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CAPITOLO I

IL DIRITTO ALLA CONOSCENZA DELLE ORIGINI DEL FIGLIO NATO DA MADRE CHE HA CHIESTO DI NON ESSERE NOMINATA AL MOMENTO DEL PARTO

(di Paolo Di Marzio )

Sommario

1 Corte di Cassazione e diritto alle origini. - 2 Il ricorso nell’interesse della legge ed il principio affermato dalle Sez. U. - 3 Il quadro normativo di riferimento. - 4 Le pronunce della CEDU e della Corte costituzionale. - 5 Le recenti decisioni della S.C. - 6 La sentenza n. 1946 del 2017 delle Sez. U, ed i successivi sviluppi. - Bibliografia

1. Corte di Cassazione e diritto alle origini.

La S.C. è stata chiamata a pronunciarsi quattro volte, nel volgere di meno di un anno, in materia di diritto del figlio, nato da madre che ha chiesto di non essere nominata, di conoscere le proprie origini. La prima sezione della Cassazione ha deciso che il figlio – cui la Corte costituzionale, con sentenza n. 278 del 18 novembre 2013, ha riconosciuto il diritto all’interpello della madre per domandarle se intenda conservare l’anonimato – qualora all’interpello non possa procedersi perché la madre è scomparsa, ha comunque diritto a conoscere le proprie origini. La Corte costituzionale, però, aveva previsto che le modalità di interpello della madre vivente dovessero essere disciplinate dal legislatore, e quest’ultimo non vi ha ancora provveduto. Ne era nato, in conseguenza, un contrasto tra i giudici di merito circa la possibilità di procedere all’interpello nell’assenza di una disciplina legislativa dello stesso.

Sono state perciò chiamate a pronunciarsi le Sez. U. della Corte di Cassazione.

2. Il ricorso nell’interesse della legge ed il principio affermato dalle Sez. U.

La lunga marcia dei figli adottivi nati da parto anonimo, che domandano di conoscere le proprie origini, ha fatto un ulteriore passo avanti grazie alla sentenza delle Sez. U, n. 1946/2017. Le Sez. U., infatti, hanno riconosciuto il loro diritto, pieno ed attuale, ad ottenere dal giudice che la madre biologica sia interpellata, per domandarle se intenda conservare l’anonimato, ed hanno pure proposto significative riflessioni, aventi rilievo generale, circa gli effetti delle sentenze c.d. additive di principio pronunciate dalla Corte costituzionale. La massima ufficiale, Ced Cass. Rv. 642009-01, recita: “In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte cost. n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte suddetta, idonee ad assicurare la massima riservatezza ed il più assoluto rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità”.

Sembra opportuno però chiarire che non devono trarre in inganno le espressioni utilizzate nella massima ufficiale, appena riportata, ove afferma la possibilità per il giudice di disporre l’interpello. Le Sezioni Unite hanno riconosciuto il diritto dei figli nati da parto anonimo ad ottenere che la madre biologica sia interpellata, perché decida se mantenere l’anonimato. Pertanto il giudice deve procedere a disporre l’interpello, ne ha l’obbligo, non la facoltà.

La decisione, che offre l’occasione per fare il punto sul cd. diritto alle origini, in relazione al quale non possono trascurarsi altre tre recenti pronunce in materia della prima sezione della Cassazione, su cui occorrerà tornare nel prosieguo, è importante, anche perché contribuisce a rimuovere un limite che aveva comportato la condanna dello Stato italiano da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 25.9.2012, pronunciata su ricorso n. 33783/09, Godelli c/Italia. A seguito della decisione della Corte Europea, si è ricordato che la Corte costituzionale, con sent. 22.11.2013, n. 278, aveva riconosciuto il diritto del nato da parto anonimo ad ottenere che la madre biologica fosse interpellata al fine di sapere se intendesse conservare l’anonimato, ed aveva sollecitato il legislatore a dettare la disciplina della procedura di interpello, nel rispetto della riservatezza della madre. Il legislatore, però, non ha ancora provveduto. In conseguenza alcuni, tra Tribunali e Corti di merito, avevano ritenuto che all’interpello dovesse comunque subito provvedersi, mentre altri avevano creduto di dover attendere la disciplina legislativa.

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, sollecitato dal Presidente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia, ha perciò chiesto alla S.C., ai sensi dell’art. 363, comma 1, c.p.c., di risolvere il conflitto interpretativo nell’interesse della legge. Il P.G. ha segnalato che, in materia, occorre innanzitutto trovare un punto di equilibrio tra il diritto alla riservatezza della madre biologica, che abbia dichiarato di non voler essere nominata al momento del parto, ed il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini, entrambi riconosciuti dalla legge. Inoltre, occorre comprendere quali siano le conseguenze della decisione adottata dalla Corte costituzionale, che si è pronunciata con una sentenza c.d. “additiva di principio”, e quindi definire se, nell’inerzia del legislatore, in conseguenza della decisione della Consulta occorra comunque procedere all’interpello, e con quali modalità. Il Procuratore ha concluso domandando che il diritto del nato da parto anonimo a conoscere le proprie origini fosse affermato, con il solo limite dell’accertata persistenza della volontà della madre biologica di rimanere anonima.

In considerazione del particolare rilievo della problematica il Primo Presidente della Cassazione, pronunciando ai sensi dell’art. 363, comma 2, c.p.c., ha rimesso la decisione alle Sez. U.

3. Il quadro normativo di riferimento.

L’art. 28, comma 1, della legge n. 184 del 1983 (Diritto del minore ad una famiglia), prevede che “Il minore adottato è informato di tale sua condizione … i genitori adottivi vi provvedono …”. Pertanto il diritto del figlio a sapere di essere stato adottato è riconosciuto dal diritto positivo, senza limiti.

Lo stesso art. 28 dispone poi, ai commi 5 e 6, che “L’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici … l’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni” che, a seguito di apposita istruzione dell’istanza, “autorizza con decreto l’accesso alle notizie richieste”. Il figlio adottivo ha quindi diritto a sapere chi siano i suoi genitori biologici, salvo che emergano adeguate ragioni le quali inducano l’organo giurisdizionale ad inibire la conoscenza.

L’art. 28 della legge n. 184 del 1983, però, prevedeva al settimo comma che “l’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, d.P.R. 3.11.2000, n. 396”. La disposizione da ultimo richiamata prevede: “La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata”. Questa regola deve essere quindi coordinata con quanto dispone l’art. 93 (Certificato di assistenza al parto), del d.lgs. 30.6.2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), ove prevede che: “2. Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata … possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento”. Ai sensi del comma tre, peraltro, è possibile accedere prima dei cento anni ai dati relativi alla madre, a condizione che la stessa rimanga non identificabile.

In questa situazione, mentre il figlio adottivo ha, in generale e salvo valutazione del caso di specie da parte del Tribunale per i minorenni, il diritto a conoscere le proprie origini, questo diritto non era riconosciuto al figlio adottivo la cui madre avesse chiesto di non essere nominata al momento del parto, senza alcun bilanciamento tra il diritto del figlio a conoscere le proprie origini ed il diritto della madre al rispetto della propria scelta di anonimato.

4. Le pronunce della CEDU e della Corte costituzionale.

Anita Godelli, “abbandonata dalla madre biologica” il 28 marzo 1943, era stata prima ricoverata in istituto di assistenza, e quindi affiliata alla famiglia Godelli. La donna aveva domandato ai giudici italiani di conoscere chi fosse la sua madre biologica ma, esaurite le vie giurisdizionali, la sua istanza era stata respinta. I giudici avevano infatti ritenuto che il diritto alla conoscenza delle proprie origini non fosse riconosciuto dall’ordinamento italiano al figlio nato da donna che avesse domandato di non essere nominata.

Ormai sessantenne, la donna aveva allora adìto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per domandare giustizia. La Corte EDU, con la sent. 25.9.2012, pronunciata su ricorso n. 33783/09, ricostruiva il diritto italiano vigente, quindi richiamava l’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4.11.1950, e ratificata dall’Italia con legge 4.8.1955, n. 488, che al primo comma recita: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare …”.

Il Giudice sovranazionale ricordava che il Governo italiano aveva sostenuto la Godelli non avesse diritto al rispetto della propria vita familiare, perché non aveva avuto una famiglia di origine, non essendo mai esistita tra la madre partoriente e la ricorrente una vita familiare. La Corte replicava, però, che la ricorrente aveva comunque diritto al rispetto della sua vita privata.

Segnalava, inoltre, il Giudice europeo, come la ricorrente avesse sostenuto che, nel diritto italiano, “la madre dispone di un diritto puramente discrezionale di mettere al mondo un figlio in sofferenza e di condannarlo, per tutta la vita, all’ignoranza. Una preferenza cieca viene accordata ai soli interessi della madre”.

Affermava allora la Corte EDU che, se merita tutela il diritto di una madre partoriente a conservare l’anonimato, esiste anche un diritto del figlio a conoscere le proprie origini, che trova fondamento nel diritto alla tutela della vita privata.

Concludeva pertanto la Corte europea che il diritto italiano non operava (affatto) un bilanciamento degli interessi in gioco e, non potendo modificare la decisione di negare l’accesso alle origini adottata dai giudici nazionali, condannava l’Italia al risarcimento del danno in favore della ricorrente. La vicenda personale di Anita Godelli, comunque, ha trovato alfine soluzione positiva perché, a seguito della pronuncia della Corte EDU, il Tribunale per i minorenni di Trieste, nuovamente adìto dall’interessata, l’ha autorizzata ad accedere alle informazioni relative all’identità della propria madre, con decreto dell’8.5.2015.

Successivamente alla ricordata pronuncia della Corte europea, la Corte costituzionale italiana, che aveva già deciso, in senso contrario alla configurabilità del diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini, con sent. 25.11.2005, n. 425, era nuovamente chiamata a pronunciarsi in materia.

La Consulta, con sent. 22.11.2013, n. 278 (Pres. Silvestri, Est. Grossi), evidenziava innanzitutto che, effettivamente, ci troviamo in presenza di un conflitto tra interessi contrapposti: l’interesse della madre alla riservatezza, all’oblio, e l’interesse dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini. Ricordava, quindi, che la disparità di trattamento giuridico tra chi è stato semplicemente adottato e chi pure è stato adottato, ma a seguito di manifestazione di volontà della madre biologica di non essere nominata, nasce comunque a tutela (anche) del bambino. Consentendo la possibilità di partorire in ospedale in forma anonima, infatti, il legislatore ha inteso contenere il rischio che donne in difficoltà possano scegliere di interrompere la gravidanza, negando così la vita al loro bambino.

Tanto premesso, la Consulta ha riconosciuto che un bilanciamento degli interessi di madre e figlio occorreva trovarlo, ed ha perciò dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 28, comma sette, della legge n. 184 del 1983, “nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata … – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”.

Il rinvio al legislatore – che, purtroppo, è rimasto sinora inerte – operato dalla Consulta, ha però provocato le incertezze nella giurisprudenza di merito cui si è fatto cenno, che hanno indotto il P.G. a domandare alla S.C. di pronunciarsi per risolvere i dubbi, nell’interesse della legge.

Le incertezze, peraltro, sembrano aver riguardato essenzialmente la giurisprudenza di merito, perché la recente giurisprudenza di legittimità ha mostrato di dare per scontato il diritto all’interpello da parte del figlio adottivo di madre che abbia chiesto di non essere nominata. La Corte di legittimità, anzi, si è impegnata a cercare soluzione anche ad una ipotesi più complessa, quella del diritto alla conoscenza delle origini del figlio adottivo nato da parto anonimo quando la madre sia deceduta al momento in cui l’interpello può essere espletato.

5. Le recenti decisioni della S.C.

Nel primo caso deciso dalla Suprema Corte l’istante, figlia adottiva nata nel 1974 da madre biologica che aveva dichiarato al momento del parto di non voler essere nominata, aveva domandato di poter conoscere le proprie origini, invocando quanto deciso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 278 del 2013.

Il Tribunale di Torino aveva accolto l’istanza ed accertato presso l’Ospedale in cui la richiedente era venuta alla luce chi fosse sua madre, nell’intento di procedere al suo interpello, per sapere se intendesse conservare l’anonimato. Appreso però che la madre era defunta, il Tribunale ha ritenuto di dover escludere che il decesso potesse intendersi quale implicante la revoca della richiesta di anonimato, ed ha respinto la richiesta di conoscenza delle origini proposta dalla figlia.

La Corte d’Appello ha confermato la decisione di primo grado.

La donna ha allora adìto la S.C., e la Sez. 1, con sent. 21 luglio 2016, n. 15024 (Pres. Forte, Est. Bisogni), le ha invece dato ragione, ed ha anche ritenuto di decidere nel merito.

La Cassazione ha innanzitutto richiamato le normative sovranazionali che riconoscono al minore il diritto alla conoscenza delle origini, operando riferimento all’art. 7 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1959, che lo prevede espressamente, ed anche all’art. 30 della Convenzione dell’Aja sull’esercizio dei diritti dei minori del 1993. Il Giudice di legittimità ha quindi ricostruito il quadro dei diritti nazionali europei in materia, ed ha ricordato che solo un numero minoritario di Paesi consente il parto anonimo, e comunque il diritto alla conoscenza delle origini è in taluni Stati attribuito espressamente dal legislatore, come avviene ad esempio in Germania, mentre in altri Paesi è stato riconosciuto grazie all’opera della giurisprudenza come verificatosi, ad esempio, in Olanda.

La Suprema Corte ha poi affermato, in questa decisione, di condividere le posizioni dottrinarie che ritengono inefficace ed inappropriato parlare di una esigenza di bilanciamento tra i diritti fondamentali, della madre all’oblio e del figlio alla conoscenza delle origini. In sintesi, secondo questa pronuncia del Giudice di legittimità, se il diritto della madre a non essere nominata in occasione del parto ha la funzione principale di contrastare la scelta abortiva, questo diritto è pieno solo al momento della nascita del bambino, “dopo la nascita … il diritto all’anonimato diventa strumentale a proteggere la scelta compiuta dalle conseguenze sociali e in generale dalle conseguenze negative che verrebbero a ripercuotersi … sulla persona della madre. Non è il diritto in sé della madre che viene garantito ma la scelta che le ha consentito di portare a termine la gravidanza”.

La Cassazione ha quindi spiegato che, quando la madre muore, la previsione di cui all’art. 93, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003 diviene “inoperante”, perché cristallizzerebbe per cento anni una scelta non più revocabile, il che non può considerarsi ammissibile nel nostro ordinamento. Qualora la scelta di anonimato della madre dovesse ritenersi possa rimanere irrevocabile, o perché confermata a seguito di interpello oppure in conseguenza della sua morte, che le impedirebbe la possibilità di revocarla, il figlio subirebbe la definitiva perdita del diritto alla conoscenza delle origini, che pure ha natura fondamentale. Nell’annotare in forma adesiva la sentenza, si è sostenuto in dottrina che “l’evento morte della madre fa venir meno ogni diritto o interesse contrapposto a quello del figlio, la cui pretesa … ha sicuro fondamento costituzionale” (Casaburi).

La decisione della S.C., chiara, ampia ed articolata, può senz’altro condividersi nelle conclusioni. Sembra però il caso di dedicare una riflessione alla posizione giuridica vantata dalla madre. Secondo la Cassazione, il suo diritto all’anonimato sarebbe pieno al momento del parto, divenendo poi sempre meno meritevole di tutela ed affievolendo, perciò, con il passare del tempo. Sembra contrastare con questa affermazione il diritto positivo. La questione controversa è stata infatti, (almeno) fino ad oggi, se competa al figlio il diritto all’interpello della madre. Nessuno ha (ancora) dubitato che, finché rimane in vita, la madre interpellata possa confermare la propria scelta di anonimato, paralizzando l’aspettativa del figlio di conoscere le proprie origini. Il diritto all’anonimato della madre vivente è riconosciuto integro e perfetto, tanto da essere considerato prevalente rispetto al diritto, pure riconosciuto come fondamentale, del figlio alla conoscenza delle origini. È solo a seguito dell’evento morte della madre, quando lei non può più revocare il proprio dissenso alla comunicazione della propria identità, che appare improprio accordare ancora la prevalenza al diritto della madre rispetto a quello del figlio; sembra infatti iniquo che alla tutela di un diritto all’oblio, rimasto privo del suo titolare, possa essere accordata prevalenza rispetto al diritto fondamentale del figlio di conoscere le proprie origini. A seguito della morte il diritto della madre non può che essere recessivo rispetto a quello del figlio. Rimaniamo comunque nell’ambito di quel bilanciamento di interessi di cui hanno parlato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la Corte costituzionale.

A breve distanza temporale, la prima sezione della Suprema Corte è stata chiamata nuovamente a pronunciarsi in una vicenda sostanzialmente analoga, e lo ha fatto con sentenza della Sez. 1, n. 22838/2016 (Pres. Di Palma, Est. Acierno). Una figlia adottiva si era rivolta al Tribunale per i Minorenni domandando di conoscere l’identità della sua madre biologica. La Corte d’Appello di Torino aveva accertato la scomparsa della madre, ed in conseguenza aveva ritenuto che il dato relativo al nominativo della madre biologica non potesse più essere rivelato, perché era venuto meno il soggetto (l’unico) che aveva titolo a revocare la dichiarazione di non voler essere nominato.

La Cassazione ha innanzitutto affermato che il diritto all’informazione circa l’identità dei genitori biologici “attiene all’attuazione dello sviluppo della personalità individuale, sotto il profilo del completamento dell’identità personale”; si tratta pertanto di un diritto fondamentale, tutelato ai sensi dell’art. 2 della Costituzione.

Ha quindi rammentato che nella sentenza Godelli, innanzi ricordata, la Corte EDU aveva censurato l’Italia per non aver operato un bilanciamento degli interessi in gioco, accordando tutela esclusiva al diritto alla riservatezza della madre. L’esigenza di un corretto bilanciamento è stata ribadita dalla Consulta con la sentenza n. 278 del 2013, e la Corte costituzionale ha anche indicato la strada, riconoscendo la piena legittimità dell’interpello rivolto alla madre biologica.

Ora, sta di fatto che l’interpello non può essere (più) praticato quando la madre è defunta. Ad ammettere che solo il figlio nato da parto anonimo di madre vivente possa ricercare le proprie origini, domandando ed ottenendo che la madre sia interpellata, mentre nulla potrebbe fare il figlio se la madre fosse ormai scomparsa, si rischia di giustificare una disparità di trattamento che non pare neppure ragionevole. Ne discende che, se la madre biologica è morta, il suo nome deve essere comunicato al figlio nato da parto anonimo che abbia domandato di conoscerlo.

La Cassazione ha poi osservato che, in generale, sia il diritto alla conoscenza delle origini del figlio, sia il diritto all’oblio della madre, sono personalissimi, e dovrebbero quindi estinguersi con la morte, non essendo trasmissibili. Questa soluzione apparirebbe però inappagante, “e non si ritiene, pertanto, che ogni profilo di tutela dell’anonimato si esaurisca alla morte della madre”; il diritto alla conoscenza delle origini del figlio “non esclude la protezione dell’identità sociale” della madre, “in relazione al nucleo familiare e/o relazionale eventualmente costituito dopo aver esercitato il diritto all’anonimato”. In conseguenza, conosciuto il nome della madre, l’informazione “deve essere utilizzata senza cagionare danno, anche non patrimoniale, alla reputazione e ad altri beni di primario rilievo costituzionale di eventuali terzi interessati (discendenti o familiari)”.

Anche questa seconda sentenza della prima sezione della Suprema Corte espone i propri argomenti con diffusione. Condivisibile ed apprezzabile è la pronuncia nella misura in cui valorizza il diritto alla tutela dei diritti morali della madre anche dopo la sua morte; così come la scelta di ricondurre la soluzione del conflitto tra i diritti fondamentali della madre e del figlio nella teorica del bilanciamento di interessi.

Appare però forse ridondante il richiamo insistito, ripetuto anche in sede di enunciazione del principio di diritto, al dovere dell’adottato che abbia acquisito i dati relativi al genitore biologico di servirsene in modo lecito e non lesivo dei diritti dei terzi.

Invero, a quanto sembra, il figlio adottivo nato da parto anonimo è tenuto all’utilizzo (“trattamento”, se si preferisce) dei dati personali in suo possesso in maniera lecita – nel rispetto delle previsioni, anche penali, poste dall’ordinamento a tutela di diritti individuali come l’onore, la riservatezza, etc. – proprio come il figlio nato da genitori uniti in matrimonio, e chiunque altro detenga dati personali. Questa opinione sembra invero trovare conforto nello stesso testo della decisione del Giudice di legittimità. L’unica norma legislativa che la Suprema Corte richiama espressamente, per illustrare i limiti di discrezione che deve osservare l’adottato, il quale abbia ottenuto di conoscere il nome della sua madre biologica, è l’art. 11 (Modalità di trattamento e requisiti dei dati), lett. a), del d.lgs. n. 196 del 2003, disposizione che ha evidentemente applicazione generale.

Al di là delle differenze che si sono, in parte, evidenziate, in definitiva entrambe le decisioni della S.C. giungono alla conclusione di dare per scontato il diritto all’interpello della madre biologica da parte del figlio nato da parto anonimo, e si impegnano ad indicare la soluzione per l’ipotesi che la proposizione dell’interpello non sia più possibile.

6. La sentenza n. 1946 del 2017 delle Sez. U, ed i successivi sviluppi.

In materia di parto anonimo, singolarmente, le Sez. U della Cassazione sono state chiamate a dirimere un contrasto insorto tra i giudici di merito perché, come si è appena visto, la giurisprudenza di legittimità non sembrava mostrare incertezze in materia.

Il Supremo consesso, nella richiamata sentenza n. 1946 del 2017, ha ricordato che, nel vigore del sistema normativo ricostruito al precedente paragrafo 3, la scelta di anonimato compiuta dalla madre si “connotava per l’assolutezza e l’irreversibilità, proiettandosi su di un arco di tempo eccedente la vita umana: in presenza dell’ostacolo dell’anonimato, il giudice non poteva fornire alcuna indicazione identificativa al figlio”. La disciplina in questione, ed in particolare quanto previsto dal ricordato comma sette dell’art. 28, della legge n. 184 del 1983, che non prevedeva il diritto all’interpello, era già stata sottoposta al vaglio di costituzionalità una prima volta, e la Consulta l’aveva ritenuta legittima. La Corte costituzionale con la sent. 25 novembre 2005, n. 425, cui si è già fatto cenno, aveva osservato che l’apparato legislativo intendeva “assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali e … distogliere la donna da decisioni irreparabili. La norma, perseguendo questa duplice finalità, è espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda e non si pone in contrasto con gli artt. 2 e 32 della Costituzione. Non sussiste neppure la violazione dell’art. 3 della Costituzione sotto il profilo dell’irragionevole disparità fra l’adottato nato da donna che abbia dichiarato di non voler essere nominata e l’adottato figlio di genitori che non abbiano reso alcuna dichiarazione al riguardo: la diversità di disciplina non è, infatti, ingiustificata, dal momento che solo la prima ipotesi, e non anche la seconda, è caratterizzata dal rapporto conflittuale fra il diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre al rispetto della sua volontà di anonimato”.

Le Sez. U hanno quindi evidenziato che la Corte costituzionale, nuovamente adìta, peraltro dopo che era intervenuta la segnalata decisione della CEDU sul caso Godelli, con la ricordata sentenza n. 278 del 2013 “ha ribaltato la precedente decisione e dichiarato l’illegittimità costituzionale, in parte qua, dell’art. 28, comma 7, della legge n. 184 del 1983”. La Consulta ha sottolineato che, come il diritto della madre all’anonimato, pure il diritto del figlio a conoscere le proprie origini “e ad accedere alla propria storia parentale, costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona”. Il Giudice delle leggi ha reputato pertanto irragionevole che la scelta per l’anonimato “risulti necessariamente e definitivamente non revocabile ad iniziativa del figlio”.

Le Sez. U si sono quindi impegnate ad esaminare la questione degli effetti della sentenza n. 278 del 2013 della Corte costituzionale, da qualificarsi come una decisione additiva di principio. Hanno allora sottolineato, innanzitutto, che si tratta di una decisione con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale di una norma, e pertanto la disposizione “cessa di avere efficacia” e “non può trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” (cfr., in proposito, gli artt. 136 Cost., e 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, sul funzionamento della Corte costituzionale). In conseguenza – essendo stato dichiarato costituzionalmente illegittimo il settimo comma dell’art. 28 della legge n. 184 del 1983, nella parte in cui non prevedeva il diritto del figlio nato da parto anonimo a rivolgere l’interpello alla propria madre biologica – qualora il giudice adito dal figlio gli negasse il diritto all’interpello, “continuerebbe a dare attuazione” ad una norma non più vigente, “giacché l’ordinamento collega alla declaratoria di incostituzionalità l’effetto della rimozione della norma giudicata illegittima”, ed il vulnus alle previsioni di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione, causato dalla norma dichiarata incostituzionale in pregiudizio dei diritti del figlio nato da parto anonimo, continuerebbe a prodursi, il che è evidentemente inammissibile.

Il punto di equilibrio tra i diritti della madre e del figlio è stato individuato dalla Consulta nel riconoscimento in favore del figlio della facoltà di proporre l’interpello, fermo restando il diritto della madre di confermare la propria scelta di anonimato.

Il fatto che la pronuncia di incostituzionalità abbia la natura di una sentenza additiva di principio e non introduca perciò “regole di dettaglio self-executing quanto alle modalità del procedimento di appello, non esonera gli organi giurisdizionali, in attesa che il legislatore adempia al suo compito, dall’applicazione diretta di quel principio, né implica un divieto di reperimento dal sistema delle regole più idonee per la decisione dei casi loro sottoposti”. Le Sez. U. hanno ricordato quindi come la stessa Consulta abbia chiarito che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una “omissione legislativa”, relativa alla mancata previsione della procedura idonea ad assicurare in concreto la possibilità di esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, come si è verificato nel caso in esame, “lascia al legislatore … di introdurre e di disciplinare anche tale meccanismo in via di normazione astratta”, ma comunque “somministra essa stessa un principio cui il giudice comune è abilitato a fare riferimento per porre frattanto rimedio all’omissione in via di individuazione della regola del caso concreto”.

La S.C., in conseguenza, ha specificato che le sentenze additive di principio sono “tendenzialmente caratterizzate da una duplice funzione, di orientamento del legislatore, nella necessaria attività consequenziale alla pronuncia, diretta a rimediare all’omissione incostituzionale; dall’altro, di guida del giudice nell’individuare, ove possibile, soluzioni applicative utilizzabili”, anche immediatamente, per assicurare la tutela dei diritti, nell’attesa che il legislatore adempia al suo compito.

Le Sezioni Unite, quindi, hanno avuto cura di non sostituirsi al legislatore nell’indicare quale sia il procedimento da seguire per l’interpello della madre che ha domandato di non essere nominata. La Suprema Corte, infatti, si è limitata a fornire alcune indicazioni generali sui principi procedurali applicabili, ed ha operato riferimento al procedimento camerale di cui all’art. 28, commi 5 e 6, della legge n. 184 del 1983, non mancando di sottolineare l’esigenza di adattarlo per “assicurare in termini rigorosi la riservatezza della madre”, destinataria di “un’interrogazione riservata, esperibile una sola volta”. Quindi le Sezioni Unite hanno analizzato alcune procedure di interpello seguite sinora dai giudici di merito, e le hanno valutate tutte rispettose dei diritti coinvolti ed adeguate allo scopo, risultando perciò legittime.

La decisione delle Sez. U si distingue per linearità ed esemplare chiarezza, e sembra pure meritare, in generale, piena condivisione.

Una perplessità, per la verità, dipende dalla specificazione della Corte, in una decisione sempre attenta a non invadere la sfera di competenza del legislatore, secondo cui l’interpello può essere rivolto alla madre “una sola volta”. Anche l’individuazione del numero di volte in cui la procedura di interpello può essere esperita sembra infatti competere al legislatore.

Dopo la pronuncia delle Sez. U, la Sez. 1 della S.C. ha avuto occasione di occuparsi nuovamente del diritto alle origini del figlio nato da parto anonimo e, con sentenza n. 14162/2017, Rv. 644452, ha deliberato che “il Tribunale per i minorenni, in quanto giudice competente, su richiesta del figlio che intenda esercitare il diritto a conoscere delle proprie origini e ad accedere alla propria storia parentale, è tenuto ad interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e sulla base dei principi enunciati dalla sentenza della Corte cost. n. 278 del 2013, idonee ad assicurare la massima riservatezza ed il più assoluto rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità”. Il consolidarsi della giurisprudenza della Suprema Corte consente di affermare che il riconoscimento del diritto del figlio nato da parto anonimo alla conoscenza delle proprie origini è, ormai, parte del c.d. diritto vivente.

Certo, molti problemi rimangono aperti, ad esempio se sussista un diritto a conoscere le proprie origini da parte del figlio la cui madre abbia domandato di non essere nominata anche in sede di interpello, ma sia poi defunta. Invero in questa ipotesi, a seguito della morte della madre, sembra corretto ritenere che il suo diritto alla riservatezza debba comunque cedere di fronte al diritto fondamentale del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Questa soluzione è stata peraltro suggerita dalla S.C. con la ricordata sentenza n. 15024/2016.

Un’altra domanda nasce spontanea, a seguito della lettura delle recenti pronunce della S.C. in materia di parto anonimo. Le problematiche affrontate, per quanto in parte diverse, attengono comunque al diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Sembra però corretto chiedersi se non occorra riconoscere pure il diritto della madre che, all’atto del parto ed in una situazione di difficoltà, ha chiesto di non essere nominata, di avere un ripensamento, di poter almeno domandare di incontrare di nuovo il suo bambino. L’argomento è qui proposto in via teorica, evidentemente, non senza ricordare che il diritto della madre a revocare la propria dichiarazione di anonimato, resa al momento del parto, risulta riconosciuto nel disegno di legge AS n. 1978 (cfr. art. 1, lett. b), attualmente all’esame del Senato dopo essere stato approvato dalla Camera, mediante il quale si intende(rebbe) anche dettare in via legislativa il procedimento per lo svolgimento dell’interpello rivolto dal figlio alla madre biologica.

Nella pratica, poi, il riconoscimento di un simile diritto importerebbe una serie di problematiche. Ad esempio, quando la madre potrebbe domandare di incontrare nuovamente il figlio, in qualsiasi momento, anche a breve distanza dal parto? Questa soluzione rischierebbe però, almeno in alcuni casi, di compromettere il percorso adottivo del bambino. Sarebbe forse meglio, allora, realizzare un parallelismo: se il minore ha diritto all’interpello al compimento della maggiore età (come prevede l’AS n. 1978), anche la madre potrebbe domandare di rivelarsi trascorsi diciotto anni dal parto? Ancora, se la madre vuole conoscere il figlio, occorre metterli in contatto e basta, oppure è necessario rivolgere un interpello al figlio per sapere se intenda conoscere la madre? O forse è preferibile prendere atto della disponibilità della madre ma attendere, per rivelare l’informazione sull’identità, che sia il figlio a chiedere di conoscere le proprie origini?

. Bibliografia

Bibliografia

Amoroso G., Pronunce additive di incostituzionalità e mancato intervento del legislatore, nota a Cass. SU, sent. 25.1.2017, n. 1946, edita in Foro it., 2017, I, p. 494 ss.

Andreola E., Accesso alle informazioni sulla nascita e morte della madre anonima, nota a Cass. Sez. I, sent. 9.11.2016, n. 22838, edita in Fam. dir., 1/2017, p. 15 ss.

Carbone V., Con la morte della madre al figlio non è più opponibile l’anonimato: i giudici di merito e la Cassazione a confronto, che propone anche valutazioni di diritto comparato, nota a Cass. Sez. I, sent. 21.7.2016, n. 15024, edita in Corr. giur., 1/2017, p. 24 ss.

Casaburi G., nota redazionale a Cass. Sez. I, sent. 9.11.2016, n. 22838, edita in Foro it., I, 2016, p. 3784 ss.

Gaspare L., Volontà della madre biologica di non essere nominata nella dichiarazione di nascita e diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini, nota a Corte cost., sent. 22.11.2013, n. 278, edita in Dir. fam., 2014, p. 27 ss.

Long. J., La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo censura l’Italia per la difesa a oltranza dell’anonimato del parto: una condanna annunciata, nota a Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sent. 25.9.2012, pronunciata su ricorso n. 33783/09, Godelli c/Italia, edita in Nuova giur. civ. comm., 2/2013, p. 1103 ss.

  • avvocato

CAPITOLO II

CANCELLAZIONE VOLONTARIA DALL’ALBO DEGLI AVVOCATI ED EFFETTI SUI PROCESSI IN CORSO: UN “FANTASMA” ALEGGIA IN AULA

(di Gian Andrea Chiesi )

Sommario

1 Premessa. - 2 Gli orientamenti di legittimità: a) la teoria della inesistenza della notifica. - 2.1 (Segue) b) la teoria della nullità della notifica. - 2.3 (Segue) c) la teoria della validità della notifica. - 3 La soluzione delle Sez. U. - 4 Una prospettiva per il futuro: un doppio binario per le notifiche telematiche? - Bibliografia

1. Premessa.

L’assenza, nel vigente codice di rito, di una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 334 del c.p.c. del 1865 − che, nell’enumerare le cause di interruzione del processo, genericamente annoverava tra le stesse la “cessazione” dall’esercizio della professione, senza che ne rilevasse la natura volontaria o coatta − ha determinato l’insorgere di posizioni contrastanti circa la questione concernente sorte della notifica dell’atto di impugnazione eseguita nei confronti del procuratore dell’appellato che, al momento della notifica medesima, risulti cancellato dall’albo (1)

La questione – peraltro di non poco conto, se si considera che dall’adesione all’uno all’altro di tali orientamenti derivano conseguenze rilevanti sui processi in corso, quale l’avvenuto passaggio in giudicato, o meno, della pronunzia impugnata – è stata infine risolta da Sez. U., n. 3702/2017, Rv. 642537-02, mediante l’affermazione del principio così ufficialmente massimato: “la notifica dell’atto di appello eseguita mediante sua consegna al difensore domiciliatario, volontariamente cancellatosi dall’albo nelle more del decorso del termine di impugnazione e prima della notifica medesima, è nulla, giacché indirizzata ad un soggetto non più abilitato a riceverla, siccome ormai privo di “ius postulandi”, tanto nel lato attivo che in quello passivo. Tale nullità, ove non sanata, retroattivamente, dalla costituzione spontanea dell’appellato o mediante il meccanismo di cui all’art. 291, comma 1, c.p.c., determina, altresì, la nullità del procedimento e della sentenza di appello, ma non anche il passaggio in giudicato della decisione di primo grado, giacché un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 301, comma 1, c.p.c. porta ad includere la cancellazione volontaria suddetta tra le cause di interruzione del processo, con la conseguenza che il termine di impugnazione non riprende a decorrere fino al relativo suo venir meno o fino alla sostituzione del menzionato difensore”.

2. Gli orientamenti di legittimità: a) la teoria della inesistenza della notifica.

Il percorso argomentativo seguito dalla S.C. prende le mosse dalla considerazione per cui l’art. 301, comma 1, c.p.c. del 1942 è stato licenziato, nella sua versione definitiva, con l’inclusione, tra le cause di interruzione del processo, della “radiazione” del difensore, anziché della più generica “decadenza” (prevista, invece, nel progetto definitivo Solmi); sennonché, pur essendo stato utilizzato un lemma (“radiazione”) dall’indubbia accezione sanzionatoria, tale da determinare, secondo la teoria del legislatore consapevole, l’esclusione della cancellazione volontaria dall’albo – quale atto spontaneo del difensore – dal novero delle cause di interruzione del processo, cionondimeno ad avviso del Supremo Consesso il silenzio (oggettivamente ambiguo) serbato sul punto non autorizza ad una conclusione certa nel senso appena illustrato, potendosi interpretare lo stesso anche alla stregua dell’opposto principio, per cui ubi lex tacuit noluit.

Da tale incertezza interpretativa sono dunque originati, nel corso degli anni, diversi orientamenti − della cui esistenza e rilevanza giuridica dà conto anche Corte Cost., 16.5.2008, n. 147 (2) − in merito alla questione, “a valle”, concernente la sorte della notifica eseguita nei confronti del difensore, nelle more, cancellatosi volontariamente dall’albo. (1)

Una prima impostazione, riconducibile a Cass., S.U., 26.3.1968, n. 935, Rv. 332297-01 (poi seguita da Cass. S.U. 21.11.1996, n. 10284, Rv. 500703 e numerose altre, fino a Cass., Sez. III, 11.6.2014, n. 13244, Rv. 631756), affermava l’inesistenza della notifica dell’atto di impugnazione eseguita nei confronti del procuratore domiciliatario che, anteriormente ad essa, si sia volontariamente cancellato dall’albo, sulla base, sostanzialmente dei seguenti argomenti: 1) impossibilità di ulteriore esercizio della professione forense da parte del difensore non (più) iscritto all’albo, sanzionata anche sotto il profilo penale, con conseguente perdita, ad opera dello stesso, dello jus postulandi e, con esso, della possibilità di compiere ovvero ricevere atti processuali, nonché venir meno dell’elezione di domicilio; 2) inapplicabilità, per effetto della perdita dello jus postulandi, del principio di ultrattività del mandato, atteso che l’esercizio della professione diviene ex se illegittima; 3) necessità di garantire il rispetto del diritto di difesa (art. 24 Cost.) ed al contraddittorio (art. 111 Cost.) della parte rappresentata dal difensore cancellatosi dall’albo; 4) necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 301, comma 1, c.p.c., tale da ricomprendere tra le cause di interruzione del processo, in via estensiva ovvero analogica, anche l’ipotesi di cancellazione volontaria dall’albo.

2.1. (Segue) b) la teoria della nullità della notifica.

Il secondo orientamento, sostenuto da Cass., Sez. I, 11.10.1999, n. 11360, Rv. 530559-01 (e, successivamente, da Cass., Sez. III, 13.12.2005, n. 27450, Rv. 587250; Cass., Sez. III, 22.4.2009, n. 9528, Rv. 608257-01 e Cass., Sez. II, 21.5.2013, n. 12478, Rv. 626509-01), era favorevole, al contrario, alla nullità della notifica dell’atto di gravame in tal modo notificato, in virtù dei seguenti rilievi: 1) il procuratore cancellato dall’albo non è ulteriormente legittimato ad esercitare la professione forense; 2) le notificazioni eseguite nei suoi confronti sono, pertanto, viziate, siccome non rispondenti alla previsione normativa di cui all’art. 330 c.p.c., in quanto indirizzate ad un soggetto non più abilitato a riceverle; 3) lo scostamento rispetto alle previsioni normative, tuttavia, non è sempre causa di inesistenza dell’atto, dovendosi distinguere tra notificazioni inesistenti e nulle; 4) il domiciliatario cancellatosi volontariamente dall’albo non è un soggetto totalmente estraneo ma, proprio per il ruolo originariamente rivestito, è certamente collegabile al destinatario dell’atto; 5) le notificazioni eseguite nei confronti del domiciliatario cancellatosi dall’albo sono, pertanto, nulle e non inesistenti: sicché, il vizio della notificazione dell’atto di gravame può essere sanato, con efficacia retroattiva, dalla costituzione volontaria dell’appellato ovvero dando tempestivamente seguito all’ordine di rinnovazione della notifica medesima, ex art. 291 c.p.c.

2.3. (Segue) c) la teoria della validità della notifica.

La terza tesi, infine, propugnata da Cass., Sez. II, 28.5.1999, n. 5197, Rv. 526788-01 (e, in seguito da numerose altre, fino a Cass., Sez. III, 21.6.2012, n. 10301, Rv. 623039-01 e Cass., Sez. I, 19.6.2015, n. 12758, Rv. 635734-01), considerava invece valida una notifica eseguita nei termini che precedono, giacché: 1) non si verte in ipotesi di applicazione dell’art. 301, comma 1, c.p.c. che concerne tutte ipotesi accomunate dal derivare la perdita dello ius postulandi da un evento esterno alla volontà dell’avvocato e da lui non controllabile, non già – come nel caso di cancellazione volontaria – da un atto volitivo allo stesso soggettivamente riconducibile; 2) la cancellazione volontaria dall’albo produce, quale effetto indiretto, la rinuncia allo jus postulandi che il legale ha, in concreto, in corso di esercizio con i suoi clienti/mandanti e, dunque, in ultima analisi, la rinuncia a tutti i mandati conferitigli; 3) ciò implica l’applicazione, quantomeno sotto il profilo “passivo” (i.e., ricezione degli atti), del combinato disposto degli artt. 85 e 301, comma 3, c.p.c.; 4) non si pone affatto una questione di tutela di diritto di difesa del destinatario della notifica o del contraddittorio, considerate le regole che disciplinano, sul piano privatistico, il rapporto di mandato e la possibilità, sempre riconosciuta al cliente, di sostituire il difensore.

3. La soluzione delle Sez. U.

Esclusa l’ulteriore predicabilità della tesi della inesistenza della notifica, non potendosi qualificare quella in esame come una tentata (3) , la S.C. ha altresì disatteso la tesi favorevole alla validità di essa, sostanzialmente basata sull’operatività (quantomeno dal lato passivo) del combinato disposto degli artt. 85 e 301, comma 3, c.p.c. (per cui la rinuncia al mandato non ha effetto sino alla sostituzione del difensore): si è osservato, infatti, che tale orientamento “sconta” alcune difficoltà argomentative difficilmente superabili, quali (a) il fondare su di una “fictio” – giacché simula che scopo della cancellazione sia quello di rinunciare allo ius postulandi riguardo tutti i mandati in corso, mentre questo è solo un effetto indiretto della cancellazione, conseguente all’applicazione dell’art. 82, comma 3, c.p.c. – (b) il derogare al criterio della natura recettizia della rinunzia al mandato – in quanto nel caso della cancellazione volontaria, la perdita dello ius postulandi (quanto meno nel lato attivo) avverrebbe prima ed a prescindere dalla relativa comunicazione ai mandanti ad opera del procuratore cancellatosi – e (c) il contrastare con la giurisprudenza di legittimità in tema di mutamento del domicilio professionale dell’avvocato non comunicato all’altra parte né all’ufficio – alla cui stregua il notificante ha l’onere di verificare l’attualità del domicilio del destinatario.

Rinvenuta, dunque, la ratio dell’art. 301, comma 1, c.p.c. non tanto nella distinzione tra cause di cessazione dello ius postulandi (connesse o meno ad un atto volitivo del difensore) quanto, piuttosto, nella perdita dello status di avvocato, indipendentemente dalla relativa causa (cfr. infra), le Sezioni Unite hanno optato per la tesi della nullità (ma cfr. infra, sub § 4), ancorché sanabile con efficacia ex tunc, della notifica eseguita nei confronti del difensore cancellatosi volontariamente dall’albo: impostazione che tutela la parte appellata, rappresentata dal procuratore poi cancellatosi dall’albo, come la parte appellante, che non subisce gli effetti negativi derivanti dal passaggio in giudicato della sentenza impugnata, è coerente con gli artt. 330, comma 1, c.p.c. e 11, della l. n. 53 del 1994, giacché la notifica è ricevuta da un soggetto all’uopo non più abilitato e comunque privo dei requisiti soggettivi di cui all’art. 4, comma 2, della l. n. 53 del 1994 e (3) non impone di scindere tra effetti (dal lato attivo e passivo) della rinuncia al mandato, ex art. 85 c.p.c..

Tale nullità è, come detto, sanabile, con efficacia ex tunc, in virtù della spontanea costituzione, nel giudizio di appello, dell’altra parte, ovvero a seguito di rinnovazione della notifica, ex art. 291 c.p.c., mentre non è soggetta all’applicazione dell’art. 157, ult. comma, c.p.c. – gravando sul notificante l’onere di verificare l’attualità dell’iscrizione all’albo del procuratore costituito per la parte avversa e non potendosi ritenere che la parte assistita dall’avvocato cancellatosi dall’albo abbia concorso a dare causa alla nullità della notifica, la quale in realtà si realizza in un momento in cui il professionista già non rappresenta più la parte precedentemente assistita – e si estende al procedimento ed alla sentenza di appello, non determinando, tuttavia, il passaggio in giudicato la sentenza di primo grado.

Ed infatti, dando continuità al principio già affermato da Cass., S.U., 21.11.1996, n. 10284, Rv. 500703-01, la S.C. ha affermato, altresì, la necessità d’una interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 301, comma 1, c.p.c., in funzione di garanzia del diritto di difesa, tale da ricomprendere tra le cause di interruzione del processo anche l’ipotesi di cancellazione volontaria dall’albo, all’uopo valorizzando l’”eadem ratio” sotto il profilo degli effetti della perdita dello “status” di avvocato legalmente esercente, indipendentemente dalla volontarietà o meno della causa.

Conseguentemente, al pari di quanto avviene per la morte, sospensione o radiazione dall’albo, la cancellazione volontaria implica l’interruzione del termine (breve come lungo) di impugnazione, che resta sospeso fino al venir meno della causa di interruzione o fino alla sostituzione del difensore volontariamente cancellatosi.

4. Una prospettiva per il futuro: un doppio binario per le notifiche telematiche?

Ferma la conclusione innanzi esposta, interessanti spunti di riflessione provengono, infine, da un passaggio contenuto al § 2.4 della motivazione – per il resto complessivamente incentrata sulle tradizionali notifiche “cartacee” – in ordine alla sorte, cioè, delle notifiche telematiche: “Diversa sarebbe l’ipotesi – che qui non ricorre – d’una notifica in via telematica, poiché con la cancellazione dall’albo cessa anche l’operatività dell’indirizzo di posta elettronica dell’avvocato, sicché la notifica non potrebbe avere luogo (nel senso che il sistema non produrrebbe la ricevuta telematica) e la notifica, risultando meramente tentata, dovrebbe qualificarsi come inesistente”.

Invero, l’art. 3-bis, comma 3, della l. n. 53 del 1994, introdotto dalla l. n. 228 del 2012, dispone che, ove sia eseguita telematicamente, la notifica si perfeziona, per il notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione prevista dall’art. art. 6, comma 1, d.P.R. 11.2.2005, n. 68, e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dall’art. 6, comma 2, del medesimo d.P.R. Precisamente, l’art. 6, comma 1, d.P.R. cit. prevede, che nella ricevuta di accettazione, fornita al mittente dal gestore di posta elettronica certificata da questi utilizzato, sono contenuti i dati di certificazione che costituiscono prova dell’avvenuta spedizione del messaggio di posta elettronica certificata, mentre il successivo comma 2 aggiunge che la ricevuta di avvenuta consegna è fornita al mittente dal gestore di posta elettronica certificata utilizzato dal destinatario, dando così al primo la prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all’indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario (indipendentemente dalla lettura che questo ne abbia fatto) e certificando il momento della consegna tramite un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione.

La notifica a mezzo posta elettronica certificata non si esaurisce, dunque, con l’invio telematico dell’atto, ma si perfeziona con la consegna del plico informatico nella casella di posta elettronica del destinatario, e la prova di tale consegna è costituita dalla ricevuta di avvenuta consegna.

Sennonché, se all’atto dell’iscrizione all’albo − e, in ogni caso, a seguito dell’aggiornamento dei dati ivi riportati − l’avvocato è tenuto a fornire l’indirizzo di posta elettronica certificata (cd. Pec) presso cui possono essere eseguite comunicazioni e notificazioni e tali dati, trasmessi dal Consiglio dell’ordine al Ministero della Giustizia, alimentano il Registro Generale degli Indirizzi Elettronici (cd. ReGIndE), simmetricamente, all’atto della cancellazione dall’albo (per qualsivoglia causa ciò avvenga), il medesimo Consiglio è tenuto a curare la comunicazione, di senso opposto, al Ministero, volta alla eliminazione di quell’indirizzo Pec dal ReGIndE.

Tale indirizzo pertanto, non risulterà più attivo dal momento della sua cancellazione dal ReGIndE: sicché, la notifica eseguita telematicamente al domicilio digitale (la pec) del domiciliatario volontariamente cancellatosi dall’albo, se anche idonea a generare la ricevuta di accettazione ex art. 6, comma 1, del d.P.R. n. 68 del 2005, non lo è altrettanto rispetto alla ricevuta di “avvenuta consegna” al destinatario, giacché essa determinerà, piuttosto (e come in tutti i casi di mancato funzionamento della pec), la ricezione, da parte del notificante, di una (diversa) ricevuta di “mancata consegna” .

In siffatta ipotesi, dunque, il procedimento notificatorio non può ritenersi portato a compimento, neppure in maniera “virtuale” (cfr. art. 138 c.p.c.), attesa la mancanza di uno tasselli (la ricevuta di “avvenuta consegna”) di cui si compone e la notifica va qualificata − con tutte le ulteriori conseguenze disciplinari che ne discendono − come inesistente: la conferma di tale conclusione si rinviene, peraltro, nell’art. 11, della l. n. 53 del 1994 (come modificato dalla l. n. 228 del 2012 e dalla l. n. 114 del 2014), che sanziona espressamente con la nullità (rilevabile d’ufficio) le sole notificazioni eseguite in mancanza dei requisiti soggettivi ed oggettivi previsti dalla l. n. 53, quelle eseguite senza l’osservanza delle disposizioni di cui alla l. n. 53 e quelle in cui si verifichi una situazione di incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della notifica; non anche quelle, come nella specie, non portate a termine per inoperatività della pec.

. Bibliografia

Bibliografia

S. Boccagna, Cancellazione del difensore dall’albo professionale e interruzione del processo, in Corr. Giur. 9/2002, 1184 ss.

C. Glendi, Le sezioni unite della Suprema Corte si pronunciano per la terza volta sugli effetti della cancellazione del difensore dall’albo, in Corr. Giur., 10/2017, 1270 ss.

  • comunicazione
  • procedura civile

CAPITOLO III

L’IMPROCEDIBILITÀ DEL RICORSO PER CASSAZIONE PER OMESSA PRODUZIONE, DA PARTE DEL RICORRENTE, DELLA RELATA DI NOTIFICA DEL PROVVEDIMENTO IMPUGNATO

(di Andrea Penta )

Sommario

1 Premessa. - 2 I precedenti orientamenti. - 3 La giurisprudenza della S.C. dalla pronuncia a Sez. U del 1998. - 4 Le sporadiche pronunce di segno contrario. - 5 La pronuncia a Sez. U del 2009. - 6 Le critiche mosse all’orientamento consolidato. - 7 La ratio sottesa all’art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c. - 8 L’intervento a Sez. U del 2017. - 9 Osservazioni conclusive. - Bibliografia

1. Premessa.

La questione che ha dato il là all’intervento delle Sez. U. della S.C. ha tratto le mosse dall’ordinanza n. 1081del 21 gennaio 2016, con la quale la I Sezione civile, all’esito del- l’udienza pubblica del 22 ottobre 2015, ha disposto la rimessione degli atti al Primo Presidente per l’(eventuale) assegnazione alle Sez. U avendo rilevato che il ricorrente aveva omesso di depositare la copia notificata della sentenza impugnata, provvedendo tempestivamente a produrne solo la copia autentica. Con la detta ordinanza il collegio aveva, peraltro, altresì evidenziato che la copia notificata della sentenza d’appello era presente nel fascicolo del controricorrente e che da essa risultava che il ricorso era stato proposto entro il termine breve, decorrente dalla notificazione stessa.

Nel rimettere la questione, la Sez. 1 aveva ricordato che, secondo il principio sancito dalle Sez. U della Corte nel 2009, dal mancato deposito ad opera del ricorrente, il quale avesse reso la Corte edotta dell’avvenuta notificazione della sentenza impugnata, della copia notificata della medesima sarebbe derivata la declaratoria di improcedibilità del ricorso.

La questione dell’improcedibilità del ricorso per il mancato deposito della copia notificata della sentenza impugnata, pur quando essa risulti dal fascicolo del controricorrente, era già stata oggetto di un dibattito risalente nella giurisprudenza di legittimità, nel cui ambito si era pronunciata due volte la Corte a Sezioni unite, in entrambi i casi essendo prevalso l’orientamento più rigoroso (Sez. U n. 11932/1998, Vella, Rv. 521083; Sez. U, n. 9005/2009, Spirito, Rv. 607363 e Rv. 607365).

Il giudice remittente aveva ipotizzato il superamento del detto orientamento, depotenziandosi, anche alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, la lettera dell’art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., valorizzandosi l’argomento teleologico sotteso a tale ultima disposizione (individuato nello scopo di consentire la verifica della tempestività dell’atto d’impugnazione), operando un equilibrato bilanciamento tra le opposte esigenze di celerità del processo di Cassazione e di “effettività” della tutela giurisdizionale ed assicurando un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito.

2. I precedenti orientamenti.

Fin dai primi impatti applicativi dell’art. 369, comma 2, c.p.c. si erano sviluppati essenzialmente tre filoni giurisprudenziali [si vedano, sul punto, la relazione informativa n. 84/1998, all’indomani della pronuncia a Sez. U. n. 11932/1998, cit., e la relazione, sempre di questo Ufficio, all’esito dei ricorsi nn. R.G. 8800 del 2007 e R.G. 8012 del 2006 (cui si era aggiunto R.G. 9322 del 2006), n. 71/2008,] correlati all’interpretazione della suddetta norma e all’individuazione dei possibili meccanismi di riparazione dell’omissione del deposito dei documenti di cui al secondo comma della medesima norma (e, specificamente, per quanto qui rileva, della copia autentica della decisione impugnata con la relazione di notificazione):

1) secondo un primo rigoroso indirizzo, il mancato deposito – insieme con il ricorso – della copia autentica della decisione impugnata (in uno alla corrispondente relata di notificazione) comportava, in ogni caso, l’improcedibilità del ricorso, la quale andava dichiarata d’ufficio, senza che all’omissione potesse ovviarsi con il successivo deposito di detta copia nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c. e senza che, ai fini dell’esclusione dell’improcedibilità, potesse attribuirsi rilievo al deposito di tale copia effettuato da parte del controricorrente o all’esistenza, agli atti, di copia non autentica della decisione stessa (cfr. Sez. 1, n. 2076/1971, Pascasio, Rv. 352749; Sez. 1, n. 1333/1980, Zappulli, Rv. 404856; Sez. L, n. 5246/1980, Chiavelli, Rv. 409082; Sez. L, n. 7023/1982, Vaccaro, Rv. 424687; Sez. L, n. 209/1983, Onnis, Rv. 425035; v., altresì, con specifico riferimento all’istanza di regolamento di competenza, Sez. 3, n. 747/1968, Ridola, Rv. 331997; Sez. 3, n. 997/1971, Delfini, Rv. 350967; Sez. 2, n. 216/1972, Coletti, Rv. 356010; Sez. 3, n. 2764/1972, Bonelli, Rv. 360452; Sez. 1, n. 3448/1972, Sandulli, Rv. 361328; Sez. 3, n. 1439/1973, Ginetti, Rv. 364154; Sez. 3, n. 1504/1973, La Grotta, Rv. 364262; Sez. 3, n. 1704/1974, Gabrieli, Rv. 369874; Sez. 3, n. 3262/1977, Mattiello, Rv. 386802; Sez. 3, n. 499/1984, Fiduccia, Rv. 432730); a tal punto da ritenere che, in caso di omesso deposito di copia autentica del provvedimento impugnato, oltre a non essere ammessa alcuna possibilità di sanatoria per equipollenti, il ricorrente non potesse sottrarsi alla declaratoria di improcedibilità neppure quando, a giustificazione del mancato deposito, avesse invocato la forza maggiore (cfr. Sez. L, n. 4192/1980, Cassata, Rv. 408064)

2) ad avviso di un altro più liberale orientamento, l’obbligo del deposito, da parte del ricorrente, di copia autentica della sentenza impugnata (con la relata di notifica) si sarebbe dovuto considerare soddisfatto o quando tale deposito fosse avvenuto contestualmente a quello del ricorso per cassazione, ovvero quando, pur in difetto di tale contestualità, la sentenza e la relativa relazione di notificazione fossero comunque presenti nel fascicolo d’ufficio o, instaurato il contraddittorio sul punto, la controparte nulla avesse obiettato (cfr. Sez. 2, n. 125/1980, Buccarelli, Rv. 403511; Sez. L, n. 3121/1981, Santilli, Rv. 413686; Sez. L, n. 343/1982, Pontrandolfi, Rv. 418039; Sez. L, n. 4172/1986, Arena, Rv. 446958; Sez. 1, n. 4388/1986, Finocchiaro, Rv. 447148; Sez. L, n. 10959/1995, Evangelista, Rv. 494319);

3) alla stregua di un ulteriore indirizzo, schieratosi in una posizione intermedia tra i primi due orientamenti indicati, si sarebbe dovuto ritenere validamente assolto l’onere in esame anche se il deposito non fosse intervenuto in modo contestuale rispetto a quello del ricorso, purché avvenuto nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione dello stesso mediante le modalità previste dal secondo comma del citato art. 372 (e cioè attraverso la notifica dell’elenco delle produzioni alle altre parti; cfr. Sez. 1, n. 7380/1986, Finocchiaro, Rv. 449433, e Sez. 3, n. 11361/1996, Occhionero, Rv. 501414).

3. La giurisprudenza della S.C. dalla pronuncia a Sez. U del 1998.

A dirimere le oscillazioni diffusesi sulla precisata questione erano intervenute le Sez. U con la sentenza n. 11932/1998, la quale, nell’ammettere che il deposito della copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione potesse avvenire (oltre che “insieme col ricorso”) separatamente ex art. 372 c.p.c. (che consente il deposito autonomo di documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso e che può applicarsi estensivamente anche ai documenti concernenti la procedibilità del ricorso stesso), purché nel termine perentorio di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, aveva al contempo escluso che consentissero di evitare la suddetta sanzione equipollenti, quali il deposito da parte del controricorrente di copia della sentenza stessa o l’esistenza della medesima nel fascicolo d’ufficio.

Questa pronuncia, da un lato, mostrava, come detto, di non condividere l’indirizzo che ammetteva gli equipollenti, considerandolo in inconciliabile contrasto con il dettato dell’art. 369 c.p.c. (il quale sancisce l’improcedibilità del ricorso, senza alcuna eccezione, nel caso in cui la copia autentica della sentenza impugnata non sia depositata), e, dall’altro, dichiarava espressamente inaccettabile quello più rigoroso, giacché l’obbligo di legge doveva ritenersi soddisfatto sia nell’eventualità in cui il deposito fosse avvenuto col ricorso, sia qualora si fosse verificato successivamente, purché, ripetesi, nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso stesso alle parti contro le quali esso era proposto (art. 369, comma 1, c.p.c.).

In estrema sintesi, sosteneva che la sanzione d’improcedibilità colpisse l’inosservanza del termine perentorio e non anche la mancanza di contestualità del ricorso e della decisione impugnata.

La giurisprudenza sviluppatasi successivamente sulla questione in discorso si era uniformata, in modo nettamente prevalente, all’indirizzo tracciato dalla suddetta pronuncia delle Sezioni unite: in tal senso si erano orientate, soprattutto, Sez. 5, n. 14240/2000, Di Palma, Rv. 541286; Sez. L, n. 6350/2004, Cuoco, Rv. 571684; Sez. 5, n. 13679/2004, Del Core, Rv. 574831; Sez. L, n. 4248/2005, Curcuruto, Rv. 580662; Sez. 5, n. 5263/2005, D’Alonzo, Rv. 580007; Sez. 5, n. 3008/2007, Cicala, Rv. 596115, e Sez. 2, n. 13705/2007, Oddo, Rv. 598157; Sez. 3, n. 19654/2004, Frasca, Rv. 577461, aveva escluso che potesse riconoscersi rilievo all’eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente, oltre che al deposito da parte sua di una copia con la relata.

In questo contesto, Sez. 1, n. 888/2006, Salvato, Rv. 585945, aveva affermato che il principio in virtù del quale il ricorso è “improcedibile anche se il controricorrente provveda successivamente a depositare il provvedimento impugnato con la relata di notifica, oltre i termini di cui all’art. 369 c.p.c. […] costituisce ormai diritto vivente” e che, in virtù di tale principio, “non è ammesso il recupero di una condizione di procedibilità mancante al momento della scadenza del termine per il deposito del ricorso”, la cui ammissibilità avrebbe condotto a far dipendere la procedibilità del ricorso dal tempo in cui lo stesso fosse stato deciso, introducendo nel sistema elementi di alea ed imprevedibilità che sarebbero stati gravemente pregiudizievoli del principio della certezza del diritto.

In definitiva, qualora il deposito non vi fosse stato o fosse avvenuto oltre il termine di cui all’art. 369 c.p.c., la Corte avrebbe dovuto dichiarare d’ufficio improcedibile il ricorso pregiudizialmente e prima di ogni altra pronuncia.

Alla base della presa di posizione vi era l’irrinunciabile esigenza di assicurare la definitività della sentenza in dipendenza del decorso di termini certi (purché idonei a tutelare il diritto di difesa), non suscettibili di prolungamento in base ad apprezzamenti a posteriori sulle ragioni che ne avessero comportato l’inosservanza (Sez. U. n. 12302/2004).

4. Le sporadiche pronunce di segno contrario.

Pur in presenza di questo quadro giurisprudenziale sostanzialmente omogeneo aderente all’indirizzo espresso dalla Sez. U con la sentenza n. 11932/1998, non erano, peraltro, mancate, nel corso successivo dell’elaborazione giurisprudenziale, delle sporadiche pronunce, con le quali era stato ripreso l’orientamento in base al quale poteva ritenersi legittima la producibilità dei documenti previsti dall’art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., anche oltre il termine previsto dal primo comma della stessa norma, con l’espletamento delle modalità stabilite dall’art. 372, secondo comma, c.p.c.

In proposito, con riguardo, ad esempio, all’istanza per regolamento di competenza, Sez. 3, n. 18019/2002, Di Nanni, Rv. 559288, aveva affermato che la relativa istanza non potesse essere dichiarata, per ciò solo, improcedibile allorché il fascicolo d’ufficio, tempestivamente richiesto dalla parte al cancelliere dell’ufficio a quo ai sensi dell’art. 47, terzo comma, c.p.c. e pervenuto nella cancelleria della Corte di cassazione, avesse contenuto l’originale dell’ordinanza impugnata.

Successivamente, Sez. 5, n. 2452/2007, Di Iasi, Rv. 595945, aveva ritenuto ammissibile la produzione all’udienza di discussione della documentazione comprovante l’avvenuta notifica della sentenza di secondo grado, e quindi la decorrenza del termine breve per l’impugnazione, qualora tale produzione fosse avvenuta alla presenza del difensore della controparte, intervenuto alla medesima udienza. La tesi in tal guisa sostenuta era che la mancata notificazione del deposito di un documento relativo all’ammissibilità del ricorso, effettuato ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 2, successivamente al deposito di tale atto, non precludesse l’utilizzabilità del medesimo, se il contraddittorio al riguardo fosse stato assicurato dall’intervento all’udienza di discussione del difensore della controparte. La tesi si basava sul principio generale per cui nel giudizio di cassazione, l’onere, imposto dall’art. 372, secondo comma, c.p.c., di notificare alle altre parti l’elenco dei documenti relativi all’ammissibilità del ricorso, che siano stati prodotti successivamente al deposito dello stesso, è inteso a garantire il contraddittorio sulla produzione di parte e deve, pertanto, ritenersi adempiuto qualora risulti che tale contraddittorio è stato comunque assicurato.

Sulla stessa lunghezza d’onda, Sez. L, n. 7027/2008, Toffoli, Rv. 602842 (conf. Sez. L, n. 9408/2008, Toffoli, Rv. 602873), aveva operato una distinzione tra gli effetti della mancata produzione della sola sentenza impugnata e quelli conseguenti all’omessa tempestiva allegazione congiunta della relata di notificazione (nel senso che “La sanzione della improcedibilità del ricorso per cassazione prevista dall’art. 369, secondo comma, n. 2, cod. proc. civ. trova applicazione soltanto in riferimento alla prescrizione principale concernente l’onere di produzione di copia autentica della sentenza impugnata e non già rispetto alla ulteriore prescrizione di dettaglio riguardante la produzione della copia con la relazione di notificazione”), statuendo che, ad escludere l’applicazione della sanzione di improcedibilità rispetto alla ipotesi da ultimo menzionata, militassero plurime ragioni di ordine sistematico, tra le quali, in particolare, meritano di essere segnalate due: a) ove il ricorrente indichi meramente, senza documentarla, la data di notificazione della sentenza, non sarebbe ragionevole attribuire rilievo a tale dichiarazione soltanto per la parte pregiudizievole al ricorrente medesimo; b) nel caso di notificazione a mezzo del servizio postale, la sanzione risulterebbe priva di giustificazione giacché, da un lato, la relazione di notificazione non evidenzia affatto la data di perfezionamento della medesima e, dall’altro, la parte destinataria dell’atto non è in possesso, in genere, di un’esauriente ed inequivoca prova documentale di tale data, la cui produzione non è comunque prevista da alcuna norma.

5. La pronuncia a Sez. U del 2009.

Anche sulla scia di Sez. 2, n. 15232/2008, San Giorgio, Rv. 603861, la situazione sembrava nuovamente essersi consolidata a seguito del nuovo intervento a Sez. U, le quali, con ordinanze nn. 9005 e 9006 del 16 aprile 2009, Rv. 607362-607363 (Pres. Carbone; Rel. Spirito), avevano enunciato il seguente principio di diritto (commentato in dottrina da SACCHETTINI E., 2004, 16, e da VALERINI F., 2009, 93), così massimato da questo Ufficio:

«La previsione − di cui al secondo comma, n. 2, dell’art. 369 c.p.c. – dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al primo comma della stessa norma, della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione, ove questa sia avvenuta, è funzionale al riscontro, da parte della Corte di cassazione − a tutela dell’esigenza pubblicistica (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale – della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione, il quale, una volta avvenuta la notificazione della sentenza, è esercitabile soltanto con l’osservanza del cosiddetto termine breve. Nell’ipotesi in cui il ricorrente, espressamente od implicitamente, alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, limitandosi a produrre una copia autentica della sentenza impugnata senza la relata di notificazione, il ricorso per cassazione dev’essere dichiarato improcedibile, restando possibile evitare la declaratoria di improcedibilità soltanto attraverso la produzione separata di una copia con la relata avvenuta nel rispetto del secondo comma dell’art. 372 cod. proc. civ., applicabile estensivamente, purché entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 cod. proc. civ., e dovendosi, invece, escludere ogni rilievo dell’eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata o della presenza di tale copia nel fascicolo d’ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell’impugnazione».

Con questo intervento era stato ribadito che l’obbligo previsto a pena di improcedibilità dal secondo comma dell’art. 369 c.p.c. poteva essere adempiuto soltanto con il deposito della copia autentica della decisione impugnata con la relazione di notificazione (ove avvenuta) contestualmente al ricorso o, comunque, entro il termine a tal fine previsto dal precedente primo comma dello stesso art. 369, utilizzando le modalità contemplate dall’art. 372 c.p.c., senza, perciò, potersi ricorrere all’acquisizione di tale prova mediante modalità alternative, da ritenersi equipollenti.

La soluzione sembrava conformarsi meglio alla natura propria della sanzione di improcedibilità prevista dal legislatore (e solo dallo stesso eventualmente modificabile), posta a tutela dell’esigenza pubblicistica (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale, oltre ad essere maggiormente rispondente al principio fondamentale della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.

La premessa di partenza del ragionamento era che procrastinare fino al momento della discussione (o anche dopo) la produzione di atti utili all’indagine sulla procedibilità, che la parte, invece, avrebbe potuto sin dall’inizio mettere a disposizione del giudice, senza sforzi particolarmente gravosi, avrebbe comportato un inutile e dannoso rallentamento della procedura.

Inoltre, l’ammissione di equipollenti al tempestivo deposito avrebbe messo la sorte del giudizio di cassazione nelle mani del controricorrente, dalla cui decisione di produzione della suddetta copia della sentenza impugnata con la relata o dal cui comportamento di non contestazione sulla tempestività dell’avvenuta notificazione della sentenza stessa sarebbe dipesa la procedibilità del ricorso.

A conferma del fatto che l’orientamento sembrava ormai essersi consolidato, Sez. 6-1, n. 25070/2010, Schirò, Rv. 615089 aveva ribadito pedissequamente il principio enunciato dalle sezioni unite del 2009 ai sensi dell’art. 360-bis, comma 1, c.p.c.

6. Le critiche mosse all’orientamento consolidato.

Occorreva domandarsi se l’indirizzo stratificatosi fosse eccessivamente formalistico (in contrapposizione ad una soluzione sostanzialistica che facesse leva sulla regola del raggiungimento dello scopo dettata in materia di nullità degli atti processuali), tenuto conto del fatto che la valutazione della tempestività dell’impugnazione e della fondatezza dei motivi di ricorso, cui il deposito in esame è strumentale, è compiuta dalla Suprema Corte solo al momento della decisione e, pertanto, sicuramente dopo l’udienza di discussione, se prevista, e comunque dopo l’arrivo presso la sua cancelleria del fascicolo d’ufficio e dopo la scadenza del termine per la costituzione del controricorrente.

Si sarebbe, infatti, potuto sostenere che la contratta formula di cui alla menzionata disposizione dell’art. 369 c.p.c. non impedisse di ritenere che, ove nei venti giorni dal ricorso fosse stata depositata copia pur priva di relata ma conforme all’originale, si dovesse escludere l’applicabilità della sanzione di improcedibilità, la quale, in quest’ottica, andava circoscritta all’omesso deposito nei termini di copia autentica della sentenza impugnata, rilevandosi, invece, consentita la produzione della copia notificata anche successivamente. Ciò in quanto la copia munita di relata avrebbe l’unica e naturale funzione di verifica del rispetto del termine d’impugnazione, cui la Corte si dedica – come già il giudice d’appello – solo al momento della decisione. Nella giurisprudenza della Corte propendevano nel senso che la sanzione della improcedibilità del ricorso per cassazione prevista dall’art. 369, co. 2, n. 2 c.p.c., dovesse trovare applicazione soltanto in riferimento alla prescrizione principale concernente l’onere di produzione di copia autentica della sentenza impugnata, e non già rispetto alla ulteriore prescrizione di dettaglio riguardante la produzione della copia con la relazione di notificazione, Sez. L, nn. 7027/2008 e 9408/2008 già analizzate in precedenza.

Una soluzione rispettosa del dettato normativo sarebbe potuta, allora, essere quella che avesse operato un distinguo tra il deposito «nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione» della copia autentica, senz’altro presidiato da improcedibilità, ed il deposito della cd. «relata», che avrebbe costituito la prova, ove necessaria, dell’ammissibilità del ricorso.

A voler condividere tale approccio, se il ricorrente avesse allegato l’avvenuta notifica, e la copia munita di relata non fosse stata prodotta dal resistente, il ricorrente avrebbe potuto depositare quest’ultima, nei modi dell’art. 372 c.p.c. (che in questa prospettiva sarebbe diventato applicabile senza contorsioni interpretative, poiché il documento munito di relata ormai avrebbe riguardato solamente alla ammissibilità, ancora sub iudice, non più alla procedibilità, viceversa già assicurata altrimenti) fino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio.

D’altra parte, l’acquisizione degli elementi per promuovere il procedimento verso l’esito camerale non può risultare mai anteriore allo spirare del termine per il deposito (anche) del controricorso (e ciò, dunque, anche nel caso di omesso deposito della «relata» nei venti giorni successivi alla notifica del ricorso), come prova anche l’art. 49, 1º comma, c.p.c.: una norma, questa, che – disciplinando un procedimento invariabilmente camerale (qual è il regolamento di competenza) – impedisce in ogni caso la decisione prima che sia scaduto il termine da concedersi agli intimati.

Sembrerebbe, invece, doversi escludere la rilevanza della “non contestazione” da parte dell’intimato costituito, per due ordini di motivi: da un lato, il conferimento di un significato positivo alla condotta della controparte si porrebbe in una posizione conflittuale con il generale principio della rilevabilità d’ufficio dell’improcedibilità sostituendolo con quello della “disponibilità ad opera delle parti” e, dall’altro lato, si perverrebbe a dare rilievo ad una possibile evenienza processuale inerente lo svolgimento del processo relativo ad un momento successivo a quello di scadenza del termine per il deposito della copia autentica della decisione impugnata con la relata di notifica.

7. La ratio sottesa all’art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c.

L’art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c. mira a far sì che la Corte sia messa in condizione di esaminare il contenuto del provvedimento che si assume errato e che è sottoposto al proprio esame (onde valutare la fondatezza dei motivi dell’impugnazione), in relazione al quale (e solo a quello) deve emettere la pronuncia: si tratta, in parole povere, di un’esigenza di certezza. Senza considerare che all’interno di tale esigenza è compresa quella di verificare la tempestività dell’impugnazione (sia nel caso in cui la sentenza sia stata notificata, ed in tale ipotesi è prescritto il deposito della copia ricevuta dal notificante, sia nel caso di mancata notificazione).

In linea generale, l’onere di deposito della copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione se avvenuta, oppure copia autentica dei provvedimenti dai quali risulta il conflitto nei casi di cui all’art. 363, n. 1 e 2, c.p.c., si spiega con la finalità di consentire il riscontro, da parte della Corte di cassazione [a tutela dell’esigenza pubblicistica (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale (anche perché il rispetto del giudicato non è materia nella disponibilità delle parti)] della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione, il quale, una volta avvenuta la notificazione della sentenza, è esercitabile soltanto con l’osservanza del cosiddetto termine breve.

Premesso che si è al cospetto di una regola imposta ai fini della prova delle condizioni di ammissibilità, il legislatore vuole che tale prova sia fornita sin dall’inizio dal ricorrente, in maniera da porre subito la Corte nella possibilità di delibare, anche mediante l’apposito procedimento camerale predisposto, l’ammissibilità del ricorso.

D’altra parte, era stata ritenuta manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità della norma in relazione agli artt. 3, 24 e 38 della Costituzione, attesa la discrezionalità del legislatore nella individuazione delle regole che disciplinano l’attività processuale e dei termini perentori, strumentali (Sez. U, n. 13906/2004, Bonomo, Rv. 574949; Sez. L n. 12132/2002, Putaturo Donati, Rv. 557648) alle esigenze, pure costituzionalmente garantite, della certezza (della conformità della copia del provvedimento all’originale) e della celerità del processo.

Il principio di strumentalità delle forme processuali deve essere letto – nel rispetto del principio di cui all’art. 111 Cost. – in coerenza con l’art. 6 della CEDU, in funzione dello scopo di conseguire una decisione di merito in tempi ragionevoli.

In quest’ottica, per la Corte europea diritti dell’uomo (cfr. Sez. I, 11/03/2009, n. 37349 – Kallergis c. Rep. Grecia –, in Cass. pen. 2009, 7-8, 3218) le limitazioni apposte con riferimento alle condizioni di ammissibilità e di procedibilità di un ricorso contro una decisione giudiziale devono essere valutate secondo un parametro di “ragionevole proporzionalità” tra mezzi impiegati e fini perseguiti. Se le giurisdizioni interne interpretano in modo troppo formalistico i requisiti di ammissibilità dei ricorsi, può dirsi violato il diritto di accesso.

8. L’intervento a Sez. U del 2017.

In questo contesto giurisprudenziale, Sez. U, n. 10648/2017, D’Ascola, Rv. 643945, ha privilegiato, nell’interpretare la detta norma, l’aspetto funzionale della stessa, rispetto a quello meramente o prevalentemente sanzionatorio, enunciando il principio secondo cui, in tema di giudizio di cassazione, deve escludersi la possibilità di applicazione della sanzione della improcedibilità, ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., al ricorso contro una sentenza notificata di cui il ricorrente non abbia depositato, unitamente al ricorso, la relata di notifica, ove quest’ultima risulti comunque nella disponibilità del giudice perché prodotta dalla parte controricorrente ovvero acquisita mediante l’istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio.

Nel risolvere la questione, le Sez. U hanno dapprima chiarito che l’onere di deposito a pena di improcedibilità è “in funzione dell’ordinato svolgimento del giudizio di cassazione” e che il legislatore vuole che la prova delle condizioni di ammissibilità del ricorso “sia sin dall’inizio fornita dal ricorrente, in maniera da porre subìto la Corte nella possibilità di delibare, anche mediante l’apposito procedimento camerale predisposto, l’ammissibilità del ricorso”.

In un successivo passaggio logico, hanno ribadito che “Il tenore letterale dell’art. 369 comma secondo n. 2 c.p.c., che prescrive a pena di improcedibilità il deposito unitamente al ricorso della «copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta» non consente di distinguere tra deposito della sentenza impugnata e deposito della relazione di notificazione” ed affermato che “Si tratta di attività elementare, che risale ad esigenza obbiettiva della gestione del processo di cassazione, che non pone soverchi oneri alle parti”.

Indi, premesso che “Un’interpretazione sostanzialmente abrogante è possibile […] solo con un intervento normativo” e che “La nuova ordinanza di rimessione concentra l’attenzione su una delle due ipotesi di atti equipollenti – deposito da parte del controricorrente di una copia della sentenza con la relata di notifica – che erano state già all’attenzione di Cass. 19654/04 e delle ordinanze del 2009”, vengono condivisi i rilievi formulati dalla Prima Sezione a fondamento di un parziale mutamento giurisprudenziale, secondo cui spiragli in tal senso sono offerti dalla Convenzione Edu.

La Corte di Strasburgo, infatti, nell’applicare l’art. 6 § 1 della detta Convenzione, ha ritenuto che ogni limitazione al “diritto di accesso a un tribunale” si concilia con tale previsione “soltanto se tende ad uno scopo legittimo e se esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito” (cfr. Corte EDU del 16.6.2015 ric. Mazzoni n. 20485/06).

È allora necessario ricercare, anche in attuazione dell’art. 47 della Carta di Nizza, “un punto di equilibrio, che, con riguardo ai limiti alle impugnazioni, consenta di bilanciare la esigenza funzionale di porre regole di accesso alle impugnazioni con quella a un equo processo, da celebrare in tempi ragionevoli”.

Del resto, offrendo una lettura costituzionalmente orientata (art. 111 Cost.), in più occasioni le Sezioni semplici e le Sez. U hanno superato “rigori formalistici” apparentemente connaturati in alcune norme:

1) Cass. n. 22726/11 (Rv. 619317-01), nella parte in cui ha stabilito che l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c., di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” è soddisfatto anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata;

2) Sez. U n. 23329/09 (Rv. 610382-01) ha escluso l’improcedibilità del ricorso per cassazione a norma dell’art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c., in caso di mancato deposito del contratto collettivo di diritto pubblico, in considerazione del peculiare regime di pubblicità, che soddisfa l’esigenza di certezza e di conoscenza da parte del giudice, già assolta in maniera autonoma, mediante la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale;

3) Cass. n. 2422/12 (Rv. 621117-01) e Cass. n. 24856/06 (Rv. 593232-01) hanno escluso che l’onere − sanzionato con l’improcedibilità − di richiedere la trasmissione del fascicolo d’ufficio relativo al procedimento conclusosi con la sentenza impugnata, posto a carico del ricorrente dall’art. 369 c.p.c., possa applicarsi all’ipotesi in cui sia proposto ricorso per revocazione avverso una sentenza della stessa Corte di Cassazione, in quanto, in tal caso il fascicolo si trova già presso il giudice ad quem;

4) di recente, Sez. U n. 25513/16 (Rv. 641784-01), a proposito del ricorso per cassazione proponibile, ex art. 348 ter, comma 3, c.p.c., avverso la sentenza di primo grado, entro sessanta giorni dalla comunicazione, o notificazione se anteriore, dell’ordinanza d’inammissibilità dell’appello resa ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., ha ritenuto che, se il ricorrente ha assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo, la Corte può rilevare dagli atti trasmessile, che di regola contengono l’attestazione della comunicazione, la tempestività dell’impugnazione.

Esposte queste pregresse aperture, il Collegio si è chiaramente espresso in favore dell’orientamento più liberale, ritenendo soddisfatta la condizione di procedibilità del ricorso per cassazione, costituita dalla produzione della relata di notifica della sentenza impugnata, anche quando il documento risulti depositato dal controricorrente o sia ritualmente presente nel fascicolo d’ufficio trasmesso dal giudice a quo.

In definitiva, anche in applicazione del principio della necessaria proporzionalità tra la sanzione irrimediabile dell’improcedibilità (art. 387 c.p.c.) e la violazione processuale commessa, ha reputato che non sia possibile applicare la sanzione dell’improcedibilità allorquando il documento mancante sia nella disponibilità del giudice per opera della controparte o perché la documentazione sia stata acquisita mediante l’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio.

Invero, nel caso in cui l’adempimento omesso da una parte risultasse espletato dall’altra, nell’ambito della medesima fase iniziale dell’impugnazione, lo scopo di attivare la sequenza procedimentale non potrebbe dirsi impedito, né apprezzabilmente ritardato (l’esame del fascicolo non può, infatti, aver luogo se non si è atteso il tempo utile per il deposito del controricorso), provenendo, del resto, il documento dalla stessa parte interessata a far constare la violazione processuale.

Non diversamente dovrebbe dirsi per le ipotesi (pur non oggetto di causa) in cui il documento sia già in possesso dell’ufficio perché presente nel fascicolo trasmesso dal giudice di appello. Se si considera, infatti, che tale trasmissione deve essere chiesta dalla parte ricorrente sempre ex art. 369 c.p.c., quest’ultima dovrebbe poter beneficiare della eventualità che il documento non autonomamente prodotto fosse comunque in possesso del giudice grazie anche alla sua iniziativa. Ancora una volta non avrebbe senso, alla luce delle normative delle Carte europee, rifiutare l’accesso al giudice dell’impugnazione perché l’atto da valutare è presente nel fascicolo dell’Ufficio – grazie a un’istanza della parte –, ma non può essere esaminato per il ritardo nel produrne la copia. Si tratterebbe di un inutile formalismo, contrastante con le esigenze di efficienza e semplificazione, le quali impongono di privilegiare interpretazioni coerenti con la finalità di rendere giustizia.

9. Osservazioni conclusive.

Il principio sinteticamente riportato nel che precede, era stato preceduto da altra pronuncia inseritasi sostanzialmente nel medesimo solco.

Invero, Sez. U, n. 25513/2016, Manna F., Rv. 641784, all’esito della discussione avvenuta contestualmente a quella dell’altra pronuncia, ha statuito che il ricorso per cassazione proponibile, ex art. 348 ter, comma 3, c.p.c., avverso la sentenza di primo grado, entro sessanta giorni dalla comunicazione, o notificazione se anteriore, dell’ordinanza d’inammissibilità dell’appello resa ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., è soggetto, ai fini del requisito di procedibilità di cui all’art. 369, comma 2, c.p.c., ad un duplice onere di deposito, avente ad oggetto la copia autentica sia della sentenza suddetta che, per la verifica della tempestività del ricorso, della citata ordinanza, con la relativa comunicazione o notificazione; in difetto, il ricorso è improcedibile, salvo che, ove il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo, la Corte, nell’esercitare il proprio potere officioso, rilevi che l’impugnazione sia stata proposta nei sessanta giorni dalla comunicazione o notificazione ovvero, in mancanza dell’una e dell’altra, entro il termine cd. lungo di cui all’art. 327 c.p.c.

Tuttavia, di recente, il medesimo principio sembra essere stato delimitato da altra pronuncia (emessa da un collegio presieduto, peraltro, dal medesimo estensore della sentenza n. 10648/2017), la quale ha precisato che, in tema di ricorso per cassazione, quando la sentenza impugnata sia stata notificata e il ricorrente abbia depositato la sola copia autentica della stessa priva della relata di notifica, deve applicarsi la sanzione dell’improcedibilità, ex art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., a nulla rilevando che il ricorso sia stato notificato nel termine breve decorrente dalla data di notificazione della sentenza, ponendosi la procedibilità come verifica preliminare rispetto alla stessa ammissibilità. Parimenti, il deposito di una ulteriore istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio, con ad essa allegata anche la relata di notifica della sentenza gravata, avvenuto in data successiva alla comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale non impedisce la menzionata sanzione, atteso che, da un lato, il detto deposito, a tal fine, deve avvenire entro il termine perentorio di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c. e, dall’altro, non è previsto, al di fuori di ipotesi eccezionali, che nel fascicolo d’ufficio debba inserirsi copia della relata di notifica, trattandosi di attività che non avviene su iniziativa dell’ufficio e che interviene in un momento successivo alla definizione del giudizio (Sez. 6-2, n. 21386/2017, Criscuolo, Rv. 645764).

In tal senso, il collegio ha rilevato che, ancorché Cass. Sez. U n. 10648/2017 abbia in motivazione affermato che l’improcedibilità non potrebbe essere dichiarata se la copia autentica della sentenza con relata di notifica, oltre che essere stata prodotta dalla controparte, sia già in possesso dell’ufficio perché presente nel fascicolo trasmesso dal giudice di appello, la portata di tale affermazione deve essere rettamente confinata alle sole limitate ipotesi in cui la decorrenza del termine breve per ricorrere in cassazione sia ricollegata dalla legge alla comunicazione del provvedimento (come nel caso di cui all’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c., della quale ha avuto modo di occuparsi proprio Cass. Sez. U n. 25513/2016), ovvero nelle altre ipotesi in cui la legge preveda che sia la stessa cancelleria a notificare la sentenza e che tale notificazione sia idonea a far decorrere il termine di cui all’art. 325 c.p.c. (cfr., in via meramente esemplificativa, la notificazione della sentenza di rigetto del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento di cui all’art. 18 co. 13 della legge fallimentare, la disciplina di cui agli artt. 15, ultimo comma, e 17, comma 2, della l. n. 184 del 1983 i quali postulano un regime giuridico speciale per le impugnazioni delle pronunce di adottabilità, prevedendo, a tal fine, un unico termine, di trenta giorni, decorrente dalla loro notificazione ex officio, o, ancora, la notificazione a cura della cancelleria, ai sensi dell’art. 8 della legge 10 luglio 1930 n. 1078, della sentenza della corte d’appello, emessa sul reclamo avverso le decisioni dei commissari regionali per la liquidazione degli usi civici).

Solo in tali ipotesi, nelle quali la legge stessa ricollega la decorrenza del termine per impugnare al compimento di attività doverose della cancelleria, sub specie di comunicazione ovvero eccezionalmente di notificazione, ovvero negli altri casi in cui la cancelleria debba, in virtù di una precisa disposizione di legge, allegare al fascicolo d’ufficio la copia notificata della sentenza impugnata, è previsto che resti traccia degli adempimenti a cura della cancelleria ovvero della notifica della sentenza nel fascicolo d’ufficio, sicché ben potrebbe la trasmissione avvenuta in adempimento della richiesta di cui all’art. 369 c.p.c., supplire alla negligenza della parte ricorrente.

Al di fuori di queste ipotesi, invece, laddove la notificazione della sentenza, idonea a far decorrere il termine breve, sia frutto di una successiva ed autonoma iniziativa della parte interessata ad abbreviare i tempi di formazione del giudicato, non è previsto che nel fascicolo d’ufficio debba inserirsi copia della relata di notifica, trattandosi evidentemente di attività che non avviene su iniziativa dell’ufficio, e che interviene in un momento successivo alla definizione del giudizio, non sussistendo un diritto delle parti a provvedere ad ulteriori inserimenti di atti nel fascicolo, al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dal legislatore.

Sicché, ove per avventura risultasse anche inserita nel fascicolo d’ufficio del precedente grado di giudizio copia della relata di notifica ad opera della parte, la medesima non potrebbe sanare la negligenza del ricorrente.

Con la precisazione da ultimo riportata, sembra che finalmente, dopo ben tre interventi delle Sezioni Unite, la vexata quaestio della improcedibilità, ex art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., del ricorso per cassazione abbia trovato la propria definitiva soluzione destinata ad orientare nel futuro le decisioni della Corte.

. Bibliografia

Bibliografia

Sacchettini E., Quando la carenza si verifica in appello le conseguenze non sono sempre negative, in Guida al diritto il sole 24ore, 2004, fasc. 41, 16.

Valerini F., Ricorso per Cassazione nel termine breve: per le Sezioni Unite è improcedibile senza il tempestivo deposito della copia notificata della sentenza, in Diritto e Giustizia online 2009, 93.

  • OCCUPAZIONE E LAVORO
  • referendum
  • lavoro occasionale

CAPITOLO IV

DAL LAVORO ACCESSORIO AL LAVORO OCCASIONALE: L’ESITO DI UN REFERENDUM

(di Milena d’Oriano )

Sommario

1 Un’ordinanza innovativa dell’Ufficio centrale per il referendum. - 2 Il procedimento referendario per l’abrogazione degli artt. 48, 49 (e succ. modif.) e 50, del d.lgs. n. 81 del 2015. - 2.1 L’istanza di riesame dell’ordinanza di blocco del referendum. - 3 Democrazia diretta e democrazia rappresentativa: un difficile rapporto. - 4 Le questioni preliminari esaminate dall’Ufficio per il referendum. - 4.1 Revocabilità dell’ordinanza di cessazione delle operazioni referendarie. - 4.2 Limiti all’applicabilità dell’art. 39 della l. n. 352 del 1970. - 5 Il meccanismo della cd. abrogazione sufficiente tra dottrina e giurisprudenza. - 6 La normativa in tema di cd. voucher: confronto tra la disciplina del lavoro accessorio e quella del lavoro occasionale. - Bibliografia

1. Un’ordinanza innovativa dell’Ufficio centrale per il referendum.

L’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, nel corso del 2017 si è pronunciato per la prima volta, in ordine alla revocabilità di una propria ordinanza, e nello specifico quella con cui aveva in precedenza disposto il blocco delle operazioni referendarie per l’abrogazione della disciplina dei cd. voucher.

Nell’ordinanza depositata il 29 novembre 2017 ha inoltre affermato che il meccanismo del trasferimento del quesito referendario dalla normativa precedente abrogata a quella successiva, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale dettato normativo dell’art. 39 della legge 25 maggio 1970 n. 352, è applicabile anche oltre la data fissata per lo svolgimento del referendum.

L’Ufficio, previo approfondimento degli istituti a confronto, quello del cd. lavoro accessorio, come delineato dagli art. 48, 49 (come modificato, al comma 3, dal d.lgs. 24 settembre 2016 n. 185) e 50 del d.lgs. n. 81 del 2015, e quello del cd. lavoro occasionale, come strutturato nell’art. 54-bis del d.l. n. 50 del 2017, conv. con modif. in l. n. 96 del 2017, ha poi valutato nel merito se la nuova disciplina avesse mantenuto inalterato l’effetto di trascendere la finalità originaria di regolamentare specifiche esigenze lavorative di carattere occasionale, che il quesito referendario intendeva rimuovere, giustificandosi così la traslazione dello stesso dal vecchio al nuovo istituto.

2. Il procedimento referendario per l’abrogazione degli artt. 48, 49 (e succ. modif.) e 50, del d.lgs. n. 81 del 2015.

La pronuncia si è inserita nel difficile percorso affrontato dall’iniziativa referendaria in tema di lavoro accessorio (cd. voucher), mettendo la parola fine al tentativo del Comitato dei promotori di sottoporre tale istituto, sia nella vecchia che nella nuova disciplina, al sindacato della volontà popolare.

Il quesito referendario, nella seguente formulazione: «Volete voi l’abrogazione degli artt. 48, 49 (come modificato al suo terzo comma dal d.lgs. n. 185/2016) e 50 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (voucher)”?», era stato dichiarato conforme a legge, con ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum del 9 dicembre 2016 (e la successiva ordinanza del 14 dicembre 2016, di correzione di errori materiali).

Con sentenza del 11-27 gennaio 2017 n. 28, la Corte costituzionale ne aveva dichiarato l’ammissibilità, rilevando che lo stesso non era riconducibile, né direttamente né indirettamente, a materie sottratte dall’art. 75 Cost. al vaglio referendario; non ineriva a disposizioni cui potesse essere attribuito il carattere di norme costituzionalmente necessarie, in quanto relativo alla materia del lavoro occasionale, istituto che per la sua evoluzione è divenuto alternativo ad altre tipologie di lavoro e quindi non necessario; rispettava le indicazioni della giurisprudenza costituzionale relative alla chiarezza, omogeneità e univocità, in quanto avente una finalità autenticamente abrogativa, così da comportare, in caso di esito positivo della consultazione, l’eliminazione dall’ordinamento della disciplina che ne era oggetto.

Sebbene il referendum fosse stato già indetto dal Presidente della Repubblica, con il d.P.R. 15 marzo 2017 (in G.U. n. 62 del 15 marzo 2017), e i relativi comizi convocati per domenica 28 maggio 2017, vi era stato il successivo intervento del legislatore che, con il d.l. 17 marzo 2017 n. 25 (in G.U. n. 64 del 17 marzo 2017), conv. dalla legge 20 aprile 2017 n. 49 (in G.U. 22 aprile 2017, n. 94), aveva previsto, all’art. 1, che: “1. Gli articoli 48, 49 e 50 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, sono abrogati. 2. I buoni per prestazioni di lavoro accessorio richiesti alla data di entrata in vigore del presente decreto possono essere utilizzati fino al 31 dicembre 2017”.

L’Ufficio centrale per il referendum, preso atto che l’abrogazione non era corredata da una nuova disciplina della stessa materia, suscettibile di determinare il trasferimento del referendum sulle nuove disposizioni legislative, con ordinanza del 27 aprile 2017 aveva statuito che il referendum non avesse più corso “ai sensi dell’art. 39 della legge 25 maggio 1970 n. 352, come risultante dalla declaratoria di parziale illegittimità costituzionale, di cui alla sentenza della Corte costituzionale 16 maggio 1978 n. 68”.

L’art. 39 della l. n. 352 del 1970, che nella sua formulazione originaria prevedeva: “Se prima della data dello svolgimento del referendum, la legge, o l’atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di essi cui il referendum si riferisce, siano stati abrogati, l’Ufficio centrale per il referendum dichiara che le operazioni relative non hanno più corso”, con la sentenza della Corte costituzionale del 17 maggio 1978 n. 68, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo “…. limitatamente alla parte in cui non prevede che se l’abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative”.

In data 24 giugno 2017 è entrata in vigore la l. n. 96 del 2017 che, nel convertire il decreto-legge n. 50, emesso il precedente 24 aprile, ha introdotto l’art. 54-bis, rubricato “Disciplina delle prestazioni occasionali. Libretto Famiglia. Contratto di prestazione occasionale” destinato a colmare, con decorrenza immediata, il vuoto normativo prodottosi dalla precedente abrogazione della normativa sul “Lavoro accessorio” sottoposta a referendum.

2.1. L’istanza di riesame dell’ordinanza di blocco del referendum.

Con istanza depositata in data 7 agosto 2017 i promotori del referendum, effettuato un analitico confronto tra quanto disposto in materia dal d.lgs. n. 81 del 2015 e quanto dalla l. n. 96 del 2017, hanno dedotto la piena riconducibilità della più recente disciplina a quella investita dall’iniziativa referendaria, in ragione della sostanziale irrilevanza delle differenze formali tra l’una e l’altra, e chiesto il riesame dell’ordinanza di chiusura del 27 aprile 2017, ritenuta rivedibile, alla luce del principio “rebus sic stantibus” ed in quanto inidonea a dar luogo a cosa giudicata, in vista di una rivalutazione della necessità di dar corso o meno al referendum.

Consapevoli che la sopravvenienza legislativa (entrata in vigore il 24 giugno 2017), era intervenuta in un momento successivo alla data in cui avrebbe dovuto svolgersi la consultazione referendaria (28 maggio 2017), e quindi a procedimento già concluso, nell’eventualità che tale discrasia temporale costituisse un ostacolo normativo all’accoglimento dell’istanza, i promotori chiedevano che venisse sollevata una questione di illegittimità costituzionale parziale dell’art. 39 della l. n. 352 del 1970, nella parte in cui non avrebbe consentito che il referendum potesse effettuarsi sulle “nuove disposizioni legislative” anche quando esse, siano sopravvenute dopo la data in cui avrebbe dovuto svolgersi la consultazione popolare.

L’istanza di riesame prospetta quindi un caso di uso strumentale dell’effetto bloccante riconosciuto allo ius superveniens che, per la prima volta, sarebbe stato realizzato con un intervento a formazione progressiva: dapprima la sopravvenienza legislativa totalmente abrogativa, che, a procedimento in corso, avrebbe reso inevitabile la pronuncia del competente Ufficio centrale per il referendum di non dare più corso alla consultazione, successivamente, a procedimento ormai concluso, ma comunque nell’immediatezza, l’intervento normativo, ritenuto sostanzialmente riproduttivo del medesimo istituto del “lavoro accessorio” che il quesito referendario mirava ad espungere dall’ordinamento.

La richiesta trova il suo fondamento nell’adozione da parte del legislatore di una nuova disciplina che, a giudizio degli istanti, sarebbe perfettamente riconducibile nei principi ispiratori a quella abrogata di cui all’iniziativa dei promotori, individuandosi nella tempistica della successione di norme un indice sufficiente dell’uso fraudolento dell’effetto bloccante dell’abrogazione.

3. Democrazia diretta e democrazia rappresentativa: un difficile rapporto.

Nel nostro sistema costituzionale il referendum abrogativo ha la funzione di garantire la costante rispondenza della legislazione agli interessi e alle necessità della collettività; quale strumento di controllo sulle eventuali disfunzioni legislative del Parlamento, costituisce un contrappeso ad un possibile arbitrio della maggioranza, a tutela del pluralismo delle forze politiche e sociali.

Il referendum disciplinato dall’art. 75 Cost. rappresenta il più importante istituto di democrazia diretta, offerto alle minoranze, per rimettere in discussione le scelte legislative della maggioranza, ed ai movimenti di opinione, privi di rappresentanza parlamentare, per partecipare alla vita dello Stato e allo sviluppo delle istituzioni.

In quanto dotato della capacità di innovare in negativo il diritto oggettivo, abrogando disposizioni preesistenti, la Corte costituzionale lo ha definito, in caso di esito favorevole, “atto-fonte dell’ordinamento dello stesso rango della legge ordinaria”.

La volontà del costituente di integrare la democrazia rappresentativa con quella diretta, a vantaggio di un corretto ed equilibrato esercizio della funzione legislativa, si è tuttavia scontrata da subito con la difficoltà di conciliare la permanente potestà legislativa delle Camere con le prerogative riservate a tale istituto.

La difficoltà di integrazione si è talora tramutata in un rapporto conflittuale, nei vari casi in cui il legislatore rappresentativo, nelle more del procedimento referendario, ha deciso di intervenire sulla disciplina oggetto di una richiesta di referendum abrogativo con l’effetto di interromperne lo svolgimento.

La questione posta nell’istanza del 7 agosto 2017 va inserita nel difficile rapporto di convivenza tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta.

Sostanzialmente si contrappongono due posizioni dottrinali, quella sostenitrice della supremazia della volontà popolare e quella favorevole alla prevalenza dell’esercizio della funzione legislativa.

Secondo alcuni nel nostro sistema costituzionale opererebbe «un principio organizzativo essenziale del sistema, giuridicamente rilevante e quindi vincolante» in forza del quale la volontà popolare dovrebbe in ogni caso risultare «prevalente nei confronti di ogni altra volontà nell’ambito dello Stato, salvo quella di grado costituzionale» [V. Crisafulli, Padova, 1957].

La tesi opposta, favorevole alla supremazia della legge, valorizza al contrario l’innata capacità della democrazia rappresentativa di reperire autonomamente le risorse del proprio equilibrio, rilevando che il riconoscimento della supremazia alla volontà popolare determinerebbe la degenerazione del referendum in un appello al popolo, riducendolo a un «ordinario mezzo di lotta politica, cioè in funzione strumentale rispetto al conseguimento di un’alterazione dei rapporti di forza fra i gruppi politici», che si presterebbe ad alimentare una «deriva plebiscitaria».

Vi è infine una tesi intermedia che mira a superare una concezione conflittuale del rapporto fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta esaltando la funzione di completamento della legislazione assegnata dalla Costituzione al referendum abrogativo, essendo stata riconosciuta al popolo la facoltà di abrogare disposizioni normative quando tale compito non sia riuscito al Parlamento, restandogli invece preclusa ogni altra facoltà costruttiva. [M. Luciani, Bologna, 2005].

Poiché l’onere di rispettare l’esito del referendum abrogativo come fonte di correzione e di completamento della legislazione deriva al legislatore direttamente dal ruolo che la Costituzione gli assegna, lo stesso non ha semplicemente natura politica, ma costituisce uno specifico vincolo giuridico all’esercizio del potere legislativo, con la conseguenza che la sua violazione sarà sindacabile nell’ambito del giudizio di costituzionalità delle leggi.

La Corte costituzionale, oltre che con numerosi riferimenti indiretti, ha affrontato e risolto due grandi questioni connesse ai rapporti tra legislazione ed iniziative referendarie.

Nella citata sentenza n. 68 del 1978 si è posto il problema se la legislazione ordinaria potesse essere paralizzata o limitata, nel corso dei procedimenti per il referendum, quanto agli oggetti delle richieste referendarie, e se con le stesse potessero validamente interferire, e con quali conseguenze, gli eventuali atti di esercizio della funzione legislativa conferita alle Camere dall’art. 70 Cost.

A giudizio della Corte l’esercizio della funzione legislativa non può essere bloccata per l’intero corso del procedimento referendario, né gli oggetti delle richieste di referendum sono attratti nell’esclusiva disponibilità del corpo elettorale; il testo costituzionale dell’art. 75 non esclude infatti la sopravvenienza di leggi di abrogazione totale degli atti o dei disposti per i quali sia stato richiesto il referendum, né una legislazione abrogativa accompagnata da una nuova disciplina della materia in questione.

Nello stesso tempo la Consulta prende atto che un intervento di abrogazione delle norme oggetto di un quesito referendario non può non ripercuotersi sulla corrispondente richiesta, e che l’effetto bloccante garantito dall’art. 39 della l. n. 352 del 1970 potrebbe dunque frustrare gli intendimenti dei promotori di referendum abrogativo, quale strumento per eludere o paralizzare le stesse disposizioni dell’art. 75 Cost., in quanto questo tipico mezzo di esercizio diretto della sovranità popolare verrebbe sottoposto a vicende risolutive affidate alla piena ed insindacabile disponibilità del legislatore ordinario.

Tale vulnus viene dunque evitato rendendo l’effetto bloccante né automatico né inevitabile; afferma la Corte che “Se l’intenzione del legislatore – obiettivatasi nelle disposizioni legislative sopraggiunte – si dimostra fondamentalmente diversa e peculiare, nel senso che i relativi principi ispiratori sono mutati rispetto alla previa disciplina della materia, la nuova legislazione non è più ricollegabile alla precedente iniziativa referendaria: in quanto non si può presumere che i sottoscrittori, firmando la richiesta mirante all’abrogazione della normativa già in vigore, abbiano implicitamente inteso coinvolgere nel referendum quella stessa ulteriore disciplina. Se invece l’intenzione del legislatore rimane fondamentalmente identica, malgrado le innovazioni formali o di dettaglio che siano state apportate dalle Camere, la corrispondente richiesta non può essere bloccata, perché diversamente la sovranità del popolo (attivata da quella iniziativa) verrebbe ridotta ad una mera apparenza”.

In quest’ultima ipotesi, pur non potendo il referendum avere ad oggetto le dispo- sizioni già abrogate, la consultazione popolare dovrà svolgersi comunque, a pena di violare l’art. 75 Cost., e l’unica soluzione possibile sarà quella di trasferire il quesito referendario dalla legislazione precedente alla legislazione sopravvenuta, oppure di estendere la richiesta referendaria alle successive modificazioni di legge, qualora si riscontri che esse s’inseriscono nella previa regolamentazione, senza sostituirla integralmente.

Nella stessa pronuncia si chiarisce, con un orientamento ribadito da ultimo nella sentenza n. 17 del 2016, che spetta all’Ufficio centrale per il referendum valutare, sentiti i promotori, se trasferire o estendere la richiesta alla legislazione successiva, mentre alla Corte costituzionale competerà poi l’ulteriore verifica che non sussistano ragioni d’inammissibilità quanto ai nuovi atti o disposti legislativi assoggettati al voto popolare abrogativo.

Con la sentenza n. 199 del 2012, la Corte costituzionale ha invece affrontato il tema delle ricadute sulla funzione legislativa dell’abrogazione popolare a seguito di refe- rendum, e, ribadito il divieto, già più volte affermato di ripristino della normativa abrogata dal popolo mediante il referendum previsto dall’art. 75 Cost. ha dichiarato per la prima volta l’illegittimità costituzionale di una norma di legge per violazione di tale divieto.

A fondamento della decisione vi è l’affermazione secondo cui il «vincolo» derivante dall’abrogazione referendaria «si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa».

Poiché il referendum abrogativo è stato introdotto per fornire al popolo sovrano uno strumento di controllo politico sull’attività dei rappresentanti, quale correttivo della democrazia rappresentativa, si pone in contrasto con la stessa Costituzione la riproduzione senza valide motivazioni della normativa contro la quale si è espressa la volontà popolare, soprattutto qualora ciò avvenga a brevissima distanza di tempo dallo svolgimento del referendum.

Il risultato del referendum abrogativo con esito positivo costituisce un limite per il legislatore, che non potrà reintrodurre, quantomeno nell’immediatezza, la norma- tiva abrogata; al fine di impedire che l’esito della consultazione popolare venga vanificato, la durata del divieto di ripristino della normativa abrogata permane fino a quando, successivamente all’abrogazione, non avvengano cambiamenti del «quadro politico», come nel caso dell’inizio di una legislazione successiva, o delle «circostanze di fatto».

4. Le questioni preliminari esaminate dall’Ufficio per il referendum.

La richiesta di riesame dell’ordinanza, con cui era stato disposto il blocco delle operazioni referendarie, mira ad ottenere la riattivazione del procedimento referendario, al fine di valutare la sussistenza dei presupposti per il trasferimento del quesito dalla vecchia alla nuova disciplina ex art. 39 della l. n. 352 del 1970.

4.1. Revocabilità dell’ordinanza di cessazione delle operazioni referendarie.

La prima questione che l’Ufficio centrale per il referendum è stato chiamato a risolvere è quella della revocabilità della sua precedente ordinanza del 27 aprile 2017.

Da sempre si è posta all’attenzione degli interpreti la questione circa i rimedi esperibili avverso le pronunce adottate nell’ambito dell’attività di controllo riservata a tale struttura costituita presso la Corte di cassazione dalla l. n. 352 del 1970.

Le Sezioni unite della Suprema Corte hanno più volte affermato che i provvedimenti adottati da tale organo hanno natura soltanto formale di atti giurisdizionali, in quanto configurano un momento del procedimento legislativo, rivolto al perseguimento di interessi pubblici nel senso che ai fini dell’«esercizio del potere legislativo nella forma referendaria di democrazia diretta, rileva soltanto l’interesse pubblico alla legittimità ed alla ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo ed alla regolarità della consultazione popolare. (Vedi Sez. U, n. 24102/2016, Perrino, Rv. 641766-01; Sez. U, n. 24624/2016, D’Ascola, Rv. 641768-02).

Il legislatore ha infatti assegnato all’Ufficio centrale per il referendum la direzione unitaria di tutto il complesso svolgimento delle operazioni referendarie, che comprende funzioni assai eterogenee, dall’esecuzione di atti meramente materiali all’adozione delle decisioni sulle proteste e sui reclami, ma che partecipano del relativo procedimento, compenetrandosi con esso in funzione della modificazione dell’ordinamento generale.

Tali funzioni non rispondono alle caratteristiche di un’attività giurisdizionale in senso proprio: non a quella di accertare l’avvenuta violazione di doveri o di obblighi, per applicare e rendere effettiva la conseguente sanzione, o di comporre un contrasto di posizioni giuridicamente rilevanti tra parti contrapposte o di dare certezza definitiva ad una situazione giuridica autonoma che la richieda e neanche a quella di gestire specifici e distinti interessi, con la conseguenza che i provvedimenti dallo stesso emessi non sono suscettibili d’impugnazione giurisdizionale, ed a maggiore ragione innanzi alla stessa Corte di cassazione di cui l’Ufficio costituisce una mera articolazione interna.

La questione della revocabilità delle sue ordinanze non risulta invece mai affrontata in precedenza.

A favore della definitività delle pronunce avrebbe potuto deporre la considerazione che ripetutamente la Corte costituzionale, constatando il carattere “giurisdizionale” dell’organo e delle sue attribuzioni, ha ritenuto ammissibile la proposizione, nei confronti dei provvedimenti emessi dall’Ufficio centrale per il referendum, del ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato; tenuto conto che, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953 n. 87, tale conflitto è ammissibile solo se insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono, si sarebbero potute ritenere definitive, e quindi non revocabili, tutte le ordinanze emesse da quest’Ufficio in quanto sindacabili solo in sede di conflitto di attribuzione.

Quanto ai presupposti soggettivi richiesti per denunciare il conflitto, è stata più volte ritenuta la legittimazione attiva del comitato promotore e quella passiva dell’Ufficio centrale, considerando che il primo, rappresentante degli elettori sottoscrittori della richiesta referendaria, agisce a tutela delle proprie attribuzioni nell’ambito del procedimento referendario, mentre il secondo costituisce l’organo investito, in via esclusiva e definitiva, del potere di verificare la legittimità delle richieste referendarie a norma dell’art. 32 della l. n. 352 del 1970, e del potere di eventualmente dichiarare la cessazione delle operazioni referendarie ai sensi del successivo art. 39.

Quanto invece al requisito oggettivo, posto che la Consulta ha sempre ritenuto che il proprio sindacato debba riguardare esclusivamente la mancanza dei presupposti stessi per l’esercizio dei poteri ad esso attribuiti, ma non gli eventuali errori di giudizio in cui detto organo sia incorso nell’ambito della sua competenza, tale rimedio, quasi certamente, non avrebbe avuto alcuna possibilità di essere accolto rispetto all’ordinanza del 27 aprile 2017, in quanto, come si legge nella stessa istanza, i promotori, non solo non contestano la sussistenza del potere dell’Ufficio centrale di applicare l’art. 39, ma anzi ritengono che tale potere sia stato correttamente esercitato in quanto al momento in cui la stessa è stata emessa era entrata in vigore la sola norma di abrogazione di quelle oggetto del quesito referendario.

Il conflitto di attribuzione si sarebbe potuto invece validamente sollevare in relazione alla normativa sopravvenuta, quindi con riferimento all’art. 54-bis del d.l. n. 50 del 2017, conv. con modif. in l. n. 96 del 2017, con la cui adozione il legislatore avrebbe invaso le prerogative referendarie.

Sul punto si ricorda che un iniziale orientamento giurisprudenziale negava «in linea di principio» l’ammissibilità del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato contro una legge ed un atto ad essa equiparato, perché lo stesso avrebbe rappresentato un elemento di rottura del nostro sistema di garanzia costituzionale, incentrato al contrario sul sindacato incidentale di legittimità delle norme

A partire dalla metà degli anni ’90, la Consulta ha rivisto l’integralità di tale preclusione ed ammesso il conflitto in relazione ad una norma primaria tutte le volte in cui da essa “possono derivare lesioni dirette dell’ordine costituzionale delle competenze” ad eccezione dei casi in cui esista un “giudizio nel quale tale norma debba trovare applicazione e quindi possa essere sollevata la questione incidentale sulla legge” o comunque “sussista la possibilità, almeno in astratto, di attivare il rimedio della proposizione della questione di legittimità costituzionale nell’ambito di un giudizio comune” (Cfr. Corte cost. ordinanze n. 398 del 1999, n. 457 del 1999, n. 144 del 2000; n. 343 del 2003, n. 16 e 17 del 2013; sentenze n. 221 del 2002, n. 284 del 2005, n. 69 e 296 del 2006, n. 38 del 2008) [G. Amoroso, G. Parodi, Milano, 2015].

In effetti, nella fattispecie in esame, salvo verificare l’effettiva lesività dell’atto, sembrava sussistere la condizione negativa suindicata in quanto, ormai concluso il procedimento referendario, allo stato mancava una sede giurisdizionale in cui ai promotori sarebbe stato consentito di sollevare la questione incidentale sulla legge sopravvenuta.

Nell’eventuale conflitto così promosso sarebbe spettato poi alla Corte costituzionale adottare i provvedimenti ritenuti necessari per tutelare il vulnus alle prerogative referendarie, riattivando eventualmente il referendum, analogamente a quanto già dalla stessa effettuato nel caso definito con la sentenza n. 68 del 1978.

La revocabilità si sarebbe potuta escludere anche perché tali provvedimenti non sono emessi nell’esercizio di una tipica attività di natura giurisdizionale, sicché per gli stessi motivi, al di là del nomen iuris utilizzato dal legislatore, non dovrebbe poter trovare applicazione il regime delle ordinanze delineato dall’art. 177 c.p.c., e quindi la illimitata revocabilità e modificabilità di tali atti ai sensi di tale disposizione processuale.

L’Ufficio centrale nella sua decisione ha invece optato a favore della revocabilità, puntando su argomenti di natura sia testuale che sistematica.

Ha innanzitutto valorizzato il dato letterale dell’art. 32 della l. n. 352 del 1970, che qualifica espressamente come “definitiva” l’ordinanza con cui l’Ufficio decide sulla legittimità della richiesta di referendum, desumendosi di converso che, in assenza di analoga qualificazione, l’ordinanza di cui all’art. 39 non dovrebbe ritenersi tale.

Sul piano sistematico ha invece rinvenuto spunti significativi nella sua giurisprudenza in tema di ammissibilità del ricorso per revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c. avverso i provvedimenti dallo stesso adottati nell’ambito del procedimento referendario, sulla scia della ritenuta applicabilità dell’istituto anche alle sentenze della Corte di cassazione.

Nell’ordinanza dell’11 novembre 2008 l’Ufficio aveva già affermato che la revocazione era ammissibile se intesa «in un’accezione compatibile con la specificità della decisione» assunta dal medesimo, che s’inserisce «in un procedimento unitario che si articola in più fasi consecutive e consequenziali» facenti capo alla Corte costituzionale, al Presidente della Repubblica e, in caso di modificazione territoriale delle regioni, anche al Parlamento.

Con la conseguenza che, in caso di ordinanze conclusive della fase procedimentale di spettanza all’Ufficio centrale e di passaggio a quelle successive, la preclusione all’esperibilità della revocazione per errore di fatto delle ordinanze deriverebbe dalla semplice ragione che una loro eventuale caducazione si rifletterebbe sulle attività delle fasi successive, determinando un’improponibile ingerenza sulle decisioni riservate alle attribuzioni di organi costituzionali, che al contrario, allorquando la decisione dell’Ufficio centrale «abbia costituito l’atto conclusivo del procedimento e la rimozione o la modificazione di essa non esplichi alcuna incidenza sulle attività delle fasi successive», difettando l’attivazione di stadi ulteriori, potrebbe ammettersi l’esercizio del rimedio revocatorio, non sussistendo l’invasione degli altrui ambiti di competenza.

L’Ufficio, effettuando analoghe valutazioni, in presenza di variazioni del quadro normativo, ha ritenuto revocabile l’ordinanza, con cui aveva disposto il blocco delle operazione referendarie, che rappresentava la fase conclusiva del procedimento referendario e che non era stata seguita da atti adottati da altri organi costituzionali su cui avrebbero potuto ripercuotersi gli effetti della revoca.

4.2. Limiti all’applicabilità dell’art. 39 della l. n. 352 del 1970.

La seconda questione affrontata è quella dell’applicabilità del meccanismo di cui all’art. 39 della l. n. 352 del 1970, come risultante dalla parziale declaratoria di illegittimità costituzionale, – che sembrerebbe presupporre, secondo l’incipit della norma che recita : “Se prima della data dello svolgimento del referendum …”, il blocco di operazioni in corso e non la reviviscenza di un referendum – ad un procedimento referendario già concluso.

Dell’esistenza di un possibile ostacolo normativo, all’adozione dei provvedimenti richiesti, risultavano ampiamente consapevoli gli stessi promotori del referendum che, nell’istanza sollecitavano sul punto la proposizione di una eventuale questione di illegittimità costituzionale della norma.

Ebbene l’Ufficio, sulla base di una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo, ha ritenuto che, in presenza di una lacuna legislativa e della identità di ratio volta ad impedire l’elusione fraudolenta degli intendimenti dei promotori e dei sottoscrittori delle richieste di referendum abrogativo, fosse possibile adottare i provvedimenti necessari all’espletamento del referendum su di una normativa sopravvenuta, conformata ai medesimi principi ispiratori di quella in precedenza abrogata, anche in caso di avvenuta chiusura delle operazioni.

Osserva l’Ufficio che “il fatto che la fase construens si sia verificata non “prima” secondo la previsione dell’art. 39 cit., bensì dopo la data che era stata stabilita per lo svolgimento del referendum – e dopo la dichiarazione di cessazione delle operazioni – non può considerarsi ostativo all’intervento dell’Ufficio centrale”

Sussisterebbero infatti nel caso in esame, tenuto conto della tempistica che ha caratterizzato il duplice intervento normativo, tutti gli indici sintomatici sul piano oggettivo di un uso strumentale della funzione legislativa, e quindi di un non corretto rapporto fra legislatore rappresentativo e iniziativa referendaria, imposta dall’art. 75 Cost., stigmatizzati dalla pronuncia resa dalla Consulta in riferimento all’art. 39 della l. n. 352 del 1970 nell’ammettere l’eventuale trasferimento della consultazione popolare sulla normativa successiva.

5. Il meccanismo della cd. abrogazione sufficiente tra dottrina e giurisprudenza.

I parametri da seguire per verificare la sufficienza dell’abrogazione sopravvenuta a determinare la cessazione delle operazioni referendarie, sono indicati nella stessa sentenza n. 68 del 1978.

La Corte costituzionale ha distinto innanzitutto il caso in cui una legge o un atto avente forza di legge abroghi integralmente la disciplina sottoposta a referendum, con esiti identici a quelli del voto popolare abrogativo, da quello in cui una legge o un atto avente forza di legge abroghi la disciplina sottoposta a referendum introducendo contestualmente una nuova regolamentazione della stessa materia.

Nella prima ipotesi, poiché l’art. 75 Cost. non impedisce la sopravvenienza di norme di abrogazione totale delle disposizioni per le quali è stato richiesto referendum, legittimamente andrà disposta dall’Ufficio centrale la cessazione delle operazioni referendarie.

Per la seconda, invece, la Consulta opera una ulteriore suddivisione tra il caso in cui la richiesta referendaria riguardi una legge nella sua interezza o un atto equiparato ovvero un insieme organico di disposizioni, da quello in cui riguardi singole disposizioni legislative o equiparate.

Nel primo caso, il referendum deve essere bloccato solo se con la nuova normativa, siano stati modificati i principi ispiratori cui si informava la disciplina oggetto della richiesta di referendum, indipendentemente dalle divergenze o dalle affinità fra le singole disposizioni contenute nella vecchia e nella nuova disciplina, mentre nel secondo ciò ricorre solo se il contenuto normativo essenziale del singolo precetto sia diverso, indipendentemente dal cambiamento dei principi del complesso normativo in cui questi si ritrovano inseriti.

In sintesi l’abrogazione dell’atto per cui è proposto referendum sarà sufficiente a determinare la cessazione delle operazioni referendarie solo se non accompagnata da una nuova disciplina della materia, che abbia un contenuto analogo a quella che con il quesito referendario si mirava ad abrogare, verifica che andrà compiuta, nel caso in cui venga sostituita l’intera disciplina oggetto della consultazione, confrontando i principi ispiratori , mentre nel caso in cui venga sostituita la singola disposizione con attenzione al contenuto normativo essenziale delle norme in successione.

La ricostruzione schematica apparentemente semplice elaborata dalla Corte Costituzionale ha dato vita negli anni ad un vivace dibattito in dottrina ed ha trovato attuazione in variegate pronunce dell’Ufficio centrale per il referendum.

La dottrina si è essenzialmente concentrata sulla possibilità di dare o meno rilievo, nell’ambito del giudizio sull’abrogazione sufficiente, all’intento perseguito dai promotori del referendum.

Secondo l’opinione prevalente la sentenza n. 68 del 1978, in quanto ispirata ad una logica rigidamente “normativista”, precluderebbe ogni possibilità di assegnare un qualunque ruolo dirimente agli intendimenti perseguiti dai promotori del referendum

Secondo altri autori invece, la volontà dei promotori, sarebbe un criterio da cui non si potrebbe prescindere per giudicare sulla sufficienza di una abrogazione a determinare la cessazione del referendum.

Per una tesi intermedia le linee guida per individuare i principi ed il contenuto essenziale delle disposizioni oggetto di referendum dovrebbero essere rinvenute nel senso del quesito referendario, come cristallizzato in sede di giudizio di ammissibilità sulla omogeneità, chiarezza ed univocità, cosicché il significato dell’intenzione dei promotori troverebbe un saldo ed autorevole parametro cui ancorarsi.

Le pronunce dell’Ufficio si segnalano spesso per una riproduzione quasi letterale dei criteri oggettivati indicati dal Giudice delle leggi, con totale disinteresse per quello soggettivo della volontà dei firmatari.

Non mancano tuttavia una serie di decisioni in cui l’organo della Cassazione rivela una progressiva apertura nei confronti della tutela delle finalità dei firmatari; in alcuni casi l’Ufficio si limita ad un richiamo generico all’obiettivo perseguito dai promotori, ritenuto uno degli elementi di valutazione da prendere in considerazione, in altri il richiamo si fa più incisivo, tanto che le intenzioni dei promotori divengono quasi parametro unico del giudizio.

Da ultimo in alcune ordinanze si è dato risalto all’utilizzo, come metro di valutazione, del principio abrogativo come individuato dalla Corte costituzionale in sede di giudizio sulla omogeneità della proposta referendaria.

6. La normativa in tema di cd. voucher: confronto tra la disciplina del lavoro accessorio e quella del lavoro occasionale.

Venendo all’esame del merito dell’istanza, effettuato secondo i parametri della cd. abrogazione sufficiente, l’Ufficio previo confronto dell’istituto del cd. lavoro accessorio, come delineato dagli art. 48, 49 (e succ. modif.) e 50 del d.lgs. n. 81 del 2015, con il cd. lavoro occasionale, come strutturato nell’art. 54-bis del d.l. n. 50 del 2017, conv. con modif. in l. n. 96 del 2017, ha ritenuto che la nuova disciplina non fosse oggettivamente ispirata agli stessi principi della precedente, in quanto conforme alla finalità originaria di regolamentare solo specifiche esigenze lavorative di carattere occasionale, e non a quella, che il quesito referendario intendeva rimuovere, di fornire una tipologia di contratto alternativa a quelle già presenti in ambito lavoristico, ed ha pertanto escluso, che nella specie, sussistessero i presupposti giustificativi del trasferimento del quesito referendario dalla norma abrogata alla nuova norma

All’esito di una articolata disamina dell’evoluzione dell’istituto del lavoro accessorio e dei due testi normativi posti a confronto, ha evidenziato che la nuova disciplina è senza dubbio intervenuta a colmare un vuoto normativo che si era determinato a seguito dell’abrogazione delle disposizioni del d.lgs. n. 81 del 2015, di quanto della opportunità di disciplinare la fattispecie del cd. lavoro occasionale fossero consapevoli gli stessi promotori del referendum che, come evidenziato nell’istanza, non ritengono sia necessaria l’eliminazione della fattispecie in sé, ma solo delle degenerazioni abusive nell’utilizzo che erano state consentite dalle modifiche apportate alla disciplina originaria.

A giudizio dell’Ufficio, dal confronto tra la nuova disciplina e quella abrogata si evince che il legislatore del 2017 ha perseguito una linea di compromesso, mirando a recuperare alcune restrizioni dell’ambito applicativo proprie del vecchio regime e mantenendo nello stesso tempo l’apertura ad ogni tipologia di prestatore e di prestazione lavorativa, che ne aveva favorito la diffusione quale strumento di emersione di forme di lavoro altrimenti destinate al sommerso.

Sicuramente innovativa risulta la doppia modalità di utilizzo; da un lato il libretto di famiglia, concepito come strumento più snello, meno formalizzato, destinato a utilizzatori meno interessati all’elusione, in quanto alla ricerca di servizi più che di profitti, dall’altro il contratto di lavoro occasionale, dal regime giuridico più articolato, ma nello stesso tempo adeguato alle finalità dell’istituto che mira comunque a regolare prestazioni saltuarie.

Posta la meritevolezza della fattispecie, se correttamente regolata ed utilizzata, la nuova regolamentazione di cui all’art. 54-bis, in disarmonia con la precedente, mira ad una accentuazione delle limitazioni, non solo quantitative ma anche qualitative, ad una agevolazione della tracciabilità attraverso la gestione informatica unitaria da parte dell’INPS, ad un aumento delle tutele per il prestatore sia sul fronte retributivo che delle modalità del rapporto, ad un irrigidimento del profilo sanzionatorio.

Il passaggio dalla disciplina del cd. lavoro accessorio a quella del cd. lavoro occasionale non appare meramente terminologico ma di contenuto; seppure è vero che nel comma 1 l’occasionalità viene definita con esclusivo riferimento a limiti quantitativi, come avveniva al comma 1 dell’art. 48 del d.lgs. n. 81 del 2015, al comma 13 il contratto di prestazione occasionale viene qualificato come avente ad oggetto “prestazioni di lavoro occasionali o saltuarie di ridotta entità”, definizione da cui non sarà possibile prescindere in caso di contestazioni giudiziali sulle modalità effettive di svolgimento del rapporto.

Il limite quantitativo, in ogni caso ridotto, si è arricchito del limite per ciascun utilizzatore in riferimento alla totalità dei prestatori, che consentirà di evitare il turn over abusivo a questa forma contrattuale, nonché del monte orario di 280 ore annue, pari a sole 35 giornate lavorative di otto ore, non molto lontano dai 30 giorni di cui al d.lgs. n. 276 del 2003; ad esso sono stati aggiunti limiti qualitativi, sia con riferimento a condizioni del lavoratore, quali il divieto di prestazioni occasionali per i lavoratori che siano già dipendenti o con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa o lo siano stati nei sei mesi antecedenti, sia con riferimento a condizioni dell’utilizzatore, quali l’indicazione della tipologia di attività in caso di utilizzo del libretto di famiglia, ed i divieti di cui al comma 14, tra cui primeggia il divieto per gli imprenditori con più di cinque dipendenti.

Al fine di semplificare le procedure di controllo, il confronto dei dati, la gestione dei compensi e della contribuzione, è stata creata un’unica piattaforma informatica gestita dall’INPS; sul fronte della retribuzione è meritevole l’intento di semplificare, con la scelta del compenso fisso, in caso di utilizzo nell’ambito del “LF” e dell’autonomia contrattuale, con la previsione di un minimo non solo orario ma anche giornaliero, per il compenso nell’ambito del “CPO”.

Il regime sanzionatorio è stato per la prima volta delineato prevedendo, in caso di superamento dei limiti fissati tra singolo prestatore e singolo utilizzatore, la trasformazione del rapporto a tempo pieno ed indeterminato; la previsione non è di poco momento in quanto, in caso di uso fraudolento dei voucher per occultare una diversa tipologia contrattuale, potrà essere invocata in sede giudiziaria previo accertamento di fatto, mediante prova per testimoni e presunzioni, analogamente a quanto avviene in caso di rapporti a nero, con il vantaggio che non sarà necessario provare l’esistenza del rapporto, ma solo le effettive modalità di svolgimento dello stesso con superamento del monte retributivo o del monte orario.

L’analisi comparata delle nuove e vecchie disposizioni consente di affermare che, sebbene la nuova tipologia contrattuale non segni un ritorno al passato istituto, in essa l’occasionalità della prestazione è stata recuperata come requisito essenziale della tipologia contrattuale.

Tanto traspare, oltre che dalla denominazione della rubrica, dai numerosi limiti fissati al suo utilizzo, che, seppure non rigorosi come nella disciplina originaria del 2003, il legislatore ha ritenuto comunque di intensificare rispetto alla disciplina oggetto del quesito referendario, diversificandoli in riferimento alle diverse caratteristiche soggettive degli utilizzatori; il mancato recupero del limite collegato alla natura di specifiche attività, avvenuto invece al comma 10 in caso di utilizzo del “ LF”, è stato ad esempio compensato per il “CPO” dalla definizione di cui al comma 13, ove è inequivoco il riferimento a prestazioni di lavoro “ occasionali o saltuarie di ridotta entità”.

Conclude pertanto l’Ufficio che siamo certamente in presenza di un intervento normativo sopravvenuto che ha riguardato nella sua interezza lo stesso istituto disciplinato dalle norme oggetto del quesito referendario e che, secondo le indicazioni della Consulta, indipendentemente dalle divergenze o dalle affinità fra le singole disposizioni contenute nella vecchia e nella nuova disciplina, con il passaggio dalla disciplina del “ lavoro accessorio” a quello delle “prestazioni occasionali” sono stati modificati i principi ispiratori cui si informava la disciplina oggetto della richiesta di referendum.

Le condizioni per l’invocato trasferimento del quesito referendario dalla vecchia alla nuova disciplina sono state quindi escluse ritenendo che l’avvenuto recupero del carattere dell’occasionalità dell’esigenza lavorativa, sia pure in un contesto nuovo e più articolato, ha reso l’istituto nuovamente uno strumento unico, finalizzato alla disciplina delle prestazioni lavorative svolte in minima entità ed in contesti marginali, e non alternativo ad altre forme contrattuali già presenti nel panorama lavoristico, in linea con l’obiettivo perseguito dai promotori dell’iniziativa referendaria, come valorizzato dalla stessa Corte costituzionale in sede di valutazione di ammissibilità del quesito.

. Bibliografia

Bibliografia:

Crisafulli V., La sovranità popolare nella Costituzione italiana – in Scritti giuridici in memoria di V.E. Orlando, Padova 1957, vol. I, 430-431;

Luciani M., Art. 75. Il referendum abrogativo, in G. Branca – A. Pizzorusso (a cura di), Commentario alla Costituzione, v. I – La formazione delle leggi, Bologna–- Roma 2005, 535 e ss. e 599 ss.;

Amoroso G., Parodi G., Il giudizio costituzionale – Milano, 2015 pag. 468

  • responsabilità civile
  • danni e interessi

CAPITOLO V

DANNI PUNITIVI E ORDINAMENTO INTERNO: LA NATURA POLIFUNZIONALE DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE

(di Roberto Mucci )

Sommario

1 Il principio enunciato dalle Sez. U con la sentenza n. 16601/2017. - 2 L’orientamento precedente. - 3 I punitive damages e le misure sanzionatorie nell’ordinamento interno. - 4 Le posizioni della dottrina. - 5 Il caso deciso. - 6 Le Sez. U: il superamento della prospettiva monofunzionale della responsabilità civile. - Bibliografia

1. Il principio enunciato dalle Sez. U con la sentenza n. 16601/2017.

Sez. U, n. 16601/2017, D’Ascola, Rv. 644914-01, ha enunciato, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., il seguente principio di diritto: «Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto, di origine statunitense, dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve, però, corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i suoi limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero ed alla loro compatibilità con l’ordine pubblico».

La sentenza si inserisce indubbiamente nel novero dei grands arrêts della S.C., nutrita dal proficuo metodo, da tempo ormai opportunamente invalso nella Corte, del previo dialogo con l’accademia e i pratici, e infine pronunciata nell’interesse della legge in funzione squisitamente nomofilattica, la sentenza, in sintesi, marca un deciso revirêment sul tema della riconoscibilità nell’ordinamento italiano delle sentenze straniere recanti condanna a danni punitivi con risarcimenti “più che compensativi” superando, sul piano del limite dell’ordine pubblico interno e internazionale, il dissidio sin qui ritenuto insanabile tra l’istituto, di derivazione soprattutto americana, dei punitive damages e la natura riparatoria del sistema interno della responsabilità civile, sistema che viene riorientatato in senso polifunzionale – vale a dire anche in termini di deterrenza/sanzione – cogliendo le implicazioni insite nei molteplici indici positivi deponenti in tal senso.

Aperta la via, la pronuncia non si sottrae all’onere di indicare direttive operative ai giudici di merito: escluso l’approccio della chiusura ideologica all’istituto, questi sono chiamati ad una valutazione di riconoscibilità delle sentenza straniere caso per caso, alla stregua dei tre requisiti di tipicità (secondo la legislazione dell’ordina- mento di provenienza della sentenza oggetto di exequatur), prevedibilità (previa conoscibilità dei limiti quantitativi della sanzione) e proporzionalità (alla riprovevo- lezza in sé del comportamento sanzionato, ma altresì alla somma liquidata a tito- lo riparatorio-compensativo) estratti dal piano dei principi costituzionali e sovra- nazionali.

2. L’orientamento precedente.

Invero, pronunciandosi per la prima volta sul tema dei danni punitivi con riferimento ad un caso di responsabilità da prodotto difettoso, Sez. 3, n. 1183/2007, Fico, Rv. 596200-01, aveva riaffermato il carattere “monofunzionale” della responsabilità civile: «Nel vigente ordinamento alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, anche mediante l’attribuzione al danneggiato di una somma di denaro che tenda a eliminare le conseguenze del danno subito mentre rimane estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed è indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta. È quindi incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto dei danni punitivi che, per altro verso, non è neanche riferibile alla risarcibilità dei danni non patrimoniali o morali. Tale risarcibilità è sempre condizionata all’accertamento della sofferenza o della lesione determinata dall’illecito e non può considerarsi provata in re ipsa (…)».

Tale indirizzo veniva ribadito da Sez. 1, n. 1781/2012, Giancola, Rv. 621332-01, relativamente alla delibazione di una sentenza straniera di risarcimento per un infortunio sul lavoro. La sentenza escludeva il carattere sanzionatorio della responsabilità civile con esplicito riferimento ai limiti della verifica di compatibilità con l’ordinamento italiano della condanna estera al risarcimento dei danni da responsabilità contrattuale: «Nel vigente ordinamento, il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive – restando estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta – ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso, non essendo previsto l’arricchimento, se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all’altro. E quindi incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto dei danni punitivi».

Nondimeno, nel frattempo si erano registrate talune aperture ad una prospettiva non meramente riparatoria della responsabilità civile, segnatamente in tema di abusivo sfruttamento a scopo di lucro dell’altrui immagine (Sez. 3, n. 11353/2010, Vivaldi, Rv. 613003-01) e di violazione del diritto di autore (Sez. 3, n. 8730/2011, Lanzillo, Rv. 617891-01), optandosi per l’applicazione dello strumento della c.d. retroversione degli utili ai fini della liquidazione del danno, secondo un’accezione parasanzionatoria. Analogamente, la più recente Sez. 1, n. 7613/2015, Nazzicone, Rv. 634826-01, affermava la compatibilità con l’ordine pubblico italiano delle cd. astreintes previste in altri ordinamenti, peraltro precisando che le queste, conosciute anche dall’ordinamento italiano, sono funzionalmente estranee al sistema del risarcimento del danno e non assimilabili ai danni punitivi. Inoltre, Sez. U, n. 9100/2015, Rordorf, Rv. 635451-01, osservava che «attribuire al risarcimento del danno (…) una funzione palesemente sanzionatoria (…) potrebbe oggi forse non apparire più così incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, come una volta si riteneva».

Ad ogni modo, Sez. U, n. 15350/2015, Salmè, Rv. 635985-01, in tema di danno cd. tanatologico, riaffermava «il principio pacificamente seguito dalla giurisprudenza di questa Corte (in adesione a un’autorevole dottrina e in conformità con quanto affermato da Corte cost. n. 372 del 1994) secondo il quale i danni risarcibili sono solo quelli che consistono nelle perdite che sono conseguenza della lesione della situazione giuridica soggettiva e non quelli consistenti nell’evento lesivo, in sé considerato», quale conseguenza della stessa struttura della responsabilità civile incentrata sulla funzione reintegratoria e riparatoria del risarcimento.

3. I punitive damages e le misure sanzionatorie nell’ordinamento interno.

La categoria dei danni punitivi viene elaborata nell’ordinamento inglese (exemplary damages) come strumento rimediale alternativo alle ordinarie forme di compensazione: danno “esemplare”, dunque, quantificato in modo eccedente rispetto al danno effettivamente subito dalla vittima e vocato non solo a sanzionare l’autore dell’illecito che abbia tenuto in malafede un comportamento particolarmente grave e riprovevole, ma altresì a fungere da deterrente verso eventuali comportamenti lesivi futuri di analoga portata.

L’istituto trova peraltro estesa applicazione nell’ordinamento statunitense (punitive damages) a partire dai primi anni Sessanta del secolo scorso, anche a seguito dell’esplosione del fenomeno delle mass tort litigation, secondo il principio per il quale non è consentito trarre profitto dal compimento di una condotta contra legem. Allo sviluppo di questa tendenza della prassi giudiziaria americana – peraltro temperata, a partire dalla metà degli anni Ottanta, dai reiterati interventi della Corte suprema federale in funzione di riconduzione delle condanne punitive a canoni di ragionevole proporzionalità – concorrono i peculiari caratteri di quell’ordinamento (tra gli altri, il sistema delle giurie non professionali, propense ad emettere generosi verdetti in funzione di overdeterrence, ed il contesto ordinamentale segnato dalla distinzione “labile” tra diritto civile e diritto penale).

Talune aperture si riscontrano anche in ambito di civil law, come in Germania, Francia e Spagna (laddove si riconosce che siffatte pronunce non possono ritenersi automaticamente lesive del principio dell’ordine pubblico), nonché a livello comunitario.

In particolare, nei sistemi continentali la centralità della natura compensativa del danno – che privilegia la prospettiva del danneggiato – non ha impedito lo svilupparsi di un intenso dibattito sulla complessità delle soluzioni risarcitorie, innescato dalla crescente insofferenza verso le tradizionali tecniche di quantificazione del danno, ritenute inappaganti in relazioni a fattispecie di particolare riprovevolezza o di recrudescente serialità.

Da qui l’affermarsi, anche nell’ordinamento italiano, di una serie di indici positivi – significativamente considerati dalla già citata Sez. 1, n. 7613/2015 – volti ad ottenere l’adempimento mediante “pressione” e deponenti per la progressiva affermazione di un concetto di sanzione civile anche afflittivo-punitiva e deterrente, sia sul versante processuale (per esigenze di effettività di tutela) che su quello sostanziale (secondo logiche settoriali o per materie).

Si citano così, tra gli altri: l’art. 96, comma 3, c.p.c. in tema di lite temeraria (la cui natura sanzionatoria ha conseguito un significativo avallo di compatibilità costituzionale da Corte cost., n. 152/2016); le misure coercitive processuali indirette recate dall’art. 614-bis c.p.c.; l’art. 114, comma 4, lett. e), del d.lgs. n. 104 del 2010 (che detta un’articolata disciplina delle astreintes nel processo amministrativo); la misura coercitiva penale generale di cui all’art. 388 c.p.; l’art. 18, comma 14, dello statuto dei lavoratori che prevede una sanzione aggiuntiva per la mancata reintegrazione del dipendente illegittimamente licenziato; l’art. 140, comma 7, del codice del consumo (sull’inadempimento degli obblighi giudizialmente stabiliti, sanzionato con il pagamento di una somma per ogni inadempimento o giorno di ritardo); l’art. 124, comma 2, del d.lgs. n. 30 del 2005, in materia di proprietà industriale, sull’inosservanza dell’inibitoria giudiziale; le misure compulsorie di cui all’art. 709-ter c.p.c. in tema di responsabilità genitoriale; la misura riparatoria di cui all’art. 12 della legge n. 47 del 1948 sulla diffamazione a mezzo stampa; le tecniche di cd. disgorgement (o retroversione degli utili della condotta illecita in favore del danneggiato) nelle materie del diritto d’autore e della proprietà industriale (novellato art. 158 della legge sul diritto d’autore n. 633 del 1941; art. 125 del d.lgs. n. 30 del 2005, in materia di proprietà industriale); l’art. 187-undecies, comma 2, del d.lgs. n. 58 del 1998, T.U. delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, sul cd. danno all’integrità del mercato; l’art. 4 del d.l. n. 259 del 2006 sul riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche illegali; l’art. 11, comma 3, del d.lgs. n. 28 del 2010 che sanziona con una pena pecuniaria la violazioni degli accordi di mediazione; l’art. 3 del d.lgs. n. 7 del 2016 in tema di sanzioni pecuniarie civili per gli illeciti depenalizzati.

4. Le posizioni della dottrina.

Anche alla luce della complessiva considerazione degli indici positivi sopra elencati, la dottrina precedente alla pronuncia in rassegna si è schierata su posizioni prevalentemente critiche rispetto alle pronunce con le quali la Cassazione ha affrontato direttamente il tema dei danni punitivi, muovendo essenzialmente dal ritenuto contrasto tra la tendenza legislativa in atto, tesa ad ampliare – sia pure in modo ancora asistematico ed empirico, sulla base di esigenze di volta in volta riscontrabili in singoli settori disciplinari – il novero degli strumenti con finalità sanzionatorie e di deterrenza e l’orientamento della S.C., ritenuto in sostanza conservativo dei tradizionali assetti della responsabilità civile.

Secondo questa impostazione [Pardolesi; Ponzanelli], negare la delibazione di una sentenza straniera sul presupposto che il concetto di punizione si pone inesorabilmente al di fuori della funzione meramente compensativa della responsabilità civile stride con la sostanziale apertura mostrata dal legislatore italiano verso l’operatività di strumenti rimediali come la cd. retroversione degli utili, in grado di garantire il duplice obiettivo di sanzionare l’autore dell’illecito e dissuadere chicchessia dall’emulare tale condotta illegittima. Secondo questa prospettiva, l’interprete italiano, magari prendendo contezza dal trend in atto negli Stati Uniti per un netto ridimensionamento del multiplo relativo ai danni punitivi, potrebbe guardare con minor diffidenza a questo istituto.

Così, quanto a Sez. 3, n. 1183/2007, ne viene censurata innanzi tutto la ratio. Secondo questa impostazione [Pardolesi; Ponzanelli], la Corte, muovendo dal presupposto che la responsabilità civile risponde esclusivamente a finalità riparatorie, finisce per escludere in radice qualsivoglia sfumatura punitiva-deterrente, denunciandone l’inconciliabilità con l’ordine pubblico in quanto, per guardare unicamente alla posizione del danneggiante e non riconoscere alcun collegamento con il danno effettivo patito dal danneggiato, tali finalità si collocherebbero ineludibilmente al di fuori dei suoi compiti istituzionali.

Queste argomentazioni non terrebbero però in debita considerazione la dinamicità della responsabilità civile che, negli ultimi quarant’anni, ha sì maturato una valenza riparatoria sempre più forte e precisa, ma si è poi confrontata anche con altre finalità diverse dalla riparazione del danno. La dinamicità del sistema, inoltre, evoca – sempre secondo questa dottrina – la prospettiva della globalizzazione degli ordinamenti giudici in senso transnazionale, sicché le singole regole giuridiche dovrebbero potersi muovere in modo tendenzialmente libero, senza creare particolari tipi di conseguenze per i singoli ordinamenti nazionali.

A tale specifico riguardo si nota [Giussani] come la pronuncia in questione, nel giustificare il diniego di riconoscimento sulla considerazione che la disciplina del risarcimento del danno in Italia non svolge funzioni afflittive, finisce per qualificarsi come un non sequitur, posto che i punitive damages costituiscono, nel sistema statunitense della responsabilità civile, il principale strumento civilistico di deterrenza delle condotte illecite particolarmente insidiose. La pronuncia risulterebbe pertanto incoerente con le esigenze della cooperazione giudiziaria internazionale posto che, nell’epoca della globalizzazione, i tentativi di difendere le specificità delle culture giuridiche nazionali denunciano un evidente limite di prospettiva in quanto determinano soprattutto una minore competitività dell’ordinamento giuridico nazionale, una conseguente perdita di sovranità e un considerevole pregiudizio soprattutto per gli attori non statunitensi, costretti ad avvalersi della più costosa giurisdizione americana anche per la fase esecutiva, giurisdizione alla quale il convenuto, già soggetto ad essa ai fini della pronuncia sul merito della causa, difficilmente potrebbe sfuggire.

In una siffatta prospettiva di circolazione delle regole e dei diritti, una specifica critica [Oliari] si appunta sull’applicazione in senso restrittivo della clausola dell’ordine pubblico operata dalla Corte, clausola che, nell’ipotesi del riconoscimento dell’autorità del giudicato straniero, dovrebbe – a differenza del filtro sulle norme di diritto straniero applicabili in Italia – operare in maniera meno rigorosa, atteso che riconoscere l’efficacia di una sentenza straniera di condanna a punitive damages non comporta l’automatica introduzione nell’ordinamento italiano dei danni punitivi (la cui concreta sussistenza, nella specie, è stata peraltro ritenuta dai giudici italiani sulla base di elementi sintomatici, stante la carenza di motivazione sul punto della sentenza delibata): la concessione dell’exequatur non avrebbe mutato il fatto che l’efficacia della sentenza sarebbe rimasta all’interno del rapporto privatistico limitato alle parti nell’ambito di una controversia internazionale, con effetti solo incidentali nell’ordinamento italiano.

Dal canto suo, la contraria opinione di dottrina adesiva all’orientamento espresso nel leading case del 2007 [Fava] riprende i consolidati orientamenti ribaditi dalla Cassazione in tema di natura e finalità della clausola penale, nonché di natura del danno morale, per confutare gli argomenti di parte ricorrente che, come si è visto, si sono incentrati sulla finalità anche sanzionatoria e afflittiva di tali istituti. Tale opinione conclude per la radicale incompatibilità dei danni punitivi con l’ordinamento interno poiché in stridente contrasto con il principio fondamentale che consente di risarcire solo i danni subiti senza che il danneggiato possa lucrare ingiustificati arricchimenti dal fatto illecito [Fava]. Si evidenzia inoltre come la giurisprudenza di merito sia rimasta in sostanza suggestionata dal tema del danno punitivo, senza comprenderne l’effettiva portata e pretendendo di dare applicazione all’istituto – sorto in ambiente straniero per i casi gravi di danni causati con dolo o colpa grave e lesivi di diritti fondamentali della persona – anche ad ipotesi bagatellari come i risarcimenti da micro-danno da sinistro stradale.

Con riferimento a Sez. 1, n. 1781/2012, la pronuncia viene criticata [Pardolesi] per un duplice ordine di considerazioni: da un lato, la Corte, nel richiedere l’esplicita indicazione dei criteri legali in concreto applicati dal giudice straniero per qualificare la responsabilità e le conseguenti voci di danno, appare allargare sensibilmente il perimetro di controllo del sindacato del giudice nei confronti delle decisioni straniere di cui si chiede il riconoscimento, esigendo un elemento non previsto dal sistema; dall’altro, nel richiedere comunque l’attuazione del principio di integrale riparazione del danno, la Corte finisce per utilizzare categorie e voci di danno di diritto interno per controllare la decisione straniera, così trattando la decisione straniera come se fosse una decisione di merito del giudice italiano.

Su tale specifico profilo, altro Autore [Ponzanelli] sottolinea, nel medesimo senso, la decisività del profilo rappresentato dall’incertezza, nella controversia, della funzione della somma risarcitoria concessa. Secondo questa opinione, il giudice italiano, anche una volta verificato che il risarcimento risultava esorbitante rispetto a quanto riconosciuto con l’applicazione dei criteri risarcitori interni, non avrebbe potuto bloccare il riconoscimento della decisione straniera poiché avrebbe dovuto sapere se quel risarcimento fosse in linea con i risarcimenti concessi dai giudici nordamericani, non presentando carattere punitivo, ma tale conoscenza sarebbe stata chiaramente impossibile. Il solo fatto che il risarcimento accordato superasse abbondantemente quanto richiesto dall’attore non poteva costituire, di per sé, ragione sufficiente per negare l’exequatur: in assenza di elementi certi sulla caratterizzazione punitiva della somma, non potevano essere deluse le aspettative di giustizia risarcitoria del lavoratore danneggiato.

Passando dal piano della fattispecie concreta a quello più generale dei principi in gioco, si dubita [De Hippolytis] dell’effettiva assolutezza del principio della funzione compensatoria del risarcimento. Al riguardo, e con riferimento all’elaborazione giurisprudenziale sul danno non patrimoniale, si osserva che quando l’illecito incide sui beni della persona il confine tra compensazione e sanzione sbiadisce, posto che la determinazione del quantum è rimessa a valori percentuali, indici tabellari e scelte giudiziali equitative che non rispecchiano esattamente la lesione patita dal danneggiato (che, d’altronde, per sua natura, non è misurabile), e ciò anche dopo le note sentenze di S. Martino del 2008: bandite le duplicazioni delle voci di danno risarcibili e sancita l’unicità della categoria del danno non patrimoniale, quest’ultimo, e segnatamente la sua componente etichettabile come danno morale, conserva la sua funzione afflittivo-sanzionatoria.

La medesima opinione torna pertanto ad insistere sul valore significativo degli indici normativi sopra richiamati, concludendo che non risulta del tutto convincente l’omaggio che la Corte rivolge al principio compensativo, quale limite di ordine pubblico interno al riconoscimento del danno punitivo. Si mette anzi in rilievo come l’evoluzione in atto nella giurisprudenza della Corte Suprema statunitense sul danno punitivo – nel senso della progressiva limitazione della discrezionalità delle corti statali e federali nella liquidazione dei ristori (nel passato, per vero, sovente esorbitante) – dovrebbe togliere argomenti alle preoccupazioni correlate al riconoscimento dell’istituto nell’ordinamento italiano, sia pure per via di delibazione delle sentenze straniere. Inoltre, in una prospettiva de iure condendo, circa l’eventuale introduzione dei danni punitivi per le controversie di diritto interno, questa opinione propende – ove si intenda la categoria come dei danni punitivi come forma di pena privata accessoria al risarcimento – per la necessaria legittimazione di tale tecnica per via legislativa, stante il limite di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., mediante una previsione per determinati settori di attività connotati da particolari esigenze general-preventive, settori per i quali sia stimato opportuno accompagnare la tradizionale liquidazione del risarcimento del danno con pene private opportunamente modulate nel quantum.

Infine, con riferimento a Sez. 1, n. 7613/2015, la dottrina non ha mancato di evidenziare le potenzialità di “apertura al futuro” insite nella pronuncia [Busnelli], di cui si colgono profili di “vistosa divergenza” rispetto a Sez. U, n. 15350/2015 sul danno c.d. tanatologico [Busnelli] che – come ricordato in precedenza – ha ribadito i principi tradizionali del sistema della responsabilità civile, connotato dalla «obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza … e l’affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria), tanto che si è ritenuto non delibabile, per contrarietà all’ordine pubblico interno, la sentenza statunitense di condanna al risarcimento dei danni “punitivi” …, i quali si caratterizzano per un’ingiustificata sproporzione tra l’importo liquidato ed il danno effettivamente subito».

Così, si sottolinea il diverso e più articolato approccio argomentativo della sentenza n. 7613/2015 rispetto ai precedenti del 2007 e del 2012. Nella sentenza n. 7613/2015 si afferma che, se allo strumento del risarcimento del danno resta affidato il fine primario – imprescindibile anche nei sistemi che, ammettendo i danni punitivi, attribuiscono altresì al risarcimento una dimensione sanzionatoria – di riparare il pregiudizio patito dal danneggiato, a questo fine si aggiungono ormai, alla luce di vari indici normativi, un fine di punizione ed anche un fine di prevenzione (si legge nella sentenza, al punto 5.4: «Si riscontra, dunque, l’evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente, …»). Ciò nonostante, secondo la Corte le astreintes non vanno confuse con il risarcimento perché la deterrenza è la funzione propria delle prime, ma solo indiretta del risarcimento, e perché le astreintes, sebbene obiettivamente operino come punizione qualora non riescano a indurre l’obbligato ad adempiere, sono tuttavia, ad una valutazione ex ante, ossia nella ratio, strumenti non sanzionatori. In tale ricostruzione del percorso argomentativo della Corte si ritiene pertanto di poter scorgere un ripensamento dell’avviso espresso dalla Corte sulla contrarietà dei danni punitivi all’ordine pubblico per inammissibilità in Italia dei risarcimenti “ultracompensativi”.

Nella medesima prospettiva si colloca altra opinione [Busnelli] che, muovendo (anche) dall’inciso testé riportato, reputa maturi i tempi per un possibile ridimensionamento della concezione puramente compensativa della funzione della responsabilità civile riscoprendo la ratio di sanzione afflittiva sottesa all’art. 2059 c.c. e valorizzando i dati positivi attestanti la presenza, anche nell’ordinamento italiano, dei punitive damages.

5. Il caso deciso.

Le sollecitazioni della dottrina per la riconsiderazione della questione da parte delle Sezioni Unite hanno trovato positiva considerazione nell’ordinanza interlocutoria Sez. 1, n. 9978/2016, Lamorgese, che aveva sollecitato un ripensamento sul tema della riconoscibilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi.

Il caso scrutinato attiene, ancora una volta, alla responsabilità da prodotto difettoso (casco da motociclista). La società venditrice del casco (Nosa Inc.), con sede negli U.S.A., aveva ottenuto dalla corte di appello la declaratoria di efficacia ed esecutività nell’ordinamento italiano di tre sentenze di condanna della produttrice italiana (Axo Sport s.p.a.) al pagamento di poco meno di un milione e mezzo di dollari, oltre spese e interessi, per la domanda di garanzia proposta da Nosa per l’indennizzo di un milione transattivamente corrisposto al motociclista che aveva subito danni alla persona per un asserito vizio del casco. Nel giudizio promosso dal danneggiato, Nosa aveva accettato la proposta transattiva del motociclista e il giudice statunitense, applicando l’istituto del potential liability test, aveva ritenuto che essa dovesse essere manlevata da Axo. La Corte di appello di Venezia accoglieva la domanda, ritenendo insussistente un risarcimento per danni punitivi poiché il giudice americano si era limitato a riconoscere che Axo era tenuta a pagare a Nosa l’importo della transazione, senza specificare di quali danni si trattasse. Axo proponeva ricorso per cassazione invocando la surrichiamata giurisprudenza di legittimità; deduceva, tra l’altro, la lesione del proprio diritto di difesa nel processo quale garante, l’abnormità del quantum risarcitorio, che ne rivelava la natura punitiva e sanzionatoria, e la carenza di motivazione della sentenza americana sui criteri seguiti per la determinazione del danno, in contrasto con i principi di ordine pubblico della garanzia del diritto di difesa e della natura esclusivamente compensatoria del rimedio risarcitorio.

6. Le Sez. U: il superamento della prospettiva monofunzionale della responsabilità civile.

Con la revisione giurisprudenziale recata dalla pronuncia in esame – che si segnala anche per i profili ricostruttivi in tema di ordine pubblico processuale – le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover superare la prospettiva “monofunzionale” seguendo la «traiettoria che l’istituto della responsabilità civile ha percorso in questi decenni» mercé l’attenta considerazione di una serie di indici deponenti nel senso che «accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale (…), che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva».

In particolare, le Sezioni Unite hanno ripreso il filo della riflessione già avviata dalla citata Sez. U, n. 9100/2015, in tema di responsabilità degli amministratori, che ha messo in luce come la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non appaia più oggi «così incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, come una volta si riteneva, giacché negli ultimi decenni sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento (si pensi, ad esempio, all’art. 96 c.p.c., u.c., in materia di responsabilità processuale aggravata), ma non lo si può ammettere al di fuori dei casi nei quali una qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dall’art. 25 Cost., comma 2, nonché dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali».

L’approdo della compatibilità della funzione sanzionatoria del risarcimento del danno con i principi generali dell’ordinamento viene quindi verificato dalle Sezioni Unite alla luce sia del variegato panorama normativo – cui si è accennato sopra in estrema sintesi – che si è venuto nel frattempo componendo, come del resto a suo tempo evidenziato dall’ordinanza di rimessione e dalla citata Sez. 1, n. 7613/2015, ma altresì della sussistenza di un riscontro a livello costituzionale (Corte cost., 11 novembre 2011 n. 303, sulla conversione dei contratti di lavoro a termine, e 23 giugno 2016 n. 152, cit., sull’art. 96 c.p.c.) «della cittadinanza nell’ordinamento di una concezione polifunzionale della responsabilità civile, la quale risponde soprattutto a un’esigenza di effettività (cfr. Corte Cost. 22 ottobre 2014 n. 238 e Cass. n. 21255/13, Rv.628701-01) della tutela che in molti casi, della cui analisi la dottrina si è fatta carico, resterebbe sacrificata nell’angustia monofunzionale», senza dimenticare che già Sez. U, n. 5072/2016, Amoroso, Rv. 639066-01, ha parlato della possibilità per il legislatore nazionale di configurare danni punitivi come misura di contrasto della violazione del diritto eurounitario.

Fissato il principio, sul piano delle relative ricadute applicative le Sez. U chiariscono: «Ciò non significa che l’istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza e che questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati. Ogni imposizione di prestazione personale esige una “intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all’art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario». È la stessa evoluzione del concetto di ordine pubblico internazionale alla luce del consolidamento del diritto dell’Unione Europea, secondo un rapporto di autonomia e coesistenza tra l’ordine pubblico dell’Unione e quello di fonte nazionale (art. 67 del Trattato di funzionamento dell’U.E.) ad esigere, nella circolazione dei “prodotti giuridici internazionali”, che la sentenza straniera applicativa di un istituto non regolato dall’ordinamento nazionale, quand’anche non ostacolata dalla disciplina europea, debba misurarsi con il portato della Costituzione e di quelle leggi fondamentali (come, p. es., nella materia del lavoro) che inverano l’ordinamento costituzionale: «L’interrogativo è solo il seguente: se l’istituto che bussa alla porta sia in aperta contraddizione con l’intreccio di valori e norme che rilevano ai fini della delibazione».

Secondo le Sez. U, la risposta all’interrogativo deve basarsi sulla valutazione degli effetti della decisione del giudice straniero rispetto all’ordinamento italiano alla stregua del principio di legalità e, dunque, in termini di tipicità (precisa perimetrazione della fattispecie) e prevedibilità (puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili): «Così come (…) ogni prestazione patrimoniale di carattere sanzionatorio o deterrente non può essere imposta dal giudice italiano senza espressa previsione normativa, similmente (…) nell’ordinamento straniero (non per forza in quello italiano, che deve solo verificare la compatibilità della pronuncia resa all’estero) deve esservi un ancoraggio normativo per una ipotesi di condanna a risarcimenti punitivi».

In definitiva, per le Sez. U ciò che rileva ai fini della delibazione non è l’istituto in sé – comunque tuttora sconosciuto all’ordinamento italiano – ma, appunto, la valutazione di compatibilità con il sistema italiano demandata, «con tutta l’ampiezza di verifica che si deve praticare nel recepimento», alle corti di appello. In una siffatta prospettiva multilivello, le Sezioni Unite indicano il fondamento normativo di tale valutazione nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, relativo ai principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene, onde «verificare la proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo e tra quest’ultimo e la condotta censurata, per rendere riconoscibile la natura della sanzione/punizione» poiché in ogni caso, anche nella nuova prospettiva plurifunzionale della responsabilità civile, «la proporzionalità del risarcimento, in ogni sua articolazione, è (…) uno dei cardini della materia della responsabilità civile».

. Bibliografia

Bibliografia

F.D. Busnelli, Tanto tuonò, che … non piovve. Le Sezioni Unite sigillano il “sistema”, in “Corriere giuridico”, 2015, 10, 1206.

R. De Hippolytis, Condanne straniere al risarcimento dei danni punitivi: sono davvero insormontabili gli ostacoli al riconoscimento, in “Il Foro italiano”, 2012, 5, I, 1545.

P. Fava, Funzione sanzionatoria dell’illecito civile? Una decisione costituzionalmente orientata sul principio compensativo conferma il contrasto tra danni puntivi e ordine pubblico, in “Corriere giuridico”, 2009, 523.

A. Giussani, Resistenze al riconoscimento delle condanne al pagamento dei punitive damages: antichi dogmi e nuove realtà, in “Giurisprudenza italiana”, 2008, 395.

S. Oliari, I danni punitivi bussano alla porta: la Cassazione non apre, in “Nuova giurisprudenza civile commentata”, 2007, I, 981.

P. Pardolesi, La Cassazione, i danni punitivi e la natura polifunzionale della responsabilità civile: il triangolo no!, in “Corriere giuridico”, 2012, 1068.

G. Ponzanelli, Danni punitivi: no, grazie, in “Il Foro italiano”, 2007, I, 5, 1461.

  • gara d'appalto
  • responsabilità

CAPITOLO VI

LA C.D. RESPONSABILITÀ AGGRAVATA (O DECENNALE) NELL’APPALTO: SPUNTI DI RIFLESSIONE DALLE SEZ. U.

(di Fabio Antezza )

Sommario

1 Premessa: la questione di diritto. - 2 Le ragioni del contrasto ed i principi sanciti dalle Sez. U. - 3 Percorso logico-giuridico seguito dalla S.C. - 4 Spunti di riflessione. - Bibliografia

1. Premessa: la questione di diritto.

In forza dell’ordinanza interlocutoria Sez. 3, n. 12041/2016, Sestini, non massimata, è stata rimessa alle Sez. U. la questione di diritto relativa all’ambito oggettivo di applicazione della c.d. responsabilità aggravata (o decennale) dell’appaltatore.

Trattasi, in particolare, dell’operatività dell’art. 1669 c.c. oltre che con riferimento alle ipotesi di costruzione ex novo anche in ordine ad interventi di ristrutturazione, integranti quindi non nuova costruzione bensì modificazioni o riparazioni, ferma restando la necessaria sussistenza degli altri presupposti.

L’iter logico-giuridico seguito dalla S.C. nella risoluzione della questione potrebbe fornire spunti di riflessione in senso contrario rispetto alla tesi della natura extracontrattuale della responsabilità in esame, con quanto ne consegue in termini di regime giuridico applicabile. L’incipit potrebbe ravvisarsi in una parte incidentale della motivazione della S.C., costituente obiter, il quale, allo stato non sembra essere considerato delle successive statuizioni di legittimità (neanche al fine di eventualmente non condividerlo).

2. Le ragioni del contrasto ed i principi sanciti dalle Sez. U.

Secondo un primo orientamento di legittimità, l’art. 1669 c.c. delimita, “con certa evidenza”, il suo ambito di applicazione alle opere aventi ad oggetto la costruzione di edifici o di altre cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata, ricomprendendo la sopraelevazione di un edificio preesistente (che è costruzione nuova ed autonoma rispetto all’edificio preesistente). Non sarebbero quindi ricomprese le modificazioni o riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata (Sez. 2, n. 24143/2007, Fiore, Rv. 600778-01, al cui principio di diritto si riporta Sez. 2, n. 10658/2015, Piccialli, Rv. 635463-01).

La tesi di cui innanzi è sostanzialmente conforme a quella minoritaria in dottrina che nega l’applicabilità dell’art. 1669 c.c. anche alle ipotesi differenti dalla nuova costruzione, “in quanto norma di carattere speciale, insuscettibile di interpretazione analogica”. Il riferimento in essa alla “rovina anche parziale”, per i sostenitori dell’orientamento in esame, non sarebbe tale da condurre ad una differente interpretazione della norma in quanto “la responsabilità speciale dell’appaltatore” ha sempre riferimento ad una costruzione compiuta dallo stesso appaltatore in esecuzione di quel contratto d’appalto e non ad una riparazione o modificazione, “sempre per l’impossibilità di applicare la norma oltre i casi in essa considerati” [si veda, per tutti, Giannattasio, 1977, 225 e 231].

Il contrapposto orientamento di legittimità, sostiene, invece, muovendo dallo stesso tenore letterale della norma, che ex art. 1669 c.c. possa rispondere anche l’autore di opere su preesistente edificio, allorché queste incidano sugli elementi essenziali dell’immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale, così integrando i “gravi difetti” (Sez. 2, n. 22553/2015, Falaschi, Rv. 637031-01).

La tesi di cui innanzi è sostanzialmente conforme a quella maggioritaria in dottrina per la quale la lettera oltre che la ratio della norma consentono una interpretazione meno restrittiva, contemplando fondamentalmente tre ipotesi.

A seguito della modifica o della riparazione di una parte dell’edificio preesistente potrebbe difatti rovinare tutto l’immobile, ovvero presentare pericolo di rovina o gravi difetti, con conseguente operatività dell’art. 1669 c.c., ancorché la parte riparata o modificata, in se stessa ed isolatamene considerata, non abbia importanza tale da poter dare appiglio al detto articolo, purché lo siano le altre parti andate in rovina o rimaste danneggiate. Nel caso in cui rovini o presenti pericolo di rovina o gravi difetti solo la singola parte riparata o modificata occorre invece verificare la natura della riparazione o della modifica nonché della parte riparata o modificata, con particolare riferimento anche all’importanza di essa rispetto all’economia dell’intero immobile. Non si applicherebbe l’art. 1669 c.c., in particolare, nei casi di riparazioni e modifiche per loro natura non destinate a lunga durata (tali sarebbero, esemplificativamente, quelle ordinarie e non quelle straordinarie) oppure inerenti parti dell’immobile non destinate a lunga durata ovvero di minima importanza rispetto all’intera opera, anche in termini di funzionalità della stessa. Nell’ipotesi inversa, opererebbe invece la responsabilità in esame [si veda, per tutti, Rubino-Iudica, 449 e 455].

Sez. U., n. 7756/2017, Manna, Rv. 643560-01, risolvono il contrasto ritenendo, come da massima ufficiale, che «in tema di contratto d’appalto, l’art. 1669 c.c.» sia «applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo».

3. Percorso logico-giuridico seguito dalla S.C.

Le Sez. U. risolvono il contrasto, enunciando il principio massimato da questo Ufficio nei termini innanzi riportati, aderendo, dichiaratamente, all’orientamento meno restrittivo e ritenendolo sostenibile sulla base di ragioni di interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica.

L’iter logico-giuridico seguito dalla S.C. muove dalla disamina dei “gravi difetti” di cui all’art. 1669 c.c., evidenziando che la giurisprudenza di legittimità ritiene tali anche quelli riguardanti elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi, etc.), purché compromettenti la funzionalità globale e la normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo. Sicché, da ormai quasi mezzo secolo, per la giurisprudenza è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova, mostrandosi di porsi dall’angolo visuale anche degli elementi secondari ed accessori, a prescindere che si tratti della prima realizzazione dell’immobile, essendo ben possibile che l’opus oggetto dell’appalto consista e si esaurisca in questi stessi e soli elementi.

A fortiori, proseguono quindi le Sez. U., deve ritenersi che ove l’opera appaltata consista in un intervento di più ampio respiro (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l’art. 1669 c.c. sia ugualmente applicabile. In conclusione, considerare anche gli elementi “secondari” ha significato distogliere il focus dal momento “fondativo” dell’opera per direzionarlo sui “gravi difetti” di essa, per desumere i quali è stato necessario indagare altro, vale a dire l’aspetto funzionale del prodotto conseguito.

In termini di interpretazione storica, la S.C. pone in risalto il passaggio dall’art. 1639 del c.c. del 1865 all’attuale 1669 c.c., il quale, tra le altre previsioni, in aggiunta rispetto al precedente, contempla anche l’ipotesi dei “gravi difetti”.

Il mutamento di prospettiva del codice del 1942 è evidente per due ragioni. La prima, d’ordine logico, è che la nozione di “gravi difetti” per la sua ampiezza è omogenea a qualunque opera, edilizia e non, per cui meglio si presta al riferimento, del pari generico, alle altre cose immobili. In termini letterali, poi, mentre nel testo del 1865 il soggetto della seconda proposizione subordinata era l’edificio o altra opera notabile (“l’uno o l’altra”), nella frase che vi corrisponde nell’art. 1669 c.c. il soggetto diviene “l’opera”, nozione che rimanda al risultato cui è tenuto l’appaltatore (art. 1655 c.c.). Trattasi dunque di qualsiasi opera su di un immobile destinato a lunga durata, a prescindere dal fatto che, ove di natura edilizia, essa consista o non in una nuova fabbrica.

Completa e conferma la validità di tale esito ermeneutico, come chiariscono le Sez. U., l’irrazionalità (non conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi. A ciò si aggiunge altresì la pertinente osservazione per la quale costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica non l’edificare per la prima volta e dalle fondamenta ma l’assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioè ammassare insieme).

4. Spunti di riflessione.

Premesso quanto innanzi, le citate Sez. U., ai fini della risoluzione della questione sottopostale, esplicitamente ritengono irrilevante la natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c., costantemente affermata dalla stessa giurisprudenza di legittimità, finanche a Sezioni Unite (ex plurimis, per la natura extracontrattuale della responsabilità in esame si vedano, tra le più recenti: Sez. 6-3, n. 4035/2017, Tatangelo, Rv. 642841-01; Sez. 2, n. 18831/2016, Picaroni, Rv. 641694-01; Sez. 2, n. 22553/2015, Federico, Rv. 637429-01; Sez. 2, n. 10658/2015, Piccialli, Rv. 635463-01; Sez. U., n. 2284/2014, Massera, Rv. 629518-01).

La categoria dei “gravi difetti”, per le ragioni innanzi esposte, tende difatti a spostare il baricentro della richiamata norma dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene e, quindi, da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale. A ciò la S.C. aggiunge la maggiore importanza che sul tema della tutela dei terzi emerge dall’esperienza dell’appalto pubblico, con l’espresso riconoscimento dell’azione in capo agli aventi causa del committente, potendo questi agire anche contro il costruttore-venditore (ex plurimis: Sez. 2, n. 467/2014, D’Ascola, Rv. 628736-01; Sez. 2, n. 9370/2013, Mazzacane, Rv. 625779-01; Sez. 2, n. 2238/2012, Falaschi, Rv. 621698-01, e Sez. 2, n. 4622/2002, Elefante, Rv. 553388-01).

Quanto detto, concludono le Sez. U, priva del suo principale oggetto la teoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c., insieme ai recenti approdi in tema di efficacia ultra partes del contratto ed alla possibilità che essa operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (art. 1372, comma 2 c.c.).

Come anticipato in premessa, i detti spunti non sembrano essere considerati dalla successiva giurisprudenza di legittimità (neanche al fine di ritenerli eventualmente non condivisibili) che, invece, continua ad argomentare dalla natura extracontrattuale della responsabilità in esame per la delimitazione soggettiva ed oggettiva del relativo ambito di operatività.

Sez. 2, n. 18891/2017, Scarpa, Rv. 645228-02, difatti, ancora una volta argomenta dalla natura extracontrattuale per ritenere che il venditore che, sotto propri controllo e direzione, abbia fatto eseguire sull’immobile, successivamente alienato, opere di ristrutturazione edilizia ovvero interventi manutentivi o modificativi di lunga durata, che rovinino o presentino gravi difetti, ne risponde nei confronti dell’acquirente ai sensi dell’art. 1669 c.c.

Per Sez. 2, n. 28233/2017, Penta, Rv. 646321-01, la responsabilità regolata dall’art. 1669 c.c. ha natura non contrattuale, derivando da un fatto idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico ex art. 1173 c.c. Sicché, esclusivamente a tale disciplina e non alle norme generali dettate in tema di risoluzione del contratto per inadempimento, ex artt. 1453 ss. c.c., occorre fare riferimento in caso di rovina e difetti di immobili, anche laddove l’opera appaltata non sia stata ultimata.

Qualora colti, i detti spunti potrebbero rilevare anche, di riflesso, in altri ambiti, ed a titolo meramente esemplificativo in tema di arbitrato e di portata della convenzione d’arbitrato.

In merito occorre difatti rimarcare che l’interpretazione della clausola compromissoria necessita, anche a prescindere dalla risoluzione della questione inerente la ritualità dell’arbitrato, al fine di verificare se la convenzione di arbitrato abbia ad oggetto anche materia non contrattuale, relazionando tra loro gli artt. 808-bis e 808-quater c.p.c.

La clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui essa inerisce, come ribadito di recente anche da Sez. 6-3, n. 4035/2017, Tatangelo, Rv. 642841-01, va interpretata, in mancanza di espressa volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte e solo le controversie aventi titolo nel contratto medesimo, con esclusione, quindi, di quelle aventi nel contratto solo un presupposto storico. Nella specie, la Suprema Corte ha escluso la competenza arbitrale con riferimento a procedimento azionato dal comodatario verso l’appaltatore ed il subappaltatore, prospettando, come causa petendi, la responsabilità, aquiliana, ex art. 1669 c.c., con deduzione di gravi difetti dell’immobile, in merito a clausola compromissoria contenuta nel contratto d’appalto per la ristrutturazione dello stesso (in senso conforme, in merito a causa petendi avente titolo aquiliano ex art. 2598 c.c., Sez. 6-1, n. 20673/2016, De Chiara, Rv. 641867-01, oltre che Sez. 2, n. 1674/2012, Rv. 621383-01, proprio con riferimento alla responsabilità ex art. 1669 c.c., fatta valere dagli acquirenti dell’immobile verso in costruttore).

Ben si comprende come la questione sottoposta alla disamina della citata Sez. 6-3, n. 4035/2017, Tatangelo, Rv. 642841-01, sarebbe stata verosimilmente diversamente risolta o, perlomeno, affrontata, nel caso in cui fosse stata ritenuta la natura contrattuale della responsabilità dell’appaltatore, con conseguente operatività della convenzione d’arbitrato anche in merito ad essa, anche senza esplicita previsione nella clausola.

. Bibliografia

Bibliografia

G. Giannattasio, L’appalto, II ed., Milano, 1977, 225-240;

D. Rubino-G. Iudica, Dell’appalto, in Galgano (a cura di), Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2007, 449-476.

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CAPITOLO VII

LE NUOVE PROVE IN APPELLO

(di Rosaria Giordano )

Sommario

1 Premessa. - 2 La rimessione della questione alle Sez. U. - 3 La giurisprudenza di legittimità sul concetto di indispensabilità della prova. - 4 Le ricostruzioni della dottrina. - 5 La decisione delle Sez. U. - Bibliografia

1. Premessa.

Il codice di procedura civile vigente, nella formulazione originaria, all’art. 345 prevedeva, in conformità alla generale scelta normativa di introdurre un rigido principio di eventualità rispetto all’impostazione liberale del codice del 1865, che “salvo che esistano gravi motivi accertati dal giudice, le parti non possono proporre nuove eccezioni, produrre documenti e chiedere l’ammissione di mezzi di prova”. Peraltro, con la cd. controriforma del 1950, realizzata dal d.l. 5 maggio 1948, n. 483, convertito nella l. 14 luglio 1950, n. 581, al fine di rendere più elastica sin dal primo grado di giudizio la disciplina del principio di preclusione, fu sostanzialmente eliminato il divieto dei nova istruttori in appello, conservando soltanto quello correlato alla proposizione di nuove domande [cfr. Cavallone, 2014, 1038].

La questione afferente il significato da attribuire alla locuzione “indispensabilità” dei nuovi mezzi di prova ai fini dell’ammissibilità degli stessi nel giudizio di appello è venuta in rilievo per la prima volta soltanto con l’introduzione, ad opera della l. 11 agosto 1973, n. 533, di un rito speciale per le controversie di lavoro: in particolare, l’art. 437, comma 2, c.p.c. stabilisce che non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio li ritenga indispensabili per la decisione.

Questa disciplina è stata sostanzialmente estesa, nell’ambito della più ampia riforma di cui alla l. 26 novembre 1990, n. 353, volta a reintrodurre in via generale il principio di preclusione nell’ordinamento processuale, all’appello nel processo ordinario di cognizione, dal comma 3 dell’art. 345 c.p.c., per il quale non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio li ritenga indispensabili per la decisione o la parte dimostri di non averli potuti richiedere o produrre nel giudizio di primo grado per causa a sé non imputabile [in arg. Colesanti, 1992, 1049].

Una successiva modifica dell’art. 345, comma 3, c.p.c., da parte della l. 18 giugno 2009, n. 69, ha poi “codificato” il principio − già sancito da Sez. U, n. 8202/2005, Vidiri, Rv. 580935-01 e Sez. U, n. 8203/2005, Vidiri, Rv. 580936-01 − dell’operatività del divieto dei nuovi mezzi di prova in appello non soltanto con riguardo alle prove costituende, ma anche rispetto ai documenti. Non può trascurarsi, inoltre, sebbene tale riforma non venisse in rilievo ratione temporis nella fattispecie processuale sottoposta all’esame delle Sezioni Unite, che la successiva l. 7 agosto 2012, n. 134, è intervenuta sull’art. 345, comma 3, c.p.c., eliminando la possibilità di ammettere in appello nel processo ordinario di cognizione le nuove prove indispensabili per la decisione.

2. La rimessione della questione alle Sez. U.

Proposto ricorso per cassazione avverso una sentenza che aveva rigettato l’appello contro la decisione di primo grado che, a propria volta, aveva disatteso la sua domanda di risarcimento dei danni per diffamazione in relazione alla pubblicazione di un libro, il ricorrente deduceva, con il secondo motivo di impugnazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 345, comma 3, c.p.c., come interpretato dalle Sezioni Unite della Corte, in virtù della mancata ammissione in appello della prova documentale costituita dalla copia di un provvedimento del giudice per le indagini preliminari indispensabile per la decisione del gravame.

La Sezione Terza, con ordinanza interlocutoria n. 22602 del 7 novembre 2016, trasmetteva il fascicolo al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione dello stesso alle Sez. U, stante la questione, oggetto di contrasto nella giurisprudenza della Corte, relativa alla ricostruzione del concetto di prova nuova indispensabile ammissibile in appello.

Più in particolare, l’ordinanza evidenziava, a riguardo, che la problematica attiene al se detta prova possa intendersi come semplicemente dotata di un’influenza causale più incisiva rispetto a quella delle prove già rilevanti per la decisione finale della causa, come ritenuto, ad esempio, da Sez. 1, n. 17341/2015, Genovese, Rv. 636643-01, o tale da dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi, secondo quanto affermato da Sez. 1, n. 16745/2014, Didone, Rv. 631949-01, ovvero, in armonia con l’esigenza di salvaguardare il sistema di preclusioni istruttorie previsto anche per il giudizio di primo grado, nella prova che sia divenuta utile e necessaria in dipendenza delle valutazioni della decisione appellata a commento delle risultanze istruttorie di primo grado, in conformità al principio inaugurato da Sez. 3, n. 7441/2011, Frasca, Rv. 617519-91.

Il collegio rimettente osservava, per altro verso, che la questione prospettata continuerà ad assumere rilevanza anche in futuro, nonostante la richiamata modifica dell’art. 345, comma 3, c.p.c. ad opera della l. 7 agosto 2012, n. 134, e ciò sia nell’appello nel processo del lavoro, essendo rimasto immutato il testo dell’art. 437, comma 2, c.p.c., sia nel procedimento sommario di cognizione nel quale l’odierno art. 702-quater c.p.c. subordina l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello proprio all’indispensabilità degli stessi.

3. La giurisprudenza di legittimità sul concetto di indispensabilità della prova.

In effetti, la nozione di indispensabilità dei nuovi mezzi di prova, ai fini dell’ammissibilità degli stessi nel giudizio di appello, era stata ricostruita in termini dissonanti all’interno della giurisprudenza della S.C.

Più in particolare, in accordo con l’orientamento prevalente, affermato, tra le altre, da Sez. 1, n. 17341/2015, Genovese, Rv. 636643-01 e da Sez. T, n. 9120/2006, Altieri, Rv. 588841-01, e che si riconduce al principio enunciato da Sez. U, n. 8202/2005, Vidiri, Rv. 580935-01 e Sez. U, n. 8203/2005, Vidiri, Rv. 580936-01, in tema di giudizio di appello, l’art. 345, comma 3, c.p.c., come modificato dalla l. n. 353 del 1990, esclude l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova, compresi i documenti, salvo che, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, siano ritenuti indispensabili perché dotati di un’influenza causale più incisiva rispetto a quella delle prove rilevanti sulla decisione finale della controversia.

In termini sostanzialmente non dissimili si pongono, poi, quelle pronunce, che, come Sez. 1, n. 16745/2014, Didone, Rv. 631949-01, evidenziano l’esigenza che il giudice del gravame motivi espressamente sulla ritenuta attitudine, positiva o negativa, della nuova prova a dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi.

La recentissima Sez. 2, n. 364/2017, D’Ascola, non massimata, si è iscritta in tale indirizzo interpretativo, ponendo in rilievo che la regola di cui all’art. 345, comma 3, c.p.c., prima della modifica apportata dalla l. n. 134 del 2012, aveva proprio il significato di consentire l’ingresso in appello di un nuovo mezzo di prova nelle ipotesi in cui “le preclusioni istruttorie avessero creato un’inaccettabile separazione tra realtà materiale documentabile in appello e verità processuale emersa tempestivamente”.

Nella giurisprudenza della S.C. ha tuttavia iniziato ad affermarsi anche un diverso orientamento, inaugurato da Sez. 3, n. 7441/2011, Frasca, Rv. 617519-91, volto ad intendere in senso più rigoroso il concetto di indispensabilità dei nuovi mezzi istruttori in appello, allo scopo, funzionale alla ragionevole durata del processo, piuttosto che alla ricerca della verità materiale all’interno dello stesso, di non vanificare, attraverso l’ingresso di nuove prove nel giudizio di gravame, la disciplina delle preclusioni del processo di primo grado. Più in particolare, secondo tale posizione, nel giudizio di appello l’indispensabilità delle nuove prove deve apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si è formata, sicché solo ciò che la pronuncia afferma a commento delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessità di un apporto probatorio che, nel contraddittorio in primo grado e nella relativa istruzione, non era apprezzabile come utile e necessario. Ne consegue che, se la formazione della decisione è avvenuta in una situazione nella quale lo sviluppo del contraddittorio e delle deduzioni istruttorie avrebbe consentito alla parte di avvalersi del mezzo di prova perché funzionale alle sue ragioni, deve escludersi che la prova sia indispensabile, se la pronuncia si è formata prescindendone, essendo imputabile alla negligenza della parte il non aver introdotto tale prova. In sostanza, come ribadito anche di recente da Sez. 6-3, n. 5013/2016, Carluccio, Rv. 639364-01, ai fini dell’ammissibilità della produzione di nuovi documenti in appello, ai sensi dell’art. 345, comma 3, c.p.c., nel testo introdotto dalla l. n. 353 del 1990, sono qualificabili come indispensabili i soli documenti la cui necessità emerga dalla sentenza impugnata, dei quali non era apprezzabile neppure una mera utilità nel pregresso processo di primo grado, mentre non è ammissibile il nuovo documento che già appariva rilevante durante lo svolgimento del giudizio di primo grado e prima del formarsi delle preclusioni istruttorie, sicché la sentenza non si è potuta fondare su di esso per la negligenza della parte che avrebbe potuto introdurlo.

4. Le ricostruzioni della dottrina.

La nozione di prova indispensabile per la decisione dell’appello è stata intesa in termini non univoci anche all’interno della dottrina che, sin dall’introduzione della stessa nel processo del lavoro da parte dell’art. 437, comma 2, c.p.c., si è occupata della problematica.

Una prima tesi, raccordando l’indispensabilità del mezzo di prova alla decisione da assumere all’esito del giudizio di gravame, ritiene che la stessa vada riconosciuta ove mediante l’ammissione del nuovo strumento istruttorio si possa pervenire alla riforma della pronuncia impugnata [Denti-Simoneschi, 1974, 196].

Questa posizione è oggetto di critica da parte di quanti, facendo leva sul fondamentale principio di parità delle armi tra le parti, rilevano che analoga attitudine dovrebbe essere riconosciuta anche alle nuove prove che consentano di ottenere in appello la conferma della decisione onde contrastare le opposte richieste dell’appellante [Tedoldi, 2000, 190 ss.].

Si ritiene, quindi, da parte di altri Autori, che, l’indispensabilità è un requisito più intenso rispetto alla rilevanza, equiparabile alla “decisività” delle prove che giustificano la proposizione della revocazione cd. straordinaria ai sensi dell’art. 395 nn. 2-3 c.p.c., sicché potranno essere ammesse in appello esclusivamente quelle prove che da sole possano giustificare una pronuncia, sia essa di conferma ovvero di riforma di quella di primo grado [Montesano-Vaccarella, 1996, 269].

Assolutamente peculiare è la tesi affermata, in una prospettiva volta ad attribuire al giudice significativi poteri nell’accertamento della verità materiale, da autorevole dottrina per la quale in appello deve ritenersi indispensabile la prova che consenta di superare una pronuncia assunta in primo grado in base alla regola di giudizio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. [Proto Pisani, 1983, 673]. In altri termini, in accordo con questa posizione, un nuovo mezzo di prova è indispensabile quando è necessario ovviare alla carenza della prova, non fornita, conformemente alla regola di cui all’art. 2697 c.c., dalla parte alla quale spettava il relativo onere.

Questa impostazione è stata tuttavia criticata dalla dottrina dominante in quanto si pone in contrasto con la fondamentale regola espressa dall’art. 2697 c.c. e nella misura in cui “premia” la parte che è rimasta inerte rispetto alla prova del fatto nel giudizio di primo grado [Montesano-Vaccarella, 1996, 270].

Per certi versi speculare alla tesi appena ricordata è quella secondo la quale il concetto di indispensabilità della prova rinvia ai principi generali del processo in materia di preclusioni, così affermando la coincidenza dell’indispensabilità con la decadenza incolpevole della parte, che, tuttavia, nell’ambito dell’art. 345, comma 3, c.p.c., costituisce autonoma ed ulteriore ipotesi “restitutoria” del potere probatorio della parte rispetto a quella dell’indispensabilità del mezzo istruttorio [Bove, 2006, 306 ss.].

Una parte della dottrina, proprio alla luce dei plurimi orientamenti affermati sul concetto di indispensabilità dei nuovi mezzi istruttori è giunta a ritenere impossibile attribuire, almeno sul piano giuridico, allo stesso un significato differente da quello proprio di rilevanza, evidenziando che sul piano logico una prova o è rilevante o è irrilevante, tertium non datur [Cavallone, 2014, 1041]. In sostanza, secondo tale impostazione, con il riferimento all’indispensabilità del nuovo mezzo di prova ammissibile in appello, il legislatore avrebbe semplicemente esortato il giudice del gravame ad essere “parco” nell’ammissione di nuovi strumenti istruttori. In concreto, ciò si tradurrebbe nell’esigenza per lo stesso di effettuare una valutazione di rilevanza non in termini di giudizio di delibazione sulla semplice plausibilità della prova richiesta ad incidere sulla decisione bensì di più stringente preponderante probabilità [Luiso, 1992, 295].

5. La decisione delle Sez. U.

Nel pronunciarsi sulla questione prospettata dall’ordinanza interlocutoria, Sez. U, n. 10790/2017, Manna, Rv. 643939-01, ha enunciato il principio per il quale nel giudizio di appello, costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345, comma 3, c.p.c., nel testo previgente rispetto alla novella di cui al d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado.

L’opzione ricostruttiva in favore dell’orientamento tradizionale viene argomentata, in primo luogo, evidenziando che la differente tesi per la quale nel concetto di nuove prove indispensabili rientrerebbero soltanto quelle rese necessarie dal contenuto della sentenza impugnata finirebbe per condizionare, per le altre ipotesi, l’ammissibilità di mezzi istruttori non richiesti nel giudizio di primo grado ad una decadenza incolpevole della parte, fattispecie che, peraltro, è autonomamente disciplinata dal predetto art. 345, comma 3, c.p.c.

Le Sez. U. evidenziano, inoltre, che l’interpretazione più restrittiva della nozione in esame suffragata dalla recente giurisprudenza della S.C. collide con l’attribuzione al collegio di un potere discrezionale ai fini della decisione sull’ammissibilità della nuova prova, poiché la parte vanta un autentico diritto alla prova, ex art. 24 Cost., rispetto a circostanze nuove emerse soltanto a seguito della pronuncia di primo grado.

Allo stesso tempo, le Sez. U ricostruiscono in modo restrittivo il concetto di indispensabilità della prova, correlandolo al mezzo istruttorio in grado di per sé di determinare la decisione del gravame nel senso della conferma o della riforma della pronuncia impugnata ovvero a dissipare il residuo stato di incertezza sui fatti controversi, nell’ipotesi di lacune probatorie (e quindi di definizione del giudizio di primo grado in base alla regola dell’onere della prova).

Tale prospettiva consente alle Sez. U di osservare che, pertanto, la conferma della ricostruzione più ampia del concetto di indispensabilità delle nuove prove ai sensi dell’art. 345, terzo comma, c.p.c., non porta con sé il possibile inconveniente di eccessivi abusi delle parti considerato che nello stesso rientrano esclusivamente le prove “decisive” che difficilmente una parte non richiederebbe o produrrebbe in ragione di una strategia processuale assumendosi il rischio di una mancata ammissione delle stesse in sede di gravame da parte del collegio.

Sotto altro profilo, le Sez. U evidenziano che l’orientamento assunto non si pone in contrasto con la regola generale dell’onere della prova la quale ha una valenza di extrema ratio e, pertanto, non può essa stessa costituire canone per la corretta interpretazione delle disposizioni processuali in tema di mezzi istruttori.

Su un piano più in generale, a fondamento della scelta interpretativa operata, le Sezioni Unite pongono l’esigenza di un necessario contemperamento tra principio di preclusione e principio di ricerca della verità materiale, sottolineando che detto contemperamento è funzionale al diritto di agire in giudizio di cui all’art. 24 Cost., alla medesima stregua del principio di ragionevole durata del processo.

. Bibliografia

Bibliografia

M. Bove, Sulla produzione di nuovi documenti in appello, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 303;

B. Cavallone, Istruzione probatoria e preclusioni, in Riv. dir. proc., 2014, 1038;

V. Colesanti, Impugnazioni in generale e appello nella riforma processuale, in Riv. dir. proc., 1992, 1049;

C. Consolo – F. P. Luiso – B. Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, Milano 1996;

V. Denti – G. Simoneschi, Il nuovo processo del lavoro, Milano 1974;

F. P. Luiso, Il processo del lavoro, Torino 1992;

L. Montesano – R. Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli 1996;

A. Proto Pisani, Lavoro (controversie individuali in materia di), in Novissimo digesto italiano, Appendice, Torino, 1983, IV, 673;

A. Tedoldi, L’istruzione probatoria nell’appello civile, Padova 2000.

  • società
  • amministratore

CAPITOLO VIII

IL COMPENSO DEGLI AMMINISTRATORI DI SOCIETÀ

(di Milena d’Oriano )

Sommario

1 Il rapporto tra l’amministratore e la società. - 2 Le posizioni della dottrina. - 2.1 La teoria organica. - 2.2 La teoria contrattualistica. - 3 Le posizioni della giurisprudenza. - 3.1 Amministrazione e parasubordinazione. - 3.2 Amministrazione e lavoro autonomo. - 3.3 Amministrazione quale rapporto societario. - 4 La nuova soluzione delle Sez. U. - Bibliografia

1. Il rapporto tra l’amministratore e la società.

La natura del rapporto di amministrazione è stata da sempre al centro di un vivace dibattito sia all’interno della dottrina che della giurisprudenza.

Gli amministratori sono l’organo cui è affidata la direzione e la gestione dell’impresa sociale; la centralità della loro figura nell’assetto organizzativo e operativo di ogni società è desumibile dalle numerose e vitali funzioni che gli competono per legge.

Una società per azioni può essere gestita un amministratore unico, anche non socio, o da un consiglio di amministrazione; compete agli amministratori, oltre il potere gestorio di carattere generale, che gli consente di compiere tutte le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale che non siano riservate all’assemblea (art. 2380-bis .c.c.), la rappresentanza istituzionale della società e quindi il potere di manifestare all’esterno la volontà sociale e di porre in essere i singoli atti giuridici necessari per darvi attuazione (art. 2384 c.c.).

Nonostante la presenza di numerose norme che ne disciplinano la figura da nessuna di esse, sia singolarmente che globalmente considerate, è possibile evincere quale debba essere la qualificazione giuridica del rapporto di amministrazione, da qui il bisogno avvertito nel passato di ricondurre la fattispecie ad altre forme di rapporto tipizzate, onde colmare eventuali lacune nella disciplina codicistica.

2. Le posizioni della dottrina.

Sulla natura del rapporto di amministrazione la dottrina ha assunto nel tempo molteplici e variegate posizioni. [I. De Santis, CEDAM, Padova, 2011].

Sinteticamente si contrappongono due diversi orientamenti, quello che fa capo alla teoria cd. contrattualistica, che individua la presenza di un vero e proprio contratto che legherebbe due soggetti distinti, l’amministratore da un lato, la società dall’altro, ciascuno autonomo centro di interessi, spesso anche contrapposti, e la teoria cd. organica, secondo cui, al contrario, mancherebbe ogni dualità, configurandosi solo una immedesimazione dell’organo nella persona giuridica che rappresenta, senza possibilità per un regolamento negoziale interno fonte di reciproci diritti e obblighi.

2.1. La teoria organica.

I fautori della teoria organica negano che la fonte del rapporto di amministrazione vada ricercata in un contratto e ne individuano l’origine in due atti unilaterali attinenti all’organizzazione della società, e quindi esecutivi del contratto sociale, consistenti in due dichiarazioni di volontà poste su piani diversi, concorrenti ma non convergenti in un unico contratto.

Rilevano a tal fine da un lato l’atto di nomina dell’assemblea, con valore di atto interno negoziale di preposizione all’esercizio della funzione gestoria, e dall’altro l’accettazione dell’amministratore, che non costituirebbe alcun vincolo, ma produrrebbe soltanto l’effetto di rendere efficace l’atto di preposizione.

La configurazione non contrattuale del rapporto società – amministratori incide sulla ricostruzione della fonte dei loro poteri; gli amministratori risulterebbero titolari dei poteri gestori in via originaria, in quanto organi necessari per il funzionamento e la realizzazione del contratto sociale, analogamente ai poteri dell’assemblea dei soci, con cui vi sarebbe una semplice convivenza, senza alcuna possibilità di sovrapposizione o limitazione.

Tali poteri, derivando direttamente dalla legge sono dunque autonomi, non avocabili, né disponibili né limitabili ad opera dell’assemblea dei soci a cui spetta solo di designare il titolare di prerogative gestorie già determinate.

Ulteriore corollario del rapporto organico è quello della immedesimazione organica dell’amministratore nella società stessa, e quindi l’inesistenza di due contrapposti ed autonomi centri di interesse tra i quali instaurare non solo un rapporto contrattuale ma un qualsiasi rapporto intersoggettivo – data l’impossibilità di una diversificazione di posizioni contrapposte e l’inesistenza di separazione tra funzione gestoria e funzione esecutiva sottoponibile a verifica, controllo o disciplina – ivi compreso un qualsivoglia rapporto di natura patrimoniale tra la persona fisica e la società, a causa della mancanza di due distinti centri di interessi e di volontà, non solo nella fase genetica del rapporto, ma anche e soprattutto nella fase del suo svolgimento.

2.2. La teoria contrattualistica.

Un altro orientamento pone invece all’origine del rapporto di amministrazione un contratto consensuale bilaterale, il cui più importante effetto andrebbe individuato nel conferimento all’amministratore del potere rappresentativo della società, che non deriverebbe dunque dalle disposizioni normative o statutarie, destinate solo a disciplinare tale potere all’esterno, ma troverebbe la sua fonte esclusivamente nel regolamento contrattuale.

Il consenso viene così a formarsi nel momento in cui la dichiarazione di nomina da parte dell’assemblea dei soci viene accettata dall’amministratore; oggetto del contratto è l’obbligo assunto dall’amministratore di compiere una serie di attività, in gran parte di natura giuridica, per conto della società ricevendo, di norma, come corrispettivo un compenso.

Gli amministratori sono pertanto considerati rappresentanti della società, e non organi della stessa, in quanto alla società sono riferibili solo le conseguenze giuridiche degli atti posti in essere per suo conto, senza che sussista alcuna immedesimazione della persona giuridica nella persona fisica che riveste la carica gestoria.

Nell’ambito dei fautori della teoria del contratto come fonte del rapporto gestorio non è mai esistita, tuttavia, una unanimità di vedute in ordine alla natura giuridica ed alla caratteristiche di tale contratto.

Teoria risalente, del tutto accantonata, era quella che assimilava la figura dell’amministratore al mandatario, tenuto conto del richiamo contenuto nell’art. 2392 c.c. alla “diligenza del mandatario” di cui all’art. 1710 c.c., per cui gli amministratori erano chiamati ad adempiere i doveri loro imposti dalla legge e dall’atto costitutivo con la diligenza del buon padre di famiglia. [G. Minervini., Giuffrè, Milano, 1956].

Con la riforma del diritto societario del 2003 questo riferimento è stato eliminato, segno tangibile della volontà del legislatore di fugare ogni dubbio sulla non sovrapponibilità delle due figure; secondo la nuova formulazione dell’art. 2392 c.c. si richiede infatti all’amministratore di operare con la “la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”. [F. Bonelli, Giuffrè, Milano, 2004].

Mentre è rimasta sempre isolata la teoria che vedeva nell’amministratore un lavoratore subordinato della società, posizione dottrinale da non confondere con quella di chi ammette la possibilità di cumulare il rapporto di amministrazione con quello di lavoratore subordinato, molto più radicate le posizioni di coloro che riconducevano la figura a quella del lavoratore autonomo o del lavoratore parasubordinato.

Si è così sostenuto che l’attività amministrativa altro non è che una prestazione professionale, finalizzata a far conseguire un profitto alla società, che comporta assunzione di responsabilità, richiede l’impiego di una consistente quantità di tempo ed energie lavorative e presenta i requisiti tipici dell’attività autonoma, quali la professionalità, l’autonomia operativa e l’indipendenza decisionale. [G. Bianchi, CEDAM, Padova, 1998].

O su altro fronte che nel rapporto degli amministratori con la società può ben sussistere una situazione di subordinazione socio-economica, che costituisce l’elemento caratterizzante della parasubordinazione, e che il principio dell’immedesimazione organica, rilevando solo nel rapporto con i terzi, al fine di consentire l’imputazione alla società degli atti di gestione posti in essere dagli amministratori, non ostacolerebbe la contemporanea configurabilità di un rapporto tra la società-persona giuridica ed il suo amministratore-persona fisica, ferma la necessità di procedere di volta in volta ad una verifica in concreto della sussistenza dei requisiti della prestazione personale, coordinata e continuativa, che costituirebbe un accertamento di mero fatto e non una quaestio iuris.

Le evidenti difficoltà a ricondurre il rapporto ad una delle figure contrattuali già note, hanno spinto in verità anche una buona parte dei sostenitori della teoria contrattualistica, a qualificare tale contratto come “ contratto sui generis”; saremmo dunque in presenza di un rapporto tipico, “il contratto tipico di amministrazione”, non riconducibile ad alcuna tipologia nota, in quanto connotato da elementi identificativi singolari ed individualizzanti, ma assimilabile di volta in volta a questo o quel contratto, quali il mandato, il contratto d’opera, il contratto di lavoro subordinato, senza tuttavia identificarsi in nessuno di essi, salvo fare riferimento alle rispettive discipline se compatibili.

3. Le posizioni della giurisprudenza.

La questione della natura dell’attività di un amministratore di società di capitali ha trovato negli anni molteplici soluzioni nella giurisprudenza della Suprema Corte, le prime pronunce in materia risalgano infatti a molti anni addietro.

Il dibattito si era inizialmente incentrato sulla contrapposizione tra le posizioni che negavano la possibilità di configurare un rapporto intersoggettivo e quelle favorevoli invece ad identificare tale rapporto, seppure con sfumature diverse più o meno rilevanti; nell’ambito del contrasto più risalente, le pronunce erano concentrate su aspetti di natura esclusivamente processuale ed attribuivano ora al rito ordinario ora a quello del lavoro le relative controversie.

3.1. Amministrazione e parasubordinazione.

Un primo tentativo di composizione è stato compiuto dalle Sez. U con la sentenza del 21 ottobre 1994 n. 10680, Roselli, Rv. 489165, che, pur affrontando la questione solo per risolvere una questione di rito e competenza, ha avuto l’innegabile pregio di effettuare per la prima volta una precisa ed articolata ricostruzione della fattispecie in termini di rapporto di cd. parasubordinazione di cui all’art 409 n. 3 c.p.c. [R. Rordorf, Foro it., 1996].

Punto nodale della sentenza è la distinzione del regime dei rapporti interni tra amministratore e società da quello dei rapporti esterni di rappresentanza.

La ricostruzione secondo la quale tra amministratore e società non potrebbero intercorrere rapporti obbligatori perché mancherebbero due autonomi centri di interesse, operando solo un rapporto di immedesimazione organica che comporterebbe l’attribuzione dell’operato degli amministratori direttamente alla società, rileva per la Corte unicamente nei confronti dei terzi, mentre nei rapporti interni tra la società e gli amministratori sono configurabili necessariamente rapporti di tipo contrattuale.

Come prova del fatto che amministratore e società sono due soggetti distinti e che tra loro sia possibile configurare rapporti giuridici autonomi da quello sociale, vengono indicati il diritto dell’amministratore a ricevere un compenso dalla società per l’attività prestata in favore di essa, gli obblighi di non concorrenza e di non porsi in conflitto di interessi con la stessa e, infine, il controllo esercitato dai sindaci sul suo operato.

L’esistenza del rapporto organico che lega l’amministratore alla società concerne soltanto i terzi, verso i quali gli atti giuridici compiuti dall’organo vengono imputati direttamente alla società anche se – a differenza di quanto avviene per il rappresentante senza potere per cui opera l’art. 1398 c.c. – la persona fisica-organo abbia agito senza poteri, con la conseguenza che verso i terzi assume rilevanza sempre e solo la persona giuridica rappresentata e non anche la detta persona fisica.

Nei rapporti interni, invece, si ritengono configurabili rapporti obbligatori tra le due persone, e quindi i due distinti centri d’interesse, come dimostrato dagli obblighi e dai doveri gravanti sugli amministratori verso la società, quale quello di non concorrenza (art. 2390 c.c.) e di non porsi in conflitto di interessi (art. 2391 c.c.); limiti al potere di gestione degli amministratori sono dati poi dal controllo esercitato dal collegio sindacale ex art. 2403 c.c., mentre altre situazioni soggettive passive possono essere previste dai singoli statuti.

Punto debole della pronuncia è forse quello in cui la Suprema Corte conclude per l’applicabilità diretta, e non estensiva, dell’art. 409, n. 3, c.p.c., dando per non contestata la sussistenza della continuità, coordinazione e personalità nelle prestazioni espletate dall’amministratore di società, senza analizzare in positivo i singoli profili costitutivi della parasubordinazione ma solo le due principali obiezioni alla sua configurabilità.

Si osserva così che l’idea che la funzione imprenditoriale dell’amministratore imponga di escludere la riconducibilità del relativo rapporto all’art. 409, n. 3, c.p.c., sarebbe smentita dal fatto che la natura imprenditoriale è in parte ravvisabile anche nel lavoro del dirigente e in quella dell’institore (art. 2203 c.c.), della cui natura subordinata del rapporto non si è mai dubitato; quanto al rischio d’impresa, di regola gravante solamente sull’imprenditore – datore di lavoro, che esso ben può essere distribuito, con l’effetto di gravare in parte sui lavoratori, senza snaturarne essenzialmente la posizione giuridica; quanto alla mancanza della situazione di “debolezza contrattuale”, indicata quale presupposto di applicabilità dell’art. 409 c.p.c., anche con riferimento al suo n. 3, che si tratta di un elemento di incerta definizione e di contenuto sociologico, valido quale supporto interpretativo ma non come presupposto di applicabilità di una norma.

La ricostruzione in termini di parasubordinazione è stata seguita da numerose pronunce, alcune sempre di tipo processuale, altre che affrontano anche questioni di natura sostanziale.

In linea con le Sez. U, si richiamano Sez. L, n. 5976/1995, Casciaro, Rv. 492526; Sez. L, n. 6901/1995, Casciaro, Rv. 492920; Sez. L, n. 1662/2000, Castiglione, Rv. 533866; Sez. L., n. 2458/2000, Amoroso, Rv 534582; Sez. L, n. 4662/2001, Filadoro, Rv. 545324; Sez. 3, n. 8721/2010, Filadoro, Rv 612540.

La natura parasubordinata del rapporto in Sez. L, n. 4261/2009, De Renzis, Rv. 606781, costituisce invece la ragione per escludere la necessaria gratuità dell’incarico e per affermare la necessità di una rinunzia, espressa o tacita, per negare il diritto al compenso, mentre in Sez. L, n. 19697/2007, Celentano, non massimata, per consentire l’applicazione della norma di cui all’art. 429 c.p.c., comma 3, ai compensi non erogati.

In Sez. 6-1, n. 16494/2013, Didone, Rv. 627209, seguita da Sez. 1, n. 24862/2015, Didone, Rv. 637897, la qualificazione del credito derivante dal rapporto tra l’amministratore e la società per azioni, poi fallita, come da lavoro parasubordinato, ha consentito che in tema di fallimento, la relativa controversia venisse sottratta al principio della sospensione dei termini durante il periodo feriale.

La qualificazione in termini di parasubordinazione del rapporto di amministrazione è stata infine posta alla base dell’esclusione della compatibilità di tale attività con la percezione dell’indennità di mobilità e della cassa integrazione guadagni in Sez. L, n. 15890/2004, Figurelli, Rv. 575728, seguita da Sez. L, n. 20826/2014, De Renzis, Rv. 632572.

3.2. Amministrazione e lavoro autonomo.

Andando di contrario avviso, altre pronunce definiscono invece il rapporto amministratore-società in termini di rapporto di lavoro autonomo, senza disdegnare qualche generico riferimento alla teoria dell’immedesimazione organica.

Per Sez. 1, n. 2861/2002, D’Agostino, Rv. 552611, confermata da Sez. 1, n. 7961/2009, Didone, Rv. 607490, in tema di società cooperativa a responsabilità limitata, l’amministratore della società, quale organo cui è commessa la gestione sociale, è legato da un rapporto interno di immedesimazione organica che non può essere qualificato nÈ rapporto di lavoro subordinato, nÈ rapporto di collaborazione continuata e coordinata, ma rientra piuttosto nell’area del lavoro professionale autonomo, per cui se ne giustifica la gratuità dell’incarico.

Anche per Sez. 1, n. 19714/2012, Berruti, Rv. 624428, il rapporto tra l’amministratore di una società di capitali e la società medesima va ricondotto nell’ambito di un rapporto professionale autonomo, per cui ad esso non si applica il disposto dell’art. 36 Cost., comma 1, relativo al diritto alla retribuzione in senso tecnico e conseguentemente il diritto al compenso professionale ha natura disponibile e può essere oggetto anche di dichiarazione unilaterale di rinuncia da parte del titolare.

Sul tema della natura autonoma, altro orientamento di segno opposto, alquanto consolidato, esclude invece che il credito del compenso in favore dell’amministratore o liquidatore di società sia assistito dal privilegio generale di cui all’art. 2751-bis, n. 2, c.c., ed afferma che l’amministratore o liquidatore non fornisce in realtà una prestazione d’opera intellettuale ed esclude che il contratto che lo lega alla società sia assimilabile al contratto d’opera di cui agli artt. 2222 e ss. c.c.

Secondo questa giurisprudenza, espressa da ultimo in Sez. 1, n. 4769/2014, Didone, Rv. 629679 (e tra le tante da Sez. 1, n. 11652/2007, Plenteda, Rv. 599908; Sez. 1, n. 9911/2007, Nappi, Rv. 596995; Sez. 1, n. 13805/2004, Ragonesi, Rv. 576446) l’attività svolta dall’amministratore ovvero dal liquidatore di società non presenta gli elementi del perseguimento di un risultato con la conseguente sopportazione del rischio, e l’opus (e cioè l’amministrazione) che l’amministratore o il liquidatore si impegna a fornire non è – a differenza di quello del prestatore d’opera – determinato dai contraenti preventivamente, né è determinabile aprioristicamente.

3.3. Amministrazione quale rapporto societario.

Di recente elaborazione è infine la tesi secondo cui il rapporto fra l’amministratore e la società debba essere ricondotto nell’ambito dei “rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario” cui fa riferimento l’art. 3, comma 2, lett. a) del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, per l’individuazione della competenza per materia del tribunale delle imprese.

Per Sez. 6-3, n. 14369/2015, Frasca, Rv. 636011, premesso che la previsione espressa dell’estensione della competenza alle “azioni di responsabilità da chiunque promosse contro i componenti degli organi amministrativi” non potrebbe essere intesa come sintomatica della volontà del legislatore di escludere dalla previsione di competenza tutte le altre controversie che concernano il rapporto di società fra società e suo amministratore., anche il rapporto tra amministratore e società, che viene definito funzionale, secondo la figura della c.d. immedesimazione organica, alla vita della società, viene qualificato rapporto “di società”, perché serve ad assicurare l’agire della società, e di cui si condivide la non assimilabilità ad una prestazione d’opera intellettuale, deve essere ricompreso nell’ambito dei rapporti societari, cui fa riferimento l’art. 3, comma 2, lett. a) del d.lgs. n. 168 del 2003, con devoluzione alla sezione specializzata in materia di impresa anche delle controversie introdotte dagli amministratori.

Da ultimo in Sez. 1, n. 2759/2016, Bisogni, Rv. 638620, la tesi della riconducibilità del rapporto che lega l’amministratore alla società, definito ancora di immedesimazione organica, né al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa, ma piuttosto all’area del lavoro professionale autonomo ovvero del rapporto societario tout court, è stata riaffermata per ammettere il ricorso ad arbitri anche nelle controversie tra amministratori e società attinenti al profilo interno dell’attività gestoria ed ai diritti che ne derivano, quale ad esempio il diritto al compenso, ove tale possibilità sia prevista dagli statuti societari.

4. La nuova soluzione delle Sez. U.

Con l’ordinanza interlocutoria n. 3738/2016 la Sez. 3, chiamata a decidere sulla qualificazione dei compensi od emolumenti percepiti da un amministratore di s.p.a. e consigliere di amministrazione di altra società, e quindi dell’estensione o meno ad essi dei limiti o benefici di impignorabilità previsti per gli stipendi dall’art. 545 c.p.c., applicabili secondo una pacifica giurisprudenza anche ai rapporti di parasubordinazione, ha evidenziato la presenza del suddetto contrasto in merito alla natura del rapporto tra amministratori e società di capitali, quale rapporto di parasubordinazione o, al contrario, di lavoro autonomo o d’opera intellettuale o comunque estraneo a tale ambito, e sollecitato l’assegnazione alle Sezioni Unite.

Individuata la ratio dell’impignorabilità di cui all’art. 545 c.p.c. nell’imprescindibile esigenza di non pregiudicare la soddisfazione dei più elementari bisogni della vita del debitore e delle altre persone poste a suo carico, costituendo lo stipendio la principale fonte di reddito e quindi di sostentamento del soggetto che mette a disposizione della controparte, con caratteri di continuità e stabilità, la propria energia lavorativa, la Corte ha messo in evidenza i molti nodi irrisolti, stigmatizzati dalle numerose pronunce a sostegno di opposte soluzioni, da un lato quelle che, in conformità a Sez. Un. del 14 dicembre 1994 n. 10680, riconoscevano carattere continuativo, coordinato e prevalentemente personale alla prestazione dell’amministratore, e dall’altro quelle che, escluso ogni vincolo di subordinazione o parasubordinazione, affermavano o la natura di contratto autonomo, o la possibilità di un diverso atteggiarsi del singolo rapporto in concreto, a seconda dell’esclusività o meno del potere di gestione dell’amministratore o più di recente la natura di rapporto “di società” diverso e distinto peraltro da un rapporto di prestazione d’opera intellettuale o meno.

Investite della questione, a composizione del contrasto, le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n. 1545/2017, Spirito, Rv. 642004-03, hanno affermato il seguente principio di diritto : «L’amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una s.p.a. sono legati alla stessa da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c.; ne deriva che i compensi loro spettanti per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili senza i limiti previsti dall’art. 545, comma 4, c.p.c.».

Evidenzia il Supremo Collegio che il mutato quadro normativo dell’intero sistema societario, ed un approccio sistematico diverso che non tenga conto delle sole problematiche attinenti al rito ed alla competenza, impongono oggi “un radicale ripensamento” rispetto al precedente del 1994, nel senso di escludere la configurabilità dell’amministratore di società quale lavoratore parasubordinato.

La riforma del diritto societario ha reso l’amministratore il vero egemone dell’ente sociale cui spetta in via esclusiva la gestione dell’impresa, con il solo limite degli atti che non rientrano nell’oggetto sociale, laddove all’assemblea residuano competenze delimitate e specifiche; per la sua competenza generale nella gestione e rappresentanza dell’ente, l’amministratore è il soggetto che consente alla società di agire e raggiungere i suoi fini imprenditoriali.

Presupposto cardine per la qualificazione di un’attività come parasubordinata ai sensi dell’art, 409, comma 3, c.p.c. è quella del coordinamento, da intendersi in senso verticale come eterodirezione o comunque soggezione ad ingerenze o direttive altrui; le Sezioni Unite evidenziano che la funzione dell’amministratore di società non comporta espletamento di attività eterodiretta, in quanto non è ipotizzabile un suo coordinamento da parte dell’assemblea dei soci né tanto meno una sua condizione di debolezza contrattuale.

Ritenuta condivisibile la tesi della riconducibilità del rapporto fra l’amministratore e la società nell’ambito dei “rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario” cui fa riferimento l’art. 3, comma 2, lett. a) del d.lgs. n. 168 del 2003, per l’individuazione della competenza per materia del tribunale delle imprese, si rileva che tale qualificazione, idonea a concentrare la competenza di tutte le controversie che vedano coinvolti la società ed i suoi amministratori, rende ormai superflua ed irrilevante la passata distinzione tra attività di rilevanza esterna degli amministratori ed il loro rapporto interno con la società.

La pronuncia si conclude però con una importante precisazione in quanto, sulla falsariga della giurisprudenza formatasi in merito alla cumulabilità tra amministrazione e rapporto subordinato, non esclude che venga accertata in concreto l’esistenza di un rapporto, parallelo e diverso da quello di amministrazione, che presenti le caratteristiche del rapporto parasubordinato o autonomo.

Il rapporto di amministrazione viene così calato nella esclusiva e riformata dimensione societaria, e disancorato da tutte le definizioni mutuate dalle tipologie contrattuali di stampo lavoristico.

Tale astrazione viene realizzata ipotizzandosi una sua ipotetica compatibilità con ulteriori e paralleli rapporti, sempre tra società ed amministratore, che assumano in concreto le caratteristiche delle tipologie già note.

La qualificazione in termini di autonomia, subordinazione o parasubordinazione non attiene più quindi al rapporto amministratore-società, ma può eventualmente caratterizzare un ulteriore rapporto, che si cumula all’unico rilevante in ambito societario; tale ulteriore rapporto potrebbe anche in concreto non sussistere, ma seppure instaurato non interferirebbe con la disciplina del primo che resta di esclusiva natura societaria.

. Bibliografia

Bibliografia

Bianchi G., Gli amministratori di società di capitali, Cedam, Padova, 1998;

Bonelli F., Gli amministratori di spa dopo la riforma delle società, Giuffrè, Milano, 2004;

De Santis I., Remunerazione degli amministratori e governance delle società per azioni, Cedam, Padova, 2011;

Minervini G., Gli amministratori di società per azioni, Milano, Giuffrè, 1956;

Rordorf R., nota a Trib. Roma 3 giugno 1996 in Foro It., 1996, I, 3206.

  • società
  • giurisdizione
  • amministratore

CAPITOLO IX

NOMINA DI AMMINISTRATORI DI SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA E GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ORDINARIO TRA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ E NOVITÀ NORMATIVE

(di Eleonora Reggiani )

Sommario

1 La vicenda. - 2 La decisione. - 3 La disciplina. - 4 Il problema della giurisdizione. - 5 I precedenti giurisprudenziali. - 6 Gli ulteriori argomenti della dottrina. - 7 La norma di chiusura. - 8 Il successivo art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 175 del 2016. - Bibliografia

1. La vicenda.

Il Presidente del consiglio di amministrazione di una società per azioni a capitale interamente pubblico, allegando di essere ancora in carica, ha impugnato davanti al TAR il decreto del Presidente della giunta regionale, con il quale era stato temporaneamente nominato un nuovo Presidente del consiglio di amministrazione della medesima società.

A fondamento del ricorso, ha prospettato (sulla premessa di avere già impugnato, sempre avanti al TAR, analoga delibera, relativa alla procedura selettiva per l’individuazione del nuovo Presidente, ottenendone la sospensione in attesa della definizione della sollevata questione di legittimità costituzionale) la violazione del giudicato cautelare, la violazione di legge e l’eccesso di potere.

Nel costituirsi, la Regione ha in via pregiudiziale eccepito il difetto di giurisdizione del giudice adito, ritenendo la controversia attribuita alla cognizione del giudice ordinario, e ha proposto istanza di regolamento preventivo della giurisdizione.

2. La decisione.

Con ordinanza n. 21229 del 2017 (Sez. U, n. 21229/2017, Scarano, Rv. 645313-01), le Sezioni Unite della Corte di cassazione, statuendo sul menzionato regolamento preventivo di giurisdizione, hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario.

La S.C. ha affermato, in via generale, che la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché la P.A. ne possiede – in tutto o in parte – le azioni, in quanto il rapporto tra società ed ente pubblico è di assoluta autonomia. Ha, infatti, evidenziato che non è consentito all’ente pubblico di incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto sociale con l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo di avvalersi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare per il tramite dei membri di nomina pubblica presenti negli organi della società.

Ha quindi richiamato le pronunce che hanno ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione della revoca degli amministratori di società per azioni a partecipazione pubblica, considerando l’atto impugnato espressione di poteri privati, attribuiti al socio pubblico dalla legge e trasfusi nello statuto della società, e qualificando la posizione soggettiva degli amministratori in termini di diritto soggettivo.

La S.C., poi, evidenziando che nel caso di specie le censure mosse si incentrano tutte sulla ritenuta illegittimità della nomina impugnata, per asserita violazione di disposizioni statutarie relative alla nomina e alla durata in carica del Presidente del consiglio di amministrazione, tenuto conto di quanto in precedenza evidenziato, ha ritenuto che, anche in questo caso, l’atto impugnato fosse da qualificare come atto compiuto dall’ente uti socius, e non iure imperii, posto “a valle” e non “a monte” della scelta di impiegare il modello societario, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario.

Ha inoltre precisato che, in ordine alle controversie riguardanti la nomina o la revoca degli amministratori di società per azioni ex art. 2449 c.c., la giurisdizione è comunque da intendersi del giudice ordinario, anche quando si tratta di società di cui la P.A sia unico socio o di società in house providing, avendo l’art. 4, comma 13, del decreto legge 6 luglio 2012 n. 95, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012 n. 135, risolto ogni dubbio a favore della giurisdizione ordinaria, dal momento che ha previsto, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, che le società a partecipazione pubblica sono disciplinate dalle norme sulle società contenute nel codice civile.

La S.C. ha pure incidentalmente affermato che lo stesso criterio interpretativo, offerto dalla norma appena richiamata, è espresso dall’art. l, comma 3, del decreto legislativo 19 agosto 2016 n. 175, precisando, tuttavia, che tale ultima disposizione non è applicabile alla fattispecie ratione temporis.

3. La disciplina.

Com’è noto, l’art. 2449 c.c. contiene una significativa deroga al diritto societario comune, laddove, al comma 1, è stabilito che “Se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare un numero di amministratori e sindaci, ovvero componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla partecipazione al capitale sociale”.

Al successivo comma 2, prima parte, del medesimo articolo è inoltre precisato che “Gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del primo comma possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati”.

In forza di tali disposizioni, il socio pubblico può, dunque, provvedere direttamente a nominare e revocare i soggetti sopra indicati, sostituendosi all’assemblea.

Com’è noto, l’attuale formulazione del comma 1 dell’art. 2449 c.c. è conseguenza della sentenza della Corte di giustizia, 6 dicembre 2007, cause C-463/04 e 464/04, la quale ha ritenuto che la genericità e l’indeterminatezza dei presupposti per la designazione diretta da parte dello Stato o dell’ente pubblico di componenti degli organi sociali contrastasse con l’art. 56, n. 1, del Trattato CE (ora art. 63 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), perché, disincentivando i risparmiatori a investire nelle società a partecipazione pubblica, il cui statuto consentiva al socio pubblico poteri più che proporzionali rispetto alla partecipazione detenuta, determinava una restrizione alla circolazione dei capitali tra gli Stati membri.

In effetti, prima dell’intervento della Corte di giustizia, e della conseguente modifica dell’art. 2449 c.c. ad opera della legge 25 febbraio 2008 n. 34, la portata derogatoria della norma era davvero rilevante, giacché i soci pubblici potevano nominare direttamente i componenti degli organi sociali, senza alcun limite quantitativo o vincolo di proporzionalità rispetto alla partecipazione al capitale sociale. Peraltro, in applicazione dell’art. 2450 c.c., la nomina o la revoca potevano intervenire anche a prescindere dalla partecipazione pubblica al capitale. Tale ultima disposizione, ritenuta contrastante con le regole comunitarie in materia di libera circolazione dei capitali e diritto di stabilimento, ha dato luogo all’avvio, da parte della Commissione, della procedura d’infrazione n. 2006/2014, ed è stata poi abrogata dall’art. 3, decreto legge 15 febbraio 2007, convertito, con modificazioni, nella legge 6 aprile 2007 n. 46.

La deroga al diritto societario comune è, comunque, tuttora significativa, perché coinvolge non soltanto il principio della competenza assembleare, ma anche il principio maggioritario (che regola il funzionamento dell’assemblea), dato che le disposizioni richiamate rendono proporzionale rispetto alla partecipazione del socio pubblico non il diritto di voto, com’è nel diritto comune, ma il diritto di nomina, consentendo perciò al socio pubblico minoritario di procedere alla nomina di amministratori (sindaci e componenti del consiglio di sorveglianza), che altrimenti sarebbero nominati dall’assemblea e, quindi, dai soci di maggioranza. Inoltre, come evidenziato dalla migliore dottrina, il potere di nomina diretta non preclude alla P.A. di partecipare all’assemblea e di esercitare il diritto di voto, sicché l’ente pubblico che provvede alla nomina diretta può pure contribuire alla scelta degli amministratori di nomina assembleare.

Stesso discorso vale per la revoca di amministratori, sindaci e componenti del consiglio di sorveglianza, nominati dal socio pubblico, posto che la norma attribuisce solo a quest’ultimo il diritto di revocarli, escludendo il permanere di una concorrente facoltà di revoca in capo all’assemblea.

È, invece, discusso tra gli interpreti se la disposizione in esame comporti anche la disapplicazione dell’art. 2393, comma 5, c.c., nella parte in cui prevede la revoca (automatica) degli amministratori, in conseguenza della deliberazione assembleare di promuovere l’azione di responsabilità, qualora questa venga approvata dalla maggioranza richiesta dalla norma.

Si deve precisare che, con il decreto legislativo 19 agosto 2016 n. 175 (integrato e corretto dal decreto legislativo del 16 giugno 2017 n. 100), è stato adottato il Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica, il quale non ha, tuttavia, modificato le norme appena illustrate, ma ha solo introdotto alcune disposizioni che ne hanno chiarito e specificato la portata.

In particolare, al comma 7 dell’art. 9 del Testo Unico è espressamente stabilito che “Qualora lo statuto della società partecipata preveda, ai sensi dell’art. 2449 del codice civile, la facoltà del socio pubblico di nominare o revocare direttamente uno o più componenti di organi interni della società, i relativi atti sono efficaci dalla data di ricevimento, da parte della società, della comunicazione dell’atto di nomina o di revoca. È fatta salva l’applicazione dell’art. 2400, secondo comma, del codice civile”.

Nessuna particolare osservazione richiede la disposizione relativa all’efficacia degli atti di nomina o di revoca.

Per quanto riguarda la revoca dei sindaci, invece, la norma in esame risulta avere semplicemente precisato che la deroga alla disciplina comune, introdotta dall’art. 2449, comma 2, prima parte, c.c., non esclude l’applicazione dell’art. 2400, comma 2, c.c.

Come ritenuto dagli interpreti ancor prima dell’adozione del Testo Unico (tenendo conto dell’art. 2449, comma 2, seconda parte, c.c.), il socio pubblico può revocare il sindaco da lui nominato, ma, analogamente a quanto previsto per i sindaci di nomina assembleare, solo in presenza di una giusta causa e sottoponendo l’atto all’approvazione del tribunale (a garanzia dell’imparzialità della decisione), che provvede, dopo avere sentito l’interessato.

Anche il successivo comma 8 dell’art. 9 del d.lgs. cit. contiene una norma chiarificatrice, posto che in essa si precisa che, in caso di nomina o di revoca ex art. 2449 c.c., “la mancanza o l’invalidità dell’atto deliberativo interno di nomina o di revoca rileva come causa di invalidità dell’atto di nomina o di revoca anche nei confronti della società”, così eliminando ogni dubbio in ordine all’incidenza su tali atti dei vizi del procedimento amministrativo o degli atti interni alla P.A. (anche collegiali), che ne precedono l’adozione.

4. Il problema della giurisdizione.

L’individuazione del giudice a cui spetta la cognizione delle controversie relative agli atti di nomina o di revoca sopra descritti è un problema di non poco conto, perché la questione sulla giurisdizione è strettamente connessa a quella sulla qualificazione giuridica del potere che, con tali atti, è esercitato.

La dottrina e la giurisprudenza hanno in passato ritenuto devolute alla giurisdizione ordinaria o a quella amministrativa tali cause a seconda che si scorgesse, nella speciale prerogativa prevista dall’art. 2449 c.c., una facoltà attribuita all’ente pubblico, nella sua veste di socio di società di capitali, oppure un potere autoritativo, nella sua veste di soggetto appartenente alla P.A.

Per decenni è durato un dibattito, che ha interessato tanto la dottrina quanto la giurisprudenza.

Una risalente dottrina pubblicistica ha rinvenuto la ratio delle previsioni normative, in punto di nomina diretta degli amministratori, nella finalità di consentire allo Stato – e, più in generale, all’ente pubblico nominante – di veicolare all’interno della società l’interesse pubblico. Secondo tale orientamento, il riconoscimento dello speciale potere di nomina troverebbe fondamento nella qualità di ente pubblico del preponente (si tratterebbe di un conferimento ex lege di poteri alla P.A. nella sua veste autoritativa), con la conseguenza che la relativa preposizione, avente – come il correlato atto di revoca – natura di provvedimento amministrativo, sarebbe volta ad instaurare tra l’ente nominante e l’amministratore un rapporto (di servizio) di tipo pubblicistico. Di qui, l’obbligo, per quest’ultimo, di dare esecuzione alle direttive provenienti dal socio pubblico. Nella prospettiva predetta, la preposizione dell’amministratore al proprio ufficio è ricondotta interamente nell’area pubblicistica (salvo configurare, come alcuni autori hanno fatto, un secondo rapporto a seguito della nomina, intercorrente tra l’amministratore e la società, ricondotto nell’area del diritto privato), con la conseguenza che la situazione giuridica soggettiva dell’amministratore revocato (ed asseritamente leso dall’esercizio, da parte dell’ente pubblico, del suo potere discrezionale) è qualificata in termini di interesse legittimo, la cui tutela è demandata al sindacato di legittimità del giudice amministrativo.

A diversa conclusione sono giunti, invece, quanti hanno ritenuto che le norme di cui all’art. 2449 c.c. esauriscano la loro portata su un piano organizzativo – e, dunque, prettamente privatistico – essendo, quello della nomina diretta, un potere riconosciuto all’ente pubblico nella sua qualità di socio, sia pure posto in una situazione di privilegio. In tale prospettiva, non viene negato il rilievo pubblicistico della fattispecie considerata, alla quale si riconosce la finalità di introdurre (anche quando la partecipazione del socio pubblico, secondo il diritto comune, non lo consentirebbe) l’interesse pubblico nella società, ma al potere di nomina diretta non si affianca alcuna lettura in chiave pubblicistica, trovando la speciale prerogativa, riconosciuta dall’art. 2449 c.c., giustificazione nella particolare rilevanza, per l’interesse pubblico, dell’attività che la società svolge. Da tale ricostruzione è desunta la natura privatistica degli atti di nomina e revoca dell’ente pubblico e, dunque, la qualificazione della situazione giuridica del soggetto nominato o revocato in termini di diritto soggettivo, la cui tutela è devoluta al sindacato del giudice ordinario.

La decisione in esame, in conformità ai precedenti pronunce della Suprema Corte, segue l’orientamento da ultimo illustrato, a cui oramai hanno aderito anche la giurisprudenza amministrativa e la migliore dottrina, e che, come verrà di seguito evidenziato, è ora avallato dal d.lgs. n. 175 del 2016, integrato e corretto dal d.lgs. n. 100 del 2017 (Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica).

5. I precedenti giurisprudenziali.

Già Sez. U, n. 30167/2011, Salvago, Rv. 620489-01, ha affermato che spettano alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto l’attività unilaterale prodromica alla vicenda societaria, con cui un ente pubblico delibera di costituire una società (provvedendo anche alla scelta del socio) o di parteciparvi o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della società medesima o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della stessa (sul punto, sostanzialmente in termini, già Sez. U, n. 23200/2009, Spirito, Rv. 609995-01, e poi, in tutto conforme, Sez. U, n. 21588/2013, Di Palma, Rv. 627436-01), mentre sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto gli atti societari, compiuti “a valle” della scelta di utilizzare il modello societario.

La decisione appena richiamata ha precisato che questi ultimi atti sono soggetti alle regole del diritto commerciale proprie del modello societario recepito, a partire dalla costituzione della società e per tutta la durata della sua attività, fino allo scioglimento.

Secondo tale impostazione, nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario rientrano le controversie volte ad accertare l’intero spettro delle patologie negoziali, siano esse inerenti alla struttura del contratto sociale, siano estranee e/o alla stessa sopravvenute e derivanti da irregolarità o illegittimità della procedura amministrativa “a monte”, perciò comprendenti le fattispecie sia di radicale mancanza del procedimento di evidenza pubblica (o di vizi che ne affliggono singoli atti), sia di successiva mancanza legale (provocata dall’annullamento del provvedimento di aggiudicazione). Sono comprese anche le censure relative ai profili d’illegittimità degli atti consequenziali, compiuti dalla società già istituita, i quali non costituiscono espressione di potestà amministrativa, ma vanno ricondotti al sistema delle invalidità del contratto sociale, che postula una verifica, da parte del giudice ordinario, di conformità alle regole in base alle quali l’atto negoziale è sorto ovvero è destinato a produrre i suoi effetti tipici.

Tale orientamento è stato ribadito da Sez. U, n. 1237/2015, Di Palma, Rv. 633757-01, che ha fatto proprio un altro precedente (Sez. U, n. 7799/2005, Elefante, Rv. 580283-01), ove si è precisato che, salvo ipotesi eccezionali, la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché lo Stato o gli enti pubblici (Comune, Provincia, etc.) ne posseggano le azioni, in tutto o in parte, non assumendo rilievo alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell’azionista, dato che tale società, quale persona giuridica privata, opera nell’esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l’ente pubblico. Il rapporto tra la società e l’ente pubblico partecipante viene descritto in termini di autonomia, non essendo ritenuto possibile che l’ente potesse incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali.

Con particolare riguardo alle società miste, incaricate della gestione di servizi pubblici istituiti dall’ente locale, si è, poi, evidenziato che la legge non prevede alcuna apprezzabile deviazione rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali, sicché la posizione dell’ente pubblico all’interno della società è da intendersi unicamente quella del socio di maggioranza, derivante dalla prevalenza del capitale da esso conferito, che soltanto in tale veste potrà influire sul funzionamento della società, avvalendosi non già dei poteri pubblicistici, che non gli spettano, ma degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società.

A tale statuizione è seguita Sez. U, n. 24591/2016, Spirito, Rv. 641767-01, che ha adattato gli stessi principi alle società a partecipazione pubblica aventi le caratteristiche delle società in house providing, ed anche Sez. U, n. 19676/2016, Frasca, Rv. 641090-01.

Da ultimo è intervenuta la pronuncia in esame, che, come sopra evidenziato, ha ripercorso e fatti propri gli argomenti appena illustrati, adattandoli alla fattispecie esaminata.

6. Gli ulteriori argomenti della dottrina.

È importante considerare che l’art. 2449 c.c. non è l’unica norma in base alla quale è consentito procedere alla nomina diretta degli organi delle società di capitali.

Si deve, infatti, tenere presente il disposto dell’art. 2468 c.c., che, sia pure per le sole società a responsabilità limitata, prevede la possibilità che l’atto costitutivo attribuisca a singoli soci particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società, tra cui il diritto di nominare e revocare i componenti degli organi sociali.

Rileva, inoltre, la statuizione contenuta all’art. 2351, comma 5, c.c., ove, con riguardo alle società per azioni, è consentito allo statuto di riservare ai portatori di determinati strumenti finanziari – che non sono neanche soci – la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco.

Come evidenziato da attenta dottrina, la presenza di ulteriori ipotesi, simili a quelle previste dall’art. 2449 c.c., dimostra che il diritto di nomina (e di revoca) diretta non è un potere di matrice pubblicistica, posto che, in tali ulteriori ipotesi, tale potere è conferito a soggetti privati, diversi dallo Stato e dagli enti pubblici, e costituisce un privilegio, ma di natura soggettiva e non autoritativa.

Altra dottrina ha poi rilevato che in tutti i casi sopra esaminati, compreso quello disciplinato dall’art. 2449 c.c., il potere di nomina (e di revoca) diretta ha fonte nell’atto costitutivo o nello statuto (a ciò, autorizzati dalla legge) e, dunque, avendo titolo negoziale, è riconducibile alla sfera di operatività del diritto privato.

Si deve d’altronde tenere presente che l’art. 2449, comma 2, seconda parte, c.c. precisa che gli amministratori (i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza) nominati dal socio pubblico “hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea” (come peraltro previsto nell’analogo caso, disciplinato dal sopra menzionato, art. 2351, comma 5, c.c., ove, nell’ultima parte, è stabilito che ai componenti degli organi sociali nominati dai portatori degli strumenti finanziari, si applicano le medesime norme previste per gli altri componenti dell’organo cui partecipano).

Tale disposizione evidenzia la parità di status tra i componenti degli organi sociali nominati dal socio pubblico e i componenti degli organi sociali nominati dall’assemblea (così anche Sez. U, n. 1237/2015, Di Palma, Rv. 633757-01). Ciò significa, in particolare, che gli amministratori di nomina pubblica sono tenuti a perseguire l’interesse sociale di tipo lucrativo al pari degli altri amministratori, non attribuendo la nomina pubblica un diverso significato ai loro compiti e al loro ruolo (come pure affermato da Sez. 1, n. 23381/2013, Bisogni, Rv. 628555-01).

Come ritenuto dalla migliore dottrina, dunque, tale disposizione conferma che i soggetti nominati dal socio pubblico non sono legati all’ente che li ha nominati da un rapporto (di servizio) di tipo pubblicistico, né sono chiamati a perseguire interessi diversi e ulteriori rispetto a quelli (lucrativi), che devono curare i soggetti nominati dall’assemblea.

L’attività di gestione e di controllo all’interno delle società partecipate deve conseguentemente essere inserita nell’ambito del diritto privato e, con essa, gli atti di nomina (e revoca) diretta dei componenti dei relativi organi.

7. La norma di chiusura.

Come sopra evidenziato, la S.C., nella pronuncia in esame, richiamando anche sul punto le precedenti statuizioni (in particolare Sez. U, n. 1237/2015, Di Palma, Rv. 633757-01, e Sez. U, n. 24591/2016, Spirito, Rv. 641767-01), ha aggiunto che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario anche in caso di società a partecipazione pubblica totalitaria ed anche in caso di società in house, perché ogni dubbio in proposito deve essere risolto a favore della giurisdizione ordinaria, in virtù del disposto dell’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con modif., in l. n. 135 del 2012.

La norma appena richiamata stabilisce che “le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”.

Tale disposizione, secondo la Corte di cassazione, costituisce una clausola ermeneutica generale, che impone di optare – in caso di dubbio sull’interpretazione di tutte le norme, anche di carattere speciale, che riguardano le società a partecipazione pubblica – per l’applicazione della disciplina civilistica in materia di società di capitali e, dunque, per la sottoposizione delle relative controversie al giudice ordinario (in virtù dell’implicita considerazione, secondo la quale non è ravvisabile l’esercizio di autorità pubblica, cui si contrappongono interessi legittimi, ma l’uso di poteri e facoltà di diritto privato, a cui si rapportano diritti soggettivi).

Una parte della dottrina ha manifestato qualche perplessità, in ordine all’effettiva portata della norma. In primo luogo, ha ritenuto che il riferimento alle “altre disposizioni, anche di carattere speciale” non rinvia a specifiche disposizioni, mentre, trattandosi di norma di interpretazione autentica, avrebbe dovuto avere precisi riferimenti normativi. In secondo luogo, ha evidenziato che lo stesso contesto in cui la norma è inserita (la c.d. spending review) sarebbe troppo settoriale, per consentire l’attribuzione del rilievo onnicomprensivo attribuito dalla S.C., tenuto conto della disorganica e farraginosa legislazione speciale in cui andrebbe ad operare.

Tale tesi, che riduce significativamente la portata applicativa dalla disposizione in esame (finendo per escluderne l’applicazione al di fuori del testo normativo in cui è stata adottata), appare tuttavia davvero fragile a fronte dell’inequivoca volontà del legislatore, manifestata chiaramente nella disposizione medesima, di favorire in ogni caso la disciplina propria del diritto societario comune.

Il problema è comunque superato, perché il d.lgs. n. 175 del 2016 (Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica) all’art. 28 ha abrogato l’articolo in esame, sostituendolo con una disposizione sostanzialmente analoga (l’art. 1, comma 3, d.lgs. cit.), la cui interpretazione è obiettivamente più agevole.

8. Il successivo art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 175 del 2016.

All’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 175 del 2016 (Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica), da ultimo richiamato, è previsto che, salve le eccezioni indicate nel successivo comma, per quanto non derogato dalle disposizioni del medesimo decreto, “si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”.

Correttamente la dottrina ha ritenuto che tale disposizione – che, come sopra evidenziato, ha sostituito l’abrogato art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con modif., in l. n. 135 del 2012 – costituisce la “norma di chiusura” del Testo Unico.

Tramite tale disposizione, infatti, la riconduzione a sistema della disciplina delle società a partecipazione pubblica, che costituisce primario interesse della legge delega, passa, fatte salve alcune eccezioni, attraverso il rinvio alla disciplina privatistica.

Nella versione originaria, l’articolo conteneva il riferimento, per tutto quanto non derogato dal Testo Unico, alle norme sulle società “contenute nel codice civile e in leggi speciali”, ma poi, nella versione definitiva, il richiamo alle leggi speciali è stato sostituito dal rinvio alle norme generali di diritto privato.

E, in effetti, proprio con riguardo al menzionato art. 1, comma 3 del d.lgs. cit., nella relazione illustrativa, si legge quanto segue: “Si è ritenuto di accogliere le osservazioni del Consiglio di Stato e delle competenti Commissioni parlamentari in merito alla sostituzione, al comma 3, della dizione “leggi speciali” con quella di “norme generali di diritto privato”, che meglio chiarisce l’intenzione di fare salve le disposizioni generali, e non quelle speciali rispetto al presente testo. Non si è ritenuto, invece, di introdurre il riferimento, suggerito dallo stesso Consiglio di Stato, alle norme generali di diritto amministrativo, le quali non sono applicabili alle società partecipate in quanto tali. Restano comunque ferme le norme già vigenti relative a singole società. …omissis… In generale, la delega riguarda il riordino delle norme relative a tutte le società o a tipi di società, non alle singole società. … Per quanto non derogato da disposizioni di diritto singolare, ovviamente si applicano quelle del testo unico, che sono speciali rispetto a quelle di diritto privato”.

In altre parole, ora, in materia di società a partecipazione pubblica, salve le eccezioni previste, si applicano le norme contenute nel Testo Unico e, in mancanza, quelle di diritto privato.

In alcuni casi il legislatore delegato ha richiamato espressamente nel Testo Unico la disciplina comune prevista per le società di capitali, facendola propria, nell’evidente intenzione di evitare ogni dubbio sulla disciplina applicabile.

Il riferimento è, in particolare, al disposto dell’art. 12 del d.lgs. cit., relativo alle azioni di responsabilità nei confronti dei componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate (ove, però, permangono seri problemi interpretativi, soprattutto con riguardo alle società in house), e al disposto dell’art. 14 del medesimo d.lgs., relativo alla crisi d’impresa delle società a partecipazione pubblica.

Negli altri casi, in assenza di eccezioni e di una disciplina particolare contenuta nel Testo Unico, il rinvio al diritto privato opera in virtù del sopra menzionato art. 1, comma 3, del d.lgs. cit.

Con particolare riferimento alla materia in esame, si deve, tuttavia, precisare che, come supra evidenziato, il legislatore delegato non ha modificato le disposizioni del codice civile, ma non le ha nemmeno ignorate, perché ha introdotto delle norme, che hanno chiarito alcuni aspetti operativi. Non ha, però, previsto nel Testo Unico alcuna disciplina speciale per particolari categorie di società partecipate.

Anche in questo caso, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 175 del 2016 – e in forza dell’art. 1, comma 3 del d.lgs. cit. – deve, dunque, ritenersi che, in mancanza di disposizioni eccezionali e di una diversa disciplina contenuta nel Testo Unico, si deve applicare la disciplina privatistica a tutte le categorie di società a partecipazione pubblica e a tutti i casi di nomina diretta da parte del socio pubblico dei componenti degli organi di gestione e controllo della società.

Pertanto, in virtù delle disposizioni introdotte dal Testo Unico in materia di società partecipate, come già ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, l’esercizio del diritto di nomina diretta ex art. 2449 c.c., ove previsto nello statuto societario, è da intendersi espressione di poteri privati, e non di autorità pubblicistiche, che non coinvolge interessi legittimi, ma diritti soggettivi, e giustifica l’attribuzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario. Tale conclusione vale per tutti i tipi di società partecipata, senza che abbia alcun rilievo che si tratti di società a totale partecipazione pubblica o di società in house providing o di altro particolare tipo di società.

. Bibliografia

Bibliografia

G.M. Buta, Deroghe al diritto societario comune in materia di amministrazione e controllo delle società partecipate (d.lgs. 19 agosto 2016 n. 175), in Nuove leggi civ. comm., 2017, 3, 496.

E. Grippaudo, Nomina o revoca di amministratori e sindaci di società “in house”: giurisdizione del giudice ordinario, in Corriere Giur., 2017, 635.

C. Ibba, Tutela delle minoranze nelle società a partecipazione pubblica, in Riv. soc., 2015, 95.

K. Martucci, Revoca degli amministratori nominati dall’ente pubblico azionista e giurisdizione, in Giur. comm., 2016, 1050.

V. Sanna, La nomina diretta degli amministratori di società da parte dello Stato o di enti pubblici ed il problema della giurisdizione, in Nuova giur. civ., 2017, 3, 385.

F. Solinas, Sussiste la giurisdizione ordinaria sulla revoca di amministratori di società pubbliche, in Giur. it., 2015, 1918.

  • giudice
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO X

I RAPPORTI TRA PUBBLICO MINISTERO E GIUDICE DELL’ESECUZIONE NELLA CONCESSIONE DEL BENEFICIO DELLA SOSPENSIONE DEI TERMINI NELLE PROCEDURE ESECUTIVE

(di Luca Varrone )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il beneficio della sospensione dei termini (art. 20, comma 7, l. 23 febbraio 1999, n. 44 e successive modificazioni). - 2.1 La declaratoria di illegittimità costituzionale del potere prefettizio di concessione del beneficio (Corte costituzionale n. 457 del 2005). - 3 La novella introdotta dalla legge n. 3 del 2012 e il coinvolgimento del pubblico ministero. - 4 L’inammissibilità del conflitto di attribuzione tra giudice dell’esecuzione e pubblico ministero. - 5 Il provvedimento di concessione del beneficio da parte del pubblico ministero secondo la Corte Costituzionale (sentenza n. 192 del 2014 della Corte Costituzionale). - 6 La pronuncia nell’interesse della legge delle Sez. U (n. 21854/2017). - 6.1 Sull’ammissibilità del ricorso nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c. - 6.2 I limiti del sindacato del giudice civile sul provvedimento del P.M. di riconoscimento del beneficio della sospensione dei termini ex art. 20, comma 7, della l. 23 febbraio 1999, n. 44 n. 3, come modificato dalla l. n. 3 del 2012. - 7 Conclusioni.

1. Premessa.

Le Sez. U, con sentenza n. 21854 del 2017, hanno risolto una questione di massima di particolare importanza relativa all’interpretazione dell’art. 20, comma 7, l. 23 febbraio 1999, n. 44, come modificato dall’art.2, comma 1, lettera d), numero 1), della l. 27 gennaio 2012, n. 3, nella parte in cui prevede in favore delle vittime dei reati di usura e di estorsione che abbiano chiesto l’elargizione delle somme previste dal fondo di solidarietà, il beneficio della sospensione dei termini relativi alle procedure esecutive pendenti nei loro confronti mediante un provvedimento del pubblico ministero.

L’intervento delle sezioni unite era stato sollecitato da un ricorso del P.G. presso la S.C. che aveva chiesto ai sensi dell’art. 363, comma 1, c.p.c. di enunciare un principio di diritto nell’interesse della legge per chiarire definitivamente l’interpretazione dell’art. 20, comma 7, sopra citato, soprattutto in relazione ai limiti del sindacato del giudice civile in ordine al provvedimento del Pubblico ministero di elargizione del beneficio della sospensione dei termini.

In particolare il P.G. aveva chiesto di enunciare i seguenti principi di diritto nell’interesse della legge: 1) Il provvedimento del Procuratore della Repubblica, emesso ai sensi dell’art. 20, comma 7, l. 23 febbraio 1999, n. 44, come modificato dall’art.2, comma 1, lettera d), numero 1), della l. 27 gennaio 2012, n. 3, con cui si dispone la sospensione dei termini relativi ai processi esecutivi ha effetto immediato, ha natura non decisoria e si impone, per il suo carattere temporaneo, al giudice dell’esecuzione in ordine alla correlazione tra l’evento lesivo e la vittima del reato, alla corrispondenza con la comunicazione del prefetto e alla valutazione di meritevolezza del beneficio. Il giudice dell’esecuzione può svolgere un controllo ab estrinseco circoscritto alla sussistenza dei requisiti oggettivi (titolarità del bene oggetto di esecuzione), temporali (un anno dall’evento lesivo) e di non rinnovabilità del beneficio; 2) il provvedimento, per il suo carattere interinale, non ha efficacia sostanziale sul giudizio civile; restano fermi gli ordinari strumenti processuali previsti avverso i provvedimenti del giudice dell’esecuzione.

La sentenza riveste una particolare importanza perché risolve definitivamente le problematiche di tipo ordinamentale sorte nel rapporto tra pubblico ministero e giudice dell’esecuzione, che avevano determinato ricadute anche di tipo disciplinare. Infatti, nell’applicazione concreta della disciplina di concessione del suddetto beneficio di sospensione dei termini in favore dei soggetti vittime di richieste estorsive e di usura erano emerse fortissime divergenze interpretative e contrasti tra autorità giudiziarie.

La questione, dunque, concerne l’inquadramento del rapporto esistente tra l’Autorità preposta alla valutazione dei presupposti e dei requisiti per l’elargizione dei benefici previsti dalla normativa a favore dei soggetti vittime di richieste estorsive e di usura e le Autorità competenti ad emettere i provvedimenti di elargizione dei benefici, ivi compreso il beneficio della sospensione dei procedimenti giudiziari di esecuzione avviati nei confronti di debitori rientranti nella categoria di riferimento della legge sul fondo di solidarietà.

Deve aggiungersi che la sentenza affronta in via preliminare anche la questione altrettanto interessante dei limiti del potere del Procuratore generale di proporre ricorso nell’interesse della legge di cui all’art. 363 c.p.c.

Per comprendere esattamente la questione di cui si discute è necessario procedere ad una ricostruzione dell’evoluzione normativa che ha portato all’attuale formulazione dell’art. 20, comma 7, della legge n. 44 del 1998 anche a seguito dei ripetuti interventi della Corte Costituzionale.

2. Il beneficio della sospensione dei termini (art. 20, comma 7, l. 23 febbraio 1999, n. 44 e successive modificazioni).

La vittima del reato a partire dai primi anni 90 è stata sempre più spesso oggetto delle attenzioni del legislatore (italiano ed europeo si veda da ultimo il Decreto legislativo, 15 dicembre 2015 n. 212, di attuazione della direttiva 2012/29/UE in tema di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato), nel tentativo di superare l’incapacità del tradizionale sistema repressivo penale di affrontare e gestire in modo soddisfacente il conflitto generato dal reato. Ciò a causa, da un lato, dell’impossibilità di soddisfare in tempi ragionevoli la domanda di giustizia proveniente dalla collettività e, dall’altro, per l’incapacità di assolvere alle esigenze specifiche della vittima.

In particolare con riferimento a determinate tipologie di reati tra i quali, soprattutto i delitti di usura ed estorsione, si riscontra una cospicua legislazione, ancorché episodica e frammentata, volta ad offrire un sostegno di tipo economico alle vittime. Tali delitti, infatti, sono considerati di estremo allarme sociale per la loro endemica diffusione sul territorio e per l’enorme incidenza degli stessi sul tessuto economico della collettività.

Le ragioni che ispirano tale legislazione sono variegate, oltre all’intento solidaristico vi è anche quello di dare sostegno alle attività economiche delle vittime che altrimenti potrebbero cadere nelle mani della criminalità organizzata, inoltre, si vuole aumentare il numero di denunce per rendere sempre più incisiva l’azione di contrasto a tali attività criminali, e «dimostrare» che è possibile sottrarsi alle minacce e alla violenza delle organizzazioni criminali.

La legislazione antiracket e antiusura si propone di intervenire proprio su questo versante, garantendo alle vittime di questi reati il ristoro economico dei danni subiti. Al centro di tale strategia solidaristica vi è, come è noto, l’istituzione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura. Tramite tale fondo si vuole aiutare economicamente le vittime dei delitti di usura e di estorsione con un concreto sostegno alle loro attività imprenditoriali, in tal modo impedendo che le imprese falliscano o che finiscano nelle mani delle organizzazioni criminali.

Il sostegno materiale alle vittime si realizza mediante l’elargizione di un contributo in denaro che deve essere obbligatoriamente destinato ad attività economiche di tipo imprenditoriale, pena la revoca dello stesso (artt. 15 e 16 l. n. 44 del 1999), in modo da favorire la ripresa dell’attività della vittima o eventualmente la creazione di una nuova impresa e di neutralizzare l’effetto negativo prodotto dai fenomeni estorsivi ed usurari sul tessuto economico complessivo. In particolare per l’estorsione si vogliono risarcire gli ingenti danno eventualmente subiti da colui che si ribella al racket, anche al fine di favorirne la ripresa dell’attività economico – imprenditoriale, mentre per l’usura si vuole mantenere nel circuito sano dell’economia le attività economiche impedendo che gli autori dei reati se ne impadroniscano.

Il legislatore, consapevole delle difficoltà di verificare mediante approfondita istruttoria la sussistenza dei presupposti per ottenere la suddetta elargizione e, contemporaneamente delle difficoltà economiche che la vittima può incontrare, nelle more, a causa della scadenza di ratei di mutuo, di adempimenti di carattere fiscale, di termini esecutivi, di vendite giudiziarie, di rilascio di immobili, ha immaginato una ulteriore forma di tutela, strumentale all’elargizione e rappresentata dallo strumento della «sospensione temporanea dei termini» di cui all’art. 20 della legge n.44 del 1999.

Dunque la norma in esame si prefigge lo scopo di evitare che –- nel tempo occorrente per la concessione e l’erogazione delle elargizioni previste dagli artt. 3, 5, 6 ed 8 della medesima legge n. 44 del 1999 in favore dei soggetti direttamente od indirettamente danneggiati da attività latu sensu estorsive o dei mutui previsti dall’art. 14, l. n. 108 del 1996 in favore delle vittime dell’usura o delle elargizioni previste dall’art. 1, l. 20 ottobre 1990, n. 302, in favore delle vittime di atti di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico – possano aggravarsi i danni economici cui le suddette provvidenze dovrebbero porre rimedio talvolta anche in modo irreparabile. Si evidenzia, dunque, uno stretto legame tra diritto al contributo, esercizio di un’attività economica di tipo imprenditoriale e sospensione dei termini.

I commi da uno a sei dell’art. 20, che non sono mai stati modificati dopo la loro approvazione, prevedono rispettivamente: il comma 1 che: «a favore dei soggetti che abbiano richiesto o nel cui interesse sia stata richiesta l’elargizione prevista dagli articoli 3, 5, 6 e 8, i termini di scadenza, ricadenti entro un anno dalla data dell’evento lesivo, degli adempimenti amministrativi e per il pagamento dei ratei dei mutui bancari e ipotecari, nonché di ogni altro atto avente efficacia esecutiva, sono prorogati dalle rispettive scadenze per la durata di trecento giorni»; il comma 2 che «a favore dei soggetti che abbiano richiesto o nel cui interesse sia stata richiesta l’elargizione prevista dagli articoli 3, 5, 6 e 8, i termini di scadenza, ricadenti entro un anno dalla data dell’evento lesivo, degli adempimenti fiscali sono prorogati dalle rispettive scadenze per la durata di tre anni»; il comma 3 che «sono altresì sospesi, per la medesima durata di cui al comma 1, i termini di prescrizione e quelli perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, che sono scaduti o che scadono entro un anno dalla data dell’evento lesivo»; il comma 4 che «sono sospesi per la medesima durata di cui al comma 1 l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili e i termini relativi a processi esecutivi mobiliari ed immobiliari, ivi comprese le vendite e le assegnazioni forzate»; il comma 5 che, qualora si accerti, a seguito di sentenza penale irrevocabile, o comunque con sentenza esecutiva, l’inesistenza dei presupposti per l’applicazione dei benefici previsti dal presente articolo, gli effetti dell’inadempimento delle obbligazioni di cui ai commi 1 e 2 e della scadenza dei termini di cui al comma 3 sono regolati dalle norme ordinarie;, il comma 6, infine, estende espressamente l’applicabilità dei suddetti commi a coloro i quali abbiano richiesto la concessione del mutuo senza interesse di cui all’art. 14, comma 2, della legge 7 marzo 1996, n. 108 (istituto, come si è detto previsto rispetto alle vittime dell’usura) oltre che alle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata che abbiano chiesto l’elargizione prevista dall’art. 1 della legge 20 ottobre 1990, n. 302.

Il comma 7, a differenza dei precedenti, invece, è stato oggetto di modifiche ad opera, prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 457 del 2005 e poi, della legge n. 3 del 2012. Il testo storico dell’art. 20, al comma 7, prevedeva che la sospensione dei termini di cui ai commi 1, 2, 3 e 4, avesse effetto a seguito del parere favorevole del Prefetto competente per territorio, sentito il Presidente del Tribunale.

2.1. La declaratoria di illegittimità costituzionale del potere prefettizio di concessione del beneficio (Corte costituzionale n. 457 del 2005).

L’attribuzione al prefetto del potere di rilasciare il parere favorevole in ordine alla sospensione dei termini di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 dell’art. 20 della legge n. 44 del 1999 aveva suscitato, da subito, fortissimi dubbi di costituzionalità sia in giurisprudenza che in dottrina per la sua interferenza nell’ambito delle procedure esecutive con l’esercizio del potere giurisdizionale.

Il problema nasceva dal grado di vincolatività del provvedimento del prefetto perché secondo alcuni interpreti della legge la ratio del comma 7 dell’art. 20 citato, alla luce dell’intero impianto della legge, in uno con le norme del regolamento di attuazione (d.P.R. 16 agosto 1999, n. 455), imponeva di considerare la determinazione del Prefetto come elemento vincolante ai fini della concessione della sospensione, non potendo attribuirsi a tale organo una funzione meramente consultiva. Infatti, rispetto alla valutazione del prefetto, l’autorità giudiziaria era priva di ogni possibilità di sindacato riguardo al parere espresso, da considerarsi vera e propria condizione di legge.

In tal senso venne sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 7, della l. n. 44 del 1999 «nella parte in cui vincola al parere favorevole del prefetto competente per territorio la decisione dell’autorità giudiziaria in ordine alla sospensione dei processi esecutivi per la durata di trecento giorni in favore dei soggetti che abbiano richiesto o nel cui interesse sia stata richiesta l’elargizione di cui agli artt. 3, 5, 6 e 8 della stessa legge».

La Corte costituzionale (sentenza n. 457 del 2005) ritenne la questione fondata, ravvisando una palese violazione dei principi costituzionali posti a presidio dell’indipendenza e dell’autonomia della funzione giurisdizionale, in quanto il potere di cui viene ad essere investito il prefetto, «proprio perché incidente sul processo e, quindi, giurisdizionale, non può che spettare in via esclusiva all’autorità giudiziaria».

In sintesi il Giudice delle leggi valutò in contrasto con gli artt. 101, secondo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione e con il «principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato», l’attribuzione al prefetto del potere di decidere in merito alla particolare ipotesi di sospensione dei processi esecutivi prevista dal comma 7 dell’art. 20 e, tuttavia, ritenne che fosse sufficiente eliminare la parola “favorevole” dal testo della norma per ricondurre la stessa a legittimità costituzionale in tal modo restituendo «alla funzione del prefetto un carattere propriamente consultivo, non vincolante, coerente con la natura – giurisdizionale e non amministrativa – del provvedimento richiesto, mentre il potere decisorio riguardo alla sussistenza dei presupposti per la sospensione del processo esecutivo torna ad essere attribuito al giudice, che ne è – in base ai principi – il naturale ed esclusivo titolare».

Sia consentita una rispettosa critica a tale decisione soprattutto nella parte in cui, in tema di rilevanza, giudicò non implausibile il presupposto interpretativo del giudice che aveva sollevato la questione, secondo cui la norma non attribuiva al prefetto una funzione meramente consultiva, atteso che la sospensione dell’esecuzione risultava espressamente subordinata al solo “parere favorevole” dello stesso prefetto, in presenza del quale il giudice non poteva, quindi, che adottare il relativo provvedimento, senza alcuna possibilità di sindacato riguardo alla sussistenza delle condizioni di legge. In realtà dalla lettura della norma, nella precedente versione, non emergeva affatto il carattere di vincolatività del parere favorevole del prefetto, che ben avrebbe potuto essere disapplicato ove ritenuto illegittimo dal giudice dell’esecuzione come messo in luce dalla S.C. di cassazione con la sentenza Sez. 3, n. 1496/2007, Rv. 595311.

Inoltre la Corte costituzionale non sembra cogliere interamente la portata dell’art. 20 della legge n. 44 del 1998 allorché afferma che il potere di rilascio del suddetto beneficio costituisce attività giurisdizionale e che l’eliminazione della parola favorevole, restituisce all’atto del Prefetto la natura di mero parere, restituendo la competenza all’autorità giudiziaria e, in particolare, del giudice dell’esecuzione. In realtà i benefici riconosciuti dalla norma citata alle vittime dei reati di usura ed estorsione non si esauriscono nella sospensione dei termini delle procedure esecutive (comma 4), ma spaziano dalla proroga per 300 giorni dei termini di scadenza, ricadenti entro un anno dalla data dell’evento lesivo, degli adempimenti amministrativi e del pagamento dei ratei dei mutui bancari e ipotecari, nonché di ogni altro atto avente efficacia esecutiva (comma 1), alla proroga degli adempimenti fiscali dalle rispettive scadenze per la durata di tre anni (comma 2), fino alla sospensione per 300 giorni dei termini di prescrizione e di quelli perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, che sono scaduti o che scadono entro un anno dalla data dell’evento lesivo (comma 3).

Risulta evidente, pertanto, che si tratta di benefici non solo processuali, ma anche sostanziali o procedurali, e che solo quelli di cui al comma 4 dell’art. 20 vengono ad interferire con i poteri del giudice dell’esecuzione.

3. La novella introdotta dalla legge n. 3 del 2012 e il coinvolgimento del pubblico ministero.

L’art. 20, comma 7, è stato sostituito dalla legge n. 3 del 2012 e sono stati altresì introdotti i commi 7-bis e 7-ter.

L’attuale testo del comma 7, dunque, prevede che: «le sospensioni dei termini di cui ai commi 1, 3 e 4 e la proroga di cui al comma 2 hanno effetto a seguito del provvedimento favorevole del procuratore della Repubblica competente per le indagini in ordine ai delitti che hanno causato l’evento lesivo di cui all’art. 3, comma 1. In presenza di più procedimenti penali che riguardano la medesima parte offesa, anche ai fini delle sospensioni e della proroga anzidette, è competente il procuratore della Repubblica del procedimento iniziato anteriormente».

Il successivo comma 7-bis, stabilisce «il prefetto, ricevuta la richiesta di elargizione di cui agli articoli 3, 5, 6 e 8, compila l’elenco delle procedure esecutive in corso a carico del richiedente e informa senza ritardo il procuratore della Repubblica competente, che trasmette il provvedimento al giudice, o ai giudici, dell’esecuzione entro sette giorni dalla comunicazione del prefetto».

Infine, il comma 7-ter sancisce «nelle procedure esecutive riguardanti debiti nei confronti dell’erario, ovvero di enti previdenziali o assistenziali, non sono poste a carico dell’esecutato le sanzioni dalla data di inizio dell’evento lesivo, come definito dall’art. 3, comma 1, fino al termine di scadenza delle sospensioni e della proroga di cui ai commi da 1 a 4 del presente articolo».

Ai nostri fini la novità più rilevante riguarda l’eliminazione dell’intervento (consultivo) del prefetto e la sua sostituzione con un atto del procuratore della Repubblica, normativamente qualificato non più come “parere” bensì come “provvedimento favorevole”, a seguito del quale “hanno effetto” le sospensioni.

Dalla lettura dei lavori preparatori alla legge n. 3 del 2012 si ricava che la traslazione dal termine “parere” a quello di “provvedimento” risente dell’esigenza di ricondurre il risultato decisorio ad una valutazione esclusiva e non più interlocutoria in ordine alla concedibilità della sospensione, attribuendo siffatta valutazione al pubblico ministero dell’indagine.

Alla base della modifica sembra esserci anche l’idea che si tratti di un’attività avente natura giurisdizionale, in conformità con la citata sentenza della Corte Costituzionale. In tal modo si vuole attribuire tale potestas decisoria all’autorità giudiziaria titolare delle indagini che ha conoscenza diretta dello sviluppo delle indagini interessate dalle denunzie degli istanti, dando così soluzione anche a due rilevanti problemi di ordine pratico: quello derivante dall’impossibilità dei privati o di altre autorità pubbliche, comprese quelle giudiziarie, di accedere agli atti delle indagini preliminari rilevanti ai fini della decisione sulla sospensione, eventualmente ancora coperti dal segreto investigativo, e quello di concentrare il potere di adottare detta decisione in capo ad un solo organo giudiziario in modo da evitare che per un medesimo fatto estorsivo e/o usurario, diversi giudici dell’esecuzione, quando geograficamente diverse dovessero essere le procedure espropriative in corso, emettano contraddittori provvedimenti di accoglimento e/o di rigetto della sospensione.

Per questi motivi il legislatore della novella del 2012 attribuisce il potere di decidere in ordine alla concessione del beneficio della sospensione dei termini, da intendersi nel senso più ampio di cui si è detto, ad un’unica autorità giudiziaria da individuarsi nel Procuratore della Repubblica competente per le indagini sui reati di cui è stato vittima il richiedente l’elargizione, ciò anche in ragione del collegamento tra il beneficio della sospensione dei termini e il procedimento penale che necessariamente deve pendere in concomitanza con l’istanza di elargizione. In tal modo si cerca di conciliare la natura giurisdizionale di tale funzione, in conformità con la sentenza della Corte costituzionale, con la portata generale e non solo processuale del beneficio.

La ratio di tale modifica risiede nell’esigenza di attribuire il potere di sospensione all’unico organo giurisdizionale in possesso delle informazioni necessarie a valutare la sussistenza in capo al richiedente, vittima di determinati reati, di tutti i requisiti previsti dalla legge al fine di ottenere l’elargizione, cui è funzionalmente subordinata la sospensione. Ciò, sia sotto il profilo soggettivo del possesso dei requisiti da parte della vittima richiesti dalle tre diverse normative di settore, di cui si è dato ampiamente conto nella parte espositiva, sia sotto il profilo oggettivo, del necessario apporto dato dalla vittima alle indagini, almeno nel caso delle vittime di usura ed estorsione.

Dunque la legge n. 3 del 2012 modifica l’art. 20, comma 7, da un lato prevedendo, per il riconoscimento del beneficio della sospensione dei termini, l’emanazione, non più di un parere, ma di un provvedimento e, dall’altro, attribuendone la competenza non più al Prefetto ma al Procuratore della Repubblica.

Dopo la modifica del comma 7 dell’art. 20 si sono riproposti, sia pure sotto altri profili, da parte della dottrina e della giurisprudenza i dubbi che avevano portato alla pronuncia di illegittimità costituzionale (sentenza n. 457 del 2005) della precedente formulazione, in quanto, il procuratore della Repubblica, pur facendo parte dell’ordine giudiziario, non è un giudice, e l’eccezionale potere attribuitogli finisce per condizionare ineluttabilmente l’attività giurisdizionale del giudice dell’esecuzione. In chiave critica si afferma in dottrina che non è possibile che con un non meglio definito «provvedimento favorevole» (peraltro la legge non prevede che debba essere motivato) il Procuratore della Repubblica possa imporre la sua decisione in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle moratorie di cui ai primi quattro commi del cit. art. 20 a ciascuno dei giudici innanzi ai quali queste dovessero venire in considerazione (obbligando dunque, ad esempio, il giudice dinanzi al quale penda una procedura esecutiva a sospendere i relativi termini ai sensi del quarto comma di detto articolo ovvero il giudice dinanzi al quale penda un giudizio di cognizione avente ad oggetto una domanda di condanna al pagamento di un debito a considerare tale debito inesigibile per effetto della proroga della sua scadenza ai sensi del primo comma del medesimo articolo). Peraltro, non va sottovalutato che il procuratore della Repubblica è il titolare dell’azione penale nei confronti della persona o delle persone che i soggetti interessati ad ottenere i benefici in questione più o meno direttamente accusano e che, il più delle volte sono i creditori che agiscono in sede civile, soprattutto nei casi di usura. Dunque l’organo dell’accusa si trova ad esercitare una funzione di parte che, per quanto pubblica e tendenzialmente imparziale, è inevitabilmente destinata a condizionare fortemente la sua decisione di concedere o negare i predetti benefici.

Altra critica espressa dalla dottrina riguarda i presupposti cui è subordinata l’emissione del provvedimento favorevole da parte del Procuratore della Repubblica. Infatti, il venir meno della sia pur interlocutoria stima del prefetto sembrerebbe comportare una sostanziale risagomatura dell’istituto. La norma in esame, infatti, apparentemente richiede unicamente il requisito soggettivo di aver chiesto l’elargizione, o ex art. 3, commi 1 e 2, della legge n. 44 del 1999, o il mutuo ex art. 14 della l. n.108 del 1996 o, infine, l’elargizione prevista dall’art. 1 della legge n.302 del 1990. Pertanto all’A.G., in presenza di tale presupposto, resta solo la valutazione in ordine alla probabilità che l’istante sia effettivamente vittima di attività estorsiva o usuraria (o terroristica). In tal modo sembra attenuarsi, se non venir meno, quel collegamento funzionale tra sospensione dei termini e prospettive di accoglimento dell’istanza di elargizione insito nell’allora parere del prefetto e a mente del quale appariva giustificata la natura cautelare della sospensione.

4. L’inammissibilità del conflitto di attribuzione tra giudice dell’esecuzione e pubblico ministero.

I dubbi di costituzionalità espressi dalla dottrina sono stati recepiti anche dalla giurisprudenza: una prima volta mediante la proposizione di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e, una seconda volta, mediante una questione incidentale di costituzionalità.

Il conflitto tra poteri è stato sollevato dal giudice del Tribunale di Padova, sezione distaccata di Cittadella, nell’ambito di un procedimento civile e in relazione ad un provvedimento del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Padova, che, ai sensi dell’art. 20, comma 4, della legge n. 44 del 1999, accogliendo l’istanza della parte convenuta nel procedimento civile n. 801 del 2012, aveva disposto – per la durata di trecento giorni a far data dalla presentazione dell’istanza all’ufficio del pubblico ministero – la sospensione dei termini di prescrizione e di quelli perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, relativi al detto procedimento civile.

Ad avviso del ricorrente il provvedimento di sospensione ancorché adottato «non dall’Autorità amministrativa prefettizia, bensì da un altro organo giurisdizionale» sarebbe comunque lesivo dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario, sancito dagli artt. 101, secondo comma, e 104 della Costituzione. L’autonomia e l’indipendenza, infatti, andrebbero garantite «sia da eventuali intrusioni esterne all’ordine giudiziario che dal suo interno non potendo ammettersi che l’ufficio del Pubblico Ministero possa intervenire in un procedimento civile di cui non è parte sospendendone i termini processuali o sostanziali a pena di una evidente lesione dell’art. 25 Cost. essendo l’unico soggetto investito della potestas iudicandi il giudice del procedimento civile».

In particolare viene posto in evidenza come la convenuta, non avendo ottenuto l’accoglimento dell’istanza di sospensione di cui all’art. 20 della legge n. 44 del 1999 in conseguenza del provvedimento di rigetto del Giudice istruttore, abbia ritenuto di rivolgersi successivamente, con il patrocinio di un nuovo difensore, al pubblico ministero del procedimento penale che la vede persona offesa, per ottenere quanto non concesso dal giudice naturale del procedimento civile. Una tale condotta evidenzierebbe «il vulnus ed il corto circuito processuale» che si sono creati nel procedimento principale, per cui un provvedimento ben motivato del giudice naturale è stato privato di efficacia con il ricorso ad «un soggetto terzo ed estraneo», il quale ha adottato un provvedimento di sospensione che riverbera i suoi effetti nel procedimento stesso paralizzandolo, pur in assenza di una modifica o revoca dell’ordinanza di segno opposto emessa dal precedente giudice.

La Corte costituzionale non entrando nel merito delle censure, ritiene inammissibile il conflitto, in primo luogo perché il provvedimento di sospensione dei termini emesso ai sensi dell’art. 20, comma 7, della legge n. 44 del 1999, non rientra tra le attività giurisdizionali assistite da garanzia costituzionale, non concernendo l’esercizio dell’azione penale, né attività di indagine ad essa finalizzata. Inoltre, specularmente, perché non è configurabile alcuna lesione delle attribuzioni costituzionali del giudice quale conseguenza del provvedimento di sospensione dei termini emesso dal pubblico ministero. In conclusione ritiene mancare la materia del conflitto anche perché il ricorrente avrebbe potuto far valere le censure in oggetto attraverso la proposizione della questione di legittimità costituzionale in via incidentale della disposizione attributiva al pubblico ministero del potere di sospensione dei termini, di cui alla legge n. 44 del 1999.

5. Il provvedimento di concessione del beneficio da parte del pubblico ministero secondo la Corte Costituzionale (sentenza n. 192 del 2014 della Corte Costituzionale).

L’invito della Corte costituzionale a sollevare, se del caso, una questione di legittimità costituzionale in via incidentale viene prontamente raccolto dal Tribunale ordinario di Roma che solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 7, della legge n. 44 del 1999, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera d), numero 1), della legge n. 3 del 2012, nella parte in cui dispone che: «Le sospensioni dei termini di cui ai commi 1, 3 e 4 e la proroga di cui al comma 2 hanno effetto a seguito del provvedimento favorevole del procuratore della Repubblica competente per le indagini in ordine ai delitti che hanno causato l’evento lesivo di cui all’art. 3, comma 1.

Il caso ha origine da un giudizio avente ad oggetto un’intimazione di sfratto per morosità per omesso pagamento del canone di locazione, nel corso del quale il giudice aveva concesso il cosiddetto termine di grazia, previsto dall’art. 55, secondo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani), per consentire al conduttore di sanare la mora. Senonché, ai sensi della disposizione censurata, il pubblico ministero aveva disposto la sospensione temporanea del termine di grazia in favore del conduttore quale parte offesa del reato di usura.

La Corte ritiene che non vi sia alcuna lesione dell’art. 101, secondo comma, Cost. («I giudici sono soggetti soltanto alla legge»), nell’attribuzione al Pubblico Ministero del potere di decidere (sia pure in via interlocutoria) con un provvedimento di sospensione dei termini assegnati dal giudice.

Nella sentenza si sottolinea come la sospensione dei termini prevista dai primi quattro commi dell’art. 20 non sia discrezionale ma solo subordinata alla presenza della richiesta dell’«elargizione» o del mutuo senza interessi di cui, rispettivamente, all’art. 3, commi 1 e 2, della legge n. 44 del 1999 e all’art. 14 della legge n. 108 del 1996. Il prefetto che riceve la domanda di elargizione deve compilare l’elenco delle procedure esecutive in corso a carico del richiedente e deve informarne senza ritardo il procuratore della Repubblica competente «che trasmette il provvedimento al giudice, o ai giudici, dell’esecuzione entro sette giorni dalla comunicazione del prefetto».

Secondo il giudice delle leggi, al pubblico ministero compete la mera verifica di riferibilità della comunicazione del prefetto alle indagini per delitti che hanno causato l’evento lesivo condizione dell’elargizione.

Ciò premesso, e pur non negandosi una interferenza con il giudizio civile, secondo la Corte non si realizza una illegittima compressione della funzione giurisdizionale né alcuna violazione del giusto processo, anche tenuto conto del carattere meramente temporaneo e non decisorio del provvedimento di sospensione che non ha alcuna influenza sostanziale sul giudizio civile.

6. La pronuncia nell’interesse della legge delle Sez. U (n. 21854/2017).

Il P.G., preso atto del perdurare dei contrasti tra pubblici ministeri e giudici dell’esecuzione in ordine all’interpretazione dell’art. 20, comma 7, l. n. 44 del 1999 anche dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2014, come si è detto chiede una pronuncia delle Sezioni Unite nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c.

Si chiede, pertanto, alla Suprema Corte di Cassazione di statuire in ordine: 1) alla natura giuridica ed alla definitività e/o eventuale impugnabilità del provvedimento di sospensione dei termini e della procedura esecutiva emesso dal procuratore della Repubblica; 2) ai rapporti tra il provvedimento del procuratore della Repubblica ed il giudice dell’esecuzione ed agli eventuali suoi poteri di sindacato sul provvedimento.

6.1. Sull’ammissibilità del ricorso nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c.

Le Sezioni Unite con la sentenza in esame in primo luogo prendono in considerazione la sussistenza dei presupposti per l’enunciazione di un principio di diritto nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c.

Nel caso di specie, infatti, il P.G. aveva indicato provvedimenti emessi in sede di esercizio della giurisdizione cautelare sull’istanza di sospensione dell’esecuzione o dal giudice dell’esecuzione o in sede di reclamo avverso suoi provvedimenti al riguardo.

La Corte evidenzia che non si è, in presenza di situazioni, nelle quali astrattamente la questione mai sarebbe potuta arrivare in Cassazione, ma di casi in cui non vi è arrivata e, peraltro, non già perché il ricorso per cassazione non è stato proposto nei termini di legge o vi è stata una rinuncia ad esso: i provvedimenti in questione non erano, infatti, ricorribili in Cassazione, ma ridiscutibili con i giudizi a cognizione piena e per il tramite di questa via la questione sarebbe potuta pervenire alla Corte.

In altri termini in tutti i casi citati si sarebbe potuto introdurre o proseguire un giudizio che potenzialmente poteva concludersi con una pronuncia ricorribile per cassazione.

Sulla base di tale conclusione si evidenzia che nella specie non si verte in un’ipotesi di applicabilità dell’art. 363 c.p.c. nella parte in cui si riferisce al provvedimento riguardo al quale «le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato» che riguarda solo il caso di provvedimento che avrebbe potuto essere impugnato in Cassazione e non lo sia stato in concreto.

L’ammissibilità del ricorso del P.G. pertanto dipende dalla sua riconducibilità all’ipotesi espressa nell’art. 363 c.p.c. nella parte in cui fa riferimento alla “inimpugnabilità altrimenti” del provvedimento.

Nell’interpretazione di tale inciso la Suprema Corte conferma l’indirizzo già espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 23469 del 2016 secondo cui «La richiesta di enunciazione del principio di diritto rivolta alla Suprema Corte dal P.G. ai sensi del vigente art. 363 comma 1, c.p.c., si configura non già come mezzo di impugnazione, ma come procedimento autonomo, originato da un’iniziativa diretta a consentire il controllo sulla corretta osservanza ed uniforme applicazione della legge non solo nelle ipotesi di mancata proposizione del ricorso per cassazione o di rinuncia allo stesso, ma anche in quelle di provvedimenti non altrimenti impugnabili né ricorribili, in quanto privi di natura decisoria, sicché tale iniziativa, avente natura di richiesta e non di ricorso, non necessita di contraddittorio con le parti, prive di legittimazione a partecipare al procedimento perché carenti di un interesse attuale e concreto, non risultando in alcun modo pregiudicato il provvedimento presupposto».

Si ribadisce, dunque, che il primo comma dell’art. 363 c.p.c. quando si riferisce alla “inimpugnabilità altrimenti” del provvedimento come legittimante il pubblico ministero presso la Corte alla formulazione dell’istanza di cui alla norma, intende riferirsi non solo all’inesistenza di un mezzo di impugnazione del provvedimento ma anche alla possibilità che il provvedimento e la questione che ne è oggetto possano essere ancora ridiscussi mediante una tecnica procedimentale non introdotta con un mezzo di impugnazione, a seguito del cui svolgimento possa in fine aver luogo una decisione impugnabile in Cassazione.

Siffatta conclusione è avvalorata dalla logica dell’istituto ridisegnato dalla riforma del 2006, diretta ad assicurare un intervento nomofilattico della Corte di Cassazione al di là della tutela del jus litigatoris e, quindi, nell’interesse dell’ordinamento, risultando più funzionale all’intenzione del legislatore di agevolare interventi nomofilattici tempestivi e solleciti della Corte anche in situazioni nelle quali i contrasti di giurisprudenza di merito insorgano su questioni nuove oppure su materie idonee a dar luogo a contenziosi seriali o comunque di grande impatto sociale.

Inoltre nella sentenza si puntualizza che l’intervento della Corte di Cassazione non ha effetti diretti sui provvedimenti impugnati, trattandosi di una intervento nomofilattico nell’interesse della legge, che potrà spiegare effetto sul processo di merito solo come precedente da considerarsi dal giudice di merito.

Infine la Corte rileva che, nel caso di specie, sussiste l’interesse pubblico all’intervento nomofilattico della Corte, anche in considerazione del fatto che la normativa che si deve interpretare appare di possibile diffusa e ripetuta applicazione e considerato che essa somministra un delicato problema di coordinamento fra valutazioni commesse dalla legge a distinte autorità giurisdizionali. La delicatezza dell’esegesi della normativa di cui trattasi è testimoniata, d’altro canto, dall’essersi verificato in materia per due volte l’intervento della Corte costituzionale.

6.2. I limiti del sindacato del giudice civile sul provvedimento del P.M. di riconoscimento del beneficio della sospensione dei termini ex art. 20, comma 7, della l. 23 febbraio 1999, n. 44 n. 3, come modificato dalla l. n. 3 del 2012.

Nel merito la sentenza dopo aver ripercorso le tappe che hanno segnato l’interpretazione giurisprudenziale e le modifiche legislative dell’art. 20, comma 7, della l. 23 febbraio 1999, n. 44 evidenzia che anche dalla lettura dei lavori preparatori alla legge n. 3 del 2012 si ricava che la traslazione dal termine “parere” a quello di “provvedimento” risente dell’esigenza di ricondurre il risultato decisorio ad una valutazione esclusiva e non più interlocutoria in ordine alla concedibilità della sospensione, attribuendo siffatta valutazione al pubblico ministero dell’indagine.

Le Sezioni Unite precisano che, ai fini della soluzione da dare all’istanza del P.G., non si può prescindere dalle affermazioni della Corte Costituzionale. In tal senso richiamano il principio consolidato secondo cui: «L’interpretazione di una norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità, offerta dalla Corte costituzionale in una sentenza dichiarativa dell’infondatezza della questione, pur non essendo vincolante per il giudice chiamato successivamente ad applicare quella norma, rappresenta, per l’autorevolezza della fonte da cui proviene, un fondamentale contributo ermeneutico, che non può essere disconosciuto senza valida ragione: il fondamento comune delle due distinte attività, pur finalisticamente diverse, esige infatti che, al fine dell’utile risultato della certezza del diritto oggettivo, le interpretazioni non vengano a divergere, se non quando sussistano elementi sicuri per attribuire prevalenza alla tesi contraria a quella in precedenza affermata.» (Cass. n. 5747 del 2007, sulla scia della lontana Cass., Sez. Un. n. 2175 del 1969 e della più recente Cass., Sez. Un. n. 22601 del 2004).

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 192 del 2014, ha innanzitutto, sebbene in modo implicito, avallato la prospettazione del rimettente, che aveva motivato la questione di costituzionalità, supponendo che, secondo il tenore della nuova normativa, il provvedimento del Procuratore della Repubblica non fosse suscettibile di valutazione da parte del giudice civile quanto alla determinazione dell’effetto sospensivo.

Inoltre il giudice delle leggi ha evidenziato che la sospensione dei termini prevista dai primi quattro commi dell’art. 20 non è discrezionale ma solo subordinata alla presenza della richiesta dell’«elargizione o del mutuo senza interessi di cui, rispettivamente, all’art. 3, commi 1 e 2, della legge n. 44 del 1999 e all’art. 14 della legge n. 108 del 1996. Il prefetto che riceve la domanda di elargizione deve compilare l’elenco delle procedure esecutive in corso a carico del richiedente e deve informarne senza ritardo il procuratore della Repubblica competente «che trasmette il provvedimento al giudice, o ai giudici, dell’esecuzione entro sette giorni dalla comunicazione del prefetto».

Dunque, al pubblico ministero compete la mera verifica di riferibilità della comunicazione del prefetto alle indagini per delitti che hanno causato l’evento lesivo, condizione dell’elargizione.

Il relativo provvedimento non concerne, dunque, l’esercizio dell’azione penale né l’attività di indagine ad essa finalizzata (ordinanza n. 296 del 2013).

L’assenza di previsione espressa di un potere di controllo del giudice dell’esecuzione, cioè del giudice della giurisdizione civile, cui il provvedimento del Pubblico Ministero è trasmesso (ma non diversa considerazione vale per le altre misure di sospensione e proroga, quando il provvedimento favorevole del pubblico ministero venga in considerazione in processi cognitivi), deve essere intesa nel senso della volontà del legislatore che il giudice civile (e, quindi, in primis quello dell’esecuzione), non possa avere alcuna possibilità di controllo sull’esercizio del potere provvedimentale del pubblico ministero, in quanto esso si colloca sul piano della giurisdizione penale.

Si deve, dunque, concludere, condividendo l’esegesi, implicitamente avallata dalla Corte Costituzionale, che il giudice dell’esecuzione, quando gli viene trasmesso il provvedimento del Pubblico Ministero che, sulla base dell’elenco fornito dal prefetto, dispone la “sospensione dei termini” di una procedura esecutiva a carico del soggetto che ha chiesto l’elargizione di cui alla legge n. 44 del 1999, non può sindacare né la valutazione con cui il Pubblico Ministero nell’àmbito delle indagini di sua competenza ha ritenuto sussistente il verificarsi del presupposto della provvidenza sospensiva, né la valutazione conseguente della idoneità della procedura esecutiva ad incidere sull’efficacia dell’elargizione richiesta dall’interessato.

Infatti l’intera normativa sulle moratorie ex art. 20 legge n. 44 del 1999 mira fondamentalmente a consentire che, nel lasso di tempo necessario per avviare e concludere il procedimento amministrativo teso all’erogazione di provvidenze, i potenziali beneficiari di queste ultime possano evitare di vedere mutare in pejus le proprie condizioni economiche, a seguito del maturarsi di prescrizioni, decadenze, nonché a seguito di atti di messa in mora ovvero di esecuzione forzata, tali da determinare effetti irreversibili sul proprio patrimonio.

Tali valutazioni, in quanto espressione dell’esercizio di un potere affidato al P.M. (che, evidentemente, implica una prognosi favorevole circa la concedibilità dell’elargizione, ma anche una positiva valutazione dell’opportunità che, in funzione della effettività dello scopo dell’elargizione la misura sospensiva abbia corso), non possono essere poste in discussione in sede di giurisdizione civile.

La S.C. poi precisa che l’iniziativa per far valere il beneficio nel processo esecutivo non può essere dell’interessato, occorrendo necessariamente un atto di trasmissione del provvedimento al giudice dell’esecuzione dell’ufficio presso cui pende il processo esecutivo compreso nell’elenco predisposto dal Prefetto. L’eventuale istanza rivolta al giudice dell’esecuzione dal beneficiario esecutato, in mancanza di trasmissione del provvedimento da parte del P.M., dovrà considerarsi irrilevante dal giudice del processo esecutivo.

Pervenutogli il provvedimento, il giudice del processo esecutivo ha il dovere di provvedere e la sentenza individua le modalità ed i contenuti di tale dovere.

Come ogni giudice che sia investito del dovere di provvedere al verificarsi di una certa fattispecie, il giudice dell’esecuzione ha certamente il potere di accertare se tale fattispecie si sia verificata e, quindi, gli compete di individuare se ciò che gli è pervenuto è anzitutto identificabile come provvedimento riconducibile alla fattispecie di cui al comma 7 ed al comma 7-bis dell’art. 20 citato.

In secondo luogo, poiché il provvedimento può vincolare il giudice dell’esecuzione a provvedere se individua l’oggetto cui la sua efficacia si riferisce, certamente rientra nei poteri di controllo del giudice dell’esecuzione l’accertamento che il provvedimento riguarda uno o più processi esecutivi pendenti dinanzi al suo ufficio. Al giudice dell’esecuzione compete, poi, certamente, di apprezzare se il provvedimento individui effettivamente i processi esecutivi cui dichiara di volersi riferire. Poiché l’art. 20, comma 7-bis, evidenzia che il pubblico ministero provvede sulla base di un elenco di processi esecutivi individuati come pendenti a carico del beneficiario dal prefetto, si dovrebbe ritenere senz’altro che il provvedimento del pubblico ministero debba individuarli a sua volta. La modalità di individuazione, nel silenzio della legge, può anche essere minimale, purché sufficiente all’individuazione della persona (richiedente l’elargizione o per cui sia richiesta l’elargizione) a carico della quale il procedimento esecutivo pende presso l’ufficio cui la trasmissione è fatta.

Salvo che per questo aspetto, è però da escludere che al giudice dell’esecuzione competa in alcun modo di sindacare la motivazione del provvedimento emesso dal pubblico ministero. Rientra ancora certamente nei poteri di apprezzamento del giudice dell’esecuzione il rilevare che l’assunto del pubblico ministero, circa la pendenza di un processo esecutivo a carico del beneficiario presso il suo ufficio, è errato, o perché non esiste un processo esecutivo a carico del beneficiario o perché esso è cessato, o anche perché il beneficiario non vi è coinvolto come soggetto esecutato, ma, per esempio come creditore intervenuto o come debitor debitoris (su un piano diverso rilevando semmai che il provvedimento abbia sospeso il termine di pagamento del suo debito verso il debitore diretto). Infine compete alla valutazione del giudice dell’esecuzione anche accertare se ricorra l’oggetto del provvedimento del pubblico ministero, cioè se è in corso o debba iniziare a decorrere un termine all’interno del processo esecutivo in ordine al quale il provvedimento possa dispiegare i suoi effetti.

Il giudice dell’esecuzione, dovendo adottare un provvedimento riguardo al processo esecutivo, deve stimolare il contraddittorio delle parti e sentirle prima di provvedere. Il suo provvedimento sarà suscettibile di essere assoggettato al mezzo di tutela ordinario contro i provvedimenti sul quomodo dell’esecuzione, cioè all’opposizione agli atti esecutivi ed il giudice dell’opposizione incontrerà nei suoi poteri gli stessi limiti di valutazione che aveva il giudice dell’esecuzione e che si sono sopra delineati. Anch’egli, mentre non potrà sindacare la valutazione che ha indotto il pubblico ministero ad adottare il provvedimento quanto alla riconducibilità dell’evento dannoso a carico del richiedente ai delitti che legittimano la richiesta della elargizione, potrà, invece, sindacare la valutazione del giudice dell’esecuzione quanto ai profili riguardo ai quali si è detto che quel giudice ha poteri di valutazione suoi propri.

7. Conclusioni.

La sentenza delle Sezioni Unite chiarisce la portata del provvedimento del pubblico ministero nell’ambito del processo esecutivo restano, tuttavia, molti aspetti contraddittori, se non irragionevoli, dell’attuale assetto della disciplina in materia di sospensione dei termini a tutela delle vittime di reati.

Le maggiori contraddizioni nascono dalla stratificazione legislativa e dal mancato coordinamento degli interventi che si sono succeduti.

L’aspetto più controverso riguarda la natura stessa del beneficio. Infatti dottrina e giurisprudenza unanimemente affermano che la sospensione dei termini è strumentale all’elargizione di somme, in modo da consentire alla vittima di riprendere la propria attività o iniziarne una nuova. Sembrerebbe, dunque, che la sospensione dei termini serva a rendere possibile il completarsi della procedura volta alla concessione del beneficio economico in modo da consentire al debitore di far fronte ai propri debiti.

Tuttavia, da un’attenta lettura della normativa, sembra emergere una realtà parzialmente diversa. Infatti le somme che sono riconosciute alle vittime dell’usura, così come quelle destinate alle vittime dell’estorsione, hanno una destinazione vincolata e devono essere investite necessariamente nell’attività economica prospettata al momento della richiesta.

Infatti, per le vittime dell’usura, ai sensi del comma 5 dell’art.14 della legge n.108 del 1996 la domanda di concessione del mutuo deve essere corredata da un piano di investimento e utilizzo delle somme richieste che risponda alla finalità di reinserimento della vittima del delitto di usura nella economia legale. Inoltre la norma precisa che in nessun caso le somme erogate a titolo di mutuo o di anticipazione possono essere utilizzate per pagamenti a titolo di interessi o di rimborso del capitale o a qualsiasi altro titolo in favore dell’autore del reato».

La mancata destinazione delle somme erogate ad investimenti nella «nuova» attività imprenditoriale dell’usurato comporta ai sensi del successivo comma 9 la revoca dei provvedimenti di erogazione del mutuo e della provvisionale ed al recupero delle somme già erogate.

Lo stesso sembra valere per l’usurato fallito. Come si è detto la legge n.3 del 2012 ha esteso la possibilità di ottenere il beneficio economico previsto per le vittime dell’usura anche all’imprenditore fallito. Secondo la Corte di Cassazione (Sez. 1, n. 8434/2012, Rv. 622809) «l’elargizione e la connessa sospensione dell’esecuzione forzata (volte, secondo la mens legis, alla ripresa dell’attività economica di imprese in crisi finanziaria provocata da estorsione od usura) sono compatibili con una situazione di insolvenza accertata, in quanto non si può a priori escludere la riattivazione di un’impresa – la cui vitalità sia stata compromessa da fattori distorsivi di matrice criminale – grazie a tali benefici, prima della disgregazione definitiva della struttura aziendale».

Tuttavia varrebbe la pena riflettere sul fatto che successivamente alla sentenza citata il legislatore ha stabilito che le somme erogate a titolo di mutuo all’imprenditore fallito non sono imputabili alla massa fallimentare né alle attività sopravvenute dell’imprenditore fallito e sono vincolate, quanto a destinazione, esclusivamente all’utilizzo per gli investimenti nella nuova attività.

Dunque l’usurato al momento della richiesta del mutuo deve prospettare un piano di investimento e le somme eventualmente concesse sono vincolate a tale attività e non possono essere utilizzate per pagare debiti o imposte.

D’altra parte sembra difficile immaginare che, una volta ottenute le somme per intraprendere un’attività economica, l’usurato ritrovi immediatamente la stabilità economica tale da consentirgli di affrontare le sue pendenze pregresse.

Inoltre, secondo la giurisprudenza, il beneficio della sospensione opera per soli 300 giorni dal verificarsi dell’evento lesivo, quando la procedura per ricevere le somme è ancora in corso. Ciò rende ancora più inverosimile che la vittima in un brevissimo lasso di tempo riceva le somme e le reinvesta in un’attività economica che immediatamente produca ricavi tali da riuscire a fermare le procedure esecutive mediante la soddisfazione dei creditori.

Alla luce delle considerazioni esposte il beneficio della sospensione sembra assumere un carattere autonomo, meramente dilatorio, e non finalizzato alla possibilità di pagare una volta ottenuta l’elargizione richiesta dal debitore esecutato.

Anche per le vittime dell’estorsione emerge la medesima contraddizione, in quanto l’art. 15 della legge n. 44 del 1999 pone il medesimo vincolo di destinazione ad attività economica imprenditoriale dell’elargizione.

Vale la pena di sottolineare che, con riferimento all’imprenditore fallito vittima di estorsione, il legislatore ha previsto espressamente che metà dei ricavi della nuova attività possano essere acquisiti dal curatore del fallimento quale attivo sopravveniente. Infatti il comma 1-ter dell’art. 3 della legge sopra citata prevede che le somme erogate a titolo di elargizione all’imprenditore fallito vittima di estorsione non sono imputabili alla massa fallimentare né alle attività sopravvenute del soggetto fallito e sono vincolate, quanto a destinazione, esclusivamente all’utilizzo secondo le finalità di cui all’art. 15, aggiungendo che «il ricavato netto è per la metà acquisito dal curatore quale attivo sopravveniente del fallimento, e per la residua metà deve essere impiegato a fini produttivi e di investimento».

Con riferimento alle vittime di atti di terrorismo o di mafia la legge da un lato non richiede il requisito soggettivo dell’essere imprenditore e dall’altro non prevede alcun vincolo alle somme predisposte. Tali somme, pertanto, sembrano assumere una natura pienamente indennitaria, non finalizzata a sviluppi imprenditoriali, né alla condizione di dissesto economico, ma semplicemente al ristoro per la vittima che abbia subito un danno all’integrità fisica comportante un’invalidità permanente.

In questo caso, pertanto, nulla osta a che il beneficiario che sia eventualmente sottoposto a procedure esecutive soddisfi i suoi creditori mediante la somma ottenuta con l’accesso al fondo, in tal modo giustificando il beneficio della sospensione dei termini proprio in funzione della soddisfazione dei creditori.

  • procedimento giudiziario

CAPITOLO XI

LE SEZIONI UNITE IN TEMA DI PARTE TOTALMENTE VITTORIOSA NEL MERITO E APPELLO INCIDENTALE

(di Marzia Minutillo Turtur )

Sommario

1 Premessa. - 2 L’ordinanza interlocutoria della Seconda sezione civile n. 4058/2016 e i precedenti orientamenti delle Sezioni semplici. - 3 L’interpretazione delle Sez. U. con la sentenza n. 11799/2017.

1. Premessa.

Sez. U n. 11799/2017, Frasca, Rv. 644305-01, hanno affrontato la tematica, di portata generale e rilevante sotto diversi aspetti, della posizione della parte totalmente vittoriosa nel merito nel caso in cui risulti soccombente su questione preliminare di merito. La decisione così massimata: «In tema di impugnazioni, qualora un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, comma 2, c.p.c. (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c.), né sufficiente la mera riproposizione, utilizzabile, invece, e da effettuarsi in modo espresso, ove quella eccezione non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure, chiarendosi, altresì, che, in tal caso, la mancanza di detta riproposizione rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di sua rilevazione è riservato solo alla parte, mentre, se competa anche al giudice, non ne impedisce a quest’ultimo l’esercizio ex art. 345, comma 2, c.p.c.» affronta il rilevantissimo tema del rapporto tra appello incidentale e mera riproposizione in appello di questioni decise esplicitamente, implicitamente o non, proposte dalla parte che è risultata nel merito totalmente vittoriosa a seguito della proposizione di appello da parte del soccombente. La pronunzia in esame ha rappresentato l’occasione per una disamina approfondita e sistematica del rapporto tra appello incidentale e mera riproposizione anche in correlazione con il tema del giudicato interno ex art. 329, comma 2, c.p.c. Il presente contributo è volto ad analizzare il contesto in cui matura la questione e la relativa controversia, i presupposti normativi e interpretativi di riferimento in considerazione della soluzione sul punto adottata dalle Sez. U.

2. L’ordinanza interlocutoria della Seconda sezione civile n. 4058/2016 e i precedenti orientamenti delle Sezioni semplici.

La Seconda Sezione Civile con l’ordinanza interlocutoria n. 4058/2016 ha posto la seguente questione ritenuta di massima importanza: “Stabilire, a fronte non già del semplice assorbimento o della mancata disamina, ma dell’espresso rigetto di un’eccezione della parte, e peraltro di un’eccezione in senso stretto, quale quella di prescrizione, se la parte – risultata per il resto totalmente vittoriosa – qualora sia interessata ad una nuova disamina da parte del giudice di appello, debba proporre appello incidentale, ovvero possa limitarsi alla mera riproposizione della questione ex art. 346 c.p.c.”. Con la menzionata ordinanza di rimessione la Seconda Sezione Civile, quanto alla questione di massima importanza, ha evidenziato un contrasto già presente in passato tra diverse pronunzie di legittimità, acuito dall’intervento della ordinanza delle Sezioni Unite del 16 Ottobre 2008 n. 25246, con la quale si è affermato che la parte vittoriosa nel merito nel giudizio di primo grado, al fine di evitare la preclusione della questione di giurisdizione risolta in senso ad essa sfavorevole è tenuta a proporre appello incidentale, non essendo sufficiente ad impedire la formazione del giudicato sul punto la mera riproposizione della questione ai sensi dell’art. 346 c.p.c. in sede di costituzione in appello, attesa l’inapplicabilità del principio della rilevabilità di ufficio nel caso di espressa decisione sulla giurisdizione e la non applicabilità dell’art. 346 c.p.c. (riferibile invece a domande o eccezioni autonome sulle quali non vi sia stata decisione o non autonome interne al capo di domanda deciso) a domande o eccezioni autonome espressamente e motivatamente respinte, rispetto alle quali troverebbe applicazione la previsione dell’art. 329, comma 2, c.p.c. per cui, in assenza di puntuale impugnazione, opera su di esse la presunzione di acquiescenza.

Evidenzia nell’ordinanza la Corte come il “punto di frizione” delle diverse pronunzie fosse rappresentato dal divergente apprezzamento del concetto di “eccezioni autonome”, da cui far discendere che il loro espresso rigetto imporrebbe la proposizione di appello incidentale a cura della parte che sia comunque risultata totalmente vittoriosa nel merito. L’ordinanza interlocutoria ha richiamato quindi una serie di pronunzie delle sezioni semplici nelle quali si accede tuttavia alla tesi contraria e nelle quali si evidenzia come, anche in materia di eccezione di prescrizione, pur essendo nel caso concreto inammissibile l’eccezione formulata in primo grado riproposta dalla parte vittoriosa non già nella comparsa di costituzione in appello, ma esclusivamente nella memoria di replica alla comparsa conclusionale, hanno però implicitamente opinato per la semplice riproponibilità in appello ex art. 346 c.p.c. (Cass., Sez. 2, n. 5735/2011, Falaschi, Rv. 617261, Cass., Sez. 2 n. 8825/2015, Matera, non massimata, Cass., Sez. 2, n. 13411/2014, Migliucci, non massimata, Cass., Sez. 3 , n. 3602/2014, Chiarini, non massimata, Cass., Sez. 6 -3, n. 21967/2014, Frasca, non massimata, Cass., Sez. 2, n.14086/2010, Mensitieri, Rv. 613440). È stata poi segnalata in particolare poi la Cass., Sez.1, n. 24021/2010, Bernabai, Rv. 615790, così massimata: “La parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, difettando di interesse al riguardo, non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione “le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado”, da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite o anche quelle esplicitamente respinte qualora l’eccezione mirava a paralizzare una domanda comunque respinta per altre ragioni, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente nel giudizio di appello in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo, ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ. (Nella specie, la Corte ha escluso la necessità dell’appello incidentale da parte di chi si era visto rigettare l’eccezione di decadenza per tardività della domanda attorea comunque respinta per altre ragioni)”.

La Seconda sezione nella ordinanza interlocutoria sottolinea come nella motivazione della sentenza, nel sostenere la mera riproponibilità ex art. 346 c.p.c. dell’eccezione respinta, si evidenzia come la soluzione proposta non contrasti con l’apparente difforme decisione di cui all’ordinanza delle Sezioni Unite n. 25426/2008, contraria anche ad altre pronunce a Sezioni Unite (n. 3717/2007, Balletti, Rv. 595157, così massimata: “La parte vittoriosa nel merito, la quale, in caso di gravame del soccombente, chieda la conferma della decisione impugnata, eventualmente anche in base ad una diversa soluzione delle questioni proposte nel precedente grado di giudizio, difetta di interesse alla proposizione dell’impugnazione incidentale ed ha soltanto l’onere di riproporre dette questioni – ivi compresa quella nascente da eccezione di difetto di giurisdizione, che sia stata espressamente esaminata e respinta dal giudice del precedente grado –, ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ., per superare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo”) poiché nel caso esaminato dalle Sezioni Unite del 2008 si trattava di un’eccezione pregiudiziale di rito, potenzialmente impeditiva del giudizio stesso, oggetto di accertamento negativo ed estranea ai presupposti sostanziali della domanda, poi rigettata nel merito, con la conseguenza che il discrimine tra la mera riproponibilità di un’eccezione ex art. 346 c.p.c. e la necessità dell’appello incidentale, proprio secondo la pronunzia del 2008 delle Sezioni Unite, sarebbe segnato dal presupposto della esistenza o no di una decisione – formalmente espressa o anche implicita – sull’eccezione.

Dunque la dizione normativa “eccezioni non accolte”, come evidenziato nell’ordinanza predetta, non andrebbe intesa come endiadi per “rigettate”, bensì per non esaminate, perché assorbite, con la conseguenza che se manca una statuizione di rigetto, l’eccezione sarà sicuramente riproponibile nelle forme e termini di cui al combinato disposto degli art. 347, 166 e 167 c.p.c. senza necessità di assumere la veste di appello incidentale. L’art. 346 c.p.c., sempre secondo tale pronunzia, sarebbe da riferire ad eccezioni autonome sulle quali non vi sia stata decisione, come pure ad eccezioni non autonome e disattese, se interne al capo di domanda ugualmente respinto, ma per difetto dei presupposti sostanziali, sicché le domande ed eccezioni motivatamente respinte soggiacciono per contro alla previsione di cui all’art. 329, comma 2, c.p.c., con la conseguente presunzione di acquiescenza legata all’omessa impugnazione. Da ciò si desume poi che la presenza di una decisione esplicita non preclude automaticamente la facoltà di cui all’art. 346 c.p.c. se l’eccezione non accolta mirava a paralizzare una domanda che sia stata poi, comunque, respinta per altre ragioni. L’ordinanza interlocutoria richiama inoltre diverse decisioni che si sono espresse per la necessità dell’appello incidentale – come Sez. L n. 12315/2015, Zappia, non massimata – con la quale si è interpretata la regola individuata dalle Sezioni Unite in relazione alla questione di giurisdizione come estensibile a tutte le questioni pregiudiziali e preliminari, con conseguente necessità dell’appello incidentale affinché non si formi il giudicato sul rigetto del giudice di primo grado.

3. L’interpretazione delle Sez. U. con la sentenza n. 11799/2017.

Le Sez. U, nell’affrontare la questione ex art. 363, comma 3, c.p.c. nonostante l’inammissibilità del motivo nell’ambito del quale era stata sollevata, hanno prima di tutto osservato che la questione è stata risolta dalla sopravvenuta Sez. U, n. 7700 del 2016, Frasca, Rv. 639281, a seguito della quale si è stabilito che nel caso di eccezione di merito svolta dal convenuto (anche in senso sostanziale) rigettata dal giudice di primo grado per infondatezza, ma con rigetto dell’azione nel merito per altra ragione, il convenuto a fronte dell’appello proposto dalla controparte avverso la decisione di rigetto nel merito deve necessariamente proporre appello incidentale per ottenere che il giudice di appello riesamini la decisione di primo grado di rigetto dell’eccezione, non potendosi limitare ad una mera riproposizione ex art. 346 c.p.c.

Con riferimento, quindi, alla questione posta, dopo avere richiamato la giurisprudenza della S.C. in materia, le Sez. U hanno analizzato il concetto di eccezione di merito, quale fatto impeditivo, modificativo od estintivo con rilievo di c.d. fatto principale, non diversamente dai fatti costitutivi della domanda. Si è quindi richiamato il procedimento conseguente all’introduzione dell’eccezione di merito, con la c.d. rilevazione della sua efficacia giuridica sulla fattispecie dedotta in giudizio con la domanda (distinguendo tra eccezione in senso stretto, proponibile solo dalla parte, ed eccezione in senso lato, il cui potere di rilevazione risulta affidato sia alla parte che al giudice). Si sono poi considerati gli esiti possibili a seguito della proposizione di eccezione di merito, ovvero la considerazione esplicita della stessa mediante apposita statuizione, la valutazione in modo indiretto, mediante affermazioni enunciate in modo indiretto che tuttavia rivelino in modo chiaro ed univoco la valutazione di fondatezza o infondatezza, la mancata e omessa considerazione dell’eccezione. Si è fatto riferimento al concetto di soccombenza c.d. virtuale del convenuto vincitore nel merito, con conseguente emersione dell’interesse dello stesso ad un nuovo esame dell’eccezione di merito ritenuta infondata solo a seguito di proposizione di appello principale della controparte rispetto all’esito complessivo della lite. Rilevata inoltre la natura dell’appello incidentale quale mezzo di critica alla decisione impugnata le Sez. U hanno affermato conseguentemente non solo la necessità dello stesso nel caso in cui l’eccezione di merito sia stata rigettata mediante una motivazione espressa, ma anche nel caso in cui la motivazione evidenzi indirettamente le ragioni del rigetto in modo chiaro ed inequivoco. L’eccezione e il suo rigetto dunque, rientrando nel tessuto motivazionale della sentenza, acquista rilevanza proprio perché oggetto concreto della decisione, con conseguente necessità di proporre una critica articolata alla decisione per il tramite dell’appello incidentale.

Richiamando ancora la decisione n. 7700 del 2016 viene sottolineata la rilevanza della previsione dell’art. 342 c.p.c. nel parlare di “parti del provvedimento”, evocando dunque il contenuto della decisione come oggetto della critica espressa con l’appello, soprattutto ove emerga il carattere della decisività.

Decisività che tra l’altro emerge anche dalle argomentazioni già a suo tempo articolate dall’ordinanza delle Sezioni Unite n. 25246/2008 mediante richiamo alla previsione di cui all’art. 187 c.p.c. in combinato disposto con l’art. 279 n. 4 c.p.c. Distingue conseguentemente la S.C. tale ipotesi, per la quale si appalesa necessaria la proposizione di appello incidentale, da quella della mera “riproposizione”, concetto da ritenere estraneo ad ogni profilo di deduzione di critica alla decisione impugnata, poiché le eccezioni si devono ritenere non accolte per mero disinteresse del giudice, che non le ha affatto prese in considerazione, neanche indirettamente, tanto che nel corpo e struttura della motivazione non appare possibile riscontrare alcuna valutazione di fondatezza o meno delle stesse, neanche in via indiretta. Sebbene dunque la riproposizione debba essere “espressa”, in questo caso – proprio perché manca nel portato della decisione qualsiasi riferimento alla eccezione sollevata in primo grado – la parte non dovrà articolare una critica alla motivazione, ma semplicemente chiedere che l’eccezione venga esaminata. Sottolinea in conclusione la decisione come, nel caso in cui la decisione espressa o indiretta sull’eccezione nel senso dell’infondatezza non venga criticata con la proposizione di appello incidentale da parte del convenuto vittorioso nel merito, sul punto verrà a formarsi un giudicato interno, con conseguente preclusione del potere del giudice di rilevare l’eccezione ex art. 345, comma 2, c.p.c. Nel caso in cui invece, in mancanza di qualsiasi decisione sull’eccezione di merito proposta, non venga realizzata un’espressa riproposizione ex art. 346 c.p.c., ne consegue l’irrilevanza dell’eccezione in appello se il potere di rilevazione è riservato alla parte, mentre ove tale potere competa anche al giudice, ferma la preclusione del potere del convenuto, è tuttavia possibile che il giudice eserciti il proprio potere di esaminarla ex art. 345, comma 2, c.p.c.

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CAPITOLO XII

L’AMMORTAMENTO DEL COSTO DI ACQUISIZIONE DEI TERRENI COSTITUENTI AREA DI SEDIME DI IMPIANTI DI DISTRIBUZIONE DI CARBURANTE

(di Marina Cirese )

Sommario

1 Il principio. - 2 La vicenda processuale e l’ordinanza interlocutoria. - 3 Il quadro normativo di riferimento. - 4 L’ammortamento del costo di acquisizione dei terreni. - 5 La giurisprudenza della S.C. - 6 La soluzione delle Sez. U. - Bibliografia

1. Il principio.

Le Sez. U, con sentenza n. 10225/2017, Bielli, Rv. 644044, hanno enunciato i principi di diritto così massimati dall’Ufficio:

“In tema di determinazione del reddito d’impresa, è ammortizzabile il costo di acquisizione del terreno costituente area di sedime di un impianto di distribuzione di carburante ove si constati che, al termine dell’uso produttivo, il bene non sia più utilizzabile in modo proficuo in ragione del suo deperimento (economico, se non fisico), atteso che la piena operatività della regola dell’ammortizzabilità del costo del bene strumentale posta dalle norme civilistiche (art. 2426 c.c.) e fiscali (d.P.R. n. 917 del 1986), per il caso di “vita utile” limitata nel tempo, non è ostacolata dalla mancata, espressa menzione dei terreni nel d.m. 31 dicembre 1988, richiamato dall’art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986, trattandosi di fonte normativa che individua i soli coefficienti e non l’”an” dell’ammortamento”;

“Il costo di acquisizione di un terreno su cui insista un impianto di distribuzione di carburante e che sia strettamente e funzionalmente pertinenziale a tale impianto è soggetto ad ammortamento secondo il coefficiente previsto dal d.m. 31 dicembre 1988 per “chioschi, colonne di distribuzione, stazioni di imbottigliamento, stazioni di servizio” ai sensi dell’art. 67 (ora 102), comma 2, del d.P.R. n. 917 del 1986, alla condizione che rimanga accertato, in concreto, che detto terreno abbia una “vita utile” limitata, nel senso che la sua utilizzazione sia limitata nel tempo ai sensi dell’art. 2426, comma 1, n. 2, c.c.”.

La questione affrontata dalle Sez. U, pur riferendosi ad una fattispecie peculiare, anche se dotata di indubbia rilevanza da un punto di vista economico, va in realtà a toccare un tema ben più ampio, ovvero la vexata quaestio dell’ammortizzabilità dei terreni.

2. La vicenda processuale e l’ordinanza interlocutoria.

La vicenda processuale trae origine da un avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2003, con cui l’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Caserta, sulla base del processo verbale di contestazione redatto da funzionari della Direzione Regionale accertava nei riguardi di una società un maggior reddito imponibile ai fini delle imposte dirette, un maggior valore della produzione ai fini Irap ed un maggiore imponibile ai fini IVA, rispettivamente derivanti dal recupero a tassazione di costi non inerenti, di costi non di competenza, di ammortamenti indeducibili e di iva indebitamente detratta in relazione a spese di rappresentanza. Avverso l’atto impositivo la parte contribuente proponeva ricorso alla competente Commissione Tributaria Provinciale di Caserta. La Commissione Tributaria Provinciale adita, con sentenza n. 242/17/07, pronunciata in data 12.10.2007 e depositata in data 26.10.2007, rigettava il ricorso, in particolare non riconoscendo la deducibilità delle quote di ammortamento dell’area su cui insiste il distributore. Avverso tale sentenza la società proponeva appello, che veniva parzialmente accolto dalla Commissione Tributaria Regionale di Napoli con sentenza n. 129/17/09 con la quale, a parziale riforma della sentenza di I grado, dichiarava illegittimo l’avviso di accertamento per i punti relativi al mancato riconoscimento degli sconti ed alla mancata deduzione degli ammortamenti del terreno. In particolare, su tale ultimo profilo, riteneva che la circostanza che sul terreno insistesse l’impianto di distribuzione del carburante è idonea a comportarne l’inservibilità successivamente alla delocalizzazione dell’impianto, a causa degli alti costi occorrenti per la demineralizzazione con la conseguente ammortizzabilità dei relativi costi di acquisizione. Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate articolato in due motivi. In particolare con il secondo profilo nel quale si articola il primo motivo di ricorso, l’Agenzia lamentava la violazione dell’art. 67 del d.P.R. 22 dicembre n. 917 del 1986, nel testo antecedente alla rinumerazione dovuta al d.lgs. 12 dicembre 2003 n. 344, vigente all’epoca dei fatti, nonché dell’art. 2426 c.c., laddove il giudice ha ritenuto che il terreno su cui sorge l’impianto di distribuzione dei carburanti rientri nel novero dei beni ammortizzabili secondo i coefficienti di ammortamento stabiliti dalla tabella approvata con decreto ministeriale. Secondo l’ufficio, difatti, il terreno ha vita non limitata nel tempo e, nel caso in cui il valore dei fabbricati incorpori anche quello dei terreni su cui essi insistono, il valore di questi va scorporato, sulla base di stime, ai fini dell’ammortamento. La società replicava con controricorso.

Con ordinanza interlocutoria del 29 gennaio 2016, n.1703, la Quinta Sezione Civile della Corte di Cassazione, considerati i profili di perplessità in ordine all’applicabilità dell’orientamento della Corte alla fattispecie in esame, ha chiesto l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite in ordine ad una questione di massima di particolare importanza, concernente l’ammortizzabilità dei costi di acquisizione dei terreni su cui insista un impianto di distribuzione di carburante. In particolare, il collegio ha prospettato le due seguenti questioni: a) se il divieto di ammortamento dei costi di acquisizione dei terreni si applichi anche al caso in cui emerga che il terreno che funga da area di sedime di un impianto di distribuzione di carburanti abbia possibilità di utilizzazione limitata nel tempo; b) se, in virtù del regime di accessione che determina l’incorporazione dei fabbricati al suolo su cui sorge l’impianto di distribuzione di carburanti, si possa inglobare il terreno nella nozione di “stazione di servizio”, ai fini dell’applicazione del coefficiente di ammortamento contemplato dal d.m. 31 dicembre 1988, richiamato dall’art. 67 del TUIR, nel testo applicabile ratione temporis.

3. Il quadro normativo di riferimento.

La disamina della specifica questione sottoposta alle S.U. passa attraverso la nozione di ammortamento che a sua volta si correla alla redazione del bilancio di esercizio cui spetta il compito di fornire una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica dell’impresa a tutti i soggetti interessati.

Segnatamente l’ammortamento è un procedimento contabile con il quale un costo pluriennale viene ripartito tra gli esercizi di vita utile del bene, facendolo partecipare per quote alla determinazione del reddito dei singoli esercizi. Detto procedimento attiene agli elementi patrimoniali destinati ad essere impiegati in modo durevole nell’ambito dell’attività esercitata chiamati tecnicamente immobilizzazioni, detti anche “fattori produttivi a fecondità ripetuta” in quanto si tratta di elementi che si prestano a successive utilizzazioni nel tempo.

Non si tratta di procedimento di valutazione dei cespiti ovvero un procedimento finalizzato all’accantonamento dei fondi necessari per la sostituzione di un cespite ma la ripartizione del valore di un’immobilizzazione tra gli esercizi della sua vita utile.

La procedura dell’ammortamento è prescritta dal codice civile (art. 2426 c.c.) ai fini della redazione del bilancio d’esercizio attuando un piano di restituzione graduale di un debito mediante il pagamento periodico di rate. A riguardo l’art. 2426, comma 2, c.c. dispone che “il costo delle immobilizzazioni materiali (e immateriali) la cui utilizzazione è limitata nel tempo, deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione”. Quanto alle modalità di calcolo delle quote di ammortamento, il legislatore prevede che la determinazione avvenga in modo sistematico in ogni esercizio. Sulla natura dell’ammortamento sono state elaborate tre teorie contabili. Secondo una prima teoria, l’ammortamento è il procedimento di calcolo del deprezzamento subito dai capitali fissi impiegati nella produzione ed insieme di valutazione di essi, mediante la rappresentazione in bilancio della loro progressiva svalutazione. Secondo un’altra teoria, molto diffusa nella dottrina contabile italiana, l’ammortamento è un procedimento di ripartizione tra vari esercizi del costo delle immobilizzazioni (al netto del valore residuo di eliminazione) senza alcuna relazione con il valore dei cespiti, procedimento che prescinde dalla constatazione di un logorio o consumo dei capitali fissi. Una variante rispetto alle teorie indicate può essere quella che pone l’accento principale sulla funzione di reintegrazione o di ricostruzione economica dei capitali fissi che assumerebbero le quote di ammortamento. Dall’ammortamento civilistico si distingue l’ammortamento disciplinato dal legislatore fiscale che trova applicazione in sede di determinazione della base imponibile ai fini della liquidazione delle imposte. A seconda dell’oggetto dell’ammortamento si distinguono poi: 1) le immobilizzazioni materiali ovvero l’insieme di tutti i fattori produttivi ad utilità pluriennale fisicamente tangibili (ad esempio, fabbricati, macchinari, impianti, automezzi, attrezzature industriali e commerciali, computer, mobili d’ufficio ecc.) e 2) le immobilizzazioni immateriali: insieme di tutti i fattori produttivi ad utilità pluriennale non fisicamente tangibili (ad esempio, brevetti e marchi, diritti di utilizzo di opere dell’ingegno, concessioni governative, costi di ricerca e sviluppo, costi di pubblicità ecc.). L’ammortamento delle immobilizzazioni materiali è disciplinato dall’art. 102 del d.P.R. n. 917 del 1986 secondo il quale la deducibilità delle quote di ammortamento dei beni materiali è ammessa soltanto per quei beni considerati strumentali per l’esercizio dell’impresa a partire dall’esercizio di entrata in funzione del bene e che la misura dell’ammortamento non può essere superiore a quella risultante dall’applicazione al costo dei beni dei coefficienti stabiliti con decreto del Ministero delle Finanze per categorie di beni omogenei in base al normale periodo di deperimento e consumo. La lettera della norma induce pertanto a ritenere che il legislatore abbia inteso subordinare l’ammortamento dei beni dell’impresa a due presupposti: la riconducibilità al novero dei beni strumentali ed il progressivo decremento del valore del bene. Per quanto concerne il primo requisito, è evidente la centralità della nozione di “bene relativo all’impresa” di cui all’art. 65 del d.P.R. n. 917 del 1986, per quanto concerne il secondo requisito, occorre fare riferimento all’art. 2426 c.c. La norma richiamata dispone che il costo delle immobilizzazioni materiali la cui utilizzazione è limitata nel tempo deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la residua possibilità di utilizzazione, costituendo “condicio sine qua non” individuata dalla norma il fatto che il bene abbia una utilizzazione limitata nel tempo. Ai fini dell’ammortamento di un bene materiale rileva, quindi, la limitazione nel tempo della proficua «utilizzazione» produttiva del bene, non la durata della sua fisica esistenza. Il riferimento è pertanto alla durata della “vita utile” del bene strumentale, intesa come periodo di tempo nel quale ci si attende che il bene sia utilizzato produttivamente, non anche della sua materiale persistenza al termine dell’impiego nel processo produttivo. La vita utile del bene non può identificarsi solo con la sua durata fisica, ossia con il periodo temporale in astratto intercorrente tra il momento iniziale in cui il bene può essere utilizzato ed il momento finale in cui partecipa al processo produttivo. Nella determinazione della durata occorre invece considerare componenti di natura economica che rendono la possibilità di conveniente utilizzo del bene inferiore a quella fisica. Trattasi del fenomeno dell’obsolescenza per cui una immobilizzazione tecnicamente efficiente è superata sul piano economico dal progresso tecnologico. La vita utile è perciò il risultato di congetture fondate sul logorio fisico-tecnico del bene, riviste in relazione alla politica delle manutenzioni, alla domanda dei prodotti ottenuti con l’immobilizzazione, all’evoluzione tecnologica. La vita utile di un’immobilizzazione materiale è pertanto non una costante, bensì una variabile cosicché le ipotesi originarie formulate circa il logorio del bene possono essere poi disattese per effetto di mutate condizioni interne oppure esterne all’impresa che riducono la vita utile del bene. In circostanze opposte la durata economica del bene può viceversa aumentare. La vita utile del bene dipende pertanto da due variabili: 1) il deperimento fisico del bene e l’obsolescenza (o deperimento economico) la quale agisce riducendo le possibilità di utilizzo economico del bene. Essenziale è dunque stabilire se, al termine dell’utilizzi del bene strumentale il suo valore rimane pressoché immutato cosicché il bene avrà ancora una sua significativa oggettiva utilità e non sarà incorso in un “deperimento” integrante il presupposto richiesto dall’ammortamento, cioè l’utilizzazione (intesa come utilizzabilità) limitata nel tempo.

4. L’ammortamento del costo di acquisizione dei terreni.

Il nodo centrale nella soluzione della questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite è rappresentato dalla ammortizzabilità del costo dei terreni. A riguardo l’Amministrazione finanziaria ha sempre sostenuto, almeno in linea di principio, il “dogma” dell’indeducibilità dal reddito di impresa del costo di acquisto dei terreni, atteso che gli stessi non costituiscono beni in sé e per sé suscettibili di deperimento e consumo ritenendo che già dal punto di vista civilistico prima ancora che fiscale appare criticabile l’eventuale imputazione del relativo costo nel conto economico. Tale principio viene enunciato nella C.M. 17.5.2000 n. 98/E ove il Ministero del Bilancio ha precisato che “i terreni ancorché assolvano ad una funzione di strumentalità nell’esercizio delle attività non sono ammortizzabili atteso che, per la loro natura, non sono suscettibili di deperimento e consumo”. Un principio di tenore similare si trova altresì nella risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 23.2.2004 n. 19 che ha altresì negato la deducibilità dei canoni corrisposti per l’acquisizione in leasing di un terreno. In tale occasione è stato affermato che in linea generale i terreni, ancorché assolvano la funzione di bene strumentale, non sono ammortizzabili in quanto hanno una vita illimitata e che ciò è confermato dal fatto che la tabella dei coefficienti di ammortamento non prevede la possibilità di ammortizzarne i relativi costi. Posto tale principio generale, l’amministrazione finanziaria ha tuttavia operato dei distinguo a seconda del tipo di terreno o meglio della relativa destinazione funzionale. Così ha sostenuto l’ammortizzabilità di terreni utilizzati come deposito di materiale dato che in tali situazioni il terreno risulta sottratto alla sua destinazione naturale e finalizzato a partecipare ad un processo produttivo. L’amministrazione finanziaria ha altresì manifestato delle aperture alla tesi che riconosce la possibilità di considerare il costo dei terreni tutt’uno con il costo dell’immobile strumentale su di essi costruito. Così con la R.M. 16 febbraio 1982 n. 7/1579 è stato precisato che al terreno può riconoscersi natura di bene strumentale quando esso sia sottratto alla sua naturale destinazione e destinato al processo produttivo. Anche nella R.M. 4 luglio 1975 n. 2/042 avente ad oggetto l’individuazione del coefficiente di ammortamento applicabile alle costruzioni autostradali, il Ministero delle Finanze ha ammesso il principio che il costo sostenuto per l’acquisizione dei terreni su cui viene immessa una costruzione (nella fattispecie il manto autostradale) e delle relative pertinenze può essere oggetto di ammortamento. Lo stesso Ministero, pur ribadendo in linea generale che i terreni non sono suscettibili di deperimento e di consumo, ha avuto modo di osservare con la C.M. 10 aprile 1991 n. 11/9/358, riguardante il caso di terreni permanentemente adibiti da imprese edili a deposito di materiale, che i terreni assumono natura di beni strumentali quando vengono sottratti alla loro destinazione naturale e finalizzati a partecipare ad un processo produttivo. La tesi della deducibilità è altresì rinvenibile nella circolare 17 ottobre 2001 n. 90/E ove, in commento alle agevolazioni tributarie in materia di investimenti produttivi di cui alla legge 18 ottobre 2001 n. 383 (c.d. Tremonti--bis) è stato chiarito che i terreni, ancorché non rilevino autonomamente come beni in sé agevolabili in quanto privi del requisito della strumentalità, “possono tuttavia rientrare nell’ambito applicativo del beneficio qualora incorporino per accessione un fabbricato strumentale per natura”. In relazione ai terreni su cui insistono fabbricati strumentali, l’Amministrazione finanziaria si era espressa a favore della possibilità di considerare il costo dei terreni tutt’uno con il costo dell’immobile asservito, in particolare sulla base dei seguenti riferimenti: 1) nella legge 19.12.1992 n. 488 i contributi concessi per l’acquisto del suolo aziendale potevano essere considerati in conto impianti solo se l’acquisto del terreno era finalizzato alla costruzione di fabbricati industriali (edifici, strade, piazzali, ecc.) ammortizzabili; 2) nella legge n. 413 del 1991 sulla rivalutazione obbligatoria dei fabbricati e delle aree fabbricabili ove è previsto che l’importo della rivalutazione comprensivo della parte derivante dalla rivalutazione dell’area su cui insisteva il fabbricato era fiscalmente ammortizzabile dal che si deduceva che doveva ritenersi ammortizzabile anche il costo storico dell’area stessa.

5. La giurisprudenza della S.C.

Un consolidato orientamento della Suprema Corte si esprime per la non ammortizzabilità dei terreni. Sez. 5, n. 9497/2008, Meloncelli, Rv. 602910-01, ha ritenuto che in tema di imposte sui redditi, ai sensi dell’allegato unico al d.m. 31 dicembre 1988, emesso in base all’art. 67, comma 2, del d.P.R. n. 917 del 1986, le costruzioni esistenti negli impianti stradali di distribuzione dei carburanti non sono riconducibili alla categoria “Oleodotti – Serbatoi – Impianti stradali di distribuzione” per la quale la tabella dedicata al “Gruppo IX – Industrie Manifatturiere Chimiche – Specie 2 – Raffinerie di petrolio, produzione e distribuzione di benzina e petroli per usi vari, di oli lubrificanti e di oli lubrificanti e residuati, produzione e distribuzione di gas di petrolio liquefatto” prevede un coefficiente di ammortamento del 12,5%, ma a quella “Fabbricati destinati all’industria”, per cui la medesima tabella prevede un coefficiente del 5,5%. Non sono invece ammortizzabili i terreni, non risultando in alcun modo prevista tale possibilità in riferimento al Gruppo IX, diversamente da quanto accade con riguardo ad altri Gruppi. Nella motivazione in particolare si legge che “per il terreno, che in quanto non ricompresso in assoluto tra i beni ammortizzabili nel D.M. 31 dicembre 1988, non avrebbe potuto essere oggetto di un’aliquota di ammortamento del 12,5%. D’altro canto l’esclusione dei terreni sarebbe logica e giustificata dal fatto che non si tratterebbe di beni soggetti a deperimento o a consumo a differenza delle costruzioni…” e che tale specie di bene è stato espressamente inserito dal d.m. 3 dicembre 1988 tra i beni ammortizzabili quando si è ritenuto di dover loro riconoscere tale caratteristica (per esempio nel gruppo 18. Industrie dei Trasporti e delle Comunicazioni Specie I, T e 3. Trasporti aerei, marittimi, lacuali, fluviali e lagunari. Piste, moli e terreni ad essi adibiti. Terreni adibiti alle linee e servizi ferroviari. Ma tale riconoscimento non è stato effettuato nel gruppo 9 e, in particolare, non nella sua Specie 2”. Nel solco di tale orientamento si inscrive anche Sez. 5, n. 12924/2013, Crucitti, Rv. 627210-01, ove si enuncia il principio secondo cui in tema di avviso di accertamento relativo a IRPEG e IRAP, i terreni, benché compresi in complesso strutturale aziendale, non sono beni ammortizzabili, e ciò anche quando essi siano strumentali all’esercizio dell’impresa, in quanto non solo non espressamente inseriti nella tabella Gruppo IX, specie 2, del d.m. 31 dicembre 1988 (relativo agli impianti stradali di distribuzione di prodotti petroliferi), tra i beni ammortizzabili, ma anche perché per loro natura suscettibili di un numero indefinito di utilizzazioni, e quindi non soggetti a “deperimento” e “consumo”, ai sensi degli artt. 67 e 75 del d.P.R. n. 917 del 1986. Pronunciandosi in relazione all’ammortizzabilità di terreni su cui insiste una stazione di servizio per la distribuzione di carburante, la Suprema Corte, richiamando la propria giurisprudenza, statuiva che l’ammortamento “… può effettuarsi con beni suscettibili di deperimento e consumo dopo un certo numero di anni sì da essere sostituiti quando non risultino più funzionali allo scopo per il quale sono stati acquistati” e che “..il costo dei terreni, non essendo tali beni assoggettati a deperimento e consumo, aventi vita illimitata ed essendo suscettibili per la loro natura di un numero indefinito di utilizzazioni, non è dunque in linea generale ammortizzabile” e che peraltro “tale specie di bene non è stato espressamente inserito dal D.M. 31 dicembre 1988 tra i beni ammortizzabili ..”. Anche Sez. 5, n. 16690/2013, Crucitti, Rv. 627174-01, dando continuità al principio già espresso e secondo una motivazione pressoché identica a quella della precedente pronuncia. Ribadisce che il d.m. 31 dicembre 1988 non indica i terreni tra i beni ammortizzabili e ciò in linea con i principi generali in tema di disciplina dell’ammortamento e che salvo le ipotesi tassativamente previste (imprese operanti nel settore aereo, marittimo, ferroviario, nonché della costruzione e gestione delle autostrade, strade e superstrade). In tema di rimborso dell’Iva assolta sull’acquisto di beni ammortizzabili, Sez. 5, n. 1404/2013, Cirillo E., Rv. 624905-01, ha affermato che “non rientrano nella nozione di beni ammortizzabili recepita dall’art. 30 del d.P.R. n. 633 del 1972 i terreni edificabili perché essi, al contrario dei capannoni industriali che ivi siano costruiti, non vanno soggetti a logorio fisico ed economico”.

Da ultimo Sez. 5, n. 9068/2015, Cirillo, Rv. 635491-01 ha statuito che “in tema di determinazione del reddito di impresa, i terreni edificabili, non essendo soggetti a logorio fisico ed economico, né ad usura, non rientrano nella nozione fiscale di beni ammortizzabili”. La Suprema Corte con riferimento ai terreni edificabili evidenziava che gli stessi “siccome non sono soggetti a logorio fisico o economico né ad usura, non rientrano nella nozione fiscale di beni ammortizzabili” sottolineando altresì che gli stessi non sono contemplati nel d.m. 31 dicembre 1988. Si discosta dall’interpretazione fin qui delineata Sez. 5, n. 3516/2006, Marigliano, Rv. 587713-01 che stabilisce che nel sistema tributario, le pertinenze non hanno una propria autonoma disciplina, ma seguono, secondo il generale principio civilistico posto dall’art. 817 c.c., il regime dei beni principali, come emerge chiaramente dalla normativa in materia di imposte sui redditi (artt. 24, 29, 33 e 39 del d.P.R. n. 917 del 1986; art. 17 della legge 31 gennaio 1994, n. 97) e di imposta di registro (art. 23 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131).

Nella fattispecie sottoposta al suo esame la Corte in tema di “ammortizzabilità”, ai sensi e per i fini di cui all’art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986, del terreno circostante un capannone ha ritenuto la natura pertinenziale dei terreni rispetto al capannone e che la pertinenza dovesse avere lo stesso regime giuridico del bene principale. A comprovare detta affermazione la S.C. ha motivato nel senso che da alcune norme del diritto tributario quale il d.P.R. n. 917 del 1986, artt. 24, 29, 33 e 39, relativi alle imposte sui redditi di beni immobili ( che, rispettivamente, così statuiscono: “Non si considerano produttive di reddito dominicale ed agrario i terreni che costituiscono pertinenze di fabbricati urbani” (d.P.R. cit., art. 24, comma 2, e art. 29, comma 4); “Per unità immobiliari urbane si intendono i fabbricati e le altre costruzioni stabili o le loro porzioni suscettibili di reddito autonomo. Le aree occupate dalle costruzioni e quelle che ne costituiscono pertinenze si considerano parti integranti delle unità immobiliari” (d.P.R. n. 917, art. 33, comma 2); “Non si considerano produttive di reddito di fabbricati le costruzioni o porzioni di costruzioni rurali e le relative pertinenze, appartenenti...” (d.P.R. n. 917, art. 39) ed ancora la l. n. 97 del 1994, art. 17, comma 3: “Le costruzioni rurali e relative pertinenze destinate ad agriturismo in terreni montani sono assimilati alle costruzioni di cui al d.P.R. n. 917 del 1986, art. 39” e, pensino più chiaramente, il d.P.R. n. 131 del 1986, art. 23, comma 3, sull’imposta di registro: “Le pertinenze sono soggette alla disciplina del bene principale”) si evince che le pertinenze, anche nel sistema tributario, non hanno una propria autonomia ma seguono il regime dei beni principali e ciò risulta chiaramente per quanto attiene alla regolamentazione dell’imposizione fiscale del reddito, da sopra evidenziato; allo stesso modo gli stessi beni devono seguire lo stesso regime giuridico anche in tema di imposizione fiscale del reddito d’impresa comprensivo delle previste detrazioni.. Aggiunge peraltro la Corte che ”… le pertinenze, costituite da terreno, non rientrerebbero tra i beni ammortizzabili perché non deteriorabili non risponde a verità in quanto anche un’area scoperta è suscettibile di manutenzione ed a maggior ragione un’area pertinenziale di un capannone industriale verosimilmente destinato a deposito, a parcheggio e d alla manovra di camion ed altri veicoli industriali”.

6. La soluzione delle Sez. U.

In Sez. U., n. 10225/2017, Bielli, Rv. 644044-02 e 644044-03, la S.C. ha preliminarmente ricostruito in modo analitico la disciplina normativa di riferimento con riguardo all’ammortamento dei beni materiali strumentali all’esercizio dell’impresa sottolineando come ai fini dell’ammortamento di un bene materiale rilevi non già la durata della sua esistenza fisica ma la limitazione nel tempo della sua proficua utilizzazione ovvero la durata della sua “vita utile”.

Il deperimento da considerare, secondo l’art. 67 (ora 102) del d.P.R. n. 917 del 1986 è quello indotto dall’impiego produttivo del bene strumentale di durata pluriennale, ossia dall’utilizzo stimato del potenziale apporto fornito all’attività d’impresa negli anni dal bene.

A conferma dell’assunto, il concetto di vita utile del bene emerge in alcune norme tra cui il comma 2, dell’art. 102-bis del d.P.R. n. 917 del 1986 e nell’art. 1, comma 239, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, relativo ai beni costituenti giacimenti, sia pure in zone di mare («i titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale») nonché in vari principi contabili elaborati in materia e segnatamente nel principio OIC 16 (2005), relativo alle immobilizzazioni materiali, e nel principio IAS 16.

Essenziale nell’iter argomentativo della S.C. è stabilire, quindi, il valore del bene al termine del suo utilizzo, sicché ove tale valore rimanga pressoché immutato, il bene avrà ancora una sua significativa oggettiva utilità e non sarà incorso in un “deperimento” integrante il presupposto richiesto dall’ammortamento.

Con specifico riguardo poi ai beni strumentali costituiti da terreni, evidenzia la Corte, con ciò discostandosi dall’orientamento in precedenza consolidatosi, che costituisce “una mera petizione di principio” sostenere che gli stessi hanno una vita utile necessariamente illimitata, restando quindi a priori esclusa la possibilità di un loro significativo deperimento, dovendosi invece verificare in concreto se sia ipotizzabile, almeno in alcuni casi eccezionali, un deperimento fisico o economico del terreno nel corso del suo utilizzo pluriennale al servizio dell’impresa.

Le Sez. U, giunte ad affermare l’astratta possibilità che il terreno strumentale all’esercizio dell’impresa possa avere una “vita utile” più limitata rispetto alla sua materiale esistenza, richiamano il caso delle aree adibite a cave, torbiere e discariche, le quali, una volta esaurita la loro “vita utile” produttiva, non sono più adeguatamente utilizzabili ed il cui costo di acquisizione, pertanto è ammortizzabile.

A tali ipotesi può essere accostata quella della fattispecie dedotta in giudizio dato che i terreni su cui insistono impianti di distribuzione di carburante subiscono, a causa del loro specifico utilizzo, una peculiare ed inquinante mineralizzazione da idrocarburi che la legge (all’epoca, l’art. 17 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22) impone di eliminare, una volta dismesso l’impianto, mediante particolari operazioni di bonifica demineralizzante caratterizzate da costi ingenti.

A fronte di tale ricostruzione peraltro non può ravvisarsi un ostacolo nella mancata espressa menzione dei terreni occupati da un impianto di distribuzione di carburanti nell’ambito dei coefficienti di ammortamento previsti dal d.m. 31 dicembre 1988, richiamato dall’art. 67 (ora 102) del d.P.R. n. 917 del 1986, in quanto la fonte di rango secondario costituita dal menzionato d.m. non è idonea ad impedire l’applicazione della regola generale, posta da fonti di rango primario, della suddetta ammortizzabilità.

Una volta superato il precedente orientamento, alla luce delle considerazioni fin qui svolte, con riferimento alla questione di cui al punto b) dell’ordinanza interlocutoria, la S.C. reputa irrilevante stabilire se il terreno costituisca pertinenza dell’impianto di distribuzione carburanti di cui è sedime o invece che tale impianto sia considerato incorporato per accessione al suolo su cui sorge, optando viceversa per una interpretazione estensiva del d.m. 31 dicembre 1988, tabella del Gruppo IX («Industrie manifatturiere chimiche»), «specie 2» («Raffinerie di petrolio, produzione e distribuzione di benzina e petroli per usi vari, di oli lubrificanti e residuati, produzione e distribuzione di gas di petrolio liquefatto») ritenendo che le espressioni «chioschi, colonne di distribuzione, stazioni di imbottigliamento, stazioni di servizio» debbano estensivamente intendersi come comprensive anche dei terreni su cui insistono o che sono strettamente e funzionalmente pertinenziali agli impianti di distribuzione di carburante rendendo in tal modo applicabile anche a detti terreni il coefficiente di ammortamento del 12 e 1/2 %.

. Bibliografia

Bibliografia

Caratozzolo, Il bilancio d’esercizio – II Edizione – Giuffrè Editore – 506 e ss.

Vasapolli – Dal bilancio di esercizio al reddito d’impresa - Wolters Kluwer – 1722.

  • attività bancaria
  • titolo di credito

CAPITOLO XIII

SULLA NATURA DELLA LIBERALITÀ COMPIUTA TRASFERENDO DEI TITOLI, PER MEZZO DI ORDINE ALLA BANCA, DAL CONTO DI DEPOSITO DEL BENEFICIANTE A QUELLO DEL BENEFICIARIO: SEZ. U, N. 18725 DEL 2017

(di Dario Cavallari )

Sommario

1 La nozione di liberalità indiretta. - 2 Le principali ipotesi di liberalità indiretta. - 3 La vicenda processuale. - 4 La decisione: i punti fondamentali. - 5 Considerazioni finali. - Bibliografia

1. La nozione di liberalità indiretta.

La problematica relativa all’individuazione della nozione di liberalità indiretta è complessa.

Non esiste un orientamento univoco della dottrina e la giurisprudenza non ha mai affrontato la questione in maniera organica, mentre il legislatore, già nell’introdurre nell’ordinamento un istituto dalle forme incerte, ha scientemente omesso di prendere posizione sulle tematiche di maggiore rilievo e di fornire una definizione, rimettendo il tutto all’elaborazione del mondo accademico.

Molti autori sostengono che le liberalità indirette non sarebbero una categoria unitaria o, addirittura, non avrebbero rilevanza giuridica, ma solo degli effetti economici a cui l’ordinamento ricollegherebbe l’applicazione di alcune disposizioni, al fine di tutelare soggetti che si trovino in una particolare condizione.

Esse sarebbero, quindi, il frutto di una valutazione effettuata a posteriori risultante dalla valutazione funzionale di un negozio.

Se si prescinde, però, da quest’ultima opinione occorre cercare di individuare un concetto di liberalità non donative almeno in via negativa, contrapponendole alle donazioni tipiche.

In tale ottica, è controverso se detta nozione unitaria debba essere elaborata facendo riferimento alla struttura dell’atto od ai suoi effetti.

L’art. 809 c.c., la disposizione codicistica che, in via principale, tratta delle liberalità in questione, contiene riferimenti dalla natura duplice e contrastante in quanto, da una parte, richiama gli “atti” di liberalità, così dando l’idea che l’elemento che le accomuna attenga alla loro struttura, dall’altra si riferisce ai loro risultati, evidenziando come le stesse vadano individuate in un’ottica fattuale.

Da un esame delle fonti e della giurisprudenza risulta, poi, che, oltre ai profili più generali della struttura e degli effetti, gli aspetti più rilevanti dell’istituto de quo sono quelli concernenti l’elemento soggettivo e la causa delle operazioni giuridiche.

Gli Autori che si sono occupati del settore si sono concentrati principalmente sull’individuazione, in concreto, di quelle che sarebbero le singole fattispecie di liberalità, per poi tentare di trovare degli elementi unificanti.

Per fare ciò, la dottrina ha posto a confronto l’art. 769 c.c., che disciplina la donazione tipica, e l’art. 809 c.c. summenzionato, norma fondamentale delle liberalità non donative, il quale recita “Le liberalità anche se risultano da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769, sono soggette alle stesse norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa d’ingratitudine e per sopravvenienza di figli nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari.

Questa disposizione non si applica alle liberalità previste dal secondo comma dell’art. 770 e a quelle che a norma dell’art. 742 non sono soggette a collazione”.

Le teorie più tradizionali fondano la loro analisi sul concetto di atto e, quindi, sulla sua struttura.

In particolare, valorizzano l’elemento soggettivo, come fa la giurisprudenza prevalente, e sostengono che a caratterizzare le liberalità non donative sarebbe l’animus donandi, il quale, valutato sia quale forma caratteristica di manifestazione della volontà, sia come vera e propria causa di dette liberalità, sarebbe l’elemento la cui presenza dovrebbe indurre ad affermare l’esistenza di una liberalità ex art. 809 c.c.

Una dottrina tenta di risolvere la questione riconducendo la figura delle liberalità cd. atipiche allo schema del negozio indiretto [TORRENTE, 2006, 24 ss.].

Le liberalità non donative, che sarebbero normalmente dei negozi diversi dalla donazione, assumerebbero una natura liberale in virtù di un accordo integrativo raggiunto fra le parti.

Altra tesi individua l’elemento unificante nel c.d. negozio configurativo, tramite il quale le parti renderebbero liberali delle fattispecie non donative [CAREDDA, 1996, 114-194].

Queste teorie vedono, quindi, nell’animus donandi o la causa della liberalità oppure un elemento della stessa che, pur senza essere parte della causa, su questa inciderebbe e consentirebbe ad un atto non liberale di produrre effetti, al contrario, propri di una donazione.

Si tratta di ricostruzioni che riconducono il settore delle liberalità non donative nel terreno negoziale e che tentano anche di risolvere ed affrontare la tematica delle liberalità materiali, rinvenendo, per esse, un fondamento negoziale.

Altri autori scelgono un approccio antiformalista e, sulla base del disposto dell’art. 1333 c.c., affermano la generale vincolatività della promessa unilaterale gratuita, considerando del tutto irrilevante il disposto dell’art. 769 c.c., in quanto il fenomeno liberale sarebbe stato ormai deformalizzato e dipenderebbe, in toto, dalla mera volontà delle parti [PALAZZO, 2000, 208 ss.].

Una ulteriore impostazione, invece, evidenzia che il disposto dell’art. 769 c.c., in correlazione con l’art. 782 c.c., che ne regola la forma, sarebbe una delle basi su cui è fondato il sistema delle liberalità, assieme all’art. 809 c.c.

Il nostro ordinamento avrebbe imposto, per la realizzazione dell’effetto liberale diretto e per l’assunzione del relativo obbligo, l’adozione di una struttura contrattuale e di una particolare forma.

Le liberalità non donative andrebbero individuate tenendo conto, perciò, di questo principio.

Tali tesi sono state criticate.

Quelle soggettive, appunto più classiche e, nella sostanza, seguite, pur con dei distinguo, dalla giurisprudenza, non spiegano come sia possibile che atti per definizione non donativi vadano individuati in ragione del fatto che avrebbero in comune il medesimo elemento soggettivo e la stessa causa della donazione tipica ex art. 769 c.c.

Inoltre, non è dato comprendere come sia possibile che gli accordi integrativi e configurativi raggiunti dalle parti siano validi, pure avendo tutte le caratteristiche di una intesa donativa ex art. 769 c.c., senza, però, rispettarne la forma.

Neppure risolve la questione l’affermazione che l’intento donativo non sarebbe la causa della liberalità non donativa, ma solo un suo elemento, poiché, così, si assegna una valenza impropria a quello che sembra un motivo.

D’altronde, si deve sottolineare che la tesi del negozio indiretto, pur se bene argomentata dal suo autore, è ormai superata nel nostro ordinamento e che nessuna disposizione del codice civile rimette alle parti il potere, con un negozio cd. configurativo, di modificare la natura di una fattispecie giuridica.

L’impostazione antiformalistica, dal canto suo, mira chiaramente a derogare all’intero impianto legale delle liberalità, non applicando disposizioni, come quelle sulla forma e la struttura della donazione, che sono esplicite.

La dottrina che rivaluta il ruolo della forma nella donazione, pur essendo rispettosa della lettera della legge, rende necessario, però, uno studio molto complesso ed articolato del fenomeno liberale per giungere ad una sua ricomposizione.

Il problema di queste tesi è che, alcune più, altre meno, tentano in vari modi di adattare l’ordinamento italiano a quello di altri paesi, come Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti d’America.

Indubbiamente, nel sistema tedesco l’elemento formale ha un ruolo meno importante di quello che ricopre in Italia, poiché la Schenkung tedesca ben difficilmente potrà essere nulla per difetto di forma e a rilevare è solo l’intesa, persino, in origine, unilaterale, in ordine alla natura gratuita della Zuwendung.

Ciò si spiega, però, con il fatto che gli articoli 516 e 518 BGB non richiedono lo stesso onere formale imposto per la donazione italiana dall’art. 782 c.c. e, in ogni caso, consentono alle parti di sanare, tramite esecuzione, gli accordi nulli per difetto di forma.

In Germania, poi, l’accordo sul carattere donativo dell’operazione può essere concluso separatamente anche dopo il trasferimento ed implicitamente.

Ciò che rileva è la Zuwendung, la quale avviene sulla base di un elemento causale che è, appunto, scelto liberamente dalle parti e si colloca al di fuori del titolo del trasferimento.

Non si considera, però, che è sempre necessario un atto astratto traslativo e che, comunque, le disposizioni che consentono di derogare, in apparenza, alla natura pattizia del contratto e alle forme imposte dalla legge, hanno carattere speciale.

In Francia, dove, in apparenza, il rigore imposto dal codice civile per le donazioni è simile al nostro, nella pratica la situazione è molto diversa.

Il legislatore italiano, nel riprendere l’istituto donativo francese, non ha tenuto conto che, accanto alla legge, era sopravvissuta una fortissima consuetudine, pienamente recepita dalla giurisprudenza e, in parte, dalla dottrina.

Pertanto, il diritto francese valorizza al massimo la volontà delle parti, consentendo loro di scegliere la forma tramite cui regolare i propri interessi liberali, ma può fare ciò perché la donazione manuale non è assoggetta al limite del modico valore e la simulazione non invalida l’atto sottostante che non rispetti la forma di legge (salvo casi eccezionali).

In Francia, quindi, gli interessati, ove non ritengano di ricorrere alla traditio od alla simulazione per compiere le loro liberalità, possono creare liberamente dei collegamenti negoziali ed approfittare del fatto che, nel diritto francese, molti atti, che da noi sono causali, hanno natura astratta o neutra.

In pratica, il problema della forma è risolto grazie alla diversa disciplina della donazione manuale e della simulazione, quello della causa è, invece, superato escludendo la stessa dagli elementi caratterizzanti gli atti che le parti, nell’esercizio della loro volontà, possono scegliere per realizzare indirettamente il loro intento donativo.

In un ordinamento del genere, è chiaro che gli interessati possono, con i loro accordi, rendere valida ed efficace una operazione che, a stretto rigore di legge, potrebbe non esserlo, così configurandola liberamente.

Nei paesi di common law, l’istituto della consideration permette di realizzare interessi anche non onerosi utilizzando il contract e, soprattutto nel settore dei chattels, si assiste a una notevole deformalizzazione dove, al generale ricorso alla delivery, si affianca l’impiego di consegne sempre più implicite ed astratte.

Inoltre, la salvezza delle operazioni poste in essere invalidamente può essere conseguita sul piano dell’equity, grazie all’estoppel od al trust.

Le particolarità degli altri ordinamenti, però, difficilmente possono essere introdotte nel sistema italiano, fondandosi su un diverso assetto normativo ed istituzionale e su una distinta cultura giuridica.

Quello che può cogliersi dalle esperienza straniere è, oltre alla loro tendenza a mantenere vive le proprie specificità culturali e giuridiche, la capacità di individuare situazioni che possono ricondursi alla categoria delle liberalità non donative partendo dalla considerazione che la loro esistenza era già stata rilevata nell’esperienza romana.

Infatti, quelle che oggi sono indicate come liberalità indirette nascono con riferimento al divieto di donazioni fra coniugi, che erano operazioni colpite in ragione dei loro effetti giudicati negativi dall’ordinamento, a prescindere dal fatto che fossero donazioni in senso tecnico e, dunque, tenendo ben distinti gli elementi causali relativi alle varie fattispecie.

Pertanto, è ragionevole ritenere che il profilo effettuale sia fondamentale per accertare quali siano le ipotesi riconducibili alla categoria in esame.

Inoltre, appare preferibile che la causa della donazione tipica e quella delle liberalità non donative siano tenute distinte. Ciò sia alla luce dell’esperienza più risalente che perché il dato normativo potrebbe indurre ad affermare che l’ordinamento italiano riconduca alla causa liberale tipica una ben definita forma inderogabile.

Al contrario, l’art. 809 c.c. sembra escludere, per gli atti che contempla, il ricorso a detta forma, presumibilmente, come suggerito da recente dottrina, proprio in ragione della differenza causale esistente fra donazione tipica e liberalità non donativa.

Alla base delle liberalità non donative sembra debba porsi, quindi, il loro profilo effettuale, rappresentato dall’arricchimento patrimoniale del beneficiario collegato al depauperamento del disponente [GATT, 2002, 165 ss.].

In presenza di un simile effetto ed in assenza di un atto formalmente qualificabile come donazione diretta potrebbe ricorrere una donazione indiretta.

L’aspetto soggettivo, così valorizzato dalla dottrina italiana tradizionale, andrebbe, forse, rimodulato, in quanto dovrebbe essere in qualche modo distinto da quello tipico della donazione, in ragione della differenza causale fra donazione tipica e liberalità non donative.

D’altronde, la stessa giurisprudenza, pur dichiarando formalmente di dare massimo rilievo al c.d. animus donandi, ne ha già colto il carattere non decisivo perché, di solito, ne presume la ricorrenza qualora gli effetti dell’operazione siano tali da evidenziare la presenza di una liberalità.

L’animus delle liberalità non donative potrebbe, quindi, coincidere con la volontà di realizzare l’arricchimento-depauperamento che le caratterizza o, comunque, essere presunto, una volta accertato detto arricchimento-depauperamento.

2. Le principali ipotesi di liberalità indiretta.

Fra le ipotesi di liberalità non donative presenti nel nostro ordinamento, come individuate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, figurano, in primo luogo, i negotia mixta cum donatione.

Questi sono, ad avviso della dottrina più recente, quei contratti a titolo oneroso che presentano una notevole sproporzione fra le relative prestazioni, pur se il corrispettivo ricevuto dal disponente non è, comunque, così modesto da essere meramente simbolico (il che condurrebbe ad una riqualificazione come donazione indiretta del negozio stesso).

Si tratta di una categoria di liberalità non donative particolare poiché produce uno spostamento diretto dal patrimonio del donante a quello del donatario e ha una struttura paragonabile a quella della donazione tipica, con cui si confonde (ciò chiarisce perché parte della dottrina escluda i contratti dall’area delle liberalità non donative, limitandola agli atti unilaterali) e dalla quale si differenzia giacché manterrebbe, soprattutto secondo la giurisprudenza, una causa onerosa (in dottrina si sostiene, al contrario, che la causa onerosa coesisterebbe con quella liberale, trattandosi della liberalità non donativa più prossima alla donazione tipica).

Non vi sono dubbi in ordine all’inclusione nella categoria de qua della vendita mista e della maggior parte dei contratti onerosi, mentre non vi è consenso, in dottrina, quanto alla qualificazione come negotia mixta cum donatione di negozi come la transazione e la divisione, la prima, perché funzionale alla composizione di liti, la seconda in ragione della natura dichiarativa.

L’orientamento dottrinario maggioritario esclude dalla categoria dei negotia mixta cum donatione i contratti gratuiti, sia tipici che atipici.

In generale, può affermarsi che l’arricchimento ed il depauperamento debbano essere effettivi e stabili mentre, nelle fattispecie gratuite, sembra che vi sia, al massimo, un vantaggio (e non un arricchimento) per il beneficiario, consistente in un risparmio temporaneo di spesa, in assenza di un definitivo impoverimento del disponente, che patirebbe una decurtazione non significativa.

Inoltre, si evidenzia che caratteristica delle liberalità non donative sembra essere il loro utilizzo per realizzare un interesse non patrimoniale, mentre i contratti a titolo gratuito ne attuano uno patrimoniale.

Abbastanza consolidato è l’orientamento che esclude le obbligazioni di facere dal novero di quelle oggetto di atti di liberalità, a meno che non siano tali da comportare, alla fine, l’esecuzione di un prestazione di dare.

Parte della dottrina, riconduce alla categoria delle liberalità non donative, altresì, alcune fattispecie le quali si caratterizzano per non essere in linea di principio liberali, anche perché poste in essere in attuazione di obblighi di legge o morali, ma che, in concreto, portano ad uno scambio squilibrato di prestazioni, come avviene, ad esempio, con le obbligazioni naturali o gli accordi fra coniugi.

Situazioni simili sono state affrontate dalla giurisprudenza anglosassone, la quale, in origine, ne negava il carattere liberale, ma, oggi, ha assunto una posizione più aperta al riguardo.

È da segnalare l’importanza del contesto in cui si colloca l’operazione esaminata, poiché un contratto apparentemente idoneo a produrre un arricchimento-depauperamento di carattere liberale, una volta inserito nel debito contesto, potrebbe assumere natura addirittura onerosa, come nel settore commerciale o societario.

In questo è di conforto l’esperienza francese che tende, appunto, a valutare come tendenzialmente non liberali le operazioni commerciali o societarie che tali potrebbero sembrare.

Ulteriori ipotesi prese in considerazione dalla dottrina quali liberalità non donative sono la promessa al pubblico e, poi, alcuni negozi tipizzati dalla legge che producono effetti liberali e per cui è prevista l’adozione della forma pubblica, come la convenzione costitutiva di fondo patrimoniale e quella con cui un coniuge include nella comunione un bene personale, rendendone l’altro comproprietario.

Altra categoria di particolare importanza che, solitamente, è inserita fra le liberalità non donative è quella dei negozi di rinunzia a diritti reali e a crediti.

Si tratta di atti tipici il cui effetto, anch’esso tipico, è un arricchimento-depauperamento che porta a qualificarli fra le liberalità non donative per via della struttura non contrattuale e della causa abdicativa sicuramente non donativa.

Pure in questo caso, però, il negozio deve essere collocato nel contesto al quale appartiene, per valutare se l’arricchimento-depauperamento sia effettivo perché, qualora la rinunzia rappresenti il corrispettivo di un più ampio accordo, potrebbe assumere carattere traslativo o divenire un negozio bilaterale che integrerebbe un atto solutorio del menzionato accordo o direttamente una donazione esso stesso.

Una figura speciale spesso considerata una liberalità non donativa è l’adempimento del terzo.

In questa evenienza, se si ritiene che possa assumere una propria autonomia rispetto all’operazione complessiva all’interno della quale si colloca, viene in rilievo un negozio tipico ad effetti liberali.

Accanto ai negotia cum donatione e alle rinunzie la dottrina pone, fra le principali liberalità non donative, il contratto in favore di terzo.

Si tratta di una operazione trilatera attributiva che si caratterizza (qualora lo stipulante voglia compiere una liberalità in favore del terzo) per la presenza di un fenomeno di intermediazione patrimoniale, vale a dire per il fatto che l’arricchimento, che beneficia il donatario, proviene dal patrimonio di un soggetto, il promittente, indifferente rispetto al beneficiario medesimo e distinto rispetto a colui che sopporta i costi dell’arricchimento in questione [GATT, 2005, 49 ss.].

Sono presenti, quindi, due rapporti causali, fra loro distinti, detti di provvista e di valuta, il primo dei quali regge l’operazione, caratterizzati dalla presenza di un solo soggetto comune in entrambi (lo stipulante).

Il contratto in favore di terzo rappresenta, per diffusa affermazione in dottrina e come si evince anche dall’esperienza straniera, soprattutto tedesca, il modello per eccellenza di donazione indiretta, in quanto l’arricchimento avviene per una finalità donativa; questa, però, si realizza non direttamente, da donante a donatario, ma apponendo una clausola di deviazione degli effetti in favore di un terzo ad un contratto non donativo, in virtù della quale il bene giunge nel patrimonio del beneficiario da quello di una persona diversa dal beneficiante.

Se il negotium mixtum è un esempio di liberalità non donativa caratterizzata non da una causa, ma da un effetto liberale, nel contratto a favore di terzo tale rapporto è rovesciato, visto che, ad essere realizzato indirettamente, non è l’effetto caratteristico di una donazione, ma la sua causa. Non è, dunque, il risultato che rileva, ma il profilo dell’atto e della struttura, così chiarendosi il motivo per il quale l’art. 809 c.c. contiene un rimando ad entrambi i profili, rientrando nella categoria delle liberalità non donative delle fattispecie diverse in cui l’elemento liberale emerge da entrambi i punti di vista.

Questo caso di donazione attuata indirettamente, caratterizzato dall’irrilevanza causale, sul rapporto fra promittente e stipulante, di quello fra stipulante e terzo, è spesso accostato ad altre figure giuridiche, ove sono coinvolti tre soggetti, peraltro molto differenti, come mandato, negozio fiduciario e trust.

La dottrina non è univoca in ordine alla classificazione quali liberalità atipiche di tali figure.

Infatti, in questi casi, sembra difficile rinvenire una intermediazione patrimoniale paragonabile a quella del contratto in favore di terzo poiché, considerando, ad esempio, il mandato, è evidente che il mandatario non subisce una decurtazione del patrimonio ed il terzo non ha un diritto all’esecuzione dell’atto per il quale il mandato è dato.

Potrebbe, allora, essere meritevole di considerazione l’affermazione di chi sostiene che ricorrerebbe una intermediazione meramente gestoria, essendo le ipotesi in esame riconducibili alla fattispecie del mandato a donare o ad amministrare beni e che, quindi, vi sarebbe una donazione diretta realizzata con una prestazione indiretta.

Sussiste, comunque, contrasto con chi, soprattutto, valorizza il lato soggettivo e l’accordo liberale fra le parti.

A conclusioni non dissimili potrebbe giungersi ove il terzo è un mero esecutore della prestazione, come nella rappresentanza.

Discorso più complesso riguarda la delegazione, l’espromissione, l’accollo e le concessioni di garanzie sia reali che personali.

Quanto alla delegazione, vi è disaccordo in dottrina perché vi è unanimità nell’escludere la delegazione titolata dal novero delle fattispecie liberali, ma non quella astratta. Sembra, però, che, diversamente da ciò che avviene nel contratto in favore di terzo, il rapporto di valuta (e, alla fine, pure quello di provvista) possano rilevare in maniera da fare emergere il rapporto donativo che si vuole attuare.

D’altronde, mentre il contratto in favore di terzo si caratterizza per l’esecuzione indiretta della causa liberale o del contratto di donazione, circostanza che giustifica l’esonero dalle forme di legge dell’operazione, la delegazione presenta solo una esecuzione indiretta della prestazione.

In realtà, tutte queste fattispecie, ove siano viste in un contesto più ampio, difficilmente possono mantenere una autonomia, rappresentando, quindi, mere modalità di esecuzione di donazioni formali e non, esse stesse, liberalità atipiche.

Ciò non deve stupire se si considera che la dottrina tradizionale sostiene che, in questi casi, una liberalità non donativa si avrebbe solo nell’eventualità di una rinunzia al regresso (peraltro, deve segnalarsi che la giurisprudenza e la dottrina tendono ad inquadrare l’accollo nello schema del contratto in favore di terzo).

Ulteriore figura che rientra fra le liberalità non donative è l’intestazione di beni in nome altrui, vale a dire l’acquisto di un bene o diritto da parte di un soggetto con denaro non proprio.

La giurisprudenza è ormai costante nel ravvisarvi una liberalità indiretta, ma la dottrina, pur tendenzialmente orientata in tal senso, è divisa.

Infatti, la fattispecie è oggi ricostruita come un caso di liberalità non donativa risultante da un collegamento negoziale (ne sono controverse le caratteristiche), anche se alcuni autori preferiscono ricondurre le ipotesi in questione ad altri schemi di liberalità, come il contratto in favore di terzo, l’adempimento del terzo, il contratto per persona da nominare o la donazione diretta di denaro cum onere.

La tendenza a considerare le operazioni in esame in via complessiva, guardando all’effettivo risultato giuridico ed economico verificatosi, è espressione di un modo attuale di concepire i fenomeni legali, dal punto di vista non della struttura e dell’atto, ma dell’effetto nelle sfere giuridiche interessate, come si evince pure dall’esame della normativa tributaria, spesso interpretata in questa direzione.

Occorre rilevare, però, che nell’esperienza straniera l’intestazione di beni in nome altrui è trattata come una categoria autonoma di liberalità indirette e che ragionevolmente è stata proprio l’influenza estera ad avere un ruolo nel recente sviluppo dottrinario di tale categoria. Il riferimento al collegamento negoziale richiama proprio la tendenza francese a ricostruire in chiave di collegamento negoziale voluto dalle parti molte delle donations indirectes, nonché la tedesca mittelbare Grundstücksschenkung (donazione indiretta di bene immobile), in cui il carattere indiretto della liberalità in esame dipende dalla mancanza di un rapporto diretto donante-donatario e dalla non coincidenza fra contenuto dell’impoverimento (Entreicherungsgegenstand) del donante e oggetto dell’arricchimento (Bereicherungsgegenstand) del donatario. La mittelbare Schenkung indica una Zuwendung che avviene a titolo di donazione (donandi causa) per accordo delle parti, ma indirettamente in ragione dell’intermediazione di un terzo, e questa sembra la ricostruzione dell’intestazione di beni in nome altrui che sembra essersi imposta.

Ultima categoria degna di nota in dottrina è quella dei fatti materiali produttivi di effetti liberali.

Sembra, però, che la maggioranza degli studiosi veda nel fenomeno delle manifestazioni negoziali, piuttosto che esempi di fonti fattuali di effetti liberali.

3. La vicenda processuale.

La sentenza n. 18725 del 27 luglio 2017 delle Sez. U ha deciso un caso relativo ad un trasferimento di valori mobiliari attuato dal titolare di un conto di deposito titoli per mezzo di un ordine impartito, poco prima del suo decesso, ad un istituto di credito in favore di un beneficiario, anch’egli titolare di un conto presso altra banca.

La vicenda riguarda una fattispecie attributiva triangolare a mezzo banca compiuta a titolo di liberalità ed avente ad oggetto titoli di non modico valore.

Apertasi la successione ab intestato dell’ordinante, la figlia del de cuius ha agito davanti al tribunale contro la beneficiaria del trasferimento chiedendo, per la quota di un terzo a lei spettante sul patrimonio ereditario, la restituzione del valore degli strumenti finanziari in ragione della nullità del negozio attributivo, in quanto privo della forma solenne richiesta per la validità della donazione.

La convenuta si è difesa sostenendo che l’attribuzione doveva essere considerata, in parte, adempimento di obbligazione naturale, giustificata dal legame affettivo che ella aveva instaurato con il de cuius per la cura e l’assistenza prestate nei suoi confronti durante il corso della malattia che lo aveva portato alla morte e, in parte, donazione indiretta.

Il tribunale ha accolto la domanda e dichiarato la nullità della liberalità, distinguendo tra il negozio sottostante, vale a dire l’attribuzione patrimoniale, e l’ordine alla banca. Secondo il giudice, l’ordine alla banca era un negozio astratto, autonomo rispetto ai rapporti inter partes, mentre a rilevare era il negozio tra le parti, che doveva essere qualificato come donazione vera e propria.

Inoltre, il trasferimento non poteva essere ritenuto adempimento di obbligazione naturale, poiché i titoli erano stati attribuiti non per adempiere ad un dovere morale e sociale, ma in considerazione dell’assistenza prestata al de cuius durante la sua malattia, seguendo lo schema della donazione remuneratoria.

La corte di appello, invece, è giunta ad una diversa conclusione e ha accolto il gravame proposto in via principale dalla convenuta in primo grado, rigettando l’originaria domanda attrice.

La corte territoriale ha ricondotto la fattispecie nell’ambito della donazione indiretta, per la cui validità non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza della forma prescritta per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità.

I giudici del gravame hanno considerato che, per integrare la liberalità di cui all’art. 809 c.c., non è indispensabile il collegamento di due negozi, uno fra donante e donatario e l’altro fra donante e terzo che realizza lo scopo-donazione, bastando un solo negozio, con il rispetto delle forme per esso previste.

Essi hanno ritenuto che lo iussum impartito alla banca depositaria fosse idoneo, di per sé, a veicolare lo scopo di liberalità tra il disponente e la beneficiaria.

È stato proposto, quindi, ricorso per cassazione, sulla base di due motivi.

La Sez. 2 è stata chiamata a decidere se la fattispecie attributiva trilaterale verificatasi tra i due soggetti e l’istituto di credito integrasse una donazione tipica, in tal caso nulla per difetto di forma scritta ex art. 782 c.c., ovvero una donazione indiretta.

La Sez. 2 ha ritenuto che l’ordine impartito risultasse difficilmente inquadrabile in un atto negoziale autonomo e sorretto da una propria giustificazione causale, dovendosi collocare nella fase di esecuzione del contratto bancario quale mero atto, sostanzialmente analogo a un pagamento materiale ed ha investito della questione il Primo Presidente.

L’ordinanza di rimessione ha, pertanto, affrontato la tematica degli strumenti mediante i quali potrebbe realizzarsi una donazione indiretta, rappresentando che, nell’esperienza giudiziaria, questa era stata ritenuta sussistere in ipotesi fra loro in apparenza non compatibili.

In particolare, ha osservato che erano state qualificate donazione indiretta:

- una pluralità di negozi tra loro collegati (negozio-mezzo e negozio-fine);

- un negozio unico, per il quale fossero state rispettate le forme per esso previste dalla legge;

- atti non negoziali, consistenti in meri comportamenti positivi od omissivi.

La Sez. 2, perciò, rilevando l’esistenza di un contrasto in dottrina ed in giurisprudenza, ha posto il problema della individuazione degli atti, negoziali e non, riconducibili allo schema dell’art. 809 c.c., relativo agli atti di liberalità. Ad avviso della Sezione rimettente, sarebbe stata opportuna un’analisi unitaria della materia, soprattutto in considerazione delle particolari cautele che occorrono ove un soggetto si privi dei propri beni senza corrispettivo in funzione “trans” o “post mortem”.

4. La decisione: i punti fondamentali.

La questione che le Sez. U hanno esaminato concerne il rapporto fra donazioni (liberalità) dirette ed indirette ed operazioni cd. triangolari, con specifico riferimento a quelle compiute nel settore bancario.

Dopo avere indicato, con una elencazione esemplificativa, ma, comunque, molto interessante, le principali situazioni nelle quali comunemente, in giurisprudenza e dottrina, si discute in ordine alla natura diretta od indiretta di una donazione o liberalità, esse hanno chiarito che, nella fattispecie oggetto del contendere, una donazione indiretta può esservi solo ove si realizzi un fenomeno di intermediazione giuridica, caratterizzato dal fatto che l’istituto bancario assume una posizione di totale autonomia patrimoniale rispetto al soggetto disponente e non di semplice “zona di transito” tra l’ordinante ed il destinatario.

Diversamente, qualora l’ente creditizio ponga in essere una mera intermediazione gestoria, sussiste una donazione diretta (ad esecuzione indiretta), per la quale è imposta la forma dell’atto pubblico, salvo che sia di modico valore.

La decisione in commento ha precisato, quindi, che il trasferimento, attraverso un ordine di bancogiro del disponente di strumenti finanziari dal suo conto di deposito titoli a quello del beneficiario non è donazione indiretta, ma donazione tipica ad esecuzione indiretta poiché l’operazione bancaria tra il donante ed il donatario rappresenta adempimento di un distinto accordo negoziale fra loro concluso e ad essa rimasto esterno, il quale solo realizza il passaggio immediato di valori da un patrimonio all’altro.

Fondamentalmente è stato evidenziato che, in presenza di operazioni cd. triangolari, l’ipotesi classica di donazione indiretta è data dal contratto in favore di terzo.

In motivazione le Sez. U hanno escluso, perciò, che, nel caso in esame, un simile contratto fosse configurabile, considerato che il patrimonio della banca non era direttamente coinvolto nel processo attributivo e che il beneficiario non acquistava alcun diritto verso l’istituto di credito in seguito al contratto intercorso fra quest’ultimo e l’ordinante.

Affinché possa ipotizzarsi un contratto in favore di terzo in ambito bancario è, infatti, necessario, che l’istituto di credito subisca un effettivo depauperamento patrimoniale in ragione dell’accordo concluso con il disponente.

5. Considerazioni finali.

Da quanto sinora esposto emerge l’esigenza di distinguere chiaramente la donazione dalla liberalità non donativa, rispettando la dicotomia esistente fra art. 769 c.c. ed 809 c.c.

Nel nostro ordinamento che, in questo, si differenzia in parte da altre esperienze giuridiche, la donazione diretta si caratterizza per la sua causa e per il fatto che, a tale causa, è ricondotta una particolare forma.

La tipicità della causa della donazione e del relativo animus, che tendono a sovrapporsi, ha indotto la dottrina più recente a chiedersi se non sia opportuno rimarcare la differenza fra donazione tipica e liberalità non donative, escludendo ogni coincidenza fra la causa e l’animus della prima e quelli delle seconde.

In particolare, si è affermato che il fenomeno liberale non donativo andrebbe individuato facendo riferimento alla semplice verificazione di un effetto di arricchimento-depauperamento che coinvolga un soggetto beneficiante ed uno beneficiario.

La presenza di tale effetto andrebbe accertata esaminando il contesto (ad esempio, quello commerciale) in cui si pone ogni singola operazione.

I profili da ultimo sottolineati rappresentano le ultime tendenze della discussione giuridica in tema di liberalità e meriterebbero, probabilmente, un futuro approfondimento da parte del giudice della legittimità che potrebbe concentrarsi:

- sulla questione della separazione fra la causa e l’animus propri della donazione tipica e quelli della liberalità indiretta;

- sulla rilevanza da assegnare all’arricchimento-depauperamento del donante e del donatario per accertare la ricorrenza di una donazione indiretta.

Altro aspetto di non poco conto è rappresentato dal tentativo, operato in dottrina ed accennato pure nella decisione in commento, di redigere una elencazione delle figure principali riconducibili alle liberalità non donative.

In tale elencazione sembrano rientrare le seguenti fattispecie, considerate nella loro autonomia e prescindendo da alcuni atti tipici e negozi di minore rilievo:

- i negotia mixta cum donatione e, in generale, le operazioni negoziali nelle quali l’effetto liberale è rappresentato dalla presenza di prestazioni corrispettive fra loro notevolmente sperequate;

- le rinunzie a diritti reali e a crediti;

- il contratto in favore di terzi, quale ipotesi di donazione indiretta per eccellenza realizzata nell’ambito di una operazione trilatera;

- l’adempimento del terzo;

- l’intestazione di beni in nome altrui.

Pare, invece, che possano escludersi dalla categoria delle liberalità non donative gli atti posti in essere per realizzare un interesse patrimoniale ed i fatti giuridici, avendo la categoria in questione carattere solo negoziale.

Una notazione a parte meritano le operazioni bancarie, le quali paiono rappresentare, anche secondo l’orientamento dottrinario prevalente, in linea di massima, casi di donazioni dirette realizzate tramite prestazione indiretta.

Infatti, l’istituto di credito bancario non opera in autonomia rispetto al donante, né dispone del proprio patrimonio o, comunque, non subisce i costi economici dell’operazione, tutti elementi che, di solito, caratterizzano le liberalità non donative in presenza di operazioni con tre parti.

La banca sembra comunemente agire come un semplice mandatario del donante, nel nome o per conto del quale interviene, senza assumere il controllo giuridico del denaro o dei titoli, che restano riconducibili, giuridicamente se non, almeno, economicamente, sempre alla sfera giuridica del cliente correntista.

L’operazione bancaria è, quindi, un semplice passaggio tecnico all’interno di un accordo più complesso che coinvolge donante e donatario e di cui è mero atto esecutivo o solutorio privo di ogni indipendenza.

Vi sono autori che riconducono alcuni contratti bancari allo schema del contratto in favore di terzo.

Senza che sia necessario criticare questa affermazione in senso assoluto, si deve osservare che l’assimilazione alla figura generale del contratto in favore di terzo, per avere delle conseguenze nella materia delle liberalità, nel senso di integrare un esempio di donazione indiretta, richiede che:

- si verifichi un fenomeno di intermediazione patrimoniale e non solo gestoria;

- il bene donato fuoriesca dal patrimonio di soggetto distinto dal donante, il quale, però, deve sopportare i costi finali del trasferimento;

- il terzo acquisti direttamente per solo effetto del contratto fra promittente e stipulante un proprio diritto alla prestazione che costituisce esecuzione del contratto bancario.

Parte della dottrina, evidentemente influenzata dall’esperienza straniera, afferma che, pur venendo in esame delle donazioni dirette, l’operazione bancaria integrerebbe i requisiti formali previsti dalla legge.

Questa impostazione, che ricorda quella, diffusa soprattutto negli scorsi decenni, secondo cui il trasferimento di un titolo di credito, nel rispetto della formalità richieste dalla legge per la sua circolazione, avrebbe rappresentato valida donazione tipica, si potrebbe prestare a rilievi critici.

Infatti, può essere accolta in sistemi, come quelli francese, inglese o statunitense, ove la donazione di beni mobili può perfezionarsi tramite traditio, prescindendo dal valore della res, ma non in un ordinamento come il nostro, nel quale la donazione manuale è valida solo quando concerna cose di modico valore.

. Bibliografia

Bibliografia

Caredda V., Le liberalità diverse dalla donazione, Torino, 1996, 114-194;

Gatt L., La liberalità, 1, Torino, 2002, 165 ss.;

Gatt L., La liberalità, II, Torino, 2005, 49 ss.;

Palazzo A., Le donazioni, in Commentario Schlesinger, Milano, 2000, 208 ss.;

Torrente A., La donazione, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2006, 24 ss.

  • OCCUPAZIONE E LAVORO
  • Corte di giustizia (UE)

CAPITOLO XIV

NON DISCRIMINAZIONE E LAVORO INTERMITTENTE FRA CORTE DI CASSAZIONE E CORTE DI GIUSTIZIA: LA VICENDA ABERCROMBIE & FITCH

(di Valeria Piccone )

Sommario

1 Premessa. - 2 La centralità del principio di uguaglianza e non discriminazione nel diritto dell’Unione Europea. - 3 Il caso. - 4 Il rinvio pregiudiziale del giudice di legittimità alla Corte di giustizia e la decisione di quest’ultima. - 5 La sentenza emessa dalla Sezione Lavoro in sede di rinvio (Cass. n. 4223 del 21 febbraio 2018).

1. Premessa.

L’interpretazione del diritto dell’Unione è competenza esclusiva della Corte di giustizia ex art. 267 TFUE e tale competenza si estende pacificamente anche alla valutazione delle eventuali deroghe da parte di una normativa nazionale in relazione a specifici obiettivi di politica sociale riconducibili alla trama dei Trattati, al trattamento voluto in via generale dalla disciplina sovranazionale, nel caso di specie l’uguaglianza nelle condizioni di lavoro.

Ad esattamente due mesi dalla Global Starnet (Corte giust. 21 dicembre 2017) e poco più da Corte Cost. n. 269 del 14 dicembre, le motivazioni di Cass. n. 4223/2018 nella vicenda Abercrombie & Fitch, pongono in evidenza immediatamente il nodo centrale dei rapporti fra giudice nazionale e giudice dell’Unione, quello insopprimibile, al di là ed oltre ogni querelle in tema di competenze.

Due, allora, le premesse imprescindibili per chi si accinga ad affrontare i nodi posti dalla normativa nazionale sul lavoro intermittente per come declinata nella vicenda decisa dalla Corte di giustizia il 19 luglio scorso nella causa C -143/16, Abercrombie & Fitch; la prima: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione rappresenta ormai la cartina di tornasole circa lo stato di salute dei diritti fondamentali nell’ordinamento interno. Ne consegue che, posta l’estensione dell’applicazione della Carta in tutti gli ambiti che in qualche misura presentino punti di contatto con il diritto dell’Unione, sicuramente ogni settore riconducibile alla solidarietà sociale può oggi ritenersi scandagliabile nell’ottica del rispetto della Carta dei diritti fondamentali.

La seconda: la portata “centrale” del principio di non discriminazione nell’ambito del diritto dell’Unione, per come chiarita in questo breve commento, rende sicuramente meno “drammatica” proprio la questione inerente l’applicazione della Carta nel diritto interno.

2. La centralità del principio di uguaglianza e non discriminazione nel diritto dell’Unione Europea.

Muoviamo proprio da questa seconda premessa. Nel cuore delle conclusioni presentate dall’Avvocato Generale Michal Bobek il 23 marzo scorso nella vicenda in questione la centralità della Carta nel suo dialogo incessante con la tutela del principio di uguaglianza emerge in tutta la sua portata.

Osserva l’Avvocato Generale che l’opzione tesa ad assumere la direttiva come ambito di analisi principale non preclude in alcun modo la contestuale applicabilità dell’art. 21, paragrafo 1, della Carta. Infatti, fintantoché le disposizioni in questione rientrano nell’ambito del diritto dell’Unione attraverso l’applicazione della direttiva 2000/78, l’ambito di tutela della Carta stessa trova applicazione in forza del suo art. 51, paragrafo 1. Aggiunge l’Avvocato Generale che, quindi, il rapporto tra l’art. 21, paragrafo 1, della Carta e la direttiva 2000/78 non è di reciproca esclusione. Si tratta, piuttosto, di un rapporto di attuazione e complementarietà atteso che la direttiva rappresenta una specifica espressione del principio generale sancito dalla Carta, tanto che il contesto di analisi rispettivamente fornito da entrambe è così destinato ad essere similare. Inoltre, ove opportuno, l’approccio seguito in entrambe dovrebbe perseguire la medesima logica, al fine di garantire un approccio coerente al controllo giurisdizionale del diritto dell’Unione e del diritto nazionale nell’ambito del divieto di discriminazione in base all’età nel settore dell’occupazione. Soprattutto, l’Avvocato Generale precisa che il principio di non discriminazione, quale sancito dall’art. 21, paragrafo 1, della Carta, resta applicabile anche a fronte di una contestuale applicazione della direttiva 2000/78. Ed è in due situazioni, segnatamente, che l’art. 21, paragrafo 1, della Carta mantiene il proprio rilievo: in primo luogo, le sue disposizioni restano pienamente applicabili ai fini di una potenziale coerente interpretazione del diritto derivato dell’Unione europea e del diritto nazionale rientrante nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Ma, soprattutto, secondo il parere dell’Avvocato Generale, le disposizioni della Carta rappresentano il criterio di riferimento ultimo (proprio la cartina di tornasole cui si faceva cenno) per la validità del diritto derivato dell’Unione. Infine, la «vita autonoma» del principio della parità di trattamento come principio generale di diritto o come diritto fondamentale sancito dalla Carta assume particolare rilievo ogni qualvolta la possibilità di ricorrere alla direttiva risulti ostacolata dal fatto che la controversia riguarda soggetti privati. Per la prima volta possiamo dire che quel concetto di “vita autonoma” espresso dalla Corte nella sentenza Kucukdevci trova una sua chiara conformazione nelle conclusioni dell’Avvocato generale.

Ma procediamo con ordine.

3. Il caso.

Nella vicenda Abercrombie il ricorrente era stato assunto dalla società convenuta con “contratto a chiamata a tempo determinato” di iniziali quattro mesi e poi prorogato in relazione al fatto che alla data di assunzione aveva meno di 25 anni ed era disoccupato; dall’1/1/20012 il contratto c.d. “intermittente” era stato convertito in contratto a tempo indeterminato senza specificazione delle ipotesi legittimanti previste dal D.lgs. 276/03; terminato il 26/7/2012 il piano di lavoro, non era stato più inserito nella programmazione e, a seguito di scambi di e-mail gli era stato comunicato che avendo egli compiuto 25 anni ed essendo venuto meno il requisito soggettivo dell’età, era da considerarsi cessato alla suddetta data. Il giudice di primo grado aveva ritenuto l’improponibilità delle domande di declaratoria di nullità e/o inefficacia del licenziamento intimato – con richiesta di condanna alle conseguenze di cui all’art. 18 st.lav. − respingendo quelle dirette ad accertare la natura discriminatoria del comportamento tenuto dalla società e la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato ordinario a tempo indeterminato.

La Corte di appello di Milano ha accolto l’impugnazione ritenendo la proponibilità di tutte le domande avanzate sul presupposto che la domanda diretta ad accertare il comportamento discriminatorio della società resistente non era, in realtà, domanda avente ad oggetto l’impugnazione del licenziamento, che sarebbe stata assoggettata, secondo parte appellante, al rito speciale di cui alla l. n. 92/2012, bensì domanda diretta ad ottenere la rimozione degli effetti della discriminazione, le cui conseguenze erano quelle di cui all’art. 18 St. Lav. e, cioè, la rimessione in servizio.

Per quanto concerne il comportamento discriminatorio, la Corte sottolinea come l’unico requisito rilevante al momento dell’assunzione del ricorrente ai sensi dell’art. 34 d.l.s. n. 276/03 fosse quello anagrafico (meno di 25 anni o più di 45). Essa premette che la direttiva 2000/78/CE, al punto 25 delle premesse, rileva che il divieto di discriminazione basata sull’età costituisce un elemento essenziale per il perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione, ma che, tuttavia, in talune circostanze, delle disparità di trattamento in funzione dell’età possono essere giustificate richiedendo disposizioni specifiche che possono variare a seconda della situazione degli stati membri con riguardo a giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, purché i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. La Corte richiama a questo punto Mangold e Kucukdeveci nella parte in cui hanno statuito il carattere di principio generale del diritto comunitario della non discriminazione in ragione dell’età ed il compito del giudice nazionale, chiamato a dirimere una controversia, di assicurare la tutela che il diritto comunitario attribuisce ai singoli, oltre ad aver riconosciuto la possibilità per gli Stati membri di predisporre contratti divergenti da quelli ordinari a tempo determinato pur in presenza di profili svantaggiosi per il lavoratore, al fine di favorire l’occupazione di soggetti con difficoltà di accesso al lavoro e purché lo strumento utilizzato non fosse sproporzionato rispetto alla finalità da realizzare, richiedendo il rispetto del principio di proporzionalità che qualsiasi deroga ad un diritto individuale prescriva di conciliare, per quanto possibile, il principio di parità di trattamento con il fine perseguito.

Il pregnante riconoscimento dei divieti di discriminazione come espressione di un principio generale di uguaglianza, quale sancito soprattutto dalla seconda decisione con il suo richiamo all’art. 6 TUE e alla Carta di Nizza, dotata dello stesso valore giuridico dei Trattati, fa si, secondo la Corte, che il principio di uguaglianza viva “di una vita propria” che prescinde dai comportamenti attuativi o omissivi degli Stati membri. Osserva la Corte come dalla natura precisa ed incondizionata di tale principio discenda la conseguenza che anche le specificazioni del principio stesso possano spiegare i propri effetti su tutti i consociati ed essere, dunque, invocate dai privati verso lo Stato nonché verso altri privati.

La Corte di Giustizia, infine, precisa la Corte, ha evidenziato che l’art. 6 della direttiva 2000/78 impone, per rendere accettabile un trattamento differenziato in base all’età, due precisi requisiti dettati dalla finalità legittima e dalla proporzionalità e necessità dei mezzi utilizzati per il perseguimento degli obiettivi, requisiti, tuttavia, mancanti nel caso di specie, essendosi limitato il legislatore nazionale ad attribuire rilevanza esclusivamente all’età, allo scopo di introdurre un trattamento differenziato, senza alcuna altra condizione soggettiva del lavoratore (per es. disoccupazione protratta da un certo tempo o assenza di formazione professionale) e non avendo esplicitamente finalizzato tale scelta ad alcun obiettivo individuabile. La eliminazione della necessità che il lavoratore fosse in stato di disoccupazione (se minore di 25 anni) ovvero che fosse espulso dal ciclo produttivo o iscritto nelle liste di collocamento o mobilità (se di età superiore a 45 anni) frutto delle modifiche apportate all’impianto originario dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in l. 14 maggio 2005, n. 80, ha determinato l’intervento correttivo della Corte.

Il mero requisito dell’età, quindi, secondo la Corte, non può giustificare l’applicazione di un contratto pacificamente più pregiudizievole, per le condizioni che lo regolano, di un contratto a tempo indeterminato, e la discriminazione che si determina rispetto a coloro che hanno superato i 25 anni di età non trova alcun ragionevole fondamento. Analogamente, nessuna giustificazione è ravvisabile nel fatto che, per il solo compimento del venticinquesimo anno, il contratto debba essere risolto.

Alla luce di tali argomentazioni, quindi, secondo il giudice d’appello di Milano, si evidenzia il contrasto tra quanto disposto dal comma 2 dell’art. 34 del d.lgs. n. 276 del 03 ed i principi affermati dalla direttiva 2000/76, la cui efficacia diretta non può essere messa in discussione, in quanto espressione di un principio generale dell’Unione Europea.

Ritenuto, quindi, il contenuto discriminatorio della norma considerata, la Corte ha censurato il comportamento della società appellata che aveva proceduto all’assunzione dell’appellante con un contratto intermittente esclusivamente sulla base dell’età anagrafica e condannato la Abercrombie a rimuovere gli effetti della sua condotta discriminatoria e, ritenuto costituito tra le parti un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato con inquadramento al sesto livello e orario part time secondo quanto affermato dalle parti stesse e che tale contratto non era mai stato validamente risolto, ha condannato la società appellata a riammettere l’appellante nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno, quantificato sulla base della retribuzione media percepita dalla data della risoluzione del rapporto a quella della sentenza.

Sembra configurarsi qualcosa di simile a ciò che avviene, mutatis mutandis, nei contratti a tempo determinato. Non è possibile in questa sede soffermarsi sugli approdi della importante sentenza delle Sezioni Unite n. 5072/2016 sulla “compatibilità comunitaria” e la connessa responsabilità da violazione del diritto dell’Unione, ma può essere opportuno sottolineare che, riguardando la più recente disciplina che concerne il contratto a termine sotto la lente di ingrandimento europea ed alla luce della giurisprudenza Mascolo, considerata la liberalizzazione nell’apposizione del termine che lo caratterizza, perché la normativa interna possa considerarsi compatibile con i principi dell’Unione, il contratto dovrà essere “strutturalmente” a termine e, cioè, l’apposizione del termine deve rispondere ad esigenze ontologiche del contratto, in quanto volto a fronteggiare esclusivamente esigenze temporanee.

Nel caso che qui ci interessa, ancora una volta l’interpretazione conforme conduce all’accantonamento della norma interna configgente e si sostanzia, nonostante la Corte non vi faccia alcun riferimento, nella disapplicazione della norma stessa. Come è stato osservato la Corte di Milano ha escluso il rinvio pregiudiziale perché la Corte di Giustizia aveva già ampiamente chiarito portata e limiti della discriminazione diretta in base all’età.

Il rapporto osmotico fra interpretazione conforme e disapplicazione, quando si parla di uguaglianza, appare di grande evidenza nella decisione della Corte d’Appello: la Corte richiama più volte l’obbligo di interpretazione adeguatrice e ne percorre le strade per assicurare un risultato conforme al diritto dell’Unione, risultato, tuttavia, che le appare alla fine impossibile, tanto da indurla ad optare per la disapplicazione della norma interna configgente ritenendo, quindi, costituito fra le parti un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Nonostante il nucleo della sentenza, quello che concerne il carattere discriminatorio del regolamento contrattuale considerato, appaia molto succinto nella motivazione della Corte d’Appello, esso non lascia adito a dubbi: il mero requisito dell’età, non accompagnato da ulteriori specificazioni, non può giustificare l’applicazione di un contratto pacificamente pregiudizievole per il lavoratore. Gli obiettivi di politica del lavoro risultano estremamente confusi nel caso considerato − diremmo, a differenza di quanto avveniva con la legge Hartz nel caso Mangold − tanto da indurre la Corte d’Appello a ritenere insussistenti le ragioni giustificatrici della deroga al divieto di discriminazione per l’assenza di qualsivoglia richiamo ad una condizione soggettiva del lavoratore.

La sentenza è stata oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione. La società condannata, infatti, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 18 l. 300/70 sotto diversi profili, ha dedotto che erroneamente parte istante aveva azionato l’art. 28 d.lgs. 150 del 2011 e 702-bis c.p.c. e, cioè la procedura speciale prevista in ambito antidiscriminatorio, mentre avrebbe dovuto agire mediante ricorso al procedimento di cui all’art. 1, commi 48 e segg. della legge 28 giugno 2012, n. 92; sul piano sostanziale, ha dedotto la violazione dell’art. 34, comma 2, d.lgs. n. 276/03, della direttiva 2000/78, nonché del principio generale comunitario di non discriminazione, poiché nella specie la normativa favorisce i lavoratori in ragione della loro età e non viceversa essendo, quindi, sovrapponibile alla normativa dell’Unione. Chiedeva, poi, il ricorrente il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia deducendo, infine, in punto risarcitorio, l’esclusiva possibilità di ottenere il risarcimento del danno in luogo della conversione del contratto e, comunque, che il risarcimento del danno non avrebbe potuto essere commisurato alla media delle retribuzioni corrisposte. La Corte richiama preliminarmente la propria consolidata giurisprudenza secondo cui l’inesattezza del rito non determina la nullità della sentenza salvo che la parte, in sede di impugnazione, indichi uno specifico pregiudizio processuale derivante dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa ed apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte.

I giudici di legittimità osservano, a questo punto, che l’art. 34 potrebbe porsi in conflitto con il principio di non discriminazione per età che deve essere considerato un principio generale dell’Unione cui la direttiva 2000/78 da espressione concreta e che è sancito anche dall’art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. L’art. 6, n. 1, primo comma, infatti, della predetta Direttiva 2000/78, enuncia che una disparità di trattamento in base all’età non costituisce discriminazione laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari; la formula dell’art. 34 vigente all’epoca dei fatti di causa, tuttavia, mostra di non contenere alcuna esplicita ragione rilevante ai sensi dell’art. 6, n. 1, primo comma, della direttiva 2000/78.

4. Il rinvio pregiudiziale del giudice di legittimità alla Corte di giustizia e la decisione di quest’ultima.

Con ordinanza del 29 febbraio 2016, la Corte di legittimità ha, quindi, disposto, ai sensi dell’art. 267 del TFUE di chiedere, in via pregiudiziale, alla Corte di giustizia se la normativa nazionale di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 276 del 2003, secondo cui il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età, sia contraria al principio di non discriminazione in base all’età, di cui alla Direttiva 2000/78 e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 21, n. 1).

La vicenda è passata allora nelle mani della Corte di Giustizia, cui è stato rimesso il compito di chiarire se effettivamente nel caso in esame si sia verificato un intollerabile vulnus al principio generale di uguaglianza che imponesse la rimozione della norma interna con esso contrastante.

Con sentenza della prima Sezione del 19 luglio scorso, nella causa C-143/16 la Corte di giustizia fornisce la risposta attesa.

La Corte muove, come sempre, dall’art. 1 della Direttiva 2000/78, che stabilisce un quadro generale per la lotta alle discriminazioni, per poi passare ad esaminare compiutamente il diritto interno onde rispondere alla questione pregiudiziale posta dalla Corte di cassazione circa il se la normativa nazionale di cui all’art. 34 del decreto legislativo n. 276/2003, secondo la quale il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età, sia contraria al principio di non discriminazione in base all’età, di cui alla Direttiva 2000/78 e all’art. 21, paragrafo 1 della Carta.

Preliminarmente i giudici di Lussemburgo richiamano la propria giurisprudenza secondo cui, quando adottano misure rientranti nell’ambito di applicazione della Direttiva 2000/78, nella quale trova espressione concreta, in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, il principio di non discriminazione fondata sull’età, ora sancito dall’art. 21 della Carta, gli Stati membri e le parti sociali devono agire nel rispetto di tale direttiva (fra le altre, il richiamo è alla recente Corte di giustizia del 21 dicembre 2016, Bowman, C-539/15).

Il punto centrale diventa, quindi, verificare se una disposizione quale quella di cui al d.lgs. 276/2003 comporti una disparità di trattamento basata sull’età, ai sensi dell’art. 2 della direttiva 2000/78.

Osserva la Corte che per «principio della parità di trattamento» si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’art. 1 della medesima direttiva. L’art. 2, paragrafo 2, lettera a), della Direttiva 2000/78 precisa che, ai fini dell’applicazione dell’art. 2, paragrafo 1, della stessa, sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’art. 1 della direttiva, una persona è trattata in modo meno favorevole di un’altra in una situazione analoga.

Interessante la ricostruzione della Corte circa la figura del lavoratore (che, quindi, possa confluire nella normativa garantistica in esame) alla luce della normativa europea; la Corte precisa che, ai sensi dell’art. 45 TFUE, secondo una giurisprudenza europea costante, “tale nozione ha portata autonoma e non dev’essere interpretata restrittivamente”. Pertanto, deve essere qualificata come «lavoratore» ogni persona che svolga attività reali ed effettive, restando escluse quelle attività talmente ridotte da risultare puramente marginali e accessorie. La caratteristica del rapporto di lavoro è, secondo tale giurisprudenza, la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in relazione alle quali riceva una retribuzione (il richiamo è, in primis, alla nota sentenza del 3 luglio 1986, Lawrie-Blum, 66/85).

La Corte evidenzia che occorre vengano presi in considerazione elementi relativi non solo alla durata del lavoro e al livello della retribuzione, ma anche all’eventuale diritto a ferie retribuite, alla continuità della retribuzione in caso di malattia, all’applicabilità al contratto di lavoro di un contratto collettivo, al versamento di contributi e, nel caso, alla natura di questi ultimi (v., in tal senso, Corte Giust. 4 febbraio 2010, Genc, C-14/09).

Ancora una volta, tuttavia, nonostante la Corte affermi che verosimilmente spetta all’interessato la qualifica di lavoratore, viene chiarito che spetta al giudice del rinvio – che è l’unico ad avere conoscenza approfondita e diretta della controversia – verificare se effettivamente tale opzione possa essere confermata.

Passando più direttamente all’esame della questione inerente la discriminazione, la Corte afferma che il decreto legislativo n. 276/2003 ha introdotto due diversi regimi, non solo per l’accesso e le condizioni di lavoro, ma anche per il licenziamento dei lavoratori intermittenti, in funzione della fascia di età alla quale detti lavoratori appartengono. Infatti, nel caso di lavoratori di età compresa tra i 25 e i 45 anni, il contratto di lavoro intermittente può essere concluso solo per l’esecuzione di prestazioni a carattere discontinuo o intermittente, secondo le modalità specificate dai contratti collettivi e per periodi predeterminati, mentre, nel caso di lavoratori di età inferiore ai 25 anni o superiore ai 45, la conclusione di un simile contratto di lavoro intermittente non è subordinata ad alcuna di tali condizioni e può avvenire «in ogni caso», e i contratti conclusi con lavoratori di età inferiore ai 25 anni cessano automaticamente quando i medesimi compiono 25 anni.

Ritiene quindi la Corte che, per l’applicazione di disposizioni come quelle di cui al procedimento in esame, la situazione di un lavoratore licenziato in ragione del solo compimento dei 25 anni di età è oggettivamente comparabile con quella dei lavoratori che rientrano in un’altra fascia di età.

Ne consegue che la disposizione considerata, nella parte in cui prevede che un contratto di lavoro intermittente possa essere concluso «in ogni caso» con un lavoratore di età inferiore a 25 anni e cessi automaticamente quando il lavoratore compie 25 anni, introduce una disparità di trattamento basata sull’età, ai sensi dell’art. 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78.

Ma il vero nodo gordiano è ora stabilire se tale disparità di trattamento possa ritenersi giustificata.

È la stessa Direttiva 2000/78, all’art. 6, paragrafo 1, ad affermare che gli Stati membri possono prevedere che disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

Il richiamo è, quindi, all’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati membri, non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo (sul punto si veda Corte Giust. 11 novembre 2014, Schmitzer, C-530/13).

La flessibilità del mercato del lavoro, quale strumento per incrementare l’occupazione, al centro, secondo la Corte, della scelta politica operata dal legislatore italiano; in particolare, la facoltà accordata ai datori di lavoro di concludere un contratto di lavoro intermittente «in ogni caso» e di risolverlo quando il lavoratore di cui trattasi compia 25 anni di età ha l’obiettivo, secondo quanto sostenuto dalla difesa, di favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro. Secondo la Corte, come sottolineato dal Governo, l’assenza di esperienza professionale, in un mercato del lavoro in difficoltà come quello italiano, è un fattore che penalizza i giovani. D’altro canto, la possibilità di entrare nel mondo del lavoro e di acquisire un’esperienza, anche se flessibile e limitata nel tempo, può costituire un trampolino verso nuove possibilità d’impiego.

La Corte ritiene di valorizzare il passaggio della difesa nazionale incentrato sul rilievo che assume, per i giovani, un primo accesso al mercato del lavoro anche se non su base stabile. Si tratterebbe, quindi, di fornire loro una prima esperienza, che possa successivamente metterli in una situazione di vantaggio concorrenziale sul mercato del lavoro. Conseguentemente, la disposizione sarebbe relativa ad uno stadio precedente al pieno accesso al mercato del lavoro.

Nodale l’essere rivolte tali agevolazioni ai giovani alla ricerca di un primo impiego e, cioè, ad una delle categorie di popolazione più esposte al rischio di esclusione sociale.

Viene rammentato, quindi, che, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, secondo comma, lettera a), della Direttiva 2000/78, la disparità di trattamento può consistere nella «definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori più anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi».

Secondo la Corte assume rilievo incontestabile la circostanza che la promozione delle assunzioni costituisce una finalità legittima di politica sociale e dell’occupazione degli Stati membri, in particolare quando si tratta di favorire l’accesso dei giovani all’esercizio di una professione (sul punto, in particolare, Corte Giust. 21 luglio 2011, Fuchs e Köhler, C-159/10 e C-160/10). La stessa giurisprudenza europea aveva già affermato, d’altro canto, che l’obiettivo di favorire il collocamento dei giovani nel mercato del lavoro onde promuovere il loro inserimento professionale e assicurare la protezione degli stessi può essere ritenuto legittimo ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 (Corte Giust. 10 novembre 2016, de Lange, C-548/15) ed in particolare come rappresenti una finalità legittima l’agevolazione dell’assunzione di giovani lavoratori aumentando la flessibilità nella gestione del personale (non può non richiamarsi, in tal senso, Corte Giust. 19 gennaio 2010, Kücükdeveci, C-555/07).

Conclude, quindi, la Corte, che la disposizione nazionale oggetto d’esame, avendo la finalità di favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro, persegue una finalità legittima, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.

Occorre tuttavia un ultimo passaggio: verificare se i mezzi adoperati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

Relativamente all’adeguatezza, si rileva che una misura che autorizza i datori di lavoro a concludere contratti di lavoro meno rigidi, tenuto conto dell’ampio potere discrezionale di cui godono gli Stati membri in materia, può essere considerata come idonea a ottenere una certa flessibilità sul mercato del lavoro, in considerazione della probabile tendenza delle aziende ad essere sollecitate dall’esistenza di uno strumento poco vincolante e meno costoso rispetto al contratto ordinario e, quindi, incentivate ad assorbire maggiormente la domanda d’impiego proveniente da giovani lavoratori.

Infine, in ordine alla necessarietà della disposizione considerata si osserva, sposando le conclusioni della società Abercrombie, che, in un contesto di perdurante crisi economica e di crescita rallentata, la situazione di un lavoratore che abbia meno di 25 anni e che, grazie ad un contratto di lavoro flessibile e temporaneo, quale il contratto intermittente, possa accedere al mercato del lavoro è preferibile rispetto alla situazione di colui che tale possibilità non abbia e che, per tale ragione, si ritrovi disoccupato. Secondo il governo italiano, d’altro canto, dette forme flessibili di lavoro sono necessarie per favorire la mobilità dei lavoratori, rendere gli stipendi più adattabili al mercato del lavoro e facilitare l’accesso a tale mercato delle persone minacciate dall’esclusione sociale, eliminando allo stesso tempo le forme di lavoro illegali, mentre il massimo accesso a tali forme agevolate può essere possibile soltanto se non se ne garantisce la stabilità.

Le tutele che accompagnano le misure, e, soprattutto, l’impossibilità di assegnare al lavoratore intermittente un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte, confermano ulteriormente la adeguatezza della scelta.

Valorizzando, quindi, l’ampio margine discrezionale riconosciuto agli Stati membri non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e dell’occupazione, ma, altresì, nella definizione delle misure atte a realizzarlo, la Corte dichiara che l’art. 21 della Carta nonché l’art. 2, paragrafo 1, l’art. 2, paragrafo 2, lettera a), e l’art. 6, paragrafo 1, della Direttiva 2000/78 devono essere interpretati nel senso che essi “non ostano a una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari”.

La valutazione della Corte è proprio quella di necessità a appropriatezza dell’intervento indagata dalla Corte d’Appello di Milano. Le conclusioni, tuttavia, sono opposte. La lacunosità e la sofferenza della normativa interna non ostano, tuttavia, secondo i giudici di Lussemburgo, al perseguimento di quegli obiettivi di politica del lavoro a sostegno dei giovani che hanno condotto alla previsione di un accesso agevolato a determinati tipi di negozio, unitamente a quella di un recesso agevolato dallo stesso.

5. La sentenza emessa dalla Sezione Lavoro in sede di rinvio (Cass. n. 4223 del 21 febbraio 2018).

In esito alla decisione sul rinvio pregiudiziale, la questione è tornata allora dinanzi alla Sezione Lavoro della Corte di cassazione che, alla luce della interpretazione della Corte di giustizia, con la decisione n. 4223 del 2018 ha ritenuto fondato, accogliendolo, il secondo motivo del ricorso proposto dalla società Abercrombie con cui era stato dedotto l’errore della Corte d’appello nel ritenere violato il principio di non discriminazione per età così come sancito dalla Direttiva 2000/78/CE e dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Il Collegio esordisce evidenziando che la CGUE ha offerto una risposta univoca ed esaustiva ai quesiti formulati in sede di rinvio, nell’escludere che le norme di fonte UE ostino ad una disposizione nazionale come quella oggetto del procedimento principale che autorizza la conclusione di contratti di lavoro con giovani infraventicinquenni.

La Corte di cassazione prende atto di tale conclusione e dell’obiettivo principale e specifico della disposizione controversa come indicato dal Governo italiano, in quanto diretto non a consentire ai giovani un accesso al mercato del lavoro su base stabile, bensì unicamente a riconoscere loro una prima possibilità di accesso a detto mercato, onde garantire una prima esperienza che possa successivamente porli in una situazione di vantaggio concorrenziale sul mercato del lavoro: una fase, quindi, antecedente rispetto al pieno accesso al mercato del lavoro.

La Corte di cassazione allora, alla luce dell’art. 267 TFUE e dell’obbligo di collaborazione sancito dall’art. 4, comma terzo, TUE in base al quale gli Stati membri adottano ogni misura atta a garantire l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione (disposizione, questa, su cui anche torneremo fra poco), nonché dello stesso art. 19 TUE, non può che attenersi a quanto accertato dalla Corte di giustizia, non avendo il potere di darne una interpretazione diversa, in quanto il giudizio di rinvio non si configura come una sede nella quale sia possibile contestare od impugnare quanto deciso dalla Corte di giustizia.

Nell’esaminare, poi, le censure avanzate dalla difesa del lavoratore, il Collegio esclude la possibilità di ricorrere nuovamente in via pregiudiziale alla Corte di giustizia, per avere quest’ultima esaminato tutti gli aspetti rilevanti in sede sovranazionale della vicenda e ritenuto la disposizione oggetto di censura “appropriata e necessaria”. Ma il Collegio ritiene, altresì, di disattendere anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, alla luce dell’art. 3 Cost., sottopostale per difetto di ragionevolezza della previsione di estinzione del rapporto. A prescindere dalla genericità della prospettazione, che si limita a far valere l’irragionevolezza di un trattamento differenziato a cagione delle “condizioni personali” dei giovani, fra le quali rientrerebbe l’età, il Collegio evidenzia ancora una volta come la deroga al principio della parità di trattamento sia giustificata da finalità di natura sociale come previsto direttamente dalla Direttiva 2000/78/CE escludendo i dedotti profili discriminatori.

Non vi sono ragioni, afferma il Collegio, per ritenere che la Carta costituzionale offra una tutela antidiscriminatoria più incisiva di quella derivante dalle fonti sovranazionali, soprattutto alla luce delle più recenti evenienze legislative, volte a rafforzare le politiche e gli strumenti di contrasto alla discriminazione sul lavoro, facendone un momento prioritario di regolazione da parte dell’Unione, oltre che oggetto di supervisione mediante l’Agenzia per i diritti fondamentali e i periodici Report della Commissione e del Parlamento sul rispetto della Carta dei diritti.

Il Collegio richiama, a questo punto, le più recenti ed accreditate opinioni dottrinali per affermare che, proprio nel settore del contrasto alla discriminazione deve ritenersi verificata una “fusione di orizzonti tra il livello interno, sovranazionale ed anche quello convenzionale (attestato dalle moltissime decisioni della Corte costituzionale che hanno applicato negli ultimi anni l’art. 14 della CEDU), reso più spontaneo ed efficace dal carattere particolarmente intenso delle tutele previste dall’Unione … Pertanto non vi è alcuna evidenza e nemmeno plausibilità a favore della tesi per cui il nostro ordinamento possa offrire una diversa soluzione della questione del carattere discriminatorio (anche sotto il profilo della irrazionalità) della disposizione qui in discussione, non solo perché nel settore le politiche dell’Unione sono particolarmente avanzate, ma anche in quanto gli obiettivi sociali menzionati dalla Corte di giustizia sono comuni al nostro ordinamento costituzionale”.

Mediante tale percorso, si individua un punto di sutura fra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia, e, soprattutto, fra Carta costituzionale e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

La Corte di cassazione in sede di rinvio si è trovata in una situazione privilegiata perché non ha dovuto confrontarsi con uno qualsiasi dei valori espressi dalla Carta, ma si è fortunosamente imbattuta in quel principio di uguaglianza e non discriminazione che assume un ruolo del tutto particolare in ambito interno ma, soprattutto, in ambito comunitario in quanto concetto mainstreaming del diritto dell’Unione. In un sistema in cui il contenuto dell’art. 2 TUE rimane “sostanzialmente vago”, il principio generale di uguaglianza appare sempre più significativamente uno dei principi ordinatori della Comunità.

Uguaglianza e non discriminazione confermano il proprio ruolo di concetti centrali, del diritto dell’Unione, quelli che non si risolvono in una competenza, ma tagliano trasversalmente tutto il diritto dell’Unione e che, muovendo dalla parità retributiva fra uomini e donne, sono approdati prepotentemente sui divieti di discriminazione per età ampliando enormemente il proprio raggio di azione: secondo la nota immagine di Supiot, «non tener conto delle ineguaglianze di fatto significa lasciare pieno gioco ai rapporti di forza».

Con riguardo alla discriminazione per età, d’altra parte, diventa lampante che il concetto di uguaglianza è concetto mutevole che evolve di pari passo con l’evoluzione della società e dei costumi, trovando un proprio peculiare ubi consistam nella diversità del contesto sociale in cui opera: leggendo la sentenza Marshall (in cui secondo l’ordinanza di rinvio, il solo motivo del licenziamento era nel fatto che la ricorrente era una donna che aveva superato « l’età del pensionamento ») si evince chiaramente che, agli esordi, il diritto comunitario non ha mai considerato l’età (centrale nella discussa e più recente Mangold, nonché in Kücükdeveci, Dansk Industri e, oggi, Abercrombie & Fitch) come ovvio indice di discriminazione; in quella pronunzia, la direttiva 76/207/CE, pur non avendo effetti “orizzontali”, veniva ritenuta invocabile dalla ricorrente “verticalmente” perché il suo datore di lavoro era una emanazione dello Stato. Nel 1986 le distinzioni per motivi di età – differenti da quelle in base al sesso – erano considerate ovviamente rilevanti ai fini della cessazione del rapporto di lavoro e di conseguenza ammissibili in base al principio di uguaglianza del diritto comunitario: ove così non fosse stato, verosimilmente, la signora Marshall avrebbe invocato il divieto di discriminazione per motivi attinenti all’età a sostegno del proprio argomento principale.

La vicenda Abercrombie in tale contesto segna la centralità del principio di uguaglianza e non discriminazione e ne evidenzia il ruolo nodale quale strumento di confronto e dialogo indispensabili fra le Corti.

  • Corte di giustizia dell'Unione europea
  • libera professione
  • diritti umani

CAPITOLO XV

CASSAZIONE E DIRITTI FONDAMENTALI DELLA COLLETTIVITÀ, ALLA LUCE DELLA GIURISPRUDENZA DELLE CORTI DI STRASBURGO E DI LUSSEMBURGO

(di Lorenzo Delli Priscoli )

Sommario

1 I non coincidenti valori alla base delle Corti Europee. - 2 Il bilanciamento fra valori del mercato e i diritti fondamentali della collettività in tema di professioni intellettuali. - 3 Il dialogo e il contrasto tra Corti europee e nazionali. - 4 Le nostre Corti Supreme e la tutela dei diritti fondamentali della collettività. - 5 Conclusioni.

1. I non coincidenti valori alla base delle Corti Europee.

La Corte di Giustizia dell’Unione europea da un lato, tradizionalmente deputata alla tutela del mercato, e Corte di Cassazione, Corte costituzionale e Corte Europea dei diritti dell’uomo dall’altro, più propense a prestare particolare attenzione al rispetto dei diritti fondamentali, hanno avuto negli ultimi anni un forte processo di “avvicinamento”.

Con l’approvazione del Trattato di Lisbona infatti, avvenuta il 1° dicembre 2009, il nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione europea afferma che “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea [c.d. Carta di Nizza] … che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati”, e quindi i diritti fondamentali entrano a pieno titolo a far parte dei valori che la Corte di Giustizia dell’Unione europea è tenuta a far rispettare.

Tuttavia, non può non rilevarsi la significativa differenza che tuttora persiste tra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta di Nizza, in quanto mentre la prima carta dei valori attribuisce rilievo solo ai diritti fondamentali dell’individuo, la seconda contempla anche valori tipici del mercato (si pensi al riconoscimento della libertà d’impresa all’art. 16 e alla tutela dei consumatori all’art. 38), e ammette esplicitamente, all’art. 52, eventuali limitazioni all’esercizio delle libertà e dei diritti dell’uomo riconosciuti dalla Carta.

Non può altresì dimenticarsi che i diritti fondamentali erano stati in precedenza trascurati dall’Unione europea, che, quando era ancora semplicemente “Comunità economica europea” ha rivolto i suoi sforzi quasi esclusivamente nella direzione di una integrazione economica, tralasciando altri aspetti, quali da un lato un tentativo concreto di creare un’effettiva unione politica e dall’altro un serio sforzo di imporre a tutti gli Stati membri il dovere di rispettare i diritti fondamentali.

Solo di recente si è acquisita la consapevolezza che una reale unione dell’Europa si può realizzare esclusivamente attraverso un’integrazione e una cooperazione in tutti i campi, ivi compresi i diritti fondamentali, anche proprio al fine di realizzare una più soddisfacente integrazione economica. Solo da pochi anni infatti si è quasi del tutto verificato il definitivo superamento della concezione iniziale dell’Unione europea, attenta solo ad una integrazione economica e a far valere il principio di libera circolazione delle persone, delle merci, dei sevizi e dei capitali.

Per quanto riguarda invece Cassazione e Corte costituzionale, si è assistito ad un processo per certi versi quasi opposto: esse hanno infatti solo negli ultimi anni finalmente pienamente metabolizzato e fatti propri i valori della concorrenza e del mercato [(si pensi all’introduzione solo nel 1990 − legge n. 287 − di una disciplina antitrust nazionale, dell’inserimento per la prima volta nella Costituzione − all’art. 117, comma 2 − della parola “concorrenza” a seguito della riforma del titolo V nel 2001; alla sentenza delle Sezioni unite del 2005 che ha per la prima volta riconosciuto al consumatore il diritto al risarcimento del danno da condotta anticoncorrenziale (Sez. U, n. 2207/2005 Berruti, Rv. 579019-01); alle numerose sentenze della Corte costituzionale che hanno ricondotto le misure legislative di liberalizzazione delle attività economiche − dalle professioni intellettuali alle concessioni demaniali agli stabilimenti balneari − alla materia «tutela della concorrenza»; alle sempre più frequenti sentenze della Cassazione che sanzionano comportamenti illeciti della pubblica amministrazione per violazione della legge antitrust nell’assegnazione degli appalti (Sez. 1, 11456/2017 Bisogni, Rv. 644075-01) o nell’applicazione del principio di non discriminazione fra imprese (Sez. 1, 3200/2017 Genovese, Rv. 643866-01)].

Tuttavia, le nostre Corti nazionali, come del resto anche la Corte di Strasburgo, hanno fin dall’inizio saldamente avuto − e tuttora hanno − come obiettivo primario la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, e tale tutela ha anzi sicuramente avuto negli ultimi tempi un ulteriore impulso, ad opera da un lato della Corte costituzionale mediante la “promozione”, nella gerarchia delle fonti, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo a norme intermedie tra gli atti aventi forze di legge e la Costituzione − a partire dal 2007 (Corte cost., sentenze nn. 348 e 349 del 2007) − e dall’altro della già ricordata entrata in vigore della Carta di Nizza nel 2009. Infatti, la tutela dei diritti fondamentali è fermamente radicata nella nostra Costituzione del 1948 e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, perché si tratta di testi normativi che sono stati concepiti in primis non certo a tutela della concorrenza e del mercato ma proprio a tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.), in un contesto storico-culturale fortemente scosso e influenzato dagli orrori della seconda guerra mondiale, dalle leggi razziali, dai campi di sterminio, e dunque nascono come reazione alla violazione sistematica dei diritti fondamentali che avvenne in quel periodo e alla conseguente completa degradazione e annullamento della dignità della persona umana. È in questa prospettiva che è ormai da tempo acquisita alla nostra cultura giuridica la c.d. teoria dei controlimiti, che risale alla sentenza della Consulta n. 170 del 1984, innumerevoli volte citata e confermata in seguito dalle nostre Corti nazionali, e che pone al vertice del nostro ordinamento i diritti fondamentali, i quali devono prevalere anche sul diritto dell’Unione europea che si ponesse eventualmente in contrasto con essi. Tale principio è stato ribadito dalla sentenza n. 238 del 2014 della Consulta, secondo la quale i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscono un limite all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, comma 1, Cost. ed operano quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea.

La nostra Corte di Cassazione, in sintonia con il dettato dell’art. 2 della Costituzione, ha dato effettivo riconoscimento a tali diritti fondamentali individuandone la loro effettiva essenza nella circostanza che portatore di tali diritti è l’uomo in quanto tale e non solo il cittadino: si pensi al filone giurisprudenziale in tema di immigrazione, ove si afferma che “sono costituzionalmente illegittime, perché ingiustificatamente discriminatorie, le norme che impongono nei soli confronti dei cittadini extraeuropei particolari limitazioni al godimento di diritti fondamentali della persona, riconosciuti ai cittadini italiani”: sul punto possono citarsi (cfr. Sez. L, n. 27557/2016, D’Oronzo, Rv. 642257-01 e Sez. L, n. 593/2016, Tricomi, Rv. 638229-01, che riconoscono anche al disabile straniero privo della carta di soggiorno l’indennità – rispettivamente – di frequenza e di accompagnamento e Sez. 1, n. 15362/2015, Acierno, Rv. 637091-01) che riconosce a determinate condizioni allo straniero il diritto al ricongiungimento familiare.

Mentre in Italia i diritti fondamentali dell’uomo godono dunque di una dignità assoluta e di preminenza tra le fonti del diritto, nei Trattati dell’Unione europea essi si pongono sullo stesso piano delle altre disposizioni dei Trattati e degli altri principi e valori del diritto comunitario. Pertanto, in ambito UE il rispetto dei diritti umani viene contemperato con altri valori e principi comunitari come quelli relativi al mercato interno e alla libera circolazione di merci, persone, servizi, capitali, o concernenti la libera concorrenza o l’unione monetaria, tanto che la parola “fondamentali” viene più spesso abbinata non già a quella”diritti” ma a “libertà”, e non per intendere la libertà di movimento, di riunione o di associazione, ma libertà quali la libertà di stabilimento, di libera prestazione di servizi e di libera circolazione dei capitali (Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 15 novembre 2016, causa C268/15). Già la sentenza della Corte di Giustizia CEE 14 maggio 1974, causa 4/73, Nold contro Commissione, affermò in effetti che i diritti fondamentali possono essere sottoposti a limiti giustificati dagli obiettivi di interesse generale perseguiti dalla Comunità, purché non sia lesa la sostanza (quello che la nostra Corte costituzionale definirebbe “il nucleo essenziale”) di tali diritti; nelle nostre Corti nazionali e nella Corte EDU (Corte EDU 17 marzo 2016, Rasul Jafarov v. Azerbaijan) è dunque ancora saldamente al centro delle tutele l’uomo, la persona umana, mentre nella filosofia della Corte di Giustizia dell’Unione europea riveste tuttora una posizione preminente il corretto funzionamento del mercato, anche se nella più o meno raggiunta consapevolezza che esso altro non è che un luogo ove agiscono persone umane, una di quelle formazioni sociali cioè cui fa riferimento l’art. 2 Cost. (Corte Giustizia CE, 31 gennaio 2008, causa C-380/05).

2. Il bilanciamento fra valori del mercato e i diritti fondamentali della collettività in tema di professioni intellettuali.

Pur se sempre affermata e confermata, la teoria dei controlimiti, che racchiude in sé il concetto di sovraordinazione gerarchica dei diritti fondamentali rispetto ai valori del mercato rappresentati dalle norme dell’Unione europea, non è stata mai in concreto utilizzata dalla Corte costituzionale per dichiarare l’incostituzionalità di qualche norma europea. Sempre meno spesso i conflitti tra norme europee e quelle dei singoli Stati membri sono infatti affrontati e risolti dalle Supreme Corti nazionali impostando il problema in termini di rigidi rapporti di gerarchia tra le fonti o di individuazione delle rispettive sfere di competenza: in presenza di una pluralità di interessi potenzialmente in contrasto tra loro si tende infatti a ragionare in termini di necessario bilanciamento tra gli interessi stessi (Corte cost. n. 111 del 2017), dovendosi altresì tenere presente che nel caso concreto può accadere che la limitazione in minima parte di un diritto può consentire la salvaguardia di un altro interesse che altrimenti sarebbe interamente sacrificato.

Un campo ove si è assistito non ad un contrasto tra Corti europee e nazionali ma a decisioni contraddittorie con i valori affermati dalle rispettive Corti è quello concernente la “liberalizzazione” delle professioni intellettuali, ove il rapporto tra tutela della concorrenza e dei diritti fondamentali alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia e delle Corti nazionali è stato infatti affrontato e risolto in maniera poco coerente.

In effetti, già l’atteggiamento della disciplina legislativa italiana è profondamente diverso rispetto a quello dell’Unione europea. In Italia il professionista intellettuale gode di una disciplina ad hoc (artt. 2229 c.c. ss.) − ben distinta da quella dell’imprenditore (artt. 2082 c.c. ss.) − basata sul principio della personalità della prestazione, sulla sua non fallibilità, sull’assenza di un obbligo di iscrizione del registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili, su di una giurisprudenza che attribuisce al cliente l’onere della prova della non diligenza del professionista. Eppure non vi è una differenza “ontologica” fra l’attività dell’imprenditore in senso stretto e quella del professionista intellettuale: si pensi infatti all’ipotesi in cui la prestazione intellettuale sia fornita mediante un soggetto (ad esempio il proprietario di una clinica privata) che stipendia e organizza l’attività di professionisti intellettuali (ad esempio i medici che lavorano nella clinica): questi rimane pur sempre un imprenditore; ancora, il farmacista titolare di una farmacia riveste allo stesso tempo il ruolo del professionista intellettuale e dell’imprenditore. La ragione di una disciplina nettamente differenziata nel codice civile del 1942 italiano del professionista intellettuale rispetto all’imprenditore deve invece ricercarsi in una condizione di privilegio che la nostra legge concede – sulla base di un’antica tradizione che risale al Medio Evo e alla nascita delle corporazioni – a coloro che esercitano le cosiddette professioni intellettuali.

Nell’Unione europea invece il professionista intellettuale è assimilato all’imprenditore, tanto che l’art. 3 del codice del consumo, che recepisce una direttiva comunitaria, unifica le due figure nell’unica definizione di professionista, che è colui agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale. Nella concezione più pragmatica, di origine anglosassone, dell’unione europea, professionista intellettuale e imprenditore vanno assimilati perché sono entrambi due soggetti che vendono beni o servizi sul mercato a fini di lucro e come tali vanno assoggettati in condizioni di parità, alle stesse regole di concorrenza (di cui il codice del consumo costituisce una espressione).

Fatta questa premessa, la parola “liberalizzazione” nel nostro ordinamento va intesa, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza n. 200 del 2012), non come una semplice e brutale abolizione di norme (c.d. “deregulation”) – che significherebbe disconoscere il limite dell’utilità sociale di cui all’art. 41, comma 2, Cost. – ma come una più ragionevole organizzazione della disciplina. Le liberalizzazioni nel campo delle professioni intellettuali consentono altresì di permettere l’esercizio di una diritto, quello dell’individuo di esplicare la propria personalità mediante l’esercizio di un’attività lavorativa (cfr. artt. 1, 2, 4 e 35, 41 Cost.), che, a differenza di quello alla libertà del diritto di iniziativa economica – che presuppone l’interferenza dell’attività economica con altri valori costituzionali e che quindi è suscettibile di limitazioni anche significative – non può che essere considerato fondamentale.

Tale diritto al lavoro e in particolare ad aprire un’impresa o ad iniziare ad esercitare una professione intellettuale, nel quadro della nostra Costituzione, non può però che essere bilanciato con quello della collettività ad avere a che fare con professionisti preparati, principio a sua volta il più delle volte posto a protezione di diritti fondamentali (così, ad esempio, nel caso dell’avvocato a tutela del diritto di difesa, e nel caso del farmacista a tutela del diritto alla salute: cfr. artt. 24,32, 33, co. 5).

Qui di seguito però si propongono due esempi – riguardanti il primo l’avvocato e il secondo il farmacista – in cui questo bilanciamento non sembra essere stato effettuato con il dovuto equilibrio.

Per quanto riguarda l’avvocato, secondo la Cassazione a sezioni unite (Sez. U, n. 28340/2011 Cappabianca, Rv. 620151-01), in base alla normativa comunitaria concernente il reciproco riconoscimento dei titoli abilitanti all’esercizio di una professione, il soggetto munito di un titolo equivalente a quello di avvocato conseguito in un Paese membro dell’Unione europea (nella specie, la Spagna), qualora voglia esercitare la professione in Italia, ha diritto ad essere iscritto nell’albo ordinario con il titolo di avvocato, senza necessità di sostenere alcuna prova attitudinale, e ciò in ragione del richiamo al principio della libertà di stabilimento e alle relative sentenze che hanno fatto applicazione di tale principio (Corte di Giustizia UE 22 dicembre 2010, C-118/09, e 29 gennaio 2009, C-311/06). Pertanto, il soggetto munito di equivalente titolo professionale di altro Paese membro può chiedere l’iscrizione nella Sezione speciale dell’Albo italiano del foro nel quale intende eleggere domicilio professionale in Italia, utilizzando il proprio titolo d’origine (ad es., quello, spagnolo, di «abogado») e, al termine di un periodo triennale di effettiva attività in Italia, può chiedere di essere “integrato” con il titolo di avvocato italiano e l’iscrizione all’Albo ordinario. Attraverso tale procedimento l’interessato è dispensato dal sostenere la “prova attitudinale”, richiesta a coloro che chiedono l’immediato riconoscimento del titolo di origine e l’immediato conseguimento della qualifica di avvocato. In base a tali principi la sentenza da ultimo citata della Cassazione ha riconosciuto l’illegittimità del rifiuto opposto dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Palermo alla domanda di da parte di un italiano abogado in Spagna di iscrizione nella Sezione speciale del locale Albo riservata agli avvocati comunitari stabiliti.

Ancora più recentemente le sezioni unite (Sez. U, n. 4252/2016 Petitti, Rv. 638747-01) hanno confermato questo orientamento di favore per l’avvocato stabilito affermando che, in base alla normativa comunitaria volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale, i nostri consigli dell’ordine non possono chiedere all’avvocato stabilito il possesso del requisito, che pure è previsto dalla legislazione nazionale forense per i “nostri” avvocati, della condotta irreprensibile.

È evidente dunque che con questa decisione, la Cassazione, adeguandosi a quanto deciso dalla Corte di Giustizia, non ha ritenuto (o ha dimenticato) che il principio costituzionale, espresso dal comma 5 dell’art. 33 Cost., secondo cui “è prescritto un esame di Stato… per l’abilitazione all’esercizio professionale” è posto a tutela del diritto di difesa del cittadino ex art. 24 Cost., e quindi, assumendo dignità di principio fondamentale, dovrebbe prevalere rispetto ai principi di libera concorrenza e libertà di stabilimento dei lavoratori.

Venendo all’esempio del farmacista, una pronuncia del 2013 della Corte di Giustizia (Corte di Giustizia UE 5 dicembre 2013, cause riunite da C-159/12 a C-161/12) per certi versi di segno opposto rispetto a quella riguardante l’avvocato (perché nel caso del farmacista il diritto fondamentale alla salute è prevalso sulla concorrenza mentre nel caso dell’avvocato la concorrenza ha avuto la meglio sul diritto di difesa) ma che lascia ugualmente delle perplessità (perché entrambe le fattispecie avrebbero probabilmente essere dovute decidere in maniera opposta alla luce di un più equilibrato e meno frettoloso bilanciamento di interessi) ha riconosciuto la legittimità della disciplina normativa italiana che impone un numero chiuso alle farmacie.

La Corte costituzionale (sentenza n. 216 del 2014), riprendendo e citando in gran parte le motivazioni della sentenza della Corte di Giustizia da ultimo citata, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 5, co. 1, del d.l. n. 223 del 2006 nella parte in cui non consente alle parafarmacie la vendita di medicinali di fascia C (farmaci utilizzati per patologie di lieve entità) soggetti a prescrizione medica. La Corte di Giustizia e la Corte costituzionale non tengono però conto che la legge italiana già impone il prezzo dei farmaci soggetti a prescrizione e detta una severa disciplina riguardante l’apertura delle c.d. farmacie rurali, in modo da garantire una capillare distribuzione delle farmacie su tutto il territorio. È evidente che il diritto di iniziativa economica, ma prima di tutto il diritto al lavoro del farmacista iscritto all’albo ma non titolare di farmacia, è irragionevolmente sacrificato dall’esistenza di un numero chiuso (la c.d. pianta organica).

In effetti il paradosso è che mentre l’avvocato che non abbia sostenuto l’esame di abilitazione può esercitare liberamente la propria professione, il farmacista che non possieda la relativa licenza non può svolgere l’attività – imprenditoriale e professionale allo stesso tempo – di farmacista, pur se iscritto all’albo e quand’anche, per ipotesi, fosse pacificamente riconosciuto di particolare bravura, ma dovrà limitarsi a compiere l’attività di cd. “farmacista dipendente”, con prospettive di guadagno assai modeste e con l’assoggettamento al potere gerarchico, disciplinare e organizzativo di un suo collega, con evidente disincentivazione dallo svolgimento di tale attività, e con conseguente perdita di una possibile preziosa risorsa per il diritto alla salute della collettività. È così dunque che l’acquisto della piena consapevolezza dell’esistenza di un diritto fondamentale in capo agli operatori economici a poter svolgere liberamente l’attività che più si desidera non può che contribuire ad innescare un processo circolare virtuoso per cui l’affermazione di tale diritto stimola le liberalizzazioni e queste ultime, contribuendo a creare ricchezza, consentono di destinare maggiori risorse a tutela dei diritti fondamentali. Ecco dunque che il perseguimento delle liberalizzazioni delle professioni intellettuali (ossia la possibilità di far esplicare a tutti la propria libertà di iniziativa economica e quindi il garantire una politica di concorrenza rigorosa) non va necessariamente a scapito dell’utilità sociale (ossia dei diritti fondamentali della collettività) ma al contrario, come era nell’idea del Costituente, la rafforza; e il perseguimento dell’utilità sociale, a sua volta, fornisce nuovo vigore ad una politica di liberalizzazioni, da intendersi, come detto, non come mera deregulation ma come razionalizzazione della regolazione (ossia come eliminazione di tutte e solo quelle norme che impediscano un pieno sviluppo della concorrenza e che non siano poste a presidio di diritti fondamentali).

3. Il dialogo e il contrasto tra Corti europee e nazionali.

Alla luce di quanto detto nei paragrafi precedenti, deve dunque ritenersi che il legame tra Corte di Giustizia dell’Unione europea e Corte di Strasburgo da un lato e Corte di cassazione e Corte costituzionale dall’altro debba sempre svolgersi nella piena consapevolezza e nel rispetto della diversità del patrimonio culturale e giuridico acquisito faticosamente negli anni, evitando un acritico recepimento delle decisioni altrui ma mirando piuttosto ad un rapporto non a senso unico ma di continua collaborazione, che richiede la necessità di un dialogo sempre più stretto tra le varie Corti.

Un esempio di proficuo dialogo tra una Corte europea ed una nazionale si è avuto a seguito dell’ordinanza interlocutoria 15096/2015 con la quale la Cassazione ha proposto alla Corte di giustizia due questioni riguardanti il trattamento dei dati personali contenuti nel registro delle imprese che, secondo quanto previsto dall’art. 6, lett. e), della direttiva 46/95/CE, attuata in Italia con il d.lgs. n. 196 del 2003, cd. codice della privacy, possono essere custoditi, elaborati e pubblicizzati solo per il tempo strettamente necessario al conseguimento delle finalità per le quali sono stati acquisiti. La Cassazione si chiede se tale disciplina di derivazione comunitaria, posta a protezione della riservatezza e del conseguente diritto all’oblio, debba prevalere sul sistema di pubblicità commerciale istituito con il registro delle imprese, pure di derivazione comunitaria, che prevede anche per le persone fisiche la conservazione dei dati rilevanti senza limiti di tempo e se, dunque, anche tali dati non debbano invece essere disponibili per un periodo di tempo limitato e in favore di destinatari determinati. Premesso che scopo della pubblicità commerciale è quello di rendere noto oppure opponibile un certo fatto giuridico, al fine della sicurezza dei traffici giuridici e del mercato, che solo il nucleo essenziale di ogni diritto fondamentale è insopprimibile e che anche gli interessi del mercato hanno una rilevanza tale da poter determinare una limitazione dei diritti fondamentali, il problema prospettato dalla Cassazione alla Corte di Giustizia è dunque quello di come operare il corretto bilanciamento tra trasparenza dei traffici commerciali e il diritto fondamentale alla riservatezza e alla protezione dei dati personali. La Corte di Giustizia (seconda sezione, 9 marzo 2017, C-398/15), dopo aver sottolineato la centralità e l’importanza della pubblicità commerciale, nel rispondere alla Cassazione ha però affermato che spetta ai singoli Stati membri determinare se le persone fisiche possano chiedere all’autorità incaricata della tenuta del registro delle imprese di verificare, in base ad una valutazione da compiersi caso per caso, se sia eccezionalmente giustificato, per ragioni preminenti e legittime connesse alla loro situazione particolare, decorso un periodo di tempo sufficientemente lungo dopo lo scioglimento della società interessata, di limitare l’accesso ai dati personali ai soli terzi che dimostrino un interesse specifico alla loro consultazione. Tale interpretazione del diritto europeo costituisce, secondo la Corte di Lussemburgo, un ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco perché, pur salvando nella sostanza l’attuale sistema di pubblicità commerciale, non sfocia in un’ingerenza sproporzionata nei diritti fondamentali delle persone interessate, ed in particolare nel loro diritto al rispetto della vita privata nonché nel loro diritto alla tutela dei dati personali, garantiti dagli articoli 7 e 8 della Carta di Nizza, in ragione del limitato numero di dati personali pubblicizzati dal registro.

In questa prospettiva, vanno accolte con favore le prassi virtuose che si stanno sviluppando in Italia, nel senso di un sempre maggior uso del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ex art. 267 del Trattato sul funzionamento sull’Unione europea di Roma, non solo per chiarire dubbi interpretativi riguardanti il diritto dell’Unione europea, ma anche per prevenire possibili motivi di conflitto tra tale diritto e i principi fondamentali della Costituzione, ossia con una volontà costruttiva di risolvere tali problemi, in un’ottica di “leale collaborazione” tra Corti. Tale espressione – finora utilizzata dalla Consulta solo con riferimento al rapporto tra organi nazionali tra loro, come ad esempio quello tra Stato e Regioni – è utilizzata dalla sentenza della Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 2017 per motivare la necessità di una cooperazione tra l’Italia e l’Unione europea: con tale sentenza si è investita la Corte di Giustizia della questione relativa alla compatibilità del contenuto della sentenza Taricco del 2015 della Corte di giustizia (Corte di giustizia UE, Grande sezione, 8 settembre 2015, in causa C-105/14, Taricco), ispirata dal fine di dare prevalenza agli interessi economici dell’Unione europea sui principi fondamentali della nostra Costituzione in tema di principio di legalità nel diritto penale. Tale sentenza della Corte di Lussemburgo infatti ha “allungato” i termini di prescrizione dei reati di frode fiscale − commessi in Italia ma di rilevanza comunitaria perché riguardanti l’IVA, che contribuisce a finanziare l’Unione europea − così dettando – mediante una sentenza della Corte di Giustizia oltretutto caratterizzata da una certa indeterminatezza delle situazioni cui si riferisce − una disciplina penalistica più sfavorevole al reo, nonostante in Italia la prescrizione sia un istituto avente carattere di diritto sostanziale, come tale riservato alla competenza del legislatore statale e soggetto al principio di legalità nelle sue esplicazioni della sufficiente determinatezza della norma e dell’irretroattività della legge penale più sfavorevole. La Corte costituzionale, con la poc’anzi citata sentenza del 2017, afferma dunque con forza l’importanza dei diritti fondamentali dell’uomo, che possono essere compressi ma non esclusi quando entrano in bilanciamento con altri valori, quali quelli economici dell’Unione.

La Corte di Giustizia, con sentenza della grande sezione 5 dicembre 2017, C-42/17, riconosce le ragioni della Corte costituzionale, affermando che l’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di imposta sul valore aggiunto, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.

Deve tuttavia rilevarsi che la Corte di Giustizia è giunta a queste conclusioni non sulla base di una ammissione della validità delle teoria dei contro limiti, ma ritenendo che i diritti fondamentali invocati dall’Italia fossero in realtà patrimonio comune anche dell’Unione Europea, sottolineando anzi il primato del diritto dell’Unione: infatti la sentenza della Corte di Giustizia conclude affermando che resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità o l’effettività del diritto dell’Unione (sentenza del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105). La Corte di Lussemburgo dunque non riconosce la teoria dei contro limiti, ossia l’affermazione che possa esistere, nella gerarchia delle fonti, un qualcosa (i diritti fondamentali, perlomeno nel loro nucleo essenziale) che possa “stare sopra”, essere sovraordinato rispetto al diritto dell’Unione europea. Non può dunque non evidenziarsi il sordo contrasto che tuttora esiste tra Corte di Lussemburgo e le nostre Corti nazionali e al contempo il tentativo delle Corti di arrivare a soluzioni di compromesso nei casi specifici.

La nostra Corte costituzionale è dunque molto attenta a esigere il rispetto dei diritti fondamentali da parte delle Autorità estere, anche se magari tale prevalenza (normalmente per ragioni di “galateo internazionale”: cfr. la sentenza n. 238 del 2014) non viene completamente esplicitata nelle motivazioni, come nel caso della c.d. sentenza Alitalia n. 270 del 2010, che, senza una affermazione esplicita in tal senso, nel ritenere legittima la fusione tra Alitalia e Air One che impedì la messa in liquidazione della prima, ha però in concreto sancito la prevalenza del diritto fondamentale al lavoro sulle rigide norme in tema di concorrenza non solo nazionali ma anche dell’Unione europea, che avrebbero impedito – con conseguente perdita di posti di lavoro – la fusione tra le due maggiori compagnie aeree italiane, in quanto tale fusione integrava a tutti gli effetti una concentrazione anticoncorrenziale. Tale prevalenza dei diritti fondamentali è stata ulteriormente ribadita dalla sentenza n. 238 del 2014, secondo la quale i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscono un limite anche all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, comma 1, Cost. (nella specie si trattava del principio secondo cui gli Stati sovrani non rispondono dei crimini di guerra: la Consulta ha invece condannato la Germania a risarcire i danni cagionati a seguito dei crimini perpetrati durante la seconda guerra mondiale) ed operano quali “controlimiti” all’ingresso delle norme (o delle sentenze che di esse sono espressione, come nel caso di specie, ove si trattava di una sentenza della Corte internazionale di Giustizia dell’Aia) in contrato con l’Unione europea.

Quand’anche ci si ponga nella prospettiva dell’Unione europea, i diritti fondamentali sono sì suscettibili di essere bilanciati con altri valori, ma solo se questo sacrificio sia dettato da esigenze particolarmente meritevoli di tutela – ossia dalla necessità di contemperare tali diritti con altri (tra i quali sicuramente rientrano quelli espressi dal mercato) – e purché non sia mai intaccato il nucleo irrinunciabile, lo “zoccolo duro” dei diritti fondamentali (Cass. U, 17461/2006 Vidiri, Rv. 591321-01).

Le leggi del mercato, impersonate dalle motivazioni della sentenza Taricco della Corte di Giustizia e i diritti fondamentali della persona, difesi nella citata sentenza del 2017 della Consulta, sono probabilmente conciliabili a patto che il dialogo fra le Corti sia costituito da una effettiva volontà reciproca di trovare una soluzione al problema – che passa inevitabilmente dalla necessità di reciproche concessioni – e non si riduca soltanto ad una affermazione delle proprie ragioni che non tenga conto delle altrui esigenze. L’Italia effettivamente afferma dei principi di diritto nobili e indiscutibili, ma si scontra con la sua atavica incapacità di metterli in pratica e con le sue proverbiali inefficienze. La Corte di Giustizia sanziona l’Italia facendole rimarcare che i diritti fondamentali vanno conquistati e sudati e non solo affermati, in quanto un sistema giustizia lento e farraginoso come quello italiano non può permettersi una quantità di garanzie per l’imputato eccessive (si è già ricordato del resto che l’art. 52 della Carta di Nizza, che eventuali limitazioni all’esercizio delle libertà e dei diritti riconosciuti dalla Carta possono essere previste dalla legge), e le ricorda che nell’aderire all’Unione europea ha preso dei precisi impegni nel combattere le frodi, ma la stessa Corte non tiene conto che i principi presenti nella Costituzione italiana, così come elaborati dalla giurisprudenza delle sue Corti supreme, costituiscono il più alto livello di garanzia dell’imputato e contribuiscono a costituire le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri cui l’Unione europea deve conformarsi.

Un conflitto per certi versi opposto si è verificato con una sentenza della Corte di Strasburgo del 2017 (c.d. sentenza De Tommaso, Corte Europea dei diritti dell’uomo, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia): qui la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 2 del IV Protocollo della Convenzione − che garantisce la libertà di circolazione − da parte del d.lgs. n. 159 del 2011 in tema di misure di prevenzione nei confronti di soggetti “pericolosi”, in quanto tale norma italiana non garantisce adeguatamente la prevedibilità della misura e la sua applicazione è rimessa alla discrezionalità del giudice in contrasto con il principio di determinatezza e tassatività. In particolare, la Corte EDU ha ravvisato una violazione della libertà di circolazione per difetto di prevedibilità e precisione delle norme relative ai soggetti idonei e alle condizioni necessarie per l’applicazione della misura di prevenzione, nonché alle prescrizioni che il giudice può imporre per dar corpo alla misura. La Corte EDU non si addentra più di tanto nella questione giuridica circa la natura giuridica delle misure di prevenzione, a lei interessando soltanto che, aldilà della qualificazione formale di tali misure come sanzioni penale (circostanza negata dalla Cassazione), esse, in quanto rappresentano sostanzialmente una pena, godano delle garanzie proprie della Carta EDU. La sentenza De Tommaso è dunque un caso in cui la Corte EDU chiede all’Italia, non di limitare – come invece accaduto con la Corte di Giustizia nel caso Taricco ricordato in precedenza – ma di allargare lo spazio del diritto penale.

Un discorso per certi versi del tutto analogo può farsi per quanto riguarda il lungo e complesso contenzioso che ha visto l’intervento della Corte EDU, della Corte costituzionale e della Cassazione in tema di confisca dei beni connessi alla commissione di un reato: la Corte di Strasburgo infatti (sentenza Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014) ritiene che la “materia penale” debba essere destinataria di tutte le garanzie previste dalla Convenzione, a prescindere dalla qualificazione formale della confisca come amministrativa o penale effettuata dal singolo Stato membro (amministrativa nel caso dell’Italia, penale da parte della Corte di Strasburgo). La Corte EDU in varie sentenze ha dunque elaborato una nozione di “materia penale” senza considerare la qualificazione data dai singoli Stati, sottolineando che ai fini della sua individuazione occorre verificare non cosa è formalmente oggetto di sanzione penale quanto la natura punitiva o meno della sanzione. A tale visione sostanzialistica della Corte di Strasburgo (Corte EDU 29 settembre 2013, Varvara c. Italia) l’Italia sembra essersi adeguata affermandosi, sia da parte della Consulta (sentenza n. 49 del 2015) che da parte della Cassazione penale a sezioni unite (Sez. U, 31617/2015, Macchia, Rv. 264337-01, imp. Lucci), che la confisca può essere effettuata, pur quando il reato sia prescritto, se sia comunque stata accertata la responsabilità dell’imputato, e quando quindi tale sanzione – che per la Corte EDU ha natura penale – non venga riferita all’imputato a titolo di responsabilità oggettiva.

Il problema della natura amministrativa o penale di una disciplina riguarda anche il d.lgs. n. 231 del 2001 in tema di responsabilità da reato degli enti, responsabilità che ha una natura “mista” penale/amministrativa: peraltro, secondo la Corte di Giustizia UE, la mancata previsione della possibilità di costituirsi parte civile contro l’ente imputato ex d.lgs. n. 231 del 2001 non è in contrasto col diritto dell’Unione (Corte di Giustizia UE, 12 luglio 2012, C-79/11). La Corte di Lussemburgo sottolinea espressamente che il diritto dell’Unione europea non contiene alcuna indicazione in base alla quale il legislatore dell’Unione avrebbe inteso obbligare gli Stati membri a prevedere la responsabilità penale delle persone giuridiche. La questione della sostanza della responsabilità “amministrativa” degli enti nel diritto italiano resta, con tutto ciò, quanto mai aperta, perché ad essere in gioco non è tanto il problema della tutela risarcitoria della vittima, quanto lo statuto garantistico di tale responsabilità nei riguardi dello stesso ente, al quale è a tutt’oggi dubbio se debbano o meno applicarsi le garanzie che la nostra Costituzione e le carte internazionali dei diritti umani (prime fra tutte, la Corte EDU e la Carta dei diritti fondamentali dell’UE) stabiliscono in materia di diritto e processo penale: legalità dei reati e delle pene in tutti i suoi corollari, personalità e colpevolezza, funzione rieducativa e proporzione della pena, presunzione di innocenza, giusto processo, doppio grado di giurisdizione, nebis in idem, obbligatorietà dell’azione penale, etc. Ed è verosimile che una parola più netta, sul punto, possa presto venire dall’altra Corte europea, quella di Strasburgo, la quale è peraltro da tempo stabilmente orientata in favore di quell’approccio “sostanzialista” oggi prudentemente rifiutato dalla cugina Corte di Lussemburgo.

Sembra dunque che le ragioni di conflitto fra gli ordinamenti europei di Lussemburgo e Strasburgo e quello italiano si stia spostando nella direzione di quale sia lo spazio riservato al diritto penale sostanziale, ossia cosa possa essere in esso sussunto (con le conseguenti maggiori garanzie che tale sussunzione comporta), e quindi quali materie possano ad esso ricondursi. All’Europa non sembra infatti tanto premere cosa l’Italia consideri far parte del diritto penale sostanziale e cosa no; interessa piuttosto che, a prescindere dalle etichette formali e dall’approfondimento del problema giuridico della natura penale o meno di un certo istituto, una certa area giuridica di interesse per le Corti europee venga o meno interessata dalle relative garanzie. I valori portati europei avanti dalle Corti europee entrano dunque prepotentemente nel nostro ordinamento e vengono tenuti nella dovuta considerazione dalle nostre Corti nazionali.

4. Le nostre Corti Supreme e la tutela dei diritti fondamentali della collettività.

Accanto ai valori del mercato e ai diritti fondamentali dell’individuo, le nostre Corti nazionali si sforzano però di prendere in considerazione e tutelare anche diritti – altrettanto fondamentali come quelli dell’individuo – riferibili alla collettività, fra i quali non possono non citarsi il diritto alla salute (si pensi al caso dei farmacisti citato nel secondo paragrafo), all’ambiente, al lavoro, alla sicurezza (e quindi alla repressione dei reati) (cfr. Corte cost. n. 76 del 2017).

Questi valori, probabilmente in parte trascurati dalle Corti di Lussemburgo e di Strasburgo, costituiscono invece oggetto di bilanciamento con altri valori nelle decisioni delle nostre Corti nazionali con i diritti fondamentali dell’individuo, e sempre più spesso tendono a prevalere su quest’ultimi (Sez. pen. 1, 31 marzo 2017, n. 24084, Jatinder). In effetti, quelli che potremmo definire “i diritti fondamentali della collettività” erano stati nel dopo guerra – con il superamento dell’ideologia fascista e nazista che aveva portato alla seconda guerra mondiale – per così dire “accantonati” a favore dei diritti fondamentali dell’individuo. Anche in Italia, durante il periodo fascista, avevano preso piede istituti quali le corporazioni o il riferimento all’interesse della nazione; si pensi altresì alla concezione della causa come funzione economico-sociale, solo successivamente superata da quella della causa come funzione economico-individuale.

Con il tempo si è superato il timore che la tutela dei diritti fondamentali della collettività potesse essere accostata a quelle ideologie e, soprattutto a partire dal XXI secolo, sono stati “riscoperti” dei valori che, pur presenti nella Costituzione, sono stati per decenni accantonati: l’espressione costituzionale più significativa dei diritti fondamentali della collettività è rappresentata dalla formula dell’“utilità sociale” di cui al comma 2 dell’art. 41 Cost., per molto tempo infatti trascurata.

Ad esempio secondo la sentenza n. 98 del 2017 della Corte costituzionale le liberalizzazioni, comprese quelle delle professioni intellettuali, incontrano il limite dell’interesse generale così da «garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale e con gli altri principi costituzionali». La Costituzione non definisce l’utilità sociale; anche la Corte costituzionale evita di farlo, si limita volta per volta a spiegare cosa vi rientri e cosa no, affermando che un certo interesse costituzionalmente riconosciuto ha una valenza di utilità sociale e come tale deve essere adeguatamente tutelato. E i confini del concetto di utilità sociale sembrano ai nostri giorni diventati così ampi che si corre concretamente il rischio di tendere ad identificare il concetto di utilità sociale con quello generico di interesse pubblico, della collettività, degli “altri”, un gruppo più o meno grande di persone portatore di un interesse omogeneo (Sez. 3, 00482/2009 Segreto, Rv. 606146-01): sono ad esempio gli interessi di tutti coloro che, direttamente o indirettamente, vengono colpiti dall’iniziativa economica altrui: ad es. i lavoratori, i consumatori, i cittadini che abitano vicino ad un’industria e ne respirano i fumi velenosi. Potrebbe ben affermarsi che facendo tale espressione perde probabilmente un reale contenuto precettivo. Ma forse questo rischio vale la pena di essere corso, perché con il riferimento all’utilità sociale nella Costituzione si è proprio voluto attribuire dignità costituzionale al concetto – sicuramente generico e vago ma non per questo non importante − degli interessi della collettività che, volente o nolente, si trova ad interagire con colui che esercita un’attività economica.

Fatto sta che nel ventunesimo secolo la Corte costituzionale parla di utilità sociale a proposito di salute, ambiente, lavoro, autonomia contrattuale, proprietà; più in particolare a proposito di: diritto individuale e della collettività alla salute; farmacie, libertà d’iniziativa economica del farmacista nel fissare i prezzi e salute pubblica; condono edilizio, esigenze di finanza pubblica e tutela dell’ambiente; limiti all’iniziativa economica in nome della tutela dell’ambiente; limiti al commercio itinerante e tutela dei centri storici delle città d’arte (art. 9, co. 2, Cost.: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”); indennità di disoccupazione e diritti sociali; limiti alla concorrenza in nome della tutela del lavoro; limiti alle liberalizzazioni per la necessità di mantenere una regolazione pubblica di alcuni settori; limitabilità dell’autonomia contrattuale; indennità di espropriazione e ragionevole legame con il valore di mercato del bene espropriato; limitazioni al diritto di proprietà in nome di esigenze di rilievo pubblico; incentivi ai produttori di energie rinnovabili, protezione degli animali.

L’utilità sociale appare dunque lo strumento che consente una protezione dei diritti fondamentali in una fase per così dire collettiva della loro esistenza, quando cioè sono messi in pericolo non tanto in quanto riferiti a un singolo individuo, ma in un orizzonte più ampio, con riguardo ad una collettività più o meno ampia e definita di persone. Ed in effetti vi sono diritti fondamentali che, senza neppure dover far riferimento all’utilità sociale, vivono in una dimensione individuale e in una collettiva allo stesso tempo.

L’utilità sociale è un concetto che racchiude altresì la tutela di “diritti sociali”, “ritenuti di fondamentale importanza sul piano della dignità umana”, quali quello all’abitazione (cfr. in questo senso la citata giurisprudenza costituzionale in tema di condono edilizio), il diritto al lavoro (cfr. sentenza 200 del 2012 e n. 270 del 2010, 50 del 2005: quest’ultima parla di “diritto sociale al lavoro”), il diritto allo studio. Si tratta a ben vedere più che di diritti soggettivi, ossia della singola persona, di interessi della collettività considerata nel suo insieme e che per essere concretamente realizzati hanno bisogno di molto denaro, che molto spesso però lo Stato non ha o non si può permettere. Ecco dunque che l’utilità sociale ritorna per ricordare che nel necessario e inevitabilmente “crudele” bilanciamento tra esigenze dei singoli (a pagare meno imposte possibili) e diritti della collettività, questi ultimi non possono certo passare in secondo piano.

5. Conclusioni.

Il diverso atteggiamento delle Corti di Strasburgo e Lussemburgo rispetto alle nostre Corti nazionali si spiega non solo con quanto già detto nei paragrafi precedenti, ossia che mentre le regole del mercato, di cui la Corte di Giustizia è la massima espressione, tendono a sacrificare i diritti fondamentali dell’individuo (di cui la più classica espressione è costituita dai principi di legalità, determinatezza e tassatività in campo penale) la Corte di Strasburgo invece, mirando esclusivamente a tutelare tali diritti, si sforza di allargare quanto più possibile la loro effettività, cercando di impedire che gli Stati membri possano “aggirare” le garanzie dettate dalla Convenzione EDU. È come dunque se le prospettive delle due Corti europee fosse per certi versi solo “parziale”, preoccupandosi invece le nostre Corti nazionali di esprimere un giudizio di “sintesi” tra i diversi valori. Ma non solo. I contrasti delle Corti europee con le nostre Corti nazionali si spiegano altresì perché queste ultime, accanto ai diritti fondamentali dell’individuo tutelati dalla Corte EDU, e accanto ai valori del mercato tutelati dalla Corte di Giustizia, si sforzano altresì di tutelare diritti, altrettanto fondamentali come quelli dell’individuo, riferibili alla collettività.

In questo sempre più complesso e intricato coacervo di interessi della più varia natura da bilanciare sarebbe quanto mai utile e opportuno, in considerazione da un lato del recepimento all’interno del Trattato di Maastricht, da parte del Trattato di Lisbona, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’altro anche in relazione al sempre più alto numero di discipline interessate da interferenze fra Corti europee e Corti nazionali, la nascita di una reale ed effettiva “nomofilachia europea”, che abbia il compito non solo di garantire l’uniformità del diritto europeo ma anche di assicurare − anche nell’ottica della leale collaborazione affermata dall’art. 4 del Trattato dell’Unione europea e del principio espresso dall’art. 52 della Carta di Nizza secondo cui limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti da tale Carta possono essere previste dalla legge − delle decisioni ragionevolmente compatibili con tutte le molteplici matrici culturali cui sono riconducibili le Corti di Lussemburgo e Strasburgo e le varie Corti Supreme nazionali, ricomponendo e riconducendo ad unità le diverse (o non del tutto coincidenti) sensibilità giuridiche.