimo per il rimborso di detta quota, ed anche per il periodo anteriore alla domanda, atteso che l’obbligo di mantenimento dei figli sorge per effetto della filiazione e che nell’indicato comportamento del genitore adempiente è ravvisabile un caso di gestione di affari produttiva, a carico dell’altro genitore, degli effetti di cui all’art. 2031 c.c., Sez. 6-1, n. 6819/2017, Genovese, Rv. 643650-01.

In tema di revisione delle condizioni economiche della separazione personale, la revoca dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge o dei figli non comporta, di per sé, l’accoglimento della contrapposta domanda di automatico aumento delle altre contribuzioni ancora dovute. Nel caso di specie, la Suprema Corte, pronunciando con riferimento all’assegno di mantenimento in favore del coniuge a seguito della raggiunta indipendenza economica di uno dei figli, ha affermato che, in difetto di prova contraria a cura del coniuge richiedente, deve presumersi che la misura dell’assegno in suo favore corrisponda alle sole necessità di cui all’art. 156 c.c. e non sia stata stabilita considerando anche il concorrente onere del richiedente di contribuire al mantenimento dei figli, Sez. 1, n. 19746/2017, bisogni, Rv. 645390-01.

In tema di separazione personale tra coniugi, la domanda rivolta a richiedere un assegno di natura alimentare, ha chiarito il giudice di legittimità, costituisce un minus ricompreso nella più ampia domanda di riconoscimento di un assegno di mantenimento per il coniuge. Ne consegue che la relativa istanza – ancorché formulata per la prima volta in appello in conseguenza della dichiarazione di addebito – è ammissibile, non essendo qualificabile come nuova ai sensi dell’art. 345 c.p.c., attesa anche la natura degli interessi ad essa sottostanti, Sez. 1, n. 27695/2017, Cristiano, Rv. 646778-01.

5. Il giudizio di divorzio.

Il giudice di legittimità ha deciso che non è ammissibile il cumulo in unico processo della domanda di divorzio, soggetta al rito camerale, con quella di divisione dei beni comuni dei coniugi, soggetta al rito ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di connessione, ma autonome e distinte l’una dall’altra, Sez. 6-1, n. 6424/2017, Bisogni, Rv. 644268-01.

La morte di uno dei coniugi, sopravvenuta in pendenza del giudizio di separazione personale o di divorzio, anche nella fase di legittimità, ha chiarito la Corte di cassazione, comporta la declaratoria di cessazione della materia del contendere, con riferimento al rapporto di coniugio ed a tutti i profili economici connessi; l’evento della morte sortisce l’effetto di travolgere ogni pronuncia in precedenza emessa e non ancora passata in giudicato, Sez. 6-1, n. 26489/2017, Lamorgese, Rv. 646765-01.

6. L’assegno per il coniuge in conseguenza del divorzio.

L’art. 156, comma 2, c.c., stabilisce che il giudice debba determinare la misura dell’assegno tenendo conto non solo dei redditi delle parti ma anche di altre circostanze non indicate specificatamente, né determinabili a priori, ma da individuarsi in tutti quegli elementi fattuali di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito ed idonei ad incidere sulle condizioni economiche delle parti. La Corte di legittimità ha specificato che la valutazione di tali elementi, peraltro, non richiede necessariamente l’accertamento dei redditi nel loro esatto ammontare, essendo sufficiente un’attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi, Sez. 1, n. 605/2017, Terrusi, Rv. 643254-01.

La revisione dell’assegno divorzile di cui all’art. 9 della legge n. 898 del 1970, ha confermato la Suprema Corte, postula l’accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi idonea a mutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo dell’assegno, secondo una valutazione comparativa delle condizioni suddette di entrambe le parti. In particolare, in sede di revisione, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o della entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti già compiuta in sede di sentenza divorzile, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento della attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in che misura, le circostanze, sopravvenute e provate dalle parti, abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto e adeguare l’importo, o lo stesso obbligo della contribuzione, alla nuova situazione patrimoniale-reddituale accertata, Sez. 1, n. 787/2017, Genovese, Rv. 643350-01.

La Corte di legittimità ha osservato, in considerazione del disposto di cui all’art. 9 della legge n. 898 del 1970 (così come modificato dall’art. 2 della legge n. 436 del 1978 e dall’art. 13 della legge n. 74 del 1987), che le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata rebus sic stantibus, rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile. Pertanto, nel caso di mancata attribuzione dell’assegno divorzile in sede di giudizio di divorzio, per rigetto o per mancanza della relativa domanda, la determinazione dello stesso può avvenire solo in caso di sopravvenienza di fatti nuovi concernenti le condizioni o il reddito di uno dei coniugi. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha cassato la decisione impugnata, rigettando la domanda di assegno divorzile, da qualificarsi correttamente come modifica delle condizioni preesistenti, cristallizzate nella pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, per omessa deduzione ed allegazione di fatti modificativi della situazione anteatta, Sez. 1, n. 2953/2017, Acierno, Rv. 643718-01.

Il diritto all’assegno di divorzio, di cui all’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987, ha spiegato la Cassazione, è condizionato dal suo previo riconoscimento in base ad una verifica giudiziale che si articola necessariamente in due fasi, tra loro nettamente distinte e poste in ordine progressivo dalla norma (nel senso che alla seconda può accedersi solo all’esito della prima, ove conclusasi con il riconoscimento del diritto): una prima fase, concernente l’an debeatur, informata al principio dell’autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali “persone singole” ed il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno divorzile fatto valere dall’ex coniuge richiedente; una seconda fase, riguardante il quantum debeatur, improntata al principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro quale persona economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), che investe soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso, Sez. 1, n. 11504/2017, Lamorgese, Rv. 644019-01. Nella medesima decisione, la Corte di legittimità ha pure chiarito che il giudice del divorzio, richiesto dell’assegno di cui all’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi: a) deve verificare, nella fase dell’an debeatur, se la domanda dell’ex coniuge richiedente soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di «mezzi adeguati» o, comunque, impossibilità «di procurarseli per ragioni oggettive»), non con riguardo ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma con esclusivo riferimento all’“indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso, desunta dai principali “indici” – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), della capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni deduzioni e prove offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge; b) deve tener conto, nella fase del quantum debeatur, di tutti gli elementi indicati dalla norma («condizioni dei coniugi», «ragioni della decisione», «contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune», «reddito di entrambi») e valutare «tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio» al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno divorzile, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova, Sez. 1, n. 11504/2017, Lamorgese, Rv. 644019-02.

Il giudice richiesto della revisione dell’assegno divorzile che incida sulla stessa spettanza del relativo diritto (precedentemente riconosciuto), in ragione della sopravvenienza di giustificati motivi dopo la sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ha ribadito la Corte di legittimità, deve verificare se tali motivi giustifichino, o meno, la negazione del diritto all’assegno a causa della sopraggiunta “indipendenza o autosufficienza economica” dell’ex coniuge beneficiario, desunta dai seguenti “indici”: possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo), stabile disponibilità di una casa di abitazione, nonché eventualmente altri – rilevanti nelle singole fattispecie – senza, invece, tener conto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; il tutto sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte dall’ex coniuge obbligato, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’ex coniuge beneficiario, Sez. 1, n. 15481/2017, Genovese, Rv. 644763-01.

Il giudice del divorzio, richiesto dell’assegno di cui all’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 10 della legge n. 74 del 1987, ha confermato ancora la Cassazione, nel rispetto della distinzione del relativo giudizio in due fasi: a) deve verificare, nella fase dell’an debeatur, se la domanda dell’ex coniuge richiedente soddisfa le relative condizioni di legge (mancanza di «mezzi adeguati» o, comunque, impossibilità «di procurarseli per ragioni oggettive»), non con riguardo ad un “tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio”, ma con esclusivo riferimento all’“indipendenza o autosufficienza economica” dello stesso, desunta dai principali “indici” – salvo altri, rilevanti nelle singole fattispecie – del possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari (tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu imposti e del costo della vita nel luogo di residenza dell’ex coniuge richiedente), della capacità e possibilità effettive di lavoro personale (in relazione alla salute, all’età, al sesso e al mercato del lavoro dipendente o autonomo), della stabile disponibilità di una casa di abitazione; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove, offerte dal richiedente medesimo, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge; b) deve tener conto, nella fase del quantum debeatur, di tutti gli elementi indicati dalla norma («condizioni dei coniugi», «ragioni della decisione», «contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune», «reddito di entrambi») e valutare «tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio» al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno divorzile, sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i normali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova. Nella concreta fattispecie la Suprema Corte, in applicazione del suesposto criterio di indipendenza e autosufficienza economica ai fini dell’attribuzione dell’assegno divorzile, ha cassato la sentenza di merito che aveva accolto la domanda sulla base del “mero divario tra le retribuzioni delle parti” e dell’inadeguatezza dello stipendio percepito dal coniuge richiedente “se raffrontato alla situazione economica in costanza di matrimonio”, Sez. 6-1, n. 23602/2017, Genovese, Rv. 646041-01.

7. La casa coniugale.

In sede di valutazione della domanda di rilascio proposta dal comodante nei confronti del coniuge cui l’immobile è stato assegnato quale casa familiare, la Corte di legittimità ha statuito che il giudice è tenuto ad accertare, ai sensi dell’art. 1810 c.c., che perduri, nell’interesse dei figli conviventi minorenni (o maggiorenni, ma non autosufficienti), la destinazione dell’intero bene all’uso cui è stato adibito, dovendo, in caso contrario, ordinarne la restituzione, quanto meno parziale, Sez. 1, n. 2771/2017, Valitutti, Rv. 643715-02. Nella stessa sentenza, il giudice di legittimità ha avuto occasione di ribadire che la Corte di cassazione, allorquando sia denunciato un error in procedendo, è anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale, Sez. 1, n. 2771/2017, Valitutti, Rv. 643715-01.

8. I figli nati da genitori non uniti in matrimonio.

In tema di riconoscimento di figlio naturale, l’art. 250 c.c. (come modificato dall’art. 1, comma 2, lett. b, della legge n. 219 del 2012) subordina, nell’ipotesi di minore infraquattordicenne, la possibilità del secondo riconoscimento al consenso del genitore che detto riconoscimento ha già effettuato e dispone, altresì, che al compimento del quattordicesimo anno il minore (anche se nato o concepito prima dell’entrata in vigore della legge n. 219 del 2012 cit.) divenga titolare di un autonomo potere di incidere sul diritto del genitore al riconoscimento, configurando il suo assenso quale elemento costitutivo dell’efficacia della domanda stessa di riconoscimento. Ne consegue, ha chiarito il giudice di legittimità, che il raggiungimento da parte del minore della “maggiore età”, ritenuta dal legislatore adeguata ad esprimere un meditato giudizio, dato rilevabile d’ufficio, determina il venir meno della necessità del consenso del primo genitore al riconoscimento da parte dell’altro e, in difetto, dell’intervento del giudice. Nel caso di specie, la Suprema Corte, preso atto che il minore aveva compiuto quattordici anni nel corso del processo ed aveva rifiutato il suo assenso al riconoscimento, ha dichiarato, su ricorso della madre, cessata la materia del contendere, cassando senza rinvio la sentenza di riconoscimento della paternità, Sez. 1, n. 781/2017, Acierno, Rv. 643346-01.

Il decreto emesso ai sensi dell’art. 317-bis c.c. ha natura sostanziale di sentenza, ha chiarito il giudice di legittimità, perché presenta i requisiti della decisorietà, risolvendo una controversia tra contrapposte posizioni di diritto soggettivo, nonché della definitività, con efficacia assimilabile, rebus sic stantibus, a quella del giudicato. Ne discende che, in relazione a tale decreto, debbono applicarsi i termini di impugnazione dettati dagli artt. 325 e 327 c.p.c., trattandosi di appello da proporsi mediante ricorso, e non di reclamo ex art. 739 c.p.c., Sez. 6-1, n. 3302/2017, Genovese, Rv. 643362-01.

La sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento, ai sensi dell’art. 277 c.c., e quindi, giusta la previsione di cui all’art. 261 c.c., implica per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento ex art. 148 c.c. La Corte di legittimità ha perciò chiarito che la relativa obbligazione si collega allo status genitoriale ed assume, di conseguenza, pari decorrenza, dalla nascita del figlio, con il corollario che l’altro genitore, il quale nel frattempo abbia assunto l’onere del mantenimento anche per la porzione di pertinenza del genitore giudizialmente dichiarato (secondo i criteri di ripartizione di cui al citato art. 148 c.c.), ha diritto di regresso per la corrispondente quota, sulla scorta delle regole dettate dall’art. 1299 c.c. nei rapporti fra condebitori solidali. Tuttavia, la condanna al rimborso di detta quota per il periodo precedente la proposizione dell’azione non può prescindere da un’espressa domanda della parte, attenendo tale pronuncia alla definizione dei rapporti pregressi tra debitori solidali, ossia a diritti disponibili, e, quindi, non incidendo sull’interesse superiore del minore, che soltanto legittima l’esercizio dei poteri officiosi attribuiti al giudice dall’art. 277, comma 2, c.c. La necessità di analoga domanda non ricorre riguardo ai provvedimenti da adottare in relazione al periodo successivo alla proposizione dell’azione, atteso che, durante la pendenza del giudizio, resta fermo il potere del giudice adito, in forza della norma suindicata, di adottare di ufficio i provvedimenti che stimi opportuni per il mantenimento del minore. In applicazione di detti principi, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata per aver trascurato sia la circostanza che le parti avevano compiutamente delimitato, in termini temporali, l’ambito delle rispettive pretese, sia che, al momento dell’introduzione dell’azione, la figlia non era più minorenne, con la conseguenza che non residuava alcuno spazio per l’esercizio di poteri officiosi da parte del giudice, Sez. 1, n. 7960/2017, De Marzo, Rv. 644384-02.

L’accoglimento dell’impugnazione del riconoscimento di figlio nato da genitori non coniugati per difetto di veridicità, di cui all’art. 263 c.c., ha deciso la Suprema Corte rivedendo il proprio tradizionale orientamento, non richiede sia fornita la prova dell’assoluta impossibilità del concepimento e, come avviene in relazione a giudizi analoghi, quale il disconoscimento di paternità (art. 243-bis c.c.), assume invece un rilievo determinante il rifiuto di sottoposizione alla consulenza tecnica genetica da parte del riconosciuto, Sez. 1, n. 30122/2017, Di Marzio P., Rv. 646848-01. Nella stessa decisione la Cassazione ha chiarito che L’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità da parte del suo autore, ex art. 263 c.c., ancorché non richieda la sopravvenienza di elementi di conoscenza nuovi rispetto a quelli noti al momento del riconoscimento, non ne costituisce una revoca, non consentita dall’art. 256 c.c., poiché l’autore che impugna il riconoscimento è tenuto a dimostrare la non rispondenza del riconoscimento al vero, Sez. 1, n. 30122/2017, Di Marzio P., Rv. 646848-02.

9. L’azione di disconoscimento della paternità.

In tema di azione di disconoscimento di paternità, il termine, di natura decadenziale, previsto dall’art. 244 c.c., ha chiarito la Corte di legittimità, afferisce a materia sottratta alla disponibilità delle parti, così che il giudice, in considerazione del disposto di cui all’art. 2969 c.c., deve accertarne ex officio il rispetto, mentre l’attore deve correlativamente fornire la prova che l’azione sia stata proposta entro il termine previsto, senza che alcun rilievo possa spiegare, in proposito, la circostanza che nessuna delle parti abbia eccepito l’eventuale decorso del termine stesso, Sez. 1, n. 785/2017, Genovese, Rv. 643348-01.

La proposizione dell’azione di disconoscimento di paternità da parte del minore degli anni quattordici, ha evidenziato il giudice di legittimità, postula l’apprezzamento in sede giudiziaria dell’interesse del minore, non potendo considerarsi utile equipollente la circostanza che sia l’ufficio del Pubblico Ministero a richiedere la nomina del curatore speciale abilitato all’esercizio dell’azione stessa. Siffatto apprezzamento, peraltro, trova istituzionale collocazione nel procedimento diretto alla nomina del curatore – essendo, nel corso di esso, possibile l’acquisizione dei necessari elementi di valutazione e dovendosi, con il provvedimento decisorio, giustificare congruamente le conclusioni raggiunte in ordine alla sussistenza dell’interesse – ma non anche nel successivo giudizio di merito, ove rappresenterebbe un’inutile duplicazione di una indagine già compiuta e sottoposta al vaglio del giudice ai fini della nomina del curatore, Sez. 1, n. 4020/2017, Lamorgese, Rv. 644440-02.

In tema di azione di disconoscimento di paternità, incombe sul preteso padre, che fonda la domanda sulla propria impotenza di generare, fornire la prova che tale impotenza è durata per tutto il periodo corrispondente a quello del concepimento, Sez. 1, n. 7965/2017, Lamorgese, Rv. 644837-01. Nella medesima decisione, la Cassazione ha anche precisato che nell’azione di disconoscimento della paternità, che è volta ad accertare unicamente l’insussistenza del legame biologico con il figlio nato nell’ambito del rapporto matrimoniale, petitum e causa petendi restano identici ed unitari, quali che siano i fatti che, nell’ambito di quelli tipizzati dal legislatore, vengano in concreto addotti a sostegno della pretesa; pertanto, la modifica di tali fatti non importa una mutatio libelli ed è consentita nel corso del giudizio, purché nel rispetto del principio del contraddittorio e dei limiti di deducibilità di nuove prove nelle varie fasi e gradi del giudizio medesimo. Nel caso di specie l’attore, dopo aver chiesto la pronuncia di disconoscimento della paternità a causa della propria incapacità di generare, ha poi domandato la medesima pronuncia per essersi la moglie sottoposta a fecondazione eterologa non concordata, e la Suprema Corte ha ritenuto la domanda ammissibile anche se proposta nel corso del giudizio di appello, Sez. 1, n. 7965/2017, Lamorgese, Rv. 644837-02.

Il genitore può rinunziare all’azione di disconoscimento della paternità che abbia promosso, ha chiarito la Corte di legittimità, ma vertendosi in materia di diritti indisponibili, in relazione ai quali non è ipotizzabile rinuncia o transazione, l’azione può essere successivamente riproposta, dallo stesso genitore e pure dal figlio che abbia raggiunto la maggiore età, Sez. 1, n. 14879/2017, Campanile, Rv. 644976-01.

10. Sottrazione internazionale di minori.

In tema di sottrazione internazionale di minori, ha deciso il giudice di legittimità, il pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni è legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso il decreto del medesimo tribunale che abbia ordinato il rimpatrio del minore, spettando al P.M. presso il giudice a quo il potere di impugnazione contro le sentenze emesse nelle cause previste dall’art. 72, commi 3 e 4, c.p.c., nonché in quelle che egli stesso avrebbe potuto proporre ex art. 69 c.p.c. (non anche, invece, nelle cause in cui deve intervenire a pena di nullità, benchè relative allo stato ed alla capacità delle persone) e rientrando, appunto, tra queste ultime il procedimento previsto dall’art. 7 della legge n. 64 del 1994 (di ratifica ed esecuzione della Convenzione de L’Aja del 25 ottobre 1980), potendo il P.M., cui l’autorità centrale competente ha trasmesso atti, richiedere con ricorso in via d’urgenza al tribunale l’ordine di restituzione, Sez. 1, n. 3319/2017, Lamorgese, Rv. 643870-01. Nella medesima decisione, la Cassazione ha specificato che nel procedimento per la sottrazione internazionale di minore, l’ascolto di quest’ultimo (che può essere espletato anche da soggetti diversi dal giudice, secondo le modalità dal medesimo stabilite) costituisce adempimento necessario ai fini della legittimità del decreto di rimpatrio ai sensi dell’art. 315-bis c.c. e degli artt. 3 e 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata con legge n. 77 del 2003), essendo finalizzato, ex art. 13, comma 2, della Convenzione de L’Aja del 25 ottobre 1980, anche alla valutazione della sua eventuale opposizione al rimpatrio, salva la sussistenza di particolari ragioni (da indicarsi specificamente) che ne sconsiglino l’audizione, ove essa possa essere dannosa per il minore stesso, tenuto conto, altresì, del suo grado di maturità, Sez. 1, n. 3319/2017, Lamorgese, Rv. 643870-02.

In materia di sottrazione internazionale di minori, ai fini dell’individuazione del luogo di residenza abituale del bambino di cui all’art. 3 della Convenzione dell’Aja del 25.10.1980, da cui può dipendere la giurisdizione del giudice italiano, ha chiarito la Suprema corte, non deve tenersi conto della residenza anagrafica o del domicilio del bambino, e neppure della residenza scelta d’accordo tra i genitori, dovendo esaminarsi soltanto la situazione di fatto, che prescinde dai progetti di vita, eventualmente concordi, degli adulti, dovendo condursi l’analisi in considerazione del superiore interesse del minore, Sez. 1, n. 30123/2017, Di Marzio P., Rv. 646487-01.

11. Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari.

In tema di ordini di protezione contro gli abusi familiari, di cui agli artt. 342-bis e 342-ter c.c., ha chiarito la Suprema Corte, l’attribuzione della competenza al tribunale in composizione monocratica, stabilita dall’art. 736-bis, comma 1, c.p.c., non esclude la vis actrativa del tribunale in composizione collegiale chiamato a giudicare in ordine al conflitto familiare che sia stato già incardinato avanti ad esso, atteso che una diversa opzione ermeneutica, che faccia leva sul solo tenore letterale delle citate disposizioni, ne tradirebbe la ratio, che è quella di attuare, nei limiti previsti, la concentrazione delle tutele ed evitare, a garanzia del preminente interesse del minore che sia incolpevolmente coinvolto, o del coniuge debole che esiga una tutela urgente, il rischio di decisioni intempestive o contrastanti ed incompatibili con gli accertamenti resi da organi giudiziali diversi, Sez. 1, n. 15482/2017, Genovese, Rv. 644764-01.

12. L’accertamento dello stato di abbandono e la dichiarazione di adottabilità del minore.

In tema di adozione, l’art. 15 della legge n. 184 del 1983, come modificato dalla legge n. 149 del 2001, per il quale il minore di età inferiore ai dodici anni, se capace di discernimento, deve essere sentito in vista della dichiarazione di adottabilità, ha specificato la Corte di legittimità, conferisce al giudice un potere discrezionale di disporne l’ascolto, anche al fine di verificarne la capacità di discernimento, senza tuttavia imporgli di motivare sulle ragioni dell’omessa audizione, salvo che la parte abbia presentato una specifica istanza con cui abbia indicato gli argomenti ed i temi di approfondimento, ex art. 336-bis, comma 2, c.c., su cui ritenga necessario l’ascolto del minore, Sez. 1, n. 5676/2017, Acierno, Rv. 644655-01.

Il diritto del minore di crescere nell’ambito della propria famiglia d’origine, considerata l’ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico, è tutelato dall’art. 1, della legge n. 184 del 1983. Ne consegue, ha confermato la Suprema Corte, che il giudice di merito deve, prioritariamente, tentare un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare, e solo quando, a seguito del fallimento del tentativo, risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittima la dichiarazione dello stato di adottabilità. Nel caso di specie, il giudice di legittimità ha cassato la decisione di merito perché la Corte di appello, pur dando atto che non era stato tentato un intervento di sostegno alla genitorialità, aveva ugualmente confermato la dichiarazione di adottabilità, fondandola sugli esiti di una consulenza tecnica in cui l’ausiliario aveva concluso che l’idoneità genitoriale era completamente carente in entrambi i genitori, e non risultavano margini di miglioramento, Sez. 1, n. 22589/2017, Bisogni, Rv. 645591-01.

In tema di adozione di minori, il giudice deve, a pena di nullità, disporre l’audizione degli affidatari o della famiglia collocataria ex art. 5, comma 1, ult. parte, legge n. 184 del 1983, come modificato dall’art. 2 legge n. 173 del 2015 che, avendo natura processuale, ha specificato la Suprema Corte, è immediatamente applicabile ai processi in corso anche se instaurati a seguito di sentenza di cassazione con rinvio, la cui efficacia vincolante viene meno quando la disciplina normativa, in base alla quale è stato enunciato il principio di diritto, sia stata successivamente abrogata, modificata o sostituita, Sez. 1, n. 22934/2017, Genovese, Rv. 645784-01.

Nel procedimento per la dichiarazione di adottabilità, la previsione dell’obbligatoria audizione dell’affidatario o della famiglia collocataria del minore, come introdotta, a mezzo dell’art. 2 della legge n. 173 del 2015, nell’art. 5, comma 1, della legge n. 184 del 1984, ha confermato quindi la Cassazione, trova applicazione in tutti i giudizi pendenti al momento della sua entrata in vigore, ed ha specificato che a detta audizione deve procedersi anche in grado di appello, trattandosi di norma di natura processuale e in difetto di una diversa disciplina transitoria contenuta nella detta legge, Sez. 1, n. 23574/2017, Campanile, Rv. 645530-01.

In tema di opposizione alla dichiarazione di adottabilità, la notificazione d’ufficio della sentenza della Corte d’appello – sezione minori – effettuata alla stregua del disposto dell’art.17, comma 1, della l. n. 184 del 1983, è idonea a far decorrere il termine d’impugnazione ridotto a trenta giorni, di cui al comma 2 di detta norma, senza che tale limitazione temporale al giudizio di legittimità, quali che siano i motivi del ricorso, arrechi alcun apprezzabile “vulnus” al diritto di difesa delle parti interessate, che sono perciò comunque tenute al suo rispetto; pertanto, il ricorso in cassazione avverso tale sentenza, proposto oltre detto termine, deve essere dichiarato inammissibile, Sez. 1, n. 27139/2017, Di Marzio P., Rv. 646197-01.

13. Il diritto del figlio nato da parto anonimo alla conoscenze delle proprie origini.

Le Sezioni Unite hanno chiarito, in tema di parto anonimo, che per effetto della sentenza delle Corte cost. n. 278 del 2013, sebbene il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte suddetta, idonee ad assicurare la massima riservatezza ed il più assoluto rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorchè la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità, Sez. U, n. 1946/2017, Giusti, Rv. 642009-01.

Il Tribunale per i minorenni, in quanto giudice competente, su richiesta del figlio che intenda esercitare il diritto a conoscere delle proprie origini e ad accedere alla propria storia parentale, ha confermato la Cassazione, è tenuto ad interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e sulla base dei principi enunciati dalla sentenza della Corte cost. n. 278 del 2013, idonee ad assicurare la massima riservatezza ed il più assoluto rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello, e persista il diniego della madre di svelare la propria identità, Sez. 1, n. 14162/2017, Acierno, Rv. 644452-01.

14. Istituti di protezione dei soggetti bisognosi.

Con riferimento alle cause relative ai procedimenti di amministrazione di sostegno, ha deciso il giudice di legittimità, l’eccezione alla regola della sospensione dei termini durante il periodo feriale deve essere ristretta ai soli casi in cui la sua ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti, come avviene per i provvedimenti che dispongono l’apertura o la chiusura dell’amministrazione, ma non anche ai provvedimenti a carattere gestorio, come quello di rimozione e sostituzione ad opera del giudice tutelare di un amministratore di sostegno. In tema di sospensione feriale dei termini processuali, infatti, il carattere di eccezionalità dell’art. 3 della legge n. 742 del 1969 che, per i procedimenti di cui all’art. 92 del r.d. n. 12 del 1941 (ordinamento giudiziario) pone una precisa deroga al principio generale di sospensione dei termini durante il periodo feriale, comporta non solo che non possa esserne estesa l’applicazione a tipologie di controversie diverse da quelle espressamente richiamate, ma anche che le categorie sottratte all’operatività della regola generale vadano interpretate in senso restrittivo, Sez. 1, n. 784/2017, Genovese, Rv. 643494-01. Nella medesima decisione, la Corte di legittimità ha ribadito che, in tema di amministrazione di sostegno, i provvedimenti non aventi carattere decisorio ma meramente gestionali assunti dal giudice tutelare (nella specie, decreti con i quali vengono liquidate alcune indennità in favore dell’amministratore) non sono suscettibili di reclamo alla corte d’appello ex art. 720-bis c.p.c., bensì di reclamo al tribunale in composizione collegiale ai sensi dell’art. 739 c.p.c., trattandosi di provvedimenti che riguardano l’amministrazione, emanati in applicazione dell’art. 379 c.c. Peraltro, la dichiarazione di inammissibilità del reclamo da parte del giudice dell’appello ha natura di dichiarazione di incompetenza, con conseguente prosecuzione del giudizio davanti al competente tribunale in composizione collegiale attraverso il meccanismo della translatio iudicii, Sez. 1, n. 784/2017, Genovese, Rv. 643494-02.

In materia di impugnazioni, il ricorso per cassazione proposto, mediante difensore munito della relativa procura speciale, dai genitori di figlio minorenne, quali rappresentanti legali dello stesso, ha chiarito il giudice di legittimità, non è inammissibile, per mancata costituzione del figlio, divenuto medio tempore maggiorenne, in assenza di rinunzia al giudizio o di revoca del mandato al difensore costituito, non essendo il procedimento di legittimità soggetto ad interruzione per la perdita di capacità della parte, Sez. 3, n. 3769/2017, Tatangelo, Rv. 642863-01.

La Suprema Corte ha chiarito, in tema di esecuzione forzata, che l’atto di pignoramento notificato personalmente al debitore esecutato privo di capacità processuale, perché in stato di interdizione legale, è nullo, ma tale nullità – qualora il debitore interdetto, già costituito in proprio, e non in persona del tutore, suo legale rappresentante, riacquisti la capacità processuale in pendenza di processo esecutivo – è destinata a sanarsi con efficacia ex tunc, ciò che vale ad escludere l’invalidità dell’atto di pignoramento, ma non anche degli atti del processo esecutivo svolto in violazione del principio del contraddittorio, che va fatta valere con opposizione agli atti esecutivi da proporsi nel termine di venti giorni dalla data di cessazione dello stato di incapacità processuale, Sez. 3, n. 7043/2017, Barreca, Rv. 643693-01.

Ai sensi dell’art. 19, comma 5, della legge n. 142 del 2015, appartiene al giudice tutelare del luogo ove insiste la struttura di prima accoglienza, ha deciso la Suprema Corte, la competenza per la nomina del tutore provvisorio di un minore straniero non accompagnato entrato illegalmente in Italia, cosicché quest’ultimo possa adeguatamente esercitare i propri diritti di richiedere la protezione internazionale e domandare il rilascio del permesso di soggiorno; è invece competente alla nomina del tutore il tribunale per i minorenni, qualora sia pendente un procedimento volto alla dichiarazione di adottabilità, Sez. 6-1, n. 10212/2017, Scaldaferri, Rv. 643978-01.

La Corte di legittimità ha statuito che il matrimonio contratto dal beneficiario dell’amministrazione di sostegno può essere impugnato da lui, ex art. 120 c.c. oppure dall’amministratore di sostegno ex art. 412, comma 2, c.c., ma non dai terzi ex art. 119 c.c., non potendosi richiamare la disciplina dell’interdizione. Il giudice di legittimità ha spiegato che tanto dipende dalle significative differenze che intercorrono tra gli istituti dell’amministrazione di sostegno (diretta a valorizzare le residue capacità del soggetto debole) e dell’interdizione (volta a limitare la sfera d’azione di quel soggetto in relazione all’esigenza di salvaguardia del suo patrimonio nell’interesse dei suoi familiari). Pertanto, il divieto di contrarre matrimonio, previsto dall’art. 85 c.c. per l’interdetto, non trova generale applicazione nei confronti del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, pur potendo essere specificamente disposto dal giudice tutelare, ma solo in circostanze di eccezionale gravità, quando la previsione sia conforme all’interesse dell’amministrato, Sez. 1, n. 11536/2017, Di Marzio M., Rv. 645839-01.

La competenza del giudice tutelare nei confronti del condannato in stato d’interdizione legale – da individuare al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna e destinato a non subire mutamenti in coincidenza di trasferimenti restrittivi del reo ex art. 5 c.p.c. – si determina sulla base dell’ultima residenza anagrafica anteriore all’instaurazione dello stato detentivo, ha chiarito il giudice di legittimità, salvo che risulti provato, in contrario alla presunzione di coincidenza con detta residenza, un diverso domicilio, quale centro dei suoi affari ed interessi, non identificabile però in sé nel luogo in cui è stata eseguita la pena detentiva, che non viene prescelto dal condannato, Sez. 6-1, n. 12453/2017, Nazzicone, Rv. 644177-01.

Enunciando un principio di diritto nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., la Corte di legittimità ha affermato che nei procedimenti in tema di amministrazione di sostegno, avverso il decreto con cui il giudice tutelare si sia pronunciato sulla domanda proposta dall’amministratore di sostegno di autorizzazione ad esprimere, in nome e per conto dell’amministrato, il consenso o il rifiuto alla sottoposizione a terapie mediche, è sempre ammesso il reclamo alla corte d’appello, ai sensi dell’art. 720-bis, comma 2, c.p.c., trattandosi di provvedimento definitivo avente natura decisoria su diritti soggettivi personalissimi, Sez. 1, n. 14158/2017, Acierno, Rv. 644450-01.

È inammissibile il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti di designazione o nomina dell’amministratore di sostegno emessi in sede di reclamo, ha confermato il giudice di legittimità, in quanto logicamente e tecnicamente distinti da quelli che dispongono l’amministrazione, dovendosi limitare la facoltà di ricorso ex art. 720-bis, ultimo comma, c.p.c. a tali ultimi decreti, aventi carattere decisorio poiché assimilabili, per loro natura, alle sentenze di interdizione ed inabilitazione, senza estendersi ai provvedimenti a carattere gestorio, sicché le diverse statuizioni contenute nel medesimo decreto seguono ognuna il regime impugnatorio proprio della categoria di appartenenza. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno contenente il provvedimento gestorio di nomina di amministratore, quest’ultimo peraltro già reclamato ex art. 739 c.p.c. innanzi al tribunale in composizione collegiale, per il non gradimento del nominato, in quanto persona estranea alla famiglia del beneficiario, Sez. 1, n. 22693/2017, Di Marzio P., Rv. 645524-01.

In tema di amministrazione di sostegno, ha statuito la Corte di legittimità, la competenza territoriale si radica con riferimento alla dimora abituale del beneficiario e non alla sua residenza, in considerazione della necessità che egli interloquisca con il giudice tutelare, il quale deve tener conto, nella maniera più efficace e diretta, dei suoi bisogni e richieste, anche successivamente alla nomina dell’amministratore; né opera, in tal caso, il principio della perpetuatio iurisdictionis, trattandosi di giurisdizione volontaria non contenziosa, onde rileva la competenza del giudice nel momento in cui debbono essere adottati determinati provvedimenti sulla base di una serie di sopravvenienze, Sez. 6-1, n. 23772/2017, Bisogni, Rv. 645757-01.

15. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio.

In tema di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, ha chiarito la Suprema Corte, l’interesse del P.G. presso la Corte di cassazione all’impugnazione, ai sensi dell’art. 72, comma 2, c.p.c., sussiste nei limiti delle causae petendi e dei petita fatti valere dalle parti, nonché delle eccezioni dalle medesime sollevate, trattandosi di giudizio per cui è esclusa la promuovibilità da parte del pubblico ministero, Sez. 1, n. 2486/2017, Campanile, Rv. 643713-02. Nella medesima decisione il giudice di legittimità ha specificato che il P.G. presso la Corte di cassazione è legittimato, ai sensi dell’art. 72, comma 5, c.p.c., ad impugnare il provvedimento di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, dovendo tale facoltà essere esercitata nel termine di cui all’art. 327 c.p.c. decorrente dal deposito della sentenza, atteso che l’art. 133 c.p.c. non prevede la comunicazione al P.M. presso il giudice ad quem (salva l’applicazione del termine breve nel caso in cui detta comunicazione venga comunque effettuata), Sez. 1, n. 2486/2017, Campanile, Rv. 643713-01.

La Suprema Corte ha dichiarato infondato il ricorso che denunciava la nullità della pronuncia di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio in conseguenza dell’irrituale introduzione del giudizio a mezzo di ricorso, anziché con citazione, e per la mancanza nell’atto dell’avvertimento di cui all’art. 163, comma 3, n. 7, c.p.c. La Cassazione ha ribadito, in proposito, che la trattazione della controversia, da parte del giudice adito, con un rito diverso da quello previsto dalla legge non determina alcuna nullità del procedimento e della sentenza successivamente emessa, se la parte non deduca e dimostri che dall’erronea adozione del rito le sia derivata una lesione del diritto di difesa, Sez. 6-1, n. 23682/2017, Marulli, Rv. 645755-01.

Il giudice di legittimità ha pure confermato che il passaggio in giudicato, in pendenza del giudizio di separazione personale, della sentenza che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario contratto dalle parti, fa venire meno il vincolo coniugale e, quindi, importa la cessazione della materia del contendere in ordine alla domanda relativa alla separazione ed alle correlate statuizioni circa l’addebito e l’assegno di mantenimento richiesto in favore di uno dei coniugi, Sez. 1, n. 30496/2017, Di Marzio P., Rv. 646489-01.

  • procedura civile
  • ingiunzione
  • sanzione amministrativa

CAPITOLO XLII

I GIUDIZI DI OPPOSIZIONE AD ORDINANZA INGIUNZIONE

(di Giovanni Fanticini )

Sommario

1 Principî in materia di sanzioni amministrative. - 2 Giurisdizione e competenza. - 3 L’introduzione dell’opposizione. - 4 Le impugnazioni. - 5 Spese di lite. - 6 Sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada. - 7 Sanzioni amministrative bancarie e finanziarie.

1. Principî in materia di sanzioni amministrative.

L’applicabilità del procedimento di riscossione coattiva disciplinato dal d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 al recupero delle sanzioni amministrative pecuniarie è sancita dall’art. 27, comma 1, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (nella parte in cui stabilisce che “l’autorità che ha emesso l’ordinanza-ingiunzione procede alla riscossione delle somme dovute in base alle norme previste per l’esazione delle imposte dirette”) e, di conseguenza, a tal fine è utilizzabile anche lo strumento del fermo amministrativo (Sez. 6-3, n. 22018/2017, Barreca, Rv. 645719-02).

L’art. 26 della l. n. 689 del 1981 prevede la possibilità – per il trasgressore che si trovi in condizioni economiche disagiate – di domandare il pagamento rateizzato della sanzione pecuniaria alla “autorità giudiziaria o amministrativa che ha applicato la sanzione”. Il riferimento all’organo giurisdizionale, tuttavia, deve ritenersi limitato ai casi in cui sia il giudice penale, a norma dell’art. 24, ad applicare la sanzione; si deve escludere, quindi, che il giudice dell’opposizione ad ordinanza ingiunzione – che ha il potere discrezionale (che non richiede la specificazione dei criteri impiegati) di rideterminare e quantificare l’entità della sanzione entro i limiti edittali, al fine di commisurarla all’effettiva gravità del fatto concreto (Sez. 2, n. 9126/2017, Criscuolo, Rv. 643548-02) – possa disporre il pagamento rateale (Sez. 2, n. 25621/2017, Sabato, Rv. 645949-01).

La giurisdizione sulle opposizioni alle ordinanze ingiunzioni appartiene, di regola, al giudice ordinario, salvo che sia attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, anche quando si tratti di determinare l’an o il quantum (ad esempio, per maggiorazioni) della sanzione: così, al giudice amministrativo devono essere attribuiti i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi adottati dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (ex art. 33, comma 1, legge 10 ottobre 1990, n. 287) qualora sia in discussione un atto che sia espressione della funzione pubblica, adottato nell’ambito di un rapporto giuridico caratterizzato non dalla posizione di parità dei soggetti, bensì da una relazione asimmetrica, sintetizzata nella formula potere-soggezione; al contrario, se non è contestato il provvedimento irrogativo di sanzioni ma, piuttosto, il diritto a riscuoterle tramite la procedura di riscossione, l’amministrazione è convenuta in giudizio al pari di qualsiasi privato cittadino e la tutela giudiziaria va esercitata nelle forme dell’opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi dinanzi al giudice ordinario (Sez. U., n. 8116/2017, Di Iasi, Rv. 643555-01).

2. Giurisdizione e competenza.

Le opposizioni a sanzioni amministrative per detenzione di apparecchi da intrattenimento in difformità dalle regole previste dall’art. 110 r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) rientrano nella competenza giurisdizionale del giudice ordinario poiché i provvedimenti adottati dall’autorità non hanno natura tributaria, bensì lo scopo di reprimere attività abusive idonee a pregiudicare la regolarità delle giocate. (Sez. U., n. 2220/2017, Chindemi, Rv. 642010-01)

La competenza per materia è ripartita tra il tribunale e il giudice di pace, al quale spettano le opposizioni a sanzioni amministrative irrogate per violazioni del codice della strada (ex artt. 7 d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 e 204-bis, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285), indipendentemente dal valore della controversia derivante dal cumulo delle domande ex artt. 10 e 104 c.p.c. (Sez. 6-2, n. 25028/2017, Abete, Rv. 646814-02, in caso di proposizione di un’unica opposizione riguardante plurimi verbali di accertamento; analogamente, Sez. 6-3, n. 3156/2017, De Stefano, Rv. 642751-01, in fattispecie di impugnazione unitaria di diverse cartelle di pagamento).

Anche l’opposizione all’ordinanza ingiunzione per violazione delle disposizioni sulle denominazioni protette di cui all’art. 1 d.lgs. 19 novembre 2004, n. 297 rientra nella competenza del giudice di pace, poiché il procedimento non attiene alla lesione di un diritto di proprietà industriale per il quale sarebbe altrimenti competente il tribunale delle imprese (Sez. 6-2, n. 25504/2017, Correnti, Rv. 646818-01).

In caso di illecito omissivo il locus commissi delicti, rilevante per la determinazione della competenza per territorio, deve essere individuato nel luogo in cui il trasgressore avrebbe dovuto tenere, entro il termine utile, la condotta prescritta e, in caso di infrazione commessa in diversi luoghi, la competenza territoriale è stabilita dal luogo di accertamento dell’illecito (Sez. 6-L, n. 8754/2017, Ghinoy, Rv. 644060-01): di conseguenza, se è irrogata la sanzione amministrativa per violazione, da parte del proprietario dell’autoveicolo, dell’obbligo (ex art. 126-bis, comma 2, codice della strada) di fornire i dati del conducente all’organo che abbia accertato la violazione dei limiti di velocità, la competenza sulla relativa opposizione appartiene al giudice di pace del luogo dove ha sede l’organo accertatore al quale quei dati dovevano essere comunicati (Sez. 6-2, n. 6651/2017, Scarpa, Rv. 643381-01; Sez. 6-2, n. 6652/2017, Scarpa).

Una speciale disciplina, derogatoria rispetto alla previsione generale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 150 del 2011, riguarda l’opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione emessa per la violazione dell’art. 110, comma 9, lett. c), del r.d. n. 773 del 1931 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) in conseguenza della irregolare gestione di macchine per videogiochi: difatti, l’opposizione deve essere proposta al giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’amministrazione autonoma dei monopoli di Stato che ha emesso il provvedimento impugnato ai sensi della seconda parte dell’art. 110, comma 9 ter, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (nella formulazione ratione temporis applicabile, introdotta dall’art. 1, comma 74, della l. n. 220 del 2010, successivamente modificata dall’art. 24, comma 19, del d.l. n. 98 del 2011, conv., con modif., dalla l. n. 111 del 2011) (Sez. 6-2, n. 8836/2017, Abete, Rv. 643672-02, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento agli artt. 3 e 25 Cost.).

3. L’introduzione dell’opposizione.

Il termine per proporre le opposizioni (a ordinanza ingiunzione o a cartelle di pagamento per sanzioni amministrative) è fissato dalla legge e ha natura perentoria.

L’intempestività dell’opposizione può essere rilevata anche ex officio in ogni stato e grado del processo, ma tale regola deve essere coordinata con i principî che governano il sistema delle impugnazioni: perciò, l’affermazione in primo grado dell’ammissibilità dell’opposizione preclude al giudice superiore, in assenza di impugnazione sul punto, il rilievo officioso della tardività (Sez. 6-3, n. 22207/2017, Cirillo F.M., Rv. 645722-01).

Poiché il giudizio è soggetto al principio dispositivo, i motivi di contestazione devono essere dedotti dalla parte opponente con l’atto introduttivo ferma restando la possibilità di formulare ulteriori censure dopo l’inizio del processo a condizione che l’amministrazione opposta, costituita a mezzo di difesa tecnica, accetti il contraddittorio su questi (Sez. 6-2, n. 6505/2017, Picaroni, Rv. 643813-01).

Una volta proposta l’opposizione, l’opponente è tenuto a comparire alla prima udienza, potendo altrimenti il giudice convalidare il provvedimento impugnato con un’ordinanza la cui succinta motivazione può limitarsi a dare atto della valutazione della documentazione hinc ed inde prodotta e a formulare un giudizio di inidoneità della stessa ad incidere sulla valenza della pretesa sanzionatoria (Sez. 6-2, n. 24388/2017, Falaschi, Rv. 646820-01, ha ritenuto incensurabile siffatta motivazione considerando la ratio legis dell’art. 23, comma 5, della legge n. 689 del 1981, i principi del giusto processo e le esigenze di sollecita definizione dei procedimenti ai quali la parte attrice abbia omesso di dare impulso).

La sospensione del processo a norma dell’art. 295 c.p.c. presuppone un rapporto di pregiudizialità-dipendenza giuridica rispetto ad un altro giudizio il cui esito possa riverberarsi con effetto di giudicato ex art. 2909 c.c. sull’opposizione, il che non si verifica quando quest’ultima attiene a sanzioni amministrative pecuniarie comminate per indebita percezione di aiuti comunitari e l’altra controversia riguarda il recupero dell’IVA sulle erogazioni da restituire (Sez. 2, n. 12846/2017, Falaschi, Rv. 644215-01).

4. Le impugnazioni.

L’appello va proposto nella forma del ricorso, in conformità alle regole del rito del lavoro (applicabili ai sensi degli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 150 del 2011), con le modalità e nei termini previsti dall’art. 434 c.p.c.: perciò, se il gravame è erroneamente introdotto con citazione, quest’ultima deve essere non solo notificata, ma anche depositata nel termine di sei mesi dal deposito della sentenza impugnata (Sez. 6-2, n. 1020/2017, Correnti, Rv. 642559-01) o di trenta giorni dalla sua notificazione (Sez. 6-2, n. 19298/2017, Giusti, Rv. 645152).

Specularmente, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011 l’appello doveva essere proposto con citazione, di talché l’erronea introduzione con ricorso era suscettibile di sanatoria solo in caso di notificazione alla controparte entro il termine prescritto dalla legge (Sez. 6-3, n. 5295/2017, Scarano, Rv. 643182-01).

In applicazione dei principî espressi da Sez. U., n. 11844/2016, Ambrosio, Rv. 639945-01, la sentenza emessa – dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – dal tribunale quale giudice di unico grado individuato a seguito di cassazione con rinvio “prosecutorio” non è soggetta ad appello, bensì a ricorso per cassazione, restando irrilevante la modifica del regime di impugnabilità intervenuta medio tempore (Sez. 2, n. 773/2017, Scarpa, Rv. 642218-01); al contrario, in caso di cassazione (nella specie, per ragioni di rito, per non essere stata evocata in giudizio l’amministrazione competente) con rinvio “restitutorio”, la pronuncia è soggetta al principio tempus regit actum ed è pertanto appellabile in forza delle sopravvenute modifiche apportate all’art. 23 della legge n. 689 del 1981 dall’art. 26, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 40 del 2006 (Sez. 2, n. 9991/2017, Manna F., Rv. 643886-01).

5. Spese di lite.

Secondo un filone giurisprudenziale – di cui è espressione Sez. 6-3, n. 2570/2017, Scoditti, Rv. 642743-01 – nel giudizio di opposizione a cartella esattoriale relativa al pagamento di sanzione amministrativa, l’accoglimento dell’opposizione comporta la condanna dell’amministrazione e anche dell’agente della riscossione alla rifusione delle spese processuali in favore dell’opponente, anche quando l’impugnazione sia riconducibile ad un vizio imputabile esclusivamente all’ente impositore.

6. Sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada.

Particolare importanza riveste la sentenza di Sez. U., n. 22080/2017, Barreca, Rv. 645323-01, che ha risolto il contrasto sul rito applicabile alla cd. “opposizione recuperatoria” e, cioè, a quella opposizione proposta avverso la cartella di pagamento di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada in cui l’opponente deduca di non aver avuto conoscenza dell’atto presupposto (e, dunque, la possibilità di impugnarlo): la menzionata pronuncia ha stabilito l’applicabilità dell’art. 7 d.lgs. n. 150 del 2011 (con le forme e i termini – decorrenti dalla notificazione della cartella – prescritti da tale disposizione) anziché la pur prospettata esperibilità dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.

Nelle opposizioni a sanzioni amministrative per trasgressioni al codice della strada la legittimazione passiva spetta alla pubblica amministrazione dalla quale dipendono gli agenti accertatori; qualora il ricorso sia notificato dalla cancelleria – a cui spetta tale adempimento – ad un organo di una diversa amministrazione (nella specie, al prefetto, anziché al comune per un accertamento eseguito dalla polizia municipale), tale errore non comporta l’inammissibilità del ricorso, ma determina la cassazione della decisione con rinvio (restitutorio) al giudice competente al fine di consentire la corretta instaurazione del contraddittorio (Sez. 2, n. 7308/2017, Petitti, Rv. 643520-01).

In caso di “opposizione recuperatoria” (avverso la cartella di pagamento), deve ritenersi legittimato passivo, oltre all’amministrazione opposta, anche l’agente della riscossione, litisconsorte necessario in ragione dell’incidenza di un’eventuale pronuncia di annullamento della cartella sul rapporto esattoriale (Sez. 6-5, n. 15900/2017, Solaini, Rv. 644728-01).

L’applicabilità del rito del lavoro (ex art. 7 d.lgs. n. 150 del 2011) non riguarda la natura della causa e, pertanto, le controversie in tema di opposizione a verbale di accertamento di violazione del codice della strada sono soggette alla sospensione feriale dei termini (Sez. 6-2, n. 11478/2017, Giusti, Rv. 644182-01).

Sulla competenza ad adottare le sanzioni in presenza di plurime violazioni commesse in luoghi diversi, Sez. 6-2, n. 1730/2017, Falaschi, Rv. 642566-01, ha ritenuto che il potere spetti all’autorità del luogo di accertamento, essendo difficilmente individuabile un luogo di commissione degli illeciti (continuati o di natura permanente).

Il giudice dell’opposizione ha il potere di disapplicare il provvedimento del prefetto che abbia autorizzato l’installazione di apparecchiature automatiche per il rilevamento della velocità (cd. “Autovelox”) senza l’obbligo di contestazione immediata al conducente su strade prive delle caratteristiche di “strada urbana di scorrimento”, secondo la definizione fornita dall’art. 2, comma 2, lett. d), del codice della strada (Sez. 2, n. 5532/2017, Cosentino, Rv. 643170-01).

7. Sanzioni amministrative bancarie e finanziarie.

Le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB per l’inosservanza della disciplina della gestione accentrata di strumenti finanziari (ex art. 190 d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) non sono equiparabili – per tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale – a quelle inflitte per manipolazione del mercato (ex art. 187-ter del medesimo resto unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria): conseguentemente, non può prospettarsi un problema di compatibilità con le garanzie che le norme della CEDU impongono per i procedimenti penali, né, in particolare, può profilarsi una violazione del principio nebis in idem come enunciato dalla Corte EDU nella sentenza Grande Stevens ed altri c/o Italia del 4 marzo 2014 (Sez. 2, n. 8885/2017, Scarpa, Rv. 643735-01).

Peraltro, la garanzia del giusto processo ex art. 6 CEDU può essere realizzata assoggettando il provvedimento amministrativo sanzionatorio, avente natura sostanzialmente penale, adottato in assenza di garanzie ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva ed attuato attraverso un procedimento conforme alle prescrizioni della Convenzione (Sez. 2, n. 770/2017, Giusti, Rv. 642217-01, in riferimento a sanzioni applicate dalla Consob all’esito del procedimento amministrativo previsto dall’art. 187 septies del d.lgs. n. 58 del 1998).

Tra le condotte sanzionate dal cd. TUF (per il ritardo all’esercizio delle funzioni di vigilanza) rientra l’omessa ed ingiustificata presentazione all’audizione personale della persona informata dei fatti che sia stata ritualmente convocata; a riguardo, Sez. 2, n. 23532/2017, Cosentino, Rv. 645739-01, ha ritenuto che l’adeguatezza della motivazione dell’atto di convocazione non possa essere sindacata in sede di legittimità in quanto valutazione rimessa al giudice di merito (che, nella fattispecie, aveva ritenuto sufficienti, nell’avviso, il riferimento alla fonte normativa e l’oggetto della convocazione, pur mancando le ragioni per cui il destinatario era stato considerato “persona informata dei fatti”).

La persona fisica autrice della violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (art. 195 d.lgs. n. 58 del 1998) è legittimata ad impugnare autonomamente o ad intervenire nel giudizio di opposizione all’ingiunzione di pagamento emessa nei soli confronti della persona giuridica a cui appartiene, in quanto è interessata all’accertamento negativo dei presupposti degli illeciti addebitati nel procedimento sanzionatorio, dato che il giudicato formatosi nel processo promosso dall’ente o dalla società coobbligati spiega effetti nel successivo giudizio di regresso quanto ai fatti accertati (salva l’opponibilità di eccezioni personali). Qualora, però, la società non proponga opposizione e provveda al pagamento della sanzione inflitta, nessuna preclusione si verifica in seno all’obbligatorio giudizio di regresso (ex art. 195, comma 9, d.lgs. n. 58 del 1998 ratione temporis vigente), nel quale la persona fisica può spiegare tutte le opportune difese, anche sul merito della sanzione medesima (Sez. 2, n. 8919/2017, Criscuolo, Rv. 643544-01).

Tra il giudizio di opposizione avverso il provvedimento di irrogazione delle sanzioni proposto dal responsabile delle violazioni e l’azione di rivalsa promossa dall’ente che ha provveduto al pagamento nei confronti del responsabile (ex art. 195, comma 9, d.lgs. n. 58 del 1998 ratione temporis vigente) sussiste un rapporto di pregiudizialità, posto che l’opposizione potrebbe condurre ad un’esclusione o una riduzione delle sanzioni (Sez. 6-1, n. 5767/2017, Genovese, Rv. 644263-01).

Sulla banca cessionaria del ramo d’azienda grava il debito – in solido con la persona fisica autrice della violazione – per le sanzioni inflitte a norma dell’art. 144 d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 per carenze organizzative e di controllo interno poiché l’art. 58 del TUB, in deroga all’art. 2560 c.c., prevede il trasferimento delle passività al cessionario in forza della sola cessione e del decorso del termine di tre mesi dalla pubblicità notizia di essa (Sez. 2, n. 2523/2017, Scarpa, Rv. 642492-01).

  • fallimento

CAPITOLO XLIII

PROCEDURE CONCORSUALI. PROFILI PROCESSUALI

(di Salvatore Leuzzi )

Sommario

1 Premessa. - 2 La dichiarazione di fallimento e il relativo procedimento. - 3 La formazione dello stato passivo e la rivendicazione di beni. - 4 Le impugnazioni dei crediti, le opposizioni allo stato passivo, le revocazioni. - 5 I reclami. - 6 L’estensione del fallimento. - 7 La chiusura e la riapertura del fallimento. - 8 Il P.M. e le procedure concorsuali. - 9 Il concordato preventivo. - 10 Il concordato fallimentare. - 11 La liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria. - 12 Il sovraindebitamento.

1. Premessa.

Gli aspetti processuali delle procedure concorsuali sono stati oggetto di numerose pronunce della S.C. che, nel corso del 2017, talvolta si è mossa nel solco dei paradigmi ermeneutici propri degli orientamenti precedenti, pur senza trascurare opportuni approfondimenti, talaltra ha colto ed enucleato nuovi ed emergenti profili.

2. La dichiarazione di fallimento e il relativo procedimento.

In tema di giurisdizione, una essenziale puntualizzazione si scorge in Sez. 1, n. 43/2017, Ferro, Rv. 643016-02, secondo cui, laddove la cancellazione di una società dal registro delle imprese italiano avvenga non a compimento del procedimento di liquidazione dell’ente o per il verificarsi di altra situazione che implichi la cessazione dell’esercizio dell’impresa e da cui la legge faccia discendere l’effetto necessario della cancellazione, bensì come conseguenza del trasferimento fittizio all’estero della sede della società, non trova applicazione l’art. 10 regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, atteso che un siffatto trasferimento non determina il venir meno della continuità giuridica della società trasferita e non ne comporta, quindi, in alcun modo, la cessazione dell’attività imprenditoriale, che continua ad essere svolta nel territorio dello Stato. Inoltre, in applicazione del principio di effettività ed in ragione della fittizietà del trasferimento della sede sociale e della permanenza dell’attività in Italia, il giudice italiano neppure perde la propria giurisdizione ai sensi dell’art. 9 l. fall.

Sez. 1, n. 7470/2017, Acierno, Rv. 644824 01, ha ritenuto che nel caso in cui una società abbia trasferito la propria sede all’estero anteriormente all’apertura della procedura di insolvenza, è legittimamente affermata la giurisdizione del giudice italiano in ordine alla dichiarazione di fallimento di essa ove il giudice di merito abbia accertato , con valutazione in fatto non sindacabile in sede di legittimità, la presenza di indici probatori (riscontrabili, principalmente, nella discontinuità dell’attività svolta successivamente al trasferimento, nell’effettivo trasferimento dell’attività imprenditoriale, nella circostanza che l’organo amministrativo sia cittadino italiano e senza significativi collegamenti con lo Stato straniero ovvero nella fittizietà del trasferimento del centro dell’attività direttiva, amministrativa ed organizzativa dell’impresa), idonei a vincere la presunzione iuris tantum di corrispondenza tra la sede legale e la sede effettiva, prevista dall’art. 3 del regolamento CE n. 1346 del 2000, in base al quale la competenza ad aprire la procedura di insolvenza spetta al giudice dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore, da individuare fino a prova contraria, in caso di società, in quello del luogo in cui si trova la sede statutaria.

Sull’interferenza e la correlazione della declaratoria di fallimento rispetto ai rapporti processuali pendenti del fallito si appunta Sez. 6-1, n. 5288/2017, Cristiano, Rv.643975 01, secondo cui l’art. 43, comma 3, l. fall. va interpretato nel senso che, intervenuto il fallimento, l’interruzione è sottratta all’ordinario regime di cui all’art. 300 c.p.c., ovvero è automatica e deve essere dichiarata dal giudice non appena sia venuto a conoscenza dall’evento, ma non anche nel senso che la parte non fallita sia tenuta alla riassunzione del processo nei confronti del curatore indipendentemente dal fatto che l’interruzione sia stata, o meno, dichiarata.

Definisce il rapporto tra fallimento e procedimento arbitrale Sez. 6-1, n. 25054/2017, Mercolino, Rv. 646054-02, secondo cui l’art. 83-bis l. fall. si limita a disporre che, qualora in pendenza di arbitrato sia dichiarato il fallimento di una delle parti del contratto cui accede la clausola compromissoria, il relativo procedimento diviene improseguibile ove il rapporto negoziale sia sciolto secondo le disposizioni di cui agli artt. 72 e ss. l. fall.; la norma non trova, pertanto, applicazione nella diversa ipotesi in cui, non constando la pendenza di un procedimento arbitrale, una cooperativa aderente ad un consorzio ne sia esclusa in virtù di una norma statutaria che tanto preveda per il caso di fallimento della consorziata.

Importante il principio enunciato da Sez. 1, n. 1338/2017, Cristiano, Rv. 643497- 01 per cui il procedimento per la dichiarazione di fallimento disciplinato dall’art. 15 l. fall. è espressamente assoggettato (dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5) al principio della domanda, con l’applicabilità ad esso, per tutto quanto non specificamente regolato dalla disposizione suddetta, delle norme del codice di rito, secondo l’interpretazione datane dalla giurisprudenza. Pertanto, la notifica dell’istanza di fallimento, e del pedissequo decreto di convocazione, che contenga l’errata indicazione della data dell’udienza fissata per la comparizione del debitore, non dà luogo ad alcuna nullità qualora l’errore sia riconoscibile e la data esatta possa essere individuata con l’uso dell’ordinaria diligenza, occorrendo coniugare il diritto di difesa dell’imprenditore con le esigenze di specialità e di speditezza cui deve essere improntato il procedimento prefallimentare.

Di rilievo anche il principio espresso da Sez. 1, n. 31/2017, Di Virgilio, Rv. 643011-01, in virtù del quale la notifica telematica del ricorso per dichiarazione di fallimento e del decreto ex art. 15, comma 3, l. fall., nel testo successivo alle modifiche apportategli dall’art. 17 del decreto legge. 18 ottobre 2012, n. 179, conv., con modif., dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, si perfeziona nel momento in cui perviene all’indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) del destinatario, precedentemente comunicato dal medesimo al tempo della sua iscrizione nel registro delle imprese ai sensi dell’art. 16, comma 6, del decreto legge 29 novembre 2008, n. 185, conv., con modif., dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, e dell’art. 5, comma 1, del d.l. n. 179 cit., salva la prova che il predetto indirizzo sia erroneo per fatto non imputabile all’imprenditore che ha effettuato la comunicazione. In applicazione del principio esposto, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale la corte d’appello aveva revocato il fallimento sul presupposto che il ricorso ed il decreto di comparizione erano stati notificati ad un indirizzo PEC che, pur risultando dal certificato camerale della società debitrice, apparteneva, in realtà, ad altra società.

Di interesse anche la precisazione svolta da Sez. 1, n. 12066/2017, Di Marzio M., Rv. 644205-01, a tenore della quale l’art. 25, comma 1, n. 6, l. fall., che attribuisce al giudice delegato il potere di autorizzare il curatore a stare in giudizio come attore o come convenuto ed è posto in funzione della delicatezza della relativa decisione che potrebbe essere anche foriera di passività per la procedura in caso di soccombenza, ricomprende pure l’ipotesi del ricorso per la dichiarazione di fallimento autorizzato dal giudice delegato per essere il creditore istante sottoposto alla procedura di concordato preventivo. Ne deriva che, in applicazione dell’art. 25, comma 2, l. fall., quel giudice non può, in quanto incompatibile, prendere parte alla decisione del ricorso suddetto e ha un obbligo di astensione, la cui violazione, però, ove non seguita dall’istanza di ricusazione della parte interessata, non comporta la nullità della sentenza.

Di estrema rilevanza la puntualizzazione contenuta in Sez. 6-1, n. 19688/2017, Marulli, Rv. 645687-01, secondo la quale l’art. 15, comma 3, l. fall. (nel testo novellato dall’art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, conv. con modif. in l. n. 221 del 2012), nel prevedere che la notificazione del ricorso per la dichiarazione di fallimento alla società può essere eseguita tramite PEC all’indirizzo della stessa e, in caso di esito negativo, presso la sua sede legale come risultante dal registro delle imprese, oppure, qualora neppure questa modalità sia andata a buon fine, mediante deposito dell’atto nella casa comunale della sede iscritta nel registro, introduce una disciplina speciale semplificata che, coniugando la tutela del diritto di difesa del debitore con le esigenze di celerità e speditezza intrinseche al procedimento concorsuale, esclude l’applicabilità della disciplina ordinaria prevista dall’art. 145 c.p.c. per le ipotesi di irreperibilità del destinatario della notifica.

Merita notare che Sez. 6-1, n. 23728/2017, Ferro, Rv. 645756-01, ha ritenuto che il ricorso per la dichiarazione di fallimento può essere notificato alla società cancellata dal registro delle imprese e già in liquidazione, ai sensi dell’art. 15, comma 3, l. fall. (nel testo successivo alle modifiche apportategli dall’art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 221 del 2012), all’indirizzo di posta elettronica certificata dalla stessa in precedenza comunicato al registro delle imprese.

Dal canto suo Sez. 6-1, n. 8014/2017, Bisogni, Rv. 644605-01, ha rigorosamente statuito che l’impossibilità di eseguire la notificazione in via telematica del ricorso e del decreto di convocazione innanzi al tribunale può essere attestata dal cancelliere, atteso che l’art. 15, comma 3, l. fall. non prevede particolari modalità al riguardo, né richiede la specifica allegazione del messaggio ritrasmesso dal gestore della posta elettronica certificata (PEC) attestante l’esito negativo dell’invio.

Sez. 1, n. 602/2017, Cristiano, Rv. 643029-01, ha chiarito che in caso di società già cancellata dal registro delle imprese, il ricorso per la dichiarazione di fallimento può esserle notificato, ai sensi dell’art. 15, comma 3, l. fall., nel testo successivo alle modifiche apportate dall’art. 17 del d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 221 del 2012, all’indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) dalla stessa in precedenza comunicato al registro delle imprese.

Sez. 6-1, n. 1035/2017, Di Virgilio, Rv. 642783-01, ha specificato che il tribunale che si dichiari incompetente sull’istanza di fallimento provvede, con decreto, all’immediata trasmissione degli atti al giudice competente ex art. 9-bis l. fall., il quale deve dare impulso al procedimento pronunciando, nelle forme prescritte dall’art. 15 l. fall., decreto di comparizione delle parti, notificato in via telematica, a cura della cancelleria, all’indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) dell’imprenditore, non potendo trovare applicazione, nella specie, l’art. 125 disp. att. c.p.c., che prevede la notifica presso il domicilio eletto e riguarda una disciplina del tutto estranea al procedimento prefallimentare.

Sez.1, n. 2235/2017, Ferro, Rv. 643711-02, ha osservato che nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, l’avvenuta procedimentalizzazione del giudizio e delle attività di trattazione ed istruttoria, a seguito della riforma di cui al d.lgs. n. 5 del 2006 ed al d.lgs. n. 169 del 2007, non esclude che, ai sensi dell’art. 15, comma 5, l. fall., il presidente del tribunale, in sede di abbreviazione dei termini per la notifica e per le memorie, possa disporre che il ricorso di fallimento ed il decreto di convocazione, se ricorrono particolari ragioni di urgenza, siano portati a conoscenza delle parti con ogni mezzo idoneo, omessa ogni formalità non indispensabile alla conoscibilità degli stessi. Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto valida la notificazione eseguita dal P.M., previa autorizzazione giudiziale a provvedervi per il tramite della polizia giudiziaria, secondo la procedura di assistenza legale internazionale, presso la sede legale della società debitrice, sita nel Delaware (Stati Uniti d’America), ad opera dell’ufficio di polizia del luogo, in conformità sia ai trattati in materia penale intercorrenti tra Italia ed USA del 2006, sia alla Convenzione de L’Aja del 1965 in materia civile.

Su un piano generale Sez. 1, n. 2958/2017, Cristiano, Rv. 643859-01, ha apprezzato la natura della sentenza che pronuncia la nullità della declaratoria di fallimento, per vizi di natura processuale (nella specie, per difetto di iniziativa di parte), cogliendone una portata circoscritta al rapporto processuale in cui è emessa. Da ciò è stata tratta la conseguenza per la quale, detta sentenza, ancorché definitiva, si mostra inidonea ad assumere l’autorità del giudicato in senso sostanziale e non assurge ad ostacolo all’emissione di una nuova dichiarazione di fallimento nei confronti dello stesso soggetto e sulla base di una rivalutazione dei medesimi elementi di fatto.

A parere di Sez. 1, n. 269/2017, Didone, Rv. 643023-01, nel procedimento camerale e sommario che precede la dichiarazione di fallimento, il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa del debitore restano assicurati quando questi sia informato dell’iniziativa in corso e dei fatti rilevanti per la configurazione dei requisiti oggettivi e soggettivi di detta declaratoria; in particolare, il diritto di difesa del debitore è garantito allorché il medesimo lo abbia esercitato dinanzi alla corte di appello in sede di reclamo ex art. 22 l. fall., senza necessità di ulteriore sua convocazione da parte del tribunale cui gli atti siano stati rimessi per la dichiarazione di fallimento.

Sul tema del cd. “autofallimento” si inserisce Sez. 1, n. 20187/2017, Ferro, Rv. 645392-01, la quale osserva che il debitore può assumere l’iniziativa per la dichiarazione del proprio fallimento senza ricorrere al ministero di un difensore, se e fino a quando la sua istanza non confligga con l’intervento avanti al tribunale di altri soggetti, portatori dell’interesse ad escludere la dichiarazione di fallimento, ciò implicando lo svolgimento di un contraddittorio qualificato.

Sez. 1, n. 2957/2017, Cristiano, Rv. 643719-01, ha ritenuto che l’amministratore unico di una società a responsabilità limitata non solo è pienamente legittimato a proporre ricorso per la dichiarazione di fallimento della società amministrata anche in assenza di altri creditori istanti, ma, in caso di ripetute perdite di esercizio, mai ripianate, e di azzeramento del capitale della società, vi è tenuto, al fine di evitare di rispondere dell’eventuale aggravamento del passivo cagionato dal ritardo nella menzionata dichiarazione. Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto che il procedimento di cd. autofallimento promosso dall’amministratore unico di una s.r.l., autorizzato dall’assemblea della società alla quale aveva partecipato il curatore del fallimento personale di uno dei soci, rientrasse tra i casi tipici contemplati dall’art. 6 l. fall.

Di estrema rilevanza nella complessa economia dei rapporti tra il fallimento e le procedure concorsuali minori si palesa Sez. 1, n. 1169/2017, Ferro, Rv. 643357-02, la quale contiene la precisazione secondo cui la pendenza di una domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, impedisce la dichiarazione di fallimento solo temporaneamente, fino al verificarsi degli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall., ma non determina l’improcedibilità del procedimento prefallimentare iniziato su istanza del creditore o su richiesta del P.M., sicché il decreto con cui il tribunale abbia, malgrado ciò, dichiarato improcedibile il ricorso ex art. 15 l. fall., quale mera conseguenza dell’ammissione del debitore al concordato preventivo, non implica, di per sé, alcuna definizione negativa, nel merito, dell’istruttoria prefallimentare, limitandosi ad attuare il necessario coordinamento organizzativo tra le procedure. Ne consegue che, una volta rimossa la condizione preclusiva alla pronuncia della sentenza di fallimento per effetto della revoca dell’ammissione ex art. 173 l. fall., i ricorrenti conservano la pienezza dei loro poteri di impulso per la prosecuzione del procedimento, senza che alcuna valenza preclusiva possa discendere dalla mancata contestazione dell’indicato decreto.

In un ambito denso di sovrapposizioni, quale quello dei rapporti tra misure di prevenzione penali e procedure concorsuali, si inserisce Sez. 1, n. 608/2017, Ferro, Rv. 643345-02, la cui importanza si coglie nel suo chiarire che il sequestro preventivo antimafia del patrimonio sociale non osta alla dichiarazione di fallimento della società, ammissibile anche in mancanza di un attivo aggredibile da parte dei creditori sociali. Invero, sotto il profilo testuale, l’art. 118, comma 1, n. 4, l. fall. prevede la chiusura del fallimento per mancanza di attivo, l’art. 63, comma 6, del codice antimafia (e delle misure di prevenzione), approvato con d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, impone la chiusura (e non la revoca) del fallimento, ex art. 119 l. fall., allorquando nella massa attiva siano ricompresi esclusivamente beni già sottoposti a sequestro, ed una regola omologa è dettata dall’art. 64, comma 7, del codice predetto per il caso di sequestro o confisca sopravvenuti al fallimento. Sotto il profilo ermeneutico, inoltre, il sequestro di prevenzione si fonda su presupposti affatto diversi dalla dichiarazione di fallimento, sicché appare irrazionale posticipare la tutela dei creditori a fronte di un interesse pubblico sotteso ad una misura cautelare che, nelle more, potrebbe diventare recessiva in ragione della sua natura cautelare e provvisoria.

Sez. 6-1, n. 1035/2017, Di Virgilio, Rv. 642783-01, ha, infine, ritenuto che il tribunale che si dichiari incompetente sull’istanza di fallimento provvede, con decreto, all’immediata trasmissione degli atti al giudice competente ex art. 9-bis l. fall., il quale deve dare impulso al procedimento pronunciando, nelle forme prescritte dall’art. 15 l. fall., decreto di comparizione delle parti, notificato in via telematica, a cura della cancelleria, all’indirizzo di posta elettronica certificata (PEC) dell’imprenditore, non potendo trovare applicazione, nella specie, l’art. 125 disp. att. c.p.c., che prevede la notifica presso il domicilio eletto e riguarda una disciplina del tutto estranea al procedimento prefallimentare.

3. La formazione dello stato passivo e la rivendicazione di beni.

In termini generali, Sez. 6-1, n. 6524/2017, Genovese, Rv. 644597-01, ha sancito la piena efficacia, nel giudizio di verificazione del passivo, della regola del giudicato endofallimentare ex art. 96 l. fall., osservando che, qualora il creditore, ammesso al passivo in collocazione chirografaria, abbia opposto il decreto di esecutività per il mancato riconoscimento del privilegio richiesto senza che, nel conseguente giudizio di opposizione, il curatore si sia costituito ed abbia contestato l’ammissibilità stessa del credito, il giudice dell’opposizione non può, ex officio, prendere nuovamente in considerazione la questione relativa all’ammissione del credito ed escluderlo dallo stato passivo in base ad una rivalutazione dei fatti già oggetto di quel provvedimento, essendo l’ammissione coperta dal predetto giudicato.

D’impatto diffuso si mostra la puntualizzazione offerta da Sez. 6-1, n. 5255/2017, Lamorgese, Rv. 643974-01, secondo cui la domanda di accertamento di un credito nei confronti del fallito, in quanto soggetta al rito speciale ed esclusivo previsto dagli artt. 93 e ss. l. fall., deve essere dichiarata inammissibile o improcedibile, sicché va escluso che, ove il relativo giudizio sia ancora pendente in sede ordinaria, il giudizio di opposizione allo stato passivo avente ad oggetto l’accertamento del medesimo credito possa essere sospeso ex art. 295 c.p.c.

Sez. 1, n. 13886/2017, Nazzicone, Rv. 644324-01, ha ritenuto che anche il procedimento di accertamento dello stato passivo riguardante le domande di insinuazione tardiva ai sensi dell’art. 101 l. fall., benché la loro trattazione sia frazionabile in più udienze, si conclude con il decreto di esecutività reso ex art. 96, ultimo comma, l. fall., unico e tipico provvedimento a contenuto precettivo, il cui termine per l’impugnazione decorre solo dalla sua comunicazione, mentre è inammissibile un’impugnazione del provvedimento di ammissione di singoli crediti perché in contrasto con l’esigenza di definizione unitaria di tutte le questioni concernenti lo stato passivo.

Secondo Sez. 6-1, n. 19734/2017, Di Marzio M., Rv. 645689-01, in tema di verificazione del passivo, il principio di non contestazione, che pure ha rilievo rispetto alla disciplina previgente quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, non comporta affatto l’automatica ammissione del credito allo stato passivo solo perché non sia stato contestato dal curatore (o dai creditori eventualmente presenti in sede di verifica), competendo al giudice delegato (e al tribunale fallimentare) il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni in tema di verificazione dei fatti e delle prove.

Sempre sul principio di cui all’art. 115 c.p.c. si incentra anche Sez. 1, n. 5067/2017, Terrusi, Rv. 645840-01, la quale chiarisce che la non contestazione, sintetizzando una tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti che ha dignità di regola generale, si applica anche al procedimento per dichiarazione di fallimento.

Sez. 1, n. 17329/2017, Terrusi, Rv. 644844-01, evidenzia che in tema di ammissione al passivo fallimentare di crediti assistiti da ipoteca, ai sensi dell’art. 93 l. fall. − nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla novella di cui al d.lgs. n. 5 del 2006 − non è necessaria nella domanda l’indicazione, da parte del creditore, del bene su cui tale garanzia grava, atteso che la sua eventuale mancanza rileva unicamente nella fase attuativa, come impedimento di fatto all’esercizio della garanzia stessa, sicché la verifica dell’esistenza del bene non è questione da risolvere in fase di accertamento del passivo, ma, attenendo all’ambito dell’accertamento dei limiti di esercitabilità della prelazione, è demandata alla fase del riparto.

Sez. 1, n. 1331/2017, Di Virgilio, Rv. 643707-02, ha incisivamente osservato che nel giudizio di verificazione dello stato passivo, l’indicazione del titolo del privilegio di cui si chiede il riconoscimento non attiene alla semplice qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio, bensì integra la causa petendi della domanda di ammissione. Ne consegue che, ove l’indicazione del titolo del privilegio venga mutata o specificata per la prima volta in sede di opposizione, la relativa domanda è inammissibile per il suo carattere di novità.

Sez. 1, n. 21459/2017, Mercolino, Rv. 645403-01, ha ritenuto che in tema di ammissione al passivo del credito per interessi, l’estensione a tale credito del diritto di prelazione accordato dalla legge a quello per capitale, ex art. 54, comma 3, l. fall., non comporta la sottrazione degli accessori alla necessità di una specifica domanda, ai fini della quale occorre l’indicazione di tutti gli elementi necessari per il calcolo degli interessi, e quindi almeno la data di scadenza del credito e il tasso applicabile, onde consentire di verificare l’esatta determinazione dell’importo richiesto, anche in relazione al trattamento differenziato previsto per gli interessi maturati successivamente alla dichiarazione di fallimento. Il principio è stato affermato con riferimento ad un credito di natura tributaria. Nella specie la S.C. ha confermato il provvedimento di ammissione al passivo in via chirografaria del relativo credito per interessi, essendosi la creditrice limitata, sia nell’istanza di insinuazione che nell’opposizione, alla mera indicazione dell’importo complessivamente dovuto per gli accessori, ancorché distinto da quello relativo alla sorte capitale, ribadendo che per esso l’estensione del privilegio resta disciplinata dall’art. 2749 c.c., in forza del richiamo di cui all’art. 54, comma 3, l. fall.

Sez. 1, n. 21204/2017, Lamorgese, Rv. 645399-01, ha messo in risalto che, una volta intervenuto il fallimento del datore di lavoro, le domande proposte dal lavoratore, per veder riconoscere il proprio credito e il relativo grado di prelazione, devono essere introdotte nelle forme dell’insinuazione nello stato passivo, pertanto non dinanzi al giudice del lavoro, bensì dinanzi al tribunale fallimentare, il cui accertamento è l’unico titolo idoneo per l’ammissione allo stato passivo e per il riconoscimento di eventuali diritti di prelazione.

Sez. U, n. 10944/2017, Cristiano, Rv. 643946-01 ha affermato che anche nelle procedure fallimentari aperte successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, la sospensione dei termini durante il periodo feriale, pur applicandosi in via generale, ai sensi del combinato disposto dell’art. 92 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 e degli artt. 1 e 3 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, ai giudizi per l’accertamento dei crediti concorsuali, non opera in quelli in cui si controverta dell’ammissione allo stato passivo dei crediti di lavoro, i quali, benché da trattarsi con il rito fallimentare, sono assoggettati al regime previsto dall’art. 3 citato, in ragione della materia che ne forma l’oggetto.

Significativa è Sez. 1, n. 23582/2017, Di Marzio M., Rv. 645786-01 nel puntualizzare che in sede di accertamento dello stato passivo, ai fini dell’opponibilità al fallimento di un credito documentato con scrittura privata non di data certa (mediante la quale voglia darsi la prova del momento in cui il negozio è stato concluso), il creditore può dimostrare la certezza della data attraverso fatti, quali che siano, equipollenti a quelli previsti dall’art. 2704 c.c., ivi compresa la documentazione proveniente dalla società in bonis, ove la stessa sia idonea allo scopo. Nel caso di specie, riguardante un contratto di licenza di marchio cui erano subentrate la creditrice istante e la società in bonis, poi fallita, la S.C., in applicazione del principio appena riassunto, ha cassato la pronuncia di merito che aveva negato rilievo, ai fini della certezza della data del contratto, alle scritture contabili e al bilancio della fallita, attestante l’uso del marchio, ad una lettera inviata a mezzo fax dalla società concernente la ricezione delle fatture relative al credito insinuato e ad una richiesta di pagamento inviata con raccomandata riferita alle medesime fatture.

Sez. 6-1, n. 23775/2017, Terrusi, Rv. 646045-01, ha ribadito il principio ormai consolidato in base al quale il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato sostanziale, idoneo a costituire titolo inoppugnabile per l’ammissione al passivo, solo nel momento in cui il giudice, dopo avere controllato la ritualità della sua notificazione, lo dichiari, in mancanza di opposizione o di costituzione dell’opponente, esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c. Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la pronuncia del giudice di merito, di rigetto di un’opposizione allo stato passivo, promossa da un creditore che, ponendo a base della domanda un decreto ingiuntivo privo della dichiarazione giudiziale di esecutorietà, aveva affermato il proprio diritto all’ammissione al passivo delle spese legali della procedura monitoria.

Nel medesimo ambito si inserisce Sez. 6-1, n. 23679/2017, Campanile, Rv. 646044-02, secondo cui, nel caso in cui la dichiarazione di fallimento del debitore sopravvenga nelle more dell’opposizione da lui proposta contro il decreto ingiuntivo, il curatore non è tenuto a riassumere il giudizio, poiché il provvedimento monitorio, quand’anche provvisoriamente esecutivo, non è equiparabile ad una sentenza non ancora passata in giudicato, che viene emessa nel contraddittorio delle parti, ed è, come tale, totalmente privo di efficacia nei confronti del fallimento.

Sez. 1, n. 19937/2017, Nappi, Rv. 645202-01, ha avvalorato il principio, già in precedenza espresso, secondo cui, in tema di accertamento del passivo, la mancata presentazione da parte del creditore di osservazioni al progetto di stato passivo depositato dal curatore non comporta acquiescenza alla proposta e conseguente decadenza dalla possibilità di proporre opposizione, non potendo, infatti, trovare applicazione il disposto dell’art. 329 c.p.c. rispetto ad un provvedimento giudiziale non ancora emesso. Peraltro, l’art. 95, comma 2, l. fall. prevede che i creditori possano esaminare il progetto, senza porre a loro carico un onere di replica alle difese e alle eccezioni del curatore entro la prima udienza fissata per l’esame dello stato passivo, cosicché deve escludersi che il termine predetto sia deputato alla definitiva e non più emendabile individuazione delle questioni controverse riguardanti la domanda di ammissione.

Va evidenziato che, secondo Sez. 1, n. 20191/2017, Ferro, Rv. 645395-01 in sede di verificazione dello stato passivo, la domanda di rivendica di immobili e impianti non può essere oggetto di ammissione con riserva, posto che quest’ultima, in quanto atipica ed estranea alle ipotesi tassativamente indicate dall’art. 95 l. fall., anche qualora sia disposta dal giudice, va considerata come non apposta, dovendosi intendere il provvedimento giudiziale come di accoglimento pieno del diritto fatto valere.

Sempre in materia di rivendicazione di beni, Sez. 1, n. 20191/2017, Ferro, Rv. 645395-02, si è soffermata sul nucleo delle regole probatorie, evidenziando che, qualora la domanda investa beni mobili rinvenuti nella casa o nell’azienda del fallito ed acquisiti dal curatore, incombe sul ricorrente, ex art. 103 l. fall., l’onere di dare dimostrazione del proprio diritto sugli stessi, dovendo trovare applicazione il regime probatorio previsto dall’art. 621 c.p.c., che, sebbene si riferisca espressamente soltanto alla prova per testimoni, trova applicazione anche con riferimento alla prova presuntiva, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 2729 c.c.

Nel medesimo ambito Sez. 1, n. 19748/2017, Acierno, Rv. 645391-01, ha ritenuto che in tema di domanda tardiva di rivendica d’immobile, a norma dell’art. 31 l. fall., il curatore può stare in giudizio senza l’autorizzazione del giudice delegato. Nella specie, la domanda di rivendica risultava proposta dopo che era stata disposta la vendita e il ritardo non era giustificato a norma dell’art. 101, comma 3, l. fall.

Sez. 1, n. 20182/2017, Mercolino, Rv. 645213-01, osserva che l’impugnazione dei crediti ammessi in via tardiva deve avvenire, anche a seguito dell’abrogazione dell’art. 100 l. fall., entro quindici giorni decorrenti dalla necessaria comunicazione, ad opera del curatore, del decreto di variazione dello stato passivo, non surrogabile da atti o fatti idonei ad evidenziarne una conoscenza aliunde acquisita, sicché la mancata prova – gravante sulla parte che eccepisce la tardività dell’impugnazione – dell’avviso formale esclude la decorrenza del termine anzidetto, implicando la tempestività dell’impugnazione.

Sez. 1, n. 19017/2017, Dolmetta, Rv. 645085-01, ha affermato che in caso di domanda tardiva di ammissione al passivo ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 101 l. fall. la valutazione della sussistenza di una causa non imputabile, che giustifichi il ritardo del creditore, implica un accertamento di fatto, rimesso alla valutazione del giudice di merito, che, se congruamente e logicamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità. Nel caso di specie la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la decisione del tribunale che aveva rigettato l’opposizione al passivo proposta dal lavoratore ben oltre l’anno dalla dichiarazione di esecutorietà, stante la possibilità per costui di depositare in termini l’istanza di ammissione prima della conclusione del giudizio avanti al giudice del lavoro, potendo ottenere un’ammissione con riserva o una sospensione del giudizio di ammissione innanzi al tribunale fallimentare nelle more della causa di licenziamento.

Sez. 6-1, n. 17416/2017, Di Virgilio, Rv. 645050-01 ha rimarcato che ai fini dell’ammissibilità della domanda cd. supertardiva, l’ultimo comma dell’art. 101 l. fall. richiede la prova della non imputabilità del ritardo al creditore, evidenziando che tale circostanza non può ritenersi integrata dalla mera irregolarità della comunicazione a lui effettuata dal curatore ai sensi dell’art. 92 l. fall. (nella specie trasmessa alla direzione generale anziché alla sede legale della società creditrice), quando l’atto sia comunque pervenuto nella sfera di conoscenza del destinatario.

4. Le impugnazioni dei crediti, le opposizioni allo stato passivo, le revocazioni.

Sez. 1, n. 8869/2017, Terrusi, Rv. 643516-01, ha affermato che l’impugnazione di un credito tempestivamente ammesso a favore di un terzo può essere proposta dal creditore tardivo, contestualmente alla dichiarazione tardiva del suo credito, ove si sia in presenza di situazioni soggettive tra loro in conflitto , entro sei mesi dalla dichiarazione di esecutività dello stato passivo delle domande tempestive, in applicazione analogica dell’art. 327 c.p.c., salva la mancata conoscenza del processo fallimentare, della cui prova il creditore medesimo è onerato.

Sez. 6-1, n. 26225/2017, Ferro, Rv. 635166-01, ha insistito sulla natura impugnatoria del giudizio di opposizione allo stato passivo, evidenziando come lo stesso sia retto dal principio dell’immutabilità della domanda tanto da non prestarsi all’introduzione di domande nuove o alle modificazioni sostanziali delle domande già avanzate in sede d’insinuazione al passivo. Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio al tribunale che aveva ammesso al passivo, con la prededuzione, un credito oggetto di una domanda di insinuazione in privilegio innanzi al giudice delegato e, solo in sede di opposizione, richiesto in parte al chirografo e in parte in prededuzione.

Sez. 6-1, n. 22006/2017, Scaldaferri, Rv.645749 -01, osserva che l’art. 99 l. fall., configurando l’opposizione allo stato passivo in senso impugnatorio, esclude l’ammissibilità di domande nuove, non proposte nel grado precedente, e di nuovi accertamenti di fatto, sicché è inammissibile il ricorso per cassazione che solleciti l’esame di questioni, di fatto o di diritto, non prospettate, ritualmente e tempestivamente, nel predetto giudizio di opposizione.

Pur nel quadro della connotazione impugnatoria dell’opposizione Sez. 1-6, n. 21201/2017, Didone, Rv. 645843-02, ha operato un importante distinguo, evidenziando che alla produzione di documenti nel relativo contesto, anche nel caso di insinuazione tardiva, non è applicabile il divieto ex art. 345 c.p.c., poiché il giudizio di opposizione non può nondimeno essere qualificato come appello, proprio perché tende a rimuovere un provvedimento emesso sulla base di cognizione sommaria, che se non opposto acquista efficacia di giudicato endofallimetare ex art. 96 l. fall., per cui ex art. 98 e 99 l. fall. ricorre esclusivamente l’onere di indicare specificamente i mezzi di prova e i documenti nel termine preclusivo previsto per l’articolazione dei mezzi istruttori.

Un’ottica omologa è ravvisabile in Sez. 1-6, n. 24160/2017, Didone, Rv. 645541-01, la quale ha puntualizzato che nel giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento il creditore, il cui credito sia stato escluso o ridotto nel progetto del curatore, può proporre le eccezioni e depositare i documenti ritenuti rilevanti ancorché non abbia presentato alcuna preventiva osservazione ex art. 95, comma 2, l. fall., dovendosi escludere che il mancato esercizio di tale facoltà comporti il prodursi di preclusioni, attesa la non equiparabilità del suddetto giudizio a quello d’appello, con conseguente inapplicabilità dell’art. 345 c.p.c.

Sez. 1, n. 19003/2017, bisogni, Rv. 645081-01, ha escluso che nel giudizio di opposizione allo stato passivo operi la preclusione di cui all’art. 345 c.p.c. in materia di ius novorum, con riguardo alle nuove eccezioni proponibili dal curatore, in quanto il riesame, a cognizione piena, del risultato della cognizione sommaria proprio della verifica, demandato al giudice dell’opposizione, se esclude l’immutazione del thema disputandum e non ammette l’introduzione di domande riconvenzionali della curatela, non ne comprime, tuttavia, il diritto di difesa, consentendo, quindi, la formulazione di eccezioni non sottoposte all’esame del giudice delegato.

Un corollario processualmente rilevante della terzietà del curatore rispetto al fallito è colto e approfondito da Sez. 1, n. 24168/20017, Terrusi, Rv. 645790- 01, la quale ha puntualizzato che ai fini della formazione dello stato passivo, detto organo concorsuale nella sua funzione di mero gestore del patrimonio di un patrimonio altrui si palesa terzo, pure con riferimento alle scritture private prodotte dal creditore a corredo della domanda di ammissione al passivo e la cui sottoscrizione appaia riferibile al fallito medesimo. Da ciò deriva l’inapplicabilità nei confronti del curatore, nel giudizio di opposizione ex art. 98, comma 2, l. fall., della disciplina sul disconoscimento della scrittura privata di cui agli artt. 214 e 215 c.c. e sull’onere di verificazione di cui al successivo art. 216 c.c., avuto riguardo a ciascun documento in apparenza sottoscritto dal fallito, potendo l’organo concorsuale limitarsi a contestare l’opponibilità della scrittura privata, il cui valore probatorio rimarrà affidato al libero apprezzamento del giudice.

Di specifico rilievo è anche Sez. 6-1, n. 6522/2017, Genovese, Rv. 64459601-01, la quale ha osservato che il curatore non ha l’onere di riproporre nel giudizio di opposizione allo stato passivo un’eccezione in senso stretto, come quella di prescrizione presuntiva, già sollevata ed accolta nella fase sommaria.

Di non poco momento si mostra Sez. 6-1, n. 5596/2017, Di Virgilio, Rv. 643986-01, la quale ha evidenziato che nel giudizio di opposizione allo stato passivo la mancata indicazione, nel ricorso, dei mezzi istruttori necessari a provare il fondamento della domanda comporta la decadenza dagli stessi, non emendabile con la concessione dei termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c. e, in particolare, di quello indicato al n. 2 della menzionata disposizione, previsto solo per consentire la replica e la richiesta di mezzi in conseguenza di domande ed eccezioni nuove della parte convenuta, laddove l’onere di provare il fondamento della domanda prescinde da ogni eccezione di controparte. Né può invocarsi la violazione del diritto di difesa per la mancata concessione del termine per memorie conclusive ai sensi dell’art. 99, comma 11, l. fall., che può essere accordato, o meno, dal tribunale in base ad una valutazione discrezionale, avuto riguardo all’andamento del giudizio, che potrebbe anche rendere superflua un’appendice scritta.

Essenziale risulta la precisazione offerta da Sez. 1, n. 12548/2017, Ceniccola, Rv. 644079-01, secondo cui, in tema di verifica dello stato passivo, i documenti trasmessi dal creditore al curatore tramite posta elettronica certificata (PEC) e da questi inviati telematicamente alla cancelleria del giudice delegato entrano a fare parte del fascicolo d’ufficio informatico della procedura, ai sensi dell’art. 9, comma 1, del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, sicché, proposta opposizione allo stato passivo, il tribunale deve disporre l’acquisizione dei documenti specificatamente indicati nel ricorso dall’opponente, ex art. 99, comma 2, n. 4, l. fall., che siano custoditi nel detto fascicolo informatico.

Sul tema delicato dei poteri istruttori d’ufficio del giudice dell’opposizione allo stato passivo si è, invece, concentrata Sez. 6-1, n. 4504/2017, Genovese, Rv. 643982-01, la quale ha chiarito che l’emanazione dell’ordine di esibizione (nella specie, di documenti) è discrezionale, e la valutazione di indispensabilità neppure deve essere esplicitata nella motivazione, conseguendone che il relativo esercizio è svincolato da ogni onere motivazionale ed il provvedimento di rigetto dell’istanza è insindacabile in sede di legittimità, anche sotto il profilo del difetto di motivazione, trattandosi di uno strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte instante non abbia finalità esplorativa.

Sempre al piano dell’istruzione del giudizio attiene Sez. 1, n. 12549/2017, Fichera, Rv. 644080-01, che ha chiarito che l’opponente, a pena di decadenza ex art. 99, comma 2, n. 4, l. fall., deve soltanto indicare specificatamente i documenti, di cui intende avvalersi, già prodotti nel corso della verifica dello stato passivo innanzi al giudice delegato, sicché, in difetto della produzione di uno di essi, il tribunale deve disporne l’acquisizione dal fascicolo d’ufficio della procedura fallimentare ove esso è custodito.

Sul 6-1, n. 4521/2017, Genovese, Rv. 643983-01, ha significativamente rilevato che, in sede di opposizione allo stato passivo, non diversamente che nel giudizio ordinario di cognizione, la compensazione delle spese processuali, in assenza di una reciproca soccombenza tra le parti, è consentita solo in presenza di gravi ed eccezionali ragioni che il giudice è tenuto ad indicare esplicitamente nella motivazione del decreto.

Utile è giunta anche la precisazione resa da Sez. 1, n. 1331/2017, Di Virgilio, Rv. 643707-01, secondo cui l’art. 254, comma 2, del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (cd. codice delle assicurazioni private), nel testo in vigore ratione temporis, laddove stabilisce che «l’opposizione è disciplinata dagli articoli 98, 99 e 100 della legge fallimentare», contiene un rinvio mobile alle norme richiamate, sicché, in mancanza di una più specifica disciplina processuale, il decreto emesso all’esito del giudizio di opposizione non è suscettibile di appello ma solo di ricorso per cassazione.

Sez. 1, n. 24704/2017, Ceniccola, Rv. 645931-01, sottolinea che in tema di revocazione di crediti ammessi ex art. 102 l. fall., nella vecchia formulazione applicabile ratione temporis, l’accertamento della falsità di un documento utilizzato dal creditore non deve precedere il giudizio di revocazione mancando ogni riferimento normativo alla necessità di un accertamento operato in un diverso giudizio promosso antecedentemente all’istanza di revocazione.

5. I reclami.

Sez. 1, n. 5520/2017, Ferro, Rv. 644654-02, ha posto in luce che al procedimento di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, compiutamente regolato dall’art. 18 l. fall., non si applica la disciplina prevista, per il solo giudizio d’appello, dall’art. 348 ter, comma 5, c.p.c., che esclude che possa essere impugnata ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. la sentenza «che conferma la decisione di primo grado». Deve, infatti, tenersi conto del peculiare effetto devolutivo che caratterizza il giudizio di reclamo, nel quale, differentemente che nel giudizio d’appello, è sempre ammessa l’allegazione di fatti nuovi idonei a sovvertire l’esito del procedimento davanti al tribunale fallimentare, il che esclude, altresì, un’applicazione analogica della disciplina dell’appello in assenza della necessaria identità di ratio.

Sez. 1, n. 23579/2017, Di Marzio M., Rv. 645534-1, ha chiarito che il socio di una s.r.l. fallita, il cui amministratore abbia domandato il proprio fallimento, non è legittimato a proporre reclamo avverso la sentenza dichiarativa, in quanto la delibera assembleare che ha autorizzato l’organo amministrativo alla presentazione dell’istanza ha efficacia vincolante, ex art. 2377, comma 1, c.c., per tutti i soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti, salvo che non sia stata impugnata e poi sospesa od annullata; a maggior ragione, dunque, un interesse a proporre reclamo non può essere riconosciuto al socio occulto, ossia a chi eserciti l’attività di direzione e coordinamento in modo illecito, approfittando ed abusando dei poteri di direzione, ed eludendo per fini propri i principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale.

Analogo principio si rinviene in Sez. 1, n. 2957/2017, Cristiano, Rv. 643719-02, la quale ha, a sua volta, evidenziato che il socio di una società a responsabilità limitata fallita, il cui amministratore abbia domandato il proprio fallimento, non è legittimato a proporre reclamo avverso la sentenza dichiarativa, in quanto la delibera assembleare che ha autorizzato l’organo amministrativo alla presentazione dell’istanza ha efficacia vincolante, ex art. 2377, comma 1, c.c., per tutti i soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti, salvo che non sia stata impugnata e poi sospesa od annullata; tale principio trova applicazione anche nel caso in cui il reclamo sia proposto da un socio a sua volta dichiarato fallito il quale, benché privo del diritto di voto e, dunque, rappresentato dal curatore nell’assemblea che ha autorizzato l’amministratore a presentare l’istanza di fallimento, sia comunque legittimato per legge all’impugnazione della relativa delibera.

Sez. 6-1, n. 6348/ 2017, Cristiano, Rv. 644267-01, si è curata di annoverare fra i soggetti legittimati a proporre reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento anche il socio di una società di capitali, stante il suo interesse morale a che sia accertata la sua partecipazione a un sodalizio non sottoposto ad alcuna procedura concorsuale.

Sez. 1, n. 1169/2017, Ferro, Rv. 643357-01, ha rimarcato che l’effetto devolutivo pieno che caratterizza il reclamo avverso la sentenza di fallimento riguarda anche la decisione negativa sulla domanda di ammissione al concordato, perché parte inscindibile di un unico giudizio sulla regolazione concorsuale della stessa crisi, sicché, ove il debitore abbia impugnato la dichiarazione di fallimento, censurando innanzitutto la decisione del tribunale di revoca dell’ammissione al concordato, il giudice del reclamo, adito ai sensi degli artt. 18 e 173 l. fall., è tenuto a riesaminare , anche avvalendosi dei poteri officiosi previsti dall’art. 18, comma 10, l. fall., nonché del fascicolo della procedura, che è acquisito d’ufficio , tutte le questioni concernenti la predetta revoca, pur attinenti a fatti non allegati da alcuno nel corso del procedimento innanzi al giudice di primo grado, né da quest’ultimo rilevati d’ufficio, ed invece dedotti per la prima volta nel giudizio di reclamo ad opera del curatore del fallimento o delle altre parti ivi costituite.

Sez. 1, n. 11541/2017, Terrusi, Rv. 644020-01, osserva, sempre in tema di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, che l’istanza con cui il reclamante, che non abbia notificato il ricorso ed il decreto presidenziale di fissazione dell’udienza nel termine ordinatorio ex art. 18, comma 4, l. fall. (nel testo, applicabile ratione temporis, modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007), chieda, successivamente allo spirare di quest’ultimo, un nuovo termine per provvedervi, deve esplicitare le ragioni che hanno impedito di dar corso all’incombente processuale, dovendo operarsi un bilanciamento tra la legittima aspettativa della controparte al consolidamento del provvedimento giudiziario già emesso ed il diritto del reclamante, comunque collegato al principio del giusto processo, ad un giudizio e ad una pronuncia.

Sez. 6-1, n. 6594/2017, Ragonesi, Rv. 644599-01 afferma che il decreto con cui la corte d’appello accoglie, ai sensi dell’art. 22, comma 4, l. fall. il reclamo avverso il provvedimento di rigetto del ricorso per la dichiarazione di fallimento, rimettendo d’ufficio gli atti al tribunale, deve essere comunicato alle parti, ai sensi del comma 3 della citata disposizione, essendo in facoltà delle stesse segnalare al tribunale la sopravvenuta modificazione dei presupposti per la dichiarazione di fallimento. Ne consegue che il tribunale, dopo aver sentito le parti in sede di istruttoria prefallimentare, non ha l’obbligo di procedere ad una loro ulteriore convocazione prima di dichiarare il fallimento del debitore.

Di evidente rilievo la puntualizzazione offerta da Sez. 1, 5069/2017, Terrusi, Rv. 644455-02, secondo cui il decreto reiettivo dell’istanza di fallimento, al pari di quello confermativo del rigetto in sede di reclamo, non è idoneo al giudicato e non è, dunque, ricorribile per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., trattandosi di provvedimento non definitivo e privo di natura decisoria su diritti soggettivi, dal momento che nessun istante è portatore di un diritto all’altrui fallimento. Non essendo legato alla forma del provvedimento, ma al suo contenuto, l’inidoneità al giudicato riguarda anche il provvedimento di rigetto dell’istanza di fallimento in estensione del socio accomandante adottato unitamente alla sentenza dichiarativa di fallimento della società in accomandita semplice e del socio accomandatario.

Sez. 1, n. 1335/2017, Bernabai, Rv. 643358-01, ha evidenziato che il reclamo contro il decreto reiettivo del ricorso per la dichiarazione di fallimento deve essere notificato, ex art. 330, comma 1, c.p.c., nel domicilio che il debitore resistente ha eventualmente eletto nel procedimento prefallimentare. La violazione di tale obbligo comporta, ai sensi dell’art. 160 c.p.c., la nullità della notifica e tale vizio, se non rilevato dalla corte d’appello, che deve ordinare la rinnovazione della notifica giusta l’art. 291 dello stesso codice, e non sanato dalla costituzione del reclamato, determina, a sua volta, la nullità dell’intero processo e della sentenza di fallimento che, all’esito del suo accoglimento, lo abbia poi definito.

Sez. 1, n. 5520/2017, Ferro, Rv. 644654-01, ha ritenuto che coloro i quali non sono stati parti del giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa del fallimento di altro soggetto, non sono legittimati a ricorrere per cassazione avverso la sentenza della corte d’appello confermativa della menzionata dichiarazione, atteso che la legittimazione a proporre impugnazione, o a resistere ad essa, spetta solo a chi abbia assunto la veste di parte nel giudizio di merito, secondo quanto risulta dalla decisione impugnata, né la specialità del reclamo fallimentare prevale sul sistema impugnatorio ordinario in materia di ricorso per cassazione.

Sez. 1, n. 4917/2017, Terrusi, Rv. 644315-02, ha affermato che i creditori che hanno proposto il ricorso di fallimento nei confronti di una società di persone o di un imprenditore apparentemente individuale sono litisconsorti necessari nel giudizio di reclamo alla sentenza dichiarativa di fallimento proposto dal socio illimitatamente responsabile, cui il fallimento sia stato successivamente esteso, in ragione dei pregiudizi che la revoca del fallimento potrebbe arrecare alle loro pretese, che, ai sensi dell’art. 148 l. fall., si intendono dichiarate anche nel fallimento dei singoli soci. Ne consegue che, se il giudice di primo grado non ha disposto l’integrazione del contraddittorio e la corte d’appello non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ex art. 354, comma 1, c.p.c., resta viziato l’intero procedimento e si impone, in sede di legittimità, l’annullamento, anche d’ufficio, delle pronunce emesse ed il rinvio della causa al giudice di prime cure giusta l’art. 383, ultimo comma, c.p.c., salvo che l’impugnazione risulti assolutamente infondata. In tal caso, invero, l’integrazione del contraddittorio (e dunque la rimessione del giudizio alla prima fase), risulterebbe del tutto ininfluente sull’esito del procedimento.

Di rilievo la precisazione di Sez. 1, n. 5689/2017, Terrusi, Rv. 644659-01, la quale ha chiarito che è estensibile, per identità di ratio, anche al reclamo ex art. 18 l. fall. il principio, consolidato in relazione al giudizio di appello nelle sue diverse forme, secondo cui la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame del soccombente, un’impugnazione incidentale per richiamare in discussione le proprie eccezioni o difese non accolte nella decisione, tali dovendo considerarsi quelle che risultino essere state superate o non siano state esaminate perché assorbite. In tal caso, la parte reclamante vittoriosa è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di reclamo, in modo da manifestare la sua volontà di chiederne l’esame.

Sez. 1, n. 16180/2017, Fichera, Rv. 644766-01, ha ritenuto che nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento hanno rilievo esclusivamente i fatti esistenti al momento della sua decisione, e non quelli sopravvenuti, perché la pronuncia di revoca del fallimento, cui il reclamo tende, presuppone l’acquisizione della prova che non sussistevano i presupposti per l’apertura della procedura alla stregua della situazione di fatto esistente al momento in cui essa venne aperta; ne discende che la rinuncia all’azione o desistenza del creditore istante, che sia intervenuta dopo la dichiarazione di fallimento, è irrilevante perché al momento della decisione del tribunale sussisteva ancora la sua legittimazione all’azione.

Sez. 1, n. 2235/2017, Ferro, Rv. 643711-01, ha chiarito che nel giudizio di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, come disciplinato dall’art. 18 l. fall. (nel testo novellato dal d.lgs. n. 169 del 2007), il termine per la costituzione della parte resistente (nella specie, il P.M.) è perentorio, anche in mancanza di un’espressa dichiarazione normativa. La sua inosservanza, tuttavia, non determina, per chi vi sia incorso, la decadenza dal diritto di opporsi al predetto reclamo, potendo lo stesso intervenire nel relativo procedimento, produrre nuovi documenti ed indicare, anche per la prima volta, i mezzi di prova di cui intende avvalersi per dimostrare la sussistenza dei presupposti della fallibilità.

Di interesse la precisazione offerta da Sez. 1, n. 12925/2017, Di Marzio, Rv. 644207-01, secondo la quale il curatore fallimentare può rendere l’interrogatorio libero ex art. 117 c.p.c. nel corso del procedimento di reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, anche ove non sia ivi costituito, poiché si tratta di attività processuale per la quale non è necessaria l’assistenza del difensore.

Di rilievo il principio espresso da Sez. 1, n. 23575/2017, Di Marzio M., Rv. 645531-01, secondo cui la comunicazione del testo integrale della sentenza di rigetto del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, effettuata dal cancelliere mediante posta elettronica certificata (PEC), è idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione in cassazione ex art. 18, comma 14, l. fall.: il meccanismo previsto dall’art. 18 citato ha infatti a fondamento, in ragione delle esigenze di celerità che caratterizzano il procedimento fallimentare, la mera conoscenza legale del provvedimento suscettibile di impugnazione, conoscenza che la comunicazione in forma integrale assicura al pari della notificazione. La S.C., nell’enunciare tale principio, ha escluso la tardività del ricorso, avuto riguardo alla circostanza che la comunicazione della sentenza impugnata era stata effettuata nella vigenza dell’art. 45 disp. att. c.p.c. ratione temporis applicabile, che non contemplava la comunicazione integrale del provvedimento.

Nel solco di un orientamento sedimentato, Sez. 1, n. 24159/2017, Di Marzio M., Rv. 645540- 01, ha osservato che, ai sensi degli artt. 25 e 26 l. fall. (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2006), la partecipazione del giudice delegato al collegio chiamato a decidere in ordine al reclamo avverso un suo provvedimento non può dar luogo ad una nullità deducibile in sede di impugnazione, ma, al più, ad un’incompatibilità che deve essere fatta valere mediante l’istanza di ricusazione, da proporsi nelle forme e nei termini di cui all’art. 52 c.p.c. Né assume rilievo la circostanza che il legislatore abbia successivamente modificato l’art. 25 l. fall., imponendo al giudice delegato un espresso divieto di far parte del collegio investito del reclamo proposto contro i suoi atti, atteso che l’adozione di un diverso modello procedimentale, caratterizzato da una più netta separazione tra le funzioni affidate al giudice delegato e quelle spettanti al tribunale fallimentare, non è di per sé sufficiente a giustificare una interpretazione evolutiva della disposizione previgente, soprattutto alla luce della norma transitoria di cui all’art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006, che espressamente conferma l’applicabilità della legge anteriore alle procedure fallimentari pendenti alla data di entrata in vigore della riforma.

Sez. 6-1, n. 19478/2017, Marulli, Rv. 645471-01, osserva incisivamente che nel procedimento di reclamo disciplinato dall’art. 26 l. fall., quando si controverta su situazioni incidenti su diritti soggettivi, trovano applicazione le regole generali sui giudizi camerali ex artt. 737 ss. c.p.c. ed il tribunale è tenuto a decidere il reclamo anche nel caso in cui il ricorrente non compaia in camera di consiglio, sicché, qualora dichiari erroneamente non luogo a provvedere sul medesimo, questo provvedimento è impugnabile con ricorso per cassazione, ex art. 111 Cost.

Di notevole pregnanza l’affermazione resa da Sez. 1, n. 19939/2017, Ferro, Rv. 645203-01, secondo la quale in tema di reclamo avanti al tribunale fallimentare dei decreti del giudice delegato aventi natura decisoria (nella specie, in materia di ripartizione dell’attivo), qualora il provvedimento impugnato non sia stato comunicato, non opera il termine di cui all’art. 26 l. fall., bensì quello annuale, decorrente dalla pubblicazione, ai sensi dell’art. 327 c.p.c.

Sez. 3, n. 13167/2017, Di Amato, Rv. 644408-01, ha puntualizzato che il decreto con il quale il tribunale fallimentare, ai sensi dell’art. 26 l. fall., respinge il reclamo avverso l’atto con cui il curatore ha esercitato, giusta l’art. 72 l. fall., la facoltà di scioglimento dal contratto pendente non ha natura decisoria, in quanto non risolve una controversia su diritti soggettivi, ma rientra tra i provvedimenti che attengono all’esercizio della funzione di controllo circa l’utilizzo, da parte del curatore, del potere di amministrazione del patrimonio del fallito, sicché tale provvedimento non è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., potendo, invero, i terzi interessati contestare nelle sedi ordinarie gli effetti che dall’attività così esercitata si pretendono far derivare.

Sez. 1, n. 21826/2017, Mercolino, Rv. 645413-01, ha osservato che il provvedimento camerale ex art. 26 l. fall., con cui il tribunale rigetta il reclamo contro il decreto del giudice delegato relativo alla liquidazione del compenso al difensore, per l’assistenza in giudizio prestata alla curatela fallimentare, è ricorribile in cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., siccome definitivo ed incidente su diritto soggettivo.

Sez. 1, n. 21837/2017, Fichera, Rv. 645416-01, ha ribadito il principio in base al quale il legale rappresentante della società fallita, a differenza di quest’ultima, non è legittimato a proporre reclamo ex art. 26 l. fall. avverso il provvedimento del giudice delegato che abbia negato la sospensione della vendita coattiva dei beni sociali, in quanto egli non vanta alcun reale diritto su quei beni, essendo perciò titolare non del necessario interesse ex art. 100 c.p.c., bensì di un mero interesse di fatto alla conservazione del patrimonio sociale.

Sez. 1, n. 19940/2017, Nappi, Rv. 645204-01, ha riaffermato il principio secondo cui la pendenza del termine per proporre impugnazione avverso i provvedimenti del tribunale fallimentare relativi al piano di riparto, alla revoca del curatore e alla approvazione del conto di gestione, non è ostativo alla chiusura del fallimento, spettando anche in tal caso agli organi fallimentari, nell’ambito del potere discrezionale di cui dispongono, apprezzare la convenienza, al fine della realizzazione delle finalità cui il fallimento è preordinato, di mantenere in vita la procedura in vista di un probabile incremento dell’attivo.

6. L’estensione del fallimento.

Sez. 1, n. 17345/2017, Ferro, Rv. 644973-01, ha ritenuto che in tema di estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile, l’art. 15 l. fall. è compatibile, quanto alle forme ed ai termini, con il procedimento attivato ex art. 147 l. fall., dovendosi, tuttavia, tenere conto delle peculiarità dell’istruttoria del fallimento in estensione, tanto più se esso sia successivo al già dichiarato fallimento di una società o allorché sia richiesto il fallimento di società di fatto (od occulta), sicché è necessario, al pari di quanto previsto in generale per il procedimento archetipico dal comma 3 dell’art. 147 cit., che il diritto al contraddittorio sia assicurato mediante idonea notificazione dell’iniziativa e del suo svolgimento, nei termini dilatori di cui all’art. 15 cit., ma senza precluderne la possibile riduzione giudiziale ove ragioni di urgenza lo giustifichino. Nel caso di specie, riguardante l’estensione del fallimento al socio ex art. 147, comma 4, l. fall., la S.C., in applicazione del suesposto principio, rilevando che il debitore aveva avuto conoscenza legale del ricorso e del decreto di convocazione, sia pure pervenutigli il giorno prima dell’udienza, ha cassato la sentenza di merito che aveva revocato il fallimento in estensione per violazione del diritto di difesa solamente per avere il debitore goduto di un termine inferiore a quello previsto dall’art. 15 l. fall.

Sez.1, n. 7769/2017, Di Virgilio, Rv. 644830-01, ha chiarito che il socio illimitatamente responsabile dichiarato fallito ai sensi dell’art. 147 l. fall. non è legittimato, in sede di reclamo avverso la sentenza di fallimento in estensione, a contestare il fondamento della dichiarazione di fallimento della società. Invero, la sentenza dichiarativa di fallimento precedentemente pronunciata nei confronti della società fa stato erga omnes e, quindi, anche nei confronti del socio occulto o di fatto della società di persone che, nella qualità di interessato, aveva la facoltà di proporre reclamo, quale titolare di una posizione giuridica che poteva ricevere pregiudizio dalla pronuncia del fallimento sociale.

Sez.1, n. 4917/2017, Terrusi, Rv. 644315-01, ha considerato che nel procedimento per l’estensione di fallimento al socio illimitatamente responsabile, la mancanza, nel decreto di convocazione, dell’invito a depositare i bilanci degli ultimi tre esercizi e la situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata della società è del tutto irrilevante, trattandosi di documentazione già acquisita nell’ambito dell’istruttoria prefallimentare relativa a quest’ultima.

7. La chiusura e la riapertura del fallimento.

Sez. 1, n. 4021/2017, Bernabai, Rv. 644308-01, ha messo in evidenza la necessità di interpretare l’art. 118, comma 1, n. 1, l. fall. nel senso che il fallimento non può essere chiuso in presenza di domande, tempestive o tardive, che, una volta presentate, siano destinate ad un’utile collocazione.

Sez. 1, n. 21219/2017, Dolmetta, Rv. 645402-01, ha osservato che la riapertura del fallimento costituisce un fenomeno di reviviscenza, ovvero di prosecuzione nel segno dell’unitarietà, della procedura originaria, atteso che la riapertura prescinde dall’accertamento dell’attuale sussistenza dei presupposti del fallimento, senza che in proposito rilevi la dimensione temporale stabilita dall’art. 10 l. fall., e il debito assunto dal fallito in costanza della fase iniziale del suo fallimento rimane inefficace, ex art. 44 l. fall., rispetto ai creditori anche nella fase successiva, essendo il disposto dell’art. 122 l. fall. riferibile ai soli crediti sorti per l’attività del debitore successiva alla chiusura del suo fallimento, come pure anteriore alla riapertura del medesimo.

Sez. 1, n. 19752/2017, Di Virgilio, Rv. 645191-01, ha ritenuto che, nel caso di fallimento sottoposto al regime introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, la sopravvenuta revoca o chiusura della procedura concorsuale rende improcedibile il giudizio di opposizione allo stato passivo per la sua natura endofallimentare, restando esclusa ai sensi dell’art. 120 l. fall. l’efficacia ultrafallimentare del provvedimento con il quale il credito è stato ammesso al concorso.

8. Il P.M. e le procedure concorsuali.

Sez. 1, n. 20400/2017, Scaldaferri, Rv. 645221-02, ha chiarito che il P.M. è legittimato a chiedere il fallimento dell’imprenditore, ai sensi dell’art. 7, n. 1, l. fall., quando la notitia decoctionis sia stata appresa nel corso di un procedimento penale, anche se avviato nei confronti di soggetti diversi dal medesimo imprenditore e conclusosi con esito favorevole alle persone sottoposte alle indagini.

Secondo la medesima pronuncia (Rv. 645221-01), il P.M. è legittimato a chiedere il fallimento dell’imprenditore, ai sensi dell’art. 7, n. 1, l. fall., in tutti i casi in cui abbia appreso istituzionalmente una notitia decoctionis, a prescindere dalla circostanza che il tribunale competente per la dichiarazione di fallimento sia diverso da quello presso cui svolge le sue funzioni nei procedimenti penali, sicché non è necessaria la rinnovazione della detta richiesta da parte del P.M. che sia intervenuto all’udienza davanti al giudice competente.

Sez. 1, n. 19927/2017, Mercolino, Rv. 645513-01, nel quadro di un orientamento già espresso, ha puntualizzato che l’art. 7, n. 2, l. fall. attribuisce al P.M. la legittimazione ad avanzare l’istanza di fallimento, sulla base di una segnalazione dell’insolvenza proveniente dal giudice che l’abbia rilevata, in qualsiasi fase di un procedimento civile, non richiedendosi al segnalante neppure di effettuare una delibazione sommaria dello stato d’insolvenza, la cui valutazione è rimessa al P.M. Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto validamente effettuata la segnalazione, trasmessa al P.M. dal giudice delegato di una diversa procedura fallimentare, promossa nei confronti della stessa parte e conclusasi con la dichiarazione di non luogo a procedere per desistenza del creditore istante.

Sez. 1, n. 9574/2017, De Chiara, Rv. 643731-01, ha significativamente ritenuto che alla richiesta di fallimento formulata dal P.M. ai sensi dell’art. 162, comma 2, l. fall., quale conseguenza dell’inammissibilità della proposta di concordato preventivo, non si applica il disposto dell’art. 7 l. fall., alla cui ratio, peraltro, anche la specifica disciplina della richiesta in questione si conforma. Invero, il P.M., informato della proposta di concordato preventivo (art. 161, comma 5, l. fall.), partecipa ordinariamente al procedimento, nel rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa delle altre parti, mediante la presenza in udienza, ivi compresa quella fissata dal tribunale ai fini della declaratoria di inammissibilità della domanda, rassegnando le proprie conclusioni orali, che comprendono, oltre alla valutazione negativa sulla proposta concordataria, anche l’eventuale richiesta di fallimento in ragione della ritenuta insolvenza dell’imprenditore, di cui è venuto a conoscenza a seguito della partecipazione alla procedura, senza che vi sia la necessità che tali conclusioni si traducano in un formale ricorso da notificare al debitore in vista di un’udienza ex art. 15 l. fall., affatto necessaria.

9. Il concordato preventivo.

Sez. U, n. 9146/2017, Nappi, Rv. 643777-01, ha ritenuto che la sopravvenuta dichiarazione del fallimento comporta l’inammissibilità delle impugnazioni autonomamente proponibili contro il diniego di omologazione del concordato preventivo e, comunque, l’improcedibilità del separato giudizio di omologazione in corso, perché l’eventuale giudizio di reclamo ex art. 18 l. fall. assorbe l’intera controversia relativa alla crisi dell’impresa, mentre il giudicato sul fallimento preclude in ogni caso il concordato.

Sez. 6-1, n. 907/2017, bisogni, Rv. 643152-01, ha evidenziato che, nel caso di ricorso per concordato preventivo cd. con riserva, il rilievo della incompetenza per territorio da parte del tribunale adito, ai fini dell’art. 38 c.p.c., può avvenire solo nel momento in cui il giudice disponga di tutti gli elementi necessari per la sua valutazione e, dunque, unicamente con l’allegazione della proposta, del piano e della documentazione di cui all’art. 161 l. fall. L’eventuale declaratoria di incompetenza comporta la trasmissione degli atti al giudice dichiarato competente ex art. 9-bis l. fall., secondo il criterio generale della translatio iudicii.

Sez. 1, n. 598/2017, Di Virgilio, Rv. 643252-01, ha ritenuto che ai fini della presentazione della domanda di concordato cd. in bianco di cui all’art. 161, comma 6, l. fall., è sufficiente che il ricorso sia sottoscritto dal difensore munito di procura, non occorrendo che sia personalmente sottoscritto anche dal debitore.

Sez. 6-1, n. 907/2017, Bisogni, Rv. 643152, afferma, sempre in ambito di concordato preventivo cd. con riserva, che il rilievo della incompetenza per territorio da parte del tribunale adito, ai fini dell’art. 38 c.p.c., può avvenire solo nel momento in cui il giudice disponga di tutti gli elementi necessari per la sua valutazione e, dunque, unicamente con l’allegazione della proposta, del piano e della documentazione di cui all’art. 161 l. fall.

L’eventuale declaratoria di incompetenza comporta la trasmissione degli atti al giudice dichiarato competente ex art. 9-bis l. fall., secondo il criterio generale della translatio iudicii.

È stato affermato, inoltre, da Sez. 1, n. 20725/2017, Nappi, Rv. 645226-01, che, ai fini della presentazione della domanda di concordato con riserva di cui all’art. 161, comma 6, l. fall., è sufficiente che il ricorso sia sottoscritto dal difensore munito di procura, non occorrendo che sia personalmente sottoscritto anche dal debitore, attesa la scissione tra i due momenti, del deposito della domanda di concordato con riserva e del deposito della proposta, oltre che del piano e della documentazione, nel termine fissato dal giudice.

Sez. 1, n. 19009/2017, Fichera, Rv. 645512-01, ha chiarito, altresì, che nel concordato preventivo di una società di capitali la decisione di presentare la domanda di ammissione, salvo diversa previsione dello statuto, spetta all’organo amministrativo che delibera con verbale notarile da iscriversi nel registro delle imprese; sicché la domanda di concordato è inammissibile quando la relativa delibera sia stata assunta dagli amministratori in modo irrituale senza la verbalizzazione di un notaio, salvo che, prima della decisione del tribunale, l’assemblea dei soci aderisca alla domanda adottando una delibera con le forme prescritte dall’art. 152, comma 3, l. fall., trattandosi del medesimo organo da cui promanano i poteri degli amministratori.

Sez. 1, n. 5677/2017, Terrusi, Rv. 644656-01, ha ritenuto che la domanda di concordato preventivo presentata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi di un abuso del processo, che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti. Nella caso di specie, la S.C. ha confermato la sentenza della corte d’appello che aveva respinto il reclamo proposto dalla società fallita avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, pronunciata dopo che la medesima proponente aveva rinunciato ad una prima proposta di concordato ed aveva presentato altra proposta concordataria dopo il trasferimento della sede legale all’estero ed in presenza di talune istanze di fallimento.

D’incidenza considerevole nel contesto dell’anomalo ricorso agli strumenti concorsuali , risulta il principio affermato da Sez. 1, n. 3836/2017, Mercolino, Rv. 644306-03, secondo cui la domanda di concordato preventivo con riserva, che segua alla declaratoria di inammissibilità di altra istanza concordataria e sia presentata dal debitore non già per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi di un abuso del processo, che ricorre quando si violino i canoni generali di correttezza e buona fede ed i principi di lealtà processuale e del giusto processo. Implicando una verifica dell’intento del debitore di piegare l’istituto concordatario al perseguimento di finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento lo ha predisposto, il predetto apprezzamento si traduce in un’indagine di fatto riservata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizio di motivazione, nei limiti in cui tale vizio è deducibile come motivo di ricorso per cassazione. Quindi, l’abuso del processo va riscontrato nel comportamento dell’imprenditore che, a seguito della declaratoria di inammissibilità della prima proposta concordataria, presenti una nuova proposta ex art. 161, comma 6, l. fall. con modifiche di carattere meramente formale e marginale, nonché recependo le valutazioni del commissario giudiziale.

Viceversa, come specificato da Sez. 1, n. 3836/2017, Mercolino, Rv. 644306-02, la richiesta di concessione del termine previsto dall’art. 161, comma6, l. fall., per la presentazione della proposta, del piano e della relativa documentazione, non implicando alcuna valutazione in ordine all’ammissibilità della domanda di concordato, non integra un abuso del processo, la cui sussistenza, d’altronde, risolvendosi in un sindacato sull’idoneità della proposta a superare la situazione di crisi dell’imprenditore, con un soddisfacimento sia pur modesto e parziale dei creditori, presuppone necessariamente la conoscenza (che potrà esservi solo alla scadenza di tale termine) delle condizioni offerte dal debitore e delle modalità di realizzazione dell’accordo, nonché dei dati contabili che le giustificano.

Sez. 1, n. 22273/2017, Ferro, Rv. 645845-01, contiene il principio in base al quale il termine per proporre il ricorso volto alla risoluzione del concordato preventivo decorre, ai sensi dell’art. 186, comma3, l. fall., dalla data di scadenza fissata per l’ultimo pagamento previsto nel concordato, mentre soltanto allorché questa data non sia stata fissata il termine annuale, entro cui può richiedersi la risoluzione del concordato, decorre dall’esaurimento delle operazioni di liquidazione che si compiono non soltanto con la vendita dei beni, dell’imprenditore, nonché con la predisposizione e comunicazione del piano di riparto, ma anche con gli effettivi pagamenti, compresi quelli conseguenti ad eventuali sopravvenienze attive. In applicazione di tale principio la S.C., in una fattispecie anteriore alle modifiche apportate all’art. 160, comma 4, l. fall. dal decreto legge. 27 giugno 2015, n. 83, conv. con modif. dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, ha confermato la sentenza della corte di appello che, condividendo la pronuncia del tribunale di inammissibilità del ricorso per la risoluzione, aveva ritenuto il termine annuale di natura decadenziale, insuscettibile di interruzione o sospensione, e perciò non processuale e dunque estraneo all’applicazione della sospensione feriale.

Sez. 5, n. 18823/2017, Perrino, Rv. 645028-01, rileva significativamente che in tema di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori, il commissario liquidatore non ha la legittimazione ad agire o resistere, in relazione ai giudizi, compresi quelli tributari, di accertamento delle ragioni di credito e pagamento dei relativi debiti, ancorché influenti sul riparto che segue le operazioni di liquidazione, potendo, al più, spiegare intervento, in quanto la legittimazione processuale spetta all’imprenditore sottoposto al concordato preventivo, che, invero, prosegue l’esercizio dell’impresa durante lo svolgimento della procedura ed è, quindi, soggetto passivo d’imposta anche in relazione agli obblighi di natura tributaria maturati dopo l’ammissione alla procedura concordataria e dopo l’omologazione della relativa proposta.

Settorialmente notevole è la precisazione offerta da Sez. 1, n. 25330/2017, Cristiano, Rv. 645846-01, secondo cui il commissario giudiziale, organo cui la l. fall. attribuisce funzioni composite di vigilanza, informazione, consulenza ed impulso finalizzate al controllo della regolarità del comportamento del debitore ed alla tutela dell’effettiva informazione dei creditori, non è soggetto all’obbligo di presentazione del rendiconto, sicché non trova applicazione l’art. 39 l. fall. che subordina la liquidazione del suo compenso all’approvazione del rendiconto, atteso che, se pure ai sensi dell’art. 165 l. fall., al commissario giudiziale si applicano gli artt. 36, 37, 38 e 39 l. fall., il rinvio alle citate disposizioni deve ritenersi effettuato nei limiti in cui esse sono compatibili con le specifiche prerogative dell’organo.

Sez. 1, n. 1337/2017, Didone, ha ritenuto ammissibile il ricorso straordinario ex art. 111, comma 7, Cost. avverso il diniego di omologazione del concordato preventivo in sede di reclamo, sia in ragione della natura decisoria di tale provvedimento, in quanto non connesso con una successiva e consequenziale sentenza dichiarativa di fallimento, sia perché nel giudizio di cassazione non trovano applicazione le comuni cause di interruzione del processo, ivi compreso l’eventuale fallimento della parte ricorrente.

Sulla “latitudine” del reclamo avverso il decreto di omologazione del concordato si è soffermata Sez. 1, n. 8632/2017, Ferro, Rv. 643514-01, ad avviso della quale detto strumento impugnatorio è ammissibile non solo in presenza di opposizioni da parte dei creditori, ma anche allorquando, pur in assenza di queste (o in caso di opposizioni rinunciate), il menzionato decreto introduca, all’interno della proposta presentata dal debitore, clausole aggiuntive che, lungi dal rappresentare mere formule organizzative per un più ordinato svolgimento attuativo del concordato, la integrino e la modifichino in modo tale da ingenerare dubbi circa la corrispondenza tra l’originario progetto di ristrutturazione del passivo e quello che, omologato dal tribunale, costituirà titolo per il proponente ed i creditori ex art. 184 l. fall. Nel caso di specie, la S.C. ha cassato, con rinvio, il decreto con il quale la corte d’appello aveva dichiarato inammissibile, in assenza di opposizioni dei creditori, il reclamo proposto avverso il provvedimento di omologazione modificativo ed integrativo dell’originaria proposta concordataria, evidenziando, altresì, che tale ultimo provvedimento non era emendabile con un procedimento di correzione eventualmente promosso davanti allo stesso tribunale.

Ha precisato Sez. 1, n. 3463/2017, Bernabai, Rv. 643871-01, che in tema di concordato preventivo, il termine di trenta giorni per la proposizione del reclamo avverso il decreto di sua omologazione decorre, secondo le regole generali, dalla notificazione del decreto medesimo, essendo la parte che si oppone all’omologazione soggettivamente individuata, sicché non può trovare applicazione analogica l’art. 18 l. fall. che individua il dies a quo per la proposizione del reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento nella data dell’iscrizione della stessa nel registro delle imprese in ragione dell’esperibilità di detto rimedio ad opera di qualunque interessato.

Interessante che Sez. 1, n. 2227/2017, Ferro, Rv. 643508-01, abbia osservato che in tema di legittimazione alla opposizione nel giudizio di omologazione del concordato preventivo, la locuzione «qualunque interessato», prevista dall’art. 180, comma 2, l. fall., non è riferibile soltanto a soggetti diversi dai creditori, essendo invece idonea a comprendere anche i creditori che, nei venti giorni successivi alla chiusura del verbale, abbiano espresso il proprio dissenso. Questi ultimi, pertanto, sono legittimati ad opporsi all’omologazione al fine di provocare il controllo da parte del tribunale sulla regolarità della procedura e la permanente sussistenza dei suoi presupposti di ammissibilità, ma non anche sulla convenienza, singolare o collettiva, della proposta, la cui contestazione, infatti, richiede la tempestiva espressione di un voto di dissenso in una classe a sua volta dissenziente.

Di rilevante portata l’affermazione contemplata in Sez. 6-1, n. 17703/2017, Ferro, Rv. 645051-01, secondo cui, nell’ipotesi di impresa già ammessa al concordato preventivo poi omologato, ed in caso di inadempimento dei debiti concorsuali, il creditore insoddisfatto può senz’altro avanzarne istanza di fallimento, ai sensi dell’art. 6 l. fall., a prescindere dall’intervenuta risoluzione del detto concordato, essendo ormai venuto meno − dopo la riforma dell’art. 186 l. fall. introdotta dal d.lgs. n. 169 del 2007 − ogni automatismo tra risoluzione del concordato e dichiarazione di fallimento e dovendo l’istante proporre la domanda di risoluzione, anche contestualmente a quella di fallimento, solo quando faccia valere il suo credito originario e non nella misura già falcidiata.

Sez. 1, n. 3836/2017, Mercolino, Rv. 644306-01, ha affermato che nel caso in cui, all’esito della declaratoria di inammissibilità della domanda di concordato preventivo, venga presentata una nuova proposta di concordato con riserva, non è di ostacolo all’esame dell’istanza di fallimento eventualmente formulata la previsione dell’art. 168 l. fall., atteso che, da un lato, tale norma si riferisce alle sole azioni esecutive o cautelari, tra le quali non rientra il ricorso per dichiarazione di fallimento, e, dall’altro, perché l’art. 162, comma 2, l. fall., consentendo al tribunale di dichiarare senz’altro il fallimento del debitore, si limita a subordinare la relativa pronuncia ad un’istanza del creditore o alla richiesta del P.M.

Sez. 1, n. 2234/2017, Ferro, Rv. 643710-01, ha statuito che nel concordato preventivo, il provvedimento con il quale il tribunale abbia definito il procedimento instaurato ai sensi dell’art. 173 l. fall. con un “non luogo a procedere”, non è suscettibile, in mancanza di una previsione di controllo che l’art. 164 l. fall. riserva ai decreti del giudice delegato, di immediato ed autonomo reclamo e non preclude, dunque, alla parte legittimata di costituirsi nel giudizio di cui all’art. 180 l. fall. e di contestare la sussistenza dei requisiti di omologabilità della domanda del debitore, deducendo le medesime ragioni di non proseguibilità o di giustificata revoca dell’avvenuta ammissione.

10. Il concordato fallimentare.

Sez. 1, n. 22271/2017, Dolmetta, Rv. 645516-01, ha osservato che poiché l’opposizione all’omologazione del concordato fallimentare si propone mediante ricorso a norma dell’art. 26 l. fall., richiamato dall’art. 129, comma 3, l. fall. trova applicazione l’art. 36-bis l. fall. a mente del quale tutti i termini processuali previsti negli artt. 26 e 36 l. fall. non sono soggetti alla sospensione feriale.

Sez. 1, n. 13762/2017, Campese, Rv. 644446-01, ha ritenuto che il curatore fallimentare, che agisca giudizialmente per ottenere il pagamento di una somma già dovuta al fallito, esercita un’azione rinvenuta nel patrimonio di quest’ultimo, collocandosi nella medesima sua posizione, sostanziale e processuale, sicché il terzo convenuto in giudizio dal curatore può legittimamente opporgli tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre all’imprenditore fallito, comprese le prove documentali e senza i limiti di cui all’art. 2704 c.c. Ne deriva che, in caso di chiusura del fallimento per concordato fallimentare, l’assuntore che prosegua o intraprenda analoghe iniziative giudiziarie verso il terzo viene a trovarsi nella medesima posizione processuale che aveva o avrebbe avuto il curatore.

11. La liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria.

Sez. 1, n. 21216/2017, Ferro, Rv. 645401-01, ha osservato che, in tema di ammissione al passivo della liquidazione coatta amministrativa, la natura amministrativa del procedimento attribuisce allo stato passivo formato dal commissario liquidatore, con il deposito in cancelleria, una funzione di pubblicità che segna il momento a partire dal quale può aprirsi una fase giurisdizionale in caso di proposizione di uno dei ricorsi ex art. 209 l. fall. Pertanto, connettendosi la prospettazione del credito avanzata al commissario nella fase amministrativa ad un più ampio “statuto di tutela”, già proprio di una “domanda” materialmente orientata a permettere, mutandosi in “opposizione”, il controllo giudiziale, la procura apposta alla domanda medesima è idonea alla proposizione dell’opposizione allo stato passivo, atteso che l’elenco degli atti contenuto nell’art. 83 c.p.c. non è tassativo, con conseguente validità della procura, ove risulti depositata al momento della costituzione in giudizio e la controparte non sollevi con la prima difesa specifiche contestazioni circa la sua esistenza e tempestività.

Sez. 6-1, n. 18119/2017, Terrusi, Rv. 645054-01, ha evidenziato che in tema di liquidazione coatta amministrativa di società di assicurazione, l’istanza di insinuazione tardiva al passivo, nella specie inammissibile ai sensi del combinato disposto degli artt. 252 e 256, comma 1, del d.lgs. n. 209 del 2005 (codice delle assicurazioni private), deve essere qualificata come opposizione allo stato passivo, sicché va proposta, ex art. 98 l. fall., nel termine di cui all’art. 255del codice delle assicurazioni, norma di natura speciale e settoriale, non abrogata, neanche implicitamente, dall’art. 99 l. fall., a differenza di quanto verificatosi per il settore del credito (art. 88, comma 1, del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, espressamente abrogato dal decreto legislativo. 16 novembre 2015, n. 181).

Sez. 1, n. 22601/2017, Terrusi, Rv.645521-01, ha esplicitato che gli effetti del decreto di ammissione alla procedura di amministrazione controllata retroagiscono, in forza del combinato disposto degli artt. 188, comma 2 (vigente ratione temporis), 167 e 168 l. fall., alla data di presentazione della domanda di ammissione, essendo i detti effetti di moratoria generale dei debiti d’impresa per tutta la durata della procedura funzionali al rispetto della par condicio creditorum. Nel caso di specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato l’inefficacia del pagamento preferenziale, relativo a debito pregresso, effettuato dall’impresa dopo la presentazione della domanda di ammissione all’amministrazione controllata, poi sfociata nel fallimento, ma prima dell’adozione del decreto di ammissione.

Sez. 6-3, n. 21006/2017, Graziosi, Rv. 645481-01, ha rilevato che in tema di cessione di crediti, l’azione del cessionario, volta all’accertamento della titolarità del credito, nei confronti del cedente sottoposto ad amministrazione straordinaria deve essere proposta, ai sensi dell’art. 13 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, dinanzi al tribunale che ha dichiarato l’insolvenza, al quale, al fine di assicurare la par condicio creditorum, è demandata la competenza funzionale a conoscere non soltanto delle controversie che derivano dalla procedura, ma altresì di quelle destinate ad incidervi.

12. Il sovraindebitamento.

Sez. 6-1, n. 6516/2017, Genovese, Rv. 644270-01, ha rilevato che il decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato che ha dichiarato inammissibile la proposta di accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento è privo dei caratteri della decisorietà e definitività, non decidendo nel contraddittorio tra le parti su diritti soggettivi, e non esclude, pertanto, la reiterabilità della proposta medesima, sicché non è ricorribile per cassazione.

In una prospettiva omogenea, Sez. 6- 1, n. 20917/2017, Nazzicone, Rv. 645745-01, ha osservato che il decreto reiettivo del reclamo avverso il provvedimento di rigetto dell’ammissibilità del piano del consumatore di cui agli artt. 6, 7, comma 1-bis, ed 8 della legge 27 gennaio 2012, n. 3, non precludendo a quest’ultimo − benché nei limiti temporali previsti dall’art. 7, comma 2, lett. b), della medesima legge − di presentare un altro e diverso piano di ristrutturazione dei suoi debiti, è privo dei caratteri della decisorietà e definitività, sicché non è ricorribile per cassazione.

Sez. 6-1, n. 19117/2017, Terrusi, Rv. 645686-01, ha ritenuto che il decreto di annullamento, in sede di reclamo, dell’omologazione del piano del consumatore intervenuta ex art. 12-bis della l. n. 3 del 2012, non preclude al debitore – ancorchè nei limiti tempo- rali previsti dall’art. 7, comma 2, lett. b), della richiamata legge di proporre altro e diverso accordo o piano di ristrutturazione dei suoi debiti, sicchè, essendo privo dei caratteri della decisorietà e definitività, non è ricorribile per cassazione.

  • giurisdizione tributaria
  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO XLIV

IL PROCESSO TRIBUTARIO

(di Rosaria Giordano, Salvatore Leuzzi )

Sommario

1 La giurisdizione tributaria. - 2 La competenza per territorio. - 3 La struttura del processo e le sue conseguenze. - 4 La disapplicazione di atti normativi. - 5 La dichiarazione dell’inapplicabilità delle sanzioni nel caso di obiettiva incertezza della norma tributaria. - 6 Litisconsorzio. - 7 Notificazioni. - 8 Il procedimento dinanzi alla commissione tributaria provinciale. - 8.1 Gli atti impugnabili. - 8.2 Il ricorso. - 8.2.1 Notifica e deposito. - 8.2.2 Difesa tecnica. - 8.3 La costituzione in giudizio del ricorrente. - 8.4 La costituzione in giudizio del resistente. - 8.5 Istruzione probatoria. - 8.6 Decisione. - 9 Le impugnazioni. - 9.1 Il giudizio di appello. - 9.1.1 Termini. - 9.1.2 Legittimazione. - 9.1.3 Proposizione. - 9.1.4 Notificazione. - 9.1.5 Divieto di nuove eccezioni. - 9.1.6 Contenuto e motivi. - 9.1.7 Trattazione. - 9.1.8 Appello incidentale. - 9.1.9 Procedimento. - 9.2 Il giudizio di cassazione. - 9.3 La revocazione. - 10 La sospensione del processo. - 11 L’estinzione del processo. - 12 Il giudicato. - 13 Il giudizio di ottemperanza.

1. La giurisdizione tributaria.

L’ambito della giurisdizione del giudice tributario, delineato sotto il profilo normativo dall’art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, è stato, anche nel corso del 2017, oggetto di significativa attenzione nella giurisprudenza di legittimità.

Sez. U, n. 17111/2017, Chindemi, Rv. 644920-01, si è occupata della giurisdizione nelle controversie aventi ad oggetto l’iscrizione ipotecaria di cui all’art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (anche a seguito delle modifiche apportate all’art. 19, comma 1, lett. e)-bis, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dall’art. 35, comma 26 quinquies, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv., con modif., dalla l. 4 agosto 2006, n. 248), chiarendo che, poiché ai fini della giurisdizione rileva la natura dei crediti posti a fondamento del provvedimento di iscrizione suddetta, la giurisdizione spetta al giudice tributario o al giudice ordinario a seconda della natura tributaria, o meno, dei crediti, ovvero ad entrambi, se quel provvedimento si riferisce in parte a crediti tributari ed in parte a crediti non tributari. È stato così superato l’orientamento, espresso da Sez. T, n. 4802/2017, Chindemi, Rv. 643288-01, secondo cui dette controversie rientrano nella giurisdizione del giudice tributario, indipendentemente dalla natura del credito cui si riferisce la garanzia ipotecaria.

Sotto altro profilo, Sez. U, n. 16693/2017, Chindemi, Rv. 644915-01, ha statuito che le controversie relative ai contributi dovuti dagli utenti ai consorzi stradali obbligatori costituiti per la manutenzione, la sistemazione e la ricostruzione delle strade vicinali, ai sensi del d.lgs. lgt. 1 settembre 1918, n. 1446, attesa l’indubbia natura tributaria di tali oneri, sono devolute alla giurisdizione delle commissioni tributarie, in applicazione dell’art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel testo modificato dall’art. 12 della l. 28 dicembre 2001, n. 448.

Anche la controversia, intrapresa dal gestore di servizio idrico integrato che impugni atti dell’amministrazione regionale, con cui si solleciti in modo generico l’adempimento dell’obbligo di pagamento di un “canone” rapportato al consumo di acqua potabile, e destinato a confluire nel “fondo per la montagna” è devoluta alla giurisdizione del giudice tributario, dovendo detto canone qualificarsi tributo per la sua previsione in fonti normative, la sua doverosità e la sua funzionalizzazione alla fiscalità generale, secondo quanto affermato da Sez. U, n. 18994/2017, De Stefano, Rv. 645135-01.

Rilevante, per altro verso, la precisazione, da parte di Sez. U, n. 13913/2017, Bielli, Rv. 644556-01, per la quale, in materia di esecuzione forzata tributaria, l’opposizione agli atti esecutivi avverso l’atto di pignoramento asseritamente viziato per omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento o di altro atto prodromico al pignoramento, è ammissibile e va proposta – ai sensi degli artt. 2, comma 1, e 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dell’art. 57 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 e dell’art. 617 c.p.c. – davanti al giudice tributario, risolvendosi nell’impugnazione del primo atto in cui si manifesta al contribuente la volontà di procedere alla riscossione di un ben individuato credito tributario.

Sez. U, n. 14648/2017, Di Virgilio, Rv. 644572-01, ha inoltre chiarito che ove, in sede di ammissione al passivo fallimentare, sia eccepita dal curatore la prescrizione del credito tributario successivamente alla notifica della cartella di pagamento, viene in considerazione un fatto estintivo dell’obbligazione e, poiché trattasi di questione riguardante l’an ed il quantum del tributo, la giurisdizione sulla relativa controversia spetta al giudice tributario (sicché il giudice delegato deve ammettere il credito in oggetto con riserva, anche in assenza di una richiesta di parte in tal senso).

Ha chiarito Sez. U, n. 17113/2017, Chindemi, Rv. 644921-01, che l’addizionale provinciale sulla Tariffa integrata ambientale (cd. TIA2), prevista dall’art. 19 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, ha natura tributaria, come si evince dalla stessa formulazione letterale della disposizione istitutiva, la quale prevede un sistema di reperimento, attraverso un tributo, della provvista necessaria all’esercizio di utilità generale di funzioni di interesse pubblico, mancando un rapporto di corrispondenza economica tra la prestazione della P.A. ed il vantaggio ricevuto dal privato (che condurrebbe ad escluderne la natura di tassa), senza che sia idonea a far venir meno la natura di tributo il collegamento quantitativo e percentuale con la TIA2, di natura privatistica, fungendo quest’ultima solo da parametro per la quantificazione di tale prestazione in favore delle province. Consegue alla predetta impostazione, quindi, che la controversia sulla debenza di tale addizionale appartiene alla giurisdizione del giudice tributario.

Per converso, Sez. U, n. 4309/2017, De Stefano, Rv. 642855-01, ha chiarito che la controversia relativa alle somme dovute ad un consorzio di bonifica dal gestore del servizio idrico integrato che, pur non potendo qualificarsi appartenente necessario al consorzio stesso, non essendo proprietario di terreni compresi nell’ambito territoriale di quest’ultimo, ne utilizzi canali e strutture come recapito di scarichi provenienti da insediamenti abitativi od industriali esterni, è devoluta alla giurisdizione ordinaria quando la normativa regionale di dettaglio preveda che la contribuzione venga assolta mediante il versamento di canoni determinati all’esito di una procedura negoziale, atteso che tale ipotesi è estranea a quella prevista dall’art. 21 del r.d. 13 febbraio 1933, n. 215, costituente, invece, un’obbligazione tributaria imposta ai proprietari dei fondi compresi nel perimetro consortile quale contributo, determinato direttamente dal consorzio percettore, per le opere di bonifica e miglioramento fondiario.

Sempre nel senso di escludere la giurisdizione del giudice tributario si è espressa Sez. U, n. 18979/2017, Di Iasi, Rv. 645035-01, la quale ha invero statuito che l’impugnazione delle cartelle di pagamento relative a spese processuali ed a somme dovute alla Cassa delle ammende ricade nella giurisdizione ordinaria, non attenendo a crediti tributari.

Anche la giurisdizione sulla controversia nascente dall’impugnazione di un provvedimento di fermo amministrativo di beni mobili registrati, ex art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, cui sia sottesa una pretesa creditoria per “spese processuali”, appartiene al giudice ordinario, come evidenziato da Sez. U, n. 959/2017, Bielli, Rv. 641819-01, attesa la natura non tributaria di un siffatto credito ed il carattere di misura puramente afflittiva del fermo suddetto, alternativo all’esecuzione forzata e volto ad indurre il debitore all’adempimento, sicché la sua impugnativa si sostanzia in un’azione di accertamento negativo della menzionata pretesa soggetta alle regole generali in tema di riparto di giurisdizione.

Su un piano più generale, ha ribadito Sez. U, n. 16833/2017, Bruschetta, Rv. 644802-01, che le controversie tra il sostituto d’imposta ed il sostituito, non coinvolgendo il rapporto d’imposta, danno ingresso ad una lite tra privati la cui cognizione appartiene al giudice ordinario.

Inoltre, ha chiarito Sez. U, n. 13721/2017, Cirillo E., Rv. 644368-02, che appartiene alla giurisdizione ordinaria, e non a quella del giudice tributario, la causa insorta tra il professionista, erogatore della prestazione, ed il beneficiario, in ordine alla pretesa rivalsa dell’IVA esposta in fattura, atteso che la statuizione non investe il rapporto tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, risolvendosi, invece, in un accertamento incidentale nell’ambito del rapporto privatistico fra soggetto attivo e soggetto passivo della rivalsa, estraneo alla giurisdizione sul rapporto d’imposta devoluto al giudice tributario.

Sez. U, n. 13722/2017, Cirillo E., Rv. 644369-01, ha affermato che anche le controversie concernenti il trattamento economico per l’esercizio delle funzioni di componente delle commissioni tributarie centrali di cui al d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 545 sono devolute al giudice ordinario, ai sensi dell’art. 3, comma 121, della l. 24 dicembre 2003, n. 350, venendo in rilievo il bene della vita cui gli attori aspirano, ovvero il diritto patrimoniale e non l’interesse legittimo al corretto esercizio della potestà amministrativa di scelta dei criteri di determinazione del compenso.

Per altro verso, ha precisato Sez. U, n. 7666/2017, Petitti, Rv. 643344-01, che la natura tributaria del contributo annuale previsto a carico degli avvocati ed in favore dei Consigli dell’Ordine di appartenenza non comporta la devoluzione alla giurisdizione del giudice tributario della controversia concernente l’incidenza del suo mancato pagamento sul diritto del professionista al mantenimento della efficacia della iscrizione all’albo, atteso che oggetto di tale giudizio è l’accertamento della sussistenza delle condizioni per l’iscrizione e per poter esercitare la professione – questione che rientra nella competenza dei Consigli dell’Ordine ed, in sede di impugnazione, del Consiglio Nazionale Forense – e non anche la legittimità della pretesa del pagamento annuale gravante sul professionista per effetto del- l’iscrizione predetta.

Anche la cognizione della controversia relativa all’impugnazione di cartella esattoriale recante la richiesta di pagamento delle somme che la concessionaria dell’ACI ha riscosso per conto della Regione a titolo di tasse automobilistiche, e che, incorrendo in un inadempimento dell’appalto del servizio di riscossione, non ha integralmente riversato, appartiene, come statuito da Sez. U, n. 960/2017, Bielli, Rv. 641820-01, alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un diritto esercitato nell’ambito di un rapporto di tipo privatistico, estraneo all’esercizio del potere impositivo, proprio del rapporto tributario.

Sono parimenti devolute alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie concernenti l’opposizione ad una sanzione amministrativa per detenzione di apparecchi da intrattenimento in difformità alle regole previste dall’art. 110 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), non avendo tale sanzione natura tributaria, in quanto consegue alla violazione di norme volte a garantire un corretto svolgimento negli esercizi pubblici della gestione di apparecchi da intrattenimento, ed è preposta a reprimere, nel pubblico interesse, attività abusive e, dunque, illecite che possano pregiudicare, per effetto dell’installazione e dell’utilizzo di apparecchi non conformi alle prescrizioni ed alle caratteristiche di legge, la regolarità delle giocate, secondo quanto affermato da Sez. U, n. 2220/2017, Chindemi, Rv. 642010-01.

2. La competenza per territorio.

Su un piano generale, Sez. T, n. 21247/2017, De Masi, Rv. 645458-01, ha ribadito che la Commissione tributaria provinciale competente per territorio si individua con riferimento al luogo in cui ha sede l’Ufficio finanziario o il concessionario del servizio di riscossione che ha emesso il provvedimento impugnato, attesa la lettera dell’art. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 che radica la competenza territoriale, non sulla base di criteri contenutistici inerenti alla specifica materia di volta in volta controversa, ma in relazione all’allocazione spaziale dei soggetti in causa, salvo eccezioni tassativamente previste.

3. La struttura del processo e le sue conseguenze.

Nel sottolineare che il processo tributario non è annoverabile tra quelli di impugnazione-annullamento bensì tra quelli di impugnazione-merito, Sez. 6-T, n. 21695/2017, Napolitano, ha evidenziato che, di conseguenza, il giudice tributario, nel rideterminare il valore di aree edificabili ai fini ICI, rispetto alla stima effettuata negli atti impositivi impugnati, deve procedere ad un proprio giudizio estimatorio, sulla base degli elementi provati e comunque non controversi, indicando, in base ai parametri normativi di riferimento, le effettive potenzialità edificatorie delle aree in oggetto e valutando le incidenze dei vincoli alle stesse afferenti, comportando, altrimenti, la sua decisione, un sostanziale esonero dell’Amministrazione dall’onere probatorio su di essa incombente.

4. La disapplicazione di atti normativi.

Ha ricordato Sez. T, n. 20812/2017, Zoso, Rv. 645303-01, che le disposizioni del cd. Statuto dei diritti del contribuente, che costituiscono meri criteri guida per il giudice, in sede di applicazione ed interpretazione delle norme tributarie, anche anteriormente vigenti, per risolvere eventuali dubbi ermeneutici, non hanno, nella gerarchia delle fonti, rango superiore alla legge ordinaria, con la conseguenza che esse non possono fungere da parametro di costituzionalità, né consentire la disapplicazione della norma tributaria in asserito contrasto con le stesse.

Quanto al potere di disapplicare le previsioni interne in contrasto con quelle dell’Unione europea, ha affermato Sez. T, n. 15688/2017, Fasano, Rv. 644696-01, che, in tema di agevolazioni fiscali, è illegittima la disapplicazione, da parte del giudice nazionale, dell’art. 63, comma 1, della l. 27 dicembre 2002, n. 289, nella parte in cui, rinnovando il regime di incentivi alle assunzioni, mantiene ferma la disposizione di cui all’art. 7, comma 10, della l. 23 dicembre 2000, n. 388, che circoscrive il riconoscimento del credito di imposta nei limiti della regola de minimis – e, cioè, nell’importo di euro 100.000 nel triennio, quale limite quantitativo al di sotto del quale gli aiuti di Stato non incorrono nel divieto di cui all’art. 92 (poi 87) del Trattato CE – sul presupposto che il beneficio in questione non configura un aiuto di Stato, in quanto il legislatore incorre nella violazione della normativa comunitaria soltanto se concede aiuti di Stato in misura eccedente alla regola de minimis e non se circoscrive, nell’ambito dei suoi legittimi poteri discrezionali, benefici fiscali entro soglie predefinite, anche individuate per relationem rispetto a norme dell’ordinamento comunitario.

5. La dichiarazione dell’inapplicabilità delle sanzioni nel caso di obiettiva incertezza della norma tributaria.

Sulla questione si segnala, in termini generali, Sez. T, n. 12301/2017, Zoso, Rv. 644141-01, per la quale la “incertezza normativa oggettiva tributaria” è caratterizzata dall’impossibilità d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile, e va distinta dalla ignoranza soggettiva incolpevole del diritto (il cui accertamento è demandato esclusivamente al giudice e non può essere operato dall’amministrazione), come emerge dall’art. 6 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, che distingue le due figure, pur ricollegandovi i medesimi effetti. A riguardo, la S.C. ha quindi precisato che, in particolare, il fenomeno dell’incertezza normativa oggettiva può essere desunto dal giudice attraverso la rilevazione di una serie di “fatti indice”, quali, ad esempio: 1) la difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative; 2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; 5) la mancanza di una prassi amministrativa o l’adozione di prassi amministrative contrastanti; 6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) la formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale; 8) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; 9) il contrasto tra opinioni dottrinali; 10) l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di una norma implicita preesistente.

Per altro verso, ha sottolineato Sez. T, n. 5105/2017, Sabato, Rv. 643235-01, che nell’ordinamento tributario l’errore scusabile, da intendersi quale incertezza normativa oggettiva, costituisce espressione del principio di collaborazione e di buona fede al quale sono improntati i rapporti tra contribuente ed amministrazione finanziaria ed è riferibile esclusivamente agli istituti sanzionatori, restando, invece, sempre dovuto il tributo, né può essere invocato per giustificare l’errore sulla scadenza di un termine di decadenza per potersi avvalere di un istituto clemenziale.

6. Litisconsorzio.

Come ribadito da Sez. T, n. 7840/2017, Iofrida, Rv. 643638-01, in materia di processo tributario, il litisconsorzio necessario si configura ogni volta che, per effetto della norma tributaria o per l’azione esercitata dall’Amministrazione finanziaria, l’atto impositivo coinvolga, nell’unicità della fattispecie costitutiva dell’obbligazione, una pluralità di soggetti ed il ricorso, pur proposto da uno o più obbligati, abbia ad oggetto non la singola posizione debitoria del o dei ricorrenti bensì quella inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto all’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, cioè gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell’obbligazione.

Più in particolare, secondo Sez. T, n. 13307/2017, Tedesco, Rv. 644351-01, nel giudizio di accertamento dell’IRAP dovuta dalla società ed imputata per trasparenza ai soci, sussiste il litisconsorzio necessario di questi ultimi, sicché, ove il processo sia celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorti, lo stesso è affetto da nullità assoluta, rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio.

Per converso, ha rilevato Sez. 6-T, n. 20507/2017, Iofrida, Rv. 645046-01, che nel giudizio di impugnazione dell’avviso di accertamento emesso nei confronti del socio di società di capitali, avente ad oggetto il maggior reddito da partecipazione derivante dalla presunzione di distribuzione dei maggiori utili accertati a carico della società partecipata, non sussiste litisconsorzio necessario con la società.

Per altro verso, è stato precisato, da parte di Sez. T, n. 20024/2017, Tedesco, Rv. 645298-01, che l’unitarietà dell’accertamento, che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui all’art. 5 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e dei soci delle stesse e che giustifica il litisconsorzio necessario tra società e soci nella causa di impugnazione dei relativi atti di accertamento, non viene più in considerazione nel caso di intervenuta estinzione della società, atteso che i debiti sociali si trasferiscono ai soci illimitatamente responsabili.

7. Notificazioni.

La S.C. ha chiarito, con Sez. T, n. 1528/2017, Stalla, Rv. 642456-01, che nel processo tributario, con riguardo al luogo delle notificazioni, l’art. 17 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, fa in ogni caso salva la “consegna in mani proprie”, per cui deve considerarsi valida, anche in presenza di un’elezione di domicilio, la notifica eseguita in tal modo, da identificarsi non solo con quella ex art. 138 c.p.c., ma anche con tutte le altre notificazioni eseguite ai sensi dell’art. 140 c.p.c. o a mezzo del servizio postale, a seguito delle quali l’atto venga comunque consegnato nelle mani del destinatario.

8. Il procedimento dinanzi alla commissione tributaria provinciale.

8.1. Gli atti impugnabili.

Copiosa, anche nel 2017, la delicata elaborazione della S.C. circa il novero degli atti impugnabili, tenendo conto della formulazione dell’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dinanzi al giudice tributario.

In argomento, in via generale, Sez. 6-T, n. 13963/2017, Mocci, Rv. 644433-01, ha statuito che, sebbene l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 abbia natura tassativa, tuttavia, in ragione dei principi costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della P.A., ogni atto adottato dall’ente impositore che porti, comunque, a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche della stessa, è impugnabile davanti al giudice tributario, senza necessità che si manifesti in forma autoritativa (con la conseguenza che è immediatamente impugnabile dal contribuente anche il diniego di disapplicazione di norme antielusive, ex art. 37-bis, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600).

In ragione dell’esigenza di tutela del contribuente, in senso analogo, rivedendo l’orientamento pregresso della S.C., Sez. T, n. 22497/2017, Zoso, Rv. 645651-01, ha affermato che deve ritenersi impugnabile la mancata risposta dell’Amministrazione finanziaria all’istanza, volta ad ottenere un maggior credito di imposta per l’incremento dell’occupazione ai sensi dell’art. 7 della l. 23 dicembre 2000, n. 388, atteso che l’elencazione degli atti impugnabili di cui all’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, pur essendo tassativa, deve essere interpretata in senso estensivo, in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della P.A. ed anche in conseguenza dell’estensione della giurisdizione tributaria, operata dalla l. 28 dicembre 2001, n. 448, ancorandosi tale possibilità all’esistenza di un atto adottato dall’Amministrazione finanziaria che, comunque, porti a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria ovvero il convincimento della stessa Amministrazione in ordine all’esistenza di un determinato rapporto tributario.

Sez. T, n. 16520/2017, Greco, Rv. 644893-01, ha inoltre precisato che il ricorso del contribuente per ottenere il rimborso di somme che assuma indebitamente versate può essere proposto soltanto nei confronti di un provvedimento di diniego del rimborso, esplicito o implicito, la cui inesistenza, dovuta al non ancora avvenuto decorso del termine di novanta giorni dalla presentazione della domanda di restituzione (previsto dall’art. 21, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546), comporta l’inammissibilità del ricorso per difetto dell’atto impugnabile, quale presupposto processuale, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, mentre, una volta formatosi il silenzio-rifiuto, il ricorso è sempre proponibile fino a quando il diritto alla restituzione non sia prescritto.

Peraltro, come evidenziato da Sez. 6-T, n. 26129/2017, Manzon, Rv. 646418-01, l’impugnazione da parte del contribuente di un atto, quale il preavviso di iscrizione ipotecaria, non espressamente indicato dall’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ma cionondimeno avente natura di atto impositivo, rappresenta una facoltà e non un onere, il cui mancato esercizio non preclude la possibilità d’impugnazione con l’atto successivo.

In ragione del generale principio per il quale, in tema di contenzioso tributario, ai sensi dell’art. 19, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ognuno degli atti impugnabili può essere oggetto di gravame solo per vizi propri, salvo che non si tratti di atti presupposti non notificati, Sez. 6-T, n. 13102/2017, Mocci, Rv. 644261-01, ha evidenziato che non è ammissibile l’impugnazione della cartella di pagamento per dolersi di vizi inerenti agli avvisi di accertamento già notificati e non opposti nei termini.

8.2. Il ricorso.

8.2.1. Notifica e deposito.

Ha chiarito Sez. T, n. 2905/2017, De Masi, Rv. 643230-01, che, nel processo tributario, in forza del rinvio operato dall’art. 20 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, al precedente art. 16, comma 3, è senz’altro valida la notificazione del ricorso introduttivo effettuata dal contribuente al concessionario, senza ricorrere all’ufficiale giudiziario o al servizio postale, ma con la consegna diretta presso la sede di quest’ultimo ad impiegato addetto “che ne rilascia ricevuta sulla copia”.

Per altro verso, Sez. T, n. 6677/2017, Virgilio, Rv. 643462-01, ha affermato che, in tema di processo tributario, l’art. 22, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, va interpretato nel senso che costituisce causa di inammissibilità del ricorso o dell’appello non la mancanza di attestazione, da parte del ricorrente, della conformità tra l’atto depositato e quello notificato, ma solo la loro effettiva difformità, accertabile d’ufficio in caso di omissione dell’attestazione. La S.C. ha al contempo precisato che, tuttavia, se la controparte è rimasta contumace, con conseguente impossibilità del giudice di esercitare il diretto raffronto, si impone la declaratoria di inammissibilità del ricorso, perché la soluzione contraria priverebbe di qualunque reale funzione la prescritta formalità di attestazione gravante sul ricorrente, senza possibilità di ricorso alla verifica officiosa degli atti da parte del giudice.

8.2.2. Difesa tecnica.

In conformità alla regola generale dettata dall’art. 182 c.p.c., Sez. T, n. 13346/2017, Zoso, Rv. 644354-01, ha evidenziato che, nelle controversie tributarie di valore superiore ad € 2.582,28, per effetto della interpretazione adeguatrice degli artt. 12, comma 5, e 18, commi 3 e 4, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, fornita da Corte cost., 13 giugno 2000, n. 189, l’inammissibilità del ricorso presentato senza l’assistenza di un difensore abilitato può essere dichiarata soltanto qualora la parte privata non ottemperi, nel termine all’uopo fissato, all’ordine del giudice di munirsi di assistenza tecnica.

8.3. La costituzione in giudizio del ricorrente.

Ha precisato Sez. T, n. 12268/2017, Iannello, Rv. 644135-01, che il ricorrente che si costituisce in giudizio ha l’onere di depositare, unitamente alla copia del ricorso, quella della ricevuta postale di ricezione ovvero della ricevuta di deposito solo se per la notifica del ricorso si sia avvalso direttamente del servizio postale ai sensi dell’art. 16, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, laddove un siffatto onere non sussiste nell’ipotesi in cui la notifica sia stata effettuata per il tramite dell’ufficiale giudiziario, poiché, in tale caso, le esigenze di verifica della tempestività del ricorso e della costituzione in giudizio sono soddisfatte dalla relata di notifica redatta dal pubblico ufficiale.

In argomento, è peraltro intervenuta in via generale Sez. U, n. 13452/2017, Cirillo E., Rv. 644364-01, la quale ha statuito che nel processo tributario, il termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio del ricorrente (o dell’appellante), che si avvalga per la notificazione del servizio postale universale, decorre non dalla data della spedizione diretta del ricorso a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, ma dal giorno della ricezione del plico da parte del destinatario (o dall’evento che la legge considera equipollente alla ricezione).

Inoltre, la stessa Sez. U, n. 13452/2017, Cirillo E., Rv. 644364-02, ha precisato che nel processo tributario non costituisce motivo d’inammissibilità del ricorso (o dell’appello), che sia stato notificato direttamente a mezzo del servizio postale universale, il fatto che il ricorrente (o l’appellante), al momento della costituzione entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata da parte del destinatario, depositi l’avviso di ricevimento del plico e non la ricevuta di spedizione, purché nell’avviso di ricevimento medesimo la data di spedizione sia asseverata dall’ufficio postale con stampigliatura meccanografica ovvero con proprio timbro datario. La S.C. ha osservato che, invero, solo in tale ipotesi l’avviso di ricevimento è idoneo ad assolvere la medesima funzione probatoria che la legge assegna alla ricevuta di spedizione; invece, in loro mancanza, la non idoneità della mera scritturazione manuale o comunemente dattilografica della data di spedizione sull’avviso di ricevimento può essere superata, ai fini della tempestività della notifica del ricorso (o dell’appello), unicamente se la ricezione del plico sia certificata dall’agente postale come avvenuta entro il termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto (o della sentenza).

8.4. La costituzione in giudizio del resistente.

Sull’assunto per il quale, in tema di ICI, qualora il comune affidi a terzi la liquidazione, l’accertamento e la riscossione ex art. 52 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, la legittimazione processuale per le relative controversie si trasferisce all’affidatario, non avendo altrimenti significato l’opzione comunale per la gestione esterna, Sez. T, n. 25305/2017, Carbone, Rv. 645986-01, ha affermato che il relativo vizio del contraddittorio nei suoi confronti può essere sanato solo dalla sua costituzione in giudizio e non da quella del comune.

8.5. Istruzione probatoria.

Ha evidenziato Sez. T, n. 25257/2017, Caiazzo, Rv. 645975-01, che, nel giudizio tributario, una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità di una operazione posta in essere dal contribuente che sia imprenditore commerciale, perché basata su una contabilità complessivamente inattendibile in quanto contrastante con i criteri di ragionevolezza, diviene onere del contribuente stesso dimostrare la liceità fiscale della suddetta operazione ed il giudice tributario non può, al riguardo, limitarsi a constatare la regolarità della documentazione cartacea. Osserva in particolare la S.C. che, infatti, è consentito al fisco dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere minori costi, utilizzando presunzioni semplici e obiettivi parametri di riferimento, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente, che deve dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate a fronte della contestata antieconomicità.

Si segnala, poi, Sez. 6-3, n. 23902/2017, Frasca, Rv. 646629-02, secondo cui, in tema di notificazione della cartella esattoriale, qualora l’agente della riscossione produca in giudizio copia fotografica della relazione di notificazione o dell’avviso di ricevimento della cartella di pagamento, con la certificazione di conformità alle risultanze informatiche in suo possesso, e l’obbligato contesti, ai sensi dell’art. 2719 c.c., la conformità delle copie agli originali, il giudice, anche laddove riscontri la mancanza di una rituale notificazione, non può limitarsi a negare ogni efficacia probatoria alle copie prodotte, ma deve comunque valutare le specifiche difformità contestate sulla base degli elementi istruttori disponibili, compresi quelli di natura presuntiva, attribuendo il giusto rilievo anche all’attestazione, da parte dell’agente della riscossione, della conformità delle copie prodotte alle riproduzioni informatiche degli originali in suo possesso.

In termini generali, Sez. T, n. 3593/2017, Stalla, Rv. 643103-01, ha affermato che, in materia di processo tributario, i documenti non elencati negli atti di parte cui sono allegati o, se prodotti separatamente, in apposita nota sottoscritta e depositata in originale, in violazione dell’art. 24 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, non possono essere posti dal giudice a fondamento del proprio convincimento, salvo che la parte legittimata a far valere l’irregolarità non ne abbia accettato, anche implicitamente, il deposito, prendendone contezza ed assumendo posizione sulla loro efficacia probatoria, senza nulla eccepire relativamente alla loro irrituale produzione.

Ha sottolineato, inoltre, Sez. T, n. 9080/2017, Greco, Rv. 643624-01, che nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dall’art. 7 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice.

8.6. Decisione.

Degna di nota Sez. T, n. 11629/2017, Stalla, Rv. 644105-01, la quale ha affermato che, nel processo tributario – come in quello civile, non sussistendo sul punto preclusione di compatibilità – l’applicazione del principio iura novit curia fa salvo il potere-dovere del giudice di dare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite nonché all’azione esercitata in causa, ricercando, a tal fine, le norme giuridiche applicabili alla vicenda descritta in giudizio e ponendo a fondamento della sua decisione disposizioni e principi di diritto eventualmente anche diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, con il solo limite dell’immutazione della fattispecie da cui conseguirebbe la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.

Quanto alla motivazione della sentenza, ha evidenziato Sez. 6-T, n. 9745/2017, Manzon, Rv. 643800-01, che, in forza del generale rinvio materiale alle norme del c.p.c. compatibili, contenuto nell’art. 1, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, è applicabile al processo tributario, così come disciplinato dal citato decreto, il principio desumibile dalle norme di cui agli artt. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., secondo il quale l’omessa esposizione dei fatti rilevanti della causa, ovvero la mancanza o l’estrema concisione delle ragioni giuridiche della decisione, determinano la nullità della sentenza soltanto ove rendano impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo.

Peraltro, ha precisato Sez. T, n. 8404/2017, Izzo, Rv. 643610-01, che nel processo tributario, la motivazione della sentenza di merito ben può essere basata, anche in via esclusiva, sulla stima effettuata da un organo tecnico interno all’Amministrazione finanziaria, purché il giudice spieghi le ragioni di tale scelta, anche in relazione alle contestazioni del contribuente.

Sotto un distinto profilo, Sez. 6-T, n. 22433/2017, Conti, Rv. 646132-01, sull’assunto per il quale, in tema di contenzioso tributario, il contrasto tra formulazione letterale del dispositivo e pronuncia adottata in motivazione che non incida sull’idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione, non integra un vizio attinente al contenuto concettuale e sostanziale della decisione, bensì un errore materiale, ha ritenuto lo stesso emendabile con la procedura prevista dall’art. 287 c.p.c., applicabile anche nel processo tributario, e non denunciabile con l’impugnazione della sentenza.

Sempre in ordine ai vizi della decisione, ha chiarito Sez. T, n. 9440/2017, Aceto, Rv. 643767-01, che la sentenza emessa da una commissione tributaria regionale, munita della sottoscrizione del giudice estensore e non anche del presidente del collegio, è affetta da nullità sanabile ai sensi dell’art. 161, comma 1, c.p.c., trattandosi di sottoscrizione insufficiente e non mancante, la cui sola ricorrenza comporta la non riconducibilità dell’atto al giudice, mentre una diversa interpretazione, che accomuni le due ipotesi con applicazione dell’art. 161, comma 2, c.p.c., deve ritenersi lesiva dei principi del giusto processo e della ragionevole durata.

9. Le impugnazioni.

In termini generali, Sez. T, n. 13047/2017, Iannello, Rv. 644242-01, ha chiarito che, nel processo tributario, l’effetto di acquiescenza, ex art. 329, comma 2, c.p.c., alle parti della sentenza non impugnate – la cui produzione ne presuppone l’autonomia e la non dipendenza da quella oggetto di impugnazione, come può verificarsi soltanto se la decisione contenga più capi contro i quali la parte ha interesse ad impugnare – non è ravvisabile ove la decisione riguardi distinti periodi d’imposta e la contestazione investa elementi o presupposti di fatto comuni e ricorrenti negli stessi, atteso che, in siffatta ipotesi, se è vero che l’autonomia dei periodi d’imposta distingue le diverse pretese creditorie, ciò non vale, tuttavia, ad identificare altrettanti diversi capi della domanda, né, tantomeno, diverse parti della sentenza, cosicché detta contestazione, anche in assenza di un esplicito riferimento a ciascuno dei distinti anni d’imposta, non può non intendersi riferita all’intero oggetto del contendere. Nel caso di specie, la S.C. ha cassato l’impugnata sentenza che, in un giudizio concernente più avvisi di accertamento ai fini IRPEF, IRAP e IVA, ciascuno per un distinto anno d’imposta, ma tutti fondati sulla contestazione di elementi o presupposti di fatto comuni e ricorrenti nei vari anni, aveva affermato l’esistenza di un giudicato interno con riferimento all’avviso di accertamento relativo a uno di essi, in ragione della mancanza, nel ricorso in appello dell’ufficio, di specifici elementi di critica al medesimo afferenti.

9.1. Il giudizio di appello.

9.1.1. Termini.

Di interesse il principio ribadito da Sez. 6-T, n. 9330/2017, Iofrida, Rv. 644708, secondo cui, nel processo tributario, l’ammissibilità dell’impugnazione tardiva, oltre il termine “lungo” dalla pubblicazione della sentenza, previsto dall’art. 38, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, presuppone che la parte dimostri “l’ignoranza del processo”, ossia di non averne avuto alcuna conoscenza per nullità della notificazione del ricorso e della comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza, situazione che non si ravvisa in capo al ricorrente costituto in giudizio, cui non può dirsi ignota la proposizione dell’azione, dovendosi ritenere tale interpretazione conforme ai principi costituzionali ed all’ordinamento comunitario, in quanto diretta a realizzare un equilibrato bilanciamento tra le esigenze del diritto di difesa ed il principio di certezza delle situazioni giuridiche. Né assume rilievo l’omessa comunicazione della data di trattazione, che è deducibile quale motivo di impugnazione ai sensi dell’art. 161, comma 1, c.p.c., in mancanza della quale la decisione assume valore definitivo in conseguenza del principio del giudicato.

Sez. 6-T, n. 19959/2017, Iofrida, Rv. 645330, asserisce che, al fine di valutare l’applicabilità del termine semestrale introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, occorre avere riguardo, secondo i principi generali in tema di litispendenza, al momento in cui la notifica del ricorso introduttivo del giudizio si è perfezionata con la ricezione dell’atto da parte del destinatario e non a quello in cui la notifica è stata richiesta all’ufficiale giudiziario o il plico è stato spedito a mezzo del servizio postale.

Sez. 6-T, n. 14746/2017, Crucitti, Rv. 644592, ha sancito l’ammissibilità dell’impugnazione tardiva, oltre il termine “lungo” dalla pubblicazione della sentenza, previsto dall’art. 38, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, presuppone che la parte dimostri l’”ignoranza del processo”, ossia di non averne avuto alcuna conoscenza per nullità della notificazione del ricorso e della comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza, situazione che non si ravvisa in capo al ricorrente costituito in giudizio, cui non può dirsi ignota la proposizione dell’azione, dovendosi ritenere tale interpretazione conforme ai principi costituzionali ed all’ordinamento comunitario, in quanto diretta a realizzare un equilibrato bilanciamento tra le esigenze del diritto di difesa ed il principio di certezza delle situazioni giuridiche. Né assume rilievo l’omessa comunicazione della data di trattazione, che è deducibile quale motivo di impugnazione ai sensi dell’art. 161, comma 1, c.p.c., in mancanza della quale la decisione assume valore definitivo in conseguenza del principio del giudicato.

9.1.2. Legittimazione.

Sez. T, n. 13584/2017, Stalla, Rv. 644356, ha chiarito che la legittimazione a proporre l’impugnazione, o a resistere ad essa, spetta solo a chi abbia assunto la veste di parte nel giudizio di merito, tenendo conto sia della motivazione che del dispositivo, a prescindere dalla sua correttezza e corrispondenza alle risultanze processuali nonché alla titolarità del rapporto sostanziale, purché sia quella ritenuta dal giudice nella sentenza della cui impugnazione si tratta. Nel caso di specie, la S.C. ha rigettato il corrispondente motivo di ricorso ritenendo che l’Agenzia delle entrate, pur non avendo partecipato al giudizio di primo grado, era comunque legittimata a proporre appello in ragione della sua qualificazione come parte desumibile dalla sentenza impugnata e che, peraltro, dato l’oggetto della controversia – riguardante non soltanto vizi della procedura di riscossione ma anche la pretesa tributaria considerata nella sua sussistenza e fondatezza sostanziale – la stessa era anche litisconsorte necessario.

9.1.3. Proposizione.

Sez. 6-T, n. 26313/2017, Vella, Rv. 646420-01, ha chiarito che ai fini della sussistenza del requisito della indicazione delle parti, non è richiesta alcuna forma speciale, essendo sufficiente che le parti medesime, pur non indicate, o erroneamente indicate, nell’epigrafe del ricorso o nell’esposizione dei motivi di impugnazione, siano con certezza ed in modo chiaro e inequivoco identificabili dal contesto del ricorso stesso, dalla sentenza impugnata, ovvero da atti delle pregresse fasi del giudizio, sicchè l’inammissibilità del ricorso è determinata soltanto dall’incertezza assoluta che residui in esito all’esame di tali atti.

Sez. T, n. 25588/2017, Tricomi, Rv. 646125-01, ha chiarito che l’art. 53, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, secondo cui l’appello deve essere proposto nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, non fa venir meno la distinzione tra cause inscindibili e cause scindibili, ai sensi degli artt. 331 e 332 c.p.c., con la conseguenza che, in presenza di cause scindibili, la mancata proposizione dell’appello nei confronti di tutte le parti presenti in primo grado non comporta l’obbligo di integrare il contraddittorio quando, rispetto alla parti pretermesse, sia ormai decorso il termine per l’impugnazione. Nella specie, la S.C. ha ritenuto esente da critiche l’omessa integrazione del contraddittorio in appello nei confronti del concessionario del servizio di riscossione, convenuto nel giudizio di primo grado insieme all’Amministrazione finanziaria, tenuto conto che l’impugnazione aveva ad oggetto solo l’esistenza dell’obbligazione tributaria e che il termine per impugnare era già decorso.

Sez. T, n. 6677/2017, Virgilio, Rv. 643462-01, ha colto l’occasione di mettere in risalto che, in tema di contenzioso tributario, l’art. 22, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, va interpretato nel senso che costituisce causa di inammissibilità del ricorso o dell’appello non la mancanza di attestazione, da parte del ricorrente, della conformità tra l’atto depositato e quello notificato, ma solo la loro effettiva difformità, accertabile d’ufficio in caso di omissione dell’attestazione. Tuttavia, se la controparte è rimasta contumace, con conseguente impossibilità del giudice di esercitare il diretto raffronto, si impone la declaratoria di inammissibilità del ricorso, perché la soluzione contraria priverebbe di qualunque reale funzione la prescritta formalità di attestazione gravante sul ricorrente, senza possibilità di ricorso alla verifica officiosa degli atti da parte del giudice.

Sez. 6-T, 1635/2017, Conti, Rv. 643197-01, ha messo in evidenza che il deposito di copia dell’atto di appello presso la segreteria della commissione che ha emesso la sentenza impugnata, quale requisito di ammissibilità del gravame non notificato a mezzo di ufficiale postale, è stato eliminato dall’art. 36 del d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175, con efficacia non retroattiva, compatibile con l’art. 6 della CEDU, che non garantisce il diritto a beneficiare di norme procedurali sopravvenute, a cui lo Stato può legittimamente applicare il principio tempus regit actum. In applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso l’applicabilità della modifica dell’art. 53 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in una fattispecie in cui la spedizione dell’appello era avvenuta anteriormente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 175 del 2014 e, cioè, prima del 13 dicembre 2014, confermando, quindi, l’inammissibilità del gravame in conseguenza dell’omissione del deposito suddetto.

Di analogo segno è Sez. 6-T, n. 22627/2017, Conti, Rv. 646242-01, a tenore della quale, infatti, l’evocata disposizione di cui all’art 36 d.lgs. n. 175 del 2014, che ha abrogato il secondo periodo del comma 2 dell’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, non si applica qualora la spedizione dell’appello sia avvenuta in epoca anteriore all’entrata in vigore della normativa sopravvenuta, non contrastando tale previsione con i principi della CEDU secondo i quali il legislatore può legittimamente applicare alle norme di procedura il principio tempus regit actum. Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato inammissibile l’appello in quanto la parte aveva omesso di depositare l’atto di appello spedito a mezzo raccomandata presso la segreteria del giudice che aveva emesso la sentenza di primo grado in data antecedente l’entrata in vigore della norma.

9.1.4. Notificazione.

Funzionale a comporre un rilevante contrasto interpretativo interno alla S.C. si è rivelata Sez. U, n. 13452/2017, Cirillo, Rv. 644364-03, la quale ha affermato che nel processo tributario, non costituisce motivo d’inammissibilità del ricorso (o dell’appello), che sia stato notificato direttamente a mezzo del servizio postale universale, il fatto che il ricorrente (o l’appellante), al momento della costituzione entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata da parte del destinatario, depositi l’avviso di ricevimento del plico e non la ricevuta di spedizione, purché nell’avviso di ricevimento medesimo la data di spedizione sia asseverata dall’ufficio postale con stampigliatura meccanografica ovvero con proprio timbro datario. Solo in tal caso, infatti, l’avviso di ricevimento è idoneo ad assolvere la medesima funzione probatoria che la legge assegna alla ricevuta di spedizione; invece, in loro mancanza, la non idoneità della mera scritturazione manuale o comunemente dattilografica della data di spedizione sull’avviso di ricevimento può essere superata, ai fini della tempestività della notifica del ricorso (o dell’appello), unicamente se la ricezione del plico sia certificata dall’agente postale come avvenuta entro il termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto (o della sentenza).

Sez. U, n. 13452/2017, Cirillo E., Rv. 644364-02, evidenzia pure che il termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio del ricorrente (o dell’appellante), che si avvalga per la notificazione del servizio postale universale, decorre non dalla data della spedizione diretta del ricorso a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, ma dal giorno della ricezione del plico da parte del destinatario (o dall’evento che la legge considera equipollente alla ricezione).

Di notevole importanza è il principio espresso da Sez. T, n. 22878/2017, Tedesco, Rv. 645652-01, secondo cui la prova del perfezionamento della notifica a mezzo posta dell’atto d’appello per il notificante nel termine di cui all’art. 327 c.p.c., è validamente fornita dall’elenco di trasmissione delle raccomandate recante il timbro datario delle Poste, non potendosi attribuire all’apposizione di quest’ultimo su detta distinta cumulativa altro significato se non quello di attestarne la consegna all’ufficio postale. Nella specie, la S.C. ha ritenuto la piena equiparabilità, ai fini della prova della regolarità della notifica delle impugnazioni, della produzione, in luogo delle singole ricevute di spedizione delle raccomandate, di una distinta di spedizione degli appelli, recante gli estremi delle stesse, valendo l’indicazione in essa di destinatario, data e spese ad attribuire al timbro postale il significato di attestazione della consegna, pur in assenza di dicitura di avvenuta ricezione.

Sez. 6-T, n. 21273/2017, Conti, Rv. 645674-01, ha rilevato che, in tema di appello nel processo tributario, la mancata coincidenza tra la parte processuale ed il destinatario dell’atto di gravame determina l’inesistenza dello stesso solo allorché manchi ogni collegamento tra il destinatario ed il contribuente, ricadendo tutte le altre ipotesi nell’ambito della nullità, come tale sanabile con efficacia ex tunc o per raggiungimento dello scopo, con la costituzione della parte intimata, o in conseguenza della rinnovazione della notificazione effettuata spontaneamente dalla parte o per ordine del giudice ex art. 291 c.p.c. Nel caso di specie, la S.C. ha cassato la sentenza della Commissione tributaria regionale che aveva ritenuto inesistente la notificazione dell’atto di appello, in quanto destinatario era un soggetto diverso dal contribuente, senza tenere conto, tuttavia, che si trattava del procuratore costituito del medesimo e che nell’atto di appello era specificamente indicata tale qualità unitamente alle generalità dell’assistito.

Una prospettiva analoga è acclusa in Sez. T, n. 13058/2017, Iannello, Rv. 644244-01, ad avviso della quale la difformità tra l’atto di appello notificato e quello depositato, sanzionata con l’inammissibilità dell’impugnazione dall’art. 22, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (richiamato dal successivo art. 53, comma 2), è solo quella sostanziale idonea ad impedire effettivamente al destinatario della notifica la completa comprensione dell’atto e, quindi, a ledere il suo diritto di difesa, rendendo incerti sia petitum che causa petendi, e non quella che risulti irrilevante ai fini della comprensione del tenore dell’impugnazione ovvero tale che l’atto di costituzione dell’appellato contenga, comunque, una puntuale replica ai motivi di gravame contenuto nell’atto notificato. Nel caso di specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva dichiarato inammissibile l’appello per difformità, nell’atto notificato, degli estremi della sentenza impugnata rispetto a quelli, peraltro esatti, di cui all’atto depositato presso la segreteria della Commissione Tributaria.

Sez. T, n. 4233/2017, Virgilio, Rv. 643210-01, ha scandito il principio cardine per cui la notifica dell’appello, cui si applica l’art. 17 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, avente carattere di specialità rispetto all’art. 330 c.p.c., va effettuata, in assenza di elezione di domicilio, nella residenza dichiarata dal contribuente, sicchè è nulla (e non inesistente) ove eseguita presso il procuratore costituito in primo grado ma non domiciliatario. Tale nullità, ove non sanata dalla costituzione del convenuto e rilevata solo in sede di legittimità, comporta la cassazione della sentenza con rinvio ad altro giudice di pari grado, dinanzi al quale, essendo ormai l’impugnazione pervenuta a conoscenza dell’appellato, è sufficiente la riassunzione della causa nelle forme di cui all’art. 392 c.p.c.

Sez.T, n. 11637/2017, Zoso, Rv. 644122-01, ha, dal canto suo, evidenziato che l’art. 22, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 appena evocato – richiamato, per il giudizio d’ appello, dal successivo art. 53 – va interpretato nel senso che costituisce causa di inammissibilità del ricorso o dell’appello non la mancanza di attestazione, da parte del ricorrente, della conformità tra l’atto depositato e quello notificato ma solo la loro effettiva difformità, accertabile d’ufficio in caso di omissione dell’attestazione. Tuttavia, se la controparte è rimasta contumace, la mancata attestazione della conformità costituisce, di per sé, causa di inammissibilità, non essendo questa onerata dell’accesso presso la segreteria della commissione tributaria per verificare l’eventuale difformità tra l’atto a lei notificato e quello depositato, trattandosi di attività difensiva che presuppone, comunque, già sorto un interesse concreto a contraddire. In tal senso, la pronuncia si pone in difformità rispetto a Sez. T, n. 6780/2009, Meloncelli, Rv. 607483.

Sez. 6-T, n. 9340/2017, Conti, ha avuto modo di chiarire che, nel giudizio tributario, qualora debba accertarsi il perfezionamento della notifica a mezzo posta dell’atto di appello per il notificante, occorre provare che nel termine di cui all’art. 327 c.p.c. vi sia stata la consegna dell’atto all’ufficio postale, essendo sufficiente che la data risulti dall’elenco di trasmissione recante la dicitura ed il timbro datario delle Poste che attesta di aver ricevuto l’atto nel giorno indicato.

Sez. T, n. 8426/2017, Stalla, Rv. 643478-01, ha riaffermato il principio per cui la notifica dell’appello effettuata alla parte presso il suo domicilio reale, invece che presso lo studio del procuratore costituito e domiciliatario per il primo grado di giudizio, è nulla per violazione dell’art. 330 c.p.c., applicabile – nella parte in cui impone di eseguire la notifica dell’impugnazione non direttamente alla controparte, ma nel domicilio eletto ex art. 170 c.p.c. – in virtù del richiamo di cui agli artt. 1, comma 2, e 49 del d.lgs. n. 546 del 1992. Ne consegue, in caso di omessa costituzione dell’appellato, la necessaria rinnovazione ex art. 291 c.p.c.

Espressiva di un orientamento già invalso nella giurisprudenza della S.C. si mostra Sez. T, n. 25912/2017, Tricomi, Rv. 646173-01, la quale osserva che la notifica a mezzo servizio postale non si esaurisce con la spedizione dell’atto, ma si perfeziona con la consegna del relativo plico al destinatario e l’avviso di ricevimento, prescritto dall’art. 149 c.p.c. e dalle disposizioni della legge 20 novembre 1982, n. 890, è il solo documento idoneo a dimostrare sia l’intervenuta consegna sia la data di essa e l’identità e idoneità della persona a mani della quale è stata eseguita. Ne consegue che, anche nel processo tributario, qualora tale mezzo sia stato adottato per la notifica del ricorso, la mancata produzione dell’avviso di ricevimento comporta, non la mera nullità, ma la insussistenza della conoscibilità legale dell’atto cui tende la notificazione, nonché l’inammissibilità del ricorso medesimo, non potendosi accertare l’effettiva e valida costituzione del contraddittorio, in caso di mancata costituzione in giudizio della controparte.

Di estremo rilievo la puntualizzazione resa da Sez. T, n. 1528/2017, Stalla, Rv. 642456-01, in virtù della quale l’art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992 serve a far salva in ogni caso la “consegna in mani proprie”, talché deve considerarsi valida, anche in presenza di un’elezione di domicilio, la notifica eseguita in tal modo, da identificarsi non solo con quella ex art. 138 c.p.c. ma anche con tutte le altre notificazioni ex art. 140 c.p.c. o a mezzo del servizio postale, a seguito delle quali l’atto venga comunque consegnato a mani del destinatario. In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto rituale la notifica dell’appello effettuata non presso il difensore, ma a mani proprie della parte.

Sez. 6-T, n. 8186/2017, Napolitano, Rv. 643636-01, ha significativamente ritenuto che, in tema di contenzioso tributario, l’agente della riscossione soccombente nel giudizio di opposizione a cartella esattoriale, in cui il contribuente abbia denunciato il difetto di regolare notifica degli atti propedeutici da parte dell’ente impositore, è tenuto a contestare con l’appello l’insussistenza dei presupposti della propria soccombenza e la statuizione assunta sulle spese di lite, non potendo introdurre le relative censure, per la prima volta, con il ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa in esito al procedimento di secondo grado nel quale sia rimasto contumace, attesa la sua concorrente legittimazione passiva ed il suo interesse ad impugnare in considerazione della situazione di litisconsorzio processuale.

Pregnante è il distinguo operato da Sez. 6-T, n. 5369/2017, Manzon, Rv. 643479-01, secondo cui in materia di contenzioso tributario, la proposizione della mera eccezione di omessa notificazione dell’avviso di accertamento presupposto dell’atto impositivo non equivale a quella di nullità della notificazione medesima, non sussistendo una relazione di continenza tra l’inesistenza ed i vizi di nullità del procedimento notificatorio.

Sez. 6-T, 529/2017, Mocci, Rv. 642435-01, ha avuto modo di ribadire il principio per cui la notifica eseguita presso il procuratore domiciliatario cui sia stato revocato il mandato e sostituito da un altro è inesistente – come tale insuscettibile di sanatoria ai sensi dell’art. 291 c.p.c. – una volta che nel giudizio la controparte abbia avuto conoscenza legale della sostituzione. Nella specie, la S.C. ha escluso l’applicazione dell’art. 17 del d.lgs. n. 546 del 1992 e confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato l’inesistenza della notificazione effettuata presso il procuratore domiciliatario sostituito da altro procuratore domiciliatario, essendo state la revoca e la nuova nomina portate a conoscenza della controparte mediante memoria di costituzione del nuovo difensore.

D’impatto intertemporale è Sez. 6-T, 2276/2017, Napolitano, Rv. 643148-01, incaricatasi di chiarire che l’art 36 del d.lgs. 21 dicembre 2014, n. 175, che, nel modificare l’art. 53, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, ha eliminato l’obbligo di deposito, a pena di inammissibilità, di copia dell’appello non notificato a mezzo ufficiale giudiziario presso l’ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata, non si applica ove la notificazione si sia perfezionata prima dell’entrata in vigore della novella e resti, pertanto, in assenza di disciplina transitoria o di esplicite disposizioni di segno contrario, regolata dalla norma sotto il cui imperio è stata posta in essere.

9.1.5. Divieto di nuove eccezioni.

Sez. T, n. 22105/2017, Perrino, Rv. 645639-01, ha rilevato che nel giudizio tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, previsto all’art. 57, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili. Nella specie, la S.C. ha ritenuto ammissibile in grado di appello la contestazione delle deduzioni documentali del contribuente, effettuata dall’Agenzia delle Entrate per la prima volta in grado di appello.

Nella medesima ottica, Sez. 6-T, n. 21889/2017, Conti, Rv. 645676-02 ha posto in luce che il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, contemplato dall’art. 57 appena citato, riguarda le eccezioni in senso tecnico, ossia lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale: esso, pertanto, non limita affatto la possibilità dell’Amministrazione di difendersi in tale giudizio, né quella d’impugnare la sentenza che lo conclude, qualora la stessa abbia accolto una domanda avversaria per ragioni diverse da quelle poste dal giudice di primo grado a fondamento della propria decisione. Nel caso di specie, la S.C. ha cassato la sentenza della commissione tributaria regionale che, ritenutane la “novità”, aveva escluso qualificandole come nuove, di potere esaminare le difese dell’Agenzia delle entrate già proposte in primo grado, concernenti le movimentazioni bancarie sulle quali si fondava l’accertamento emesso a carico del contribuente.

Peraltro, Sez. 6-T, n. 22399/2017, Conti, Rv. 646011-01, ha osservato che la decadenza del contribuente per il mancato rispetto dei termini fissati per chiedere il rimborso del tributo indebitamente versato, essendo prevista in favore dell’amministrazione finanziaria ed attenendo a situazione non disponibile, può essere rilevata d’ufficio anche in secondo grado, purchè emerga dagli elementi comunque acquisiti agli atti del giudizio; sicché essa è sottratta al regime delle eccezioni nuove, a maggior ragione con riguardo ai tributi armonizzati per i quali il profilo di indisponibilità è maggiormente accentuato, costituendo risorse proprie dell’Unione europea.

Ancora nell’alveo del divieto in esame si inserisce Sez. 6-T, n. 15769/2017, Crucitti, Rv. 644724-01, la quale icasticamente afferma che in tema di contenzioso tributario, il giudice d’appello, attesa la particolare natura del giudizio, non può decidere la controversia sulla base di un’eccezione (nella specie, relativa alla mancanza di qualifica dirigenziale del sottoscrittore dell’atto impositivo) non ritualmente dedotta con l’originario ricorso introduttivo.

9.1.6. Contenuto e motivi.

Sez. T, n. 9083/2017, Esposito, Rv. 643625-01, ha osservato che nel processo tributario, è soddisfatto il requisito della specificità dei motivi di appello ove le argomentazioni svolte, correlate con la motivazione della sentenza impugnata, ne contestino il fondamento logico-giuridico, non richiedendosi necessariamente una rigorosa enunciazione delle ragioni invocate che possono, invece, essere ricavate anche implicitamente, sia pure in maniera univoca, dall’atto di impugnazione considerato nel suo complesso.

In punto di specificità dei motivi di gravame, Sez. 6-T, 7369/2017, Cirillo, Rv. 643485-01, ha osservato che ove l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni ed argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato, è da ritenersi assolto l’onere d’impugnazione specifica previsto dall’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992.

Ancora sul tema dell’onere di impugnazione specifica verte Sez. T, n. 4558/2017, Petitti, Rv. 643214-01, la quale osserva che, sebbene l’appello abbia carattere devolutivo pieno, le deduzioni dell’appellante devono essere svolte in contrapposizione alle argomentazioni svolte dal giudice di primo grado, di cui la parte non può disinteressarsi, limitandosi a riproporre al giudice di secondo grado le medesime testuali difese contenute nel ricorso introduttivo. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva omesso di rilevare la mancanza, in sede di gravame, di una qualsivoglia critica alla decisione di prime cure, essendosi l’appellante limitato a riprodurre testualmente le deduzioni difensive iniziali, senza prendere minimamente in considerazione il contenuto della sentenza di primo grado.

La specificità è un tema molto avvertito dalla S.C., come icasticamente confermato da Sez. 6-T, n. 1461/2017, Iofrida, Rv. 642900-01, secondo cui è inammissibile, proprio per un congenito difetto al riguardo, l’atto di appello che, limitandosi a riprodurre le argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado, senza il minimo riferimento alle statuizioni di cui è chiesta la riforma, non contenga alcuna parte argomentativa che, mediante censura espressa e motivata, miri a contestare il percorso logico-giuridico della sentenza impugnata.

Ed infine, sul tema ora in esame, una prospettiva chiara è dato cogliere in Sez. 6-T, n. 20379/2017, Iofrida, Rv. 645045-01, secondo cui la mancanza o l’assoluta incertezza dei motivi specifici dell’impugnazione, le quali, ai sensi dell’art. 53, comma 1, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, determinano l’inammissibilità del ricorso in appello, non sono ravvisabili qualora il gravame, benché formulato in modo sintetico, contenga una motivazione interpretabile in modo inequivoco, potendo gli elementi di specificità dei motivi essere ricavati, anche per implicito, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni.

Sez. T, n. 12631/2017, La Torre, Rv. 644237-01, ha rilevato che in tema di contenzioso tributario, l’appello dell’Ufficio nel giudizio riguardante l’impugnazione di un avviso di accertamento non necessita di uno specifico ed autonomo motivo sulle sanzioni, costituendo queste un’obbligazione accessoria a quella principale, direttamente discendente da essa, ed in cui, quindi è compresa, sicchè deve escludersi che sia affetta dal vizio di ultrapetizione, ex art. 112 c.p.c., la sentenza della commissione tributaria regionale che, in assenza del predetto autonomo e specifico motivo, confermi in toto l’avviso di accertamento, anche con riguardo alle sanzioni.

Sez. T, n. 19216/2017, Iannello, Rv. 645289-01, ha messo in risalto, secondo un avviso già in precedenza espresso, che la regola per cui le domande non esaminate perché ritenute assorbite, pur non potendo costituire oggetto di motivo d’appello, devono comunque essere riproposte ai sensi dell’art. 346 c.p.c., non trova applicazione in caso di impugnazione della decisione che ha giudicato inammissibile il ricorso di primo grado (nella specie in materia tributaria), la quale costituisce comunque manifestazione di volontà di proseguire nel giudizio, con implicita riproposizione della domanda principale, specialmente quando tale volontà sia anche chiaramente espressa con l’esplicito rinvio, nelle conclusioni dei motivi di appello, al ricorso introduttivo, non avendo altrimenti alcuna valida e concreta ragione la sola impugnativa della questione preliminare di rito.

9.1.7. Trattazione.

Sez. 6-T, n. 11103/2017, Mocci, Rv. 643971-01, ha spiegato che nel processo tributario, il diritto della parte alla comunicazione dell’avviso di trattazione del giudizio di appello, ex art. 31 del d.lgs. n. 546 del 1992, è condizionato ad un atto di diligenza processuale, rappresentato dalla costituzione in giudizio, la cui omissione, corrispondendo ad una scelta legittima della stessa parte, le impedisce di dolersi della lesione del suo diritto di difesa.

9.1.8. Appello incidentale.

Sez. 6-T, n. 1253/2017, Vella, Rv. 643145-01, ha ritenuto che l’inammissibilità dell’appello principale, determinata dall’omesso o tardivo deposito dell’atto d’impugnazione nella segreteria della commissione tributaria di primo grado, comporta anche quella del gravame incidentale egualmente non depositato, atteso che tale adempimento deve ritenersi imposto anche all’appellante incidentale, ai sensi dell’art. 53, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (nel testo applicabile ratione temporis), in quanto diretto ad evitare il rischio di un’erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza impugnata, mentre, laddove questo rischio non sussista, per essere stato regolarmente depositato l’appello principale, la declaratoria di inammissibilità di quest’ultimo per altre cause (nella specie, per carenza di specificità dei motivi d’impugnazione) non travolge l’appello incidentale ritualmente proposto.

Sez. 6-T, n. 9757/2017, Manzon, Rv. 643804-01, ha reiterato il principio, già sedimentato, secondo cui, ai sensi degli artt. 53 e 54 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, solo l’appello principale, che è l’impugnazione proposta per prima, va notificato alle altre parti per poi essere depositato presso la segreteria della commissione tributaria adita nei trenta giorni successivi, mentre l’appello incidentale, vale a dire l’impugnazione proposta successivamente, va solo depositato insieme alle controdeduzioni.

9.1.9. Procedimento.

Sez. 6-T, n. 22627, Conti, Rv. 646242-01, ha posto in luce che la disposizione di cui all’art. 3-bis, comma 7, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, introdotta dalla legge di conversione 2 dicembre 2005, n. 248, che ha aggiunto, alla fine del comma 2 dell’art. 53 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, la previsione secondo cui, ove il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, l’appellante deve, a pena di inammissibilità, depositare copia dell’appello presso l’ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata, è conforme non solo a Costituzione (come statuito da Corte cost., 1 febbraio 2010, n. 43) ma anche all’art. 6 della CEDU, in quanto norma che regola l’accesso alla tutela giurisdizionale limitatamente alla fase di appello e non a quella di legittimità, ultimo grado del giudizio ove la parte può sempre far valere le proprie difese; parimenti non contrastante con l’art. 6 della CEDU, per il quale il legislatore può legittimamente applicare alle norme di procedura il principio tempus regit actum, è l’art. 36 del d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175, che ha abrogato il detto art. 53, comma 2, con effetto limitato agli appelli spediti in epoca successiva alla sua entrata in vigore.

Di interesse anche Sez. 6-T, n. 1245/2017, Vella, Rv. 642835-01, la quale ha messo in rilievo che nel processo tributario, l’omissione, da parte del giudice adito, dell’ordine, alla parte privata che ne sia priva, di munirsi di difensore, ai sensi dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 546 del 1992, dà luogo ad una nullità relativa, non rilevabile d’ufficio, che, se eccepita, in sede di appello, dalla parte interessata, non determina il rinvio alla commissione provinciale, atteso che l’assistenza tecnica non riguarda i presupposti processuali relativi alle parti né incide sulla regolarità del contraddittorio.

9.2. Il giudizio di cassazione.

Sez. T, n. 16147/2017, Tedesco, Rv. 644703-01, riprendendo un avviso già in precedenza espresso, ha ribadito che in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione nel giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso.

Di interesse anche Sez. T, n. 13595/2017, Carbone, Rv. 644357-01, secondo cui nel processo di cassazione, in presenza di cause, decise separatamente nel merito, relative, rispettivamente, alla rettifica dei redditi di una società di persone ed alla conseguente automatica imputazione di essi a ciascun socio, la riunione “sanante” delle stesse cause, in luogo della declaratoria di nullità dei giudizi per essere stati celebrati senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari (società e soci), non è praticabile nel caso di originaria pretermissione della società o di uno dei soci, atteso che tale pretermissione non è sanabile e vizia alla radice l’intero processo.

Essenziale anche la puntualizzazione resa da Sez. T, n. 12642/2017, Perrino, Rv. 644238-02, a tenore della quale l’art. 38 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, non ha istituito un regime speciale per il processo tributario in ordine all’applicazione del termine lungo di impugnazione, impermeabile alle disposizioni transitorie di cui all’art. 58 della legge 18 giugno 2009, n. 69: tale principio si desume dall’art. 62 del medesimo decreto, che fa espresso riferimento, per la disciplina del giudizio di cassazione in materia tributaria, alle norme del codice di procedura civile, così attribuendo prevalenza alle norme processuali ordinarie ed escludendo l’esistenza di un giudizio “tributario di legittimità”.

Una precisazione pregnante si rinviene in Sez. T, n. 12239/2017, Bielli, Rv. 644128-01, secondo cui, in tema di riscossione mediante ruoli straordinari, l’intervento, nel corso del giudizio di cassazione, di sentenze di appello favorevoli all’Amministrazione finanziaria sull’impugnazione degli avvisi di accertamento posti a base della cartella di pagamento non determina la cessazione della materia del contendere poiché, ai sensi degli artt. 68 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e 18 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, il tributo, gli interessi e le sanzioni vanno riscossi per intero in pendenza di giudizio solo una volta emesse le menzionate sentenze di appello, e non precedentemente, sicché resta in questione, nel giudizio di cassazione, la legittimità dell’emissione del ruolo straordinario e della correlativa cartella di pagamento in data anteriore alle stesse.

Riprende un principio già affermato nella giurisprudenza della S.C., Sez. T, n. 10272/2017, La Torre, Rv. 643930-01, la quale evidenzia che l’esame degli atti del giudizio di merito da parte del giudice di legittimità, ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, sicché, laddove sia denunciata la violazione dell’obbligo di sospendere il processo tributario, a seguito della proposizione di querela di falso contro le relazioni di notificazione degli atti impositivi impugnati, è necessario che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro esatti termini, il testo della querela di falso ed il verbale di udienza relativo al suo deposito davanti al giudice che non ha disposto la sospensione del processo.

Di notevole importanza la specificazione resa da Sez. 6-T, n. 8186/2017, Napolitano, Rv. 643636-01, ad avviso della quale, in tema di contenzioso tributario, l’agente della riscossione soccombente nel giudizio di opposizione a cartella esattoriale, in cui il contribuente abbia denunciato il difetto di regolare notifica degli atti propedeutici da parte dell’ente impositore, è tenuto a contestare con l’appello l’insussistenza dei presupposti della propria soccombenza e la statuizione assunta sulle spese di lite, non potendo introdurre le relative censure, per la prima volta, con il ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa in esito al procedimento di secondo grado nel quale sia rimasto contumace, attesa la sua concorrente legittimazione passiva ed il suo interesse ad impugnare in considerazione della situazione di litisconsorzio processuale.

9.3. La revocazione.

Sez. 6-T, n. 22385/2017, Conti, Rv. 645999-01, ha ritenuto, in linea con un cristallizzato orientamento, che in tema di contenzioso tributario, l’art. 64, comma 1, del d.lgs 31 dicembre 1992, n. 546, nella parte in cui subordina l’ammissibilità della revocazione ordinaria alla non ulteriore impugnabilità della sentenza sul punto dell’accertamento in fatto, non si riferisce all’inoppugnabilità derivante dalla scadenza dei termini per l’impugnazione ma a quella derivante dalle preclusioni relative all’oggetto del giudizio, ovverosia, per le sentenze di secondo grado, all’impossibilità di contestare l’accertamento in fatto in sede di legittimità Ne consegue l’ammissibilità della revocazione ordinaria avverso una sentenza della commissione tributaria regionale inoppugnabile sotto il profilo dell’accertamento in fatto, ancorché non sia ancora scaduto il termine per la proposizione del ricorso per cassazione.

10. La sospensione del processo.

Sez. 6-T, n. 23480/2017, Manzon, Rv. 646407-01, ha posto in evidenza che, in tema di contenzioso tributario, ex art. 49 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, secondo la formulazione vigente ratione temporis, successiva alle modifiche di cui all’art. 9, comma 1, lett. u) del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, allorché l’ipotetica causa pregiudicante penda in grado di appello trova applicazione l’art. 334, comma 2, c.p.c., in forza del quale il giudice ha facoltà di sospendere il processo ove una delle parti invochi l’autorità di una sentenza a sé favorevole e non ancora definitiva. Nella specie, la S.C. ha accolto il regolamento di competenza proposto dall’Agenzia delle entrate contro l’ordinanza con cui la Commissione tributaria regionale aveva sospeso, ex artt. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 295 c.p.c., il processo pendente davanti a sé, relativo all’avviso di recupero di un credito IVA, sul presupposto che tra le stesse parti fosse pendente un altro processo, non ancora definito in appello con sentenza passato in giudicato, inerente alla contestata sussistenza di un credito IVA, recuperato negli anni successivi.

Riafferma un principio edito Sez. T, n. 21765/2017, Caiazzo, Rv. 645619-01, secondo cui la sospensione necessaria del processo, di cui all’art. 295 c.p.c., è applicabile anche al processo tributario, qualora risultino pendenti, davanti a giudici diversi, procedimenti legati tra loro da un rapporto di pregiudizialità, tale che la definizione dell’uno costituisca indispensabile presupposto logico-giuridico dell’altro, nel senso che l’accertamento dell’antecedente venga postulato con effetto di giudicato, in modo che possa astrattamente configurarsi l’ipotesi di conflitto di giudicati. Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione della Commissione tributaria regionale che non aveva disposto la sospensione del processo relativo all’avviso di accertamento avente ad oggetto il recupero del maggior reddito in attesa della definizione del giudizio afferente la rettifica delle perdite, da ritenere pregiudicante.

11. L’estinzione del processo.

Sez. T, n. 21254/2017, De Masi, Rv. 645307-01, chiarisce che, in materia di contenzioso tributario e in applicazione del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, le doglianze avverso il decreto presidenziale che ha pronunciato l’estinzione del giudizio per inattività delle parti devono essere fatte valere con il reclamo previsto dall’art. 45, comma 4, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e non per mezzo del ricorso per cassazione, esperibile solo nei confronti dei provvedimenti giurisdizionali definitivi aventi contenuto decisorio (anche se emessi sotto forma di ordinanza o di decreto), rispetto ai quali non sia previsto uno specifico rimedio impugnatorio.

Sez. T, n. 23165/2017, Iannello, Rv. 645654-01, espone che, in tema di condono fiscale, avverso il provvedimento di estinzione del processo in corso, pronunciato – a seguito della esibizione della dichiarazione integrativa, presentata all’Ufficio erariale, e della documentazione inerente i versamenti effettuati – nelle forme della sentenza, e non dell’ordinanza, come invece previsto dall’art. 34 della l. n. 413 del 1991, l’Amministrazione finanziaria, che ai sensi del citato articolo avrebbe potuto provocare la revoca dell’ordinanza di estinzione, non ha altro rimedio che quello impugnatorio per far valere l’inapplicabilità (ovvero l’applicabilità a condizioni diverse) del condono, così investendo il giudice del gravame – per effetto dell’impugnazione, che esprime la volontà di proseguire il giudizio – della decisione sul merito della vertenza. Nella specie, la S.C., rigettando il ricorso, ha confermato la sentenza di merito che aveva accolto l’impugnazione dell’Amministrazione fiscale, ritenendo erroneo che l’estinzione del giudizio fosse stata pronunciata con sentenza anziché con ordinanza ed aveva, quindi deciso nel merito la controversia.

Sez. T, n. 21254/2017, De Masi, Rv. 645307-01, rileva che, in applicazione del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, le doglianze avverso il decreto presidenziale che ha pronunciato l’estinzione del giudizio per inattività delle parti devono essere fatte valere con il reclamo previsto dall’art. 45, comma 4, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e non per mezzo del ricorso per cassazione, esperibile solo nei confronti dei provvedimenti giurisdizionali definitivi aventi contenuto decisorio (anche se emessi sotto forma di ordinanza o di decreto), rispetto ai quali non sia previsto uno specifico rimedio impugnatorio.

Sez. 6-T, n. 9753/2017, Manzon, Rv. 643803-01, ha ribadito il principio secondo cui la causa di estinzione del giudizio prevista dall’art. 46 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per cessazione della materia del contendere, in conseguenza dell’annullamento in via di autotutela dell’atto recante la pretesa fiscale, prevale sulle cause di inammissibilità del ricorso per cassazione e va dichiarata con sentenza che operi alla stregua di cassazione senza rinvio, in quanto l’avvenuta composizione della controversia, per il venir meno di ragioni di contrasto fra le parti, impone la rimozione delle sentenze emesse non più attuali, perché inidonee a regolare il rapporto fra le parti.

Riproduttiva di un avviso già in precedenza espresso è anche Sez. 6-T, n. 3950/2017, Crucitti, Rv. 643203-01, secondo cui nell’ipotesi di estinzione del giudizio ex art. 46, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, per cessazione della materia del contendere determinata dall’annullamento in autotutela dell’atto impugnato, può essere disposta la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 15, comma 1, del medesimo d.lgs., purchè intervenuta all’esito di una valutazione complessiva della lite da parte del giudice tributario, trattandosi di una ipotesi diversa dalla compensazione ope legis prevista dal comma 3 dell’articolo citato, quale conseguenza automatica di qualsiasi estinzione del giudizio, dichiarata costituzionalmente illegittima da Corte cost., 12 luglio 2005, n. 274.

12. Il giudicato.

Sez. T, n. 25906/2017, Venegoni, Rv. 646160-01, ha evidenziato che il giudicato interno preclude la rilevabilità d’ufficio delle relative questioni solo se espresso, cioè formatosi su rapporti tra “questioni di merito” dedotte in giudizio e, dunque, tra le plurime domande od eccezioni di merito, e non quando implicito, cioè formatosi sui rapporti tra “questioni di merito” e “questioni pregiudiziali” o “preliminari di rito o merito” sulle quali il giudice non abbia pronunziato esplicitamente, sussistendo tra esse una mera presupposizione logico-giuridica. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto esente da critiche la rilevazione d’ufficio del difetto di legittimazione ad agire, in quanto in rapporto di mera presupposizione logico-giuridica con il merito, nonostante il dedotto giudicato interno.

Sez. 6-T, n. 25798/2017, Manzon, Rv. 646416-01, ha chiarito, mutuando un assiso già espresso, che, nel processo tributario, il principio ritraibile dall’art. 2909 c.c. – secondo cui il giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa, entro i limiti oggettivi dati dai suoi elementi costitutivi, ovvero della causa petendi, intesa come titolo dell’azione proposta, e del bene della vita che ne forma l’oggetto (petitum mediato), a prescindere dal tipo di sentenza adottata (petitum immediato) – è applicabile anche nel caso in cui gli atti tributari impugnati in due giudizi siano diversi (nella specie, un diniego di condono ed un avviso di accertamento relativo ad una delle annualità oggetto della richiesta di condono), purchè sia identico l’oggetto del giudizio medesimo, riferito al rapporto tributario sottostante.

Sez. T, n. 24531/2017, Locatelli, Rv. 645913-01, ha affermato, in continuità con un orientamento sedimentato, che il giudicato cosiddetto esterno, utilizzabile nel processo tributario per la sua capacità espansiva anche nei casi in cui può incidere su elementi riguardanti più periodi di imposta, può essere dedotto e provato anche per la prima volta in sede di legittimità, purché, però, esso si sia formato dopo la conclusione del giudizio di merito o dopo il deposito del ricorso per cassazione.

Sez. T, n. 21395/2017, Virgilio, Rv. 645616-01, sempre in tema di giudicato esterno, evidenzia che il relativo effetto vincolante, in relazione alle imposte periodiche, deve essere riconosciuto nei casi in cui vengano in esame fatti che, per legge, hanno efficacia permanente o pluriennale, producendo effetti per un arco di tempo che comprende più periodi di imposta, o nei quali l’accertamento concerne la qualificazione di un rapporto ad esecuzione prolungata.

Sez. T, n. 15690/2017, Fasano, Rv. 644697-01, spiega, dal canto suo, riprendendo un orientamento consolidato, che in tema di opponibilità del giudicato esterno in materia tributaria, se un’unica imposta viene frazionata in più anni, il giudicato relativo ad una annualità coinvolge anche le altre, perché la questione è identica in tutti i suoi aspetti, divergendo solo le modalità temporali d’imputazione; laddove, invece, da un’unica fonte scaturiscano poste attive o passive differenti anno per anno, il giudicato coinvolge soltanto quella specifica annualità che costituisca oggetto del giudizio, e non si riflette sulle altre, articolandosi in maniera diversa gli elementi di fatto, ed essendo identica solo la questione giuridica che consente di risolvere il caso concreto.

Sez. T, n. 5403/2017, Sabato, Rv. 643295-01, ha chiarito, in tema di IVA, che quand’anche sia intervenuto il giudicato nella controversia relativa al tributo dovuto per la cessione di un immobile, l’accertamento della nullità della cessione, dichiarata in diverso giudizio ed inter alios rispetto alla Agenzia, costituisce un fatto sopravvenuto che, pur tenendo conto dei limiti oggettivi e soggettivi del giudicato, desunti dagli elementi identificativi dell’azione, ha effetti riflessi sulla pretesa tributaria dipendente dalla situazione definita nel distinto giudizio, sicché, in caso di istanza di rimborso dell’IVA avanzata dal contribuente, il fatto sopravvenuto – idoneo a mutare il contenuto materiale del rapporto d’imposta e non coperto dal giudicato tributario, perché non compreso nelle questioni da questo dedotte e deducibili – è idoneo ad introdurre una nuova controversia, sul medesimo oggetto ma con nuove ragioni, anche alla luce del sottosistema relativo all’IVA, che, ai sensi dell’art. 26, comma 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, prevede la variazione dell’imponibile e dell’imposta per elementi sopraggiunti che agiscano retroattivamente sul rapporto d’imposta.

Sez. 6-T, n. 16262/2017, Manzon, Rv. 644927-01, ha significativamente confermato il principio per cui, in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dall’art. 7, comma 4, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario.

13. Il giudizio di ottemperanza.

Sez. T, n. 22877/2017, La Torre, Rv. 645646-01, ha ritenuto che l’ordinanza con cui, ai sensi dell’art. 70, comma 8, del d.lgs. n. 546 del 1992, si dichiara chiuso il procedimento di ottemperanza assume contenuto decisorio ed è suscettibile di ricorso straordinario per cassazione, per violazione di legge, ex art. 111 Cost., qualora, senza limitarsi alla mera presa d’atto dell’avvenuta esecuzione dei provvedimenti emessi con la sentenza che ha precedentemente pronunciato sulla richiesta di ottemperanza, per converso contenga un giudizio sulla correttezza dell’operato del commissario ad acta nell’interpretazione e nell’attuazione del decisum.

Di interesse si mostra anche Sez. T, n. 16086/2017, Locatelli, Rv. 644699-01, che, sempre in tema di giudizio di ottemperanza nel processo tributario, evidenzia che l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 70, comma 8, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, costituisce un provvedimento a contenuto meramente ordinatorio, che si limita a dichiarare chiuso il procedimento, una volta preso atto dell’avvenuta esecuzione dei provvedimenti emessi con la sentenza che ha precedentemente pronunciato sulla richiesta di ottemperanza, ex art. 70, comma 7, del citato decreto, e di quelli eventualmente adottati nella successiva fase esecutiva, sicché essa, di regola, non è impugnabile per difetto di contenuto decisorio, come si desume dall’art. 70, comma 10, del d.lgs. n. 546 del 1992, che limita l’esperibilità del ricorso per cassazione (per inosservanza delle norme sul procedimento) alla sola sentenza emessa ai sensi del comma 7 del medesimo articolo. Tuttavia, qualora la stessa ordinanza assuma un contenuto decisorio e definitivo, contro di essa è proponibile ricorso straordinario per cassazione, per violazione di legge, ex art. 111 Cost., in applicazione del principio secondo cui ogni provvedimento giudiziario, ancorché emesso in forma di ordinanza o di decreto, che abbia carattere decisorio e definitivo, può essere oggetto di ricorso alla stregua della citata disposizione costituzionale.

  • magistrato
  • notaio
  • procedura disciplinare
  • responsabilità
  • avvocato

CAPITOLO XLV

I PROCEDIMENTI DISCIPLINARI

(di Gianluca Grasso )

Sommario

1 Premessa. - 2 La responsabilità disciplinare dei magistrati. - 2.1 Gli illeciti disciplinari. - 2.1.1 I comportamenti che, violando i doveri di diligenza e di rispetto della dignità della persona, arrecano un ingiusto danno o un indebito vantaggio a una delle parti. - 2.1.2 La ritardata scarcerazione. - 2.1.3 I comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario. - 2.1.4 L’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria. - 2.1.5 La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. - 2.1.6 Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi al- l’esercizio delle funzioni. - 2.1.7 La violazione del dovere di riservatezza. - 2.1.8 Gli illeciti disciplinari conseguenti a reato. - 2.1.9 La condotta disciplinare irrilevante. - 2.2 La sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio. - 2.3 Il procedimento disciplinare. - 2.3.1 Termine per l’esercizio dell’azione disciplinare. - 2.3.2 Incompatibilità dei componenti della sezione disciplinare del C.S.M. - 2.3.3 Il regime delle impugnazioni. - 2.3.4 Ricusazione. - 2.3.5 Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale. - 2.3.6 Irrogazione della sanzione della rimozione in altro procedimento disciplinare e cessazione della materia del contendere. - 3 La responsabilità disciplinare degli avvocati. - 3.1 Gli illeciti disciplinari. - 3.2 Il procedimento disciplinare. - 3.2.1 La sospensione cautelare. - 3.2.2 Il ricorso al Consiglio Nazionale Forense. - 3.2.3 Il ricorso per cassazione. - 3.2.4 Il nuovo codice deontologico e il principio del favor rei. - 4 La responsabilità disciplinare dei notai. - 4.1 Gli illeciti disciplinari.

1. Premessa.

La rassegna sulla responsabilità disciplinare racchiude le pronunce rese in tale ambito dalla S.C. nei riguardi dei magistrati, degli avvocati e dei notai.

2. La responsabilità disciplinare dei magistrati.

Sul tema della responsabilità disciplinare degli appartenenti all’ordine giudiziario, le pronunce delle Sezioni Unite hanno riguardato talune ipotesi di illecito e diversi profili processuali. Specifica trattazione ha interessato anche la fattispecie della sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio.

2.1. Gli illeciti disciplinari.

Sugli illeciti disciplinari, la S.C. è intervenuta su diverse ipotesi di illecito che discendono dall’esercizio delle funzioni, con particolare riguardo alla violazione dei doveri di diligenza, ai comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, all’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria, alla grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile, al reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni, alla violazione del dovere di riservatezza. Diverse pronunce hanno affrontato i presupposti per l’applicazione dell’esimente della scarsa rilevanza del fatto.

2.1.1. I comportamenti che, violando i doveri di diligenza e di rispetto della dignità della persona, arrecano un ingiusto danno o un indebito vantaggio a una delle parti.

Con riferimento all’ipotesi della liquidazione di compensi a consulenti tecnici d’ufficio in misura non conforme alla normativa vigente, o comunque in violazione dei massimi consentiti, Sez. U, n. 14550/2017, Di Virgilio, Rv. 644568-02 ha ritenuto del tutto irrilevante – al fine di escludere la gravità del “danno ingiusto” per la parte che ha sopportato il relativo onere economico e, dunque, la sussistenza dell’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 – la circostanza che nessuna delle parti abbia impugnato i provvedimenti di liquidazione. La norma, infatti, richiede la presenza del danno come elemento obiettivo e non come percepito dalla parte.

Nella specie, la S.C. ha censurato la pronuncia del giudice disciplinare che, in contrasto con il disposto normativo, aveva invece dato per presupposta la valenza soggettiva del danno ingiusto, rilevando che le parti non avevano impugnato i provvedimenti di liquidazione, né chiesto la revoca o dedotto a motivo di doglianza l’entità delle liquidazioni e che gli importi liquidati non differivano macroscopicamente da quelli liquidabili secondo il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, così da costituire di per sé un danno rilevante. Il riferimento alla “non macroscopica” divergenza tra quanto liquidato nei casi indicati e quanto liquidabile normativamente, secondo la Corte, potrebbe, eventualmente, rilevare sotto il diverso profilo della scarsa rilevanza del fatto.

L’attribuzione di un indebito vantaggio all’indagato è stato escluso con riferimento alla condotta del pubblico ministero che aveva rassicurato il difensore di una parte privata circa i tempi rapidi di chiusura delle indagini, avendo ritenuto la S.C. che non si trattasse di divulgazione preferenziale di una strategia investigativa, ma di conferma dell’osservanza del dovere funzionale di svolgere e di concludere in un tempo ragionevole le indagini necessarie per le determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale (Sez. U, n. 10415/2017, Giusti, Rv. 644045-04).

2.1.2. La ritardata scarcerazione.

In caso di ritardata scarcerazione di imputati detenuti, per decorrenza dei termini di durata della misura della custodia cautelare, la responsabilità disciplinare (art. 1 e 2, comma 1, lett. a) e g), del d.lgs. n. 109 del 2006) del presidente del collegio e del relatore non viene meno per il solo fatto dell’esistenza di un concorrente obbligo di vigilanza del P.M. o di carenti risorse organizzative dell’ufficio giudiziario di appartenenza (Sez. U, n. 10794/2017, Manna, Rv. 644046-01). Secondo l’apprezzamento compiuto dalla S.C., il presidente del collegio e il relatore sono i magistrati che hanno la concreta disponibilità del fascicolo relativo alle misure cautelari e tale disponibilità non è esclusa per il sol fatto di giacere in cancelleria in attesa delle eventuali impugnazioni e della trasmissione al giudice del grado successivo.

Sez. U, n. 8896/2017, Bronzini, Rv. 643776-01 ha confermato che l’omesso controllo sulla scadenza del termine di durata della misura cautelare applicata all’indagato integra l’illecito disciplinare di cui agli artt. 1 e 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 109 del 2006, potendo l’incolpato esonerarsi da responsabilità solo in presenza di impedimenti gravissimi, che gli abbiano precluso di assolvere il dovere di garantire il diritto costituzionale alla libertà personale dei soggetti sottoposti a custodia cautelare. Sotto tale profilo, né la laboriosità o la capacità del magistrato incolpato, né le particolari condizioni lavorative gravose e/o strutturalmente disorganizzate dell’ufficio di appartenenza costituiscono circostanze eccezionali, tali da rendere inesigibile una condotta diversa dal magistrato incolpato.

In applicazione di tale principio, la S.C. ha respinto l’impugnazione avverso la pronuncia di condanna della sezione disciplinare del C.S.M. che aveva riconosciuto la responsabilità di un giudice per le indagini preliminari in relazione al protrarsi, per oltre sette mesi, di un’illegittima detenzione carceraria, essendosi escluso che la mera enumerazione del numero dei provvedimenti adottati dal magistrato e un richiamo generico alle statistiche comparative fossero idonei a provare la sussistenza di una situazione di inesigibilità della condotta contestata.

Ai fini del diniego dell’esimente della scarsa rilevanza del fatto, con riferimento all’ipotesi del ritardo nella scarcerazione, Sez. U, n. 17327/2017, De Chiara, Rv. 644922-01 ha ritenuto congrua la motivazione della sezione disciplinare che ha attribuito valore assorbente alla circostanza che, in conseguenza dell’illecito del magistrato, l’incolpato era stato privato della libertà personale per un rilevante lasso di tempo.

2.1.3. I comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario.

Riguardo all’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006 sui comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, Sez. U, n. 10415/2017, Giusti, Rv. 644045-05 ha specificato che la fattispecie, caratterizzata da una norma elastica, impone al giudice di operare una valutazione sulla gravità, o meno, dell’inosservanza dell’obbligo di correttezza. L’anticipazione circa il prevedibile rigetto di un’istanza presentata dal legale, a causa dell’orientamento dei colleghi del suo ufficio, data da un P.M. al difensore di una parte privata, pur costituendo comportamento scorretto nei loro confronti, non si sottrae alla necessità di tale ulteriore valutazione.

La S.C. ha così confermato la pronuncia disciplinare che aveva escluso la gravità della scorrettezza consistita nell’informare, in termini non idonei a compromettere l’unitarietà funzionale dell’ufficio di Procura, il legale di soggetti indagati in ordine alla probabile reiezione dell’istanza dallo stesso presentata volta a rendere ostensibile un documento – nella specie una consulenza di parte – della cui esistenza aveva già dato notizia un periodico settimanale.

Sez. U, n. 6965/2017, Petitti, Rv. 643285-01 ha escluso che le espressioni sconvenienti rivolte in incertam personam su un blog internet attinente ai temi della giustizia possa integrare l’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, il quale postula che la condotta disciplinarmente rilevante sia posta in essere nell’esercizio delle funzioni. La manifestazione del pensiero di un magistrato costituisce espressione di una libertà costituzionale che rimane tale e non diventa esercizio di funzione giurisdizionale, anche allorquando abbia a oggetto opinioni relative a temi che attengono all’organizzazione di un ufficio giudiziario e il suo funzionamento, purché la condotta, attraverso riferimenti individualizzati, non integri il delitto di ingiuria di cui all’art. 595 c.p. e l’illecito di cui all’art. 4, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006.

Alla libertà di manifestazione del pensiero costituzionalmente garantita anche al magistrato, pur temperata in relazione agli specifici doveri incombenti su di esso, ha fatto riferimento anche Sez. U, n. 24969/2017, De Stefano, Rv. 645915-01 nell’escludere che possa costituire una grave scorrettezza, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, il comportamento del magistrato del pubblico ministero che, nel corso di una conversazione privata e confidenziale con un altro interlocutore (nella specie un giornalista intercettato per la captazione dell’utenza di quest’ultimo nell’ambito di un procedimento penale), abbia usato espressioni di non condivisione di una disposizione organizzativa del procuratore capo e, più in generale, di prassi ritenute proprie anche degli uffici superiori, se e in quanto la critica si sia manifestata con toni oggettivamente non offensivi, né derisori.

2.1.4. L’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria.

Con riferimento all’ipotesi dell’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria (art. 2, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 109 del 2006), Sez. U, n. 22858/2017, Di Virgilio, Rv. 645467-01 ha confermato la natura di pericolo e non di evento dell’illecito, ritenendo che sia sufficiente l’astratta idoneità del comportamento addebitato a influire sul corretto svolgimento della decisione che il destinatario è chiamato ad assumere, avuto riguardo al modello del magistrato medio. Si è escluso, pertanto, che possa rilevare, in funzione scriminante, la percezione della gravità dell’interferenza da parte del destinatario o la manifestazione esterna di detta percezione a mezzo di specifici comportamenti.

Il ricorso nella norma all’espressione «ingiustificata interferenza» vale a individuare tutte quelle forme di condizionamento, anche indirette e allusive, che, in una valutazione ex ante, si palesino idonee a influire sulla indipendenza del giudice, dato che la ratio della previsione dell’illecito in oggetto è nella tutela della soggezione del magistrato solo alla legge e dell’indipendenza dello stesso.

2.1.5. La grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile.

Sez. U, n. 8247/2017, Chindemi, Rv. 643559-01 ha escluso la grave violazione di legge dovuta a negligenza inescusabile nella condotta del presidente di corte di assise il quale aveva omesso di verificare la partecipazione alla deliberazione della sentenza di due giudici popolari che erano stati assenti a due udienze dibattimentali, e sostituiti da altrettanti giudici popolari aggregati, nel caso in cui – a conclusione del dibattimento – era stata disposta rinnovazione mediante lettura, alla quale avevano prestato acquiescenza i difensori delle parti, di atti disposti dal collegio in composizione diversa da quella che aveva poi deliberato la sentenza. Tale circostanza, secondo la S.C., è idonea a garantire l’osservanza del principio dell’immutabilità del giudice.

2.1.6. Il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi al- l’esercizio delle funzioni.

In tema di ritardo ultrannuale nel deposito di provvedimenti ex art. 2, lett. q), del d.lgs. n. 109 del 2006 e scusabilità della condotta, la S.C. ha ritenuto che ricorre l’esimente della giustificabilità del ritardo reiterato ove l’attività lavorativa dell’incolpato risulti inesigibile con riferimento alla gravosità del complessivo carico di lavoro, alla qualità dei procedimenti trattati e definiti, agli indici di laboriosità e operosità comparati con quelli degli altri magistrati dell’ufficio, nonché allo sforzo profuso per l’abbattimento dell’arretrato, anche in relazione alla sussistenza ed entità di impegni aggiuntivi di tipo amministrativo od organizzativo (Sez. U, n. 21624/2017, Barreca, Rv. 645656-01).

La S.C., nella specie, ha confermato l’assoluzione dall’incolpazione per plurimi ritardi ultrannuali nel deposito di provvedimenti relativi a richieste di archiviazione e decreti penali di condanna, determinati dal sovraccarico del ruolo del magistrato al momento dell’immissione in possesso. Secondo l’apprezzamento compiuto, la sezione disciplinare aveva congruamente motivato in ordine alla gravità della situazione complessiva dell’ufficio giudiziario per sopravvenienze e pendenze, all’adeguatezza della scelta organizzativa dell’incolpato di trattare prioritariamente i procedimenti ordinari e urgenti, agli indici di laboriosità comparata ed all’abbattimento dell’arretrato nonostante l’esonero totale dal lavoro fruito per l’incarico di componente di commissione di concorso.

Secondo Sez. U, n. 4096/2017, Ragonesi, Rv. 642539-01 la sussistenza della fattispecie prevista dall’art. 2, comma 1, lett. q), del d.lgs. n. 109 del 2006 può essere esclusa solo in presenza di circostanze del tutto eccezionali, tra le quali non rientra una “buona” laboriosità, che il magistrato deve comunque assicurare.

2.1.7. La violazione del dovere di riservatezza.

Sez. U, n. 10415/2017, Giusti, Rv. 644045-02 ha ritenuto integrare l’illecito disciplinare di cui all’art. art. 2, comma 1, lett. u), del d.lgs. n. 109 del 2006, la condotta di un P.M. che, nell’ambito di un procedimento penale per reati contro la P.A. ipotizzati a carico di taluni consiglieri regionali, aveva rivelato al difensore di alcuni indagati, appartenenti a uno dei gruppi consiliari circostanze relative allo sviluppo dell’indagine, con particolare riferimento al coinvolgimento di esponenti di quello stesso gruppo o di altri. Secondo l’apprezzamento compiuto, il magistrato aveva violato il dovere di riserbo, ponendo in essere una condotta potenzialmente idonea a ledere i diritti delle altre persone coinvolte nel procedimento e l’immagine dei partiti politici di appartenenza.

2.1.8. Gli illeciti disciplinari conseguenti a reato.

Con riferimento all’illecito disciplinare costituente reato di cui all’art. 4, comma 1, lett. d), Sez. U, n. 18987/2017, Petitti, Rv. 645132-02 ha specificato che non assume alcun rilievo, quale elemento sintomatico, la mancata percezione dell’offesa da parte della vittima del reato. In questa ipotesi di illecito, infatti, il bene giuridico protetto attraverso la previsione è l’immagine del magistrato.

Nella fattispecie, avendo riguardo al reato ipotizzato di diffamazione a carico del magistrato incolpato, nell’annullare con rinvio una sentenza di proscioglimento, la S.C. ha ritenuto non sufficiente il rilievo che la persona offesa dal reato non avesse percepito come offensive le frasi rivolte al proprio indirizzo, essendo stato, così, disatteso anche il principio secondo cui, ai fini della sussistenza del reato in oggetto, ciò che rileva è l’uso di parole socialmente interpretabili come offensive.

La Corte ha inoltre ritenuto che l’entrata in vigore dell’art. 131-bis c.p. sulla particolare tenuità, che per i reati assoggettati a pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni esclude la punibilità, allorché il giudice accerti che l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento non risulti abituale, consenta l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, anche ove il fatto disciplinarmente rilevante contestato sia costituito dalla commissione di un reato (Sez. U, n. 18987/2017, Petitti, Rv. 645132-01).

È stato peraltro escluso che l’utilizzo di espressioni sconvenienti rivolte in incertam personam, usate in occasione di un intervento a un forum di discussione su un blog internet, integri l’illecito di cui all’art. 4, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, che sanziona qualunque fatto costituente reato idoneo a ledere l’immagine del magistrato anche se il reato è estinto per qualsiasi causa o l’azione penale non può essere iniziata o proseguita (Sez. U, n. 6965/2017, Petitti, Rv. 643285-01). La fattispecie, infatti, postula che la condotta disciplinarmente rilevante costituisca reato, mentre l’inesistenza di un destinatario identificato o identificabile impedisce di ricondurre tali espressioni al reato di diffamazione.

2.1.9. La condotta disciplinare irrilevante.

Sull’esimente della scarsa rilevanza del fatto, è stato confermato l’indirizzo secondo cui la fattispecie si applica – sia per il suo tenore letterale che per la sua collocazione sistematica – a tutte le ipotesi di illecito disciplinare, allorché la fattispecie tipica sia stata realizzata ma il fatto, per particolari circostanze anche non riferibili all’incolpato, non risulti in concreto capace di ledere il bene giuridico tutelato (Sez. U, n. 17327/2017, De Chiara, Rv. 644922-01). Tale valutazione costituisce compito esclusivo della sezione disciplinare del C.S.M. ed è soggetta a sindacato di legittimità soltanto ove viziata da un errore di impostazione.

L’accertamento di una condotta disciplinarmente irrilevante, in applicazione dell’esimente di cui all’art. 3-bis, che, riguardata ex post e in concreto, non comprometta l’immagine del magistrato, deve compiersi senza sovvertire il principio di tipizzazione degli illeciti disciplinari, non potendo ritenersi che la violazione di legge addebitata al magistrato sia di “scarsa rilevanza” per il sol fatto che questi continui a essere circondato da prestigio e fiducia nel prosieguo della sua vita professionale (Sez. U, n. 13911/2017, D’Ascola, Rv. 644554-01). La S.C. ha così ritenuto adeguatamente motivata la decisione della sezione disciplinare che aveva negato l’operatività dell’esimente in relazione al comportamento di un magistrato che aveva provveduto, in assenza di deliberazione collegiale, alla liquidazione dei compensi dovuti sia a commissari giudiziali di procedure di concordato preventivo sia a curatori fallimentari, escludendo la scarsa rilevanza del fatto sul duplice rilievo che la violazione della regola della collegialità sia da considerare «negazione della natura stessa della funzione giurisdizionale» e che, nella specie, avesse riguardato provvedimenti di importo «talmente rilevante da capitare assai raramente nell’arco della carriera professionale» di un magistrato.

In relazione all’illecito disciplinare di cui agli artt. 1 e 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 109 del 2006, commesso dal magistrato che ometta di effettuare il doveroso controllo sulla scadenza del termine di durata della misura cautelare personale della custodia in carcere, Sez. U, n. 8896/2017, Bronzini, Rv. 643776-02 ha escluso che la circostanza che l’imputato risulti destinatario, a conclusione del giudizio, di una pena detentiva di durata superiore alla custodia cautelare illegittimamente presofferta, possa essere apprezzata ai fini del riconoscimento dell’esimente costituita dalla scarsa rilevanza del fatto. Non viene infatti meno il danno ingiusto subito dall’imputato, consistente nella lesione del diritto, costituzionalmente garantitogli, a non subire limitazioni della libertà personale, prima dell’accertamento della propria responsabilità, se non nei limiti stabiliti dalla legge.

2.2. La sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio.

Sulla possibilità riconosciuta alla sezione disciplinare del C.S.M. di disporre, nell’infliggere una sanzione diversa dall’ammonimento e dalla rimozione, il trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando, per la condotta tenuta, la permanenza nella stessa sede o nello stesso ufficio appare in contrasto con il buon andamento dell’amministrazione della giustizia, Sez. U, n. 17551/2017, Bronzini, Rv. 644923-01 ha chiarito che l’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006 deve essere interpretato nel senso di prevedere entrambe le misure, senza escluderne il cumulo. La ratio della norma non è infatti quella di sanzionare ulteriormente il magistrato, ma di impedire che il contesto ambientale in cui esso opera, rispetto al quale sono rilevanti sia la sede che le funzioni svolte, determini ulteriori violazioni disciplinari lesive del buon andamento della giustizia, tutelando, pertanto, un interesse pubblico riconducibile all’art. 97 Cost. e al titolo IV Cost.

L’applicazione della sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio, salvo il necessario presupposto rappresentato dall’irrogazione di una sanzione principale diversa dall’ammonimento e dalla rimozione, è rimessa a un apprezzamento di fatto della sezione disciplinare, non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Sez. U, n. 10415/2017, Giusti, Rv. 644045-06).

Sez. U, n. 1546/2017, Petitti, Rv. 642005-01 ha ritenuto illegittima la destinazione a una corte di appello, con funzioni di consigliere, del procuratore aggiunto presso la Direzione Nazionale Antimafia in applicazione della sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio, operata in sede di rinvio ai sensi dell’art. 384 c.p.c., in violazione del principio di diritto enunciato in fase rescindente, che precludeva che potesse essere posta in discussione l’assegnazione al magistrato di funzioni semidirettive.

La Corte ha escluso che costituisca un’evenienza sopravvenuta, tale da rimettere in discussione il principio di diritto enunciato, l’entrata in vigore della legge 17 aprile 2015, n. 43, di conversione del decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7-bis, che ha inserito nel d.lgs. n. 109 del 2006, art. 10, il comma 7-bis, a tenore del quale «le funzioni semidirettive requirenti di coordinamento nazionale sono quelle di procuratore nazionale aggiunto», accompagnata da una previsione di carattere transitorio. Venendo a esistenza le sentenze civili con la pubblicazione, il giudice può e deve tenere conto delle sopravvenienze normative successive all’udienza ed entrate in vigore sino alla data della pubblicazione della sentenza, delle quali non può invece tenere conto il giudice del rinvio. Nella specie, l’udienza delle Sezioni Unite era stata tenuta il 6 ottobre 2015 mentre la sentenza è stata pubblicata il 9 dicembre 2015, sicché è stato ritenuto che della sopravvenienza il collegio che ha deliberato la sentenza rescindente ha certamente tenuto conto.

La pronuncia ha altresì escluso che potesse integrare un’eccezione al suddetto vincolo l’esercizio della cd. funzione paranormativa consiliare riguardo al conferimento degli incarichi direttivi, trattandosi di autoregolamentazione subordinata alle disposizioni normative fatte proprie dal medesimo principio di diritto.

2.3. Il procedimento disciplinare.

Riguardo ai profili procedimentali, si segnalano le questioni del termine per l’esercizio dell’azione disciplinare, dell’incompatibilità dei componenti della sezione disciplinare del C.S.M. e del regime delle impugnazioni.

2.3.1. Termine per l’esercizio dell’azione disciplinare.

Sul termine annuale per l’esercizio dell’azione disciplinare da parte del Procuratore generale presso la Corte di cassazione (art. 15 del d.lgs. n. 109 del 2006), Sez. U, n. 14551/2017, Giusti, Rv. 644569-01, ha confermato che esso decorre dalla conoscenza della notizia del fatto di rilievo disciplinare che il Procuratore generale acquisisca a seguito dell’espletamento di sommarie indagini preliminari, di una denuncia circostanziata, o di una segnalazione del Ministro della Giustizia, mentre non attribuisce rilevanza al momento in cui di tale fatto siano venuti a conoscenza gli organi tenuti a darne comunicazione al medesimo, ai sensi dell’art. 14, comma 4, del d.lgs. n. 109 del 2006. Tale evenienza, infatti, non determina quella conoscenza, neanche materiale oltre che giuridica, degli stessi fatti anche per il titolare dell’azione disciplinare, e il rilievo disciplinare può essere stabilito unicamente dal titolare del relativo potere, essendo tale apprezzamento il risultato di un giudizio a lui riservato e non ad altri, diverso e ben più pregnante rispetto a quello concernente la rilevanza dello stesso fatto ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di comunicazione.

Riguardo al presupposto dell’acquisizione di una notizia circostanziata di un illecito disciplinare, ovvero della conoscenza certa di tutti gli elementi costitutivi dello stesso, da ritenersi di norma acquisita, nel caso in cui la notizia dell’illecito emerga all’esito di ispezione ministeriale, solo con il deposito della relazione ispettiva, è stato escluso (Sez. U, n. 14430/2017, Cirillo E., Rv. 644565-01) che la decadenza dall’azione potesse ritenersi maturata per il fatto che, con nota comunicata dall’ufficio giudiziario di appartenenza del magistrato incolpato all’ispettorato del Ministero della giustizia oltre un anno prima dell’atto di promovimento dell’azione disciplinare, fossero allo stesso resi noti i ritardi in cui il magistrato era incorso nel deposito delle 175 sentenze poi oggetto di incolpazione. La S.C. ha attribuito rilievo sia al fatto che la nota costituiva soltanto un atto interlocutorio di parziale ricognizione istruttoria, contenente i dati dei ritardi nel deposito delle sentenze di tutti i giudici di quel tribunale, sia alla circostanza che in esso mancava ogni riferimento alle 474 ordinanze depositate in ritardo, oggetto anch’esse di addebito elevato a carico dell’interessato (illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. q), del d.lgs. n. 109 del 2006).

2.3.2. Incompatibilità dei componenti della sezione disciplinare del C.S.M.

Sulla dedotta incompatibilità dei componenti della sezione disciplinare del C.S.M. che abbiano adottato il provvedimento applicativo di una misura cautelare nel corso delle indagini, Sez. U, n. 10415/2017, Giusti, Rv. 644045-01, ha confermato che non sussiste incompatibilità a partecipare al successivo giudizio, in quanto il procedimento disciplinare nei confronti di magistrati ha natura eminentemente “monofasica”, e in tutto il suo corso i provvedimenti giurisdizionali sono attribuiti alla competenza di quello stesso unico organo che deve pronunciare la decisione conclusiva.

2.3.3. Il regime delle impugnazioni.

Sul regime delle impugnazioni è stato ribadito che, secondo il disposto dell’art. 24 del d.lgs. n. 109 del 2006, risulta caratterizzato dall’applicazione delle norme processuali penali solo quanto alla fase introduttiva del giudizio (Sez. U, n. 14550/2017, Di Virgilio, Rv. 644568-01). Il ricorso per cassazione avverso la sentenza della sezione disciplinare è dunque assoggettamento al principio di tipicità dei motivi di ricorso, il quale esige una duplice specificità del motivo proposto, onerando il ricorrente di argomentare la sussunzione della censura formulata nella specifica previsione normativa alla stregua della tipologia dei motivi di ricorso tassativamente stabiliti dalla legge (Sez. U, n. 14430/2017, Cirillo E., Rv. 644565-02).

Lo svolgimento del giudizio è invece regolato dalle norme processuali civili, con facoltà per le parti di partecipare alla discussione nell’udienza pubblica ex art. 379 c.p.c., di presentare memorie, ai sensi dell’art. 378 c.p.c., fino a cinque giorni prima della stessa, della cui fissazione ciascuna ha diritto a ricevere comunicazione, anche quando non abbia potuto presentare il controricorso (Sez. U, n. 14550 del 12/06/2017, Di Virgilio, Rv. 644568-01).

Riguardo ai motivi di ricorso per cassazione, la denuncia del vizio di manifesta illogicità della decisione, in cui sarebbe incorsa la sezione disciplinare del C.S.M., può sollecitare la S.C. esclusivamente a verificare se il giudice di merito abbia esaminato gli elementi e le deduzioni posti a sua disposizione e abbia fatto corretto uso di regole logiche, massime di esperienza e criteri legali di valutazione, così da offrire razionale spiegazione dell’opzione decisionale fatta rispetto alle diverse tesi difensive, restando preclusa la possibilità di opporre alla valutazione dei fatti contenuta nella decisione una diversa loro ricostruzione (Sez. U, n. 14430/2017, Cirillo E., Rv. 644565-03).

Sulla modificazione del fatto, dalla quale scaturisce la mancanza di correlazione tra l’addebito contestato e quello diverso ritenuto in sentenza, è stato specificato che ciò avviene soltanto quando venga operata una trasformazione o sostituzione degli elementi costitutivi dell’addebito, ma non quando gli elementi essenziali della contestazione formale restano immutati nel passaggio dalla contestazione all’accertamento dell’illecito, variando solo elementi secondari e di contorno, ovvero quando ai primi si aggiungono altri elementi sui quali l’incolpato abbia comunque avuto modo di difendersi nel procedimento (Sez. U, n. 10415/2017, Giusti, Rv. 644045-03).

Nella specie, è stato escluso il difetto di correlazione tra il fatto addebitato e quello ritenuto in sentenza, per essere stato riconosciuto – rispetto a quanto ipotizzato nel capo di incolpazione – un diverso orientamento finalistico nella condotta del magistrato, rilevante ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 109 del 2006, consistita nell’acquisizione di un ingiusto vantaggio, rappresentato dall’ottenimento, fuori dei modi e dai canali istituzionalmente previsti, di atti e documenti del Parlamento europeo, di utilità personale del magistrato, attraverso l’interessamento di esponenti di un partito politico e per il tramite di un legale, difensore di altri appartenenti a quello stesso partito, indagati in procedimenti pendenti presso l’ufficio requirente ove il magistrato prestava sevizio come Procuratore della Repubblica aggiunto.

2.3.4. Ricusazione.

In tema di ricusazione proposta nei confronti di un consigliere della S.C. che componga le Sezioni Unite nel giudizio di impugnazione di una pronuncia della sezione disciplinare, il relativo procedimento camerale è regolato dall’art. 53, comma 2, c.p.c., con le formalità partecipative previste dalla norma (audizione del giudice ricusato, ove si presenti, l’intervento del P.M. e delle altre parti del procedimento, nel rispetto del contraddittorio richiesto dal principio della parità delle parti), quale disciplina speciale applicabile ratione materiae (Sez. U, n. 4098/2017, Bielli, Rv. 642540-01). Non si applica, pertanto, la disciplina camerale di cui al decreto legge 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, con la legge 25 ottobre 2016, n. 197.

2.3.5. Rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale.

Sui rapporti col giudizio penale, è stata esclusa l’autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare del decreto di archiviazione emesso dal giudice penale, non essendo equiparabile a una sentenza definitiva di assoluzione per insussistenza del fatto o per non averlo l’imputato commesso (Sez. U, n. 14551/2017, Giusti, Rv. 644569-02).

Con riferimento alle intercettazioni telefoniche o ambientali effettuate in un procedimento penale, la S.C. ha confermato la loro utilizzabilità purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti di cui all’art. 270 c.p.p., riferibile al solo procedimento penale deputato all’accertamento delle responsabilità penali, in cui si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale (Sez. U, n. 14552/2017, Giusti, Rv. 644570-02).

La S.C. ha così specificato che nel procedimento disciplinare risulta irrilevante l’omessa trascrizione integrale delle intercettazioni suddette, essendo sufficiente anche quella sintetica, pur in assenza del consenso dell’incolpato, salva la specifica contestazione di quest’ultimo circa la sussistenza di qualche difformità della trascrizione riassuntiva rispetto ai relativi supporti audio (bobine o cassette).

2.3.6. Irrogazione della sanzione della rimozione in altro procedimento disciplinare e cessazione della materia del contendere.

Riguardo al tema della cessazione della materia del contendere per essere stato il magistrato condannato alla sanzione della rimozione in altro procedimento disciplinare, Sez. U, n. 14552/2017, Giusti, Rv. 644570–01, ha specificato che la cessazione del rapporto di servizio, deve essere attuata, ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. n. 109 del 2006, tramite decreto del Presidente della Repubblica. In mancanza di quest’ultimo, non può essere dichiarata la cessazione della materia del contendere e, per l’effetto, l’inammissibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, del ricorso per cassazione proposto contro altra decisione della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura nei confronti dello stesso magistrato.

3. La responsabilità disciplinare degli avvocati.

Riguardo alla responsabilità disciplinare degli avvocati, vanno richiamate le pronunce delle Sezioni Unite su taluni illeciti disciplinari, nonché sui profili procedurali, con particolare menzione delle questioni attinenti al regime delle impugnazioni, ai rapporti col giudizio penale e al principio del favor rei.

Sul piano generale, con riferimento alla volontarietà dell’azione, Sez. U, n. 13456/2017, Cirillo E., Rv. 644367-02 ha specificato che, in base dell’art. 4 del nuovo codice deontologico forense (approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 31 gennaio 2014, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 241 del 16 ottobre 2014 e in vigore dal 16 dicembre 2014), la coscienza e volontà consistono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o omissione, per cui vi è una presunzione di colpa per l’atto sconveniente o vietato a carico di chi lo abbia commesso. Questi deve dimostrare l’errore inevitabile, cioè non superabile con l’uso della normale diligenza, oppure la sussistenza di una causa esterna, mentre non è configurabile l’imperizia incolpevole, trattandosi di professionista legale tenuto a conoscere il sistema delle fonti.

3.1. Gli illeciti disciplinari.

Sulle fattispecie di illecito disciplinare, riguardo all’ipotesi della divulgazione della corrispondenza tra difensori contenente proposte transattive, Sez. U, n. 21109/2017, De Chiara, Rv. 645309-01 ha chiarito che l’art. 28 del codice deontologico forense (nel testo anteriore a quello attualmente vigente) pone un divieto assoluto di esibizione in giudizio. Tale divieto comprende anche la corrispondenza avente a oggetto l’invito del giudice a transigere, in quanto, ai fini dell’applicazione dell’art. 91, comma 1, c.p.c., la proposta conciliativa deve essere formulata in giudizio dalla parte che ne è autrice e, dunque, non rilevano le trattative tra i difensori. È stato così ritenuto infondato il motivo di ricorso con il quale si chiedeva un’interpretazione dell’art. 28 che affermasse il carattere esimente della produzione di corrispondenza intercorsa tra i difensori in caso di ipotesi transattiva formulata dal giudice, in quanto rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 91 c.p.c.

Continua a essere proibita, in base al codice deontologico forense, la divulgazione dei nominativi dei clienti, nonostante il loro consenso, non potendo includersi tale dato, da cui potrebbero derivare indirette interferenze sullo svolgimento dei processi ancora in corso, nella pubblicità informativa circa le caratteristiche del servizio offerto, i cui divieti legislativi e regolamentari sono stati abrogati dall’art. 2, comma 1, lett. b), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 convertito con la legge 4 agosto 2006, n. 248 (Sez. U, n. 9861/2017, Di Iasi, Rv. 643782-01)

Riguardo alla fattispecie dell’art. 58 del Codice deontologico forense (nel testo, applicabile ratione temporis, approvato dal CNF nella seduta del 17 aprile 1997), che pone un dovere di astensione del difensore dal deporre come testimone su circostanze di fatto apprese nell’esercizio dell’attività professionale e inerenti al mandato ricevuto, la S.C. ha chiarito che esso non opera rispetto a opinioni e apprezzamenti in ordine alla personalità dell’imputato, non collegati al rapporto di mandato difensivo (Sez. U, n. 22253/2017, Lombardo, Rv. 645325-01). È stata pertanto annullata la sanzione disciplinare irrogata a un avvocato che aveva deposto come testimone in un processo penale, per minacce e ingiurie, a carico di una persona che aveva in precedenza difeso da un’imputazione per possesso di stupefacenti, riferendo circostanze apprese dopo la cessazione del mandato, in ragione del rapporto di frequentazione amicale iniziato con la stessa.

3.2. Il procedimento disciplinare.

In ordine ai profili procedurali, in merito alla contestazione, è stata evidenziata la necessità di aver riguardo alla specificazione del fatto più che all’indicazione della norma violata (Sez. U, n. 13456/2017, Cirillo E., Rv. 644367-01). Se il fatto è descritto in modo puntuale, la mancata individuazione degli articoli di legge violati non determina una nullità, nonostante l’art. 59, comma 1, lett. b), della legge 31 dicembre 2012, n. 247 prescriva che la comunicazione all’incolpato debba contenere in forma chiara e precisa gli addebiti, con le indicazioni delle disposizioni violate. Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso, sottolineando la continuità, rispetto all’art. 53, comma 3, dell’attuale codice deontologico, degli artt. 5 del precedente testo, vigente all’epoca dei fatti, e 42-quater del r.d. n. 12 del 1941, relativamente alle incompatibilità dell’avvocato chiamato a svolgere le funzioni di magistrato onorario.

Non determina la nullità della delibera del Consiglio dell’Ordine l’omessa integrale verbalizzazione del dispositivo, dando luogo a una mera irregolarità che non comporta alcuna lesione del diritto di difesa del professionista (Sez. U, n. 10226/2017, Bielli, Rv. 643935-01). I dispositivi delle deliberazioni in materia disciplinare sono pubblicati, ai sensi dell’art. 51, ultimo comma, del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, mediante deposito dell’originale negli uffici di segreteria.

Riguardo alla composizione dell’organo di disciplina, l’astensione di tutti o della maggioranza dei componenti del Consiglio dell’Ordine di appartenenza dell’incolpato determina lo spostamento della competenza in capo al Consiglio distrettuale della corte di appello più vicina, indipendentemente dalla circostanza che detta astensione si verifichi nella fase iniziale del procedimento – relativa all’adozione di misure cautelari – ovvero in quella successiva (Sez. U, n. 6958/2017, Travaglino, Rv. 643282-01).

È stata invece ritenuta inammissibile l’istanza di ricusazione che investa la totalità dei membri del locale Consiglio dell’Ordine, perché l’istituto della ricusazione può essere adoperato per contestare l’imparzialità di singoli componenti del collegio giudicante, ma non contro il medesimo nella sua globalità, al fine di metterne in discussione l’idoneità a decidere (Sez. U, n. 24966/2017, Chindemi, Rv. 645812-01).

3.2.1. La sospensione cautelare.

La sospensione cautelare – la cui ratio va identificata nell’esigenza di elidere lo strepitus fori che può conseguire alla contestazione di un reato a carico di un professionista – non costituisce un provvedimento giurisdizionale, né una forma di sanzione anticipata, bensì un provvedimento cautelare incidentale di natura amministrativa e a carattere provvisorio (Sez. U, n. 18984/2017, Armano, Rv. 645130-01). La S.C. ha così chiarito che la nuova disciplina, prevista dall’art. 60 della l. n. 247 del 2012, non trova applicazione retroattiva secondo il disposto dei commi 1 e 5 dell’art. 65 della medesima legge, che regolano esclusivamente la successione di norme del codice deontologico.

La «condanna a pena detentiva non inferiore a tre anni» che giustifica l’applicazione della misura della sospensione cautelare dell’avvocato dall’esercizio della professione è quella di primo grado, in quanto l’art. 60, comma 1, della l. n. 247 del 2012, non richiede a tal fine l’irrevocabilità della sentenza, in conformità alla ratio della misura di intervenire in via urgente in ipotesi di rilevante gravità, che sarebbe vanificata ove fosse necessario un previo accertamento irretrattabile della responsabilità penale (Sez. U, n. 26148/2017, Giusti, Rv. 645815-01). Diversamente, la sospensione costituirebbe un’inutile duplicazione della sanzione disciplinare e non assolverebbe alla funzione di tutela dell’immagine della categoria professionale degli avvocati nel momento dello strepitus fori e, quindi, all’atto del verificarsi della lesione.

3.2.2. Il ricorso al Consiglio Nazionale Forense.

Contro i provvedimenti del Consiglio distrettuale di disciplina e per qualsiasi decisione, ivi compresa l’archiviazione, è ammesso ricorso, da parte del Consiglio dell’Ordine presso cui l’avvocato è iscritto, avanti ad apposita sezione disciplinare del Consiglio Nazionale Forense, non potendo essere sottratta ad ogni controllo la negazione dell’azione disciplinare, tenuto conto dell’interesse alla salvaguardia della deontologia professionale di cui è portatore il Consiglio dell’Ordine, che, nell’attuale sistema, è un soggetto diverso da quello che detiene il potere disciplinare (Sez. U, n. 16993/2017, Cirillo, Rv. 644918-03).

Il ricorso al CNF avverso le decisioni del Consiglio dell’Ordine degli avvocati si propone non mediante il suo deposito presso lo stesso destinatario dell’impugnazione, bensì mediante notificazione dell’atto nei suoi confronti, con conseguente applicabilità del principio di scissione dei relativi effetti, anche nella disciplina anteriore alla l. n. 247 del 2012 (Sez. U, n. 13983/2017, Petitti, Rv. 644562-01). Ai fini della sua tempestività, dunque, rileva il momento del perfezionamento della notifica nei confronti del notificante.

Riguardo alla possibilità di impugnare con ricorso al CNF la delibera adottata, ai sensi dell’art. 60, comma 7, della l. n. 247 del 2012, dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati in tema di esecuzione della sospensione cautelare, Sez. U, n. 22358/2017, Cirillo E., Rv. 645466-02, ha ritenuto applicabile in via analogica e costituzionalmente orientata l’art. 7, comma 6, attesa l’incidenza della delibera sullo status dell’avvocato sospeso. Come specificato dalla Suprema corte, nel caso di specie non assume alcuna rilevanza il carattere suo endo-procedimentale, in quanto la necessità di una garanzia impugnatoria si correla all’idoneità del provvedimento a colpire gli interessi in gioco.

Nel giudizio dinanzi al Consiglio Nazionale Forense intrapreso, personalmente, da un avvocato privo di ius postulandi, perché non iscritto nell’albo speciale di cui all’art. 33 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con la legge 22 gennaio 1934, n. 36 (nelle specie in quanto radiato) o sospeso dall’esercizio della professione, non è applicabile l’art. 182, comma 2, c.p.c., come modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, che presuppone la regolarizzazione in favore del soggetto o del suo procuratore già costituiti (Sez. U, n. 10414/2017, Barreca, Rv. 643938-02). Il patrocinio dinanzi al Consiglio Nazionale Forense è consentito, ai sensi dell’art. 60, comma 4, del r.d. n. 37 del 1934, soltanto all’avvocato iscritto nell’albo speciale di cui all’art. 33 del r.d.l. n. 1578 del 1933, munito di mandato speciale, sicché è inammissibile il ricorso proposto personalmente dall’avvocato radiato, privo dell’indispensabile requisito dello ius postulandi, avverso la delibera del Consiglio dell’Ordine di rigetto della sua istanza di reiscrizione all’albo (Sez. U, n. 10414/2017, Barreca, Rv. 643938-01).

Il provvedimento di sospensione a tempo indeterminato dall’esercizio della professione, adottato ai sensi dell’art. 29, comma 6, della l. n. 247 del 2012, concernente il mancato versamento nei termini stabiliti del contributo annuale, e dotato di efficacia immediata, priva, fin dal momento della sua adozione, l’avvocato che ne venga colpito del diritto di esercitare la professione (Sez. U, n. 7666/2017, Petitti, Rv. 643344-02). Non avendo la sospensione nel caso di specie natura disciplinare per espressa previsione della norma, non si realizza l’effetto sospensivo – correlato all’impugnazione dinanzi al Consiglio nazionale forense – previsto, per i provvedimenti applicativi delle sanzioni disciplinari, dall’art. 50 comma 6, del r.d.l. n. 1578 del 1933. Ne consegue l’inammissibilità, anche nel vigore della nuova disciplina dell’ordinamento forense, di un eventuale reclamo proposto in proprio, dinanzi al CNF, dall’avvocato sospeso avverso il provvedimento in tal senso adottato dal locale Consiglio dell’Ordine.

In relazione al profilo della procura speciale a impugnare dinanzi al CNF rilasciata su foglio separato, Sez. U, n. 26338/2017, D’Ascola, Rv. 645818-01 ha ritenuto affetta da mero errore materiale la procura che, sebbene non congiunta materialmente all’atto, individui la pronuncia impugnata, sia corredata di data certa successiva alla stessa e provenga inequivocabilmente dalla parte ricorrente. In tal senso, l’art. 83, comma 3, c.p.c., non può essere interpretato in modo formalistico, avendo riguardo al dovere del giudice (art. 182 c.p.c.) di segnalare alle parti i vizi della procura affinché possano porvi rimedio e, più in generale, al diritto di accesso al giudice, sancito dall’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che può essere limitato soltanto nella misura in cui sia necessario per perseguire uno scopo legittimo. La S.C. ha così cassato la pronuncia del CNF che aveva ritenuto invalido, ai sensi dell’art. 83 c.p.c., l’atto di nomina del difensore di fiducia non congiunto materialmente al ricorso, avente data successiva alla decisione impugnata e depositato contestualmente alla stessa e all’impugnazione.

Il vizio di nomina di uno o più membri del CNF non può influire sulla validità originaria della pronuncia di tale organo, in quanto, ai fini della regolare costituzione del giudice, assume rilevanza il momento della deliberazione della decisione (Sez. U, n. 22358/2017, Cirillo E., Rv. 645466-01). La S.C. ha così ritenuto valida la decisione deliberata dal CNF con la partecipazione di due componenti provenienti da un Ordine locale le cui elezioni erano state annullate dopo l’adozione del provvedimento.

3.2.3. Il ricorso per cassazione.

La proposizione del ricorso per cassazione contro le decisioni del Consiglio Nazionale Forense è soggetta, ai sensi dell’art. 36, comma 6, della l. n. 247 del 2012, al termine breve di trenta giorni, decorrente dalla notificazione della pronuncia contestata, mentre per il controricorso opera il termine ordinario previsto dall’art. 370 c.p.c., essendo richiamati dagli artt. 36, comma 1, e 37, comma 1, della legge sull’ordinamento della professione forense solo gli artt. 59-65 e non anche gli artt. 66-68 del r.d. n. 37 del 1934, e applicandosi, per quanto non espressamente regolato dalla nuova disciplina, le disposizioni dettate dal codice di procedura civile per il giudizio di legittimità (Sez. U, n. 16993/2017, Cirillo E., Rv. 644918-01).

L’istanza di sospensione dell’esecutorietà della decisione adottata dal CNF può essere contenuta nel ricorso proposto, avverso quest’ultima, alle Sezioni Unite della S.C., sempre che abbia una sua autonoma motivazione e sia riconoscibile quale istanza cautelare, atteso che l’art. 36, comma 6, della l. n. 247 del 2012, limitandosi a prevedere che le Sezioni Unite possano sospendere l’esecuzione su richiesta di parte, non consente di desumere che la corrispondente istanza debba essere formulata al Consiglio o che vada proposta in via autonoma rispetto al ricorso (Sez. U, n. 6967/2017, Petitti, Rv. 643286-01).

Nel giudizio di legittimità avverso le decisioni disciplinari del Consiglio Nazionale Forense, come regolato dalla l. n. 247 del 2012, non assume la qualità di parte il Consiglio distrettuale di disciplina, trattandosi di soggetto che riveste una funzione amministrativa di natura giustiziale, caratterizzata da elementi di terzietà, ma priva di potere autonomo di sorveglianza sugli iscritti all’Ordine (Sez. U, n. 16993/2017, Cirillo E., Rv. 644918-02). Il Consiglio distrettuale, pertanto, non può essere in lite con gli iscritti, pena la perdita della sua imparzialità, e non è portatore di alcun interesse ad agire o a resistere in giudizio. Analogamente, il CNF, in quanto giudice speciale, non può essere evocato dinanzi alle Sezioni Unite sui ricorsi avverso le sue sentenze.

La censura relativa al mancato rinvio della seduta del locale Consiglio dell’Ordine per legittimo impedimento a comparire dell’incolpato, attenendo alla regolarità della discussione svoltasi davanti al Consiglio distrettuale, non prospetta un vizio di natura processuale sindacabile dalle Sezioni Unite in sede di ricorso avverso la decisione del CNF, atteso che le funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli dell’Ordine e il relativo procedimento hanno natura amministrativa, e non giurisdizionale (Sez. U, n. 13982/2017, Tria, Rv. 644561-01). Ne consegue che la regolarità di detto procedimento può essere sindacata dalla S.C. soltanto sotto l’aspetto del vizio di motivazione della decisione del CNF, che è organo giurisdizionale, e non come “nullità della sentenza o del procedimento” svoltosi davanti al Consiglio distrettuale, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.

Riguardo ai motivi d’impugnazione, l’apprezzamento della gravità del fatto e della condotta addebitata all’incolpato, rilevante ai fini della scelta della sanzione opportuna, ai sensi dell’art. 22 del codice deontologico forense, è rimesso all’Ordine professionale, e il controllo di legittimità sull’applicazione di tale norma non consente alla Corte di cassazione di sostituirsi al CNF nel giudizio di adeguatezza della sanzione irrogata, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, che attiene non alla congruità della motivazione, ma all’individuazione del precetto e rileva, quindi, ex art. 360, n. 3, c.p.c. (Sez. U, n. 6967/2017, Petitti, Rv. 643286-02). La S.C. ha così respinto l’istanza di sospensione di una sentenza del CNF che, previa specifica valutazione in ordine alla gravità del fatto ed alla adeguatezza della sanzione, aveva confermato il provvedimento disciplinare con il quale un avvocato era stato sospeso dall’esercizio della professione per avere, dopo la conclusione della assunzione di un testimone in un procedimento civile dal medesimo verbalizzata, integrato il verbale con una frase non dettata dal giudice.

3.2.4. Il nuovo codice deontologico e il principio del favor rei.

Sulla successione delle norme nel tempo e sul principio del favor rei, in relazione al nuovo codice deontologico forense, Sez. U, n. 27200/2017, Cirillo F.M., Rv. 645992-01, ha evidenziato come il dovere dell’avvocato di salvaguardare il rapporto di colleganza nell’osservanza del dovere di difesa, di cui all’art. 46 del nuovo codice deontologico, trova corrispondenza nei doveri di correttezza e lealtà di cui all’art. 22 del testo previgente, in relazione all’art. 12 del r.d.l. n. 1578 del 1933, che afferma il dovere degli avvocati di adempiere al loro ministero con dignità e con decoro. Secondo l’apprezzamento compiuto, la violazione del rapporto di colleganza può costituire una concreta esplicazione della violazione del più vasto ambito della lealtà e correttezza professionale. Conseguentemente, non viola il principio del favor rei di cui all’art. 65 della l. n. 247 del 2012 l’irrogazione di una sanzione disciplinare per la violazione dei doveri di lealtà e correttezza professionale intervenuta nella vigenza del nuovo codice, che per tale generale violazione non prevede alcuna sanzione, ove il fatto sia comunque sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 46.

Con riferimento all’ipotesi della mancata tempestiva restituzione al cliente di atti e documenti ricevuti è stata ritenuta applicabile la sanzione dell’avvertimento, prevista dall’art. 33 del nuovo codice deontologico, a fatti anteriori a quest’ultimo in applicazione del criterio del favor rei, desumibile dall’art. 65, comma 5, della l. n. 247 del 2012 (Sez. U, n. 13982/2017, Tria, Rv. 644561-02). Si tratta, infatti, di una sanzione meno grave di quella della censura prevista soltanto nell’ipotesi in cui la consegna della documentazione sia stata subordinata al pagamento del compenso.

4. La responsabilità disciplinare dei notai.

In materia di responsabilità disciplinare dei notai, si segnala, sul piano generale, la pronuncia Sez. 2, n. 2927/2017, Migliucci, Rv. 643161-01 che ha escluso la violazione del principio del ne bis in idem secondo le statuizioni della sentenza della Corte europea diritti dell’uomo, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, riguardo all’applicazione di una sanzione penale per i medesimi fatti.

Secondo la S.C., non può ipotizzarsi la violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in quanto la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti a un ordine professionale ed è preordinata all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, sicché a essa non può attribuirsi natura sostanzialmente penale.

Sez. 2, n. 27099/2017, Lombardo, ha rimesso alla Corte cost. la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, comma 2, della legge 16 febbraio 1913, n. 89, come sostituito dall’art. 30 del d.lgs. 1 agosto 2006, n. 249, nella parte in cui prevede la sanzione disciplinare della destituzione del notaio ove questi, dopo essere stato condannato per due volte alla sospensione per inosservanza del medesimo art. 147, nuovamente lo violi nei dieci anni successivi.

Secondo l’apprezzamento compiuto, tale disposizione sembra violare l’art. 3 Cost. – sia sotto il profilo del principio di eguaglianza, assimilando situazioni che possono avere un disvalore diverso, sia sotto il principio di ragionevolezza, impedendo l’adeguamento della sanzione alla gravità dell’illecito commesso – e l’art. 24 Cost., precludendo all’incolpato di chiedere al giudice di apprezzare la sua condotta in concreto e di pervenire all’irrogazione della sanzione più adeguata alla fattispecie.

4.1. Gli illeciti disciplinari.

Sul piano sostanziale, Sez. 2, n. 12683/2017, Petitti, Rv. 644213-01, ha ritenuto che la dichiarazione confessoria contenuta in una scrittura privata, pur se autenticata da notaio, non costituisce un atto processuale, né un atto volto a precostituire una prova utilizzabile in sede giurisdizionale. L’efficacia privilegiata derivante dall’autenticazione si riferisce unicamente alla circostanza che una determinata dichiarazione sia stata resa e non anche al suo contenuto, né rientra tra gli atti di istruzione preventiva, la cui specifica disciplina è dettata dal codice di rito. Quand’anche la dichiarazione fosse stata fatta in vista di una sua possibile utilizzazione in un processo, non per questo muterebbe la propria natura, trasformandosi in atto processuale, insuscettibile di essere formato da un notaio, e resterebbe soggetta, quanto al contenuto e alla rilevanza probatoria della stessa, alla valutazione e all’apprezzamento del giudice. La S.C. ha pertanto escluso che incorra nell’illecito disciplinare di cui agli artt. 1 e 28 della l. n. 89 del 1913 il notaio che proceda a tale autenticazione.

La condotta della reiterata emissione di fatture irregolari a fronte di anticipazioni di spese inesistenti integra la fattispecie di illecita concorrenza di cui all’art. 147, lettera c), della l. n. 89 del 1913, in relazione all’art. 14 del Codice deontologico – che include la condotta tra le ipotesi tipiche di illecita concorrenza – mentre resta assorbita, sulla base del concorso apparente di norme, quella di cui all’art. 147, lettera b), consistente nella non occasionale, ma ripetuta, violazione delle norme deontologiche elaborate dal Consiglio nazionale del notariato, sempre in relazione al medesimo art. 14 del Codice (Sez. 2, n. 2526/2017, Migliucci, Rv. 642493-01). Le disposizioni di legge e deontologiche hanno infatti a oggetto il medesimo fatto.

A fronte di una giurisprudenza di legittimità non unanime sugli approdi ermeneutici maturati quanto alla formulazione dell’art. 136 della l. n. 89 del 1913 sulla sanzione dell’avvertimento, anche dopo la riforma di cui alla legge delega 28 novembre 2005, n. 246 e al d.lgs. 1 agosto 2006, n. 249, Sez. U, n. 25457/2017, Falaschi, Rv. 645665-01 – a seguito di rimessione degli atti al Primo Presidente da parte della Sez. 2 – ha ritenuto che la sanzione, applicabile ratione temporis, è posta a tutela degli stessi beni garantiti dal successivo art. 147 della medesima legge (che prevede le sanzioni della censura, della sospensione fino ad un anno o, nei casi più gravi, della destituzione), sebbene per fattispecie meno gravi, quali i comportamenti occasionali o isolati di cui alla lett. b) dell’art. 147 ovvero per condotte che, riconducibili alle lett. a) e c) di tale ultima disposizione, siano caratterizzate da lievità. Il relativo ambito di applicazione, pertanto, non può intendersi limitato alla sfera di operatività dell’art. 144 della legge notarile – che disciplina le ipotesi attenuanti (circostanze attenuanti, ravvedimento operoso e riparazione integrale del danno prodotto) – giacché il concetto di maggiore lievità del fatto è ontologicamente diverso dall’ipotesi attenuata dell’illecito.

  • giurisdizione arbitrale

CAPITOLO XLVI

L’ARBITRATO

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa. - 2 Convenzione d’arbitrato: operatività ed interpretazione. - 3 La clausola compromissoria nei rapporti con il consumatore. - 4 Sottoscrizione della polizza di carico e convenzione d’arbitrato estero. - 5 Arbitrato ed appalto di opere pubbliche. - 6 Arbitrato, “clausola compromissoria consortile”, fallimento e diritto del lavoro. - 7 Procedimento: ricusazione dell’arbitro, non impugnabilità e profili di costituzionalità. - 8 Il compenso degli arbitri. - 9 Lodo: efficacia di giudicato esterno, nullità e sua impugnazione. - 10 Rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria: eccezione di clausola arbitrale, rapporti con l’eccezione d’incompetenza territoriale e questioni di competenza. - 11 Arbitrato estero e questioni di giurisdizione.

1. Premessa.

Nel corso del 2017, anche argomentando dalla natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario propria degli arbitri rituali, sono state emesse dalla S.C. numerose decisioni in ordine all’interpretazione del patto compromissorio ed alla relativa portata (anche in ipotesi di collegamento negoziale), alla validità della convenzione di arbitrato stipulata tra professionista e consumatore e di quella contenuta in polizza di carico oltre che con riferimento alla clausola compromissoria di arbitrato estero e di quella “consortile”.

Sono stati altresì diversi i principi sanciti e confermati in merito ai rapporti con l’appalto di opere pubbliche, con il diritto del lavoro, con quello fallimentare e con l’autorità giudiziaria ordinaria, nonché in tema procedimento arbitrale, di regolamento di giurisdizione, di elementi essenziali del lodo, e della sua impugnabilità per errori di diritto, di ricusazione dell’arbitro e della relativa non ricorribilità per cassazione.

2. Convenzione d’arbitrato: operatività ed interpretazione.

L’interpretazione della clausola compromissoria appare necessaria, anche a prescindere dalla risoluzione della questione inerente la ritualità dell’arbitrato, al fine di verificare se la convenzione di arbitrato abbia ad oggetto anche materia non contrattuale, relazionando tra loro gli artt. 808-bis e 808-quater c.p.c.

La clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui essa inerisce, come difatti ha statuito Sez. 6-3, n. 4035/2017, Tatangelo, Rv. 642841-01, va interpretata, in mancanza di espressa volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte e solo le controversie aventi titolo nel contratto medesimo, con esclusione, quindi, di quelle aventi nel contratto solo un presupposto storico. Nella specie, la S.C. ha escluso la competenza arbitrale con riferimento a procedimento azionato dal comodatario verso l’appaltatore ed il subappaltatore, prospettando, come causa petendi, la responsabilità, aquiliana, ex art. 1669 c.c., con deduzione di gravi difetti dell’immobile, in merito a clausola compromissoria contenuta nel contratto d’appalto per la ristrutturazione dello stesso.

Ad analoghe conclusioni, la S.C. è pervenuta con riferimento alle ipotesi di collegamento negoziale.

Ed invero, la clausola compromissoria contenuta in un determinato contratto non estende i propri effetti alle controversie relative ad altro contratto, ancorché collegato al primo. In tali termini si è espressa Sez. 3, n. 941/2017, Cirillo F., Rv. 642703-01, in fattispecie di collegamento di un contratto di sublocazione ad uno di locazione al quale ineriva la convenzione di arbitrato.

3. La clausola compromissoria nei rapporti con il consumatore.

In tema di arbitrato nei rapporti contrattuali tra banca e consumatore (nella specie inerente un contratto quadro), la validità della clausola compromissoria è subordinata alla sua specifica negoziazione ed approvazione per iscritto. Sicché, essa deve essere dichiarata nulla ex art. 33, comma 2, lett. t), del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, quando inserita in condizioni generali predisposte da uno solo dei contraenti (il professionista), perché la deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria è da considerarsi clausola vessatoria e contraria alla disciplina di protezione del consumatore.

Sez. 6-1, n. 3744/2017, Genovese, Rv. 643655-01, dopo aver statuito quanto precede, ha chiarito altresì che tale deroga in favore degli arbitri è peraltro ammissibile ove venga provata l’esistenza di una specifica trattativa tra le parti, il cui onere ricade sul professionista che intenda avvalersi della clausola arbitrale in deroga e che rileva quale elemento logicamente antecedente alla dimostrazione della natura non vessatoria della clausola

Sempre in tema di validità della clausola compromissoria, Sez. U, n. 14861/2017, Giusti, Rv. 644577-01, è intervenuta, in sede di regolamento di giurisdizione trattandosi di deferimento ad arbitri stranieri, in merito ai rapporti tra convenzione d’arbitrato ed aggiornamento del canone di locazione.

È stata in particolare ritenuta valida la clausola compromissoria con cui erano state deferite ad arbitri stranieri le controversie in materia di aggiornamento del canone di locazione di un immobile destinato ad uso diverso da quello abitativo, attesa l’abrogazione dell’art. 54 della legge 27 luglio 1978, n. 392, che poneva un divieto di compromettibilità in arbitri di tali controversie, anche con riferimento alle locazioni non abitative (in forza dell’art. 14, comma 4, della legge 9 dicembre 1998, n. 431). A ciò la S.C. ha aggiunto la considerazione per la quale il carattere inderogabile della disciplina dettata in tema di aggiornamento del canone dagli artt. 32 e 79 della citata l. n. 392 del 1978, sebbene funzionale ad evitare un’elusione preventiva dei diritti del conduttore, non determina l’indisponibilità degli stessi una volta che siano sorti e possano essere fatti valere, sicché le relative controversie non soggiacciono al divieto di compromettibilità previsto dall’art. 806 c.p.c.

Nei detti termini, dunque, le citate Sez. U hanno preso le distanze dal precedente orientamento di legittimità volto invece a ritenere nulla la convenzione arbitrale avente il descritto oggetto.

4. Sottoscrizione della polizza di carico e convenzione d’arbitrato estero.

La sottoscrizione della polizza di carico, pur implicando adesione del destinatario al contratto di trasporto marittimo, non può assumere, ex se, il valore di accettazione di una clausola compromissoria per arbitrato estero, in mancanza di espresso e specifico richiamo a quest’ultima tramite espressioni che rivelino il consenso alla deroga alla giurisdizione del giudice italiano.

Sez. 6-1, n. 21655/2017, Genovese, Rv. 646036-01, ha applicato il principio di cui innanzi in fattispecie di trasporto marittimo ed in ipotesi di polizza di carico, sottoscritta esclusivamente dal comandante della nave, richiamante la clausola arbitrale contenuta in un contratto di noleggio per il trasporto di merci. Essa ha chiarito che trattasi di pattuizione da stipularsi per iscritto e, quindi, in una forma condizionante la possibilità di delibazione del lodo eventualmente ottenuto dalla parte interessata, secondo le previsioni in tal senso desumibili dall’art. 2 della Convenzione di New York del 10 giugno 1958, resa esecutiva in Italia con legge 19 gennaio 1968, n. 62.

5. Arbitrato ed appalto di opere pubbliche.

In tema di contratti di appalto di opere pubbliche, Corte cost., 2 maggio 1996, n. 152 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 della l. 10 dicembre 1981, n. 741, sostitutivo dell’art. 47 del decreto del Presidente della Repubblica 16 luglio 1962, n. 1063, nella parte in cui non stabiliva che la competenza arbitrale potesse essere derogata anche con atto unilaterale di ciascuno dei contraenti.

Già Sez. U, n. 10873/2008, Luccioli, Rv. 602834-01, in forza dell’efficacia retroattiva del detto intervento della Consulta, ne aveva tratto la conseguenza per la quale così come la competenza arbitrale può essere declinata in riferimento a procedimenti in corso al momento della pubblicazione della detta sentenza, allo stesso modo, può essere fatta valere, ai sensi dell’art. 829, comma 1, n. 1, c.p.c., la nullità dei lodi arbitrali, per difetto di potestas degli arbitri, emessi anteriormente alla suddetta pubblicazione, salvo il limite del giudicato interno eventualmente prodottosi nel processo.

Sez. 3, n. 22834/2017, Spaziani, Rv. 645509-02, proprio in applicazione del principio di cui innanzi, ha escluso la sussistenza della denunciata violazione dell’art. 5 c.p.c. in una ipotesi in cui, alla data della pronuncia della citata sentenza della Corte Cost., la domanda di arbitrato era già stata notificata ed erano stati designati gli arbitri ad opera delle parti.

Secondo Sez. 1, n. 81/2017, Campanile, Rv. 643018-01, nei contratti d’appalto stipulati a seguito di gara indetta da un comune, la volontà di devolvere ad arbitri le relative controversie deve essere espressa in maniera esplicita ed univoca, non essendo sufficiente un richiamo meramente formale al capitolato che preveda eventualmente la clausola compromissoria. Applicando il detto principio, peraltro già consolidato nella giurisprudenza di legittimità con riferimento ai capitolati generali (si veda Sez. 1, n. 812/2016, Di Virgilio, Rv. 638482-01), la detta pronuncia, confermando la sentenza di merito, ha ritenuto che le parti non avessero dato alcuna precisa indicazione nel senso della competenza arbitrale e che il capitolato speciale di appalto contenesse una formula generica per la quale «tutte le controversie… possono essere deferite ad arbitri».

Sempre in materia di appalti pubblici, l’art. 214 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, nel testo modificato dal d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53, al primo comma si limitata ad attribuire alle parti le facoltà di deferire ad arbitri le controversie su diritti soggettivi derivanti dall’esecuzione di contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione ed idee, ivi comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario previsto dall’art. 240 dello stesso d.lgs. 163 del 2006. La norma di cui innanzi è stata di seguito modificata dall’art. 1, comma 19, l. 6 novembre 2012, n. 190, che ha subordinato la predetta facoltà ad una previa autorizzazione motivata dell’organo di governo dell’Amministrazione, stabilendo altresì che, l’inclusione della clausola compromissoria, senza preventiva autorizzazione, nel bando o nell’avviso cui è indetta la gara, ovvero, per le procedure senza bando, nell’invito, o il ricorso all’arbitrato, senza preventiva autorizzazione, sono nulli. L’ambito di operatività della disposizione di cui innanzi è individuato dal comma 25 dello stesso art. 1, il quale, prevedendo che le disposizioni di cui dai commi 19 a 24 non si applicano agli arbitrati conferiti o autorizzati prima dell’entrata in vigore dalla stessa l. n. 190 del 2012, lascia chiaramente intendere, come ha chiarito da Sez. 6-1, n. 29255/2017, Mercolino, Rv. 647024-01, che esso trova applicazione anche con riferimento ai contratti stipulati in epoca anteriore, a condizione che alla predetta data non sia già intervenuta la nomina degli arbitri o l’autorizzazione dell’organo deliberante dell’ente. La citata S.C., anche argomentando da Corte cost., 9 giugno 2015, n. 108 e da Corte cost. 6 maggio 2016, n. 99, ha chiarito che, quella da ultimo evidenziata, è un’ipotesi di inefficacia sopravvenuta. Sicché, le clausole compromissorie contenute in contratti d’appalto stipulati in data anteriore all’entrata in vigore della l. n. 190 del 2012, pur restando valide, sono colpite da inefficacia sopravvenuta, per mancanza dell’autorizzazione introdotta dal detto art. 1, comma 19, la quale, tuttavia, non esclude la possibilità del ricorso all’arbitrato, ove la predetta autorizzazione intervenga successivamente. All’autorizzazione espressa non può però equipararsi l’assenso tacito dalla P.A., in quanto solo l’espressa autorizzazione motivata è in grado di assicurare che la scelta dell’Amministrazione di deferire agli arbitri la controversia relativa al contratto pubblico sia il risultato della ponderata valutazione degli interessi coinvolti e delle circostanze del caso concreto. La stessa prescritta motivazione dell’autorizzazione (richiesta normativamente), diretta a garantire trasparenza e pubblicità alle ragioni della scelta dell’Amministrazione di avvalersi dell’arbitrato, esclude altresì che possa essere assegnato ad un comportamento concludente valore equivalente all’autorizzazione espressa.

In applicazione del principio, la citata Sez. 6-1, n. 29255/2017, in sede di regolamento di competenza, ha escluso l’equivalenza all’autorizzazione espressa del comportamento concretizzatosi nell’eccezione di incompetenza (del giudice ordinario) sollevata in giudizio dal difensore dell’ALER, in quanto intrinsecamente inidonea ad esplicitare le ragioni della preferenza accordata dalla P.A. al giudizio degli arbitri, rispetto a quello del giudice ordinario. Ciò perché proveniente dal difensore della P.A. e non implicante un’apposita determinazione degli organi competenti a formare e manifestare la volontà dell’ente pubblico. L’eccezione di cui innanzi risulta peraltro imputabile ad un soggetto diverso da quello attributario del potere autorizzatorio, ex art. 1, comma 19, della l. n. 190 del 2012, ed è pertanto insufficiente a giustificare il superamento dell’inefficacia della clausola compromissoria.

6. Arbitrato, “clausola compromissoria consortile”, fallimento e diritto del lavoro.

In materia di rapporti di lavoro, Sez. 6-1, n. 20653/2017, Di Virgilio, Rv. 645696-01, ha confermato l’orientamento in merito alla clausola compromissoria per arbitrato irrituale, contenuta in c.c.n.l., con particolare riferimento agli effetti di essa in ordine a controversie aventi ad oggetto l’indennità supplementare per licenziamento ingiustificato ed ai rapporti con l’azione in sede giudiziaria, affermando che il dirigente di azienda industriale che, ai sensi delle disposizioni del c.c.n.l. integranti una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, abbia adito il collegio arbitrale, senza che a ciò si sia opposta la controparte, per la determinazione dell’indennità supplementare dovuta in ragione della mancanza di giustificazione del proprio licenziamento, non può proporre la medesima azione in sede giudiziaria, salva però l’ipotesi in cui il collegio predetto si sia dichiarato privo di legittimazione a decidere la controversia o che il procedimento non sia pervenuto alla sua conclusione con il lodo o che il relativo patto sia divenuto per qualsiasi ragione inoperante. Il dirigente non è difatti abilitato a trasferire unilateralmente la questione davanti al giudice, dopo il compimento di atti incompatibili con la volontà di avvalersi di tale tutela ed in mancanza di una volontà del datore di lavoro contraria all’utilizzazione del procedimento arbitrale.

Nel caso di mancata attivazione delle procedura arbitrale, come ha precisato la citata pronuncia, il dirigente ben potrebbe proporre l’azione giudiziaria, in conformità al principio di alternatività delle tutele consentite in relazione alla specificità delle ipotesi delle controversie di lavoro, ai sensi dell’art. 5, comma 1, legge 11 agosto 1973, n. 533.

In ordine alla portata della “clausola compromissoria consortile”, Sez. 6-1, n. 25054/2017, Mercolino, Rv. 646054-01, ha chiarito che essa non va riferita alle sole controversie derivanti dal contratto sociale, estendendosi invece anche a quelle relative all’assegnazione di lavori alle consorziate e alla successiva loro esecuzione. L’affidamento delle opere non assurge difatti ad autonomo contratto a prestazioni corrispettive fra l’ente consortile e le imprese aderenti, configurandosi, piuttosto, quale mero atto esecutivo del predetto contratto sociale, mediante il quale il primo ripartisce tra le seconde i lavori assunti in appalto nei confronti di terzi. In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la pronuncia del giudice ordinario che aveva ritenuto la competenza del collegio arbitrale sulla controversia afferente la pretesa di pagamento avanzata nei confronti di un consorzio da parte di una banca cessionaria del credito, dovuto ad una cooperativa consorziata in relazione a lavori edili ad essa affidati in virtù del rapporto sociale. Tale conclusione è stata peraltro, dichiaratamente, assunta dalla pronuncia da ultimo citata anche conformemente ad altro principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, mentre il cessionario di un credito nascente da un contratto nel quale sia inserita una clausola compromissoria non subentra nella titolarità del distinto ed autonomo negozio compromissorio, e non può pertanto invocare detta clausola nei confronti del debitore ceduto, quest’ultimo può invece avvalersi della clausola compromissoria nei confronti del cessionario, rientrando tra le eccezioni opponibili all’originario creditore ed atteso che, altrimenti, si vedrebbe privato del diritto di far decidere ad arbitri le controversie sul credito in forza di un accordo al quale egli è rimasto estraneo.

Sempre Sez. 6-1, n. 25054/2017, Mercolino, Rv. 646054-02, circa i rapporti con la disciplina del fallimento, non ha altresì condiviso la tesi sostenuta dalla difesa della ricorrente, secondo la quale l’intervenuta dichiarazione di fallimento della Cooperativa, determinandone l’esclusione dal Consorzio, con il conseguente scioglimento del rapporto sociale, comporterebbe l’inefficacia della clausola compromissoria di cui innanzi, ai sensi dell’art. 83-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. L’articolo da ultimo citato, ha in particolare precisato la S.C., si limita a disporre che, qualora in pendenza di arbitrato sia dichiarato il fallimento di una delle parti del contratto cui accede la clausola compromissoria, il relativo procedimento diviene improseguibile ove il rapporto negoziale sia sciolto secondo le disposizioni di cui agli artt. 72 e ss. l. fall. La disposizione di cui innanzi non trova invece applicazione nella diversa ipotesi in cui, non constando la pendenza di un procedimento arbitrale, una Cooperativa aderente ad un consorzio ne sia esclusa in virtù di una norma statutaria che tanto preveda per il caso di fallimento della consorziata.

7. Procedimento: ricusazione dell’arbitro, non impugnabilità e profili di costituzionalità.

L’ordinanza pronunciata dal presidente del tribunale sull’istanza di ricusazione di un arbitro non è impugnabile dal ricusato, in ragione del divieto di cui all’art. 815, comma 3, c.p.c. e della non proponibilità del ricorso straordinario per cassazione (art. 111 Cost.), trattandosi di provvedimento a contenuto ordinatorio e non decisorio. Il ricusato non è peraltro neanche legittimato attivo, in quanto non portatore di un interesse sostanziale afferente al procedimento in oggetto, invece volto a garantire alle parti una pronuncia resa in posizione di terzietà. Sez. 1, n. 20615/2017, Campanile, Rv. 645222-01, per affermare il principio di cui innanzi ha dovuto risolvere plurime questioni giuridiche, ancorché strettamente connesse tra loro, inerenti anche profili di legittimità costituzionale. Trattasi dell’impugnabilità dell’ordinanza emessa ex art. 815, comma 3, c.p.p., in ipotesi, con ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., dell’eventuale legittimazione attiva (sostanziale) dell’arbitro ricusato e, per l’ipotesi di diniego di quest’ultima, della compatibilità costituzionale del citato art. 815 con riferimento al parametro costituito dal diritto di difesa (art. 24 Cost.). Con riguardo a tale ultimo aspetto, in particolare, la sentenza in oggetto ha concluso escludendo che l’art. 815 c.p.c., interpretato nei termini di cui innanzi, possa ledere il diritto di difesa dell’arbitro ricusato. Ciò perché eventuali diritti soggettivi dell’arbitro assunti come lesi (quali, nella specie, quelli relativi alla tutela della propria immagine ed agli aspetti di natura patrimoniale del rapporto con le parti del giudizio) sarebbero comunque suscettibili di essere tutelati, nel rispetto del diritto al contraddittorio, azionando un autonomo giudizio di cognizione e non negli angusti limiti di un giudizio incidentale di volontaria giurisdizione, funzionale invece a garantire la funzionalità dell’arbitrato.

8. Il compenso degli arbitri.

La liquidazione delle spese e del proprio compenso effettuata direttamente dagli arbitri ha valore di una mera proposta contrattuale, vincolante solo se accettata da tutti i contendenti, che può dar luogo anche ad obbligazioni parziarie, ove i debitori abbiano accettato, anche per facta concludentia, la divisione dell’obbligazione originaria in due o più obbligazioni di diversa entità, ciascuna posta a carico delle parti. Il frazionamento dell’obbligazione permane, dunque, per Sez. 1, n. 7772/2017, Genovese, Rv. 644831-01, nel caso in cui le parti si siano limitate a contestare il solo ammontare complessivo del credito degli arbitri, riconoscendo, tuttavia, sia la sussistenza dell’obbligazione di pagamento che la sua misura frazionaria.

9. Lodo: efficacia di giudicato esterno, nullità e sua impugnazione.

Con particolare riferimento alla struttura del lodo, Sez. 1, n. 19612/2017, Mucci, Rv. 645186-01, ha ribadito che la conferenza personale di tutti i componenti del collegio, nel medesimo luogo e in ogni fase del procedimento deliberativo sino all’adozione della decisione definitiva, costituisce requisito essenziale del lodo, a pena di nullità, non derogabile dalle parti. Esso assolve difatti alla finalità di garantire che le questioni oggetto di controversia siano esaminate, con massime accuratezza e completezza, da tutti gli arbitri, con la conseguenza che il singolo arbitro può allontanarsi solo dopo la discussione al fine di astenersi dalla votazione. Quanto innanzi è stato precisato dalla S.C. in applicazione degli artt. 823, commi 1, 2, nn. 5) e 6), e 3, ed 829, comma 1, nn. 5) e 7), c.p.c., vigenti ratione temporis ed in particolare nella loro formulazione antecedente alla riforma di cui al decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, essendo stata nella specie attivata la procedura arbitrale antecedentemente all’entrata in vigore delle detta riforma. Nella specie la S.C. ha anche ulteriormente confermato il principio per il quale il giudizio di impugnazione del lodo si compone di due fasi, la prima rescindente, finalizzata all’accertamento di eventuali nullità del lodo e che si conclude con l’annullamento del medesimo, la seconda rescissoria, che fa seguito all’annullamento. Nel corso di tale ultima fase, il giudice ordinario procede alla ricostruzione del fatto, sulla base delle prove dedotte, nella prima fase (rescindente) non è invece consentito alla corte d’appello procedere ad accertamenti di fatto. Essa deve difatti limitarsi all’accertamento delle eventuali nullità in cui siano incorsi gli arbitri, pronunciabili soltanto per determinati errori in procedendo nonché per inosservanza delle regole di diritto nei limiti previsti dall’art. 829 c.p.c. Solo nella seconda fase (rescissoria) è quindi attribuita al giudice dell’impugnazione la facoltà di riesame del merito delle domande, comunque nei limiti del petitum e delle causae petendi dedotte dinanzi agli arbitri, nonché delle censure tipiche individuate dallo stesso art. 829 c.p.c.

In base all’art. 823, comma 1, c.p.c., che ricalca il modello di cui all’art. 276 c.p.c., occorre distinguere il momento della deliberazione del lodo, adottata a maggioranza di voti con la partecipazione di tutti gli arbitri, da quello della successiva stesura, che può essere affidata ad un solo arbitro. Il collegio arbitrale può difatti validamente deliberare il dispositivo del lodo e quindi incaricare un solo arbitro di redigere la motivazione (Sez. 6-1, n. 25189/2017, Falabella, Rv. 647014-02).

Nel caso invece di riforma, anche parziale, della statuizione di primo grado il conseguente “effetto espansivo interno” di essa circa le parti dipendenti dalla parte riformata determina, in particolare, la caducazione del capo che ha statuito sulle spese di lite. Ciò in virtù dell’operatività dell’art. 336, comma 1, c.p.c. anche con riferimento al giudizio di impugnazione del lodo arbitrale. Ne consegue, per il giudice d’appello, il potere-dovere di rinnovare totalmente, anche d’ufficio, il regolamento di tali spese, alla stregua dell’esito finale della causa (così, Sez. 1, n. 20399/2017, Genovese, Rv. 645220).

In tema di efficacia di giudicato esterno del lodo arbitrale, trova applicazione il principio generale per il quale la forza del giudicato sostanziale assiste soltanto le pronunzie giurisdizionali a contenuto decisorio di merito, vale a dire quelle che statuiscono in ordine all’esistenza delle posizioni soggettive tutelate e dedotte in giudizio, ma non anche le statuizioni di carattere processuale, attinenti cioè alla costituzione del giudice, o alla determinazione dei suoi poteri (in ipotesi, di decidere secondo equità o secondo diritto) ovvero allo svolgimento del processo. Queste ultime, in particolare, producono effetti limitati al rapporto processuale nel quale sono emanate. Argomentando nei termini di cui innanzi, Sez. 1, n. 20899/2017, Genovese, Rv. 645398, ha ribadito che la decisione circa la natura ed i limiti della potestas iudicandi attribuita agli arbitri, appartenendo alle statuizioni di carattere processuale, non spiega alcuna efficacia esterna con riguardo ad un successivo giudizio, neppure se vertente tra le stesse parti e concernente il medesimo rapporto sostanziale. In tema di nullità del lodo per errori di diritto inerenti il merito della controversia e della conseguente sua impugnabilità, Sez. 1, 17339/2017, Valitutti, Rv. 644972, ha fatto pedissequa applicazione di quanto statuito da Sez. U, n. 9284/2016, Nappi, Rv. 639686. Le dette pronunce hanno in particolare risolto il contrasto interpretativo sorto in merito all’applicabilità dell’art. 829, comma 3, c.p.c., nel testo riformulato dall’art 24 del d.lgs. n. 40 del 2006, ai procedimenti arbitrali promossi successivamente alla sua entrata in vigore ma fondati su convenzioni arbitrali antecedenti a tale data. È stato difatti ribadito che il citato comma 3, laddove ammette l’impugnabilità del lodo per errores in iudicando, se espressamente disposta dalle parti o dalla legge, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all’art. 27 del d.lgs. n. 40 del 2006, a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore della novella. Per stabilire se sia ammissibile l’impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, la legge – cui l’art. 829, comma 3, c.p.c., rinvia – è però identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato. Argomentando nei termini di cui innanzi, la S.C. ha confermato che, in caso di convenzione di arbitrato cd. di diritto comune, stipulata anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina, nel silenzio delle parti, deve intendersi ammissibile l’impugnazione del lodo, così disponendo l’art. 829, comma 2, c.p.c., nel testo previgente, salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile.

Ove però si deduca la nullità del lodo per inesistenza della clausola compromissoria, alla cognizione del giudice ordinario non possono essere applicati i limiti stabiliti per la valutazione delle altre clausole, né la sanatoria per decadenza dal termine di impugnazione o l’applicazione del principio generale di conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione o ancora la sanatoria del vizio per il comportamento delle parti. In tale ipotesi, difatti, è necessario interpretare previamente la previsione contrattuale oggetto di contestazione, per accertare se contenga o meno la volontà di compromettere in arbitri, presupposto per la regolare instaurazione del relativo giudizio (Sez. 6-1, n. 19917/2017, Di Marzio, Rv. 645693-01).

Con riferimento invece all’arbitrato irrituale ed in particolare ai rapporti con il giudizio di legittimità, il lodo reso ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c., producendo i suoi effetti sostanziali esclusivamente nei confronti delle parti, può essere impugnato soltanto da chi abbia assunto tale veste nel procedimento in cui esso è stato pronunciato.

Ne consegue, per Sez. 1, n. 23571/2017, Campanile, Rv. 645528-01, l’inammissibilità del ricorso per cassazione avverso la decisione resa sull’impugnazione del lodo che sia stato proposto dal solo arbitro, trovandosi egli in una posizione di terzietà rispetto alle parti, né potendo fare valere nel processo in nome proprio un diritto altrui fuori dei casi espressamente previsti dalla legge.

Sempre in merito ai rapporti con il giudizio di legittimità, Sez. 6-1, n. 25189/2017, Falabella, Rv. 647014-01, ha ribadito che in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza che abbia deciso sull’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, non può essere esaminato direttamente il provvedimento degli arbitri ma solo la pronuncia emessa nel giudizio di impugnazione. Tale esame è difatti finalizzato alla verifica dell’adeguatezza e correttezza della motivazione, in relazione ai profili di censura del lodo. Ne consegue che il sindacato di legittimità va condotto esclusivamente attraverso il riscontro della conformità a legge e della congruità dei motivi della sentenza resa sul gravame.

10. Rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria: eccezione di clausola arbitrale, rapporti con l’eccezione d’incompetenza territoriale e questioni di competenza.

In tema di rapporti tra arbitri ed autorità giudiziaria, si sono susseguite nel 2017 diverse pronunce inerenti l’operatività dell’art. 819 ter c.p.c. ed in particolare l’istituto del regolamento di competenza.

In forza di tale norma, difatti, la sentenza con la quale il giudice di primo grado declini la propria competenza in relazione ad una convenzione di arbitrato non è appellabile, essendo impugnabile con regolamento di competenza ex artt. 42 e 43 c.c. Sicché, la sentenza del giudice d’appello che non abbia rilevato l’inappellabilità della detta declinatoria di competenza del giudice di primo grado, è cassata, senza rinvio, in sede di legittimità anche d’ufficio. Sez. 1, n. 16863/2017, Genovese, Rv. 644842-01, ha difatti chiarito che la S.C. può rilevare d’ufficio una causa di inammissibilità dell’appello che il giudice di merito non abbia riscontrato, non potendosi riconoscere al gravame inammissibilmente spiegato alcuna efficacia conservativa del processo di impugnazione.

Per converso, la statuizione di un collegio arbitrale che pronunci sulla propria competenza a decidere la controversia sottopostagli non è impugnabile con il regolamento di competenza, sia nel regime previgente che in quello successivo all’entrata in vigore della novella di cui al d.lgs. n. 40 del 2006. La stessa formulazione letterale dell’art. 819 ter c.p.c. evidenzia difatti che il detto strumento è utilizzabile in ordine all’impugnazione della pronuncia del medesimo tenore ma resa da un giudice ordinario (Sez. 6-1, n. 23473/2017, Acierno, Rv. 645700-01).

Parimenti, non esperibile è il regolamento di competenza avverso la decisione del giudice ordinario che affermi o neghi l’esistenza o la validità di un arbitrato irrituale, e che, dunque, nel primo caso non pronunci sulla controversia, dichiarando che deve avere luogo l’arbitrato irrituale, e, nel secondo, dichiari, invece, che la decisione del giudice ordinario possa avere luogo. Sez. 6-3, n. 19060/2017, Dell’Utri, Rv. 645353-01, conferma il principio di cui innanzi muovendo dall’assunto per il quale la pattuizione dell’arbitrato irrituale determina l’inapplicabilità di tutte le norme dettate per quello rituale, ivi compreso l’art. 819 ter c.p.c.

Il primo periodo del comma 1 dell’art. 819 ter c.p.c., nel prevedere che la competenza degli arbitri non è esclusa dalla connessione tra la controversia ad essi deferita ed una causa pendente davanti al giudice ordinario, implica, in riferimento all’ipotesi in cui sia stata proposta una pluralità di domande, che la sussistenza della competenza arbitrale sia verificata con specifico riguardo a ciascuna di esse, non potendosi devolvere agli arbitri (o al giudice ordinario) l’intera controversia in virtù del mero vincolo di connessione. L’eccezione d’incompetenza deve peraltro essere sollevata con specifico riferimento alla domanda o alle domande per le quali è prospettabile la dedotta incompetenza. Sicché, come affermato da Sez. 6-3, n. 307/2017, Tatangelo, Rv. 642728-01, ove la detta eccezione sia formulata soltanto in relazione ad una tra più domande connesse, ma che non diano luogo a litisconsorzio necessario, il suo accoglimento comporta la necessaria separazione delle cause, ben potendo i giudizi proseguire davanti a giudici diversi in ragione della derogabilità e disponibilità delle norme in tema di competenza.

Circa i rapporti tra le eccezioni pregiudiziali in rito di clausola per arbitrato rituale e di incompetenza territoriale del giudice adito, invece, Sez. 6-3, n. 25254/2017, Olivieri, Rv. 646825-01, ha considerato l’ipotesi della loro proposizione cumulativa, ad opera della parte convenuta e con specifica graduazione in tal senso del loro esame. Essa ha ritenuto vincolante la detta graduazione per il giudice di merito circa l’osservanza dell’ordine predetto, in virtù sia del potere dispositivo della parte che del criterio di progressione logico-giuridica dell’esame delle questioni in rito, qual è ricavabile, relativamente alle questioni di competenza, da una interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 38, comma 1 e 3, e 819 ter comma 1, c.p.c., secondo i principi del “giusto processo”, ex art. 111 Cost., e di effettività della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. Così argomentando, per la S. C., qualora il giudice di merito non si pronunci sull’eccezione di clausola arbitrale, limitandosi ad esaminare solo l’eccezione subordinata di incompetenza territoriale, in tal modo affermando la potestas decidendi del giudice statale e ritenendo con decisione implicita insussistente la competenza arbitrale, il relativo provvedimento in rito non è contestabile ex ufficio dal giudice ad quem, stante i limiti invalicabili dell’art. 45 c.p.c. Esso è invece suscettivo di impugnazione esclusivamente attraverso il rimedio del regolamento necessario di competenza, ex art. 42 c.p.c., restando, in difetto, definitivamente radicata la competenza dinanzi al giudice territorialmente indicato come competente, davanti al quale la causa sia stata riassunta, ai sensi dell’art. 44 c.p.c.

11. Arbitrato estero e questioni di giurisdizione.

In presenza di una clausola compromissoria di arbitrato estero, avente ad oggetto tutte le controversie nascenti dal contratto ad esclusione dei procedimenti sommari o conservativi, il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo rimane soggetto ad arbitrato, non potendo essere ricompreso nei procedimenti sommari in quanto caratterizzato da contraddittorio e cognizione piena. Sez. U., n. 21550/2017, Bielli, Rv. 645318-01, oltre al principio di cui innanzi, ha confermato il costante orientamento della S.C. per la quale la clausola di compromesso in arbitrato estero non osta all’emissione di un decreto ingiuntivo, perché il conseguente difetto di giurisdizione attiene alla cognizione di una “controversia”, presupponendo quindi il contraddittorio invece assente nel procedimento monitorio. La S.C. ha concluso nei termini di cui innanzi dopo aver ritenuto ammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione, in ragione della natura giurisdizionale e non negoziale dell’arbitrato rituale.

Negli stessi termini Sez. U., n. 14649/2017, Di Virgilio, Rv. 644573-01, per la quale in presenza di una clausola compromissoria di arbitrato estero, l’eccezione di compromesso deve ricomprendersi, a pieno titolo, nel novero di quelle di rito, dando così luogo ad una questione di giurisdizione e rendendo ammissibile il regolamento preventivo di cui all’art. 41 c.p.c. Ciò, attesa la natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, da attribuirsi all’arbitrato rituale in conseguenza delle disciplina complessivamente ricavabile dalla legge 5 gennaio 1994, n. 5, e dal d.lgs. n. 40 del 2006. La S.C. ha altresì precisato che il difetto di giurisdizione nascente dalla presenza di una clausola compromissoria siffatta può essere rilevato in qualsiasi stato e grado del processo, a condizione che il convenuto non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana, e dunque solo qualora questi, nel suo primo atto difensivo, ne abbia eccepito la carenza.

Il regolamento preventivo di giurisdizione è stato altresì ritenuto ammissibile nell’ipotesi di lodo pronunciato da arbitri straniero, in quanto la preclusione della proposizione di esso, posta dall’art. 41, comma 1. c.p.c., opera solo in presenza di una sentenza emessa dal giudice italiano. Tale condizione di esperibilità è difatti relazionata alla pendenza del giudizio di merito, da intendersi quale giudizio nel corso del quale è stato proposto il regolamento (Sez. U., n. 14649/2017, Di Virgilio, Rv. 644573-02).