Premessa

PRESENTAZIONE  

Nell’ambito della riforma che, per effetto del r.d. 24 marzo 1923, n. 601, condusse ad abolire le Corti di cassazione regionali e a trasferire tutte le loro competenze nella Corte di cassazione di Roma, che così assunse il nome di Corte di cassazione del Regno, il r.d.l. 22 febbraio 1924 n. 268 stabiliva che presso la prima Presidenza della Corte di cassazione fossero istituiti tre magistrati di grado non superiore a consigliere di appello, alle dipendenze del Primo Presidente, con il compito, tanto in materia civile quanto in materia penale, di “monitorare i precedenti della Corte per registrare le continuità e segnalare le eventuali difformità”. Era, questo, il “germe” dell’Ufficio del massimario e del ruolo, successivamente istituito dall’art. 68 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario) ove si stabiliva, appunto, che presso la Corte suprema di cassazione fosse costituito un ufficio del massimario e del ruolo, le cui attribuzioni fossero stabilite dal Primo Presidente.  

Vocazione e radici antiche, dunque, quelle del Massimario i cui compiti, originariamente individuati, come ricordato, genericamente, nel monitoraggio dei precedenti della Corte, si sono progressivamente delineati in maniera più specifica restando inalterata però la funzione, primaria, di ausilio nella preservazione della funzione “nomofilattica” della Corte, ovvero quella di assicurare l’esatta ed uniforme interpretazione della legge; una funzione tanto più necessaria sino, forse, a diventare indispensabile a fronte dell’abnorme numero di ricorsi che, anche nel settore penale, si riversa da tempo sul giudizio di cassazione mettendone in crisi la fisiologica natura di giudizio di sola legittimità.  

Anche nel 2018, come negli anni passati, la Corte di cassazione ha infatti pronunciato un numero elevatissimo di pronunce (al momento di redazione di questa presentazione sono 58.531) il cui impatto sulla funzione nomofilattica può essere attutito solo dalla analisi sistematica della giurisprudenza e dalla lettura, selezione e massimazione dei provvedimenti nonché dalla segnalazione dei contrasti e dalla predisposizione delle relazioni per le Sezioni Unite (non a caso i compiti che le previsioni tabellari relative alla Corte di cassazione assegnano primariamente proprio all’Ufficio del Massimario).  

Tanto più lungimirante, dunque, si è rivelata la prospettiva che, nella prima metà del secolo scorso, determinò l’istituzione di un ufficio, che rappresenta sostanzialmente un “unicum”, spesso invidiato, nel panorama delle Corti europee, e dal cui funzionamento non pare azzardato affermare dipenda, in definitiva, la possibilità per tutti gli operatori (principalmente giudici di legittimità e di merito, avvocati e studiosi del diritto) di disporre di una chiave di lettura dei “precedenti” della Corte.  

È, allora, nella necessaria consapevolezza di una tale responsabilità che, anche per l’anno 2018, è stata predisposta, anche per il settore penale, la rassegna della giurisprudenza di legittimità.  

La rassegna, composta di due volumi, è suddivisa complessivamente in quattro parti, a loro volta suddivise in sezioni e capitoli, ognuno dei quali riguardante la singola tematica affrontata.  

Nella prima parte, dedicata al diritto sostanziale, e riguardata sotto il profilo degli istituti generali nonché delle singole fattispecie delittuose o contravvenzionali, sono stati tra l’altro affrontati i nodi interpretativi formatisi e dipanati dalle Sezioni Unite sia nella esegesi di tematiche di “antica data”, solo apparentemente prive di punti critici, sia nella decifrazione degli effetti di normative di recente conio, gravide di insidie e di “buchi neri”.  

Nel primo ambito vanno dunque annoverate, tra le altre, le pronunce intervenute con riguardo, ancora una volta, all’istituto della continuazione, ciclicamente posto all’attenzione del massimo consesso della Corte di cassazione in ragione dell’affacciarsi di aspetti sempre inediti, o alle tematiche riguardanti i reati di falso, specie laddove legate alla depenalizzazione attuata per effetto del d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 7 e del suo riflesso su altre previsioni del codice penale, non toccate dalla riforma.  

Nel secondo non possono non ricordarsi le pronunce volte a “sistematizzare” le norme di modifica della responsabilità professionale degli esercenti delle professioni sanitarie (ci si riferisce alla legge 8 marzo 2017, n. 24) e a ricavarne la esatta riparametrazione dei confini della colpa medica, a interpretare natura e struttura del reato di omesso versamento dei contributi previdenziali (come risultante all’esito delle modifiche operate dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8), e a valutare la portata di modifiche, apparentemente di poco momento, ma in realtà (come quella operata sul testo dell’art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 relativo al reato di omesso versamento di ritenute certificate) rivelatesi di significativa incidenza sulla stessa interpretazione dei fatti pregressi.  

È poi proseguita l’attenzione dedicata all’impegno esegetico delle sezioni semplici della Corte sul versante della ricognizione dei requisiti dell’istituto della causa di esclusione della punibilità rappresentato dalla particolare tenuità del fatto (istituto che, dalla sua entrata in vigore nel 2015 ad oggi, ha costantemente impegnato la giurisprudenza e la dottrina) e del non sempre facile coordinamento delle nuove norme, oltre che con le specifiche fattispecie di reato, anche con le regole processuali.  

Significativa anche, per l’attento raccordo con il principio di legalità, la pronuncia sempre delle Sezioni Unite in tema di tempus commissi delicti del reato di omicidio stradale in rapporto al mutamento di normativa intervenuto tra il momento della condotta e quello dell’evento.  

Né è stato possibile trascurare l’effetto, colto dalla Corte, delle nuove tecnologie, la cui portata è ogni giorno sempre più pervasiva, sulla delimitazione degli stessi confini di fattispecie penali caratterizzate dalla natura di pericolo (come quella di produzione di materiale pedopornografico dell’art. 600-quater cod. pen. già esaminata, nel 2000, dalle Sezioni Unite, e tornata oggi, anche in ragione della evoluzione appunto dei mezzi tecnologici impiegati per la sua commissione, al vaglio del massimo consesso della Corte).  

Nell’ambito della seconda parte, dedicata ai reati di criminalità organizzata e di terrorismo, così proseguendosi, anche nel 2018, nella specifica attenzione a tale settore già dedicata dalle precedenti rassegne, un particolare riguardo si è ritenuto di riservare all’analisi della Corte di Cassazione del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. in rapporto alle cosiddette “mafie delocalizzate” e alla struttura e caratteristiche delle stesse.  

Specifici contributi sono stati poi dedicati alle pronunce della Corte in tema di misure di prevenzione, collocate in apposita sezione, ivi segnalandosi, in particolare, la decisione delle Sezioni Unite sul tema del rapporto della confisca di prevenzione con i crediti muniti di ipoteca iscritta sui beni confiscati.  

La terza parte è dedicata al tema della criminalità economica, sia con riferimento a reati codicistici, come quelli, tra gli altri, di turbata libertà degli incanti, sia con riferimento a fattispecie di fonte speciale, come i reati fallimentari e il vasto settore della responsabilità da reato delle persone giuridiche.  

Infine, una quarta ed ultima parte è riservata all’analisi delle pronunce della Corte sui temi processuali, tra le quali è tornata alla ribalta, dopo le decisioni Dasgupta, Patalano e Troise, la questione, devoluta alle Sezioni Unite (e alla data di redazione di questa presentazione non ancora decisa), dei limiti dell’obbligo di rinnovazione nel giudizio di appello che abbia ribaltato la sentenza di primo grado assolutoria, dell’istruzione dibattimentale con specifico riguardo alle dichiarazioni di periti e consulenti; si è poi inteso proseguire nel “monitoraggio” delle sentenze delle sezioni semplici della Corte sul tema assai sensibile, perché oggetto del raccordo, non sempre facile, tra giurisprudenza nazionale e giurisprudenza europea, del divieto di bis in idem.  

Non è stata trascurata, da ultimo, nell’ambito sempre delle questioni processuali, la tematica dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere cui sono stati dedicati contributi di analisi delle pronunce delle sezioni semplici della Corte sugli aspetti di maggiore rilevanza.  

Il merito di avere realizzato la Rassegna va riconosciuto, ai magistrati Maria Cristina Amoroso, Luigi Barone, Paolo Bernazzani, Matilde Brancaccio, Elena Carusillo, Francesca Costantini, Paolo Di Geronimo, Bruno Giordano, Luigi Giordano, Giuseppe Marra, Anna Mauro, Marzia Minutillo Turtur, Andrea Nocera, Raffaele Piccirillo, Paola Proto Pisani, Andrea Antonio Salemme, Gennaro Sessa, Debora Tripiccione e Andrea Venegoni.  

La rifinitura dell’editing é merito invece del personale addetto alla Cancelleria e Segreteria dell’Ufficio.  

Un particolare ringraziamento, infine, al Cons. Silvestri, anch’egli prezioso partecipe della Rassegna, e che dopo anni di impegnativo e fecondo lavoro, da ultimo come Coordinatore, ha lasciato l’Ufficio, e al Presidente Giorgio Fidelbo, Coordinatore delle Sezioni Unite penali, che sul finire del 2018 ha lasciato, dopo sei anni di vicedirezione dell’ufficio del Massimario penale condotta con dedizione, passione e sapienza, l’incarico, e a cui si devono, ancora una volta, l’impulso e i successivi sviluppi che hanno consentito di gettare le fondamenta della presente Rassegna.  

Roma, 25 gennaio 2019  

CAMILLA DI IASI - GASTONE ANDREAZZA  

PARTE PRIMA QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE --- SEZIONE I - LEGGE PENALE

  • omicidio
  • reato
  • circolazione stradale
  • diritto penale

CAPITOLO I

IL TEMPO DEL COMMESSO REATO NELL’OMICIDIO STRADALE E NEI REATI “A DISTANZA”

(di Andrea Nocera )

Sommario

1 La decisione. - 2 La questione preliminare del termine per la proposizione del ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento nel caso di deposito non contestuale della motivazione. - 3 Pena illegale e principio di irretroattività. - 4 La successione di leggi nel tempo nel reato di omicidio stradale. - 5 Il tempus commissi delicti nei reati ad evento differito - 6 Il tempus commissi delicti nei reati con condotta perdurante nel tempo. - Indice delle sentenze citate

1. La decisione.

Con la sentenza Sez. U, n. 40986 del 19 luglio 2018, Pittalà, Rv. 273934, le Sezioni Unite hanno fornito la soluzione al quesito, del tutto peculiare, relativo al criterio di riferimento del tempus commissi delicti nei reati “a distanza” o di evento. Nell’occasione le Sezioni Unite hanno inteso definire i criteri per l’individuazione del momento consumativo nei reati “di durata” (reati abituali o permanenti) e, dunque, della disciplina applicabile in concreto nel caso di successione di norme penali.

Nella specie, il quesito rimesso alle Sezioni Unite, come emergente dagli orientamenti giurisprudenziali in contrasto, riguardava il tema della incidenza della successione di leggi penali nei reati ad evento differito o caratterizzati da una protrazione della condotta nel tempo, ossia sulla possibilità di applicazione della norma penale vigente al momento della realizzazione della condotta quando l’evento naturalistico, ad essa conseguente, fosse intervenuto nella vigenza di una legge penale sopravvenuta più sfavorevole.

Nel caso concreto l’imputato si era reso responsabile dell’investimento della vittima in prossimità di un attraversamento pedonale. Nel capo di imputazione, in particolare, gli era stato contestato il reato di omicidio stradale di cui all’art. 589-bis cod. pen – introdotto nel nostro codice penale dall’art. 1 della legge 23 marzo 2016, n. 41 – disposizione incriminatrice entrata in vigore il 25 marzo 2016, dopo la realizzazione della condotta di investimento e prima della verificazione dell’evento lesivo. Nella sentenza impugnata il tempus commissi delicti era stato individuato con riferimento alla data del decesso della persona offesa, verificatosi a distanza di circa sei mesi dal sinistro stradale, per gli esiti del traumatismo conseguenti all’investimento. La pena irrogata era stata determinata con riferimento ai più severi parametri edittali previsti dalla nuova ipotesi incriminatrice dell’omicidio stradale.

Avverso la sentenza di patteggiamento l’imputato proponeva ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento sulla base dell’unico motivo di doglianza della violazione del principio di irretroattività della nuova legge penale sfavorevole, sancito dagli artt. 25 Cost., 7 Convenzione EDU e 2 cod. pen.

La difesa deduceva che all’imputato era stato erroneamente ascritto il delitto di cui all’art. 589-bis cod. pen., in quanto all’epoca del verificarsi del sinistro era in vigore una disposizione penale più favorevole quoad poenam. Segnalava, quindi, l’erronea applicazione, ai fini del tempo del commesso reato, del c.d. “criterio dell’evento”, proponendo, in alternativa, l’adozione del “criterio della condotta”, unico idoneo a soddisfare l’esigenza di necessaria prevedibilità della sanzione tutelata dal precetto costituzionale che vieta l’applicazione retroattiva di trattamenti sanzionatori più severi nell’ipotesi di successione di norme penali nel tempo.

Le Sezioni Unite, nell’accogliere il ricorso, hanno affermato che la condotta costituisce il punto di riferimento temporale essenziale per l’individuazione del tempus commissi delicti nei casi in cui, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole, l’evento naturalistico cade nella vigenza di una legge penale più sfavorevole. Solo il criterio della condotta, infatti, consente di garantire la prevedibilità delle conseguenze penali e, con essa, l’autodeterminazione della persona. La realizzazione della condotta è il punto di riferimento temporale cui deve essere riconnessa l’operatività del principio di irretroattività ex art. 25 Cost. Il criterio dell’evento, di contro, sposterebbe in avanti detta operatività così determinando l’applicazione della legge penale sopravvenuta più sfavorevole, con un effetto di sostanziale retroattività della stessa.

2. La questione preliminare del termine per la proposizione del ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento nel caso di deposito non contestuale della motivazione.

In via preliminare la Corte ha affrontato ex officio la questione della ammissibilità del ricorso sotto il duplice profilo della possibilità per il giudice di indicare nel dispositivo un termine per il deposito della sentenza di patteggiamento, analogamente a quanto previsto dall’art. 544 cod. proc. pen., e della decorrenza, in caso di siffatta eventuale indicazione, del termine per l’impugnazione della sentenza.

In relazione al primo profilo le Sezioni Unite aderiscono all’indirizzo – pressoché consolidato – secondo il quale il giudice non può limitarsi alla mera lettura del dispositivo della sentenza di applicazione della pena, fissando un termine per il deposito successivo della motivazione (Sez. U, n. 16 del 15/12/1992 – dep. 1993 –, Cicero, Rv. 192806). L’art. 448, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce che la sentenza di applicazione della pena è pronunciata “immediatamente”, locuzione espressiva di una regola che non prevede un termine legale per il deposito della motivazione (Sez. 1, n. 1609 del 02/12/2014 – dep. 2015 –, Sedicina, Rv. 262554; conf., Sez. 1, n. 5496 del 03/02/2010, Renna, Rv. 246125 e Sez. 6, n. 46291 del 09/10/2014, Altobelli, entrambe non massimate sul punto). La fissazione nel dispositivo di un termine per detto deposito, pertanto, è da ritenersi “irrituale”.

Affermano, nella specie, che non può essere suscettibile di estensione la disposizione generale di cui all’art. 544, comma secondo, cod. proc. pen., dettata per la disciplina della sentenza dibattimentale, non essendo esplicitamente prevista una analoga disposizione per la sentenza di applicazione della pena concordata.

La necessità di una previsione normativa espressa si deduce dal fatto che analoga disposizione è riprodotta nel codice di rito per la sentenza emessa all’esito del giudizio abbreviato, posto che il rinvio operato dall’art. 442, comma 1, cod. proc. pen. “agli artt. 529 e seguenti” ricomprende anche l’art. 544 cod. proc. pen., e per la sentenza di non luogo a procedere ex art. 424, comma 4, cod. proc. pen.

Per la sentenza di patteggiamento, di contro, l’art. 448, comma 1, cod. proc. pen. prevede che detta sentenza è pronunciata “immediatamente”, indicazione chiara della necessità della stesura contestuale della motivazione, senza che sia possibile fissare un termine per il suo deposito. La fissazione nel dispositivo di un termine per il deposito della motivazione della sentenza di patteggiamento, secondo le Sezioni Unite, pur non inficiando la validità della pronuncia, è da ritenersi “irrituale” perché non prevista dal citato art. 448 cod. proc. pen.

La Corte rileva che precedenti arresti (Sez. 1, n. 26042 del 28/05/2003, Cataldi, Rv. 225273; Sez. 4, n. 43040 del 12/10/2011, Abdelkarim), discostandosi dall’orientamento che privilegia una rigorosa lettura del dato letterale della norma processuale, avevano individuato un termine legale di quindici giorni per il deposito della motivazione, pur senza dare precisa indicazione circa il fondamento normativo di tale termine “generale” e omettendo di valutare – alla luce del criterio sistematico – il contrasto con il dato testuale dell’art. 448, comma 1, cod. proc. pen.

La questione conseguente attiene all’individuazione del momento della decorrenza del termine per l’impugnazione della sentenza, nel caso in cui il giudice abbia provveduto irritualmente a fissare un termine per il deposito della motivazione. Sul tema, le Sezioni Unite danno continuità all’orientamento espresso da Sez. U, n. 295 del 12/10/1993 – dep. 1994 –, Scopel, Rv. 195617 (in senso conforme, più di recente, ex plurimis, Sez. 1, n. 5496 del 03/02/2010, Renna, cit.; Sez. 4, n. 43040 del 12/10/2011, Abdelkarim, cit.), affermando che la sentenza di applicazione della pena su richiesta deliberata nel corso delle indagini preliminari, dell’udienza preliminare e nel giudizio, ma “prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado”, ai sensi dell’art. 448, comma 1, prima parte, cod. proc. pen., deve considerarsi pronunciata in camera di consiglio, con conseguente individuazione del termine ordinario di quindici giorni per proporre impugnazione, ai sensi dell’art. 585, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. 

Si dà atto, tuttavia, di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla individuazione della decorrenza del termine di impugnazione della sentenza di patteggiamento.

Secondo un primo indirizzo, infatti, il termine di quindici giorni, operante anche nel caso in cui il giudice abbia formulato irrituale riserva di motivazione dilazionata, decorre dall’ultima delle notificazioni eseguite all’imputato o al difensore (Sez. 1, n. 5496 del 03/02/2010, Renna, Rv. 246125, cit.; Sez. 4, n. 43040 del 12/10/2011, Abdelkarim, cit.; Sez. 4, n. 31395 del 8/04/2013, Magazzù, Rv. 255988). Tale orientamento evidenzia che il riferimento al “caso previsto” o ai “casi previsti” dall’art. 544 cod. proc. pen., operato dall’art. 585, comma 1, lett. b) e c), secondo il senso reso palese dal dato testuale e dal collegamento sistematico con la lett. a) della medesima disposizione, deve essere inteso come rivolto ai soli casi in cui la riserva di motivazione è conforme alla norma richiamata, cioè all’art. 544 cod. proc. pen. relativamente alla sentenza di patteggiamento.

Un diverso orientamento, invece, ritiene che il dies a quo per l’impugnazione della sentenza di applicazione della pena, nel caso di irrituale fissazione di un termine per il deposito comunicato alle parti mediante lettura del dispositivo, decorra dal giorno di scadenza dello stesso, come fissato dal giudice, e non dalla notifica o comunicazione del provvedimento, sempre che il deposito di questo intervenga entro la data stabilita nel dispositivo. In questa prospettiva, si precisa che «a norma dell’art. 548, comma 2, la notifica dell’avviso di deposito sia dovuta soltanto nel caso in cui il giudice depositi la sentenza oltre il termine indicato nel dispositivo» (Sez. 6, n. 46291 del 09/10/2014, Altobelli, Rv. 261523; conf. Sez. 5, n. 1246 del 15/10/2014 – dep. 2015, Cabras, Rv. 261725; Sez. 4, n. 18081 del 24/03/2015, Ricci, Rv. 263595).

Privilegiando la richiamata interpretazione letterale delle disposizioni processuali, le Sezioni Unite recepiscono il primo dei due indirizzi, evidenziando che la fissazione nel dispositivo di un termine per il deposito della motivazione della sentenza di applicazione della pena su richiesta, per l’imprescindibile istanza di certezza nella individuazione dei termini di impugnazione e della relativa decorrenza, non può condurre a delineare un assetto di tale disciplina del tutto praeter legem.

Qualora il giudice del patteggiamento non abbia depositato la motivazione contestualmente alla decisione, ma abbia indicato in via irrituale un termine per il deposito, l’impugnazione – indipendentemente dal fatto che il “termine giudiziale” irrituale fissato sia stato o meno osservato – deve essere proposta entro quindici giorni dall’ultima notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito del provvedimento a norma dell’art. 585, comma 2, lett. a), cod. proc. pen.

Tale conclusione si fonda su un argomento valorizzato da Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Loy, Rv. 249670, in ordine alla disciplina della sentenza di non luogo a procedere, secondo cui «la disposizione di cui all’art. 585, comma 2, lett. c), cod. proc. pen., nella parte in cui stabilisce che il termine d’impugnazione decorre dalla scadenza di quello “determinato dal giudice per il deposito della sentenza”, è chiaramente riferibile alle sole sentenze dibattimentali, per le quali soltanto [...] opera la previsione di cui all’art. 544, comma 3, cod. proc. pen.».

La riserva di motivazione non produce alcuna nullità della sentenza, ma costituisce una irregolarità della procedura di manifestazione della decisione che incide sulla comunicazione della stessa alle parti e, dunque, sulla decorrenza del termine per impugnare ai sensi dell’art. 585, comma secondo, cod. proc. pen. (in tal senso, Sez. 1, n. 5496 del 03/02/2010, Renna, Rv. 246125, cit.).

In via conclusiva le Sezioni Unite, a risoluzione del contrasto rilevato, hanno affermato il seguente principio di diritto: «La motivazione della sentenza di applicazione della pena su richiesta deve essere depositata contestualmente alla pronuncia; qualora la motivazione non sia depositata contestualmente, anche per l’irrituale indicazione in dispositivo di un termine per il deposito, il termine di quindici giorni per l’impugnazione della sentenza pronunciata in camera di consiglio decorre – esclusa qualsiasi nullità della sentenza stessa ed indipendentemente dal fatto che il termine irritualmente indicato dal giudice sia stato o meno osservato – dall’ultima notificazione o comunicazione dell’avviso di deposito del provvedimento».

3. Pena illegale e principio di irretroattività.

La Corte si è quindi soffermata sui limiti entro i quali errori in diritto nella determinazione della pena possano dar luogo all’annullamento della sentenza.

Il tema ruota intorno alla nozione di “pena illegale” alla quale fa riferimento la giurisprudenza di legittimità anche ai fini della definizione dell’ambito della sindacabilità – in punto determinazione della pena – della sentenza di applicazione della pena su richiesta.

Nel caso di specie il ricorso non investe la pena in concreto stabilita dal giudice, ma la “legalità” della stessa, sia pure determinata per effetto di un accordo tra le parti, perché collocabile all’interno di limiti edittali più favorevoli rispetto a quelli applicati. Pur rientrando la pena in concreto applicata nei limiti edittali dettati dalla norma più favorevole in vigore all’epoca della condotta, si osserva che non è indifferente collocare la pattuizione nella cornice edittale astratta prevista dalla lex mitior pregressa. Infatti, il ricorso a parametri normativi che configurano l’ipotesi incriminatrice in termini di fattispecie aggravata può condurre alla determinazione di un trattamento sanzionatorio di maggior favore per l’odierno ricorrente per effetto del giudizio di bilanciamento con le attenuanti generiche, indicate dalle parti nel calcolo della pena concordata e riconosciute dal giudice di merito.

Le Sezioni Unite richiamano sul punto le spinte della giurisprudenza di legittimità verso un adeguamento della nozione di legalità convenzionale della pena.

L’art. 7 della Convenzione EDU enuncia simultaneamente il principio di legalità dei reati e delle pene (“nullum crimen, nulla poena sine lege”) e il principio di irretroattività. La giurisprudenza della Corte Edu ha progressivamente arricchito di contenuti la suddetta disposizione, affermando che essa implicitamente sancisce tutti i corollari del principio di legalità (sentenza Corte Edu, Grande Camera, 17 settembre 2009, sul caso Scoppola C. Italia), tra i quali il principio di retroattività della legge più favorevole (oltre, al principio di precisione e il divieto di applicazione analogica in malam partem e, quantomeno embrionalmente, il principio di colpevolezza).

Un ulteriore – e non meno rilevante – elemento di ancoraggio del principio di legalità della pena, nei termini sopra indicati, si rinviene nella funzione rieducativa della pena, di cui all’art. 27, comma 3, Cost (Corte cost. 26 giugno 1990, n. 313).

Nel sistema normativo convenzionale ed europeo il principio di irretroattività, sancito dall’art. 7 della Convenzione EDU e rubricato “Nullum crimen, nulla poena sine lege”, costituisce perno centrale di salvaguardia dei diritti individuali, che, come osservato dalla stessa Corte EDU, non si limita a proibire l’applicazione retroattiva del diritto penale a detrimento dell’imputato, ma consacra, in modo più generale, il principio di legalità in ordine ai reati ed alle pene (cfr. Corte Edu, 25 maggio 1993, Kokkinakiss c. Grecia, che estende il divieto di retroattività alla interpretazione estensiva ed analogica).

Il precetto penale e la relativa sanzione devono, dunque, trovare la propria fonte in una previsione legislativa entrata in vigore anteriormente al fatto commesso, di cui deve essere garantita piena conoscibilità ai destinatari (sul tema, cfr. COLELLA, La giurisprudenza di Strasburgo 2011: il principio di legalità in materia penale (art. 7 Cedu), in Dir. Pen. Contemp., Riv. Trim. 3-4/2012, p. 251).

Al riguardo, la Corte ha rilevato che, secondo un principio espresso già sotto il previgente codice di rito e confermato con l’avvento del nuovo, nell’ipotesi in cui il giudice abbia irrogato una sanzione che sia superiore ai limiti edittali ovvero in genere o specie più grave di quella prevista in astratto, è tenuta – anche d’ufficio – ad annullare la pronuncia, qualora non possa direttamente provvedere a rideterminare la medesima (Sez. 3, n. 3877 del 14/11/1995, Prati, Rv. 203205; conf., ex plurimis, Sez. 4, n. 39631 del 24/09/2002, Gambini, Rv. 225693, con riferimento alla mancata applicazione della disciplina sanzionatoria prevista per i reati di competenza del giudice di pace).

Più di recente, la nozione di “pena illegale” è stata oggetto di diverse pronunce che, affrontando il tema delle conseguenze della declaratoria di illegittimità costituzionale di talune norme sostanziali, hanno valorizzato il ruolo del giudice dell’esecuzione nel “ripristino” della pena costituzionalmente corretta (Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013 – dep. 2014 –, Ercolano, Rv. 258651; Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260696; Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264859). Queste pronunce hanno ritenuto illegale la pena che, per specie ovvero per quantità, non corrisponde a «quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice in questione, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale» (così, Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205).

Con specifico riferimento, poi, alla sentenza di patteggiamento, si è ritenuto che l’illegalità della pena applicata rende invalido l’accordo concluso dalle parti e ratificato dal giudice, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza che l’ha recepito, così reintegrando le parti nella facoltà di rinegoziare l’accordo stesso su basi corrette (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, cit.).

Le Sezioni Unite ritengono che, nel caso in esame, sia stata denunciata proprio un’ipotesi di applicazione di pena illegale perché in contrasto, prima di tutto, con il principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. Secondo la prospettazione del ricorrente, infatti, il procedimento di commisurazione del giudice del patteggiamento si è sviluppato all’interno di una comminatoria edittale in radice – e in toto – illegale perché lesiva di un principio che dà corpo alla tutela di un «valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali».

Il vizio della pronuncia, pertanto, è da ritenersi denunciabile con il ricorso per cassazione anche con riferimento alla sentenza di applicazione della pena su richiesta.

4. La successione di leggi nel tempo nel reato di omicidio stradale.

Nel merito del ricorso la Corte ha rilevato che nel rapporto tra la fattispecie di omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale (589, secondo comma, cod. pen.) e quella di omicidio stradale (589-bis cod. pen.) si è in presenza di una successione di leggi penali nel tempo.

Nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 23 marzo 2016, n. 41 (entrata in vigore il 25/03/2016), l’art. 589, secondo comma, cod. pen. comminava la pena della reclusione da 2 a 7 anni. La fattispecie di cui al secondo comma, in particolare, integrava una circostanza aggravante (ex plurimis, Sez. 4, n. 18204 del 15/03/2016, Bianchini, Rv. 266641; Sez. 4, n. 44811 del 03/10/2014, Salvadori, Rv. 260643), non soggetta, diversamente da quella di cui all’art. 589, terzo comma, cod. pen. (Sez. 4, n. 33792 del 23/04/2015, N., Rv. 264331), al regime derogatorio della disciplina relativa al giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee stabilito dall’art. 590-bis cod. pen. (sempre nella formulazione anteriore alla novella del 2016). Di conseguenza, l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, poteva condurre all’irrogazione di una pena, nel minimo, di 6 mesi di reclusione, nel caso di giudizio di equivalenza, ovvero di 4 mesi di reclusione, nel caso di giudizio di prevalenza della suddetta attenuante.

Il quadro sanzionatorio è mutato radicalmente con l’avvento della legge n. 41 del 2016 che ha introdotto il delitto di omicidio stradale di cui all’art. 589-bis cod. pen. È stata introdotta un’autonoma fattispecie incriminatrice (Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, Venni, Rv. 270918), con la conseguenza che l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche può condurre all’irrogazione, nel minimo, della pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione, in una cornice edittale sostanzialmente deteriore per l’imputato rispetto alla disciplina previgente. La pena applicata con la sentenza impugnata è stata determinata nell’ambito della nuova cornice edittale prima della riduzione per il rito.

5. Il tempus commissi delicti nei reati ad evento differito

La rilevata successione nel tempo di norme incriminatrici penali, espressione di una sostanziale continuità normativa, ha determinato l’insorgere di un contrasto giurisprudenziale circa il criterio di riferimento per l’individuazione del tempus commissi delicti nei reati in cui tra condotta ed evento intercorra un significativo intervallo di tempo e, in tale spazio, si verifichi la sopravvenienza di una disciplina legislativa più sfavorevole per l’imputato.

Nel caso di specie, la condotta ascritta all’imputato risale al 20/01/2016, mentre l’evento mortale si è verificato il 28/08/2016; medio tempore è intervenuta la disciplina più sfavorevole dettata dalla legge n. 41 del 2016, che ha delineato il quadro sanzionatorio all’interno del quale è stata definita la pena applicata ex art. 444 cod. proc. pen.

La questione involge il dibattito, particolarmente acceso in dottrina, circa l’unicità o la pluralità dei criteri determinativi del tempus commissi delicti (sulla pluralità dei criteri in funzione dei singoli istituti cfr. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, VIII ed., 2013, p. 96).

Secondo un indirizzo giurisprudenziale, infatti, nel caso in cui tra la data della condotta e quella in cui si verifica l’evento decorra un lasso temporale nel corso del quale intervenga una modifica normativa, per il trattamento sanzionatorio deve aversi riguardo «a quello vigente al momento della consumazione del reato: cioè al momento dell’evento lesivo» (Sez. 4, n. 22379 del 17/04/2015, Sandrucci). In particolare, non sussiste alcun un margine per evocare l’applicazione dell’art. 2, quarto comma, cod. pen. «per il rilievo assorbente che questo fa riferimento al tempo in cui è stato commesso il reato e cioè a quello in cui si è consumato» (in tali termini la citata Sez. 4, n. 22379 del 17/04/2015, Sandrucci).

A questo indirizzo è riconducibile anche una decisione che ha ritenuto corretta l’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 (oggi, art. 416-bis, comma 1, cod. pen.) in relazione ai reati di importazione e conseguente detenzione di armi da guerra, nei confronti di un imputato il quale aveva intrapreso trattative con il venditore prima dell’introduzione della circostanza aggravante, in un caso in cui la condotta illecita si era perfezionata, per effetto dell’apporto di altri concorrenti, dopo l’entrata in vigore della nuova norma (Sez. 5, n. 19008 del 13/03/2014, Calamita, Rv. 260003).

Secondo un diverso orientamento, invece, «al fine di stabilire la legge applicabile, non si tratta di individuare il momento della consumazione, ma quello nel quale il reato è stato commesso, come espressamente stabilisce la legge. E se vi sono reati nei quali commissione e consumazione coincidono, ve ne sono altri nel quali il momento della consumazione, col realizzarsi dell’evento, si verifica successivamente o può verificarsi successivamente» (Sez. 4, n. 8448, del 05/10/1972, Bartesaghi, Rv. 122686). Il legislatore, infatti, uniformandosi ai princìpi di irretroattività e di non ultrattività, ha distinto tra commissione e consumazione del reato. Pertanto, l’interprete non può identificare i due momenti. In caso contrario si giungerebbe all’ «applicazione retroattiva della legge nel caso di nuove o più gravi statuizioni penali, quando la condotta si sia esaurita sotto l’imperio di una legge che non prevedeva il fatto come reato, o che lo prevedeva meno grave di quanto non sia considerato dalla nuova. Ed in tal modo il reo verrebbe ad essere punito più gravemente per il fatto puramente casuale che nel periodo di tempo intercorrente tra la sua condotta e l’evento sia sopraggiunta la nuova legge, in tal modo determinandosi quell’incertezza sul grado di illiceità del comportamento umano che è escluso in modo assoluto dal principio dell’irretroattività» (così ancora, Sez. 4, n. 8448, del 05/10/1972, Bartesaghi, Rv. 122686).

Le Sezioni Unite hanno accolto il secondo indirizzo, ritenendo che cui, nel caso in cui la condotta sia stata interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e l’evento sia intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta.

La Corte ha recepito le spinte dottrinali che giustificano l’applicazione del criterio della condotta sulla base: 1. della funzione general – preventiva delle norme incriminatrici, in quanto è al momento in cui agisce, o omette di compiere l’azione doverosa, che l’agente si sottrae all’azione motivante e deterrente della norma incriminatrice; 2. del richiamato divieto di retroattività sfavorevole sancito dall’art. 7 della Convenzione EDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo le conseguenze penali delle azioni illecite devono essere prevedibili.

Tuttavia, la Corte ha inteso precisare i canoni ed i limiti applicativi del “criterio della condotta”. A tal fine, è ritenuto inutilmente posto l’incidente di costituzionalità – sollecitato nella requisitoria del Procuratore generale – della disposizione di cui all’art. 2, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui fa riferimento alla commissione del reato e non del fatto anche con riguardo ai reati di evento qualora quest’ultimo sia differito nel tempo e, dopo la realizzazione della condotta, sopravvenga una disciplina punitiva meno favorevole. Secondo la prospettazione della parte requirente, la disposizione appena indicata farebbe riferimento alla commissione del “reato” e non del “fatto” anche con riguardo ai reati di evento e, in particolare, nel caso in cui detto evento sia differito nel tempo e, dopo la realizzazione della condotta, sopravvenga una disciplina punitiva meno favorevole, così determinando, in contrasto con il principio dell’irretroattività della legge penale, l’applicazione della legge più sfavorevole in vigore al momento dell’evento. A sostegno di tale eccezione è stato aggiunto che l’espressione “reato” adoperata dalla norma costituzionale non permetterebbe di scindere, in via interpretativa, gli elementi costitutivi del reato (condotta, nesso causale, evento).

La Corte, come detto, non ha condiviso questa impostazione.

Secondo la decisione in esame, infatti, «l’interpretazione letterale della legge [...] è il canone ermeneutico prioritario per l’interprete», mentre «l’ulteriore canone dato dall’interpretazione logica e sistematica soccorre e integra il significato proprio delle parole, arricchendole della ratio della norma e del suo coordinamento nel sistema nel quale va ad inserirsi», ma tale criterio «non può servire ad andare oltre quello letterale quando la disposizione idonea a decidere la controversia è chiara e precisa» (Sez. U, n. 46688 del 29/09/2016, Schirru).

In forza dell’interpretazione letterale della norma, nell’art. 2 cod. pen. il termine “fatto”, adoperato dal primo e dal secondo comma, evoca la fattispecie non (o non più) penalmente sanzionata, mentre quello “reato” di cui al quarto comma designa la fattispecie penalmente sanzionata (e assoggettata al regime della successione di leggi penali). La locuzione “reato” contenuta nel comma quarto, pertanto, non va riferita al “reato” nella triade dei suoi elementi costitutivi, condotta – nesso causale – evento naturalistico.

L’individuazione del tempus commissi delicti, inoltre, non può essere effettuata in termini validi in via generale, ma va riferita ai singoli istituti e ricostruita sulla base della ratio di ciascuno di essi e dei princìpi che li governano. Non si rinviene, infatti, nel codice penale una definizione “onnicomprensiva” del tempus commissi delicti.

Tale, in particolare, non può essere considerata quella offerta dall’art. 6 cod. pen., che, al fine di individuare i reati commessi nel territorio dello Stato, fa coincidere la commissione del reato con il verificarsi nel territorio stesso della condotta (anche in parte) ovvero dell’evento. Proprio l’alternatività – o, meglio, l’equivalenza – ai fini dell’art. 6 cod. pen. del criterio della condotta e del criterio dell’evento dimostra l’inidoneità di detta disciplina a fissare il tempus commissi delicti ai fini della successione di leggi.

Una disciplina specifica, inoltre, è dettata in tema di decorrenza del termine di prescrizione (art. 158 cod. pen.). Formulazioni sostanzialmente espressive del sintagma “reato commesso”, poi, si rinvengono in numerose disposizioni del codice penale relative ad istituti diversi (ad esempio, alla recidiva: art. 99; alla sospensione condizionale della pena: art. 163, secondo e terzo comma; al perdono giudiziale: art. 169; all’amnistia: art. 151), ciascuno connotato da una ratio particolare ed inserito in contesti normativi specifici.

Deve concludersi, pertanto, che il riferimento letterale alla “commissione del reato” contenuto nell’art. 2, comma quarto, cod. pen. non è di ostacolo all’individuazione della condotta dell’agente quale punto di riferimento cronologico della successione di leggi.

Esclusa la necessità di promuovere un incidente di costituzionalità, la Corte ha affermato che le ragioni per le quali, ai fini della determinazione del tempus commissi delicti, debba trovare applicazione il criterio della condotta derivano dall’interpretazione sistematica e dalla valorizzazione dei princìpi – innanzitutto costituzionali – che governano la successione di leggi penali.

Tale criterio, infatti, si presenta rispettoso del principio di irretroattività della norma più sfavorevole, che attiene non solo alle norme incriminatrici, ma anche a quelle che «incidono sulla qualità e quantità della pena» (Corte cost, sentenza n. 306 del 1993). L’irretroattività della norma penale è argine, a garanzia della persona, contro i possibili arbìtri del legislatore e non è suscettivo di deroghe. Esso risponde un’istanza di preventiva valutabilità da parte dell’individuo delle conseguenze penali della propria condotta, che è funzionale a preservare la libera autodeterminazione della persona. In tal senso solo la condotta può costituire punto di riferimento temporale essenziale a garantire la “calcolabilità” (rectius, prevedibilità) delle conseguenze penali e, con essa, l’autodeterminazione della persona (Corte cost., sent n. 394 del 2006; conf., ex plurimis, C. Cost. sent. n. 236 del 2011).

Le Sezioni Unite evidenziano che è al momento della condotta che «deve essere riconnessa l’operatività del principio di irretroattività ex art. 25 Cost., posto che “spostare in avanti” detta operatività, correlandola all’evento del reato, determinerebbe, qualora alla condotta interamente posta in essere nella vigenza di una legge penale sia sopravvenuta una normativa penale più sfavorevole, la sostanziale retroattività di quest’ultima rispetto al momento in cui è effettivamente possibile per la persona “calcolare” le conseguenze penali del proprio agire; con l’inevitabile svuotamento dell’effettività della garanzia di autodeterminazione della persona.»

La necessaria valutabilità delle conseguenze penali della condotta dell’uomo e la ratio di garanzia del principio di irretroattività della norma più sfavorevole indirizzano la soluzione della questione rimessa alle Sezioni Unite verso l’adesione al “criterio della condotta”.

Le Sezioni Unite, poi, hanno desunto dai lavori preparatori dell’art. 25 Cost. una chiara indicazione a favore della necessità di correlare, dal punto di vista cronologico, il principio di irretroattività alla condotta dell’agente e non all’evento. La disposizione costituzionale, infatti, ha recepito di un emendamento proposto al fine di stabilire «in maniera precisa che la norma di legge penale deve preesistere non solo all’evento, ma anche all’azione», poiché è in quest’ultima che «si realizza il contrasto tra la volontà imputabile del delinquente e la volontà della legge».

Questa prospettiva interpretativa, inoltre, è stata valorizzata anche dall’orientamento giurisprudenziale secondo cui, in tema di successione di leggi nel tempo, la norma incriminatrice più severa, ripristinata per effetto della pronuncia di incostituzionalità di una successiva norma penale di favore, non può essere applicata ai fatti commessi durante la vigenza di quest’ultima, rispetto ai quali «non può avere svolto alcuna funzione di orientamento e di limite delle scelte di comportamento dell’agente» (Sez. 3, n. 28233 del 03/03/2016, Menti, Rv. 267410; conf., Sez. 3, n. 4185 del 19/10/2016 – dep. 2017 –, Facciuto, Rv. 269068; Sez. 4, n. 44808 del 26/09/2014, Madani, Rv. 260735).

Anche l’art. 7, par. 1, CEDU, infine, sancisce il divieto di applicazione retroattiva delle norme penali incriminatrici assicurando come ha chiarito la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che, nel momento in cui un imputato commette l’atto che ha dato luogo all’azione penale, esista una disposizione legale che rende tale atto punibile in modo da poter orientare il suo agire (Corte Edu, sentenza 22 giugno 2000, Coéme c. Belgio, § 145).

Ai plurimi spunti interpretativi letterali si associa, poi, il dato di ordine sistematico tratto dai profili funzionali di rilievo costituzionale della pena.

La fissazione, ai fini della successione di leggi penali, del tempus commissi delicti in quello della condotta tipica trova poi una decisiva conferma di ordine sistematico sul terreno delle funzioni costituzionali della pena.

La richiamata funzione di prevenzione generale della pena si rileva nella necessità che, nel momento in cui agisce ovvero omette di compiere l’azione doverosa, l’agente si ponga in contrasto con la funzione di orientamento della norma penale.

La funzione rieducativa, poi, fa emergere la centralità del momento della condotta. Come sottolineato da Corte cost., sent. n. 364 del 1988, «ognuno dei consociati deve essere posto in grado di adeguarsi liberamente o meno alla legge penale, conoscendo in anticipo – sulla base dell’affidamento nell’ordinamento legale in vigore al momento del fatto – quali conseguenze afflittive potranno scaturire dalla propria decisione [...]: aspettativa che sarebbe, per contro, manifestamente frustrata qualora il legislatore potesse sottoporre a sanzione criminale un fatto che all’epoca della sua commissione non costituiva reato, o era punito meno severamente».

Il momento della “commissione” si correla all’affidamento sulle conseguenze penali previste dall’ordinamento legale. La condotta tipica acquista rilievo decisivo per determinare il tempus commissi delicti ai fini della successione di leggi penali, specie nel caso in cui, come nella fattispecie concreta, sussiste un significativo iato temporale tra condotta ed evento, per lo sviluppo dell’iter criminis, e in tale spazio temporale si verifichi la sopravvenienza di una legge penale più sfavorevole per l’autore.

La dottrina (ROMANO, Commentario Sistematico del Codice penale (artt. 1-84), 2004, III ed., 2004, Art. 2, n. 2) ha descritto queste ipotesi con la definizione di reato “a distanza” o “ad evento differito”, riconducendole alla più generale figura del reato “a tempi plurimi”. Si osserva, in particolare, che nei reati di evento, ai fini della determinazione del tempus commissi delicti, occorre guardare al momento in cui si verifica la condotta, poiché è questa l’estrinsecazione del processo di motivazione dell’agente e l’atto di ribellione con riferimento al quale, secondo la norma allora vigente, il soggetto poteva eventualmente rappresentarsi specifiche conseguenze del suo operato.

Il “criterio della condotta” appare, dunque, l’unico compatibile con la condivisa interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2, comma 4, cod. pen. ed il principio di irretroattività in malam partem sancito dall’art. 7 Convenzione EDU, così legittimando, nel caso di sopravvenienza di una norma più sfavorevole, l’accesso alla cornice sanzionatoria della lex mitior vigente al momento della condotta e non a quella introdotta dopo il suo perfezionamento e prima del verificarsi dell’evento.

Conclusivamente, le Sezioni Unite, nel disporre l’annullamento della sentenza di patteggiamento con cui era stata applicata la pena più severa introdotta dalla norma incriminatrice dell’omicidio stradale di cui all’art. 589-bis cod. pen., entrata in vigore medio tempore, prima della verificazione dell’evento lesivo, hanno enunciato il seguente principio di diritto: «in tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta».

6. Il tempus commissi delicti nei reati con condotta perdurante nel tempo.

Per completezza, nella sentenza la Corte esamina la questione dell’individuazione del tempus commissi delicti ai fini della successione di leggi penali con riguardo ad alcune figure di reato caratterizzate dal protrarsi nel tempo della stessa condotta tipica (non già dalla “distanza” tra condotta ed evento).

La casistica viene individuata schematicamente dalla manualistica nei c.d. reati ad esecuzione frazionata, rientranti nella categoria più generale dei “reati a tempi plurimi” (ad es.: veneficio a piccole dosi giorno per giorno) e dei reati permanenti e abituali (sul tema cfr. la classificazione offerta da MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 96).

Una protrazione della condotta suscettibile di conoscere, nel suo svolgimento, il sopravvenire di una legge penale più sfavorevole si registra nel reato permanente, rispetto al quale la giurisprudenza di legittimità individua il tempus commissi delicti, ai fini della successione di leggi penali, nella cessazione della permanenza. Qualora la condotta antigiuridica si protragga nel vigore della nuova legge, pertanto, è quest’ultima che deve trovare applicazione (ex plurimis, Sez. 3, n. 43597 del 09/09/2015, Fiorentino, Rv. 265261; Sez. 5, n. 45860 del 10/10/2012, Abbatiello, Rv. 254458).

Pur senza affrontare la questione circa la natura unitaria del reato di durata, ossia se, sopravvenuta una norma più sfavorevole, essa si applichi anche alle condotte pregresse oppure necessiti una scissione tra i due periodi di realizzazione della condotta, le Sezioni Unite individuano nel criterio della condotta la chiave risolutiva del tempus nei reati di durata.

Nel caso del reato permanente, in particolare, è proprio il protrarsi della condotta sotto la vigenza della nuova e più sfavorevole legge penale ad assicurare la prevedibilità per l’agente delle conseguenze della sua azione, rispettando la ratio garantistica del principio di irretroattività.

Il medesimo criterio torva applicazione anche per il reato abituale, in relazione al quale, ai fini della successione di leggi penali, il tempus commissi delicti coincide con la realizzazione dell’ultima condotta tipica integrante il fatto di reato (cfr. Sez. 5, n. 10388 del 06/11/2012 – dep. 2013 –, Rv. 255330; Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C. e altro, Rv. 260410; Sez. 5, n. 48268 del 27/05/2016, D., Rv. 268162, a proposito dell’introduzione del reato di atti persecutori e, dunque, in presenza – non già di uno ius superveniens portatore di un trattamento sanzionatorio più severo, bensì – di una nuova incriminazione, la cui applicabilità presuppone la realizzazione, dopo l’introduzione della nuova fattispecie incriminatrice, di tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 612-bis cod. pen.).

Ancora, con riferimento alla nuova disciplina introdotta dalla legge n. 155 del 2005, che ha trasformato da contravvenzione a delitto la violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione dell’obbligo di soggiorno (art. 9 della legge 27 dicembre 1956 n. 1423), l’orientamento, espresso dalla citata Sez. 1, n. 20334 del 11/05/2006, Caffo, Rv. 234284, che ritiene sufficiente, ai fini della applicazione della nuova ipotesi delittuosa, la realizzazione anche di una sola condotta dopo l’entrata in vigore della nuova norma, non solo non riguarda un reato di evento, ma in sostanza fa riferimento al “criterio della condotta”, richiedendo che il comportamento trasgressivo delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione abbia a manifestarsi almeno una volta nel periodo di vigenza della legge successiva.

Nelle ipotesi descritte, ove sotto la vigenza della norma sfavorevole sia stata realizzata una porzione compiuta di condotta di reato, l’intero “fatto” non può che ricadere nell’ambito di applicazione della nuova norma, in armonia con la ratio della prevedibilità (o “calcolabilità”) da parte dell’agente delle conseguenze penali (più gravi) derivanti dalla prosecuzione della condotta permanente, o di reiterazione della condotta abituale.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 4, n. 8448, del 05/10/1972, Bartesaghi, Rv. 122686 Sez. U, n. 16 del 15/12/1992 – dep. 1993 –, Cicero, Rv. 192806 Sez. U, n. 295 del 12/10/1993 – dep. 1994 –, Scopel, Rv. 195617 Sez. 3, n. 3877 del 14/11/1995, Prati, Rv. 203205 Sez. 4, n. 39631 del 24/09/2002, Gambini, Rv. 225693 Sez. 1, n. 26042 del 28/05/2003, Cataldi, Rv. 225273 Sez. 1, n. 20334 del 11/05/2006, Caffo, Rv. 234284 Sez. 1, n. 5496 del 03/02/2010, Renna, Rv. 246125 Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Loy, Rv. 249670 Sez. 4, n. 43040 del 12/10/2011, Abdelkarim Sez. 5, n. 45860 del 10/10/2012, Abbatiello, Rv. 254458 Sez. 5, n. 10388 del 06/11/2012 – dep. 2013 –, Rv. 255330 Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013 – dep. 2014 –, Ercolano, Rv. 258651 Sez. 4, n. 31395 del 8/04/2013, Magazzù, Rv. 255988 Sez. 5, n. 19008 del 13/03/2014, Calamita, Rv. 260003 Sez. 4, n. 44808 del 26/09/2014, Madani, Rv. 260735 Sez. 4, n. 44811 del 03/10/2014, Salvadori, Rv. 260643 Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260696 Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C. e altro, Rv. 260410 Sez. 6, n. 46291 del 09/10/2014, Altobelli, Rv. 261523 Sez. 5, n. 1246 del 15/10/2014 – dep. 2015 –, Cabras, Rv. 261725 Sez. 1, n. 1609 del 02/12/2014 – dep. 2015 –, Sedicina, Rv. 262554 Sez. 4, n. 22379 del 17/04/2015, Sandrucci Sez. 4, n. 18081 del 24/03/2015, Ricci, Rv. 263595 Sez. 4, n. 33792 del 23/04/2015, N., Rv. 264331 Sez. 3, n. 43597 del 09/09/2015, Fiorentino, Rv. 265261 Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264859 Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205 Sez. 3, n. 28233 del 03/03/2016, Menti, Rv. 267410 Sez. U, n. 46688 del 29/09/2016, Schirru Sez. 4, n. 18204 del 15/03/2016, Bianchini, Rv. 266641 Sez. 5, n. 48268 del 27/05/2016, D., Rv. 268162 Sez. 3, n. 4185 del 19/10/2016 – dep. 2017 –, Facciuto, Rv. 269068 Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, Venni, Rv. 270918 Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018, Pittalà

SEZIONE II LE FORME DI MANIFESTAZIONE DEL REATO

  • reato
  • pubblico ufficiale
  • diritto penale

CAPITOLO I

RESISTENZA A PIÙ PUBBLICI UFFICIALI E CONCORSO FORMALE DI REATI

(di Gennaro Sessa )

Sommario

1 Premessa. - 2 La resistenza a pubblico ufficiale. - 2.1 Evoluzione della fattispecie criminosa. - 2.2 Struttura del reato. - 3 Il concorso formale di reati e i concetti di unità e pluralità di azioni. - 4 La dottrina sull’unicità o pluralità di reati nel reato di resistenza a più pubblici ufficiali. - 5 Il contrasto nella giurisprudenza di legittimità. - 5.1 La giurisprudenza favorevole al concorso formale di reati. - 5.2 La giurisprudenza favorevole all’unicità del reato. - 6 Svolgimento del processo. - 7 L’ordinanza di rimessione e il quesito posto alle Sezioni Unite. - 8 La pronunzia delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nel corso dell’anno 2018 ha formato oggetto di esame da parte delle Sezioni Unite la seguente questione controversa: “Se, in tema di resistenza a pubblico ufficiale, la condotta di chi, con una sola azione, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio, configuri un unico reato ovvero un concorso formale di reati o un reato continuato”.

Il formarsi dei due contrapposti orientamenti – l’uno sostenitore della pluralità di illeciti in concorso formale, l’altro propugnante l’unicità del reato – ha reso necessario l’intervento della Corte a Sezioni Unite, che, come si vedrà, ha recepito, all’esito di un articolato percorso argomentativo, il primo di essi.

Alla decisione, depositata il 18/10/2018, non risulta siano seguite, nel breve lasso temporale successivo a tale data, ulteriori pronunzie sul tema delle Sezioni semplici, ragion per cui, allo stato, non è possibile dar conto di allineamenti o disallineamenti alla pronunzia delle Sezioni Unite.

Per un’utile perimetrazione della materia cui inerisce la quaestio iuris affrontata dal Collegio, si rileva che vengono in rilievo disposizioni di rango costituzionale (in specie quella di cui all’art. 3 Cost.), di fonte primaria interna (quali, segnatamente, quelle di cui agli artt. 337, 336, 338 e 81 cod. pen.) e di fonte sovranazionale (quali quelle di cui all’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, agli artt. 49 e 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e all’art. 15 del Patto Internazionale dei Diritti Civili).

2. La resistenza a pubblico ufficiale.

2.1. Evoluzione della fattispecie criminosa.

Ai fini dell’esame dell’indicata quaestio iuris, deve effettuarsi un sintetico inquadramento della fattispecie di cui all’art. 337 cod. pen.

Al riguardo, giova segnalare che essa trova il suo antecedente nell’incriminazione prevista all’art. 190 del codice Zanardelli, nel cui impianto era considerato reato meno grave, sanzionato quindi con pena più lieve, rispetto a quello, distinto, di violenza pubblica.

Successivamente il codice Rocco operò in materia una netta inversione di tendenza, esprimendo un chiaro privilegio per l’autorità.

L’impronta autoritaria del codice penale del 1930 emerge innanzitutto dalla collocazione nel capo II del Titolo II delle disposizioni relative all’incriminazione dei fatti di violenza e di resistenza all’autorità, ossia dall’innesto di dette fattispecie in quello afferente la tutela della P.A., intesa come tutela dell’attività funzionale della stessa, senza distinzione alcuna tra le diverse autorità.

Tale tecnica d’incriminazione è volta ad assicurare il “normale” funzionamento della P.A.: tutta l’attività funzionale riferibile allo Stato e agli altri enti pubblici, che non sia protetta da norme più specifiche, è potenzialmente assicurata dai reati di cui al titolo in esame.

A seguito della successiva trasformazione del regime politico e istituzionale, nonostante gli sforzi della giurisprudenza di legittimità finalizzati a una lettura costituzionalmente orientata della fattispecie incriminatrice de qua, non appare sciolto ogni dubbio circa la conformità ai principi costituzionali (e segnatamente a quello di eguaglianza) del sistema di rafforzamento delle incriminazioni delle manifestazioni di violenza e di resistenza, che finiscono per riconoscere, secondo alcuna dottrina, una tutela privilegiata ai pubblici agenti nell’esercizio delle proprie funzioni.

2.2. Struttura del reato.

Il delitto di resistenza a pubblico ufficiale si realizza quando un qualunque soggetto (“chiunque”) usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio o a chi, richiesto, presti assistenza ai predetti, durante il compimento di un atto di ufficio o di servizio.

L’elemento oggettivo del reato risulta tipizzato sul piano teleologico, sanzionandosi ogni condotta diretta a conseguire lo scopo oppositivo indicato dalla norma.

I concetti di violenza o minaccia rilevano quindi nella loro idoneità e univocità a impedire o a turbare la libertà d’azione del soggetto passivo, mentre resta esclusa dall’area del penalmente illecito la resistenza meramente passiva, come la mera disobbedienza.

Conseguentemente la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato le nozioni di violenza e minaccia come modalità alternative di realizzazione della condotta, precisando che la violenza non deve necessariamente estrinsecarsi in un’aggressione fisica, né deve essere diretta necessariamente verso la persona del pubblico ufficiale, potendo ben indirizzarsi sulle cose, verso terzi o, finanche, verso lo stesso agente, purchè sia idonea a coartare la volontà del pubblico ufficiale o a turbare il compimento dell’atto.

La condotta violenta o minacciosa deve realizzarsi inoltre mentre si compie un atto di ufficio o di servizio.

Tale limite di tempo costituisce il presupposto del reato di resistenza, senza il quale l’uso della violenza o della minaccia configurerebbe un diverso titolo di reato.

Per quanto concerne poi i rapporti con altri reati, la dottrina è concorde nel ritenere che i delitti di violenza privata e di percosse, che sono impliciti nella violenza o minaccia essendo presupposti dal delitto in esame, restano in esso assorbiti, mentre concorrono con lo stesso i delitti di lesioni personali, di tentato omicidio, di omicidio e di sequestro di persona, che travalicano il concetto di violenza necessario e finalizzato alla realizzazione della resistenza.

Con riguardo all’interesse tutelato dalla norma, la prevalente dottrina converge nell’individuarlo nella libertà di azione della P.A. in fase di esecuzione di decisioni liberamente adottate, indicando altresì, solo in via sussidiaria e strumentale, la tutela della sicurezza e della libertà del singolo pubblico ufficiale.

Viene quindi attribuito primario rilievo alla tutela della P.A., sottolineandosi il rapporto tra incriminazione e opposizione all’attività funzionale.

Secondo altri autori, quello sanzionato dall’art. 337 cod. pen. sarebbe invece un reato plurioffensivo, che, in uno alla regolarità amministrativa, tutelerebbe anche la libertà morale del pubblico ufficiale incaricato di eseguire l’atto, anche se in modo strumentale rispetto alla tutela del bene collettivo-istituzionale.

Tale precisazione consente una lettura costituzionalmente orientata della norma, in relazione alla quale alcuni autori hanno precisato che essa non appresta una tutela personale e privilegiata al cittadino nella sua qualità di pubblico ufficiale o d’incaricato di pubblico servizio, ma mira, piuttosto, alla salvaguardia del diritto-dovere della P.A. di non subire opposizioni durante l’esercizio delle proprie funzioni.

Le suddette considerazioni, relative alla configurazione dell’interesse tutelato dall’art. 337 cod. pen., si riflettono sull’individuazione della persona offesa dal delitto.

Secondo parte della dottrina – in linea con la giurisprudenza di legittimità, che riconosce al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio la legittimazione a costituirsi parte civile (così Sez. 6, n. 23259 del 15/05/2012, Venuleo, Rv. 253009) – oltre allo Stato devono essere considerati soggetti passivi del reato di cui trattasi anche coloro nei cui confronti si dirige l’azione.

Per quanto concerne infine l’elemento soggettivo del reato, dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere necessario che il soggetto attivo sia consapevole di usare violenza o minaccia al fine di impedire l’esecuzione dell’atto di ufficio o servizio.

Si richiede, pertanto, in linea con la giurisprudenza di legittimità, sia il dolo generico, sia quello specifico, ovvero la particolare intenzione di opporsi al compimento dell’atto cui si sta dando esecuzione.

3. Il concorso formale di reati e i concetti di unità e pluralità di azioni.

Per stabilire se, in tema di resistenza a pubblico ufficiale, integri un unico reato o dia luogo piuttosto a un concorso formale o ad un reato continuato la condotta di chi, con un’unica azione, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, mentre costoro compiono un atto del loro ufficio o servizio, è utile dedicare qualche breve cenno all’istituto del concorso formale omogeneo di reati, che si ha quando un soggetto, con una sola azione od omissione, commette più violazioni della medesima disposizione di legge e, quindi, più reati.

Il concetto di unità di azione naturalisticamente inteso non sempre coincide con quello di unità di azione in senso giuridico, specie quando la condotta da valutare sia posta in essere entro un ristretto lasso temporale e in unicità di contesto spaziale.

In tali casi, ai fini dell’individuazione dell’unità o della pluralità di azioni giuridicamente rilevanti, la dottrina tradizionale ritiene, generalmente, che l’azione resti giuridicamente unica quando più azioni (naturalisticamente intese) vengano poste in essere:

a) contestualmente (ovvero senza soluzione di continuità, in un ambito temporale ristretto);

b) per, il raggiungimento del medesimo fine, ovvero in danno del medesimo bene-interesse tutelato.

Gli stessi autori avvertono tuttavia che tale concetto normativo-sociale di azione unitaria non sempre è in grado di offrire una delimitazione sicura e al riparo da applicazioni arbitrarie, sottolineando la necessità che la considerazione di scopo e di contesto non sia disgiunta dalla contemporanea ricognizione del significato normativo delle fattispecie che vengono, di volta in volta, in rilievo.

Per stabilire, in particolare, se si configuri un concorso formale omogeneo occorre verificare quante volte una medesima azione violi una stessa norma incriminatrice e, in proposito, appare assumere rilevanza decisiva la distinzione tra norme incriminatrici che tutelano beni altamente personali (vita, integrità fisica, libertà personale, onore) e norme che proteggono beni di natura diversa: nel primo caso è fuori dubbio che, se con una medesima azione si ledono soggetti passivi diversi, si configurerà una pluralità di reati (si pensi al caso in cui con un sol colpo si provochi la morte di due soggetti); nel secondo caso, in presenza di una sola azione, seppur lesiva di soggetti passivi diversi, non sempre si configurerà una pluralità di reati.

In proposito si fa l’esempio di un unico furto, commesso con una sola azione d’impossessamento di una cosa appartenente a più soggetti passivi, fattispecie in cui si configura un reato unico, in quanto il bene patrimonio, oggetto di tutela, non è annoverato tra quelli altamente personali.

Unicità del furto – si osserva – si avrebbe anche nel caso dell’impossessamento di più beni, in quanto la pluralità di oggetti rubati comporterebbe soltanto un aggravamento della pena.

4. La dottrina sull’unicità o pluralità di reati nel reato di resistenza a più pubblici ufficiali.

Anche la dottrina si divide sulla sussistenza di un concorso formale omogeneo di reati nella specifica ipotesi in cui, in un unico contesto di azione, la resistenza si svolga contro più pubblici ufficiali o più incaricati di pubblico servizio, anche se molto scarni sono i contributi sulla specifica questione.

Soltanto gli autori che sostengono la sussistenza di un unico reato spendono qualche parola sulla questione, fondando l’opzione ermeneutica sull’individuazione del soggetto passivo del reato nella P.A., che viene offesa attraverso le persone fisiche, suoi organi, costituenti, dal canto loro, l’oggetto materiale della condotta.

L’oggetto giuridico della tutela penale è costituito invece dall’interesse della P.A. alla libertà di azione e all’esecuzione della propria volontà, sicché solo in tale prospettiva è tutelata anche la libertà individuale del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio, quali organi della P.A. medesima.

Detta prospettazione è avallata dalla considerazione che la violenza non deve necessariamente avere a oggetto la persona del pubblico ufficiale, potendo cadere anche sulle cose e che la minaccia può essere commessa verbalmente, per iscritto e in assenza del pubblico ufficiale, con il solo limite dell’idoneità ad opporsi all’atto d’ufficio.

Da tale opzione ermeneutica la dottrina in esame deduce che si avrà reato unico quando, in un medesimo contesto di azione, la resistenza si svolga contro più pubblici ufficiali o più incaricati di un pubblico servizio, in quanto tale pluralità non incide sull’unità ontologica del reato, ravvisandosi un’unica offesa al bene giuridico, anche se plurimo è il soggetto passivo della condotta.

Gli autori che affermano, invece, la sussistenza di una pluralità di reati – tanti quanti sono i pubblici ufficiali nei cui confronti sono posti in essere gli atti di violenza o di minaccia integranti la resistenza – non esplicitano le specifiche ragioni alla stregua delle quali giungono a tale conclusione, limitandosi, talvolta, a citare l’esistenza di un orientamento di segno opposto o di una giurisprudenza favorevole a tale opzione ermeneutica.

Vale la pena porre in evidenza che qualche autore, tra quelli che propugnano la pluralità di reati, sostiene che, qualora l’agente, in un unico contesto spazio-temporale, ponga in essere congiuntamente sia violenza che minaccia nei confronti di un pubblico ufficiale, il reato di resistenza commesso resta unico, in quanto trattasi di illecito a fattispecie mista alternativa, che può essere integrata dall’impiego, congiunto o alternativo, della violenza o della minaccia.

5. Il contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Come evidenziato dall’ordinanza di rimessione di cui di seguito si dirà, sulla quaestio iuris in parola si sono formati, nella giurisprudenza della Suprema Corte, due opposti orientamenti, di cui il primo favorevole alla sussistenza di un concorso formale di reati – eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione – e il secondo propugnante l’unicità del reato.

5.1. La giurisprudenza favorevole al concorso formale di reati.

Già a far data dagli anni ottanta, la Corte di Cassazione ha affermato che, nell’ipotesi di funzione pubblica esercitata da una pluralità di pubblici ufficiali attraverso azioni che si integrano a vicenda, la pluralità delle contrapposte reazioni (minacciose o violente), poste in essere dall’autore della resistenza per bloccare le predette complesse funzioni, rientra nel paradigma del reato continuato (Sez. 6, n. 3546 del 07/04/1988 – dep. 1989 –, Grazioso, Rv. 180728).

Va evidenziato che l’enunciato principio di diritto è stato applicato dalla Corte in un caso in cui due carabinieri, incaricati di procedere all’arresto di un imputato in relazione al delitto di sequestro di persona, avevano aperto il fuoco da due contrapposte posizioni, venendo, a loro volta, fatti oggetto da colpi d’arma di risposta.

In punto di diritto, la sentenza evidenzia che, pur essendo corretto affermare che il bene giuridico tutelato dall’art. 337 cod. pen. è costituito dall’unitario interesse pubblico al normale funzionamento della P.A. e non dall’incolumità personale dei singoli funzionari operanti, non può disconoscersi che, laddove la funzione pubblica sia esercitata da più pubblici ufficiali attraverso differenti azioni, le contrapposte plurime reazioni devono ritenersi riconducibili al paradigma del reato continuato, analogamente a quanto sostenuto dalla giurisprudenza in relazione al reato di oltraggio (Sez. 6, n. 3085 del 27/11/1981 – dep. 1982 –, Pulcinelli, Rv. 152871; Sez. 6, n. 1202 del 15/10/1985, dep. 03/02/1986, Minniti, Rv. 171756).

L’evocato orientamento pone al centro della soluzione interpretativa favorevole alla pluralità di reati la pluralità di offese, sostenendo la sussistenza del concorso formale e l’applicazione della disciplina della continuazione non solo nell’ipotesi di più azioni poste in essere in un unico contesto temporale (ovvero la pronuncia di più offese in una medesima frase), ma anche in quella, diversa, della condotta unica a effetto plurimo, ovvero nel caso di un’unica offesa verbale, rivolta contemporaneamente a più pubblici ufficiali, precisando che “l’azione unica come emissione di voce è in realtà plurima come idoneità offensiva e, quindi, equivale, anche sotto il profilo oggettivo, all’emissione reiterata della stessa frase rivolta al singolare alle plurime persone presenti”.

La giurisprudenza di legittimità favorevole all’individuazione di una pluralità di reati è stata poi ripresa, in tempi più recenti, da una serie di pronunce che continuano a porre in evidenza, nel proprio percorso argomentativo, la pluralità delle offese, affermando che la resistenza o la minaccia adoperata, nel medesimo contesto, per opporsi a più pubblici ufficiali non configura un unico reato di resistenza ai sensi dell’art. 337 cod. pen., ma tanti reati di tale tipologia – suscettibili di unificazione sotto il vincolo della continuazione – per quanti sono i pubblici ufficiali coinvolti, atteso che l’azione delittuosa si risolve in altrettante e distinte offese al libero espletamento della propria attività da parte di ciascuno dei predetti (Sez. 6, n. 26173 del 05/07/2012, Momodu, Rv. 253111, nonché, nello stesso senso, Sez. 6, n. 38182 del 24/10/2011, De Marchi, Rv. 250792; Sez. 6, n. 35376 del 23/10/2006, Mastroiacovo, Rv. 234831; Sez. 6, n. 35227 del 25/05/2017, Provenzano, Rv. 270545).

La più recente tra le citate pronunzie si pone poi criticamente nei confronti della giurisprudenza di opposto orientamento, evidenziando l’errore compiuto nell’individuare nel regolare esercizio dell’attività della P.A., astrattamente e globalmente inteso, l’interesse tutelato dall’art. 337 cod. pen. e chiarendo che ciò finisce con lo svalutare la tutela della libertà di azione del singolo pubblico ufficiale e col trascurare, nel contempo, il fatto che la stessa

P.A. è un’entità astratta che agisce per mezzo di persone fisiche, le quali, pur operando come suoi organi, conservano una distinta identità, suscettibile di offesa.

La pronuncia in esame sposta quindi il fulcro della finalità dell’incriminazione del delitto di resistenza, focalizzandola sulla tutela dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio, quali organi della P.A., la cui azione legittima non dev’essere contrastata in modo minaccioso o violento.

A fondamento di tale opzione ermeneutica la sentenza pone non solo la natura plurioffensiva del reato, ma anche un argomento direttamente evincibile dal testo della norma, ove si consideri che quello di cui all’art. 337 cod. pen., pur essendo un delitto contro la P.A., è connotato, nella sua esplicazione tipica, da violenza o minaccia alla persona.

Si chiarisce quindi che la circostanza che il delitto assorbe soltanto il minimo di violenza in cui si estrinseca l’opposizione non può svilire il raggio di copertura normativa sino a far ritenere l’offesa al pubblico ufficiale subvalente e meramente collaterale rispetto alla tutela primaria, per essere la prima sanzionata da altre disposizioni incriminatrici (artt. 610, 612, 582 c.p. etc.).

La Corte conclude pertanto che la resistenza opposta, nel medesimo contesto, a più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio non configura un unico delitto di resistenza, ma altrettanti delitti per quanti sono i soggetti che rivestono la qualità pubblica, evidenziando che tale interpretazione non trascura la rilevanza del dolo (inteso come consapevolezza di contrastare l’azione di ciascuno degli operanti), che deve pacificamente sorreggere la condotta.

5.2. La giurisprudenza favorevole all’unicità del reato.

Tale impostazione è contraddetta dall’opposto orientamento, secondo cui integra un unico reato, e non una pluralità di illeciti avvinti dalla continuazione, la violenza o la minaccia poste in essere, nel medesimo contesto fattuale, per opporsi al compimento di uno stesso atto d’ufficio o di servizio, ancorchè nei confronti di più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio (Sez. 6, n. 37727 del 15/09/2014, Pastore, Rv. 260374; Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016 – dep. 2017 –, Mozzi, Rv. 269005).

Alla conclusione de qua la giurisprudenza è giunta evidenziando come l’unicità del reato sia conseguenza della sostanziale unicità dell’atto compiuto nell’interesse dell’Amministrazione, a fronte della quale del tutto irrilevante è il numero di persone che, in concreto, lo pongono in essere.

Il bene espressamente tutelato dall’art. 337 cod. pen. sarebbe rappresentato dalla regolare attività della P.A., mentre le offese ai diritti individuali del pubblico ufficiale rappresenterebbero un evento suscettibile di diversa e ulteriore sanzione, laddove la minaccia o la violenza poste in essere dall’agente siano tali da superare quella soglia di rilevanza minima che resta assorbita nella resistenza (minacce semplici e percosse).

Sul punto le pronunce in parola fanno l’esempio concreto della fuga “violenta”, conseguente all’inosservanza dell’alt intimato da una pattuglia composta da più pubblici ufficiali, cui abbia fatto seguito un incidente in cui questi ultimi abbiano riportato lesioni personali, rilevando che, in tal caso, l’offesa recata all’interesse della P.A. è unica, con conseguente unica violazione dell’art. 337 cod. pen., mentre vi saranno più reati di lesioni, per quanti sono i soggetti che hanno riportato conseguenze lesive a causa del sinistro.

In sintesi, secondo tale orientamento, l’unicità o la pluralità di reati è in rapporto diretto con l’unicità o la pluralità di atti posti in essere nell’interesse della P.A., indipendentemente dal numero di persone (pubblici ufficiali) che attendono agli stessi.

A sostegno di tale opzione ermeneutica la Corte di Cassazione pone non solo il tenore letterale dell’art. 337 cod. pen. – laddove espressamente prevede che l’obiettivo della condotta criminosa sia l’opposizione all’atto piuttosto che la violenza o la minaccia al singolo in quanto tale – ma anche il raffronto con la disposizione di cui all’art. 338 cod. pen., che prevede la violenza o la minaccia a un “corpo politico, amministrativo o giudiziario” e la punisce più severamente rispetto ai reati di cui agli artt. 336 e 337 cod. pen., in ragione della scelta normativa conseguente al riconoscimento di un maggior rilievo all’attività posta in essere da un organo “collegiale”.

Tale differente gravità, espressamente voluta dal Legislatore, resterebbe vanificata laddove al soggetto – che, con unico atto, abbia compiuto minaccia o violenza nei confronti di un numero elevato di pubblici ufficiali – s’irrogasse, per effetto dell’applicazione, asseritamente illegittima, dell’art. 81 cod. pen., una pena superiore a quella inflitta a colui che abbia violato la più grave disposizione di cui all’art. 338 cod. pen.

Nell’ambito del presente orientamento, inoltre, Sez. 6, n. 4123, Mozzi, cit., nell’effettuare una disamina critica della contrapposta giurisprudenza, ha sottolineato che essa, focalizzando la propria attenzione non sulla condotta tipica delineata dalla norma incriminatrice, ma sul numero di pubblici ufficiali coinvolti, perde di vista il bene indiscutibilmente oggetto della salvaguardia apprestata dall’art. 337 cod. pen., rispetto al quale l’offesa al pubblico ufficiale riveste carattere meramente strumentale.

Le citate sentenze, favorevoli alla tesi dell’unicità del reato di resistenza compiuto con violenze o minacce indirizzate a una pluralità di pubblici agenti, hanno concordemente valorizzato anche l’elemento soggettivo della condotta.

In particolare, esse sostengono che, in tema di concorso formale omogeneo, la pluralità di reati non può farsi derivare dalla pluralità delle persone offese, occorrendo un quid pluris, consistente nella riconoscibile esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico, diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, di dette persone: ne deriva che se l’azione è unica e unico è l’atteggiamento psicologico che sorregge il comportamento del colpevole, unico sarà il reato che costui commette (così, ex pluribus, Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016 – dep. 2017 –, Mozzi, Rv. 269005).

Tale pronuncia, in fattispecie relativa a soggetto che, per opporsi all’atto di identificazione, ebbe a dimenarsi, sgomitando e spintonando una pluralità di agenti, conclude per l’unicità del reato di cui all’art. 337 cod. pen., in ragione dei tre criteri enucleati nel percorso ermeneutico del filone giurisprudenziale di appartenenza: l’unicità dell’atto d’ufficio (costituito dall’identificazione), la mancanza di elementi per poter fondatamente sostenere l’esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico della norma nei confronti di ciascun operante e, infine, la non riconducibilità del bene tutelato dalla norma alla categoria di quelli “altamente personali”.

Nell’alveo della citata giurisprudenza si colloca altresì Sez. 6, n. 39341 del 12/07/2017, Damiani, Rv. 270939, che, oltre a ribadire gli argomenti sopra evidenziati, per rimarcare la tutela del bene primario, costituito dall’interesse della P.A., rispetto a quello “collaterale” e meramente eventuale, rappresentato dall’interesse del singolo pubblico ufficiale, aggiunge la considerazione che la violenza o la minaccia finalizzate all’opposizione all’atto della P.A., di cui all’art. 337 cod. pen., non s’identificano necessariamente con una violenza o una minaccia contro la persona del pubblico ufficiale, potendosi esprimere anche in forme diverse da quelle degli artt. 610 e 612 cod. pen., come accade nell’ipotesi della violenza cd. impropria, che, pur non aggredendo direttamente la persona del pubblico ufficiale, si riverbera negativamente sull’esplicazione della sua funzione, impedendola od ostacolandola (in tal senso anche Sez. 6, n. 7061 del 25/05/1996, Solfrizzi, Rv. 206021; Sez. 6, n. 31716 del 08/04/2003, Laraspata, Rv. 226251 e Sez. 4, n. 41936 del 14/07/2006, Campicello, Rv. 235535).

6. Svolgimento del processo.

Ricostruito nei termini esposti il contrasto formatosi in dottrina e nella giurisprudenza di legittimità sulla questione di diritto di cui trattasi, si rende necessario ricostruire per brevi cenni lo svolgimento del processo definito con la sentenza delle Sezioni Unite n. 40981/2018.

A seguito di gravame proposto dall’imputato la Corte di Appello di Ancona confermava la sentenza emessa dal Giudice monocratico del Tribunale di Ancona, con cui al predetto era stata inflitta condanna alla pena di mesi 4 e giorni 20 di reclusione in relazione al reato di cui agli artt. 81, 337 cod. pen. “per avere rivolto minacce di morte ed usato violenza contro l’ass. Ps Fiorentini e l’Isp. Loreto, dicendo loro “ti ammazzo, io sono di Ancona, vi ammazzo tutti, lasciatemi andare che vi ammazzo”, strattonandoli e tentando di prenderli a pugni per opporsi ad essi, mentre i predetti pubblici ufficiali intervenivano per impedirgli di aggredire Plusi David”; in Ancona il 4/9/2010.

In particolare, la sentenza di primo grado individuava nel fatto, come descritto nel capo d’imputazione, più reati di resistenza in concorso formale omogeneo, riuniti in continuazione fra loro, ai sensi dell’art. 81, comma secondo, cod. pen. 

Sul punto la sentenza precisava che la suddetta pluralità di reati era da ricollegarsi, non alla pluralità delle persone offese, ma alla distinzione tra una prima fase della condotta, caratterizzata da atti di violenza e minaccia espliciti, posti in essere dall’imputato prima di essere ammanettato, e una seconda fase, contraddistinta da una minaccia implicita, consistita nel dimostrare agli agenti la propria pericolosità, sferrando calci e pugni contro la porta dell’ufficio di polizia.

La sentenza di secondo grado, al contrario, rispondendo al rilievo formulato dalla difesa con i motivi di appello, evidenziava che la contestazione all’imputato dell’ipotesi di resistenza continuata derivava non dalla scissione della condotta oppositiva in diverse fasi, ma dall’avere lo stesso rivolto detta condotta nei confronti di più operanti, come descritto nell’imputazione, richiamando in merito la giurisprudenza della Corte di cassazione secondo cui “la resistenza o la minaccia adoperate nel medesimo contesto fattuale per opporsi a più pubblici ufficiali non configura un unico reato di resistenza ai sensi dell’art. 337 cod. pen., ma tanti distinti reati – eventualmente uniti dal vincolo della continuazione – quanti sono i pubblici ufficiali operanti, giacché la condotta criminosa si risolve in altrettante e distinte offese al libero espletamento dell’attività da parte di ogni pubblico ufficiale investito dalla minaccia o dalla violenza dell’agente (Cass. n. 26173/2012)”.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’imputato, formulando due motivi di ricorso.

Con un primo motivo la difesa denuncia l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 81 e 337 cod. pen., nonché mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine all’applicazione dell’aumento di pena per la continuazione.

In particolare, il ricorrente rappresenta che erroneamente la Corte di Appello aveva ritenuto sussistere la continuazione in relazione al reato di cui all’art. 337 cod. pen., dovendosi intendere il reato di resistenza come reato unico, il cui elemento oggettivo è integrato dalla condotta oppositiva all’atto.

Con un secondo motivo di ricorso la difesa deduce inosservanza o erronea applicazione dell’art. 62-bis cod. pen. e si duole della mancata concessione delle attenuanti generiche, illegittimamente fondata dal giudice d’appello sulla sola esistenza a carico dell’imputato di precedenti penali, peraltro risalenti nel tempo.

Il ricorso è stato assegnato alla Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, che, con ordinanza del 12/12/2017, lo ha rimesso alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen.

7. L’ordinanza di rimessione e il quesito posto alle Sezioni Unite.

I giudici della Sesta sezione penale hanno rilevato, innanzitutto, l’esistenza di un consapevole contrasto interpretativo, interno alla giurisprudenza di legittimità, sulla sussistenza di una o più violazioni dell’art. 337 cod. pen., nel caso in cui l’azione minacciosa o violenta, posta in essere in un unico contesto spazio-temporale, sia indirizzata nei confronti di più pubblici ufficiali.

L’ordinanza individua un primo orientamento, più risalente, cui aderisce il provvedimento impugnato, che riconduce al paradigma del reato continuato l’ipotesi di una pluralità di reazioni, minacciose o violente, poste in essere dall’autore del reato al fine di bloccare la funzione pubblica esercitata da più pubblici ufficiali attraverso azioni che si integrano a vicenda e un opposto orientamento, più recente (citato dal ricorrente), che afferma la sussistenza, anche in tale ipotesi, di un unico reato.

Tale giurisprudenza – evidenzia l’ordinanza – afferma che, nel reato di resistenza a pubblico ufficiale, l’obiettivo della condotta criminosa è l’opposizione all’atto piuttosto che la violenza o minaccia nei confronti del singolo, in quanto il bene espressamente tutelato dal delitto è costituito dalla regolare attività della P.A., rispetto al quale l’offesa o la violenza al singolo pubblico ufficiale rappresenta un “danno collaterale”, che, peraltro, troverà adeguata tutela in altre norme dell’ordinamento, nell’ipotesi in cui la condotta violenta o minacciosa superi la soglia minima necessaria a integrare l’elemento costitutivo del reato di resistenza nel quale rimane assorbito.

I giudici della Sesta Sezione completano, infine, l’inquadramento della questio iuris e del relativo contrasto interpretativo, facendo cenno alla giurisprudenza in tema di concorso formale cd. omogeneo, che, per differenziare il caso di unico reato da quello di una pluralità di violazioni, fa riferimento all’elemento soggettivo e, in particolare, al differente atteggiarsi del dolo, che, nel caso di una pluralità di violazioni, deve consistere in un particolare atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, delle persone offese, non essendo sufficiente a configurare una pluralità di reati la sola pluralità di queste ultime (Sez. 2, n. 12027 del 23/09/1997, Marrosu, Rv. 210458; Sez. 1, n. 5016 del 07/12/1987 – dep. 1988 –, Gubinelli, Rv. 178225).

8. La pronunzia delle Sezioni Unite.

Nell’aderire al primo degli orientamenti formatisi nella giurisprudenza di legittimità, le Sezioni Unite hanno preliminarmente considerato la struttura del concorso formale omogeneo di reati, che risulta configurabile quando il bene tutelato dalla fattispecie incriminatrice sia leso più volte da un’azione che, sul piano fenomenico, diventa causa di una pluralità di lesioni o di eventi omogenei.

Orbene, disattendendo la tesi che distingue tra fattispecie che tutelano beni altamente personali e fattispecie che tutelano beni di diversa natura e che postula la configurabilità del concorso formale di reati solo con riguardo alle prime, il Supremo consesso ha precisato che nella nozione di azione unica vanno ricompresi sia i casi in cui l’azione si risolve in un unico atto, sia quelli in cui l’azione comprende una pluralità di atti, connotati dalla contestualità nello spazio e nel tempo e dall’unicità del fine perseguito.

In tale ultimo caso – precisa la Corte – l’apprezzamento dei caratteri di contestualità degli atti e di unicità del fine dev’essere effettuato attraverso un rigoroso raffronto con la fattispecie astratta.

Il nucleo centrale del ragionamento seguito dalle Sezioni Unite attiene poi alla struttura del delitto di resistenza a pubblico ufficiale.

E invero la Corte confuta innanzitutto la tesi secondo cui, ai fini della verifica dell’esistenza del concorso di reati, l’individuazione della condotta incriminata dev’essere incentrata sul bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, non essendo essa conforme alle regole sull’interpretazione della legge e apparendo inoltre viziata, sul piano logico, dalla sovrapposizione e dalla confusione tra oggetto materiale e oggetto giuridico della tutela.

Partendo dall’analisi testuale dell’art. 337 cod. pen., evidenzia invece la tipizzazione, sul piano della condotta sanzionata e dell’oggetto materiale su cui essa ricade, con riferimento, da un lato, alla condotta commissiva-oppositiva (che dev’essere connotata da violenza o da minaccia e dall’elemento psicologico del dolo specifico) e, dall’altro, a “un” (id est ciascun) pubblico ufficiale agente”.

Ad avviso della Corte, contrariamente a quanto sostenuto dal secondo orientamento, proprio l’elemento oggettivo del reato disvela la centralità conferita alla persona del soggetto chiamato a manifestare la volontà della P.A., attestando l’infondatezza della tesi secondo cui il delitto di resistenza assorbirebbe solo il minimo di violenza in cui si estrinseca l’opposizione, mentre la tutela dell’integrità psicofisica del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio sarebbe tutelata da altre disposizioni.

Il successivo passaggio logico ha riguardato il significato da attribuirsi al concetto di regolare funzionamento della P.A., che, come emerge dalla collocazione sistematica e dal titolo della disposizione, è il solo interesse giuridico tutelato dall’art. 337 cod. pen. 

Le Sezioni Unite, in ragione del rapporto d’immedesimazione organica esistente tra P.A. e soggetto che ricopre l’ufficio o la funzione pubblica, hanno interpretato in senso ampio tale concetto, ricomprendendovi la tutela della sicurezza e della libertà di determinazione e di azione degli organi pubblici, mediante la protezione delle persone fisiche che, singolarmente o in collegio, ne esercitano le funzioni o ne adempiono i servizi.

Ciò in quanto – precisa la Corte – ‹‹il regolare andamento della pubblica amministrazione implica non solo la mancanza di manomissione dei beni pubblici o la loro distrazione per il perseguimento di scopi diversi da quelli istituzionali, ma anche la mancanza di interferenze nel procedimento volitivo od esecutivo di colui che, incardinato nella amministrazione, la personifica essendo espressione di volontà di quest’ultima’’.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto infine non rilevante l’ulteriore argomentazione spesa dall’orientamento che propugna l’unicità del reato, secondo cui sarebbe irragionevole il trattamento sanzionatorio riservato all’autore del delitto di resistenza, nel caso in cui si ravvisi un concorso formale omogeneo, rispetto a quello previsto per il più grave delitto di cui all’art. 338 cod. pen., sostenendo che trattasi di fattispecie di reato diversamente strutturate.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 3085 del 27/11/1981 – dep. 1982 –, Pulcinelli, Rv. 152871 Sez. 6, n. 1202 del 15/10/1985 – dep. 1986 –, Minniti, Rv. 171756 Sez. 1, n. 5016 del 7/12/1987 – dep. 1988 –, Gubinelli, Rv. 178225 Sez. 6, n. 3546 del 07/04/1988 – dep. 1989 –, Grazioso, Rv. 180728 Sez. 6, n. 7061 del 25/05/1996, Solfrizzi, Rv. 206021 Sez. 2, n. 12027 del 23/09/1997, Marrosu, Rv. 210458 Sez. 6, n. 31716 del 08/04/2003, Laraspata, Rv. 226251 Sez. 4, n. 41936 del 14/07/2006, Campicello, Rv. 235535 Sez. 6, n. 35376 del 23/10/2006, Mastroiacovo, Rv. 234831 Sez. 6, n. 38182 del 24/10/2011, De Marchi, Rv. 250792 Sez. 6, n. 26173 del 17/05/2012, Momodu, Rv. 253111 Sez. 6, n. 23259 del 15/05/2012, Venuleo, Rv. 253009 Sez. 6, n. 37727 del 15/09/2014, Pastore, Rv. 260374 Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016 – dep. 2017 –, Mozzi, Rv. 269005 Sez. 6, n. 35227 del 25/5/2017, Provenzano, Rv. 270545 Sez. 6, n. 39341 del 12/07/2017, Damiani, Rv. 270939

  • reato
  • esecuzione della pena
  • diritto penale

CAPITOLO II

REATO CONTINUATO E PENE ETEROGENEE

(di Marzia Minutillo Turtur )

Sommario

1 La questione controversa - 2 L’indirizzo giurisprudenziale maggioritario: la c.d. “pena unica progressiva per moltiplicazione”. - 3 L’indirizzo giurisprudenziale minoritario: reato continuato e principio del favor rei. - 4 La sentenza della Sezioni Unite Giglia e il superamento del contrasto. - 5 Le pronunzie successive della Corte in materia di computo della pena in caso di reato continuato e pene eterogenee. - Indice delle sentenze citate

1. La questione controversa

La decisione delle Sezioni Unite trae origine da un articolato percorso giudiziario e trova il proprio punto centrale di riflessione nella considerazione delle modalità di computo dell’aumento per la continuazione nel caso in cui il reato base e il reato satellite siano puniti con pene eterogenee. Un argomento affrontato già in epoca remota nella sua articolata problematicità sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina, caratterizzato dalla evidente necessità di contemperare il principio di legalità con il principio del favor rei, che rappresenta la evidente ratio legis della disciplina introdotta con la continuazione estesa anche a violazione di diverse disposizioni di legge. Nel caso concreto affrontato gli imputati sono stati dichiarati responsabili dei reati di cui all’art. 81, 110 cod. pen., art. 44 lett. b), 93, 94, 95 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. Il giudice di secondo grado richiamava il corretto aumento per la continuazione (per un reato satellite punito solo con pena pecuniaria) medesima tanto sulla pena base dell’arresto che dell’ammenda. Proprio a causa di tale doppio aumento a titolo di continuazione, con aumento dunque anche della pena detentiva, gli imputati hanno denunciato per la prima volta dinnanzi alla Corte di cassazione l’inosservanza o erronea applicazione degli artt. 1, 81 cod. pen. e art. 25 Cost. Come detto la censura si riferisce all’applicazione in aumento, per la ricorrenza di un unitario disegno criminoso tra i diversi reati commessi, della pena prevista per il reato più grave ai sensi dell’art. 44, lettera b) del d.P.R. n. 380 del 2001 nella misura di 15 giorni di arresto, nonostante per i reati satellite fosse prevista esclusivamente una pena pecuniaria. Il motivo si concentra dunque sulla legittimità della conversione della pena pecuniaria, prevista per il reato satellite, in pena detentiva ai fini dell’aumento ai sensi dell’art. 81 cod. pen., con particolare attenzione all’effettiva realizzazione, mediante tale scelta, della ratio sottesa all’istituto della continuazione ed al principio del favor rei. La Quarta Sezione penale ha rimesso la questione alle Sezioni Unite ed ha sottolineato il riaffiorare di un contrasto interpretativo in merito alle modalità di computo della pena in caso di reato continuato nella ricorrenza di reati puniti con pene eterogenee. La questione è stata dunque rimessa alla Sezioni Unite e il quesito è stato così formulato: 1) “Se sia ammissibile la continuazione tra reati puniti con pene eterogenee”. 2) “Se, ove ritenuta la configurabilità della continuazione tra reati puniti con pene eterogenee, nel caso in cui il reato più grave sia punito con la pena detentiva e quello satellite esclusivamente con la pena pecuniaria, l’aumento di pena per quest’ultimo debba conservare il genere di pena pecuniaria, in ossequio al favor rei.”

Il quesito così come proposto ha comportato la necessaria riflessione sulle caratteristiche del reato continuato, nell’ambito dell’articolato dibattito sia dottrinale che giurisprudenziale che ha investito anche le modifiche normative che si sono succedute nel tempo in ordine a tale previsione. In tal senso occorre ricordare l’ingresso nel nostro sistema normativo, con il d.l. 11 aprile 1974, n. 99 convertito in legge 7 giugno 1974, n. 220, del reato continuato eterogeneo che ha reso possibile l’eventualità che la continuazione avvinca reati con cornici sanzionatorie diverse e non allineate sul piano qualitativo e quantitativo, determinando l’avvio di una serie di riflessioni problematiche su quale sia in tale ambito la violazione più grave e come debba essere realizzato l’aumento della pena sino al triplo. L’applicabilità del regime della continuazione anche a reati punti con pene eterogenee deriva dunque dalla previsione normativa richiamata e il punto centrale della riflessione è da sempre stato riferito in questo ambito alle modalità di computo della pena, sia quanto alla individuazione del reato più grave, che in considerazione del sistema di aumento per i reati satellite. Due dunque i momenti di verifica in relazione alla previsione per legge dell’istituto della continuazione nel caso di più violazioni punite con pene eterogenee: in primo luogo l’individuazione della pena base, in seconda istanza il criterio secondo il quale realizzare l’aumento per il reato satellite rispetto alla pena base.

Occorre segnalare come le decisioni della Corte, anche quando risalenti, si caratterizzino per un’articolata evoluzione interpretativa, che si è riproposta in diverse occasioni nel corso degli ultimi trenta anni, segno della particolare delicatezza delle questioni sollevate e dei mutamenti conseguenti alla riforma intervenuta nel 1974 in tema di reato continuato, con estensione della relativa disciplina, ispirata evidentemente al principio del favor rei, ma innegabilmente caratterizzata dal principio di legalità della pena, anche al caso in cui vengano poste in essere più violazioni di diverse disposizioni di legge. Si è in più occasioni evidenziato che strutturalmente il reato continuato rappresenta una particolare figura di concorso materiale dei reati, unificati dall’identità del disegno criminoso e assoggettati al cumulo giuridico delle pene in applicazione del più mite regime sanzionatorio previsto per il concorso formale (ovvero la pena prevista per la violazione più grave, aumentata fino al triplo). Si caratterizza dunque per essere istituto di diretta espressione del principio del “favor rei”, proprio in considerazione della ritenuta minor riprovevolezza dell’agente, il quale pur commettendo diverse violazioni di legge penale si è determinato in tal senso una sola volta e, proprio sulla base di tale unica determinazione iniziale, ha commesso una serie di reati.

L’unificazione delle pene, conseguente alla valutazione dell’unica risoluzione criminosa al fine di commettere più reati, rappresenta dunque il tratto caratteristico della continuazione e, secondo l’interpretazione precedente e prevalente della giurisprudenza di legittimità, prescelto il reato più grave i reati satellite perdono la loro individualità sanzionatoria in caso di pene eterogenee, divenendo semplici componenti di un aumento di pena e riacquistando la loro autonomia e identità solo al fine di individuare il limite massimo dell’aumento di pena, che comunque non deve, ex art. 81, comma terzo, cod. pen., superare quello del cumulo materiale.

Si è sottolineata più volte, da parte della giurisprudenza, la necessità che nella quantificazione della pena sia sempre e comunque indicata distintamente la misura degli aumenti apportati alla pena base per ogni singolo reato unificato ex art. 533, comma 2, cod. proc. pen.

Ciò si collega imprescindibilmente alla circostanza che – nella prospettiva del favor rei che è principio ispiratore del regime della continuazione – questo sistema è una realtà da leggere come unitaria o unificante, ovvero atomistica, a seconda degli istituti che siano da applicare al caso concreto (ad esempio in sede di esecuzione, in materia di indulto, di custodia cautelare, della sostituzione delle pene detentive brevi, della gestione dei benefici penitenziari in relazione all’avvenuta espiazione di reati ostativi). È emersa dunque la prevalenza della concezione pluralistica, dovendo essere richiamata la natura di fictio iuris della continuazione nel senso dell’effettiva considerazione in senso unitario delle diverse condotte integranti reati solo “quoad poenam”. Rilevante in tal senso la ratio che ha portato il legislatore ad ipotizzare e poi prevedere il regime della continuazione; infatti è emersa a suo tempo la necessità di uno strumento di attenuazione della disciplina del concorso in relazione al progressivo prevalere del sistema del cumulo materiale delle pene. Ed è in questo senso che deve essere letta la riforma introdotta con il d.l. 11 aprile 1974, n. 99 allo scopo di “realizzare un maggiore equilibrio fra esigenze di difesa sociale e funzione rieducativa della pena”. L’intenzione del legislatore è stata ritenuta quella di realizzare un congegno di carattere generale che lasci integra la minaccia derivante dalla gravità della pena edittale e dal cumulo materiale delle pene nel caso di concorso di reati, per riuscire tuttavia al tempo stesso ad evitare condanne ritenute non adeguate alla percezione generale di offensività del fatto in considerazione della unitaria deliberazione a violare diverse disposizioni di legge. In tal senso, preso atto della finalità dell’istituto, occorre considerare che la scomparsa dalla formulazione originaria dell’art. 81 cod. pen. della dizione secondo la quale le diverse violazioni si considerano come un “solo reato”, ha reso possibile il superamento delle differenti impostazioni culturali e interpretative sulla natura del reato continuato.

È dunque il disegno criminoso che svolge il ruolo di giustificazione dello speciale trattamento sanzionatorio, e questa fondamentale rilevanza emerge ancor più nel momento in cui la disciplina del reato continuato è stata estesa anche all’unitaria deliberazione di violazione di diverse disposizioni di legge. Tuttavia, si è evidenziato in diverse decisioni che l’applicazione della continuazione, e dunque del più favorevole regime del cumulo giuridico delle pene, potrebbe avere potenziali effetti peggiorativi avuto riguardo al trattamento sanzionatorio dei singoli reati satellite unificati, proprio perché potrebbe comportare la modifica della natura della pena per renderla omogenea a quella del reato più grave, sostituendo ad esempio l’originaria pena pecuniaria con pena detentiva. La giurisprudenza di legittimità ha in diverse occasioni evidenziato i profili problematici derivanti dalla ricorrenza di pene eterogenee in sede di applicazione del regime previsto dall’ art. 81 cod. pen. 

2. L’indirizzo giurisprudenziale maggioritario: la c.d. “pena unica progressiva per moltiplicazione”.

Occorre segnalare come sulla questione si siano formati nel tempo diversi e contrapposti orientamenti interpretativi. Quale orientamento decisamente maggioritario, frutto di diverse evoluzioni interpretative anche delle sezioni semplici, occorre richiamare il fondamentale criterio enucleato dalle Sezioni Unite in tema di computo della pena nel caso di reato continuato, anche nel caso in cui i diversi reati si caratterizzino per la previsione di pene eterogenee.

Tale orientamento quanto al tema dell’individuazione della pena da applicarsi nel reato continuato ha elaborato il principio della “pena unica progressiva per moltiplicazione”. In particolare, Sez. U, n. 4901 del 2/03/1992, Cardarilli, Rv. 191129, giunge ad uno strutturato assetto interpretativo sul punto, che di fatto sarà integrato e puntualizzato dalle successive decisioni sino ad epoca recente. In particolare, secondo la decisione citata, una volta ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i reati “satelliti” non esplica più alcuna efficacia, dovendosi solo aumentare la pena prevista per la violazione più grave, senza che rilevi la “quantità” della pena prevista per i reati “satelliti”; tale decisione affronta dunque in modo esplicito il problema dell’aumento della pena nella ricorrenza di reato continuato e pene eterogenee e chiarisce come, introdotta la riforma del 1974, dopo un iniziale atteggiamento di chiusura che tendeva ad escludere l’unificazione di pene di specie o genere diverso – in tal senso Sez. U, n. 12190 del 23/10/1976, Desideri, Rv. 134813 – la giurisprudenza si era espressa per l’applicazione della continuazione anche tra reati puniti con pene eterogenee, sia nel caso in cui le pene congiunte fossero previste solo per il reato più grave, che nel caso contrario. Una volta individuata la pena base l’aumento per la continuazione, anche per il reato punito con pena eterogena, doveva essere realizzato secondo il criterio della pena unica progressiva per moltiplicazione attesa la perdita di autonomia sanzionatoria dei reati satellite. A sostegno della validità dell’interpretazione affermatasi (in tal senso anche Sez. U, n. 6220 del 30/04/1983, Anaclerio, Rv. 159727) quanto all’applicabilità della continuazione in caso di reati puniti con pene eterogenee, la decisione in questione richiama anche la sentenza n. 312 del 1988 della Corte Costituzionale che ha sottolineato la necessità di dare integrale applicazione all’istituto della continuazione, al fine di far godere all’imputato una limitazione della libertà personale inferiore rispetto a quella che deriverebbe dal cumulo materiale delle pene. La soluzione prescelta da questa decisione, che si richiama all’imprescindibile criterio di determinazione della pena base in astratto secondo la previsione edittale, è volta sostanzialmente ad evitare un’eccessiva discrezionalità ove si lasci al singolo giudice la possibilità di determinare in concreto quale sia la violazione più grave. Ciò al fine di evitare disparità di trattamento e per tutelare l’affidamento in un trattamento di auspicabile uguaglianza così come scritto nella Costituzione, nell’evidente necessità di pervenire in materia a dati di approssimabile certezza, senza affidare al giudice la valutazione discrezionale volta ad individuare la violazione più grave in concreto dalla quale prendere le mosse per la determinazione del trattamento sanzionatorio. Richiamata ed analizzata dunque la maggiore gravità dei delitti rispetto alle contravvenzioni, considerata la dizione letterale dell’art. 81 cod. pen., che richiama la “violazione“ più grave e non la “pena” inflitta più grave, la Corte afferma come debba conseguentemente essere applicato il criterio dell’aumento sino al triplo della violazione più grave anche nel caso di pene eterogenee evidenziando che “una volta ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i reati satelliti non esplica più alcuna efficacia proprio per la ragione che, individuata la violazione più grave, essi vanno a comporre una sostanziale unità, disciplinata e sanzionata diversamente mediante le regole all’uopo dettate dal legislatore”. Dunque, ogni norma incriminatrice deve essere letta, in presenza della previsione ex art. 81 cod. pen., come se essa contenesse un’eccezione derogativa della sanzione per il caso che la violazione contemplata vada a comporre un reato continuato, ciò proprio perché la disposizione prevede esplicitamente un aumento della pena base e non una serie di aumenti derivanti da pene di specie diversa. La soluzione proposta viene ritenuta l’unica idonea ad evitare interpretazioni differenti e conseguenti disparità di trattamento o utilizzazione di eccessiva discrezionalità al momento dell’individuazione della sanzione.

Sez. U, n. 15 del 26/11/1997, Varnelli, Rv. 209487, affronta a sua volta il problema della determinazione della pena in caso di applicazione della continuazione per reati puniti con pene eterogenee ed afferma, confermando il precedente orientamento delle Sez. U, che in tema di trattamento sanzionatorio del reato continuato, la pena destinata a costituire la base sulla quale operare gli aumenti fino al triplo per i reati satellite – qualunque sia il genere o la specie della loro sanzione edittale – è esclusivamente quella prevista per la violazione più grave in astratto. Quanto poi alla determinazione dell’aumento di pena per la continuazione, nell’ipotesi in cui il reato più grave sia un delitto punito con la sola multa ed il reato satellite una contravvenzione punita con pena congiunta, la decisione chiarisce che la pena pecuniaria, pur di specie diversa, si cumula a quella del reato base divenendo ad essa omogenea, in quanto porzione della pena base aumentata; per il calcolo della pena detentiva, invece, occorre procedere prima ad un’operazione intermedia, governata dalle regole poste dall’art. 135 cod. pen. sul ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, e quindi, convertito l’arresto in pena pecuniaria, anche questa diviene porzione dell’aumento sulla pena base.

Si afferma quindi ancora una volta come il criterio di base per la determinazione della disciplina della continuazione in caso di concorso di reati eterogenei, al fine di evitare trattamenti differenziati e non sufficientemente prevedibili, sia esclusivamente quello della pena unica progressiva per moltiplicazione, sicché il reato satellite perdendo la propria autonomia sanzionatoria deve essere computato come elemento della pena base.

Quanto al concorso di reati puniti con pene eterogenee la decisione delle Sezioni Unite riafferma la maggiore gravità del delitto, a prescindere dalla pena prevista (nel caso di specie pecuniaria), rispetto alla contravvenzione (seppure punita con pena detentiva) in considerazione della scala di disvalore sociale evidenziata dal legislatore, sottolineando, come nella decisione precedente, l’importanza di ancorare tale valutazione ad un criterio oggettivo, evitando discrezionalità eccessiva che potrebbe così portare il giudice a sostituirsi al legislatore, al quale unicamente spetta la qualificazione come più o meno grave di un fatto reato. Quanto al profilo del trattamento sanzionatorio in presenza di reati puniti con pene eterogenee si afferma ancora una volta la perdita di autonomia sanzionatoria dei reati meno gravi, di modo che il relativo trattamento punitivo confluisce nella pena unica e più grave irrogata per tutti i reati concorrenti, sicché deve essere ritenuta pena legale non solo quella comminata per le singole fattispecie, ma anche quella risultante dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio.

Precisa la motivazione, in relazione al caso in esame, che la pena pecuniaria pur se di specie diversa si cumula con quella del reato base, divenendo ad essa omogenea, mentre per la pena detentiva occorre procedere alla operazione di ragguaglio ex art. 135 cod. proc. pen. Ricorre anche sulla base di questo arresto giurisprudenziale delle Sezioni Unite una piena affermazione del principio di legalità, da ancorare senza alcun dubbio alla pluralità di previsioni in tema di sanzione penale e, in particolare, alla previsione dell’art. 81 cod. pen. che, con il suo carattere derogatorio rispetto alla previsione base, determina a sua volta un principio legale di applicazione della pena nel caso in cui ricorra un unitario disegno criminoso.

Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255347, a sua volta richiama e conferma il criterio di applicazione della pena in presenza di più reati puniti con pene eterogenee e avvinti dal vincolo della continuazione, ribadendo l’imprescindibilità del criterio della pena unica progressiva per moltiplicazione, unico idoneo e adeguato per evitare eccessiva discrezionalità nella fase applicativa dell’aumento per continuazione nel rispetto delle scelte di politica criminale del legislatore. Le Sezioni Unite, con una motivazione articolata, hanno confermato il principio già enunciato dalle precedenti decisioni delle Sezioni Unite ed hanno nuovamente richiamato l’omologazione sanzionatoria fra pene, diverse sia nel genere che nella specie, quale conseguenza della perdita di autonomia sanzionatoria dei reati meno gravi, nell’ambito dell’unica pena legale, in base alla previsione dell’art. 81 cod. pen., correlata al reato più grave in astratto, secondo la previsione legislativa, nell’impossibilità per il giudice di comminare una sanzione che risulti inferiore a quella minima prevista per uno dei reati satellite rispetto ai quali venga ravvisata la continuazione. Deve quindi essere ritenuta pena legale non solo quella prevista dalla singola norma incriminatrice, ma anche quella prevista dalle varie disposizioni che incidono sul trattamento sanzionatorio, con la conseguenza che anche la pena unica progressiva, applicata come cumulo giuridico ex art. 81 cod. pen., è anch’essa legale perchè prevista dalla legge. Precisa quindi la Corte che, sebbene la determinazione della pena debba essere il frutto di un’operazione unitaria, occorre tuttavia che sia individuabile la pena stabilita dal giudice in aumento per ciascun reato satellite, sia per la verifica dell’osservanza del limite di cui all’art. 81, comma terzo, cod. pen., che in relazione alla possibilità che il cumulo si sciolga per alcuni effetti (prescrizione, indulto, estinzione di misure cautelari). Dunque quanto al concorso di pene eterogenee, ritenuta la continuazione, il trattamento sanzionatorio dei reati satellite perde la sua specificità, proprio per la ragione che, individuata la violazione più grave, essi vanno a comporre una sostanziale unità disciplinata diversamente secondo quanto previsto dal legislatore, dunque in applicazione anche in questo caso del principio di legalità, che non appare affatto violato, proprio in considerazione della specifica previsione in tema di continuazione.

Gli stessi principi risultano richiamati da Sez. F., n. 41658 del 05/09/2013, Teti, Rv. 257324, Sez. 5, n. 35999 del 17/03/2015, Vasili, Rv. 265002, nonchè dalla recente Sez. 5, n. 26450 del 13/04/2017, Arena, Rv. 270540, secondo la quale appunto ai fini del trattamento sanzionatorio del reato continuato occorre applicare una sola pena, dello stesso genere e della stessa specie di quella del reato più grave, anche quando l’aumento apportato ai sensi dell’art. 81, comma secondo, cod. pen. abbia ad oggetto reati satellite appartenenti a diverse categorie e puniti con pene eterogenee o di specie diversa.

Un cenno deve essere riportato anche alla Sez. U, n. 22741 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263717, certamente relativa ad un caso specifico, conseguente alla dichiarazione di incostituzionalità della c.d. legge Fini – Giovannardi, che tuttavia ha proposto riflessioni in tema di valutazione della continuazione assai interessanti, in un’ottica che sembra in parte superare l’esclusiva riferibilità alla cornice edittale prevista dal legislatore, per giungere ad una sintesi tra la cornice edittale e la valutazione in concreto effettuata dal giudice. In tal senso, a conferma dell’orientamento maggioritario e consolidato negli arresti delle Sez. U, si chiarisce che l’unico obiettivo indicatore della gravità di un reato è il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore, che modula la pena in considerazione del disvalore che ritiene di attribuire alle ipotesi criminose enucleate. Tale previsione edittale è quindi certamente completata dalla valutazione in concreto effettuata dal giudice di merito, che sostanzialmente personalizza il trattamento sanzionatorio in considerazione delle circostanze concrete accertate, ma tale attività non può che svolgersi entro l’ambito rappresentato dagli indicatori astratti costituiti dal minimo e dal massimo edittale di pena. Partendo da tale considerazione, e preso atto della modificata cornice edittale, questa decisione afferma la necessità di rideterminazione della pena inflitta per i reati satellite.

Ci si pone quindi esplicitamente nel solco delle precedenti decisioni delle Sez. U in tema di reato continuato, confermando il principio secondo il quale i reati satellite perdono la loro autonomia sanzionatoria, pur mantenendo rilevanza la valutazione in concreto della gravità degli stessi.

Il reato continuato viene considerato dunque in relazione alla coesistenza di profili giuridici di unitarietà e al tempo stesso di pluralità, mediante quella che viene definita come una visione «multifocale» del reato, ciò al fine di considerare adeguatamente la gravità dei singoli reati satellite e determinare dunque il limite, nel caso in esame, ai singoli aumenti di pena ex art. 81, comma terzo, cod. pen. Viene quindi chiarito che, seppur nell’ambito del principio più volte affermato dalle Sez. U della perdita dell’autonomia sanzionatoria dei reati satellite, tuttavia permane una loro considerazione «ponderale» nella fase discrezionale di quantificazione degli aumenti da parte del giudice rispetto alla pena base, tenuto conto appunto della gravità dei singoli reati satellite. Dall’interpretazione di questa decisione sembra conseguire una considerazione analitica dell’eventuale eterogeneità delle pene che non potrà non incidere nella valutazione delle stesse, specialmente se di genere e specie diversa dalla pena base, ove ciò si risolva in una lesione del principio del favor rei.

3. L’indirizzo giurisprudenziale minoritario: reato continuato e principio del favor rei.

Le decisioni più recenti di alcune sezioni semplici della Corte si caratterizzano per un sostanziale allontanamento dall’interpretazione costante delle Sezioni Unite, che hanno appunto affermato il principio della diretta applicabilità del regime della continuazione anche nel caso di reati puniti con pene eterogenee mediante il computo della sanzione mediante la “pena unica progressiva per moltiplicazione”. In particolare: Sez. 5, n. 46695 del 03/10/2016, C., Rv. 268638, secondo la quale deve escludersi l’applicabilità dello speciale criterio di determinazione della pena, stabilito nei primi due commi dell’art. 81 cod. pen., nei casi in cui il concorso formale e la continuazione abbiano ad oggetto reati puniti con pene eterogenee o di specie diversa, poiché in tali casi l’unificazione delle pene diverse, con relativo aumento di quella prevista per il reato più grave, determina la conversione delle pene per i reati satellite in pene più gravi per genere o specie, in violazione del princio del favor rei che ispira la disciplina del reato continuato. La decisione prende le distanze, citandola esplicitamente, dalla decisione delle Sezioni Unite, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255347, della quale non condivide la ratio, affermando come il concetto espresso di pena legale in relazione alla previsione dell’art. 81 cod. pen. non possa essere sostenuto perchè incompatibile con il principio del favor rei, che ispira la disciplina del reato continuato, consentendo la conversione delle pene dei reati satellite in pene più gravi per genere e specie. Non appare dunque accettabile secondo tale prospettazione che l’eventuale ammenda si tramuti in pena detentiva, con conseguente inapplicabilità del criterio di dosimetria della pena ex art. 81 cod. pen. in un caso del genere. Ne consegue nel ragionamento della Corte la non applicabilità del regime della continuazione nel caso in cui con un’unica deliberazione vengano commesse più violazioni punite con pene eterogenee quando ciò si risolva in una evidente violazione del principio del favor rei. La sentenza affronta sostanzialmente il caso in cui i reati satellite abbiano natura di pena pecuniaria a fronte di un reato base, ritenuto più grave, caratterizzato dalla presenza di pena detentiva congiunta a pena pecuniaria. L’eventuale determinazione della pena realizzata mediante aumento anche della pena detentiva viene considerato un’illegittima compressione dei diritti dell’imputato che, paradossalmente, potrebbe trovarsi a dover affrontare una pena detentiva più consistente pur in presenza di un accertato disegno unitario nella realizzazione di violazioni di diverse disposizioni di legge, circostanza che teoricamente, secondo la previsione del legislatore, dovrebbe essere considerata come elemento a favore dell’imputato. Sez. 4, n. 46963 del 20/09/2017, Bianchi, non mass., si è espressa in senso conforme e ha affrontato d’ufficio la questione relativa all’illegalità della pena comminata in relazione al reato satellite ex art. 609, comma 2, del cod. proc. pen., ciò in ordine ad un reato satellite punito esclusivamente con la multa (art. 392 cod. pen.), considerato che, ritenuta la continuazione, in presenza di pena base punita anche con la reclusione, l’aumento veniva fissato sia in termini di reclusione che di multa. Il collegio ha osservato che il segmento di pena applicato a titolo di continuazione contrasta con l’insegnamento «espresso dal diritto vivente», sul tema della determinazione della pena in caso di continuazione tra reati puniti con pene eterogenee.

Viene quindi sottolineata la lesione del principio del favor rei per come affermata dalla Sez. 5, n. 46695 del 03/10/2016, C., Rv. 268638, nell’impossibilità di giungere alla conversione per i reati satellite in pene più gravi per genere e specie.

Questa decisione, come la decisione della Sez. 5 richiamata, ritiene l’illegalità della pena irrogata in continuazione con conseguente annullamento con rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio.

Tali recenti decisioni sembrano di fatto riproporre alcuni remoti orientamenti della giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite. In particolare Sez. U, n. 12190 del 23/10/1975, Desideri, Rv. 134813, secondo la quale nel caso in cui i reati in concorso formale tra loro o legati dal vincolo della continuazione siano puniti dalla legge con pene di specie diversa, anche se dello stesso genere, non può trovare applicazione il trattamento sanzionatorio previsto dall’art 81 cod. pen., in quanto l’unificazione di pene di specie diversa in una sola di unica specie comporterebbe la violazione dell’art 1 cod. pen., perché avrebbe come effetto l’irrogazione per il reato, per il quale e prevista una pena di altra specie, di una sanzione, anche se quantitativamente ridotta, che non è quella comminata dalla legge e che non è conguagliabile con la prima. Nello stesso senso si erano espresse diverse altre decisioni ed in particolare: Sez. 3, n. 14217 del 05/07/1976, Ruina, Rv. 135036, secondo la quale non può ritenersi la sussistenza del reato continuato quando le norme violate prevedono pene eterogenee, giacchè non può la pena relativa al reato più grave assorbire, previo aumento, la pena non omogena del reato minore; – Sez. 2, n. 10125 del 10/01/1977, Castelletti, Rv. 136619, secondo la quale non è configurabile la continuazione tra un delitto e una contravvenzione trattandosi di reati punibili con pene ontologicamente eterogenee, e non essendo concepibile in ossequio al principio di legalità di cui all’art. 1 cod. pen. applicare per il reato meno grave (sia pure come aumento sulla pena da infliggere per quello più grave) una specie di pena non prevista per il reato stesso; questa decisione, antecedente alla successiva elaborazione delle Sezioni Unite (di cui si dirà in seguito) che ha costantemente ammesso il regime della continuazione per i reati puniti con pene eterogenee, precisava che la disciplina di cui all’art. 81 cod. pen. è da ritenere diretta ad escludere, a favore dell’imputato, l’applicazione delle norme del concorso materiale dei reati unicamente per quanto concerne la pena da irrogare in concreto, sicchè ad ogni altro effetto, ed in particolare in presenza di una causa estintiva, la realtà giuridica del reato continuato non opera e le diverse violazioni conservano la loro individualità; – Sez. 1, n. 10412 del 25/05/1977, Boscolo, Rv. 136646, che ha evidenziato la necessità della omogeneità delle pene per applicare la disciplina del reato continuato; – Sez. 5, n. 12619 del 21/06/1977, Vulcanelli, Rv. 137042, che ha sottolineato come la disciplina della continuazione, caratterizzata dal principio del favor rei intanto ha un senso in quanto sia riferibile a sanzioni omogeneee, essendo inapplicabile quando in punto di determinazione della pena gli effetti possono essere, anche dal punto di vista potenziale, deteriori rispetto a quelli derivanti dal cumulo materiale; – Sez. 1, n. 1681 del 30/11/1977, Sosi, Rv. 137934, secondo la quale non è consentita l’unificazione sotto il vincolo della continuazione di reati punibili con pene eterogenee in tema di delitto e contravvenzione punite rispettivamente con multa e ammenda. La soluzione proposta da queste decisioni, e l’interpretazione in tal senso avanzata anche dalle più recenti decisioni, riconduce dunque la riflessione al primo dei due quesiti posti dall’ordinanza di rimessione, ovvero se sia applicabile il regime della continuazione nel caso di più violazioni punite con pene eterogenee, quesito al quale sembrano dare risposta negativa quando tale disciplina si risolva in una sostanziale violazione del principio del favor rei.

4. La sentenza della Sezioni Unite Giglia e il superamento del contrasto.

Le Sezioni Unite Penali, con sentenza n. 40983 del 21/06/2016, Giglia, Rv. 273750, hanno enunciato i principi di diritto così massimati dall’Ufficio: – “La continuazione, quale istituto di carattere generale, è applicabile in ogni caso in cui più reati siano stati commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, anche quando si tratti di reati appartenenti a diverse categorie e puniti con pene eterogenee”; – “In tema di concorso di reati puniti con sanzioni eterogenee, sia nel genere che nella specie, per i quali sia riconosciuto il vincolo della continuazione, l’aumento di pena per il reato “satellite” va effettuato secondo il criterio della pena unica progressiva per “moltiplicazione”, rispettando tuttavia, per il principio di legalità della pena e del favor rei, il genere della pena prevista per il reato “satellite”, nel senso che l’aumento della pena detentiva del reato più grave dovrà essere ragguagliato a pena pecuniaria ai sensi dell’art. 135 cod. pen.”. Affermando il primo principio, le Sezioni Unite hanno risolto il primo quesito posto dall’ordinanza di rimessione chiarendo che la formulazione dell’art. 81 cod. pen., al secondo comma, non prevede alcuna distinzione di categorie di reati (delitti o contravvenzioni), né contiene alcun riferimento al genere (detentiva o pecuniarie) e alla specie (reclusione/arresto, multa/ammenda) delle pene previste.

Tale principio viene affermato dopo aver richiamato l’evoluzione nel tempo della disciplina del reato continuato e delle novità normative introdotte dal d.l. 11 aprile 1974, n. 99, con l’adozione, anche per il concorso formale di reati, del criterio del cumulo giuridico nella determinazione della pena ed applicazione al reato continuato del medesimo criterio di computo anche nel caso di violazione di diverse previsioni di legge.

Tale conclusione trova il suo più rilevante e remoto approdo interpretativo nella decisione della Corte costituzionale, con la sent. n. 312 del 1988, che ha affermato che pena legale non è solo quella prevista dalla singola norma incriminatrice, ma anche quella che risulta dall’applicazione delle varie disposizioni che incidono sul trattamento sanzionatorio. Da ciò deriva che la c.d. “pena unica progressiva”, applicata come cumulo giuridico ex art. 81 cod. pen. è anch’essa pena legale, perché prevista dalla legge, senza che ricorra alcuna ragione per negare l’applicabilità del cumulo giuridico delle pene quando la continuazione ricorra tra reati puniti con pene di specie diversa, così come nel caso in cui si tratti di reati puniti con pene eterogenee, dovendosi solo aumentare la pena per la violazione più grave, a prescindere dalla “qualità” della pena prevista per gli altri reati, come già evidenziato dalla Sez. U, n. 4901 del 27/03/1992, Cardarilli, Rv. 191129, in quanto con la continuazione si determina la perdita dell’autonomia sanzionatoria dei reati meno gravi. Il principio richiamato è stato poi ribadito, secondo le Sezioni Unite, anche da Sez. U, n. 25239 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255437, che ha riconfermato il criterio della pena unica progressiva per moltiplicazione in presenza di più reati, unificati dalla continuazione, puniti con pene eterogenee, sull’assunto dell’omologazione sanzionatoria fra pene, diverse sia per genere che per specie, quale conseguenza della perdita di autonomia sanzionatoria dei reati meno gravi.

Affermando il secondo principio, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto insorto in epoca recente in modo più esplicito ed evidente, ma in realtà affrontato a livello interpretativo in diverse e risalenti decisioni della Corte (tra le principali decisioni sull’argomento sono da segnalare Sez. U, n. 12190 del 23/10/1975, Desideri, Rv. 134813; Sez. U, n. 4901 del 2/03/1992, Cardarilli, Rv. 191129; Sez. 6, n. 11642 del 12/06/1997, GM, Rv. 209702; Sez. U, n. 15 del 26/11/1997, Varnelli, Rv. 209487; Sez. 1, n. 4724 del 2/10/1998, Bracone, 211883; Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255347; Sez. 5, n. 46695 del 03/10/2016, C., Rv. 268638; Sez. U, n. 22741 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263717; Sez. 6, n. 2973 del 30/10/1996, Aveta, Rv. 206216; Sez. 5, n. 1953 del 24/04/1996, Mangieri, Rv. 206143; Sez. 1, 908 del 27/09/1985, Gaeta, Rv. 171656; Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015 Jazouli, Rv. 264207), in ordine alla modalità del computo della pena, nel pieno rispetto tanto del principio di legalità che del principio del favor rei, nel caso in cui i reati avvinti dal vincolo della continuazione siano caratterizzati da pene eterogenee e, in particolare, il reato satellite sia sanzionato con sola pecuniaria, mentre il reato più grave risulti sanzionato con pena detentiva e pena pecuniaria.

La decisione – richiamati i diversi orientamenti che si sono proposti sul tema nell’articolata interpretazione delle sezioni semplici (e dunque i diversi criteri interpretativi che tendono ad evitare il rischio di un aumento con pena detentiva per un reato sanzionato esclusivamente con pena pecuniaria, con particolare riferimento al metodo del computo della pena per addizione, sostenuto fortemente anche dalla dottrina) – considera come momento interpretativo rilevante quanto affermato nella decisione delle Sez. U, n. 15 del 26/11/1997, Varnelli, Rv. 209487. Tale decisione ha statuito che quanto all’aumento di pena per la continuazione, nell’ipotesi in cui il reato più grave sia un delitto punito con la sola multa ed il reato satellite una contravvenzione punita con pena congiunta, la pena pecuniaria del reato “satellite”, pur di specie diversa, si cumula a quella del reato base divenendo ad essa omogenea, in quanto porzione della pena base aumentata. Per il calcolo della pena detentiva, invece, occorre procedere prima ad un’operazione intermedia, governata dalle regole poste dall’art. 135 cod. pen. sul ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, e quindi, convertito l’arresto in pena pecuniaria, anche questa diviene porzione dell’aumento sulla pena base.

Le Sezioni Unite evidenziano come con questa interpretazione si sia introdotta la possibilità, nell’interesse dell’imputato, del ragguaglio della pena detentiva e della pena pecuniaria. Un’evidente applicazione del principio del favor rei, sempre nell’ambito del principio di legalità della pena. Tuttavia, il dissenso emerso da interpretazioni più recenti – e principalmente da Sez. 5, n. 46695 del 03/10/2016, C., Rv. 269639, che di fatto ha messo in dubbio l’applicabilità del regime della continuazione nel caso di reati puniti con pene eterogenee (perché si giungerebbe, con l’unificazione delle pene diverse e relativo aumento di quella prevista per il reato più grave, ad una conversione delle pene previste per i reati “satellite” in pene più gravi per genere e specie, con evidente violazione del principio del favor rei chiaramente posto a base della disciplina della continuazione) – comporta secondo le Sezioni Unite la necessaria valutazione circa le “modalità di applicazione” in concreto dello speciale criterio di determinazione della pena stabilito dall’art. 81 cod. pen. Considerando la necessità di concentrare la decisione proprio sulle modalità di applicazione dello speciale criterio ex art. 81 cod. pen. nel caso di reati puniti con pene eterogenee, le Sezioni Unite hanno esplicitamente affermato di dover superare l’assunto delle Sez. U, Ciabotti in relazione a due diversi profili:

a)l’assunto secondo il quale l’aumento per la continuazione postula l’omologazione al genere e alla specie della pena relativa alla violazione più grave;

b)l’affermazione per cui l’aumento della pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave introduca una forma di pena di per sé legale a prescindere dal genere di pena prevista per i reati satellite.

Si è quindi chiarito, quanto al primo punto, come il concetto di aumento ex art. 81 cod. pen. prescinde da tale necessaria omologazione esigendo un’integrazione della pena base che tuttavia non deve necessariamente essere omogenea e condizionata dal tipo di sanzione prevista per il reato più grave.

Il passaggio fondamentale del percorso argomentativo delle Sezioni Unite evidenzia quanto al secondo punto come un’applicazione rigida del principio in precedenza affermato dalla Sez. U, Ciabotti porterebbe al superamento del c.d. limite esterno all’aumento di pena per la continuazione previsto dall’art. 81 cod. pen., ovvero l’impossibilità di applicare una pena superiore a quella che sarebbe applicabile con il cumulo materiale. Previsione che risulterebbe oggettivamente superata nel caso in cui venga inflitta una pena detentiva per un reato satellite punito con sola pena pecuniaria, in quanto il cumulo giuridico comprenderebbe una frazione di pena detentiva estranea al cumulo materiale, con conseguente illegalità della pena stessa (anche tenendo conto del divieto di cumulo tra pene detentive e pene pecuniarie, che restano distinte a qualunque effetto giuridico ex art. 76 cod. pen.). In quest’ottica si sottolinea anche come l’aumento della pena detentiva in presenza di sola pena pecuniaria per il reato satellite rappresenterebbe anche una violazione del principio di proporzionalità in considerazione della maggiore o minore gravità del reato, che è appunto caratterizzata dal tipo di sanzione prevista.

La Corte richiama inoltre l’apporto interpretativo di Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263714, che ha enunciato e chiarito la c.d. visione “multifocale” del reato continuato, che richiede l’individuazione puntuale delle pene per i singoli reati “satellite”, elemento essenziale ai fini della misura degli aumenti da apportare alla pena base.

Viene quindi sottolineata la particolare rilevanza della procedura bifasica di valutazione al fine dell’applicazione della pena per reati avvinti dalla continuazione, condividendo la prospettiva secondo la quale la perdita della autonomia sanzionatoria non comporti affatto l’irrilevanza della gravità dei reati satellite singolarmente considerati (come emerge dall’art. 533 cod. proc. pen., secondo il quale il giudice prima “stabilisce” la pena per ciascun reato e poi “determina” la pena da applicare per il reato unitariamente considerato).

Da ciò deriva che, perché la pena del reato continuato sia legale, occorre che sia risettato il genere della pena pecuniaria prevista per il reato satellite. A tal fine è necessario interpretare il criterio della “pena unica progressiva per moltiplicazione”, ritenuto maggiormente in linea con la previsione dell’art. 81 cod. pen. rispetto al c.d. “criterio per addizione”, realizzando l’aumento in due fasi, inizialmente sub specie di pena detentiva sulla pena detentiva del reato base e, successivamente, mediante ragguaglio a pena pecuniaria ex art. 135 cod. pen. di tale aumento, nel solco della decisione Sez. U, Varnelli.

Le Sezioni Unite, a conclusione del percorso argomentativo illustrato, hanno richiamato una serie di casi esemplificativi nell’applicazione del principio enunciato sul tema del reato continuato e pene eterogenee, quanto ai casi più frequenti e significativi.

In particolare:

a) reato più grave punito con pena detentiva e reato satellite soltanto con pena pecuniaria, aumento della pena per quest’ultimo, da effettuarsi sulla pena detentiva e ragguagliato a pena pecuniaria ex art. 135 cod. pen;

b)reato più grave punito con pena detentiva e reato satellite con pena congiunta, l’aumento si realizza con pena detentiva della specie di quella prevista per la violazione più grave;

c) reato più grave punito con pena congiunta e reato satellite con sola pena pecuniaria, aumento su entrambe le pene previste per il primo reato, con ragguaglio della pena pecuniaria dell’aumento della pena detentiva;

d) reato più grave punito con pena congiunta e reato satellite punito con pena alternativa il giudice può aumentare in relazione ad una soltanto delle pene previste per la violazione più grave motivando la scelta ex art. 133 cod. pen.;

e) reato più grave punito con pena congiunta e reato satellite con pena detentiva si aumentano entrambe le pene previste per la violazione più grave;

f) reato più grave punito con pena alternativa e reato satellite con pena pecuniaria, aumento in relazione ad una soltanto delle pene previste per la violazione più grave, motivando la scelta ex art. 133 cod. pen., e in caso si aumento della pena detentiva necessario ragguaglio a pena pecuniaria in applicazione dell’art. 133 cod. pen.;

g) reato più grave punito con la sola pena della multa e quello satellite con contravvenzione punita a pena congiunta o alternativa, si aumenta soltanto la pena pecuniaria sub specie di multa.

In conclusione le Sezioni Unite affermano che la disciplina della continuazione, quale istituto di carattere generale, è applicabile in ogni caso in cui più reati siano stati commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, anche quando si tratti di reati appartenenti a diverse categorie e puniti con pene eterogenee, nonché che nel caso di concorso di reati puniti con sanzioni eterogenee, sia nel genere che nella specie, per i quali sia riconosciuto il vincolo della continuazione, l’aumento di pena per il reato “satellite” va effettuato secondo (come enunciato dalle Sezioni Unite, Ciabotti), rispettando tuttavia, per il principio di legalità della pena e del favor rei, nelle modalità di applicative del criterio di computo predetto, il genere della pena prevista per il reato “satellite”, nel senso che l’aumento della pena detentiva del reato più grave dovrà essere ragguagliato a pena pecuniaria ai sensi dell’art. 135 cod. pen.

5. Le pronunzie successive della Corte in materia di computo della pena in caso di reato continuato e pene eterogenee.

Da richiamare una prima applicazione analogica del principio enunciato sul punto dalle Sezioni Unite nella decisione della Sez. 4, n. 42500 del 25/09/2018, che ha stabilito che in tema di guida in stato di ebbrezza alcolica, nel caso di concorso tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale previste dall’art. 186, comma 2-bis (che prevede il raddoppio dell’arresto e dell’ammenda, nonché della durata della sanzione accessoria) e dall’art. 186, comma 2-sexies (che prevede l’incremento da un terzo alla metà della sola ammenda), trova applicazione l’art. 63, comma 4 cod. pen. Pertanto il giudice, una volta operato il raddoppio della pena detentiva e di quella pecuniaria ai sensi del comma 2-bis, dovrà motivare l’eventuale decisione di applicare l’ulteriore aumento fino a un terzo che dovrà investire anch’esso entrambe le pene, avendo poi cura di convertire il quantum di aumento relativo all’arresto nella corrispondente pena pecuniaria, secondo il criterio di ragguaglio stabilito dall’art. 135 cod. pen., in ossequio ai principi di legalità della pena e favor rei.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 3, n. 14217 del 05/07/1976, Ruina, Rv.135036 Sez. U, n. 12190 del 23/10/1976, Desideri, Rv. 134813 Sez. 2, n. 10125 del 10/01/1977, Castelletti, Rv. 136619 Sez. 1, n. 10412 del 25/05/1977, Boscolo, Rv. 136646 Sez. 5, n. 12619 del 21/06/1977, Vulcanelli, Rv. 137042 Sez. 1, n. 1681 del 30/11/1977, Sosi, Rv. 137934 Sez. U, n. 6220 del 30/04/1983, Anaclerio, Rv. 159727 Sez. 1, n. 908 del 27/09/1985, Gaeta, Rv. 171656 Sez. U, n. 4901 del 2/03/1992, Cardarilli, Rv. 191129 Sez. 5, n. 1953 del 24/04/1996, Mangieri, Rv. 206143 Sez. 6, n. 2973 del 30/10/1996, Aveta, Rv. 206216 Sez. U, n. 15 del 26/11/1997, Varnelli, Rv. 209487 Sez. 1, n. 4724 del 2/10/1998, Bracone, Rv. 211883 Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255347 Sez. F., n. 41658 del 05/09/2013, Teti, Rv. 257324 Sez. 5, n. 35999 del 17/03/2015, Vasili, Rv. 265002 Sez. U, n. 22741 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263717 Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015 Jazouli, Rv. 264207 Sez. 5, n. 46695 del 03/10/2016, C., Rv. 268638 Sez. 5, n. 26450 del 13/04/2017, Arena, Rv. 270540 Sez. 4, n. 46963 del 20/09/2017, Bianchi Sez. 4, n. 42500 del 25/09/2018, Bray

  • reato
  • alleggerimento della pena
  • diritto penale

CAPITOLO III

LE SEZIONI UNITE SUL COMPUTO DELLA PENA NEL CASO DI CONTINUAZIONE TRA REATI ACCERTATI MEDIANTE PROCEDIMENTI CON RITI DIVERSI

(di Luigi Giordano )

Sommario

1 Il principio espresso dalle Sezioni Unite. - 2 La delimitazione dell’ambito del conflitto. - 3 L’orientamento che limita l’applicazione della riduzione per il rito ai soli reati giudicati con rito abbreviato. - 4 L’indirizzo secondo cui la riduzione per il rito va applicata anche per i reati giudicati con rito ordinario, sempre che la violazione più grave sia quella giudicata con rito abbreviato. - 5 La soluzione accolta dalla Corte. - 6 La riduzione della pena come ultima operazione della dosimetria della pena. - 7 La natura della diminuente per il rito abbreviato e la funzione premiale dell’istituto. - 8 La riforma della portata della diminuente in caso di condanna per una contravvenzione. - Indice delle sentenze citate

1. Il principio espresso dalle Sezioni Unite.

Nel corso del 2018, le Sezioni unite hanno affrontato un delicato contrasto giurisprudenziale relativo all’incidenza della diminuzione della pena per il giudizio abbreviato quando si pongano in continuazione reati giudicati con quest’ultimo rito e reati giudicati con rito ordinario. Con sentenza Sez. U, n. 35852 del 22/02/2018, Cesarano, Rv. 273547, è stato enunciato il principio di diritto così massimato: “L’applicazione della continuazione tra reati giudicati con il rito ordinario e altri giudicati con il rito abbreviato comporta che soltanto nei confronti di questi ultimi – siano essi reati cd. satellite ovvero reati che integrino la violazione più grave – deve essere applicata la riduzione di un terzo della pena, a norma dell’art. 442, comma secondo, cod. proc. pen.”.

2. La delimitazione dell’ambito del conflitto.

Le Sezioni Unite hanno premesso che, nel caso di riconoscimento della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario e altri con rito abbreviato, tanto nel giudizio di cognizione, quanto in quello instaurato ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., si riscontrano due orientamenti differenti sulle modalità del computo della pena soltanto nell’ipotesi in cui sia ritenuta più grave la violazione giudicata con il rito abbreviato. Qualora infatti il giudice della cognizione o dell’esecuzione riconosca l’esistenza della continuazione, ma ritenga reato più grave quello definito con il rito ordinario, la giurisprudenza di legittimità è univocamente orientata nel senso che la diminuzione di un terzo per il rito alternativo debba essere operata soltanto sull’aumento calcolato per i reati cd. satellite giudicati con il rito alternativo (Sez. 1, n. 49776 del 21/06/2017, non mass.; Sez. 1, n. 12591 del 13/03/2015, Reale, Rv. 262888; Sez. 3, n. 9038 del 20/11/2012, dep. 2013, Micheletti, Rv. 254977; Sez. 1, n. 5480 del 13/01/2010, Perrone, Rv. 245915; Sez. 1, n. 49981 del 19/11/2009, Scalas, Rv. 245966; Sez. 1, n. 44477 del 04/11/2009, Modeo, Rv. 245719; Sez. 1, n. 40448 del 02/10/2007, Valentino, Rv. 238049; Sez. 1, n. 15409 del 17/02/2004, Pennisi, Rv. 227929).

Ai fini dell’esame della questione rimessa alle Sezioni unite, inoltre, non è stato ritenuto rilevante un indirizzo giurisprudenziale formatosi in relazione al caso in cui il riconoscimento in sede esecutiva della continuazione riguardi esclusivamente i reati oggetto di condanne emesse all’esito di distinti giudizi abbreviati. In questo caso, è stato affermato che l’applicazione del trattamento sanzionatorio di cui all’art. 81 cod. pen. comporta, previa individuazione del reato più grave, la determinazione della pena base nella sua entità precedente all’applicazione della diminuente per il rito abbreviato, l’applicazione dell’aumento per continuazione su detta pena base e il computo sull’intero in tal modo ottenuto della diminuente per il rito abbreviato (Sez. 1, n. 20007 del 05/05/2010, Serafino, Rv. 247616).

Alla medesima ratio di evitare che il riconoscimento della continuazione tra reati giudicati in distinti procedimenti tutti definiti con rito abbreviato possa portare alla possibilità di lucrare la riduzione della pena due volte, cioè sia nell’identificazione del limite massimo invalicabile per l’aumento da apportare, che nella determinazione in concreto dell’aumento, è ispirato anche l’orientamento secondo cui «Il riconoscimento della continuazione fra reati oggetto di diverse sentenze e giudicati tutti con rito abbreviato comporta che la pena ridotta applicata in uno dei precedenti riti deve costituire il tetto non superabile rispetto al quale computare l’aumento per la continuazione, non potendo determinarsi alcuna duplicazione di benefici a favore del condannato» (Sez. 6, n. 34112 del 12/07/2011, Facchineri, Rv. 250978).

3. L’orientamento che limita l’applicazione della riduzione per il rito ai soli reati giudicati con rito abbreviato.

Secondo il primo orientamento, in caso di riconoscimento della continuazione tra reati giudicati con riti diversi, anche se quelli definiti nelle forme del giudizio abbreviato integrano la violazione più grave, la diminuzione della pena per il rito si applica esclusivamente per tali reati e non per quelli cd. satellite giudicati con il rito ordinario (cfr., tra le altre, Sez. 5, n. 47073 del 20/06/2014, Esposito, Rv. 262144; Sez. 6, n. 33856 del 09/07/2008, Capogrosso, Rv. 240798; più di recente, Sez. 1, n. 17890 del 14/02/2017, Zagaria, Rv. 270012; Sez. 1, n. 3764 del 21/10/2015, dep. 2016, Napolano, Rv. 266002).

Questo indirizzo si fonda sulla natura processuale della riduzione di pena prevista dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. e sulla conseguente applicabilità soltanto alle pene inflitte per i reati giudicati, per scelta dell’imputato, con il rito abbreviato, non essendo consentite estensioni della disciplina di favore oltre i casi espressamente stabiliti.

In particolare, è stato sottolineato che la ragione della diminuzione della pena deve essere individuata nell’intento di accordare un incentivo per la scelta del procedimento speciale allo “stato degli atti” (cfr., tra le altre, Sez. 1, n. 43024 del 25/09/2003, Carvelli, Rv. 226595) e che l’opposta soluzione ermeneutica darebbe luogo a un’ingiustificata omologazione del trattamento per situazioni radicalmente diverse, equiparando la posizione dell’imputato giudicato col rito abbreviato a quella di colui che è giudicato nelle forme ordinarie.

Più di recente è stato anche osservato che l’art. 533, comma secondo, cod. proc. pen. assegna esplicita rilevanza, in tema di unificazione del trattamento sanzionatorio, alle «norme sul concorso di reati e di pene o sulla continuazione», ma non anche a quelle sui riti (Sez. 6, n. 58089 del 16/11/2017, dep. 2018 Wu, n.m. sul punto).

Questo indirizzo è stato accolto nell’ipotesi in cui sia il giudice della cognizione a dover commisurare la pena ai sensi dell’art. 81, comma secondo, cod. pen. per aver ravvisato la sussistenza del medesimo disegno criminoso tra un reato sub iudice e uno o più reati giudicati all’esito di procedimenti definitivi celebrati con riti diversi (Sez. 5, n. 47073 del 20/06/2014, Esposito, cit.; Sez. 6, n. 33856 del 09/07/2008, P.G. in proc. Capogrosso, cit.; Sez. 1, n. 43024 del 25/09/2003, Carvelli, cit.).

Il medesimo orientamento, inoltre, è stato applicato anche quando il riconoscimento della continuazione tra reati giudicati con riti diversi avviene in sede esecutiva (Sez. 1, n. 17890 del 14/02/2017, Zagaria, cit.; Sez. 1, n. 3764 del 21/10/2015, dep. 2016, Napolano, cit.;

Sez. 5, n. 47073 del 20/06/2014, Esposito, cit.; Sez. 5, n. 26593 del 29/04/2014, Rinzivillo, Rv. 260573; Sez. 6, n. 33856 del 09/07/2008, P.G. in proc. Capogrosso, cit.; Sez. 1, n. 43024 del 25/09/2003, Carvelli, cit.).

4. L’indirizzo secondo cui la riduzione per il rito va applicata anche per i reati giudicati con rito ordinario, sempre che la violazione più grave sia quella giudicata con rito abbreviato.

Secondo un diverso orientamento, invece, riconosciuta la continuazione tra reati giudicati con i riti diversi indicati, ai fini dell’applicazione della riduzione della pena per il procedimento abbreviato ex art. 442 cod. proc. pen., occorre distinguere il caso in cui la violazione più grave sia stata determinata in quella giudicata con rito ordinario da quello che ricorre quando la violazione più grave sia stata giudicata con rito abbreviato. Nella prima ipotesi, il giudice deve procedere all’aumento di pena per la continuazione in ordine ai reati satellite, giudicati con il rito abbreviato, e deve ridurre la pena di un terzo soltanto con riferimento ad essi. Nel secondo caso, cioè quando individua la violazione più grave con riferimento ai reati giudicati con il giudizio abbreviato, invece, la riduzione spettante per la scelta del rito speciale va applicata sulla pena finale determinata dopo l’aumento disposto per i reati satellite giudicati con il rito ordinario.

Questo indirizzo è stato espresso sia nel caso di riconoscimento della continuazione all’esito del giudizio di cognizione tra i reati da giudicare e quelli già giudicati con sentenze definitive (Sez. 5, n. 12592 del 28/11/2016, dep. 2017, Alma e altri, Rv. 269706; Sez. 3, n. 37848 del 19/05/2015, Cutuli ed altri, Rv. 264812), sia nell’ipotesi in cui l’applicazione dell’art. 81 cod. pen. è avvenuta in sede di esecuzione (Sez. 5, n. 20113 del 27/11/2015, dep. 2016, Moreo, Rv. 267244).

Questo orientamento, in particolare, rappresenta che, a norma dell’art. 533 cod. proc. pen., richiamato dall’art. 442, comma 1, cod. proc. pen., la commisurazione delle singole componenti della pena attiene ad una fase precedente a quella della sanzione complessiva e, quindi, l’aumento per la continuazione deve precedere la riduzione di un terzo per il rito speciale. Uno spunto a sostegno di questa interpretazione, infatti, è stato ravvisato da Sez. 3, n. 37848 del 19/05/2015, Cutuli ed altri, Rv. 264812, nella sentenza Sez. U, n. 45583 del 25/10/2007 – dep. 2007 –, P.G. in proc. Volpe e altri, Rv. 237692, secondo la quale, in forza dell’interpretazione letterale e sistematica delle disposizioni interessate, la riduzione della pena per la scelta del rito rappresenta un posterius rispetto alle altre ordinarie operazioni di dosimetria della pena che la legge attribuisce al giudice. La formula che è adoperata dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. (“… in caso di condanna, la pena che il giudice determina … è diminuita di un terzo …”) trova agevole riferimento, in caso di pluralità di reati, nell’art. 533, comma 2, cod. proc. pen., il quale prevede che “se la condanna riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene o sulla continuazione”. Da questa scansione «si desume che, con riguardo alla condanna concretamente inflitta, la commisurazione delle singole componenti della pena complessiva attiene ad una fase precedente la deliberazione finale» (così, Sez. U, n. 45583 del 25/10/2007 – dep. 2007 –, P.G. in proc. Volpe e altri, cit.). La riduzione di pena conseguente alla scelta del rito abbreviato, pertanto, si applica dopo che la pena è stata determinata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene stabilite dagli artt. 71 ss. cod. pen., fra le quali vi è anche la disposizione che disciplina il reato continuato e quella limitativa del cumulo materiale, in forza della quale la pena della reclusione non può essere superiore ad anni trenta.

È stato poi osservato che, qualora nel corso di un procedimento celebrato nelle forme del giudizio abbreviato sia riconosciuta la continuazione con reati oggetto di una precedente sentenza irrevocabile, quantunque pronunciata con il rito ordinario, «non vi è dubbio che formano oggetto del rito speciale, sebbene limitatamente alla determinazione del trattamento sanzionatorio, anche i reati già giudicati che abbiano dato luogo alla configurazione del reato continuato, quando la pena irrogata con la precedente sentenza non sia mantenuta ferma ma sia stata complessivamente rideterminata sulla base di quella da infliggersi per il reato più grave sottoposto al giudizio (abbreviato) in corso con applicazione dell’aumento ritenuto equo in riferimento al reato meno grave già giudicato» (Sez. 3, n. 37848 del 19/05/2015, Cutuli ed altri, cit.). L’applicazione dell’istituto previsto dall’art. 81, comma secondo, cod. pen., d’altra parte, «qualunque sia il rapporto di gravità tra i due reati, implica in ogni caso una riconsiderazione del fatto già definitivamente accertato sia pure al solo fine di riconoscerne la dipendenza da un unico disegno criminoso, restando solo precluso un giudizio, non più modificabile, sul fatto costituente reato, ma non la rettificazione del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna» (al riguardo Sez. 3, n. 37848 del 19/05/2015, Cutuli ed altri, cit., richiama Sez. U, n. 7682 del 21/06/1986, citata, in motivazione).

In applicazione del principio espresso, la sentenza Sez. 3, n. 37848 del 19/05/2015, Cutuli ed altri, cit., ha annullato senza rinvio la decisione del giudice di merito, rideterminando la pena con il seguente nuovo calcolo aritmetico: la pena base è stata determinata in quella irrogata all’esito del giudizio abbreviato, considerandola tuttavia nell’entità precedente alla diminuzione per il rito abbreviato; detta pena è stata aumentata per la continuazione con un reato giudicato in un distinto procedimento trattato con rito ordinario; la pena in tal modo ottenuta è stata ridotta di un terzo per la diminuente del rito speciale.

5. La soluzione accolta dalla Corte.

Precisati i termini del contrasto tra gli orientamenti giurisprudenziali illustrati, le Sezioni unite hanno ritenuta corretta la prima tesi in considerazione della natura processuale della riduzione della pena per il rito abbreviato, che ne esclude l’applicazione ai reati giudicati nelle forme ordinarie.

La Corte, in particolare, ha rilevato che detta natura dell’istituto è stata riconosciuta senza alcuna incertezza fin dai primi anni di applicazione del codice di rito del 1988, sia dalla Corte costituzione (cfr. Corte cost. n. 277 del 1990; Corte cost. n. 284 del 1990), sia dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha escluso possa essere assimilata alle altre circostanze (Sez. U, n. 7707 del 21/05/1991, Volpe, Rv. 187851). Al fine di realizzare una funzione di prevenzione generale, derivante dalla rapida definizione del giudizio, la riduzione della pena collega sinallagmaticamente il riconoscimento della premialità per l’imputato alla sua rinuncia alle garanzie del contraddittorio, che consente di conseguire la celerità dell’accertamento dei fatti processuali.

È stato poi osservato che non presenta una particolare consistenza l’argomento a sostegno della tesi opposta, desunto dalla sentenza Sez. U, n. 45583 del 25/10/2007 Ud. (dep. 06/12/2007), P.G. in proc. Volpe e altri, Rv. 237692, secondo la quale la riduzione della pena per la scelta del rito dovrebbe rappresentare sempre un posterius rispetto alle altre ordinarie operazioni di dosimetria della pena che la legge attribuisce al giudice. La medesima sentenza delle Sezioni unite, infatti, ha comunque sottolineato la natura premiale della diminuente, esclusivamente connessa alla scelta del rito alternativo, precisando che «la ratio legis dell’art. 442 c.p.p., comma 2, è … quella di garantire all’imputato in ogni singolo processo un vantaggio conseguente alla scelta strategica del rito alternativo in ordine a tutte le imputazioni contestate in quello specifico processo, e questo vantaggio viene assicurato in ciascuno dei processi celebrati con tale rito e conclusisi con la condanna, all’esito di ognuno dei quali si determina la pena applicando la relativa diminuente; quest’ultima opera, dunque, in modo identico nei confronti di tutti coloro che si trovano nel medesimo contesto processuale …».

Le Sezioni Unite, quindi, hanno giudicato «improprio» il richiamo alla formulazione testuale degli artt. 442, comma 2, e 533, comma 2, cod. proc. pen. compiuto dall’indirizzo incline ad estendere la diminuente ai reati giudicati con rito ordinario.

Non vi è dubbio, invero, che, nel rito abbreviato, il giudice deve operare la riduzione della pena dopo aver tenuto conto “di tutte le circostanze”, dovendo ritenersi compresa in tale espressione anche l’eventuale riconoscimento della continuazione tra i reati contestati in forza di un implicito richiamo al disposto dell’art. 533, comma 2, cod. proc. pen. contenuto nell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 3101 del 29/01/1993, EI Bakali, Rv. 195960). La riduzione della pena, tuttavia, è operata solo se tali reati sono stati tutti giudicati nell’ambito di un unico processo celebrato con il rito alternativo. Se, invece, la continuazione è riconosciuta con riferimento a reati separatamente giudicati con rito ordinario, essa non trova più alcuna giustificazione.

Secondo la Corte, pertanto, «l’ordine che il giudice deve seguire nelle operazioni di calcolo della pena, nel quale la diminuente del rito è successiva a tutte le altre, è funzionale ad un processo in cui sono stati giudicati tutti i reati riuniti per continuazione al fine di determinare una pena complessiva; non lo è più se alcuni reati sono stati giudicati in separati processi celebrati con rito ordinario».

Ancorché il giudice dell’abbreviato possa intervenire sulle pene inflitte per reati definiti con le sentenze irrevocabili emesse all’esito di rito ordinario, difatti, per essi non si celebra affatto un nuovo processo; così come non celebra un nuovo processo il giudice dell’esecuzione che, in forza dell’art. 671 cod. proc. pen., verifica la sussistenza del vincolo della continuazione tra reati definitivamente ma separatamente giudicati e ridetermina la pena complessiva.

Nella fattispecie, pertanto, le Sezioni unite hanno ritenuto corretto il calcolo della pena così effettuato dalla Corte di appello: Individuata la violazione più grave in un reato giudicato con rito abbreviato, la pena determinata per tale reato è stata ridotta per il rito ai sensi dell’art. 442, comma secondo, cod. proc. pen. e, poi, aumentata per la continuazione per quelli giudicati con precedenti decisioni irrevocabili pronunciate all’esito di giudizi ordinari.

6. La riduzione della pena come ultima operazione della dosimetria della pena.

L’orientamento accolto dalle Sezioni unite, dunque, ha circoscritto l’operatività della regola di formazione giurisprudenziale secondo cui la riduzione per il rito speciale è successiva a tutte le altre operazioni di calcolo della pena.

In base all’interpretazione letterale e logico – sistematica delle disposizioni interessate e in forza del carattere processuale attribuito alla diminuente, invero, è stato ben presto chiarito che la riduzione per il rito abbreviato rappresenta l’ultima tra le operazioni finalizzate alla determinazione della pena. Essa, pertanto, deve essere compiuta dopo la delibazione delle circostanze del reato e della continuazione, sottraendosi a qualsiasi estimazione di valenza ex art. 69 cod. pen. Occorre evitare, infatti, che l’attenuante possa essere elisa all’esito del giudizio di comparazione tra le circostanze, negando all’imputato il “premio” che deriva dalla scelta del rito speciale.

Nel sistema codicistico, come è noto, si rinvengono due specifici riferimenti alle modalità di applicazione della riduzione della pena nel giudizio abbreviato. In entrambi i casi, l’operazione riduttiva rappresenta un posterius rispetto a tutte le altre di dosimetria della pena.

L’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. dispone che, in caso di condanna, la pena che il giudice determina “tenendo conto di tutte le circostanze” è diminuita di un terzo.

Secondo l’art. 187 disp. att. cod. proc. pen., inoltre, ai fini dell’applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione, si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave “anche quando per alcuni reati si è proceduto col giudizio abbreviato”. A tal proposito, nei lavori preparatori è stato sottolineato che «la prescrizione è stata ritenuta opportuna con specifico riferimento al giudizio abbreviato, dove la circostanza che la riduzione di un terzo dipende dalla scelta del rito e quindi da una scelta meramente processuale avrebbe potuto far argomentare che la “pena in concreto” era quella precedente rispetto a detta riduzione».

Secondo l’indirizzo accolto dalle Sezioni unite, tuttavia, nel caso in cui viene in esame una ipotesi di “continuazione esterna” e, specificamente, quando il reato “più grave” è stato trattato con rito abbreviato, mentre quelli che sono oggetto della continuazione sono stati giudicati con rito ordinario, la riduzione per il rito non può rappresentare l’ultima operazione necessaria ai fini del calcolo della pena.

7. La natura della diminuente per il rito abbreviato e la funzione premiale dell’istituto.

Le Sezioni unite, dunque, hanno ribadito che la diminuente di cui all’art. 442 cod. proc. pen. ha natura processuale.

Il giudizio abbreviato, com’è noto, si configura come procedura semplificata subordinata ad un’opzione negoziale sul rito. La riduzione della pena collega sinallagmaticamente il riconoscimento della premialità alla rinuncia dell’imputato alle garanzie del contraddittorio, che consente indubbi vantaggi in termini di semplificazione e celerità dell’accertamento dei fatti processuali.

Facendo leva su taluni passaggi argomentativi contenuti in alcune sentenze della Corte costituzionale (cfr. Corte cost. 31/05/1990, n. 277; Corte cost. 14/06/1990, n. 284), la diminuente del rito è stata da subito definita come un effetto meramente premiale di una specifica scelta processuale dell’imputato, un «incentivo al patteggiamento sul rito congeniale all’obiettivo della deflazione processuale», «espressione di una filosofia collaborativo-premiale protesa alla sollecita definizione dei processi, nettamente estranea alla logica delle circostanze del reato» (così, Sez. U, n. 7707 del 21/05/1991, Volpe, Rv. 187851).

All’istituto del giudizio abbreviato, inoltre, è stata riconosciuta una funzione di prevenzione generale, osservandosi che la rapida definizione dei giudizi realizza, meglio di «tardive e pesanti condanne», lo scopo di garantire l’effettività dell’attuazione corretta e efficace del diritto penale sostanziale, rispondendo ad un’esigenza «utilitaristica di sollecita definizione dei giudizi» (così ancora, Sez. U, 21/05/1991, n. 7707, Volpe, cit.).

Il carattere processuale dell’attenuante è stato costantemente affermato dalla giurisprudenza, che ha sempre sottolineato come dipenda dall’esercizio di una facoltà nel corso del procedimento (cfr. Sez. U, n. 7707 del 21/05/1991, Volpe, cit.; Sez. 1, n. 9812 del 06/06/1995, Rolino, Rv. 202547; Sez. 1, n. 5027 del 10/03/1997, Spagnuolo, Rv. 207645; Sez. 5, n. 7200 del 12/05/1999, PG in proc. Di Rocca ed altro, Rv. 213696; Sez. 1, n. 17951 del 30/03/2004, Canal, Rv. 228290).

Dall’interpretazione letterale e logico-sistematica delle norme che disciplinano il rito speciale si è desunto che la riduzione della pena non può essere inquadrata nel genus delle cosiddette attenuanti qualitativamente o quantitativamente speciali, trattandosi invece di diminuente di natura “processuale”. Essa non attiene alla valutazione del fatto – reato o alla personalità dell’imputato, non contribuendo a determinarne in termini di disvalore la quantità e gravità criminosa; è svincolata da qualsiasi giustificazione sul piano delle condotte del reato susseguenti al reato di cui all’art. 133, comma secondo, n. 3), cod. pen.; consiste in un abbattimento fisso, connotato da automatismo, che non prevede alcuna discrezionalità valutativa da parte del giudice.

Il carattere processuale dell’attenuante non vale ad escludere riflessi di natura sostanziale della sua disciplina, derivanti dalle caratteristiche premiali dell’istituto, perché l’effetto sostanziale costituito dalla riduzione di pena di cui all’art. 442 cod. proc. pen. è rigidamente ed ineludibilmente posto in rapporto di dipendenza dalla scelta processuale dell’imputato (cfr. Sez. 1, n. 7385 del 05/06/2000, Hasani, Rv. 216255).

La natura processuale della diminuente, in verità, almeno ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio nel caso di successione tra disposizioni normative, è stata posta in discussione da un’interpretazione giurisprudenziale più recente, ispirata da indicazioni provenienti dalla Corte europea di Strasburgo. Questo indirizzo è incline a ritenere che le norme del codice di procedura penale che regolano i riti premiali nella parte in cui disciplinano le riduzioni di pena devono essere intese come regolatrici di “sanzioni” (cfr. di recente, Sez. 2, n. 54958 del 11/10/2017, PG in proc. D’Onofrio). In tale prospettiva si fa riferimento alle affermazioni contenute nella pronuncia delle Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano, Rv. 258649 che, come è noto, ha ad oggetto la legalità della pena dell’ergastolo introdotta con una modifica delle norme sul rito abbreviato.

È stato precisato, tuttavia, che «La natura sostanziale della diminuente premiale per il rito abbreviato predicata dalla CEDU nella sentenza in data 17 settembre 2009 (caso Scoppola c. Italia), non implica la trasformazione della natura processuale di tutta la restante normativa concernente i presupposti, i termini e le modalità di accesso al rito, aspetti rimessi alla scelta del legislatore nazionale e non immutati dalla giurisprudenza comunitaria (Sez. 1, n. 48757 del 04/12/2012 Cc. (dep. 17/12/2012), Aspa, Rv. 254524).

8. La riforma della portata della diminuente in caso di condanna per una contravvenzione.

Nonostante la natura processuale, infine, la produzione di effetti sostanziali da parte della diminuente è stata riconosciuta dalla giurisprudenza anche a seguito della riforma dell’art. 442 cod. proc. pen. Questa disposizione, infatti, è stata novellata dalla legge n. 103 del 2017, essendo stato previsto che, in caso di condanna per una contravvenzione, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze deve essere diminuita della metà, anziché di un terzo come previsto dalla previgente disciplina.

In giurisprudenza è subito emerso la questione dell’applicazione di questa norma ai fatti pregressi. L’indirizzo che è stato accolto è incline a ritenere applicabile la norma in esame anche alle fattispecie anteriori, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, ai sensi dell’art. 2, comma quarto, cod. pen., in quanto, pur trattandosi di norma di carattere processuale, ha effetti sostanziali, comportando un trattamento sanzionatorio più favorevole seppure collegato alla scelta del rito (Sez. 6, n. 58089 del 16/11/2017, dep. 2018, Wu, n.m.; Sez. 4, n. 832 del 15/12/2017, dep. 2018, Del Prete, Rv. 271752; Sez. 1, n. 50435, del 25/09/2018, Giorgio, n.m.; Sez. 4, n. 50309 del 10/10/2018, Ingrassi, n.m.; Sez. 3, n. 50134 del 13/07/2018, Piccolo, n.m.; Sez. 3, n. 48843 del 4/05/2018, Tumminello, n.m.).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 7707 del 21/05/1991, Volpe, Rv. 187851 Sez. 1, n. 3101 del 29/01/1993, EI Bakali, Rv. 195960 Sez. 1, n. 9812 del 06/06/1995, Rolino, Rv. 202547 Sez. 1, n. 5027 del 10/03/1997, Spagnuolo, Rv. 207645 Sez. 5, n. 7200 del 12/05/1999, PG in proc. Di Rocca e altro, Rv. 213696 Sez. 1, n. 7385 del 05/06/2000, Hasani, Rv. 216255 Sez. 1, n. 43024 del 25/09/2003, Carvelli, Rv. 226595 Sez. 1, n. 15409 del 17/02/2004, Pennisi, Rv. 227929 Sez. 1, n. 17951 del 30/03/2004, Canal, Rv. 228290 Sez. 1, n. 40448 del 02/10/2007, Valentino, Rv. 238049 Sez. U, n. 45583 del 25/10/2007, P.G. in proc. Volpe e altri, Rv. 237692 Sez. 6, n. 33856 del 09/07/2008, Capogrosso, Rv. 240798 Sez. 1, n. 44477 del 04/11/2009, Modeo, Rv. 245719 Sez. 1, n. 49981 del 19/11/2009, Scalas, Rv. 245966 Sez. 1, n. 5480 del 13/01/2010, Perrone, Rv. 245915 Sez. 1, n. 20007 del 05/05/2010, Serafino, Rv. 247616 Sez. 6, n. 34112 del 12/07/2011, Facchineri, Rv. 250978 Sez. 3, n. 9038 del 20/11/2012 – dep. 2013 –, Micheletti, Rv. 254977 Sez. 1, n. 48757 del 04/12/2012, Aspa, Rv. 254524 Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano, Rv. 258649 Sez. 5, n. 26593 del 29/04/2014, Rinzivillo, Rv. 260573 Sez. 5, n. 47073 del 20/06/2014, Esposito, Rv. 262144 Sez. 1, n. 12591 del 13/03/2015, Reale, Rv. 262888 Sez. 3, n. 37848 del 19/05/2015, Cutuli ed altri, Rv. 264812 Sez. 2, n. 54958 del 11/10/2017, PG in proc. D’Onofrio Sez. 1, n. 3764 del 21/10/2015 – dep. 2016 –, Napolano, Rv. 266002 Sez. 5, n. 20113 del 27/11/2015 – dep. 2016 –, Moreo, Rv.267244 Sez. 5, n. 12592 del 28/11/2016 – dep. 2017 –, Alma e altri, Rv. 269706 Sez. 1, n. 17890 del 14/02/2017, Zagaria, Rv. 270012 Sez. 1, n. 49776 del 21/06/2017, Passalacqua Sez. 6, n. 58089 del 16/11/2017 – dep. 2018 –, Wu Sez. 4, n. 832 del 15/12/2017 – dep. 2018 –, Del Prete, Rv. 271752 Sez. U, n. 35852, del 22/02/2018, Cesarano, Rv. 273547 Sez. 3, n. 48843 del 4/05/2018, Tumminello Sez. 3, n. 50134 del 13/07/2018, Piccolo Sez. 1, n. 50435, del 25/09/2018, Giorgio Sez. 4, n. 50309 del 10/10/2018, Ingrassi

SEZIONE III CAUSE DI ESTINZIONE E DI NON PUNIBILITÀ DEL REATO

  • prescrizione della pena
  • prescrizione dell'azione
  • diritto penale

CAPITOLO I

ACCERTAMENTO DELLA RECIDIVA E SUA RILEVANZA AI FINI DEL COMPUTO DEL TEMPO NECESSARIO A PRESCRIVERE IL REATO

(di Francesca Costantini )

Sommario

1 Il quesito sottoposto alle Sezioni unite. - 2 Le ragioni della questione controversa - 3 L’orientamento che esclude la rilevanza della recidiva ai fini del calcolo del tempo necessario a prescrivere il reato. - 4 L’orientamento che afferma la rilevanza della recidiva ai fini del calcolo del tempo necessario a prescrivere il reato. - 5 I precedenti interventi delle Sezioni Unite in tema di recidiva. - 6 La decisione. - Indice delle sentenze citate

1. Il quesito sottoposto alle Sezioni unite.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono state chiamate a pronunciarsi sulla questione volta a stabilire se la recidiva contestata nei confronti dell’imputato e implicitamente riconosciuta dal giudice di merito il quale, senza aumentare la pena, l’abbia valorizzata per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, rilevi ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione del reato.

La trattazione del ricorso era stata rimessa al supremo consesso con ordinanza n. 30042 del 21/06/2018, dalla Terza sezione penale che aveva rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale proprio in merito alla questione della rilevanza, agli effetti del computo del termine di prescrizione, della recidiva contestata ma sulla quale non sia intervenuta una esplicita valutazione del giudice. Nell’ordinanza di rimessione venivano infatti richiamati alcuni arresti relativi a fattispecie nelle quali i giudici di merito, pur non applicando l’aumento per la recidiva contestata dal pubblico ministero, avevano comunque negato le circostanze attenuanti generiche dando conto dell’esistenza di precedenti penali gravanti sull’imputato. In tali casi, le sezioni semplici avevano a volte ritenuto che la recidiva fosse stata implicitamente riconosciuta e fosse dunque rilevante anche ai fini del calcolo del tempo necessario a prescrivere il reato, mentre altre volte avevano escluso tale rilevanza. La divergenza tra tali epiloghi decisori si poneva, pertanto, a fondamento della rimessione alle Sezioni unite.

2. Le ragioni della questione controversa

Per meglio comprendere le ragioni fondanti il contrasto sviluppatosi tra le Sezioni semplici occorre rammentare che la recidiva di cui all’art. 99 cod. pen., oltre a determinare quale effetto diretto quello dell’aggravamento della pena, produce anche una pluralità di effetti indiretti che escludono o restringono l’applicazione di una serie di istituti favorevoli al reo. L’istituto in esame, infatti, è stato ampiamente riformato ad opera della legge 5 dicembre 2005, n. 251, con la quale si è determinato un inasprimento del trattamento per i recidivi, realizzato mediante la introduzione una serie di automatismi sanzionatori fondati su presunzioni assolute di maggiore pericolosità, con corrispondente compressione degli spazi di discrezionalità del giudice.

Tali automatismi hanno interessato diversi istituti quali: il giudizio di bilanciamento tra circostanze ex art. 69 cod. pen., con il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata di cui al comma quarto dell’art. 99 cod. pen.; il reato continuato e il concorso formale di reati ex art. 81 cod. pen., imponendo una misura minima dell’aumento di pena (art. 81, comma quarto, cod. pen.); le circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen., con limitazioni alla loro applicazione.

Per quanto riguarda in particolare il computo dei termini di prescrizione, sia l’art. 157 cod. pen. che l’art. 161 cod. pen. prevedono che la qualifica di recidivo reiterato, in quanto circostanza ad effetto speciale, determina un innalzamento dei tempi di maturazione della causa estintiva.

In particolare, l’art. 157 prevede, per le circostanze ad effetto speciale, una specifica deroga al generale principio di neutralizzazione degli effetti delle circostanze sia aggravanti che attenuanti, ne consegue dunque che, come qualsiasi altra circostanza aggravante ad effetto speciale, anche la recidiva reiterata influisce sul tempo necessario a prescrivere dovendosi tener conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante (art. 157, comma secondo, cod. pen.).

L’art. 161 cod. pen., invece, ricollega alla condizione di recidivo (o di delinquente abituale o professionale) i diversi e più lunghi tempi di prescrizione derivanti dall’interruzione del tempo necessario all’estinzione del reato.

Ebbene, in merito alle ricadute della recidiva in termini di prescrizione del reato, nella giurisprudenza di legittimità già in passato si era posto il problema volto a chiarire se gli effetti indiretti dell’istituto si producano sulla base della sola contestazione oppure se sia comunque necessaria una dichiarazione del giudice in ordine alla sua sussistenza.

Su tale questione la giurisprudenza, anche a seguito dei numerosi interventi in materia da parte della Corte costituzionale e delle Sezioni unite della Corte di cassazione, che hanno definitivamente riconosciuto la natura discrezionale della recidiva pluriaggravata e reiterata di cui ai commi terzo e quarto dell’art. 99 cod. pen., con l’esclusione di ogni forma di automatismo sanzionatorio, era ormai orientata nel senso che, mentre prima della sentenza di merito la più severa disciplina dei tempi di prescrizione opera sulla base della mera contestazione della recidiva, una volta intervenuta la decisione che non abbia ravvisato una relazione qualificata fra i precedenti dell’imputato e il fatto a lui addebitato (recidiva ritenuta ma non applicata) la circostanza perde il suo rilievo ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714; Sez. 2, n. 18595 del 08/04/2009, Pancaglio, Rv. 244158). In tali pronunce si era, infatti, osservato che, essendosi definitivamente chiarito che la recidiva deriva non automaticamente dal certificato penale, bensì da una valutazione del giudice riguardante la situazione esistente al momento in cui il nuovo fatto-reato è stato commesso e che, conseguentemente, ove il giudice escluda la circostanza aggravante, “rimangono esclusi ... l’aumento della pena base e tutti gli ulteriori effetti commisurativi connessi all’aggravante”, (a cominciare da quelli incidenti sul giudizio di valenza di cui all’art. 69 cod. pen. e sull’aumento per la continuazione, di cui all’art. 81, comma quarto, cod. pen. nonché in tema di patteggiamento allargato), non c’è ragione per non applicare tale conclusione anche al calcolo del tempo necessario alla maturazione della prescrizione (art. 157 c.p., comma secondo, e art. 161 c.p., comma secondo che, a ben vedere, costituisce anch’esso un effetto commisurativo della pena.”

Pertanto, si era concluso che, se la circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole non deriva automaticamente dal certificato penale o dal contenuto di precedenti provvedimenti di condanna, bensì da una concreta valutazione del giudice riguardante la situazione esistente al momento in cui il nuovo fatto-reato è stato commesso, non v’è alcuna ragione di “far pesare” nel calcolo dei termini prescrizionali la contestazione della circostanza da parte del pubblico ministero sulla base della mera iscrizione di precedenti penali nel certificato del casellario giudiziale, anziché la concreta valutazione causa cognita operata dal giudice.

Con specifico rilievo rispetto al quesito oggetto della decisione delle Sezioni unite, deve poi segnalarsi come si fosse più volte affermato che la recidiva reiterata, essendo una circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente (Sez. 6, n. 39849 del 16/9/2015, Palombella, Rv. 264483; in precedenza conformi Sez. 2, n. 35805 del 18/6/2013, Romano, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/6/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/6/2008, Locatelli, Rv. 241945).

Successivamente poi Sez. 2, n. 2731 del 2/12/2015 – dep. 2016-, Conti, Rv. 265729, aveva sottolineato che il giudizio di equivalenza tra recidiva e circostanze attenuanti generiche comporta l’applicazione della recidiva, rilevante ai fini del computo del termine di prescrizione, in quanto la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art. 69 cod. pen. un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare.

Non può dunque dubitarsi che già prima della rimessione alle Sezioni unite fosse un principio ormai consolidato quello per cui l’applicazione della recidiva implica certamente un elemento ulteriore rispetto al semplice riconoscimento conseguente alla formale contestazione, essendo necessaria una valutazione in concreto che determini l’inasprimento della pena o la confluenza dell’aggravante nel giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen. 

In tale panorama giurisprudenziale, pertanto, la questione sottoposta all’esame delle Sezioni unite si è posta quale ulteriore passaggio rispetto agli approdi raggiunti dalla giurisprudenza di legittimità, ponendosi l’ulteriore esigenza di valutare e chiarire se possa ritenersi che il giudice abbia effettivamente proceduto all’accertamento della recidiva mediante una concreta valutazione della esistenza di una relazione qualificata tra i precedenti del reo ed il nuovo reato anche allorquando la risposta motivazionale sul punto non sia esplicita ma rinvenibile esclusivamente nella valorizzazione dei precedenti penali ai fini della esclusione delle circostanze attenuanti generiche, in relazione a fattispecie nelle quali peraltro il mancato aumento della pena principale e l’assenza di un giudizio di bilanciamento potrebbe orientare l’interprete verso una soluzione di segno opposto.

3. L’orientamento che esclude la rilevanza della recidiva ai fini del calcolo del tempo necessario a prescrivere il reato.

Sulla specifica questione sottoposta al vaglio delle Sezioni unite, come rilevato dalla Sezione rimettente, si registravano in primo luogo alcune pronunce di legittimità che avevano ritenuto la recidiva non rilevante ai fini del calcolo del tempo necessario a prescrivere il reato.

Per le argomentazioni sviluppate viene in rilievo Sez. 6, n. 54043, del 16/11/2017, S., Rv. 271714, secondo la quale in tema di prescrizione del reato, quando il giudice abbia escluso, anche implicitamente, la circostanza aggravante della recidiva, non ritenendola in concreto espressione di una maggiore colpevolezza o pericolosità sociale dell’imputato, la predetta circostanza deve ritenersi ininfluente anche ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato.

La pronuncia atteneva ad un caso in cui il giudice, pur non avendo sviluppato alcuna argomentazione sulla concreta attitudine dimostrativa dei precedenti penali dell’imputato ai fini del giudizio di pericolosità e non avendo applicato alcun aumento di pena per la recidiva, aveva negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche in ragione dei precedenti penali dell’imputato.

Secondo la Sesta sezione, infatti, alla luce dei plurimi interventi della Corte costituzionale e delle Sezioni unite sul tema, poteva ritenersi principio consolidato quello del rifiuto di ogni forma di automatismo nel riconoscimento e nell’applicazione della recidiva, principio che opera non solo sul piano dell’aumento della sanzione ma anche su quello concernente gli effetti secondari o indiretti della recidiva, tra i quali la individuazione dei termini di prescrizione.

Conseguentemente, il collegio precisava che, mentre il giudizio di equivalenza tra recidiva e circostanze attenuanti generiche comporta l’applicazione della recidiva, secondo pacifica e ricorrente affermazione della giurisprudenza, viceversa, una volta intervenuta la decisione che non abbia ravvisato una relazione qualificata fra i precedenti dell’imputato e il fatto a lui addebitato, a prescindere dalla mancata formale esclusione della recidiva, la circostanza perde il suo rilievo ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato.

Pertanto, “se è vero che l’applicazione della recidiva non può farsi discendere automaticamente dal certificato penale o dal contenuto di precedenti provvedimenti di condanna emessi nei confronti di una persona, men che mai può ritenersi che, attraverso il diniego delle circostanze attenuanti per effetto della esistenza dei precedenti penali, la recidiva può dirsi implicitamente riconosciuta dal giudice così rilevando, come circostanza aggravante speciale, ai fini del calcolo dei termini di prescrizione, ragionamento che introduce, surrettiziamente, proprio quel meccanismo automatico che una coerente interpretazione dei meccanismi sanzionatori del moderno diritto penale – incentrato sulla funzione rieducativa della risposta sanzionatoria vuole evitare collegando ragionevolmente le valutazioni del giudice, in tema di trattamento punitivo, alla situazione esistente al momento in cui il nuovo fatto-reato è stato commesso piuttosto che ad un mero status personale”.

Conclusivamente, in applicazione del principio, la Corte, rilevando che il giudice non aveva svolto alcuna considerazione sulla concreta attitudine dimostrativa dei precedenti penali dell’imputato ai fini del giudizio di pericolosità e non aveva applicato alcun aumento di pena, limitandosi ad una valutazione di per sé ancorata allo specifico fatto di reato e rientrante nei criteri direttivi fissati in via generale dall’art. 133, comma secondo, n. 2 cod. pen., ai fini della determinazione della pena e per nulla proiettata al giudizio prognostico sulla probabilità di commissione di nuovi reati, che presiede alla valutazione della rilevanza della capacità criminale ai fini della recidiva, aveva escluso che potesse ritenersi un riconoscimento implicito della recidiva e pertanto i conseguenti effetti in tema di prescrizione.

Sempre in relazione ad un caso in cui, a fronte del mancato aumento di pena per la recidiva contestata, i precedenti penali dell’imputato erano stati considerati nel giudizio di cognizione come motivo di esclusione delle circostanze attenuanti generiche, l’indicato principio era stato affermato da Sez. 2, n. 48293 del 26/11/2015, Carbone, Rv. 265382, nella quale si era ulteriormente argomentato che l’esclusione implicita della recidiva risultante dalla mancata applicazione dell’aumento di pena non può ritenersi inconciliabile con la valorizzazione dei precedenti penali ai fini del diniego delle attenuanti generiche venendo in considerazione due distinti tipi di valutazione in quanto “la valutazione relativa alla concessione delle attenuanti generiche è di per sé ancorata (anche “storicamente”) allo specifico fatto di reato e rientra nei criteri direttivi fissati in via generale dall’art. 133 cod. pen. (vedi il comma secondo, nr. 2), per la determinazione della pena; non nel giudizio prognostico sulla probabilità di commissione di nuovi reati, che presiede alla valutazione della rilevanza della recidiva. Del resto, la differenza tra i due piani di valutazione sarebbe altresì rivelata anche dall’ovvia possibilità di considerare i precedenti penali del reo agli effetti dell’art. 133 cod. pen., anche in mancanza della contestazione della recidiva”. In precedenza, l’assenza di contraddizione alcuna tra la mancata applicazione della recidiva e la valutazione dell’esistenza di precedenti penali specifici ai fini del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e dei benefici di legge era stata evidenziata anche da Sez. 6, n. 38780 del 17/06/2014, Morabito, Rv. 260460, nella quale si era precisato che trattasi di profili di valutazione del tutto distinti, in quanto, mentre la recidiva “si basa su una valutazione in termini di maggior spessore criminale dell’imputato, la concessione delle attenuanti generiche e dei benefici di legge è correlata alla presenza di indici positivi di personalità dell’imputato, che legittimano un giudizio prognostico in termini di astensione dalla commissione di ulteriori reati. Ne deriva che la reiterazione di condotte criminose specifiche ben può essere presa in considerazione, quale elemento negativo della personalità dell’imputato, ai fini del diniego delle attenuanti generiche, nonché quale elemento che fonda un giudizio prognostico sfavorevole, nell’ottica delineata dall’art. 164 cod. pen., anche qualora si ritenga che tale dato, sulla base di un giudizio complessivo in ordine al fatto – reato e alla personalità dell’imputato, non denoti, in quest’ultimo, uno spessore criminologico di tale rilievo da giustificare l’aumento di pena, a norma dell’art. 99 cod. pen.”.

In termini analoghi si era anche escluso che fosse ravvisabile il vizio di contraddittorietà di motivazione nel caso di diniego delle circostanze attenuanti generiche per i precedenti penali dell’imputato e di contemporaneo giudizio di equivalenza tra una circostanza attenuante e la recidiva, trattandosi di due ben distinte valutazioni non necessariamente collegate ad identici presupposti (Sez. 2, n. 106 del 04/11/2009, dep. 2010, Marotta, Rv. 246045).

Nella scia di tale orientamento si erano poi poste anche Sez. 6, n. 16109 del 31/03/2016, Capacci, non mass.; Sez. 2, n. 46297, del 13/07/2016, D’Onofrio, non mass. e Sez. 4, n. 45833 del 19/07/2017, Lucchetti, non mass. che, pur ribadendo il principio, ne aveva escluso l’applicazione nel caso oggetto del giudizio avendo i giudici del merito dato esplicitamente conto di avere considerato la contestata recidiva anche per negare all’imputato le circostanze attenuanti generiche.

4. L’orientamento che afferma la rilevanza della recidiva ai fini del calcolo del tempo necessario a prescrivere il reato.

In contrasto con l’esposto indirizzo ermeneutico altre pronunce della giurisprudenza di legittimità avevano invece ritenuto che, in casi quali quello esaminato deve ritenersi che la recidiva influisca sul calcolo dei termini di maturazione della causa estintiva del reato.

In questo senso si era espressa dapprima Sez. 2, n. 35805 del 18/6/2013, Romano, Rv. 257298, affermando il principio per cui “la recidiva ritenuta dal giudice di merito e applicata per escludere la concessione delle circostanze attenuanti generiche, in quanto circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della prescrizione anche nel caso in cui non si sia proceduto in sentenza al relativo aumento di pena”. Dopo alcuni anni, il principio elaborato dalla sentenza “Romano” era stato recepito e ribadito da Sez. 5, n. 38287 del 06/04/2016, Politi, Rv. 267862, nella quale si era precisato che, nel caso esaminato, la recidiva contestata all’imputato non poteva ritenersi esclusa dal primo giudice che aveva, nel complessivo trattamento sanzionatorio, citato e valutato la presenza, nel certificato penale dell’imputato, dei numerosi precedenti, considerandoli pertanto dimostrativi di una sua maggiore pericolosità e di rilievo sulla quantificazione della pena.

Da ultimo, nel solco di tale orientamento si era posta Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, Briji, Rv. 270678, che aveva affermato il principio per cui la recidiva contestata e accertata nei confronti dell’imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell’imputato, rileva ai fini del calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato. In motivazione si considerava che solo la recidiva contestata ma non valutata in alcun modo ai fini dell’applicazione del trattamento sanzionatorio, può ritenersi ininfluente sui termini prescrizionali.

In relazione all’orientamento in esame assumevano altresì rilievo ulteriori arresti più risalenti che, seppure riferiti a fattispecie del tutto dissimili, avevano comunque affermato il principio per cui affinché la recidiva reiterata possa determinare i suoi effetti di circostanza aggravante ad effetto speciale è sufficiente che essa sia stata validamente contestata in un giudizio di cognizione e che non sia stata esclusa dal giudice, essendo poi irrilevante che essa non abbia avuto concreta efficacia nella determinazione della pena, in esito ad un giudizio di bilanciamento delle circostanze, ovvero per non essere stato applicato lo specifico aumento di pena (Sez. 1, n. 26786 del 18/06/2009, Favuzza, Rv. 244656 e Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, Locatelli, Rv. 241945).

5. I precedenti interventi delle Sezioni Unite in tema di recidiva.

A seguito della novella del 2005, sia la Corte costituzionale che le Sezioni Unite sono più volte intervenute in relazione al nuovo regime della recidiva al fine di mitigarne il rigore, individuando il fondamento dell’istituto nella più accentuata colpevolezza e nella maggiore pericolosità del reo e prospettando la facoltatività di tutte le ipotesi di recidiva. In linea con la interpretazione elaborata dalla giurisprudenza costituzionale, volta ad escludere la conformità ai principi costituzionali di qualunque lettura dell’art. 99 cod. pen. basata su forme di automatismo tali da elidere la discrezionalità del giudice (sent. n. 192 del 2007, ord. n. 409 del 2007, n. 33 del 2008, n. 90 del 2008 e n. 193 del 2008, n. 257 del 2008), la Corte di cassazione ha ribadito con chiarezza la natura discrezionale della recidiva pluriaggravata e reiterata di cui ai commi terzo e quarto dell’art. 99 cod. pen. 

Può ad oggi, infatti, ritenersi consolidato l’orientamento interpretativo secondo il quale non può affermarsi la conformità ai principi fondamentali in tema di ragionevolezza, proporzione e funzione rieducativa della pena enunciati dalla Carta Costituzionale di una concezione della recidiva quale status soggettivo desumibile dal certificato penale che formi oggetto di mero riconoscimento da parte del giudice, chiamato soltanto a verificare la correttezza della sua contestazione.

In tal senso, Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247839, ha specificato che ‹‹l’interpretazione che ritiene l’obbligatorietà della recidiva qualificata e degli effetti commisurativi della sanzione ad essa riconnessi finisce per configurare una sorta di presunzione assoluta di pericolosità sociale del recidivo reiterato ed un conseguente duplice automatismo punitivo indiscriminato – dunque foriero di possibili diseguaglianze – nell’ an e nel quantum (previsto in misura fissa), operante sia nei casi in cui la ricaduta nel reato si manifesti quale indice di particolare disvalore della condotta, di indifferenza del suo autore alla memoria delle precedenti condanne e in definitiva verso l’ordinamento, di specifica inclinazione a delinquere dell’agente, sia nei casi in cui, al di là del dato meramente oggettivo della ripetizione del delitto, il nuovo episodio non appaia concretamente significativo in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 c.p. sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo".

Ad avviso della Corte si impone una lettura omogenea dei primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen., sicché nel testo dei commi terzo e quarto il verbo essere è utilizzato con evidente riferimento al quantum dell’aumento della sanzione discendente dal riconoscimento della recidiva ivi contemplata (pluriaggravata e reiterata), ma non coinvolge l’an dell’aumento medesimo, che rimane affidato alla valutazione del giudice secondo la costruzione dell’ipotesi base di cui al primo comma.

Le figure di recidiva ivi contemplate non costituiscono invero autonome tipologie svincolate dagli elementi normativi e costitutivi della recidiva semplice, bensì mere specificazioni di essa dalla quale si diversificano, espressamente richiamandola, esclusivamente per le differenti conseguenze sanzionatorie che comportano, le quali sono state previste con la riforma, diversamente dal precedente regime, in misura fissa anziché variabile fra un minimo ed un massimo.

Per quanto riguarda poi, in particolare, la recidiva reiterata di cui al quarto comma dell’art. 99 cod. pen., questa opera quale circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole di natura facoltativa dovendosi escludere che la novella abbia operato una sorta di ripristino del regime di obbligatorietà della recidiva.

Il giudice ha dunque il potere discrezionale di escluderla motivatamente e considerarla tamquam non esset in relazione al trattamento sanzionatorio, all’esito di una verifica in concreto sulla reiterazione dell’illecito quale indice sintomatico di riprovevolezza e pericolosità, da effettuare tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali. All’esito di tale verifica al giudice è consentito negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non irrogando il relativo aumento della sanzione.

Qualora la verifica effettuata si concluda nel senso del concreto rilievo della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo, la circostanza aggravante opera necessariamente e determina tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio e sugli ulteriori effetti commisurativi e dunque, nell’ipotesi di recidiva reiterata, l’aumento della pena base nella misura fissa indicata dall’art. 99, comma quarto cod. pen.; il divieto imposto dall’art. 69 comma quarto cod. pen., di prevalenza delle circostanze attenuanti nel giudizio di bilanciamento fra gli elementi accidentali eterogenei eventualmente presenti; il limite minimo di aumento per la continuazione stabilito dall’art. 81 comma quarto cod. pen.; l’inibizione dell’accesso al “patteggiamento allargato” di cui all’art. 444, comma 1-bis cod. proc. pen. In tale ipotesi la recidiva deve intendersi, oltre che “accertata” nei suoi presupposti (sulla base dell’esame del certificato del casellario), “ritenuta” dal giudice ed “applicata”, determinando essa l’effetto tipico di aggravamento della pena: e ciò anche quando semplicemente svolga la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l’effetto alleviatore di una circostanza attenuante.

Qualora, viceversa, la verifica si concluda nel senso della non significanza della ricaduta nei termini più su precisati e il giudice escluda la recidiva (dunque non la ritenga rilevante e conseguentemente non la applichi), rimangono esclusi altresì l’aumento della pena base e tutti gli ulteriori effetti commisurativi connessi all’aggravante.

Ribadita quindi la natura facoltativa ed il tipo di apprezzamento che il giudice deve effettuare ai fini del riconoscimento dell’aggravante, la Corte ha affrontato una ulteriore rilevante questione escludendo che la facoltatività della recidiva possa atteggiarsi come parziale o bifasica e dunque operare solo con riferimento all’effetto primario dell’aggravamento della pena e non avuto riguardo ai cd. “ulteriori effetti” commisurativi della sanzione ricollegati dalla legge alla recidiva.

È stato così definitivamente avallato l’orientamento formatosi nella giurisprudenza di legittimità per cui gli effetti commisurativi della recidiva non sono svincolati dalle determinazioni assunte dal giudice in relazione al riconoscimento dell’aggravante ma sono bensì a questo strettamente collegati, nel senso che anch’essi vengono meno quando la circostanza non concorra, sulla base della valutazione del giudice effettuata ai fini e secondo i parametri di cui si è detto, a determinare l’aumento di pena. Può dirsi quindi definitivamente abbandonata la tesi della “facoltatività bifasica” della recidiva per cui, consentito al giudice di elidere l’effetto primario dell’aggravamento della pena, siano invece obbligatori gli ulteriori effetti penali della circostanza attinenti al momento commisurativo della sanzione.

I principi elaborati in tale pronuncia sono stati poi ribaditi da Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664, che ha affermato la natura di circostanza ad affetto speciale della recidiva avuto riguardo al criterio edittale. Le Sezioni Unite hanno posto in evidenza la natura della recidiva quale circostanza pertinente al reato, che richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo status e il fatto, che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all’epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale, respingendo, sulla base di una lettura costituzionalmente orientata, la possibilità di qualsiasi automatismo, inteso come instaurazione presuntiva di una relazione qualificata tra status della persona e reato commesso, e privilegiando, invece, una valutazione discrezionale cui è correlato uno specifico obbligo motivazionale per il giudice.

Con particolare riferimento poi agli effetti secondari della recidiva, riallacciandosi alla ricostruzione dell’istituto elaborata a partire da Sez. U, “Calibè”, anche in tale pronuncia si è ribadita la necessità dell’aumento di pena in concreto o, se del caso, della valutazione di meritevolezza, quale presupposto per l’attivazione delle varie discipline speciali operanti nei confronti del recidivo.

Conseguentemente, anche in tema di computo dei termini prescrizionali del reato, si è argomentato che, mentre prima della sentenza di merito, la più severa disciplina dei tempi di estinzione (art. 157, comma secondo, cod. pen.) opera sulla base della mera contestazione della recidiva, da considerare circostanza aggravante ad effetto speciale (cfr. Sez. 5, n. 35852 del 07/06/2010, Di Canio, Rv. 248502), una volta intervenuta la decisione che non abbia ravvisato una relazione qualificata fra i precedenti dell’imputato e il fatto a lui addebitato (recidiva ritenuta, ma non applicata), la circostanza perde il suo rilievo ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714; Sez. 2, n. 18595 dell’08/4/2009, Pancaglio, Rv. 244158).

Più di recente, infine, le Sezioni unite, chiamate a risolvere il contrasto ermeneutico in tema di applicabilità o meno dell’aumento di pena di cui all’art. 81 comma quarto, cod. pen. in caso di giudizio di equivalenza fra recidiva e circostanze attenuanti, sono tornate sul tema e, con la sentenza Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044, hanno affermato che il limite di aumento di pena non inferiore ad un terzo di quella stabilita per il reato più grave – previsto dall’art. 81, comma quarto, cod. pen. nei confronti dei soggetti ai quali è stata applicata la recidiva di cui all’art. 99, comma quarto, cod. pen. - opera anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.

Nell’affermare il principio, il Supremo collegio, dopo aver evocato, in motivazione, i precedenti approdi di Sez. U, “Calibè” e “Indelicato”, sopra passati in rassegna, ha osservato come la recidiva richiede, da parte del giudice, un accertamento complesso e articolato, inerente la maggiore colpevolezza e l’aumentata capacità a delinquere, che solo se negativo esclude ogni conseguenza e che, invece, permane e sopravvive comunque alla valutazione comparativa operata nel giudizio di bilanciamento.

Le Sezioni Unite hanno esaminato in particolare la questione relativa alla individuazione del corretto significato del verbo “applicare” utilizzato dall’art. 81, quarto comma, cod. pen., verificando, quindi, quando la recidiva possa dirsi “applicata” dal giudice.

Richiamando quanto già messo in evidenza nella più risalente pronuncia Sez. U, n. 17 del 18/6/1991, Grassi, Rv. 187856, la Corte ha dunque osservato che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produce, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti, un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare, precisandosi che, ogniqualvolta il giudice abbia operato in termini positivi l’accertamento inerente la maggiore colpevolezza e l’aumentata capacità a delinquere del reo, la recidiva è stata già riconosciuta ed applicata, essendole stata attribuita quell’oggettiva consistenza che consente il confronto con le attenuanti concorrenti: attività successiva, questa, rimessa alla discrezionalità del giudice.

Conseguendone che, all’atto del giudizio di comparazione, l’azione dell’applicare la recidiva deve ritenersi già esaurita, perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario: la recidiva ha comunque esplicato i suoi effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali, però, la recidiva avrebbe comportato l’aumento di pena.

6. La decisione.

Con decisione assunta all’udienza del 25 ottobre 2018, le Sezioni Unite hanno dato risposta al quesito riportato in apertura affermando che “la valorizzazione dei precedenti penali dell’imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione delle concorrenti circostanze eterogenee; in tal caso, la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato”. Il Supremo collegio ha dunque condiviso il primo degli orientamenti in contrasto escludendo che la recidiva possa dirsi implicitamente ritenuta dal giudice che si sia limitato a dare conto dei precedenti penali al fine di escludere le circostanze attenuanti generiche.

Pur dovendosi attendere il deposito della motivazione della sentenza per verificare le ragioni poste a fondamento della soluzione prescelta, pare comunque potersi affermare che le Sezioni unite hanno preso le mosse proprio dai principi già affermati sul tema, ponendosi in linea di continuità con la ricostruzione ermeneutica elaborata nei precedenti arresti sopra passati in rassegna, volti ad escludere che la recidiva possa ritenersi produttiva di effetti qualora il giudice non ne accerti i requisiti costitutivi dandone congruamente atto e conseguentemente procedendo all’aumento della pena principale o ad un giudizio di comparazione con eventuali concorrenti circostanze eterogenee.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 17 del 18/6/1991, Grassi, Rv. 187856 Sez. 5, n. 37550 del 26/6/2008, Locatelli, Rv. 241945 Sez. 1, n. 26786 del 18/6/2009, Favuzza, Rv. 244656 Sez. 2, n. 18595 del 08/04/2009, Pancaglio, Rv. 244158 Sez. 2, n. 106 del 04/11/2009 – dep. 2010 –, Marotta, Rv. 246045 Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714 Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247839 Sez. 5, n. 35852 del 07/06/2010, Di Canio, Rv. 248502 Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664 Sez. 2, n. 35805 del 18/6/2013, Romano, Rv. 257298 Sez. 6, n. 38780 del 17/06/2014, Morabito, Rv. 260460 Sez. 6, n. 39849 del 16/9/2015, Palombella, Rv. 264483 Sez. 2, n. 2731 del 2/12/2015 – dep. 2016 –, Conti, Rv. 265729 Sez. 2, n. 48293 del 26/11/2015, Carbone, Rv. 265382 Sez. 6, n. 16109 del 31/03/2016, Capacci Sez. 2, n. 46297, del 13/07/2016, D’Onofrio Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044 Sez. 4, n. 45833 del 19/07/2017, Lucchetti Sez. 6, n. 54043, del 16/11/2017, S., Rv. 271714

  • reato
  • circostanza attenuante
  • diritto penale

CAPITOLO II

LA NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO

(di Paolo Bernazzani )

Sommario

1 Premessa. - 2 I profili sostanziali. Abitualità del comportamento illecito e reato continuato. - 3 Altre ipotesi in tema di abitualità della condotta. - 4 (segue). Abitualità e precedenti di polizia. - 5 (segue). Incidenza delle condotte poste in essere successivamente al fatto reato sulla declaratoria di non punibilità in esame. - 6 I profili processuali. Causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto e procedimento di archiviazione. - 7 (segue). Archiviazione ex art. 131-bis cod. pen. ed insuscettibilità di iscrizione nel casellario giudiziale. - 8 Decreto di citazione a giudizio e diritti della persona offesa. - 9 Questioni in tema di riti speciali: in particolare, il procedimento per decreto ed il “patteggiamento”. - 10 Causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. ed interesse ad impugnare. - 11 Limiti di rilevabilità e di deducibilità nel giudizio di legittimità ed in quello di rinvio. - 12 Particolare tenuità del fatto e procedimento avanti al giudice di pace. - 13 Particolare tenuità del fatto e responsabilità degli enti da reato. - 14 Causa di non punibilità e m.a.e. - 15 Casistica. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

La speciale causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è stata introdotta, come noto, dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, che ha disciplinato i profili sostanziali dell’istituto attraverso l’introduzione di una nuova norma, l’art. 131-bis, nel tessuto del codice penale, ed i profili processuali attraverso l’integrazione degli artt. 411 e 469 del codice di rito e l’inserimento dell’art. 651-bis cod. proc. pen., senza trascurare una specifica previsione circa l’iscrizione nel casellario giudiziale dei provvedimenti che dichiarano la non punibilità a norma dell’art. 131-bis citato. In particolare, l’istituto di nuovo conio è applicabile, ai sensi del primo comma dall’art. 131-bis cod. pen., ai soli reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla prima, ed è configurabile in presenza di un duplice condizione, essendo richiesta – congiuntamente e non alternativamente – la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento (onde, ai fini dell’esclusione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell’assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall’art. 131-bis ritenuto, evidentemente, decisivo: Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Foglietta, Rv. 273678).

Il primo di tali “indici-criteri”, esige, a sua volta, la specifica valutazione degli “indici-requisiti” della modalità della condotta, nella sua componente oggettiva e soggettiva, e dell’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133, comma 1, cod. pen., cui segue, in caso di vaglio positivo, l’ulteriore verifica della non abitualità del comportamento, che il legislatore, con previsione non esente da margini di ambiguità, esclude nel caso in cui l’autore del reato sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

In tale dimensione esegetica, l’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto è stato oggetto di specifici approfondimenti da parte degli arresti giurisprudenziali di legittimità maturati nel corso del 2018, sia con riferimento ai profili di carattere sostanziale della disciplina, sia a questioni di matrice più squisitamente processuale. Il medesimo criterio di – almeno tendenziale – ripartizione sistematica costituisce il filo conduttore attraverso il quale si sviluppa l’analisi che segue.

2. I profili sostanziali. Abitualità del comportamento illecito e reato continuato.

L’indice-criterio della non abitualità del comportamento è stato oggetto di approfondimento da alcune delle più recenti pronunce della Corte, con particolare riferimento alla sua configurabilità nei casi di continuazione tra reati.

La soluzione che, nel caso di più reati esecutivi del medesimo disegno criminoso, esclude l’applicabilità della causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. in ragione della “abitualità” del comportamento è stata sostenuta da Sez. 3, n. 19159 del 29/03/2018, Fusaro, Rv. 273198, secondo cui «la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un’ipotesi di “comportamento abituale”, ostativa al riconoscimento del beneficio. (Fattispecie in tema di abuso edilizio, in cui la S.C. ha escluso l’occasionalità dell’azione illecita sulla base della continuazione diacronica tra i singoli reati, posti in essere in momenti distinti, e della pluralità delle disposizioni di legge violate)».

In tale prospettiva, la Corte ha escluso che, con il riferimento ai “reati della stessa indole”, il legislatore abbia voluto riferirsi solo ai casi in cui l’autore del reato sia gravato da precedenti penali specifici, posto che, altrimenti. si sarebbe espresso in termini di recidiva specifica; un’esegesi più coerente con la ratio sottesa al dettato normativo, invece, deve condurre, secondo la Corte, a valorizzare le indicazioni desumibili dalla relazione illustrativa al d.lgs. n. 28 del 2015, la quale, osservato che il terzo comma dell’art. 131-bis cod. pen. «descrive soltanto alcune ipotesi in cui il comportamento non può essere considerato non abituale, ampliando quindi il concetto di “abitualità”, entro il quale potranno collocarsi altre condotte ostative alla declaratoria di non punibilità», espressamente rileva, in relazione alla specifica previsione della commissione di «reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità», che «non vi è, nel testo, alcun indizio che consenta di ritenere, considerati i termini utilizzati, che l’indicazione di abitualità presupponga un pregresso accertamento in sede giudiziaria ed, anzi, sembra proprio che possa pervenirsi alla soluzione diametralmente opposta, con la conseguenza che possono essere oggetto di valutazione anche condotte prese in considerazione nell’ambito del medesimo procedimento, il che amplia ulteriormente il numero di casi in cui il comportamento può ritenersi abituale, considerata anche la ridondanza dell’ulteriore richiamo alle “condotte plurime, abituali e reiterate”».

Tale pronuncia si inscrive nel filone giurisprudenziale che sottolinea come il riconoscimento della continuazione incida bensì sul trattamento sanzionatorio, nella misura in cui evidenzia la minore intensità del dolo espresso nel corso della progressione criminosa, per tale via influendo sulla valutazione del complessivo disvalore della condotta, ma non si estende al punto di elidere la circostanza, ostativa al riconoscimento del beneficio, della oggettiva reiterazione di condotte penalmente rilevanti, distante da forme di devianza meramente “occasionali”.

Lungo tale direttrice ermeneutica, la pronuncia in esame non disconosce l’esistenza di talune decisioni nelle quali si è esplicitamente affermato che, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità in esame, non osta la presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, qualora questi riguardino azioni commesse nelle medesime circostanze di tempo e di luogo, incompatibili con l’abitualità presa in considerazione in negativo dall’art. 131-bis cod. pen. (fra le più recenti, Sez. 5, n. 5358 del 15/01/2018, Corradini, Rv. 272109). E tuttavia, i giudici di legittimità sottolineano come, anche in tali precedenti arresti, il principio non sia stato formulato in termini assoluti, ma, piuttosto, calibrato sulla peculiare ipotesi in cui le azioni poste in essere dal reo non possano, in ragione dell’identità delle circostanze di luogo e di tempo in cui i reati sono stati commessi, «essere considerate espressione del carattere seriale dell’attività criminosa e dell’abitudine del soggetto a violare la legge», così annettendo rilievo, sia pure nell’ambito del medesimo disegno criminoso, alla sostanziale unicità della condotta: dunque, decisivo appare il dato peculiare costituito dalla contemporanea, e non già ripetuta nel tempo, esecuzione delle distinte azioni delittuose, «che, in quanto sorrette da un’unica e circoscritta volizione criminosa, è stata ritenuta non incompatibile con il concetto di estemporaneità dell’azione illecita rispetto alla positiva personalità del reo, posto alla base della disciplina della causa di non punibilità, ex art 131-bis cod. pen.».

Un’interpretazione, quest’ultima, non estensibile a casi, come quello oggetto della pronuncia in esame, «in cui la continuazione diacronica tra i singoli reati posti in essere in momenti distinti, si aggiunge alla pluralità delle disposizioni di legge violate che, pur attenendo alla materia lato sensu edilizia, evidenzia la consistenza dell’intervento abusivo commesso infrangendo in momenti distinti le norme poste a presidio del carico urbanistico, del pericolo sismico e delle prescrizioni tecniche in relazione all’impiego del cemento armato».

Nello stesso senso, va registrata anche Sez. 6, n. 3353 del 13/12/2017, dep. 2018, Lesmo, Rv. 272123, così massimata: «La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un’ipotesi di “comportamento abituale” per la reiterazione di condotte penalmente rilevanti, ostativa al riconoscimento del beneficio, essendo il segno di una devianza “non occasionale”».

La più compiuta analisi del filone ermeneutico che approda ad esiti difformi rispetto a quello appena illustrato, porta a segnalare Sez. 2, n. 9495 del 07/02/2018, P.g. in proc. Grasso, Rv. 272523, secondo cui «ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. non osta la presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, quando le violazioni non siano in numero tale da costituire ex se dimostrazione di serialità, ovvero di progressione criminosa indicativa di particolare intensità del dolo o versatilità offensiva».

La decisione si riaggancia alla tesi che – rifuggendo dal rischio di elevare tout court ad indice di abitualità il fenomeno disciplinato dall’art. 81, comma 2., cod. pen., che traduce la volontà legislativa di mitigare il cumulo materiale delle pene nell’ipotesi di pluralità di reati frutto di un’unitaria spinta a delinquere, ritenuta di minor allarme rispetto ad una reiterazione delittuosa fondata su autonome e rinnovate decisioni di compiere azioni illecite – riconosce come la causa di esclusione della punibilità ex art. 131-bis cod. pen. possa ricorrere anche in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, posto che quest’ultima non si identifica automaticamente con l’abitualità nel reato, ostativa al riconoscimento del beneficio, non individuando comportamenti di per se stessi espressivi del carattere seriale dell’attività criminosa e dell’abitudine del soggetto a violare la legge (cfr. Sez. 2, n. 19932 del 29/03/2017, Di Bello, Rv. 270320), particolarmente quando le fattispecie in continuazione consistano in condotte poste in essere nelle medesime circostanze di tempo e di luogo (Sez. 5, n. 35590 del 31/05/2017, P.G. in proc. Battizocco, Rv. 270998).

Tale opzione interpretativa valorizza la già sottolineata distinzione semantica fra il concetto di “abitualità”, tipizzato nell’art. 131-bis cod.pen. e quello di “occasionalita”, richiamato dall’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988 (irrilevanza del fatto nel processo penale a carico di imputati minorenni) e dall’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, con riguardo alla causa di esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto nei procedimenti di competenza del giudice di pace.

In tal senso, si rileva che l’occasionalità «richiama una devianza isolata, spuria, laddove la non abitualità definisce la zona ampia e variegata che si interpone tra la violazione estemporanea e avulsa dallo stile di vita dell’autore e l’area della proclività a delinquere e della recidivanza in senso stretto, qualificata ex art. 99 cod. pen., suscettibile di ricomprendere sequenze reiterative che assumono valenza ostativa solo nei termini indicati dalle Sezioni Unite Tushaj». Ne consegue che, laddove le violazioni non siano in numero tale da costituire di per sé indice di serialità ovvero di progressione criminosa, «espressiva di particolare intensità del dolo o ancora di versatilità offensiva» e non identificabile con la mera reiterazione, non scatterà in modo automatico l’effetto ostativo rispetto all’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen., richiedendosi la specifica valutazione di ciascuna delle condotte illecite alla stregua dei parametri di cui all’art. 133, comma 1, cod. pen. 

Segue la stessa linea interpretativa Sez. 5, n. 5358 del 15/01/2018, Corradini, Rv. 272109, secondo cui, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità in esame, «non osta la presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, qualora questi riguardano azioni commesse nelle medesime circostanze di tempo, di luogo e nei confronti della medesima persona, elementi da cui emerge una unitaria e circoscritta deliberazione criminosa, incompatibile con l’abitualità presa in considerazione in negativo dall’art. 131bis cod. pen.».

3. Altre ipotesi in tema di abitualità della condotta.

Sempre in tema di configurabilità della condizione ostativa all’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., costituita dalla abitualità del comportamento, Sez. 3, n. 776 del 04/04/2017, dep. 2018, Del Galdo, Rv. 271863, in una fattispecie di violazione, da parte del datore di lavoro, di diverse disposizioni in materia di sicurezza di cui al d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, ha ribadito, richiamandosi all’esegesi del massimo consesso nomofilattico (cfr. Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266591), che tale condizione ricorre qualora l’imputato, anche se non gravato da precedenti penali specifici, abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio punendi), anche nell’ipotesi in cui ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità.

Nella medesima prospettiva, Sez. 5, n. 53401 del 30/05/2018, M., Rv. 274186, pone l’accento sul fatto che l’identità dell’indole dei reati «deve essere valutata dal giudice in relazione al caso esaminato, verificando se in concreto i reati presentino caratteri fondamentali comuni».

Nel caso di specie, concernente ipotesi di furto e detenzione o cessione di sostanze stupefacenti, la Corte ha sottolineato come l’interpretazione dell’art. 101 cod. pen., che individua le caratteristiche dei reati aventi la stessa indole, vada condotta alla luce della sua collocazione sistematica ed anche – stante l’incipit della disposizione, «agli effetti della legge penale» – di tutte le altre norme sostanziali (artt. 102, 167, 168, 172, 177, art. 53 e seguenti legge 24 novembre 1981, n. 689) e processuali (art. 274, comma 1, lett. c); art. 445, comma 2, cod. proc. pen.) che evocano il concetto di un agire criminale sostanzialmente omogeneo.

In tal senso, la Corte ha richiamato, in particolare, l’elaborazione nomofilattica in tema di presupposti delle misure coercitive personali, laddove per «reati della stessa specie» ex art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. si intendono non solo i reati che offendono il medesimo bene giuridico, ma anche le fattispecie criminose che, pur non previste dalla stessa disposizione di legge, presentano “uguaglianza di natura” in relazione al bene tutelato ed alle modalità esecutive (Sez. 5, n. 52301 del 14/07/2016, Petroni, Rv. 268444; Sez. 3, n. 36319 del 05/07/2001, Vasiliu, Rv. 220031), nonché in tema di applicazione della pena, laddove, ai fini dell’operatività del meccanismo estintivo previsto dall’art. 445, comma 2, cod. proc. pen., occorre valutare se l’eventuale ulteriore reato commesso nel periodo di osservazione costituisca violazione della medesima disposizione di legge ovvero, in caso negativo, se sussista comunque identità di indole sostanziale, in ragione della natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati (cfr. Sez. 1, n. 27906 del 15/04/2014, Stocco, Rv. 260500). Parimenti, la Corte ha valutato anche gli approdi ermeneutici in tema di applicazione della recidiva “specifica” ex art. 99, comma 2, n. 1, cod. pen., tesi a superare il criterio formale della identità della norma incriminatrice in nome dei criteri del bene giuridico violato o del movente delittuoso, che consentono di accertare, nei casi concreti, i caratteri fondamentali comuni fra i diversi reati (v. anche Sez. 6, n. 15439 del 17/03/2016, C., Rv. 266545), pur non essendo sufficiente il rilievo dell’analogo movente economico alla base dei diversi reati (Sez. 5, n. 40281 del 13/07/2017, Baratto, Rv. 271014).

Tale impostazione sistematica ha condotto la Corte a sottolineare come il criterio sostanziale – pur evocato dal legislatore nell’art. 101 cod. pen. mediante il riferimento alla natura dei fatti o ai motivi dell’agire – «dilata sensibilmente l’area dei reati della stessa indole, determinando, nelle diverse ipotesi che a tale concetto si richiamano, un trattamento più sfavorevole per il soggetto che ne è attinto»: ne consegue che, come già affermato da precedenti arresti (Sez. 4, n. 27323 del 04/05/2017, Garbocci, Rv. 270107), ai fini che qui occupano l’identità dell’indole dei reati eventualmente commessi deve essere valutata dal giudice in relazione alla singola fattispecie esaminata, verificando se in concreto i reati presentino caratteri fondamentali comuni.

4. (segue). Abitualità e precedenti di polizia.

In ogni caso, ai fini della configurabilità del presupposto ostativo della abitualità della condotta illecita, «non rileva la mera presenza di denunzie nei confronti dell’imputato o di “precedenti di polizia”, di cui si ignori la sorte, dovendo il giudice, sollecitato dalla difesa o anche di ufficio, verificare l’esito di tali segnalazioni, per trarne l’esistenza di eventuali concreti elementi fattuali che dimostrino la abitualità del comportamento dell’imputato». (Sez. 4, n. 51526 del 04/10/2018, B.)

In tale prospettiva, la Corte ha escluso che, in subiecta materia, possano estendersi le soluzioni applicative adottate, ad esempio, al fine della concedibilità o meno delle circostanze attenuanti generiche, laddove si è affermato che il giudice, alla luce dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., può ben considerare i precedenti giudiziari, ancorché non definitivi (cfr. Sez. 5, n. 39473 del 13/06/2013, Paderni, Rv. 257200), nonché i meri precedenti di polizia (Sez. 2, n. 18189 del 05/05/2010, Vaglietti e altri, Rv. 247469), anche se successivi al compimento dell’illecito per cui si procede (Sez. 6, n. 21838 del 23/05/2012, Giovane e altri, Rv. 252881), in quanto elementi che sono espressione della personalità dell’imputato (cfr. Sez. 4, n. 18795 del 07/04/2016, P., Rv. 266705, con specifico riferimento ad illeciti prescritti o amnistiati).

Nella specie, invero, non si tratta già di modulare la pena, ma di verificare la sussistenza o meno di una causa di non punibilità, ed in tale dimensione ricostruttiva la Corte ha preso le mosse dall’autorevole precedente costituito da Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266591, allorché si è chiarito che, ai fini della valutazione del presupposto indicato, il giudice può fare riferimento non solo alle condanne irrevocabili ed agli illeciti sottoposti alla sua cognizione, ma anche ai reati in precedenza ritenuti non punibili ex art. 131-bis cod. pen. e, più in generale, a reati che possono essere anche solo in corso di accertamento giudiziale (in tal senso, la sentenza richiama il passo della motivazione delle

S.U.in cui si puntualizza che «La pluralità dei reati può concretarsi non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l’esistenza»). In ogni caso, peraltro – osserva la decisione della Quarta sezione – i principi enunciati dalle Sezioni Unite non fanno riferimento a mere ipotesi, quali sono le denunzie ed i precedenti di polizia, intese come prospettazioni unilaterali tutte da verificare e che, isolatamente considerate, non forniscono nemmeno la prova della iscrizione di una compiuta notitia criminis nel registro delle notizie di reato.

In tale contesto, va notato che la decisione in esame si colloca nel medesimo alveo di altra recente pronunzia (Sez. 2, n. 41774 del 11/07/2018, Moretti, Rv. 274247), nella quale si è escluso, sulla scorta della stessa Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo predisposta dal Governo, che il mero “precedente giudiziario” possa essere, di per sé, ostativo al riconoscimento dell’art. 131-bis cod. proc. pen., al pari delle testimonianze da cui sia emersa la reiterazione da parte dell’imputato di condotte identiche a quella contestata, quando non si conosca se tali condotte abbiano dato luogo a denunce o querele e siano state oggetto di accertamento processuale.

5. (segue). Incidenza delle condotte poste in essere successivamente al fatto reato sulla declaratoria di non punibilità in esame.

In subiecta materia, Sez. 3, n. 4123 del 11/07/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Zoccarato, Rv. 272039 ha ritenuto che «ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. ai fini dell’apprezzamento della condizione della non abitualità della condotta, assumono rilievo anche i comportamenti successivi alla commissione del reato».

Nella specie, relativa a reati edilizi, la S.C., osservato che la nozione di comportamento abituale, ricorrente quando l’autore ha commesso almeno altri due illeciti oltre a quello preso in esame, non può essere assimilata alla recidiva, che opera in un ambito diverso ed è fondata su un distinto apprezzamento, ha ritenuto immune da vizi la decisione del giudice di merito che aveva desunto la non abitualità del comportamento dell’imputato dalla successiva attività di demolizione, rimozione e sanatoria delle opere realizzate.

In una più articolata prospettiva si pone, riguardo lo stesso tema, Sez. 3, n. 893 del 28/06/2017, dep. 2018, P.M. in proc. Gallorini, Rv. 272249 ha ritenuto che, ai predetti fini, non rileva la mera condotta post delictum, sicché l’eliminazione delle conseguenze pericolose del reato non integra di per sé una lieve entità dell’offesa, atteso che l’esiguità del disvalore deriva da una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno e alla colpevolezza.

Nella specie, i giudici di merito, dopo aver chiarito che l’imputata aveva provveduto ad eliminare le conseguenze dannose derivanti dal reato di cui agli articoli 64, comma 1, e 68, comma 1, lettera b) del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, sebbene con modalità difformi da quelle prescritte dall’organo di vigilanza e, perciò, tali da non consentire l’ammissione al pagamento delle sanzioni amministrative, aveva assegnato rilievo al predetto comportamento post delictum dell’imputata, pervenendo alla conclusione che la sola eliminazione della situazione antigiuridica comportasse una lieve entità dell’offesa.

Sotto tale profilo, la Corte ha chiarito, innanzitutto, che l’applicabilità della causa di non punibilità in esame non tollera, sulla base del principio di non contraddizione, che sia ravvisabile un’offesa di particolare tenuità quando sia ancora perdurante la lesione o la messa in pericolo del bene giuridico, per quanto l’art. 131-bis cod. pen. non si occupi espressamente dei reati permanenti (né dei reati istantanei con effetti permanenti). Ciò posto, la decisione in esame ha puntualizzato che la cessazione della permanenza e/o l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose che derivano dal reato, cui l’imputato abbia provveduto con condotta susseguente al reato, se da un lato permettono allo stesso di poter invocare la causa di non punibilità altrimenti preclusa dal perdurare della situazione antigiuridica (e ciò anche nei casi in cui sia prevista una speciale causa di estinzione del reato, come nel caso in esame di violazione delle norme sull’igiene e la sicurezza del lavoro mediante pagamento di una somma a titolo di oblazione e l’eliminazione di dette conseguenze dannose o pericolose), dall’altro non costituiscono ex se indice per ritenere sicuramente tenue l’offesa, dovendo tale giudizio conseguire, pur sempre, dalla positiva valutazione tanto delle modalità della condotta nella sua componente oggettiva (avuto riguardo alla natura, alla specie, ai mezzi, all’oggetto, al tempo, al luogo e ad ogni altra modalità dell’azione ex art. 133, comma 1, n. 1 cod. pen.) e nella sua componente soggettiva (avuto riguardo all’intensità del dolo o al grado della colpa ex art. 133, comma 1, n. 3 cod. pen.), quanto del danno o del pericolo (in relazione all’entità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato ex art. 133, comma 1, n. 2 cod. pen.).

In ogni caso, come rimarcato da Sez. 3, n. 15782 del 23/02/2018, Farese, Rv. 272624, la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto «non può essere esclusa in relazione a particolari tipologie di reato e/o alla natura degli interessi protetti che mirano a salvaguardare». In applicazione di tale principio, la S.C. ha annullato la sentenza impugnata, che aveva escluso la ricorrenza della speciale causa di non punibilità in tema di violazione di norme antisismiche, unicamente sul presupposto della natura primaria della vita umana, interesse oggetto di tutela della norma incriminatrice, così finendo per introdurre una esclusione per categorie non prevista dal legislatore ed, anzi in contrasto con il dettato normativo, fondato sull’implicita applicabilità della norma a tutte le diverse fattispecie di reato.

6. I profili processuali. Causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto e procedimento di archiviazione.

Sul piano delle modalità procedimentali di rilevazione della causa di non punibilità in esame nell’ambito del procedimento di archiviazione, con particolare riferimento alle garanzie del contraddittorio, Sez. 6, n. 6959 del 16/01/2018, Trivelli, Rv. 272483, ha affermato il principio secondo cui il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto, pronunciato ai sensi dell’art. 411, comma 1, cod. proc. pen., è nullo se emesso senza l’osservanza della speciale procedura prevista al comma 1-bis di detta norma, non essendo le disposizioni generali contenute negli artt. 408 e ss. cod. proc. pen. idonee a garantire il necessario contraddittorio sulla configurabilità della predetta causa di non punibilità.

Nella specie, la Corte ha ritenuto viziata l’ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto emessa in esito all’udienza camerale fissata a seguito di opposizione della persona offesa ad una richiesta di archiviazione, motivata dalla inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio, nel corso della quale il giudice per le indagini preliminari aveva espressamente invitato le parti a prendere in esame anche il tema della possibile archiviazione ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. Secondo il Collegio, invero, la sequenza procedimentale prevista in caso di richiesta del pubblico ministero di archiviazione per particolare tenuità del fatto, ai sensi del comma 1-bis del citato art. 411 cod. proc. pen. - richiesta che deve essere portata a conoscenza delle parti, in modo che, all’udienza in camera di consiglio, il contraddittorio fra le parti si svolga proprio su tale questione –, è inderogabile e non ammette equipollenti per il caso in cui sia il giudice a ravvisare, in presenza di richiesta di archiviazione per infondatezza della notitia criminis, la particolare tenuità del fatto; ne consegue che il giudice non può comunque pervenire a tale esito processuale nonostante abbia segnalato all’attenzione delle parti, nel corso dell’udienza fissata a seguito di opposizione, il tema in esame: tale segnalazione ed il conseguente invito ad interloquire sono stati ritenuti, in tal senso, inidonei a soddisfare i requisiti di espressa e specifica motivazione della richiesta di archiviazione ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. che, sola, è in grado di garantire il diritto di difesa e la pienezza del contraddittorio.

Analoga ratio decidendi, con particolare riferimento alla tutela delle prerogative difensive dell’indagato, permea Sez. 6, n. 10455 del 14/02/2018, P.O. in proc. Massida, Rv. 272247, la quale sottolinea la peculiare natura della causa di non punibilità in parola, che presuppone in ogni caso un concreto accertamento del fatto, la sussistenza del necessario elemento soggettivo e le sue conseguenze dannose o pericolose, al fine di qualificare l’offesa come particolarmente tenue, ed il fatto che l’indagato destinatario di una ordinanza di archiviazione, pur se non patisce pregiudizi per le conseguenze civili o amministrative ai sensi dell’art. 651-bis cod. proc. pen. e se non subisce l’annotazione della decisione nel casellario giudiziario, affronta comunque le conseguenze che derivano dal fatto che l’ordinanza implica un accertamento sugli elementi sopra indicati, suscettibile di possibili conseguenze negative anche solo nell’ottica della abitualità della condotta, rilevante ai fini di un futuro riconoscimento della causa di non punibilità in questione, a mente dell’art. 131-bis, comma 3, cod. pen. 

Ne consegue, ad avviso della Corte, che, «qualora il g.i.p. ritenga tale possibilità, non potrà fare altro che ritrasmettere gli atti ex art. 409, comma 4 e 5, cod. proc. pen. perché svolga ulteriori indagini, se del caso valorizzabili ex art. 131-bis cod. pen., o formuli l’imputazione invitando il p.m. a valutare la possibilità di attivare la richiesta prevista dall’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., richieste di integrazioni ed invito compatibili con i poteri di controllo riconosciuti al g.i.p. in fase di indagini».

Sempre in tema di opposizione alla richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto, va segnalata Sez. 4, n. 10402 del 29/11/2017, dep. 2018, P.O. in proc. Nucu, Rv. 272237, la quale ha ribadito l’orientamento secondo cui la persona offesa è tenuta ad indicare, a pena di inammissibilità, le «ragioni del dissenso» rispetto alla sussumibilità della condotta nell’ipotesi di cui all’art. 131-bis, cod. pen. e non necessariamente, come invece richiesto dall’art. 410, comma 1, cod. proc. pen. per l’opposizione alla richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato, le indagini suppletive e i relativi mezzi di prova, stante la diversità tra le due ipotesi di archiviazione e le ragioni poste a sostegno delle stesse. Si inscrive nel medesimo filone argomentativo Sez. 5, n. 3817 del 15/01/2018, Pisani (massimata sotto altro profilo, v. infra), la quale ha precisato che, in caso di opposizione dell’indagato alla richiesta di archiviazione fondata sulle ragioni in esame, l’esame del giudice non è limitato ai profili di dissenso dedotti ed alla particolare tenuità ex art. 131-bis cod. pen., ma è esteso all’intera valutazione della responsabilità del soggetto indagato.

In tale prospettiva, la Corte ha rimarcato come la stessa valutazione circa la particolare tenuità del fatto presupponga l’accertamento, sia pure con uno stadio di approfondimento compatibile con la specifica sede processuale, della sua effettiva commissione da parte dell’indagato e della sua rilevanza penale. Le «ragioni del dissenso» dell’indagato possono, conseguentemente, riguardare l’effettiva sussistenza degli estremi oggettivi e soggettivi della condotta addebitatagli e la sua qualificabilità come reato.

7. (segue). Archiviazione ex art. 131-bis cod. pen. ed insuscettibilità di iscrizione nel casellario giudiziale.

Con riferimento al profilo della iscrizione del provvedimento che abbia fatto applicazione della causa di non punibilità in esame nel casellario giudiziale, Sez. 1, n. 31600 del 25/06/2018, Matarrese, Rv. 273523, ha affermato che è ricorribile per cassazione l’ordine di iscrizione nel casellario del provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto, in quanto non previsto dalla legge.

La Corte ha osservato, in tale ottica, che il descritto ordine configura un provvedimento autonomo rispetto a quello che dispone l’archiviazione del procedimento, «che, per il contenuto immediatamente lesivo della posizione soggettiva del ricorrente — a carico del quale deriverebbero illegittime conseguenze pregiudizievoli in sede di certificazione dei precedenti giudiziari —, determina l’ammissibilità del ricorso sul punto»; né potrebbe denegarsi, del resto, che si tratta di un provvedimento non previsto dalla legge, poiché spetta all’ufficio del casellario effettuare, alle condizioni previste dal d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, l’iscrizione nel casellario giudiziale dei provvedimenti giudiziari, mentre non compete al giudice della cognizione disporla (tanto che l’eventuale erronea iscrizione operata dall’ufficio è sottoposta al rimedio giurisdizionale di cui all’art. 40 d.P.R. n. 313 del 2002, attivabile dall’interessato). A ciò si aggiunga che l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, non essendo un provvedimento giudiziario definitivo, ex art. 3, comma 1, lett. f), d.P.R.n. 313 del 2002, non è soggetta ad iscrizione nel casellario giudiziale.

In senso del tutto conforme, Sez. 5, n. 3817 del 15/01/2018, Pisani, Rv. 272282, ha affermato il principio secondo cui «il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto, non rientrando nella categoria dei provvedimenti giudiziari definitivi di cui all’art. 3, comma 1, lett. f), d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, non è soggetto ad iscrizione nel casellario giudiziale».

8. Decreto di citazione a giudizio e diritti della persona offesa.

In tema di diritti della persona offesa in relazione all’applicabilità dell’istituto in esame, Sez. 5, n. 8751 del 18/10/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Burzillà, Rv. 272569, ha riconosciuto che la notificazione del decreto di citazione a giudizio garantisce alla persona offesa adeguata informazione sulla possibilità della declaratoria in fase predibattimentale dell’applicabilità della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen., senza che vi sia necessità di uno specifico avviso relativo a tale eventuale sviluppo processuale.

Nella parte motiva, la Corte, osservato che la citata previsione dell’art. 469, comma 1-bis del codice di rito implica che la persona offesa sia stata informata della possibilità che in sede predibattimentale si discuta dell’applicazione della causa di non punibilità in esame, si è esplicitamente discostata dai principi affermati da altra pronuncia di legittimità (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Derossi, Rv. 265447; cfr. anche Sez. 2, n. 6310 del 11/11/2015, dep. 2016, P.G. in proc. Cutili, Rv. 266207), secondo cui il decreto di citazione sarebbe insufficiente a tal fine, sia per la mancanza di un espresso riferimento alla possibilità che nel corso del giudizio sia dichiarata la causa di non punibilità di cui trattasi, sia per l’imprevedibilità di questo esito processuale nel momento in cui il decreto è notificato alla persona offesa.

Con la decisione recenziore, la Quinta sezione ha osservato come tale soluzione sia il risultato di un’interpretazione per un verso eccessivamente rigorosa e, per altro verso, inammissibilmente manipolativa del sistema normativo. Sotto il primo profilo, si è controbattuto che la citazione per il giudizio contiene necessariamente l’implicito riferimento a tutti i possibili sviluppi processuali del giudizio stesso, fra i quali l’espressa previsione dell’art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen., inclusiva della pronuncia di proscioglimento ai sensi dell’art. 131-bis cit.: pronuncia resa, conseguentemente, prevedibile per la persona offesa destinataria del decreto, il cui eventuale dissenso sul punto, peraltro, non è neppure vincolante per il giudice. Sotto il secondo profilo, si è osservato che postulare la necessità che il decreto contenga un richiamo espresso a tale sbocco processuale si risolverebbe nella sostanziale introduzione, fra i requisiti del decreto di citazione a giudizio contemplati dall’art. 552 cod. proc. pen., di una clausola non prevista dalla legge.

9. Questioni in tema di riti speciali: in particolare, il procedimento per decreto ed il “patteggiamento”.

Con riferimento al procedimento per decreto, è da menzionare l’intervento nomofilattico compiuto da Sez. U, n. 20569 del 18/01/2018, P.M. in proc. Ksouri, Rv. 272715, che ha enunciato il principio secondo cui «non è abnorme, e quindi non ricorribile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, restituisca gli atti al pubblico ministero perché valuti la possibilità di chiedere l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. (In motivazione la Corte ha precisato che l’invito a verificare il carattere “particolarmente tenue” dell’illecito contestato nell’imputazione non implica alcuna invasione delle competenze dell’organo requirente, ma appartiene all’attività di qualificazione giuridica propria del giudice)». Poiché tale decisione è oggetto di specifica ed analitica trattazione in altra parte di questa Rassegna, si rinvia al relativo commento.

Un’interessante riflessione sul tema dei rapporti fra l’istituto dell’applicazione della pena ex artt. 444 e segg. cod. proc. pen. e la causa di non punibilità in esame proviene da Sez. 4, n. 9204 del 01/02/2018, Di Corato, Rv. 272265, a tenore della quale «è inammissibile il ricorso per cassazione avverso sentenza di patteggiamento sul motivo del mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in quanto siffatta causa di non punibilità non rientra nel novero delle ragioni di immediato proscioglimento previste dall’art. 129 cod. proc. pen., alla cui insussistenza è subordinata la pronuncia che accoglie la richiesta di applicazione di pena concordata».

In motivazione, la S.C. ha osservato che l’istituto introdotto dall’art. 131-bis cod. pen. esige un apprezzamento di merito, finalizzato al riscontro dei presupposti applicativi, incompatibile con la natura del rito. Secondo la Corte, la questione non è, pertanto, equiparabile al rilievo di una causa estintiva del reato per la ragione che le ponderazioni sull’esistenza dei presupposti essenziali per l’applicabilità della causa di non punibilità ex art. 131-bis cit. sono caratterizzate da un’intrinseca ed insuperabile natura di merito.

10. Causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. ed interesse ad impugnare.

a) Interesse dell’imputato.

In tema di interesse ad impugnare i provvedimenti giudiziali che abbiano fatto applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., va segnalata Sez. 3, n. 18891 del 22/11/2017, dep. 2018, Battistella, Rv. 272877, secondo la quale «sussiste l’interesse dell’imputato ad impugnare la sentenza che esclude la punibilità del reato ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., trattandosi di pronuncia che: 1) ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (art. 651-bis cod. proc. pen.), 2) è soggetta ad iscrizione nel casellario giudiziale (art. 3, lett. f, d.P.R. n. 313 del 2002), 3) può ostare alla futura applicazione della medesima causa di non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis, comma 3, cod. pen.».

Analogo itinerario argomentativo caratterizza Sez. 5, n. 32010 del 08/03/2018, Giordano, Rv. 273315, con peculiare riferimento al tema dei rapporti fra l’art. 131-bis cod. pen. e l’art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, applicabile al procedimento avanti al giudice di pace. Secondo tale decisione, «sussiste l’interesse a ricorrere dell’imputato nei cui confronti venga emessa sentenza ex art. 131-bis cod. pen. dal giudice di pace, considerato che, ai sensi dell’art. 651-bis cod. proc. pen., la decisione irrevocabile di proscioglimento per particolare tenuità del fatto ha efficacia di giudicato in ordine all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni o il risarcimento del danno».

In tale prospettiva, la sentenza della Quinta sezione richiama, in via di necessaria premessa, la recente decisione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 53683 del 22/6/2017, Pmp ed altri, Rv. 271587-01 e Rv. 271588-01) che, risolvendo il conflitto insorto tra le sezioni semplici, ha stabilito che la causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., non è applicabile nei procedimenti relativi a reati di competenza del giudice di pace, in quanto il rapporto tra l’art. 131-bis cod. pen. e l’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000 non va risolto sulla base del principio di specialità tra le singole norme, dovendo prevalere la peculiarità del complessivo sistema sostanziale e processuale introdotto in relazione ai reati di competenza del giudice di pace, nel cui ambito la tenuità del fatto svolge un ruolo anche in funzione conciliativa. Ciò posto, si è osservato come non sia discutibile l’interesse dell’imputato ad ottenere l’annullamento della sentenza con cui viene dichiarata la non punibilità per particolarità tenuità del fatto, essendo evidente l’utilità per quest’ultimo di ottenere la rimozione di una sentenza che lo pregiudica, in relazione agli effetti stabiliti dall’art. 651-bis cod. proc. pen., introdotto nell’ordinamento insieme all’art. 131-bis cod. pen.

Diversa soluzione va prospettata, invece, laddove si tratti di decreto di archiviazione per particolare tenuità del fatto emesso dal giudice di pace senza previa notifica all’indagato, poiché, ai sensi dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, questi deve considerarsi privo di interesse ex art. 568 cod. proc. pen., posto che il decreto di archiviazione non comporta l’applicazione di alcuna sanzione, nemmeno accessoria, e non fa stato nei procedimenti civili o amministrativi, né è destinato ad essere iscritto nel casellario giudiziale. (Sez. 5, n. 48610 del 17/09/2018, M., Rv. 274144).

La Corte ha osservato, in specie, che, secondo quanto previsto dall’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, nel processo dinanzi al giudice di pace la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata – allorché l’azione penale non sia stata ancora esercitata, trovandosi il procedimento nella fase delle indagini preliminari – «solo se non risulta un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento» (comma 2): dunque, nella fase investigativa è unicamente l’interesse della persona offesa (che deve risultare ex actis), non anche quello dell’indagato, che va assunto quale termine di riferimento ai fini della declaratoria in esame. Il che, osserva la Corte, esclude la necessità di una interlocuzione preventiva con le parti processuali (anche se non è vietato al giudicante di sentirle previamente); né sarebbe ipotizzabile la violazione dell’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., dal momento che, come chiarito dalle Sezioni unite (la citata sentenza n. 53683 del 2017), la normativa di cui all’art. 131-bis cod. pen. e quella concernente le disposizioni processuali correlate non sono applicabili nel procedimento innanzi al giudice di pace.

Ciò posto, la Corte ha rilevato l’insussistenza, nel caso sottoposto a giudizio, di alcun concreto interesse dell’indagato all’impugnazione del provvedimento de quo, posto che il decreto di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, emesso ex art. 34 cit., non è idoneo a recare alcun pregiudizio al beneficiario, perché non comporta l’applicazione di alcuna sanzione, nemmeno accessoria; non fa stato negli altri, eventuali procedimenti (civili o amministrativi) e non è destinato ad essere iscritto nel casellario giudiziale; né impedisce al beneficiato di richiedere, mediante denuncia, che si proceda nei confronti della controparte per il delitto di calunnia, o di promuovere un autonomo giudizio civile teso all’accertamento del fatto illecito consumato in suo danno.

b) Interesse della parte civile.

In ordine all’interesse ad impugnare della parte civile, Sez. 5, n. 21906 del 21/02/2018, P.C. in proc. La Mantia, Rv. 273310, ha affermato che è inammissibile per mancanza di interesse il ricorso della parte civile proposto, in assenza di impugnazione da parte del pubblico ministero, avverso la sentenza con cui si è dichiarata la non punibilità per particolare tenuità del fatto, che non produce alcun effetto pregiudizievole nel giudizio civile in conseguenza di quanto previsto dall’art. 651-bis cod. proc. pen. in tema di efficacia della sentenza in sede civile, quanto alla sussistenza ed all’illiceità del fatto ed alla commissione dello stesso da parte dell’imputato.

Analoga soluzione è stata, altresì, adottata (Sez. 5, n. 13801 del 16/10/2017, dep. 2018, P.C. in proc. Tedesco, Rv. 272838) in relazione al ricorso della parte civile avverso la sentenza del giudice di pace con cui si sia dichiarata la non punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., piuttosto che ex art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000. Nel caso di specie, l’interesse all’impugnazione allegato dalla parte civile era legato alla mancata applicazione dell’apposito istituto di cui all’art. 34 cit., invece che di quello di cui all’art. 131-bis cod. pen.; al riguardo, ha precisato la Corte che sul punto l’art. 651-bis cod. proc. pen. «non lascia intravedere alcun concreto pregiudizio per la parte civile conseguente all’ “errore del giudice di appello”», posto che, in base all’enunciato della norma, la stessa può ottenere in sede civile il risarcimento dovuto, sul presupposto dell’intervenuto accertamento del fatto, della sua illiceità penale e della riferibilità all’imputato, con la conseguenza che il risultato sarebbe stato comunque il medesimo ottenibile ove fosse stato più correttamente applicato l’istituto di cui all’art. 34 cit., atteso che la dichiarazione di non procedibilità dell’azione penale ai sensi di tale ultima norma non impedisce la proposizione dell’azione di risarcimento in sede civile.

In senso del tutto conforme, con riferimento all’interesse ad impugnare della parte pubblica, si registra, altresì, Sez. 5, n. 44128 del 26/06/2018, P., Rv. 274176), secondo cui «non sussiste l’interesse del P.M. ad impugnare la sentenza con la quale il giudice di pace ha dichiarato non punibile l’imputato per tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. anziché dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, atteso che tale nozione va individuata in una prospettiva utilitaristica di rimozione di uno svantaggio processuale, non ricorrente nella specie, e non si risolve in una astratta pretesa alla esattezza teorica del provvedimento».

In tale panorama interpretativo, particolare rilievo assume Sez. 5, n. 3784 del 28/11/2017

– dep. 2018 –, P.C. in proc. Indraccolo, Rv. 272441, la quale ha precisato che sussiste, peraltro, l’interesse della parte civile ad impugnare la sentenza di non doversi procedere per particolare tenuità del fatto, qualora la stessa sia stata pronunciata dal giudice di pace in assenza di attività istruttoria, «in quanto il mancato accertamento del fatto, della sua rilevanza penale e della sua attribuibilità all’imputato comporta, ex art. 651-bis cod. proc. pen., che detta pronuncia non abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile». La decisione in esame perviene, in particolare, a delimitare il perimetro applicativo dell’orientamento della stessa Sezione Quinta, relativo, più propriamente, all’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. e rivolto ad escludere il suddetto interesse per le ragioni sopra evidenziate. Osserva, infatti, la sentenza che detto orientamento «fa correttamente riferimento ai casi in cui la pronunzia ex art. 131-bis cod. pen. intervenga all’esito dell’istruttoria dibattimentale ovvero acquisite le prove sull’accertamento del fatto, sulla sua rilevanza penale e sulla attribuibilità dello stesso all’imputato»; per converso, ove il giudice di pace, pur avendo proceduto all’apertura del dibattimento, abbia emesso il provvedimento impugnato in assenza di attività istruttoria e, quindi, in difetto di un accertamento del fatto contestato all’imputato, la “particolare tenuità” non può dirsi in alcun modo apprezzata «per mezzo di un giudizio sintetico sul fatto concreto, elaborato alla luce di tutti gli indici normativamente indicati, costituiti dall’esiguità del danno o del pericolo, dall’occasionalità della condotta, dal minore grado di colpevolezza e dall’eventuale pregiudizio sociale per l’imputato, avuto riguardo non alla fattispecie astratta di reato, ma a quella concretamente realizzata».

Da ciò deriva che, in casi consimili, al mancato accertamento del fatto non può che conseguire la preclusione di efficacia della pronuncia ai sensi dell’art. 651-bis cit., con conseguente interesse della parte civile all’impugnazione del provvedimento.

11. Limiti di rilevabilità e di deducibilità nel giudizio di legittimità ed in quello di rinvio.

Sez. 3, n. 23174 del 21/03/2018, Sarr, Rv. 272789, ha ribadito il principio, già affermato da precedenti arresti di legittimità (Sez. 3, n. 19207 del 16/03/2017, Celentano, Rv. 269913; Sez. 5, n. 57491 del 23/11/2017, Moio, Rv. 271877), secondo cui «la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis cod. pen., non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, se tale disposizione era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza di appello, ostandovi la previsione di cui all’art. 606, comma 3, cod. proc. pen.».

Nel dare continuità a tale principio, il Collegio ha richiamato la riconosciuta natura atipica della menzionata «speciale causa di non punibilità» in ragione degli effetti negativi che produce per l’imputato (anzitutto, la possibile rilevanza nei giudizi civili ed amministrativi ed, ancora, l’iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziale), onde la sua applicazione presuppone, fra l’altro, l’accertamento della responsabilità penale, ossia l’accertamento dell’esistenza del reato e della sua attribuibilità all’imputato. Parimenti, la Corte ha ricordato l’orientamento che, attribuendo natura sostanziale al citato istituto, ne ha riconosciuto l’applicabilità ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Corte di cassazione può anche rilevare di ufficio ai sensi dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. la sussistenza delle condizioni di applicabilità della norma, sulla base delle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata, dovendo, in caso di valutazione positiva, annullare la sentenza con rinvio al giudice di merito.

In tale cornice ricostruttiva, peraltro, il Collegio ha preso le distanze dal minoritario indirizzo ermeneutico secondo cui la causa di esclusione della punibilità può essere rilevata d’ufficio nel giudizio di legittimità, in presenza di un ricorso ammissibile, anche se la stessa non sia stata dedotta nel corso del giudizio di appello pendente alla data di entrata in vigore della norma, a condizione che i presupposti per la sua applicazione siano immediatamente rilevabili dagli atti e non siano necessari ulteriori accertamenti fattuali (cfr. Sez. 6, n. 7606 del 16/12/2016, Curia, Rv. 269164, Sez. 3, n. 6870 del 28/04/2016, Fontana, Rv. 269160). Tale indirizzo, secondo la decisione in esame, non è condivisibile in quanto «fondato su una parziale lettura» di quanto affermato da Sez. U, n. 13681 del 25/10/2016, Tushaj, Rv. 266594, e da Sez. U, n. 13682 del 25/10/2016, Coccimiglio, Rv. 266595, le quali «hanno espressamente vincolato la rilevabilità d’ufficio della causa di esclusione della punibilità nel giudizio di legittimità all’obbligo di applicazione della lex mitior sopravvenuta e, dunque, presuppongono che la sentenza impugnata sia anteriore alla entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28», con la conseguenza che la stessa causa di non punibilità non può essere fatta valere nei casi, come quello in scrutinio, in cui la sentenza impugnata sia stata emessa successivamente alla data di entrata in vigore del predetto decreto legislativo, senza che il ricorrente ne abbia chiesto l’applicazione nei motivi di appello e neppure in sede di conclusioni del giudizio di secondo grado.

Ad analoghi registri interpretativi appare ispirata anche Sez. 7, n. 15659 del 08/03/2018, Cavasin, Rv. 272913, secondo cui «in caso di riforma in appello della sentenza assolutoria, la questione dell’applicazione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di legittimità atteso che, all’esito della celebrazione del giudizio di appello, la difesa dell’imputato, nel formulare le proprie conclusioni, può avanzare, anche in via subordinata, richiesta di applicazione di detta causa di non punibilità».

Con riferimento ad una fattispecie in cui la prima sentenza di appello era stata emessa precedentemente all’introduzione dell’art. 131-bis cod. pen., mentre il giudizio rescindente era stato celebrato dopo la previsione della nuova causa di non punibilità, Sez. 6, n. 18061 del 15/03/2018, Cerra, Rv. 272974 ha affermato che, «nel caso di annullamento con rinvio limitatamente alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio, al giudice del rinvio è preclusa la possibilità di dichiarare la non punibilità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. non rilevata nel giudizio rescindente, essendosi formato il giudicato sull’insussistenza della causa di non punibilità».

12. Particolare tenuità del fatto e procedimento avanti al giudice di pace.

Infine, nel focalizzare l’attenzione sulle recenti pronunce di legittimità afferenti al procedimento davanti al giudice di pace, va ricordato che l’operatività dell’istituto della improcedibilità “nei casi di particolare tenuità del fatto” è subordinata a due diverse condizioni, a seconda della fase del procedimento in cui esso trova applicazione. Nel corso delle indagini preliminari, come ricordato, la particolare tenuità può essere dichiarata purché non risulti un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento (art. 34, comma 2, d.lgs. n. 274 del 2000); a seguito dell’esercizio dell’azione penale, invece, la sentenza di assoluzione per particolare tenuità del fatto può essere emessa «solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono» (art. 34, comma 3, d.lgs. cit.), onde la volontà di non opporsi deve essere accertata in concreto dal giudice di merito, sia tramite interpello o per effetto di spontanea dichiarazione dell’interessato, sia, anche, per fatti assolutamente sintomatici in quanto univoci e concludenti.

In siffatto quadro di disciplina, in un’ipotesi in cui la persona offesa aveva inequivocabilmente chiarito di voler coltivare la sua istanza punitiva con la costituzione in giudizio come parte civile, Sez. 5, n. 3784 del 28/11/2017, dep. 2018, P.C. in proc. Indraccolo, Rv. 272442, ha affermato che è illegittima la sentenza con cui, in assenza di richiesta dell’imputato e di specifica interlocuzione con la persona offesa comparsa in udienza e costituitasi parte civile, il giudice di pace dichiari l’improcedibilità dell’azione penale per particolare tenuità del fatto, poiché, dopo l’esercizio dell’azione penale stessa, tale pronuncia impone l’accertamento della volontà non ostativa delle parti.

13. Particolare tenuità del fatto e responsabilità degli enti da reato.

In tema di responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Sez. 3, n. 9072 del 17/11/2017, dep. 2018, P.G. in proc. Ficule, Rv. 272447, ha affermato il principio secondo cui, qualora nei confronti dell’autore del reato presupposto sia stato applicato l’art. 131-bis cod. pen., il giudice deve procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso, che non può prescindere dalla verifica della sussistenza in concreto del fatto di reato, non essendo questa desumibile in via automatica dall’accertamento contenuto nella sentenza di proscioglimento emessa nei confronti della persona fisica.

Nel pervenire a tali conclusioni, la Corte ha esaminato criticamente le due possibili soluzioni alla questione relativa alla configurabilità o meno di una responsabilità in capo all’ente, sulla base del d.lgs. n. 231 del 2001, nelle ipotesi di applicazione nei confronti dell’imputato-persona fisica della causa di non punibilità in esame.

Secondo una prima opzione interpretativa, in casi consimili dovrebbe escludersi la responsabilità a titolo di illecito amministrativo derivante da reato, in quanto la lettera dell’art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001 non ricomprende espressamente la ricorrenza di cause di non punibilità (come quella contemplata dall’art. 131-bis citato) fra le ipotesi in cui permane comunque la responsabilità dell’ente.

Altra soluzione, invece, ritiene irragionevole ammettere, da un lato, la responsabilità dell’ente nelle ipotesi di estinzione del reato ex art. 8, comma 1, lett. b), d.lgs. citato ed escluderla, dall’altro, nelle ipotesi di reato accertato ma non punibile. Rispetto al primo gruppo di ipotesi, invero, la giurisprudenza della Corte ha riconosciuto, analizzando il caso paradigmatico della prescrizione del reato presupposto, che il giudice deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso, precisando che tale accertamento non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato (cfr. Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, Rv. 255369).

D’altro canto, prosegue la Corte, la sentenza che dichiara l’imputato non punibile ex art. 131-bis, cod. pen. «esprime un’affermazione di responsabilità, pur senza una condanna, e pertanto non può assimilarsi ad una sentenza di assoluzione, ma lascia intatto il reato nella sua esistenza, sia storica e sia giuridica (in dottrina si è utilizzata l’espressione cripto condanna)», tanto da doversi iscrivere nel casellario giudiziale ed avere effetto di giudicato (quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso) nel giudizio civile o amministrativo di danno, ex art. 651-bis, cod. proc. pen.

Di qui la conclusione che anche nell’ipotesi problematica in esame il giudice deve procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso; in tale prospettiva, la Corte ha escluso che la sentenza di applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. possieda efficacia vincolante nel giudizio relativo alla responsabilità dell’ente ex l. n. 231 del 2001, ostandovi la lettera dell’art. 651-bis, cod. proc. pen., che limita l’effetto della decisione al giudizio civile o amministrativo di danno. Dunque, nessun automatismo applicativo, ma una verifica in concreto circa la sussistenza del fatto di reato quale precondizione per l’affermazione della responsabilità in parola.

14. Causa di non punibilità e m.a.e.

In tema di mandato di arresto europeo, Sez. 6, n. 2059 del 16/01/2018, Coltan, Rv. 272137, ha ritenuto che, per soddisfare la condizione della doppia punibilità prevista dall’art. 7, comma 1, legge 22/04/2005, n. 69, è sufficiente che il fatto sia previsto come reato in entrambi gli ordinamenti, essendo, invece, irrilevanti non solo l’eventuale eterogeneità delle previsioni inerenti alle circostanze aggravanti – a condizione che la natura ed il contenuto dell’elemento circostanziale non determinino un mutamento del fatto –, ma anche le eventuali valutazioni discrezionali relative alle possibili condizioni di non punibilità previste nell’ordinamento interno. Nella specie, il ricorrente lamentava la violazione della condizione di doppia punibilità in relazione ad un m.a.e. relativo all’esecuzione di una sentenza di condanna per furto aggravato, deducendo sia la mancata previsione nell’ordinamento interno della contestata aggravante della consumazione del furto in orario notturno, sia la non punibilità della condotta per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.

15. Casistica.

In chiusura di trattazione, appare utile richiamare una breve casistica al fine di meglio illustrare la concreta applicazione, da parte della Suprema Corte, dei descritti parametri di valutazione della particolare tenuità del fatto.

Ai fini della applicazione della causa di esclusione della punibilità in relazione al reato di omesso versamento dei contributi previdenziali, Sez. 3, n. 30179 del 11/05/2018, Alto-brando, Rv. 273685 e Rv. 273686, ha affermato che il giudice, per verificare la sussistenza del necessario requisito della non abitualità del comportamento, può prendere in considerazione il numero delle mensilità nelle quali la condotta omissiva si è verificata, nonché l’importo complessivo dei contributi non versati e l’entità del superamento della soglia di punibilità.

In ipotesi di lottizzazione abusiva, Sez. 3, n. 51489 del 18/09/2018, B., in corso di massimazione, ha ritenuto che la valutazione della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non può prescindere dalla oggettiva gravità dell’attività edilizia posta in essere per le conseguenze che essa determina sull’assetto del territorio, elemento che deve essere considerato unitamente agli altri parametri di valutazione rilevanti per gli abusi edilizi e paesaggistici. (Nella specie, la Corte ha ritenuto immune da vizi la decisione della corte di appello che aveva escluso la declaratoria di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen., in considerazione della grave compromissione del territorio provocata dalla lottizzazione abusiva eseguita in zona vincolata).

Sempre in materia edilizia, con particolare riferimento alle fattispecie di cui agli artt. 93 e 95 del d.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001, Sez. 3, n. 783 del 20/04/2017, dep. 2018, P.M. in proc. Bruno, Rv. 271865, ha fissato il principio secondo cui la particolare tenuità va verificata alla luce della concreta entità dell’intervento edilizio realizzato, dello stato, della condizione, della natura e della morfologia dei luoghi, tenendo conto del bene giuridico protetto e dell’interesse sotteso alla specifica disposizione incriminatrice, consistente nella tutela della pubblica incolumità dal rischio sismico. (Fattispecie in cui la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza che aveva riconosciuto detta causa di non punibilità sul presupposto dell’esistenza di un titolo abilitativo alla realizzazione di interventi di restauro e risanamento conservativo di un fabbricato preesistente e sulla modesta incidenza urbanistica delle opere realizzate).

Secondo Sez. 4, n. 46438 del 28/09/2018, M., Rv. 273933, in materia di contravvenzioni di cui all’art. 186 commi 2 e 7 cod. strada il giudice è tenuto ad accertare che il fatto illecito non abbia generato un contesto concretamente e significativamente pericoloso con riguardo ai beni tutelati dalla norma. (Nella specie, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna relativa al reato di cui all’art. 186, comma 7 cod. strada, che aveva negato la sussumibilità del fatto nell’ipotesi prevista dall’art. 131-bis cod. pen. in considerazione del comportamento, ritenuto non improntato a lealtà e correttezza, tenuto dall’imputata che, dopo essersi rifiutata di sottoporsi agli accertamenti di rito nell’immediatezza, aveva consegnato alla polizia un test negativo a sette giorni di distanza dall’incidente).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 3, n. 36319 del 05/07/2001, Vasiliu, Rv. 220031

Sez. 2, n. 18189 del 05/05/2010, Vaglietti e altri, Rv. 247469

Sez. 6, n. 21838 del 23/05/2012, Giovane e altri, Rv. 252881

Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, Rv. 255369

Sez. 5, n. 39473 del 13/06/2013, Paderni, Rv. 257200

Sez. 1, n. 27906 del 15/04/2014, Stocco, Rv. 260500

Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Derossi, Rv. 265447

Sez. 2, n. 6310 del 11/11/2015 – dep. 2016 –, P.G. in proc. Cutili, Rv. 266207

Sez. 6, n. 15439 del 17/03/2016, C., Rv. 266545

Sez. 4, n. 18795 del 07/04/2016, P., Rv. 266705

Sez. 3, n. 6870 del 28/04/2016, Fontana, Rv. 269160

Sez. U, n. 53683 del 22/6/2017, Pmp ed altri, Rv. 271587-588

Sez. 5, n. 52301 del 14/07/2016, Petroni, Rv. 268444

Sez. U, n. 13681 del 25/10/2016, Tushaj, Rv. 266594

Sez. U, n. 13682 del 25/10/2016, Coccimiglio, Rv. 266595

Sez. 6, n. 7606 del 16/12/2016, Curia, Rv. 269164

Sez. 3, n. 19207 del 16/03/2017, Celentano, Rv. 269913

Sez. 2, n. 19932 del 29/03/2017, Di Bello, Rv. 270320

Sez. 3, n. 776 del 04/04/2017 – dep. 2018 –, Del Galdo, Rv. 271863

Sez. 3, n. 783 del 20/04/2017 – dep. 2018 –, P.M. in proc. Bruno, Rv. 271865

Sez. 4, n. 27323 del 04/05/2017, Garbocci, Rv. 270107

Sez. 5, n. 35590 del 31/05/2017, P.G. in proc. Battizocco, Rv. 270998

Sez. 3, n. 893 del 28/06/2017 - dep. 2018 –, P.M. in proc. Gallorini, Rv. 272249

Sez. 3, n. 4123 del 11/07/2017 – dep. 2018 –, P.G. in proc. Zoccarato, Rv. 272039

Sez. 5, n. 40281 del 13/07/2017, Baratto, Rv. 271014

Sez. 5, n. 13801 del 16/10/2017 – dep. 2018 –, P.C. in proc. Tedesco, Rv. 272838

Sez. 3, n. 9072 del 17/11/2017 – dep. 2018 –, P.G. in proc. Ficule, Rv. 272447

Sez. 5, n. 8751 del 18/10/2017 – dep. 2018 –, P.G. in proc. Burzillà, Rv. 272569

Sez. 3, n. 18891 del 22/11/2017 – dep. 2018 –, Battistella, Rv. 272877

Sez. 5, n. 57491 del 23/11/2017, Moio, Rv. 271877

Sez. 5, n. 3784 del 28/11/2017 – dep. 2018 –, P.C. in proc. Indraccolo, Rv. 272441272442

Sez. 4, n. 10402 del 29/11/2017 – dep. 2018 –, P.O. in proc. Nucu, Rv. 272237

Sez. 6, n. 3353 del 13/12/2017 - dep. 2018 –, Lesmo ed altro, Rv. 272123

Sez. 5, n. 3817 del 15/01/2018, Pisani, Rv. 272282

Sez. 5, n. 5358 del 15/01/2018, Corradini, Rv. 272109

Sez. 6, n. 2059 del 16/01/2018, Coltan, Rv. 272137

Sez. 6, n. 6959 del 16/01/2018, Trivelli, Rv. 272483

Sez. U, n. 20569 del 18/01/2018, P.M. in proc. Ksouri, Rv. 272715

Sez. 4, n. 9204 del 01/02/2018, Di Corato, Rv. 272265

Sez. 2, n. 9495 del 07/02/2018, P.g. in proc. Grasso, Rv. 272523

Sez. 6, n. 10455 del 14/02/2018, P.O. in proc. Massida, Rv. 272247

Sez. 5, n. 21906 del 21/02/2018, P.C. in proc. La Mantia, Rv. 273310

Sez. 3, n. 15782 del 23/02/2018, Farese, Rv. 272624

Sez. 7, n. 15659 del 08/03/2018, Cavasin, Rv. 272913 Sez. 5, n. 32010 del 08/03/2018, Giordano, Rv. 273315 Sez. 6, n. 18061 del 15/03/2018, Cerra, Rv. 272974 Sez. 3, n. 23174 del 21/03/2018, Sarr, Rv. 272789 Sez. 3, n. 19159 del 29/03/2018, Fusaro, Rv. 273198 Sez. 3, n. 30179 del 11/05/2018, Altobrando, Rv. 273685-686 Sez. 5, n. 53401 del 30/05/2018, M. Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Foglietta, Rv. 273678 Sez. 1, n. 31600 del 25/06/2018, Matarrese, Rv. 273523 Sez. 5, n. 44128 del 26/06/2018, P. Sez. 2, n. 41774 del 11/07/2018, Moretti Sez. 5, n. 48610 del 17/09/2018, M. Sez. 3, n. 51489 del 18/09/2018, B. Sez. 4, n. 46438 del 28/09/2018, M., Rv. 273933 Sez. 4, n. 51526 del 04/10/2018, B.

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CAPITOLO III

LA SOSPENSIONE DEL PROCEDIMENTO CON MESSA ALLA PROVA

(di Paolo Bernazzani )

Sommario

1 Premessa. - 2 Questioni di costituzionalità e di rispetto dei parametri CEDU. - 3 Profili applicativi. La competenza. - 4 (segue). Poteri di riqualificazione giuridica del fatto da parte del giudice. - 5 (segue). Il programma di trattamento. - 6 (segue). Revoca dell’ordinanza. - 7 (segue). La ripresa del processo successiva alla revoca. - 8 (segue). Rapporti con il giudizio abbreviato. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova nei confronti degli imputati maggiorenni, introdotto dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, è stato realizzato nel nostro sistema normativo attraverso l’inserimento nel codice penale degli artt. 168-bis, 168-ter e 168-quater, unitamente ad un complesso di disposizioni processuali, contemplate dagli artt. 464-bis-464-novies all’interno del nuovo Titolo V-bis del Libro VI del codice di rito.

Il quadro normativo che ne deriva persegue l’intento di realizzare, negli obiettivi del legislatore, un sistema di “probation” nella fase istruttoria, con riferimento ad un catalogo di reati commessi da imputati maggiorenni, secondo un modello ispirato, pur con una disciplina autonoma e peculiare, al paradigma di riferimento adottato nel procedimento minorile (art. 28 del d.P.R. n. 448 del 1988 e art. 27 delle relative norme di attuazione, approvate con d.lgs. n. 272 del 1989), nel quale la messa alla prova precede la pronuncia di una sentenza di condanna.

La ratio più autentica che ispira tale forma di “probation” processuale è rivolta ad offrire all’imputato processato per reati di minore allarme sociale un percorso di reinserimento alternativo che ne faciliti il recupero ed eviti il danno derivante dalla detenzione in un istituto di pena, oltre che quello insito nella stessa pronuncia di una sentenza di condanna; il medesimo obiettivo è concepito anche in funzione deflattiva sul piano del procedimento penale, attraverso una forma di rinuncia statuale alla potestà punitiva che si traduce nella dichiarazione di estinzione del reato da parte del giudice, condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata ed assistita. L’impianto dell’istituto risulta, dunque, sensibile ai principi di proporzionalità e legalità della pena e del suo finalismo rieducativo, in linea con quanto stabilito dall’art. 27 Cost.

In tale prospettiva, si conviene nel ritenere che lo stesso, da un lato, adempia ad una finalità special-preventiva, posto che – sia pure in assenza di un accertamento giurisdizionale di responsabilità, fatta salva la necessità di dichiarare la ricorrenza delle cause di proscioglimento di cui all’art. 129 cod. proc. pen. – esso delinea una via alternativa alla detenzione in funzione essenzialmente rieducativa e risocializzante, sulla base di una valutazione discrezionale del giudice sia quanto all’an (relativamente alla prognosi di non recidiva del soggetto e dall’accertamento dell’idoneità del programma proposto), sia quanto al quomodo (nel senso di devolvere al giudicante l’individualizzazione del trattamento, definendo i contenuti e la durata della prova). Sotto diverso e convergente profilo, l’istituto presenta un carattere indubbiamente premiale, laddove, a fronte della rinuncia dell’imputato alla piena cognitio dibattimentale, assicura all’interessato vantaggi sul piano processuale e sanzionatorio, consentendo la sospensione del procedimento penale, l’accesso ad una pena alternativa non carceraria e, in caso di esito positivo della prova, l’estinzione del reato (cfr., a tale proposito, Sez. U, n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238).

In maniera del tutto coerente con tali premesse, pertanto, la messa alla prova comporta, oltre alla tenuta da parte dell’imputato di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e, ove possibile, al risarcimento del danno, l’affidamento al servizio sociale per lo svolgimento di un particolare programma. La concessione della messa alla prova è, inoltre, subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità (art. 168-bis cod. pen.). L’esito positivo della prova, come osservato, «estingue il reato per cui si procede» (art. 168-ter cod. pen.). Sotto il profilo sostanziale, dunque, viene ad essere introdotta una vera e propria causa di estinzione del reato, collocata nel capo I del Titolo VI del codice penale, subito dopo la disciplina della sospensione condizionale della pena; a tale innovazione corrisponde, sul piano processuale, la previsione di un autonomo modulo di definizione alternativa della vicenda processuale, inserito in un apposito titolo (V--bis) del Libro VI, dedicato ai procedimenti speciali, del codice di rito.

Proprio sul “doppio profilo”, sostanziale e processuale, che caratterizza il nuovo istituto si innestano, come si vedrà, le questioni che la Suprema Corte, nella sua opera nomofilattica, è stata, ancora di recente, chiamata a risolvere.

2. Questioni di costituzionalità e di rispetto dei parametri CEDU.

Ai fini di un conveniente inquadramento del tema in esame e di una più immediata comprensione dei profili problematici che ad esso afferiscono, appare opportuno ricordare, in via preliminare, che l’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., introdotto nel sistema processuale penale dall’art. 4, comma 1, lett. a) della L. 28 aprile 2014, n. 67, fissa i termini entro i quali, a pena di decadenza, l’imputato può formulare la richiesta; in particolare, la norma codicistica prevede che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova possa essere proposta, oralmente o per iscritto, «fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 o 422, o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio», dovendo, conseguentemente, ritenersi tardiva la richiesta formulata oltre tali specifiche scansioni processuali.

Sin dall’entrata in vigore del nuovo istituto, di particolare delicatezza è apparsa la questione dell’inquadramento sistematico delle norme che lo disciplinano, dalla quale discendono rilevanti conseguenze, soprattutto in tema di applicabilità delle disposizioni in esame ai processi in corso, non avendo il legislatore contemplato alcuna norma transitoria.

La collocazione sistematica delle disposizioni di cui agli artt. 464-bis e seguenti cod. proc. pen., nel libro VI (dedicato ai procedimenti speciali), dopo il titolo V, nell’ambito del nuovo titolo V-bis, ha orientato gli interpreti verso la conclusione che l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova per gli imputati maggiorenni configura un vero e proprio procedimento speciale, che si aggiunge al giudizio abbreviato, all’applicazione delle pena su richiesta delle parti, al giudizio direttissimo, al giudizio immediato ed al procedimento per decreto; in tale contesto classificatorio, una delle principali questioni sottoposte, sin dall’immediatezza, al vaglio della giurisprudenza di legittimità e, altresì, della stessa Corte costituzionale, concerne il regime dei processi a citazione diretta nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata anteriormente alla entrata in vigore, il 17 aprile 2014, del nuovo istituto. In assenza di norme transitorie, invero, si era sostenuto che, in tale ipotesi, la richiesta di messa alla prova avrebbe dovuto considerarsi utilmente proposta sino al momento della pronuncia della sentenza di primo grado, al fine di scongiurare quella che appariva una non giustificabile disparità di trattamento fra processi in cui si fosse già verificata la dichiarazione di apertura del dibattimento e processi non ancora approdati a tale snodo.

È noto che la questione così sunteggiata ha conosciuto un fondamentale, e probabilmente definitivo, approdo decisorio grazie alla sentenza n. 240 del 2015 (in G. U. n. 48 del 2 dicembre 2015) con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., sollevate dal giudice rimettente – il Tribunale ordinario di Torino – con riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, analoga a quella di cui all’art. 15-bis, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 118, preclude l’ammissione all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014.

Il tema della mancata previsione di una disciplina transitoria riverbera anche nell’attualità del panorama decisorio della Suprema Corte, la quale, (Sez. 7, n. 1025 del 14/12/2017, dep. 2018, Brentan, Rv. 272243) ha dichiarato manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 601 cod. proc. pen. nella parte in cui non contempla, in relazione al giudizio di appello, la possibilità per l’imputato che abbia commesso il reato prima dell’entrata in vigore dell’art. 168-bis cod. pen. di avvalersi della sospensione del procedimento con messa alla prova, considerata l’intrinseca dimensione processuale dell’istituto in questione e l’ampia discrezionalità del legislatore nel determinare la disciplina temporale di nuovi istituti processuali, con la conseguenza che le relative scelte, ove non siano manifestamente irragionevoli, si sottraggono a censure di legittimità costituzionale.

Ha rilevato, in tale prospettiva, la Corte che «il dubbio sulla costituzionalità dell’art. 601 del codice di rito non ha alcuna ragion d’essere, nel momento in cui la disciplina dell’istituto pone un preciso sbarramento temporale rispetto alla possibilità di avvalersene, preclusa nel giudizio d’appello. Ed invero, ciò che il ricorrente in realtà lamenta è l’assenza di una disciplina transitoria, la cui premessa – ancorché non esplicitata – deve rinvenirsi negli effetti sostanziali che si ricollegano all’esito positivo della messa alla prova».

In tale dimensione argomentativa, la ritenuta genericità delle doglianze sollevate sul punto ha consentito alla Corte di richiamare le perspicue considerazioni con cui la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 240 del 2015, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis cod. proc. pen. in rapporto agli artt. 3 e 24, oltre che 111 e 117, della Carta Costituzionale, ponendo in evidenza che, nonostante gli indiscutibili effetti sostanziali dell’istituto, che si compendiano nell’estinzione del reato ove l’affidamento in prova vada a buon fine, lo stesso è «connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova».

In particolare, va ricordato che la Corte costituzionale, con la decisione n. 240 del 2015, ha stabilito che la peculiare fissazione del termine per formulare la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova è intrinsecamente collegata «alle caratteristiche e alla funzione dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo», onde la preclusione oggetto di censura «dipende solo dal diverso stato dei processi che la subiscono»: rispetto a tale profilo, la Consulta ha ribadito che il legislatore gode di ampia discrezionalità nello stabilire la disciplina temporale di nuovi istituti processuali o delle modificazioni introdotte in istituti già esistenti, sicché le relative scelte, ove non manifestamente irragionevoli, si sottraggono a censure di illegittimità costituzionale (cfr. anche le ordinanze n. 455 del 2006 e n. 91 del 2005). Ne deriva che «consentire, sia pure in via transitoria, la richiesta nel corso del dibattimento, anche dopo che il giudizio si è protratto nel tempo, eventualmente con la partecipazione della parte civile (che avrebbe maturato una legittima aspettativa alla decisione), significherebbe alterare in modo rilevante il procedimento, e il non averlo fatto non giustifica alcuna censura riferibile all’art. 3 Cost.».

In un simile contesto, destinata ad essere caducata è anche la dedotta questione relativa alla violazione dell’art. 24 Cost., posto che la concreta declinazione del diritto di difesa (non diversamente, del resto, del diritto a un giusto processo di cui all’art. 111 Cost.) non potrebbe in alcun modo attribuire all’imputato, nei procedimenti in corso al momento dell’entrata in vigore della norma impugnata, la facoltà di scegliere il nuovo procedimento speciale, del quale, invece, è stata legittimamente esclusa l’applicabilità.

Nel panorama delle pronunce di legittimità emesse nel 2018 emerge come sia stata oggetto di rinnovato esame anche la questione concernente l’ipotizzato contrasto fra la disciplina in esame ed il parametro di cui all’art. 117 Cost., in relazione all’art. 7 C.E.D.U., ravvisato nel fatto che la mancanza di una disciplina transitoria impedirebbe l’applicazione retroattiva di una norma penale di favore (cfr., altresì, l’art. 15 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e l’art. 49 della Carta di Nizza).

Sez. 4, n. 24086 del 28/02/2018, Rizzo, Rv. 273402, ha affermato, in proposito, che l’istituto della messa alla prova configura un percorso alternativo all’accertamento giudiziale penale ed è, pertanto, fuori dall’ambito di operatività del principio di retroattività della lex mitior, onde la mancata previsione di un’applicazione retroattiva dell’istituto non comporta contrasto con l’art. 7, par. 1 CEDU e con l’art. 117, comma 1, Cost.

Nel pervenire a tale conclusione, la Suprema Corte ha richiamato la giurisprudenza della Corte Costituzionale (in particolare, Corte Cost. n. 236 del 22 giugno 2011) e della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU, 27/04/2010, Morabito c. Italia; Corte EDU 17/09/2009, Scoppola c. Italia), secondo cui il principio di retroattività della lex mitior, così come in generale delle norme in materia di retroattività contenute nell’art. 7 della Convenzione EDU, concerne le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono; all’opposto, sono estranee al suo ambito di operatività le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità.

Si tratta, dunque di un principio che non coincide con quello regolato nel nostro ordinamento dall’art. 2, comma 4, cod. pen., posto che quest’ultimo riguarda ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto, che apporti modifiche in melius di qualunque genere alla disciplina di una fattispecie criminosa, incidendo sul complessivo trattamento riservato al reo, mentre il primo, come detto, ha una portata più circoscritta, concernendo le sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni.

Quanto, più direttamente, all’istituto della messa alla prova, la Corte riconosce come lo stesso si configuri come un percorso del tutto alternativo rispetto all’accertamento giudiziale penale, senza, peraltro, incidere in alcun modo sulla valutazione sociale del fatto, «la cui valenza negativa rimane anzi il presupposto per imporre all’imputato, il quale ne abbia fatto esplicita richiesta, un programma di trattamento alla cui osservanza con esito positivo consegua l’estinzione del reato».

Tali premesse consentono, dunque, di escludere che la materia in esame si collochi nel perimetro applicativo del principio di retroattività della lex mitior. È agevole riconoscere come si tratti di conclusioni del tutto in linea con la già richiamata

C. cost. n. 240 del 2015, nella quale la Consulta ha affermato che la preclusione di cui il giudice a quo aveva lamentato gli effetti «è conseguenza non della mancanza di retroattività della norma penale ma del normale regime temporale della norma processuale, rispetto alla quale il riferimento all’art. 7 della CEDU risulta fuori luogo».

In conclusione, pertanto, l’art. 464-bis cod. proc. pen. è espressione del principio tempus regit actum; principio certamente derogabile da una diversa disciplina transitoria, la cui mancanza, tuttavia, non risulta censurabile in forza dell’art. 7 della CEDU.

3. Profili applicativi. La competenza.

In materia di competenza a provvedere sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova ex art. 464-bis cod. proc. pen., la Corte (Sez. 1, n. 7955 del 07/12/2017, dep. 2018, confl. comp. in proc. Cafiero, Rv. 272409) ha affermato che, ove la stessa sia stata avanzata in sede di opposizione a decreto penale di condanna, competente a decidere è il giudice per le indagini preliminari e non il giudice del dibattimento.

Si tratta, come è noto, di questione già esaminata dalla Corte in precedenti arresti, con esiti contrastanti: va ricordato, in particolare, che con una prima pronuncia (Sez. 1, 03/02/2016, n. 25867, confl. comp. in proc. Greco, Rv. 267062) era stata ritenuta la competenza del giudice del dibattimento, sulla base della considerazione che la norma che individua nel giudice per le indagini preliminari la competenza a disporre il giudizio abbreviato o l’udienza per l’applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen., richiesti con l’atto di opposizione a decreto penale, non potrebbe essere estesa per analogia, in assenza di una disposizione ad hoc, anche al caso in esame. Si valorizzava, in tal senso, la diversa natura giuridica dell’istituto de quo, diversa dai cd. riti alternativi, nonché la previsione di una attività istruttoria urgente ai sensi dell’art. 464-sexies cod. proc. pen., che induceva a ritenere la competenza del Tribunale, quale organo giurisdizionale che poi dovrebbe utilizzare il compendio probatorio formato in via d’urgenza; si aggiungeva, infine, che l’art. 464-octies, comma 4, cod. proc. pen., nel prevedere che, in caso di revoca dell’ordinanza di sospensione, «il procedimento riprende il suo corso dal momento in cui era rimasto sospeso» aveva il significato di individuare il giudice competente in quello avanti il quale, in caso di revoca della procedura di sospensione del procedimento, il giudizio doveva proseguire e quindi, senz’altro, nel giudice del dibattimento.

La decisione in esame, invece, si inserisce nell’ambito del diverso orientamento, affermatosi in epoca più recente (cfr. Sez. 1, n. 21324 del 02/02/2017, Pini, Rv. 270011; Sez. 1, n. 30721 del 05/06/2017, confl. comp. in proc. Saraceno, Rv. 270621; Sez. 1, n. 53622 del 27/09/2017, Confl. comp. in proc. Ene, Rv. 271910-01), che ha individuato, nella specie, la competenza del giudice per le indagini preliminari. In tale ottica ermeneutica, la decisione in esame evidenzia che l’istituto della sospensione del processo con messa alla prova è qualificato, anche in sede dottrinale, come procedimento speciale “consensuale”, al pari del rito abbreviato e del c.d. patteggiamento e che la disciplina dettata nel caso di esito negativo della prova – revoca della sospensione e ripresa del procedimento dal momento in cui era stato sospeso – dimostra come il giudice competente sulla istanza debba essere il giudice cui la stessa è presentata ed avanti al quale il procedimento, in caso di esito negativo e revoca della sospensione, deve riprendere, e dunque, nella specie, il giudice per le indagini preliminari che aveva emesso il decreto penale e avanti al quale doveva essere proposta l’opposizione, ai sensi dell’art. 461 cod. proc. pen. 

Invero, in caso di revoca dell’ordinanza di sospensione del procedimento, il giudice dovrà compiere la specifica attività processuale conseguente all’atto di opposizione, ossia l’emissione del decreto di giudizio immediato ovvero la fissazione dell’udienza in camera di consiglio in caso di richiesta, subordinata a quella ex art. 464-bis cod. proc. pen., di riti alternativi. Non v’è dubbio che tale attività processuale, osserva la Corte, non possa che essere compiuta dal giudice individuato in via funzionale dall’art. 461 cod. proc. pen., e cioè il giudice per le indagini preliminari che aveva emesso il decreto penale opposto.

Non ultimo, la Corte rimarca come la diversa interpretazione normativa potrebbe determinare un ulteriore caso di incompatibilità, in quanto il giudice del dibattimento diverrebbe il medesimo giudice che ha previamente valutato in modo negativo l’esito della prova; profilo di incompatibilità che certamente non ricorrerebbe seguendo l’interpretazione accolta.

Peculiare è, in tale cornice ermeneutica, il caso di specie oggetto di Sez. 1, n. 23700 del 23/01/2018, confl. comp. in proc. Verde, Rv. 273111. La decisione ha affermato che «sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova ex art. 464-bis cod. proc. pen., riproposta ai sensi del comma 9 della medesima disposizione dopo che la precedente istanza avanzata in sede di opposizione a decreto penale di condanna è stata dichiarata inammissibile dal giudice per le indagini preliminari, è competente a decidere il giudice del dibattimento».

La soluzione così raggiunta non si pone in contrasto con i principi ispiratori dell’ormai consolidato orientamento sopra esaminato trattando della sentenza n. 7909 del 2018, i quali, anzi, vengono espressamente richiamati dalla decisione in esame; osserva, nondimeno, il Collegio che, nel caso di specie, il g.i.p. non poteva essere chiamato ad assumere alcuna decisione in relazione alla richiesta di sospensione del processo con messa alla prova, essendo stata la relativa istanza già delibata dal medesimo giudice, il quale l’aveva dichiarata inammissibile per difetto di legittimazione del difensore proponente, privo di procura speciale per la formulazione della richiesta in questione. Pertanto, secondo la Corte, il giudizio conseguente alla accertata inammissibilità dell’istanza di sospensione del processo non poteva che celebrarsi, conformemente alla richiesta formulata in sede di opposizione al decreto penale, nelle forme del giudizio immediato e, dunque, davanti al Tribunale in composizione monocratica; allo stesso organo giudicante compete, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 9, cod. proc. pen., la delibazione della nuova istanza di sospensione eventualmente riproposta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.

Va, infine, segnalato, per la sua peculiarità, il caso deciso da Sez. 3, n. 6748 del 16/01/2018, Brandoni, Rv. 272815: il tribunale, dopo aver dichiarato la nullità del decreto penale di condanna opposto, perché mancante dell’avviso all’ingiunto della possibilità di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, e dopo aver disposto la restituzione degli atti al g.i.p., una volta ricevuti nuovamente gli atti da quest’ultimo sulla base della ritenuta abnormità di tale provvedimento di restituzione, aveva revocato la propria precedente ordinanza di nullità ed aveva rimesso in termini l’imputato per la richiesta, rifissando il processo. La Corte ha dichiarato l’abnormità di tale ultimo provvedimento di revoca della precedente ordinanza da parte del tribunale, ritenendo che, con la trasmissione degli atti al g.i.p., il giudice si spoglia definitivamente del processo ed è, quindi, privo di ogni potere di decisione su quel procedimento.

4. (segue). Poteri di riqualificazione giuridica del fatto da parte del giudice.

Con specifico riguardo al tema della modifica, da parte del giudice, della qualificazione giuridica attribuita al fatto dall’accusa, Sez. 4, n. 36752 del 08/05/2018, Nenna Rv. 273804, ha inteso dare continuità al principio secondo cui, in caso di richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, il giudice è tenuto a verificare la correttezza della qualificazione giuridica attribuita al fatto dall’accusa e può – ove la ritenga non corretta – modificarla, traendone i conseguenti effetti sul piano della ricorrenza o meno dei presupposti dell’istituto in questione.

Sulla base di tale impostazione ermeneutica, la Corte, in un procedimento in cui l’imputato era stato condannato in primo grado per un reato che non consentiva la misura della messa alla prova, mentre in appello il fatto era stato riqualificato in un reato che la avrebbe consentita, ha ritenuto immune da censure il provvedimento con cui la Corte d’appello aveva respinto l’istanza di restituzione in termini avanzata per accedere al beneficio, sul rilievo che l’imputato avrebbe dovuto richiederne l’applicazione al giudice di primo grado, nel termine di cui all’art. 464-bis cod. proc. pen., previa riqualificazione del reato in contestazione.

In tale prospettiva, l’indagine sistematica svolta dalla Corte nel pervenire alla decisione ha condotto il Collegio ad operare un accostamento fra il provvedimento che decide sulla sospensione per messa alla prova e la sentenza di patteggiamento, ovvero una decisione allo stato degli atti che contiene l’accertamento dell’assenza di taluna delle cause di non punibilità di cui all’art. 129 cod. proc. pen.; orizzonte nel quale «si pone anche l’eventuale derubricazione del reato, incontestabilmente nei poteri-doveri del giudice, al quale incombe l’obbligo di verificare la correttezza della qualificazione giuridica del fatto (ex multis, Sez. 2, n. 6859 del 21/01/2015 – dep. 17/02/2015, P.g, in proc. Corvi, Rv. 262573)».

Ulteriore accostamento viene operato, da parte della decisione in esame, all’istituto dell’oblazione, in relazione al quale le Sezioni Unite, con la sentenza Tamborrino (Sez. Un. n. 32351 del 26/06/2014, Rv. 259925), hanno affermato che, nel caso di contestazione di un reato per il quale non è consentita l’oblazione ai sensi degli artt. 162 o 162-bis cod. pen., l’imputato, qualora ritenga che il fatto possa essere diversamente qualificato in un reato che ammetta l’oblazione, ha l’onere di sollecitare il giudice alla riqualificazione del fatto e, contestualmente, a formulare istanza di oblazione, con la conseguenza che, in mancanza di tale espressa richiesta, il diritto a fruire dell’oblazione stessa resta precluso ove il giudice provveda di ufficio ex art. 521 cod. proc. pen., con la sentenza che definisce il giudizio, ad assegnare al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l’applicazione del beneficio.

5. (segue). Il programma di trattamento.

In tema di modifica o integrazione del programma di trattamento, Sez. 3, n. 16711 del 16/02/2018, Petraglia, Rv. 272556, muovendo dal riferimento all’art. 464-quater, comma 4, cod. proc. pen., secondo cui «Il giudice, anche sulla base delle informazioni acquisite ai sensi del comma 5 dell’art. 464-bis, e ai fini di cui al comma 3 del presente art. può integrare o modificare il programma di trattamento, con il consenso dell’imputato», ha ritenuto illegittimo il provvedimento con cui il giudice, in assenza dell’imputato, modifichi il programma di trattamento elaborato ai sensi dell’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen. con il consenso del sostituto processuale del difensore di fiducia, sprovvisto di procura speciale. dovendosi ritenere applicabile, anche per ciò che concerne il “consenso” previsto dalla disposizione in esame, la previsione, valevole in generale per la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, di cui all’art. 464-bis, comma 3, cod. proc. pen., a tenore della quale la volontà dell’imputato è espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione è autenticata nelle forme previste dall’art. 583, comma 3.

6. (segue). Revoca dell’ordinanza.

È noto che l’art. 168-quater cod. pen., prevede che la sospensione del procedimento con messa alla prova sia revocata in tre ipotesi, e precisamente nel caso di grave e reiterata violazione del programma o delle prescrizioni imposte; in caso di rifiuto della prestazione del lavoro di pubblica utilità; in caso di commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo delitto non colposo o di un reato della stessa indole di quello per cui si procede. Mentre le prime due cause di revoca, entrambe previste dal n. 1 dell’art. 168-quater cit., hanno una natura eminentemente endoprocedimentale, presupponendo la violazione dei contenuti precettivi dello specifico sub-procedimento di messa alla prova (onde, fra l’altro, è legittima la revoca dell’ordinanza di sospensione fondata sull’inottemperanza alle sole prescrizioni relative ai profili risarcitori: Sez. 6, n. 7909 del 09/02/2018, D. G., Rv. 272236), l’ultima ipotesi di revoca, contemplata dal n. 2 della medesima norma, dipende da una condotta esterna al sub-procedimento, che determina l’avvio di un autonomo e separato procedimento penale.

In altri termini, la “commissione” dell’ulteriore fatto reato costituisce, ad un tempo, causa di revoca della messa alla prova e notitia criminis idonea a determinare la genesi di un iter processuale autonomo, suscettibile di sfociare in una sentenza di condanna.

In subiecta materia, il più recente intervento nomofilattico della Suprema Corte (in particolare, Sez. 6, n. 28826 del 23/02/2018, Farioli, Rv. 273654 e Rv. 273655) si è soffermato su due specifiche questioni interpretative: la prima è consistita nel verificare se, con riguardo all’ipotesi contemplata dal n. 2 del comma primo dell’art. 168-quater sia o meno necessario che la “commissione” di un delitto non colposo ovvero di un reato della stessa indole di quello per cui si procede sia stata accertata con sentenza di condanna definitiva; la seconda ha richiesto di accertare se, in generale, la revoca della sospensione del procedimento con messa alla prova costituisca conseguenza automatica in presenza delle condotte previste dall’art. 168-quater, comma 1, cod. pen. ovvero se sia rimessa alla valutazione discrezionale del giudice.

Quanto al primo profilo, la Sesta Sezione ha, innanzitutto, escluso che, ai fini della revoca della sospensione del procedimento con messa alla prova per commissione di un reato, ai sensi dell’art. 168-quater, comma 1, n. 2, cod. pen., il giudice del sub-procedimento di messa alla prova debba attendere il passaggio in giudicato della sentenza che definisca il procedimento relativo a detto reato. (nel medesimo senso, va registrata anche Sez. 4, n. 22066 del 06/04/2018, Polesello, Rv. 273404, in cui si afferma che «il giudice può valutare anche un procedimento penale in corso, in quanto, ove la violazione di obblighi sia costitutiva di un’ipotesi di reato, possono essere apprezzati i fatti storicamente accertati anche se non sia stata ancora pronunciata una sentenza definitiva»).

In tal senso, la decisione n. 28826 del 2018 ha evidenziato l’autonomia del giudice del sub-procedimento di messa alla prova nel valutare la ricorrenza della causa di revoca della sospensione collegata alla “commissione” di un altro reato, osservando che la tesi rigettata a) risulta palesemente extra testuale, poiché il legislatore ha espressamente collegato la revoca della sospensione alla mera “commissione” di un fatto criminoso in pendenza della prova e non alla “condanna” per detto ulteriore fatto criminoso; b) risulta «sistematicamente incoerente» in quanto contrasta con la disciplina dell’istituto, la quale è rivolta a rafforzare la natura special-preventiva e premiale dell’istituto, demandando al giudice del sub-procedimento di messa alla prova «di valutare in itinere tutti quei comportamenti (trasgressioni alle prescrizioni, inosservanza dell’impegno di svolgere il lavoro di pubblica utilità e, quindi, anche condotte costituenti reato) che rendano l’interessato non più meritevole di proseguire il percorso alternativo alla detenzione avviato e di beneficiare dell’effetto estintivo del reato»; c) sul piano dei meccanismi processuali, la sentenza irrevocabile sul nuovo fatto reato non potrebbe che intervenire dopo la conclusione della prova, «finendo per depotenziare l’effetto dissuasivo della disposizione dell’art. 168-quater cod. pen. nonché per incentivare condotte processuali dilatorie nel procedimento parallelo proprio per ritardare il formarsi del presupposto processuale della revoca. Ed invero, il codice penale e il codice di rito non prevedono che il sub-procedimento di sospensione del procedimento per messa alla prova sia – a sua volta – sospeso in attesa della conclusione del processo per il reato tale da comportare la revoca della sospensione, né – tantomeno – regolano la sorte della sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato che sia stata medio tempore pronunciata ex art. 464-septies, comma 1, cod. proc. pen.; in particolare, non ne contemplano la revoca in caso di successivo sopravvenire della sentenza irrevocabile di condanna per il reato commesso durante la sottoposizione alla prova».

Fissati tali principi sul piano ermeneutico, la Corte si preoccupa, altresì, di esorcizzare o, quantomeno, circoscrivere il rischio di irragionevoli decisioni contrastanti sul medesimo fatto, rese, sia pur a diversi fini, nel sub-procedimento ed in quello “principale” avente ad oggetto l’accertamento dello fatto reato de quo: rischio derivante dal fatto che le norme del codice penale e del codice di rito in tema di messa alla prova non prevedono, in caso di assoluzione (magari intervenuta a distanza di anni) in ordine al fatto reato integrante causa di revoca ex art. 168-quater cod. pen., la “revoca della revoca” della sospensione e nemmeno, in ipotesi, la revoca della sentenza irrevocabile nel frattempo intervenuta nel procedimento sospeso e poi riavviato.

In tale prospettiva, la decisione afferma (il relativo principio si trova massimato sub Rv. 273654) la necessità, per il giudice del sub-procedimento, di verificare che la commissione del fatto reato «sia provata in termini di elevata probabilità, attraverso una delibazione della serietà dell’ipotesi accusatoria compiuta sulla scorta di una solida base cognitiva, avuto riguardo, qualora il nuovo fatto-reato costituisca ancora una semplice notitia criminis, alla documentazione allegata alla richiesta di revoca o prodotta dalle parti, agli elementi ed alle argomentazioni offerti nel corso dell’udienza ex art. 464-octies, cod. proc. pen. ed alle eventuali dichiarazioni rese dall’interessato; qualora, invece, nel giudizio di merito su detto reato siano intervenute decisioni – quali la sentenza di primo grado, il decreto dispositivo del giudizio o provvedimenti cautelari “irrevocabili” – il giudice non può prescindere da tali delibazioni compiute nell’autonomo procedimento nel contraddittorio delle parti».

Quanto alla seconda questione esaminata, la sentenza n. 28826 del 2018 ha affermato (principio massimato sub Rv. 273655) che «il giudice è titolare di uno spazio di discrezionalità, limitato al solo apprezzamento dei presupposti di legge, che gli impone uno specifico onere di motivazione dell’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 464-octies cod. proc. pen., censurabile in sede di ricorso per cassazione. (In motivazione, la Corte ha affermato che il giudice, una volta accertati i presupposti di una delle ipotesi di revoca previste dall’art. 168-quater cod. pen., non può compiere alcuna valutazione in ordine alla possibilità di proseguire comunque la prova)».

La Corte, dunque, prende consapevolmente le distanze dall’impostazione adottata da parte della dottrina, la quale, muovendo dalla considerazione della ratio dell’istituto, essenzialmente rivolta al recupero sociale dell’imputato, e valorizzando gli aspetti di omogeneità con la disciplina in materia di revoca delle misure alternative alla detenzione, conclude che la revoca della sospensione del procedimento dovrebbe sempre essere il frutto di una valutazione discrezionale di opportunità da parte del giudice.

Contro la tesi in esame, avverte la Corte, militano plurime argomentazioni; in primo luogo, quella fondata sulla lettera della norma (l’art. 168-quater cod. pen. prevede che la sospensione del procedimento con messa alla prova «è revocata»), la cui formulazione è chiaramente indicativa del nesso di conseguenzialità fra revoca della sospensione del procedimento e mero riscontro giurisdizionale delle situazioni-presupposto normativizzate, e risulta, per converso, refrattaria al riconoscimento di spazi valutativi discrezionali circa la possibilità di prosecuzione della prova nonostante il ricorrere di un’ipotesi di revoca.

Neppure una diversa soluzione appare autorizzata dal richiamato parallelismo con la disciplina in tema di misure alternative ed, in particolare, di affidamento in prova ex art. 47 ord. pen., a tenore del quale la revoca è espressamente subordinata alla verifica che «il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova» (v., sul punto, Sez. 1, n. 27713 del 06/06/2013, Guerrieri, Rv. 256367).

Né ancora, osserva la Corte, sarebbe possibile attingere ad una diversa conclusione in ragione della previsione del contraddittorio camerale previsto dall’art. 464-octies cod. proc. pen., atteso che esso è espressamente rivolto all’unico scopo di consentire la valutazione dei «presupposti della revoca», cosa ben diversa dalla (non prevista) valutazione discrezionale del giudice sull’opportunità di non disporre la revoca del procedimento nonostante la accertata sussistenza dei suoi presupposti.

7. (segue). La ripresa del processo successiva alla revoca.

La disciplina che presiede all’evolversi del procedimento nell’ipotesi di esito negativo della prova e di revoca dell’ordinanza di ammissione è contenuta rispettivamente nell’art. 464-septies, comma 2, cod. proc. pen., secondo cui «in caso di esito negativo della prova, il giudice dispone con ordinanza che il processo riprenda il suo corso» e nell’art. 464-octies, comma 4, stesso codice, il quale prevede che «quando l’ordinanza di revoca è divenuta definitiva, il procedimento riprende il suo corso dal momento in cui è rimasto sospeso e cessa l’esecuzione delle prescrizioni e degli obblighi imposti».

In entrambe le ipotesi, dunque, la ripresa del corso del procedimento avviene dal momento in cui era precedentemente intervenuta la sua sospensione. Di qui la necessità di focalizzare l’esatta fase processuale in cui si trovava il procedimento nel momento in cui la sospensione era conseguita all’avvenuta ammissione alla messa alla prova.

Un’ipotesi controversa, in tale ottica, riguarda il caso di richiesta formulata nel corso delle indagini preliminari, con la correlativa formulazione dell’imputazione da parte del pubblico ministero unitamente alla prestazione del consenso (art. 464-ter, comma 2, cod. proc. pen.). La questione nodale risiede, in particolare, nello stabilire se tale formulazione dell’imputazione costituisca o meno esercizio dell’azione penale: qualora, infatti, si ritenga, muovendo da un’interpretazione puramente testuale dell’art. 405 cod. proc. pen., che non contempla fra le ipotesi di esercizio dell’azione penale quella prevista dal titolo V-bis del codice di rito, che l’imputazione formulata ai fini che qui occupano non costituisca esercizio dell’azione penale, la fase procedimentale nella quale il processo viene sospeso in caso di ammissione, e dalla quale deve riprendere in caso di esito negativo della prova o di revoca dell’ammissione, sarebbe quella precedente l’esercizio dell’azione penale.

All’opposto, laddove si ritenga che la formulazione dell’imputazione anche in forza dell’art. 464-ter, comma 3, cod. proc. pen. costituisca forma di esercizio dell’azione penale, il processo non potrebbe, in alcun caso, regredire alla fase delle indagini preliminari.

La seconda opzione interpretativa è stata accolta da Sez. 4, n. 29093 del 11/04/2018,

P.m. in proc. Statile, Rv. 273721, secondo la quale «l’imputazione formulata dal Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 464-ter, comma 3, cod. proc. pen. ha la stessa natura di esercizio dell’azione penale di quella previsa dall’art. 405 cod. proc. pen.; pertanto laddove il giudice revochi l’ordinanza di messa alla prova ammessa nel corso delle indagini preliminari, deve disporre, ai sensi dell’art. 464-octies, comma 4, cod. proc. pen., che il procedimento riprenda dal momento in cui era rimasto sospeso, non potendo regredire ad una fase antecedente con restituzione degli atti al P.M. il quale ha già esercitato l’azione penale. (Nella fattispecie la Corte di Cassazione ha ritenuto abnorme il provvedimento del giudice per le indagini preliminari che revocando l’ordinanza di ammissione della messa alla prova, aveva disposto la restituzione degli atti al Pubblico Ministero per l’esercizio dell’azione penale)».

A sostegno delle conclusioni così raggiunte, la Corte ha fatto leva su una lettura sistematica del quadro normativo, soffermandosi in particolare sul rilievo che «l’istituto della messa alla prova introduce una causa di proscioglimento per estinzione del reato su cui, tuttavia, prevalgono tutte le altre cause di proscioglimento, come si trae, da un lato, dalla lettera del primo comma dell’art. 464-quater cod. proc. pen., che stabilisce che il giudice, nel corso dell’udienza, prima di provvedere deve verificare la sussistenza di cause di proscioglimento a norma dell’art. 129 cod. proc. pen.. Dall’altro dal disposto dell’art. 464-sexies cod. proc. pen. che impone al giudice, con le modalità stabilite per il dibattimento, di acquisire le prove non rinviabili che possono condurre al proscioglimento dell’imputato».

Tale disciplina, si annota, non risulta espressamente esclusa nell’ipotesi di sospensione per messa alla prova richiesta nel corso delle indagini preliminari e, del resto, opinando diversamente si introdurrebbe una «diseguaglianza, collegata solo al momento in cui interviene la richiesta della stessa misura, la cui positiva prestazione comporta in entrambi i casi l’estinzione del reato, ma che in caso di revoca favorisce nell’acquisizione della prova solo colui che abbia formulato l’istanza ai sensi dell’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., escludendo colui che l’abbia formulata ai sensi dell’art. 464 ter cod. proc. pen.». D’altro canto, se si ritiene che l’art. 464-sexies cod. proc. pen. si applichi in entrambi i casi, va altresì osservato che la norma si riferisce al proscioglimento “dell’imputato”, equiparando, dunque, l’esercizio dell’azione penale di cui all’art. 405 cod. proc. pen., e la formulazione dell’imputazione ex art. 464-ter citato.

8. (segue). Rapporti con il giudizio abbreviato.

In tema di rapporti fra sospensione del procedimento con messa alla prova e giudizio abbreviato, va registrato che Sez. 5, n. 9398 del 21/12/2017, Elfdili e altro, Rv. 272570, nel dare continuità al principio già enunciato da Sez. 2, n. 36672 del 05/07/2017, Marcias, Rv. 271492 – 01, ha affermato che la richiesta di giudizio abbreviato è alternativa all’istanza di sospensione del procedimento per messa alla prova, sicché, una volta che la prima sia stata formulata, la seconda deve ritenersi tardiva se presentata al momento dell’udienza fissata per la discussione.

In particolare, la Corte ha rilevato che, nella specie, la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova era stata proposta tardivamente, avendo gli imputati dapprima richiesto la trasformazione del rito direttissimo ai sensi dell’art. 452, comma 2, cod. proc. pen., e la prosecuzione del giudizio con le forme del rito abbreviato, e solo successivamente, all’udienza fissata per la discussione, richiesto la sospensione del procedimento. In tale quadro ricostruttivo, il Collegio ha richiamato il precedente costituito da Sez. 6, n. 22545 del 28/03/2017, Fawzi, Rv. 269770, per argomentare che «la connotazione di rito alternativo assegnata all’istituto di cui all’art. 168-bis cod. pen., e la sostanziale analogia tra i termini finali della richiesta di sospensione con messa alla prova e quelli entro i quali può essere avanzata la richiesta ex art. 438 cod. proc. pen., precludono, in assenza di una espressa previsione di convertibilità dell’un rito nell’altro, la possibilità di coltivare o ripercorrere altre strade di definizione alternativa del giudizio».

Una coerente declinazione dei medesimi principi viene operata, altresì, da Sez. 4, n. 42469 del 03/07/2018, F., Rv. 273930, così massimata: «In tema di riti speciali, deve escludersi che, una volta celebrato il giudizio di primo grado nelle forme del rito abbreviato, l’imputato possa dedurre, in sede di appello, il carattere ingiustificato del diniego, da parte del giudice di primo grado, della richiesta di sospensione con messa alla prova. (In motivazione, la Corte ha osservato che la connotazione di rito alternativo assegnata all’istituto di cui all’art. 168-bis cod. pen., e la sostanziale analogia tra i termini finali della richiesta di sospensione con messa alla prova e quelli entro i quali può essere avanzata la richiesta ex art. 438 cod. proc. pen., precludono, in assenza di una espressa previsione di convertibilità dell’un rito nell’altro, la possibilità di coltivare o ripercorrere altre strade di definizione alternativa del giudizio)».

La medesima premessa concettuale costituita dal dictum della sentenza n. 22545 del 2017 viene, invece, richiamata in senso critico, da Sez. 3, n. 29622 del 15/02/2018, Capo-grossi, Rv. 273174, la quale ha statuito che «la celebrazione del giudizio di primo grado nelle forme del rito abbreviato non preclude all’imputato la possibilità di dedurre, in sede di appello, il carattere ingiustificato del diniego, da parte del giudice di primo grado, della richiesta di sospensione con messa alla prova».

In tale prospettiva, la decisione in esame ha osservato che il ritenere del tutto preclusa, una volta richiesto ed ammesso il rito abbreviato, la possibilità di coltivare o ripercorrere altre strade di definizione alternativa del giudizio secondo il principio electa una via, non datur recursus ad alteram, già applicato dalla giurisprudenza al tema dei rapporti tra giudizio abbreviato e patteggiamento (cfr. Sez. 1, n. 15451 del 25/03/2010, Soldano, Rv. 246939; da ultimo, Sez. 3, n. 21456 del 29/01/2015, Dorre, Rv. 263747) condurrebbe ad una compressione ingiustificata del diritto dell’imputato ad avvalersi dei riti alternativi, e, con esso del diritto di difesa costituzionalmente garantito ex art. 24 Cost., (cfr. C. cost., sentenza n. 237 del 2012).

Né risulterebbe convincente, in una simile dimensione ermeneutica, l’argomento fondato sulla equiparazione della preclusione in esame a quella già formulata dalla giurisprudenza in relazione al tema dei rapporti tra giudizio abbreviato e patteggiamento; la stessa, invero, ad avviso della Corte trascurerebbe di considerare la peculiare funzione dell’istituto della sospensione per messa alla prova «che, in quanto speciale causa di estinzione del reato, si pone come alternativa a ogni tipo di giudizio di merito, ivi compreso quello effettuato nelle forme del giudizio abbreviato e risultando pregiudicato, in assenza di una specifica previsione, tale diritto dall’affermazione della preclusione in discorso»; ciò a fortiori alla luce del rilievo che «la richiesta di sospensione del processo funzionale alla messa alla prova in vista dell’eventuale estinzione del reato assume valenza prioritaria, non suscettibile neppure di revoca implicita per effetto della richiesta di ammissione al rito abbreviato, da intendersi necessariamente effettuata con riserva».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 15451 del 25/03/2010, Soldano, Rv. 246939 Sez. 1, n. 27713 del 06/06/2013, Guerrieri, Rv. 256367 Sez. U, n. 32351 del 26/06/2014, Tamborrino, Rv. 259925 Sez. 2, n. 6859 del 21/01/2015, Corvi, Rv. 262573 Sez. 3, n. 21456 del 29/01/2015, Dorre, Rv. 263747 Sez. 1, n. 25867 del 3/02/2016, confl. comp. in proc. Greco, Rv. 267062 Sez. 1, n. 21324 del 2/02/2017, Pini, Rv. 270011 Sez. U, n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238 Sez. 6, n. 22545 del 28/03/2017, Fawzi, Rv. 269770 Sez. 1, n. 30721 del 5/06/2017, Saraceno, Rv. 270621 Sez. 2, n. 36672 del 5/07/2017, Marcias, Rv. 271492 Sez. 1, n. 53622 del 27/09/2017, confl. comp. in proc. Ene, Rv. 271910 Sez. 1, n. 7955 del 07/12/2017 – dep. 2018 –, Cafiero, Rv. 272409 Sez. 7, n. 1025 del 14/12/2017 – dep. 2018 –, Brentan Rv. 272243 Sez. 5, n. 9398 del 21/12/2017, Elfdili e altro, Rv. 272570 Sez. 3, n. 6748 del 16/01/2018, Brandoni, Rv. 272815 Sez. 1, n. 23700 del 23/01/2018, Verde, Rv. 273111 Sez. 6, n. 7909 del 09/02/2018, D. G., Rv. 272236 Sez. 3, n. 29622 del 15/02/2018, Capogrossi, Rv. 273174 Sez. 3, n. 16711 del 16/02/2018, Petraglia, Rv. 272556 Sez. 6, n. 28826 del 23/02/2018, Farioli, Rv. 273654-655 Sez. 4, n. 24086 del 28/02/2018, Rizzo, Rv. 273402 Sez. 4, n. 22066 del 06/04/2018, Polesello, Rv. 273404 Sez. 4, n. 29093 del 11/04/2018, Statile, Rv. 273721 Sez. 4, n. 36752 del 08/05/2018, Nenna Rv. 273804 Sez. 4, n. 42469 del 03/07/2018, F., Rv. 273930

SEZIONE IV REATI DEL CODICE PENALE

  • reato
  • codice penale

CAPITOLO I

I DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA

(di Maria Cristina Amoroso )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il caso deciso dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 40256 del 19/07/2018, dep. 10/9/2018, Felughi, Rv. 27393601. - 2.1 Il quadro normativo di riferimento. - 2.2 La questione controversa. - 2.1.1 L’indirizzo che sostiene l’avvenuta depenalizzazione della condotta di falsificazione dell’assegno bancario avente clausola di non trasferibilità. - 2.2.2 La rilevanza penale della condotta di falsificazione dell’assegno bancario munito di clausola di non trasferibilità. - 2.3 L’ordinanza di rimessione. - 2.4 La soluzione adottata dalle Sezioni Unite. - 2.5 Le pronunce successive. - 3 La rimessione alle Sezioni Unite in tema di falsa copia di atto pubblico inesistente. (Sez. 5, ord. n. 54689 del 21/11/2018, Marcis). - 4 La rimessione alle Sezioni Unite sulla possibilità per il giudice di ritenere in sentenza la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico ex art. 476, comma secondo, cod. pen. in mancanza di una esplicita contestazione nel capo d’imputazione della natura fidefacente dell’atto (Sez. 5, ord. del 4/12/2018, Sorge). - 4.1 I termini del contrasto. La tesi minoritaria. - 4.2 La tesi maggioritaria. - 4.2.1 La giurisprudenza evocata dalla tesi maggioritaria. - 5 La rimessione alle Sezioni Unite sulla configurabilità del reato di cui all’art. 480 cod. pen. nelle ipotesi in cui, essendo stati indicati in maniera veritiera i presupposti di fatto, l’autorizzazione è stata concessa all’esito di un falso giudizio di conformità ai parametri previsti dalla normativa di settore (Sez. 5, ord. del 11/12/2018, De Salvo ed altro). - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

In materia di delitti contro la fede pubblica, nell’anno in commento è stato più volte richiesto l’intervento dell’Alto Consesso.

In primo luogo va segnalata la decisione delle Sezioni Unite n. 40256 del 19/07/2018 – dep. 2018 –, Felughi, Rv. 27393601, in merito alla questione, di notevole impatto pratico, inerente la rilevanza penale della condotta di falsificazione dell’assegno munito di clausola di non trasferibilità a seguito dell’abrogazione dell’art. 485 cod. pen. e della nuova formulazione dell’art. 491 cod. pen. ad opera del d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 7.

Attualmente sono state altresì rimesse alle Sezioni Unite tre ulteriori questioni: la prima in tema di falsa copia di atto pubblico inesistente (Sez. 5, ord. n. 54689 del 2018, Marcis); la seconda in ordine alla possibilità per il giudice di ritenere in sentenza la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico ex art. 476, comma secondo cod. pen., in mancanza di una esplicita contestazione nel capo d’imputazione della natura fidefacente dell’atto (Ord. n. 3216 del 4/12/2018, Sorge); la terza sulla configurabilità della fattispecie di cui all’art. 480 cod. pen. nelle ipotesi in cui, essendo stati indicati in maniera veritiera i presupposti di fatto, l’autorizzazione è stata concessa all’esito di un falso giudizio di conformità ai parametri previsti dalla normativa di settore (Sez. 5, ord. 11/12/2018, De Salvo ed altro).

2. Il caso deciso dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 40256 del 19/07/2018, dep. 10/9/2018, Felughi, Rv. 27393601.

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 40256 del 19/07/2018, Felughi, Rv. 27393601 hanno affermato il principio di diritto così massimato: “In tema di falso in scrittura privata, a seguito dell’abrogazione dell’art. 485 cod. pen. e della nuova formulazione dell’art. 491 cod. pen. ad opera del d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 7, la condotta di falsificazione dell’assegno bancario avente clausola di non trasferibilità integra un illecito civile, mentre permane la rilevanza penale dei falsi in titoli di credito trasmissibili per girata”.

La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite dalla Seconda Sezione penale che ha ravvisato un contrasto giurisprudenziale sulla portata della depenalizzazione del fatto punito dall’art. 485 cod. pen. e sulla persistenza della rilevanza penale della falsificazione dell’assegno bancario munito della clausola di non trasferibilità a seguito dell’intervento del d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 7 che ha riformulato la previsione di cui all’art. 491 cod. pen. 

2.1. Il quadro normativo di riferimento.

Il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, in attuazione della delega in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio di cui all’art. 2, comma 3, l. 28 aprile 2014, n. 67, applicabile ai sensi dell’art. 12 anche a fatti commessi anteriormente, ha disposto con l’art. 1, lett. a) e b) l’abrogazione dei delitti codicistici di falsità in scrittura privata di cui all’art. 485, e di falsità di foglio firmato in bianco di cui all’art. 486, la disposizione è entrata in vigore il 6 febbraio 2016.

Con l’art. 2 sono state modificate le disposizioni collegate, in maniera diretta o indiretta, a quelle abrogate.

Si è provveduto ad adattare il testo degli art. 488, 489, 490 cod. pen. eliminando il riferimento alle scritture private diverse da quelle di cui all’art. 491 cod. pen. ed a rimodulare i rinvii alle disposizioni vigenti.

In conseguenza della soppressione dell’art. 485, è stato abrogato il secondo comma dell’art. 489 cod. pen., avente ad oggetto l’ipotesi di uso di atto falso in scrittura privata, da parte di chi non sia concorso nella falsità; l’ipotesi particolare dell’uso di testamento olografo o di cambiale o titolo di credito falso, da parte di chi non sia concorso nella falsità, è invece presa in considerazione dall’art. 491, comma 2, cod. pen.

Il riferimento alla scrittura privata vera, contenuto nell’art. 490, è stato sostituito dal richiamo al testamento olografo o alla cambiale o titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore, in aggiunta al dolo specifico contemplato dall’art. 489, comma 2 (in origine applicabile in virtù dell’art. 490, comma 2, cod. proc. pen.).

Il secondo comma dell’art. 490, che per effetto della riformulazione degli artt. 490 e 491, divenuto privo di autonoma funzionalità in rapporto alle falsità in scritture private eccettuate dalla depenalizzazione, è stato abrogato, ed allo stesso modo è stato eliminato dalla formulazione dell’art. 491-bis il riferimento ai documenti informatici privati aventi efficacia probatoria.

Inoltre, nell’art. 493-bis (Casi di perseguibilità a querela) è stato eliminato il riferimento agli articoli abrogati, con conseguente limitazione del campo di applicazione alle sole disposizioni aventi ad oggetto condotte incidenti su un testamento olografo o su una cambiale o titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore (artt. 490 e 491), prevedendo per il primo caso la procedibilità d’ufficio, e per il secondo la punibilità a querela della persona offesa.

L’art. 491 cod. pen., rubricato “falsità in testamento olografo, cambiale o titoli di credito”, quindi, nella sua nuova formulazione prevede: «Se alcuna delle falsità prevedute dagli articoli precedenti riguarda un testamento olografo, ovvero una cambiale o un altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore e il fatto è commesso al fine di recare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, si applicano le pene rispettivamente stabilite nella prima parte dell’art. 476 e nell’art. 482 cod. pen. Nel caso di contraffazione o alterazione degli atti di cui al primo comma, chi ne fa uso, senza essere concorso nella falsità, soggiace alla pena stabilita nell’art. 489 per l’uso di atto pubblico falso».

Il nuovo articolo, al primo comma, richiede che il fatto sia commesso “al fine di recare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno” riproponendo il dolo specifico richiesto nel sistema previgente dall’art. 485 cod. pen., con indicazione delle medesime finalità che la prevalente dottrina, e la giurisprudenza hanno da sempre considerato alternative.

La norma conferma il trattamento sanzionatorio originario, ossia l’applicabilità delle pene rispettivamente stabilite nella prima parte dell’art. 476 e nell’art. 482 cod. pen., a seconda che il fatto sia commesso dal pubblico ufficiale oppure da un soggetto privato; il secondo comma, invece, prevede la disciplina applicabile al soggetto che, non avendo preso parte alla falsificazione, faccia uso degli atti suddetti, rinviando, quod poenam, alla previsione di cui all’art. 489 cod. pen. “uso di atto pubblico falso”.

2.2. La questione controversa.

L’intervenuta abrogazione dell’art. 485 cod. pen. e l’introduzione della nuova fattispecie di cui all’art. 491 cod. pen. che, al pari della sua vecchia formulazione, fa riferimento ai “titoli di credito trasmissibili tramite girata o al portatore” ha posto la necessità di verificare se nella categoria dei titoli di credito trasmissibili tramite girata possano essere inclusi anche gli assegni bancari muniti di clausola “non trasferibile”.

Il tema non è nuovo alla giurisprudenza.

Già agli inizi degli anni settanta, le contrapposte opinioni delle sezioni semplici diedero vita ad un contrasto risolto con la pronuncia delle Sezioni Unite n. 4 del 20/02/1971, Guarracino, Rv. 118012, in cui si affermò la riconducibilità della condotta di falsificazione dell’assegno bancario non trasferibile nella fattispecie di cui all’art. 485 cod. pen., per la quale, al tempo, era intervenuta amnistia.

Nella decisione citata la Corte, dopo aver precisato che l’apposizione della clausola di non trasferibilità non fa perdere ai titoli cui sia apposta la natura di titoli di credito, affermò che la ragione dell’inclusione dei titoli al portatore o trasmissibili tramite girata nell’art. 491 cod. pen. andava rinvenuta non nella loro natura, né nella loro attitudine a circolare illimitatamente (elementi che rimangono immutati anche in presenza della clausola), ma in quegli aspetti del regime di circolazione propri del titolo al portatore o trasmissibili per girata che, per certe caratteristiche comuni, determinavano, rispetto al regime di circolazione dei titoli nominativi, un “più frequente pericolo di falsificazione”. I vantaggi di una circolazione rapidissima e senza inciampi dei titoli al portatore e trasmissibili per girata, si diceva, offrono “agli abusi della mala fede” occasioni di gran lunga più frequenti ed insidiose di quelle offerte dai titoli nominativi per il cui legittimo trasferimento è necessaria la partecipazione del debitore.

Rinvenuta in tale esigenza la ratio dell’art. 491 cod. pen. le Sezioni Unite affermarono che l’apposizione della clausola di non trasferibilità, modificando “in concreto” il regime della circolazione del titolo, faceva venir meno il requisito della maggiore esposizione ai pericoli della falsificazione che giustificava la più rigorosa tutela penale.

Aggiunsero, altresì, che la girata per l’incasso non poteva essere considerata girata in senso tecnico, attesa la sua mancanza di effetti traslativi del diritto inerente al titolo e la natura di semplice mandato a riscuotere (essa veniva definita “girata impropria”); e che considerare riferibile la previsione dell’art. 491 cod. pen. a tutti i titoli di credito in astratto trasmissibili per girata, a prescindere dalla loro concreta circolabilità, avrebbe significato frustrare la ratio dell’inclusione di tali titoli nell’ art. 491 cod. pen. che, come precisato, andava rinvenuta nel loro più frequente pericolo di falsificazione.

2.1.1. L’indirizzo che sostiene l’avvenuta depenalizzazione della condotta di falsificazione dell’assegno bancario avente clausola di non trasferibilità.

Parte della recente giurisprudenza di legittimità sostiene che, a seguito dell’abrogazione dell’art. 485 cod. pen. e della nuova formulazione dell’art. 491 cod. pen. ad opera del d.lgs. n. 7 del 2016, la condotta di falsificazione dell’assegno bancario avente clausola di non trasferibilità, in quanto disciplinata dalla norma depenalizzata, non rientra più tra quelle soggette a sanzione penale; mentre permane la rilevanza penale dei falsi in titoli di credito trasmissibili per girata sussumibili nella nuova previsione dell’art. 491 cod. pen. 

Ritiene di non poter prescindere dalle precise indicazioni fornite dalla sentenza delle Sezioni Unite Guarracino che, sebbene rese in riferimento a un diverso testo normativo e in un contesto in cui la falsità materiale di scrittura privata costituiva reato, erano comunque riferite ad elementi costitutivi della fattispecie tuttora presenti nella nuova disposizione incriminatrice (la nozione di titolo di credito trasmissibili per girata).

Ancora oggi, quindi, la ragione della tutela accordata dall’art. 491 cod. pen. ai titoli di credito al portatore o trasmissibili per girata, va rinvenuta nel “maggiore pericolo di falsificazione” insito nel regime di circolazione proprio di questi titoli rispetto al regime di circolazione dei titoli nominativi; ratio che impone che libera trasferibilità esista in concreto, e che pertanto non si possa prescindere, ai fini dell’applicabilità della norma, dall’esistenza di clausole che ne ostacolino giuridicamente la circolazione.

Sarebbe dunque ancora attuale quanto precisato dalle Sezioni Unite sulla impossibilità di considerare “girata” quella fatta ad un banchiere per l’incasso, attesa la sua natura di semplice mandato a riscuotere privo di effetti traslativi del diritto inerente al titolo.

Il ragionamento svolto nel 1971 dal Supremo Consesso andrebbe, quindi, esteso a tutti gli assegni bancari o postali aventi un importo superiore a € 1.000,00, che, a norma dell’art. 49, comma 5 e 6, d.lgs. n. 231 del 2007, devono obbligatoriamente recare la clausola di non trasferibilità e possono essere girati unicamente per l’incasso a una banca o a Poste Italiane S.p.A. (Sez. 5, n. 3422 del 22/11/2016, dep. 2017, Merolla; Sez. 5, n. 11999 del 17/01/2017, Toma, Rv. 269710; Sez. 5, n. 13047 del 2/2/2017, Benestante; Sez. 5, n. 32972 del 04/04/2017, Valentini, Rv. 27067701; Sez. 7 del 20/11/2017, n. 54647, Luchetti; Sez. 5, n. 57562 del 2/10/2017, Triolo, e in tempi meno recenti Sez. 6, n. 538 del 5/10/1979, dep. 1980, Galante, Rv. 143953; Sez. 2, n. 6942 del 20/11/1981, dep. 1982, Susini, Rv. 154622; Sez. 5, n. 9727 del 3/2/ 2009, Gozzi, Rv. 243019 e Sez. 5, n. 172 del 04/12/2008, dep. 2009, Caputo Rv. 242964, in cui si è affermato che integra il delitto di falso in scrittura privata – e non quello in titoli di credito – l’apposizione di una falsa firma di girata su un assegno già posto all’incasso e protestato, in quanto con il protesto si esaurisce la funzione tipica dell’assegno, venendo così meno la sua capacità di circolazione privilegiata che giustifica la tutela penale rafforzata).

2.2.2. La rilevanza penale della condotta di falsificazione dell’assegno bancario munito di clausola di non trasferibilità.

L’indirizzo opposto sostiene che nonostante l’abrogazione dell’art. 485 cod. pen. e la nuova formulazione dell’art. 491 cod. pen. ad opera del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, la condotta di falsificazione di assegno bancario, anche se dotato di clausola di non trasferibilità, sia ancora penalmente rilevante, in quanto anche tali titoli vanno inclusi nella più ampia categoria di cui all’art. 491 cod. pen. 

Si evidenzia che la relazione illustrativa al decreto di depenalizzazione fa richiamo solo ai documenti di cui all’art. 491 cod. pen. e che non contiene alcuna traccia della distinzione paventata dai fautori della teoria opposta; in ogni caso non vi sarebbero elementi né per ritenere che la girata all’incasso sia una girata impropria, né per ritenere che, se così fosse, la circostanza sarebbe rilevante, posto che, al contrario, il legislatore nel far riferimento ai titoli trasmissibili tramite girata, non distingue in nessun caso la girata propria da quella impropria.

È stato, inoltre, osservato che applicare i principi delle Sezioni Unite del 1971 in uno scenario economico e giuridico profondamente mutato, comporterebbe una serie di paradossi.

In primo luogo la falsificazione di un titolo di credito di importo inferiore a mille euro, e pertanto non dotato ex lege della clausola di non trasferibilità, sarebbe ancora penalmente perseguibile ai sensi del nuovo art. 491 cod. pen., mentre non costituirebbe reato, ma solo illecito civile, la falsificazione apposta su un assegno di importo maggiore. Ciò implicherebbe la non punibilità di una condotta oggettivamente espressione di un maggior disvalore e foriera di un maggior danno economico per le persone offese.

In secondo luogo, poichè ai sensi comma 4 dell’art. 43 del d.lgs. n. 231/2007, citato, è possibile apporre la clausola di non trasferibilità anche su un assegno che al momento della emissione ne fosse privo, in questi casi la sussistenza o meno del reato dipenderebbe dall’iniziativa del suo autore, il quale, per ipotesi, volendo falsificare un assegno di importo inferiore ai mille euro, potrebbe apporre la clausola di non trasferibilità per rendere la sua condotta penalmente irrilevante. (Sez. 2, n. 36670 del 22/6/2017, Milani, Rv 271111; Sez. 2, n. 38815 del 28/4/2017, Girelli; Sez. 2, n. 39093 del 11/7/2017, Grassi; Sez. 2, n. 8063 del 6/12/2017 – dep. 2018 –, D’Avino; Sez. 2, n. 8065 del 17 /1/ 2018, Canistro; Sez. 2, n. 12599 del 24 /11 2017 – dep. 2018 –, Grassi, Rv 272368; Sez. 2, n. 13086 del 01/03/2018, Solla, Rv. 272540).

2.3. L’ordinanza di rimessione.

La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite dalla Seconda sezione della Corte di cassazione, con ordinanza del 7 marzo 2018, n. 20456, depositata il 9 maggio 2018.

Nell’ordinanza i giudici, dopo aver dato dell’esistenza dei contrapposti indirizzi, sottolineano la necessità di considerare che rispetto all’assetto normativo vigente al momento della pronunzia del 20 febbraio 1971, il sistema della circolazione degli assegni bancari è radicalmente mutato e che nell’ esperienza pratica la falsificazione degli assegni “non trasferibili” incide proprio sull’area di maggior impiego dei pagamenti a mezzo assegno bancario, posto che, a partire dal decreto legislativo n. 231 del 2007 (art. 49), l’assegno non trasferibile è diventato la regola, e quello “libero” è stato nel tempo consentito solo per importi soglia via via variabili, e lo è oggi solo per importi inferiori a mille euro.

Il ché comporta che in virtù della loro maggiore diffusione sono proprio gli assegni non trasferibili ad essere maggiormente esposti ai pericoli di falsificazione.

I giudici della Corte, inoltre, invitano a valutare che l’esistenza della clausola non inibisce una concreta di circolabilità di fatto del titolo.

È il caso dell’apposizione di girate irregolari a persona che non sia il banchiere per l’incasso, delle girate in bianco o delle ipotesi, non infrequenti, in cui la condotta di falsificazione consista proprio nella abrasione della clausola di non trasferibilità, che consente al titolo di circolare, o nel modificare il nominativo del prenditore, condotte foriere di gravi conseguenze anche in punto di responsabilità civile per l’istituto bancario che abbia comunque provveduto al pagamento.

Da ultimo si osserva che la tutela penale predisposta dall’art. 491 cod. pen. in relazione alla falsità in titoli di credito ha per oggetto anzitutto la fede pubblica, che rispetto alla norma si pone come interesse primario, ma ha anche come oggetto il diritto di credito che nel titolo è incorporato, con la conseguenza che la lesione di tale diritto patrimoniale deve ritenersi ricompresa nell’ambito della previsione normativa a prescindere dal fatto che il titolo sia munito di una clausola di non trasferibilità.

L’ordinanza di rimessione ha anche osservato che nel caso di specie, relativo all’applicazione ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. della pena concordata di mesi tre di reclusione ed euro trecento di multa per i reati di ricettazione (capo a) e falsificazione di un assegno bancario non trasferibile (capo b), l’eventuale depenalizzazione della violazione satellite, ed il venir meno di uno dei termini essenziali del contenuto dell’accordo, avrebbe posto l’ulteriore questione del potere di rideterminazione della pena in sede di legittimità.

2.4. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

Le Sezioni Unite nella pronuncia n. 40256 del 19/07/2018, dep. 2018, Felughi, Rv. 273936 hanno affermato che, a seguito dell’abrogazione dell’art. 485 cod. pen. e della nuova formulazione dell’art. 491 cod. pen. ad opera del d.lgs. n. 7 del 2016, la condotta di falsificazione di assegno bancario avente clausola di non trasferibilità non rientra più tra quelle soggette a sanzione penale, mentre permane la rilevanza penale dei falsi in titoli di credito trasmissibili per girata.

Aderendo alle Sezioni Unite Guarracino, si ribadisce che la ragione dell’inclusione dei titoli al portatore o trasmissibili tramite girata nell’art. 491 cod. pen. va rinvenuta non nella loro natura, né nella loro attitudine a circolare illimitatamente (elementi che rimangono immutati anche in presenza della clausola), ma in quegli aspetti del regime di circolazione propri del titolo al portatore o trasmissibili per girata che, per certe caratteristiche comuni, determinavano, rispetto al regime di circolazione dei titoli nominativi, un “più frequente pericolo di falsificazione”.

L’apposizione della clausola di non trasferibilità, modificando in concreto il regime della circolazione del titolo, fa venir meno il requisito della maggiore esposizione ai pericoli della falsificazione che giustificava la più rigorosa tutela penale.

Nonostante la clausola di non trasferibilità dell’assegno bancario, circolare e o, postale, nell’attuale sistema normativo non abbia più lo scopo di garantire un’assoluta sicurezza del pagamento al prenditore evitandogli i pericoli dello smarrimento e della distruzione del titolo, ma impedisca la libera circolazione dell’assegno ai sensi della normativa sulla prevenzione del riciclaggio, il significato da attribuire al termine girata ed alla locuzione “titoli di credito trasmissibili tramite girata” di cui all’art. 491 cod. pen. è ancora quello individuato dalle Sezioni Unite Guarracino.

La preferibile lettura civilistica della nozione di girata esclude la possibilità di considerare tale quella al banchiere per l’incasso, priva delle caratteristiche previste dall’art. 2011 cod. civ., implicando un semplice mandato a riscuotere e non trasferendo al giratario né la proprietà del titolo, né una legittimazione propria, ma solo una legittimazione nell’interesse altrui quale effetto del mandato.

Nessuna delle ragioni addotte dall’opposto orientamento viene reputata idonea a provocare una rilettura critica della decisione Guarracino.

L’argomento per il quale ritenere depenalizzata la falsificazione degli assegni non trasferibili comporterebbe una minore tutela rispetto a quelli privi di tale clausola viene disatteso sull’assunto che l’opzione trova la sua giustificazione nella ratio sottesa al 491 cod. pen.; l’affermazione per la quale il tenore letterale dell’art. 491 cod. pen., anche nella sua recente riformulazione, non distinguerebbe tra varie tipologie di girata, non è condivisa, dovendo intendersi per girata solo quella produttiva degli effetti di cui all’art. 2011 cod, civ.; l’obiezione per la quale anche il titolo non trasferibile sarebbe comunque destinato alla circolazione interbancaria o ad una circolazione irregolare, non viene reputata convincente, essendo la tutela prevista dall’art. 491 cod. pen. finalizzata a salvaguardare la libera e corretta circolazione del diritto cartolare tra il pubblico.

La Corte osserva che con l’entrata in vigore del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 e con la trasformazione dei reati a tutela della fede pubblica, dell’onore e del patrimonio in illeciti civili, il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento nuove figure di “sanzioni pecuniarie civili”, riconducibili al concetto di pena privata, che a differenza del risarcimento del danno, che ha funzione riparatoria, hanno funzione sanzionatoria e preventiva e si giustificano quando l’illecito, oltre a determinare un danno patrimoniale, consente di ottenere un arricchimento ingiustificato.

La sanzione pecuniaria civile, quindi, assume le veci della sanzione penale ed al contempo se ne differenzia in quanto, pur avendo carattere “personale” – non è, infatti, trasmissibile agli eredi – in caso di inadempimento, non è mai convertibile in una sanzione incidente sulla libertà personale.

Alla luce della sentenza delle Sezioni Unite, la condotta di falsificazione del titolo non dotato della clausola di trasferibilità, è ancora penalmente perseguibile ai sensi del nuovo art. 491 cod. pen., mentre integra un illecito civile la falsificazione apposta sui titoli di importo superiore ai mille euro che costituiscono l’area di maggior impiego dei pagamenti posto che, a partire dal decreto legislativo n. 231 del 2007 (art. 49), l’assegno non trasferibile è diventato la regola, e quello “libero”, consentito nel tempo solo per importi “soglia” via via variabili, e lo è oggi solo per importi inferiori a mille euro.

Per completezza si evidenzia che le Sezioni Unite hanno affrontato anche il tema del potere di rideterminazione della pena in sede di legittimità a seguito della depenalizzazione del reato “satellite” e del venir meno di uno dei termini essenziali del contenuto dell’accordo ex art. 444 cod. proc. pen.

Come segnalato da quest’ufficio nella Relazione n. 26 del 30 marzo 2018, sull’argomento si registrano due indirizzi della giurisprudenza di legittimità: uno, per il quale la Cassazione non potrebbe in alcun modo intervenire sull’accordo intervenuto tra le parti, neppure per eliminare la parte di pena relativa al reato abrogato (Sez. 2, n. 40259 del 14/7/2017, Ndiaye, Rv. 271035; Sez. 3, n. 40522 del 30/04/2015, Carcano, Rv. 265499; Sez. 5 n. 9651 del 31/01/2011, Nembri, Rv. 249716; Sez. 1, n. 4592 del 26/09/1995, Abdraim, Rv. 202606), l’altro per il quale è possibile procedere alla rideterminazione della pena, senza necessità di disporre l’integrale annullamento della sentenza di patteggiamento (Sez. 2, n. 40259 del 14/07/2017, Rv. 271035; Sez. 5, n. 41676 del 4/5/2016, Carletti, Rv. 268454; in senso conforme si veda anche: Sez. 5, n. 40282 del 14/04/2016, Montemurno, Rv. 268204; Sez. 1, n. 42407 del 19/10/2007, Melandri, Rv. 237969; Sez. 6, n. 356 del 15/12/1999, dep. 2000, El Quaret, Rv. 215286).

Le Sezioni Unite Felughi, condividendo quest’ultimo orientamento, hanno affermato il principio di diritto così massimato: “In tema di applicazione della pena su richiesta delle parti per più reati unificati dalla continuazione, qualora sia sopravvenuta per uno dei reati satellite “l’abolitio criminis”, la Corte di cassazione non deve annullare l’intero accordo cassando la sentenza, ma deve procedere alla eliminazione della porzione di pena inflitta per il reato abrogato nella misura determinata dall’accordo”, adducendo che tale soluzione si giustifica in ragione della eccezione di cui già soffre il principio dell’intangibilità del patteggiamento.

Nella decisione Sez. 1, del 9/1/2015, Ndiaye, Rv. 262465, si era infatti già affermato che in tema di esecuzione, qualora, per effetto di “abolitio criminis”, sia parzialmente revocata la sentenza di patteggiamento per il reato base e per alcuni di quelli posti a fondamento del vincolo della continuazione che venga così ad essere risolto, rendendosi necessaria la nuova determinazione della sanzione per un residuo reato (già satellite), là dove l’originario aumento computato a titolo di continuazione non corrisponda – per genere, per specie o per quantità di pena – alla sanzione prevista astrattamente dalla legge, la relativa quantificazione può essere operata direttamente dalla Corte di cassazione avendo riguardo alla massima riduzione consentita per le circostanze attenuanti ed alla diminuzione per l’eventuale rito alternativo richiesto dall’imputato.

Alla luce di tale principio il Supremo Consesso osserva che, a fronte della abolizione di un reato posto dall’accordo fra le parti in continuazione e fissata dalle stesse l’esatta porzione di pena ritenuta equa per tale violazione di legge, non vi è alcuna ragione per escludere che i giudici di legittimità possano provvedere a quella eliminazione che sarebbe di loro certa competenza qualora ci si trovasse già nella fase di esecuzione della pena, tanto più che si tratta di una decisione favorevole all’imputato, che comporta una riduzione della pena già accettata come conseguenza delle sue condotte, e che è verosimile presumere che le parti, a fronte della cessata rilevanza penale di alcune di esse, avrebbero optato per un accordo diverso e meno afflittivo.

2.5. Le pronunce successive.

Il principio di diritto enunciato nella Felughi in tema di falsità in scritture private è stato immediatamente recepito dalla giurisprudenza successiva (Sez. 7, n. 54239 del 20/09/2018, Guadagnolo; Sez. 2, n. 51912 del 28/09/2018, Accurso; Sez. 7, n. 47346 del 20/09/2018, Della Piana; Sez. 7, n. 47328 del 20/09/2018, Di Lauro; Sez. 5, n. 49488 del 29/10/2018, Bevilacqua, in cui, in assenza di dati informativi circa la non apposizione della clausola di non trasferibilità – da nessun atto emergente – ed in ragione dell’epoca del commesso reato, cioè agosto 2008, si è presunto che l’assegno in questione fosse stato emesso ai sensi della normativa diretta a limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore).

3. La rimessione alle Sezioni Unite in tema di falsa copia di atto pubblico inesistente. (Sez. 5, ord. n. 54689 del 21/11/2018, Marcis).

Con ordinanza della Sez. 5, n. 54689 del 21/11/2018, Marcis, è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione “se la formazione della falsa copia di un atto pubblico in realtà inesistente integri o meno il reato di falso materiale” (nel caso di specie l’imputato aveva prodotto, quale documentazione necessaria per la gestione di una pratica di leasing finanziario, una falsa fotocopia di un’autorizzazione edilizia, inesistente, apparentemente rilasciata dal Comune alla società di cui era amministratore).

La problematica registrava ormai da tempo posizioni contrapposte nella giurisprudenza di legittimità, non concorde in ordine alla valenza da attribuire alla esibizione della fotocopia, sia nei casi in cui fosse esibita in quanto tale, sia nei casi in cui venisse prodotta al posto dell’originale.

In riferimento alla prima delle due eventualità citate il contrasto registrato è sintetizzabile in questi termini.

Per un primo indirizzo ermeneutico la formazione di un atto presentato come la riproduzione fotostatica di un atto pubblico originale, in realtà inesistente, del quale si intenda artificiosamente attestare l’esistenza e i connessi effetti probatori, integra il reato di cui agli artt. 482- 476 cod. pen.

La conclusione si fonda sulla considerazione che in tali casi la falsità è integrata non tanto e non solo dalla modificazione di una realtà probatoria preesistente (che nel caso di specie non c’è), ma anche dalla mendace e attuale rappresentazione di una realtà probatoria, che, creata attraverso un simulacro o una immagine cartolare di essa – una fotocopia, un fotomontaggio di pezzi veri o altro – è intrinsecamente idonea a ledere (e lede) il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice costituito dalla pubblica affidabilità di un atto, qualunque esso sia, proveniente dalla pubblica amministrazione. (Sez. 5, n. 5452 del 18/01/2018, Peroni; Sez. 5, n. 33858 del 24/04/2018, Manganaro, Rv. 273629 riferita ad una fattispecie in cui l’imputato aveva consegnato alla persona offesa copie di atti e provvedimenti a firma di giudici del Tribunale – in alcuni casi corredati da timbri dell’ufficio del tipo “sezione fallimentare, Tribunale fallimentare”, in altri recanti altresì la dicitura di “copia conforme all’originale” – in realtà inesistenti).

La ravvisata ratio punendi (l’idoneità a trarre in inganno la pubblica fede) rende, quindi, del tutto indifferente che la copia sia o meno autentica (nel qual caso vi sarebbe piuttosto un falso ideologico del soggetto certificante) tanto più nei casi in cui la provenienza dell’atto e le circostanze del suo utilizzo ne facciano presumere la conformità all’originale e dunque inducano il privato a ritenere che tale atto pubblico originale sia esistente (in termini Sez. 5, n. 40415 del 17/05/2012, Fiorillo).

A questa interpretazione se ne contrappone una opposta: un’altra parte della giurisprudenza di legittimità ritiene che la condotta di colui che esibisce la falsa fotocopia di un documento, sia esso esistente o meno in originale, non integra tout court il delitto di falsità materiale previsto dagli artt. 476 e 482 cod. pen. 

Per i sostenitori di tale opzione interpretativa la sussistenza di tale reato richiede l’esistenza del quid pluris costituito dall’avere la fotocopia i requisiti, di forma e di sostanza, capaci di farla sembrare un atto originale o la copia conforme di esso ovvero comunque documentativa dell’esistenza di un atto corrispondente (v. fra le ultime Sez. 5, n. 2297 del 10/11/2017, dep. 2018, D’Ambrosio, Rv. 272363, in cui la Corte ha ritenuto di escludere il reato di falso nell’invio a mezzo fax ad una banca del certificato di pagamento di una fattura comunale in realtà mai emessa dell’ente locale; negli stessi termini si erano già pronunciate Sez. 5, n. 8870 del 9/10/2014, Felline, Rv. 263422; Sez. 5, n. 10959 del 12/12/2012, dep. 2013, Carrozzini, Rv. 255217).

In taluni arresti l’attitudine documentativa citata viene ricollegata alla presenza nella fotocopia di attestazioni formali che la facciano figurare come estratta da un documento originale, o di attestazioni confermative dell’autenticità della copia (in tal senso le sentenze D’Ambrosio e Felline); in altri il quid pluris richiesto non viene specificato nella sua concretezza e si fa genericamente riferimento alla necessità che “la formazione della fotocopia sia idonea e sufficiente a documentare nei confronti dei terzi l’esistenza di un originale conforme” (Sez. 5, n. 7385 del 14/12/2007, dep. 2008, Favia, Rv. 239112).

In entrambi i casi il filone ermeneutico rassegnato richiede per la configurabilità del reato che la condotta sia comunque caratterizzata da connotazioni ulteriori rispetto alla mera esibizione della fotocopia di un atto inesistente, posto che, come precisato nell’ordinanza di remissione, tale giurisprudenza «sottende, evidentemente una visione dell’offensività dei reati di falso come dipendente dal contenuto specificamente attestativo dell’atto, e pertanto non ravvisabile, nel caso della formazione della falsa copia di un documento inesistente, in assenza di condizioni che rendano la copia formalmente dimostrativa dell’esistenza del documento stesso».

I due orientamenti si presentano divisi anche in relazione alla diversa ipotesi in cui la fotocopia dell’atto inesistente non sia utilizzata facendola figurare come originale e come copia autentica dello stesso, ma venga semplicemente presentata come tale in luogo dell’originale, al fine di dimostrarne con tale sola produzione l’esistenza.

In tal caso mentre il primo degli indirizzi illustrati ritiene sufficiente l’utilizzazione della fotocopia quale falsa rappresentazione dell’esistenza dell’atto originale, il secondo di essi richiede la presenza nella copia di particolari attestazioni o, quanto meno, di modalità di confezionamento del documento che rendano lo stesso specificamente dimostrativo dell’esistenza dell’atto, reputando inidonea a tal fine la mera presentazione di una copia avente l’apparenza della riproduzione fotostatica dell’originale.

4. La rimessione alle Sezioni Unite sulla possibilità per il giudice di ritenere in sentenza la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico ex art. 476, comma secondo, cod. pen. in mancanza di una esplicita contestazione nel capo d’imputazione della natura fidefacente dell’atto (Sez. 5, ord. del 4/12/2018, Sorge).

Con l’ordinanza della Quinta Sezione del 4 dicembre 2018, Sorge, al momento in cui si scrive non ancora depositata, è stata rimessa alle Sezioni Unite il quesito “se possa essere ritenuta in sentenza dal giudice la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico ex art. 476 comma secondo cod. pen. qualora la natura fidefacente dell’atto considerata falso non sia stata esplicitamente contestata ed esposta nel capo d’imputazione”.

Sullo specifico tema si contrappongono nella giurisprudenza di legittimità due distinte opzioni ermeneutiche.

4.1. I termini del contrasto. La tesi minoritaria.

Per un primo filone, è possibile ritenere in sentenza l’ipotesi aggravata del reato di falso in atto pubblico ex art. 476, comma secondo, cod. pen., a prescindere da una esplicita contestazione, purché essa sia contestata in “fatto” tramite l’uso di formule linguistiche chiaramente evocative della peculiare efficacia dell’atto: qualora la contestazione non abbia tali caratteristiche, un’eventuale decisione che considerasse il reato come aggravato violerebbe il diritto di difesa.

La conclusione viene tratta alla luce delle seguenti considerazioni.

Sebbene non vi sia dubbio sull’astratta possibilità di contestare un’aggravante “in fatto”, l’ambito in cui ciò può avvenire è tanto più ampio quanto più la norma ha delineato la circostanza in base ad elementi fattuali.

Più circoscritto è invece il perimetro in cui può essere contestata “in fatto” una circostanza aggravante configurata dal legislatore con riferimento a una qualificazione giuridica, quale la natura del documento, come nell’aggravante dell’art. 476, comma 2, cod. pen. 

In tali casi sebbene non sia indispensabile un’indicazione precisa della norma violata è comunque necessario “l’uso di formule linguistiche chiaramente evocative della particolare efficacia dell’atto”.

La mancanza di tali formule, si chiarisce, impedisce all’imputato il pieno esercizio del diritto di difesa su elementi centrali dell’imputazione, anche alla luce dei vincoli posti dalla giurisprudenza della Corte EDU.

Si ricorda, infatti, che nella decisione Drassich c. Italia, della Corte EDU del 11/12/2007 si afferma la necessità, alla luce delle disposizioni del paragrafo 3 dell’art. 6 della Convenzione Edu, che l’imputato sia informato non solo del motivo dell’accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali si basa l’accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti (Pélissier e Sassi c. Francia (GC), n. 25444/94, § 51, CEDU 1999 II), posto che in materia penale solo una informazione precisa e completa delle accuse a carico di un imputato, e dunque la qualificazione giuridica che la giurisdizione potrebbe considerare nei suoi confronti, è una condizione fondamentale dell’equità del processo.

Sono espressione di tale orientamento Sez. 5, n. 30435 del 18/04/2018, Trombetta, Rv. 273807; Sez. 5, n. 24643 del 16/04/2018, Degli Angioli, Rv. 273339, (in cui si evidenzia che nei casi di specie sottoposti all’attenzione dell’indirizzo opposto Sez. 5, n. 38931 del 02/04/2015, Maida, Rv. 265501 e Sez. 5, n. 2712 del 14/09/2016, dep. 20/01/2017, Seddone, Rv. 268864, vi erano comunque formule linguistiche evocative della efficacia fidefacente dell’atto); Sez. 5, n. 8359 del 05/02/2016, Calì; Sez. 5, n. 12213 del 13/02/2014, Amoroso, Rv. 260209; Sez. 3, n. 6809 del 08/10/2014, dep. 17/02/2015), Pg. in prc. Sauro, Rv. 262550 in cui si afferma che qualora la natura fidefacente dell’atto assunto come falso non venga esplicitamente indicata nel capo di imputazione, né indicata in fatto con sinonimi o formule equivalenti o richiami all’art. 476, secondo comma secondo, cod. pen., l’aggravante di cui al predetto art. 476, secondo comma, cod. pen., non può trovare applicazione).

4.2. La tesi maggioritaria.

Per un contrapposto orientamento, invero maggioritario, è possibile ritenere in sentenza l’ipotesi aggravata del reato di falso in atto pubblico ex art. 476, comma secondo, cod. pen., a prescindere da una esplicita contestazione purché la natura fidefacente dell’atto considerato falso sia stata chiaramente indicata “in fatto” ed emerga “inequivocabilmente dalla natura dell’atto”.

In presenza di tali presupposti il riconoscimento dell’aggravante costituendo “una decisione logicamente ipotizzabile come sviluppo della decisione in fatto e prevedibile per la difesa tecnica come conclusione di diritto”, avviene nell’assoluto rispetto del diritto dell’imputato di essere informato dell’accusa a suo carico e della sua possibilità di esercitare compiutamente il diritto di difesa.

Si ritiene, infatti, che in un sistema quale il nostro in cui non è consentita all’imputato l’autodifesa esclusiva, la valutazione della prevedibilità della riqualificazione giuridica del fatto va letta anche alla luce del ruolo fondamentale svolto dall’assistenza tecnica del difensore che, essendo depositario delle necessarie conoscenze giuridiche, nella sua veste di “consulente illuminato”, è in grado di stimare la possibilità che il giudice ravvisi una circostanza aggravante nei fatti addebitati pur in assenza di una sua formale contestazione.

Espressione dell’opzione in parola sono le decisioni Sez. 5, n. 19388 del 26/2/2018, Monagheddu e Sez. 5 n. 33843 del 4/4/2018, Scopelliti, Rv. 273624, che, in particolare, ha ritenuto legittimo il riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 476, 2 comma, cod. pen. da parte del giudice d’appello al solo fine del giudizio di equivalenza con le contestate attenuanti; nel caso di specie il capo di imputazione conteneva un inequivocabile riferimento alla tipologia di atti su cui aveva inciso la condotta ascritta all’imputato e nella sentenza di primo grado, di cui la difesa non aveva ritenuto di dolersi con i motivi di gravame, l’atto in questione (il bilancio comunale) era stato inequivocabilmente qualificato quale atto pubblico fidefacente (sia nella Monagheddu che nella Scopelliti si è paventata l’ipotesi che le decisioni Sez. 5, n. 12213 del 13/02/2014, Amoroso ed altri, Rv. 260209, e Sez. 3, n. 6809 del 08/10/2014, dep. 2015, P.G. in proc. Sauro ed altri, Rv. 262550 siano solo apparentemente contrastanti; si esprime in maniera esplicita in tal senso Monagheddu a pag. 27, e lo sottintende Scopelliti a pag. 57. L’osservazione è contenuta anche in Sez. 5, n. 2712 del 14/09/2016, dep. 2017, Seddone, Rv. 268864).

Nella pronuncia Scopelliti e nella decisione della Sez. 5, n. 23609 del 4/4/2018, Musso, Rv. 27347301, viene ben evidenziato l’apporto che la difesa tecnica è chiamata a dare ausilio all’imputato non solo nella fase iniziale della scelta difensiva ma anche durante tutto lo svolgimento del processo, soprattutto alla luce dei principi sovranazionali enunciati della pronuncia della Corte EDU del 14/04/2015, Contrada c. Italia, § 79) e di quanto affermato dalle Sezioni Unite nella decisione n. 8914 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Aiello, Rv. 272011 che verranno analizzate a breve.

Fanno parte di tale filone anche Sez. 5, n. 43579 del 23/5/2018, Polino in cui si era contestato “in fatto” che la compilazione dei falsi referti medici era avvenuta allo scopo di far apparire come realizzato un controllo oculistico regolare, con progressione improvvisa della malattia”; in senso conforme Sez. 5, n. 38931 del 02/04/2015, Maida, Rv. 265501, in cui si è ritenuto sufficiente al fine della contestazione in fatto dell’aggravante di cui all’art. 476, comma 2 cod. pen. il riferimento alla falsa relata di notifica, effettuata dall’imputato, ufficiale giudiziario; Sez. 5, n. 38588 del 16/09/2008, Fornaro ed altri, Rv. 242027; Sez. 5, n. 55804 del 20/09/2017, Vitagliano, Rv. 271838, in cui si è ritenuto legittimo il riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 476, 2 comma, cod. pen. da parte del giudice d’appello al solo fine di escludere la prescrizione del reato.

4.2.1. La giurisprudenza evocata dalla tesi maggioritaria.

Le conclusioni tratte dalla giurisprudenza citata si fondano sui principi enunciati nei filoni giurisprudenziali che appare utile passare in rassegna.

Il primo riferimento è alla pronuncia della Corte di Strasburgo già citata.

In particolare si enfatizza che la Drassich c. Italia del 2007 afferma chiaramente che le disposizioni dell’art. 6 § 3 a) non impongono alcuna forma particolare per quanto riguarda il modo in cui l’imputato deve essere informato della natura e del motivo dell’accusa formulata a suo carico.

Si evidenzia, inoltre, che per la consolidata giurisprudenza della Cassazione la contestazione di una circostanza aggravante non richiede “alcuna indispensabile formula specifica espressa o particolare enunciazione letterale, né l’indicazione della relativa disposizione di legge”, purchè, conformemente al principio di correlazione tra accusa e decisione, l’imputato sia posto nelle condizioni di espletare pienamente la difesa; e che, di conseguenza, è consentito al giudice di ritenere in sentenza la fattispecie aggravata del reato contestato qualora la circostanza aggravante, pur non esplicitamente contestata nel capo di imputazione, sia stata indicata chiaramente “in fatto” ed emerga inequivocamente dalla tipologia di condotta contestata.

Al di là di quelle specificamente riferite all’aggravante dell’art. 476 cod. pen., le sentenze in termini sono numerose.

Tra le più recenti si segnalano Sez. 4, n. 22782 del 06/02/2018, Montuori Rv. 27339601 in cui si è affermato che in relazione al reato di lesioni aggravate dalla durata della malattia, è sufficiente la contestazione nel capo d’imputazione della tipologia delle lesioni, laddove risulti acquisita agli atti del processo la documentazione relativa alla durata della malattia (nel caso di specie nel capo d’imputazione venivano contestate lesioni “allo stato non ancora qualificate e quantificate”, definite in termini di “malattia insanabile”); Sez. 6, n. 42917 del 19/06/2018 2018, Sorroche, in cui è stata ritenuto legittimo il riconoscimento da parte del giudice d’appello, ai soli fini della non ritenuta prescrizione, dell’aggravante speciale di cui all’art. 339, comma secondo, cod. pen; Sez. 6, n. 55111 del 20/11/2018, Hizi, in cui tuttavia è stata riconosciuta legittima la decisione del giudice d’appello di non ritenere esistente l’aggravante della conessione teleologica di cui all’art. 61 n. 2 in quanto non contestata neanche “ in fatto”.

A queste si aggiungono Sez. 1, n. 51260 del 08/02/2017, Archinito, Rv. 271261, in tema di premeditazione; Sez. 2, n. 14651 del 10/01/2013, Chatbi, Rv. 255793 in tema di circostanza aggravante ex art. 61 n. 11 cod. pen.; Sez. 6, n. 40283 del 28/09/2012, Diaji, Rv. 253776; Sez. 2, n. 47863 del 28/10/2003, Ruggio, Rv. 227076, in cui tuttavia si è esclusa l’aggravante per non essere stata contestata neanche “in fatto”; Sez. 4, n. 5678 del 10/11/1989, dep. 1990, Gobbo, Rv. 184088.

Sovente le decisioni espressione del filone maggioritario chiariscono che quanto affermato al paragrafo 34 della sentenza Drassich c. Italia, del 2007 sulla riqualificazione giuridica dei fatti attribuito ai giudici va interpretato anche alla luce della pronuncia dalle Sezioni Unite, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438.

La decisione, in merito alla questione di carattere generale della qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione e dei suoi riflessi nella prospettiva della violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, ha infatti chiarito che “ l’attribuzione all’esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del pubblico ministero, al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, non determina la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell’art. 111, secondo comma, Cost., e dell’art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono”.

Il principio recepito risulta costantemente ribadito dalla giurisprudenza delle successive decisioni delle sezioni semplici che in alcuni casi lo declinano tenendo conto del divieto di reformatio in peius.

Tra le decisioni più recenti si segnalano Sez. 2, n. 39961 del 19/07/2018, Tuccillo, Rv. 27392201 in cui si è affermato che il giudice di appello, anche in presenza della sola impugnazione dell’imputato, può procedere ad una nuova e più grave qualificazione giuridica del fatto nel rispetto del principio del giusto processo previsto dall’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, anche senza disporre una rinnovazione totale o parziale dell’istruttoria dibattimentale, sempre che sia sufficientemente prevedibile la ridefinizione dell’accusa inizialmente formulata, che il condannato sia in condizione di far valere le proprie ragioni in merito alla nuova definizione giuridica del fatto, e che rimanga ferma la pena irrogata. (Fattispecie relativa alla riqualificazione dell’originaria imputazione di tentato furto aggravato in tentata rapina impropria aggravata dal numero di persone); Sez. 2, n. 49089 del 24/05/2018, Di Costanzo, in cui è stata ritenuta legittima la riqualificazione da parte della Corte di appello dei fatti oggetto della condanna del Tribunale da induzione indebita a dare o promettere denaro o altra utilità a tentativo di estorsione in ragione dell’assenza in capo all’imputato della qualifica di pubblico ufficiale; Sez. 2, n. 46760 del 26/9/2018, Cardellini, in cui entrambi i giudici di merito avevano provveduto a riqualificare il fatto; Sez. 3, n. 39052 del 29/05/2018, Gentile; Sez. 2, n. 34216 del 20/6/2018 Costi; Sez. 5, n. 32357 del 27/3/2018 Spinelli; Sez. 2, n. 28839 del 12/04/2018, Boesso.

È inoltre principio pacifico che, in caso di mutamento in appello della qualificazione giuridica, la garanzia del contraddittorio – prevista dall’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU così come interpretato dalla Corte EDU – resta pur sempre assicurata dalla possibilità di contestare la diversa definizione mediante il ricorso per cassazione (Sez. 3, n. 22296 del 09/03/2017, P.G. in proc. Bavila, Rv. 269992).

Il principio del divieto di “contestazioni a sorpresa” risulta affermato anche in relazione alle pronuncia di primo grado (Sez. 2, n. 5260 del 24/01/2017, Golfarini, Rv. 269666, in cui si afferma che non è configurabile la violazione dell’art. 521 cod, proc. pen. qualora nell’imputazione figurino elementi di fatto ‘sovrabbondanti’ rispetto al paradigma della norma incriminatrice, che rendano prevedibile la diversa qualificazione giuridica del fatto come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, in relazione al quale l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire, conformemente all’art. 111 Cost. e all’art. 6 CEDU).

Tra le decisioni più recenti si segnalano Sez. 7, Ord. n. 53112 del 21/6/2018, Rossetti, Sez. 1, n. 9429 del 26/09/2017, dep. 2018, Prosperini; Sez. 4, n. 9148 del 31/01/2018, Biancoviso; Sez. 1, n. 7203 del 28/06/2017 Cospito; Sez. 2, n. 42517 del 13/04/2017, Scrabole.

Con specifico riferimento al giudizio di legittimità la giurisprudenza della Corte, ha affermato che anche in quella sede è consentita la riqualificazione giuridica del fatto sebbene la questione non sia stata oggetto di discussione in fase di merito o prospettata in ricorso, purché la parte sia espressamente posta in condizione di interloquire sulle diverse possibili definizioni giuridiche del fatto stesso” (Sez. 4, sentenza n. 9133 del 12/12/2017, dep. 2018, Giacomelli, Rv. 272263, in cui si è ritenuto rispettato il principio sopra enunciato, posto che la diversa qualificazione giuridica dei fatti operata dalla Corte di cassazione, era stata rappresentata, nel giudizio di legittimità, dal procuratore generale nel corso della sua requisitoria ed era stata oggetto di discussione, all’esito della quale le parti avevano rassegnato le loro rispettive conclusioni; negli stessi termini anche Sez. 6, sentenza n. 41767 del 20/06/2017, Boschi, Rv. 271391.

Tra le pronunce più recenti Sez. 1, n. 36986 del 20/2/2018, Gatti; Sez. 4, n. 2340 del 29/11/2017, dep. 2018, Ds. Rv. 27175801 in cui si è affermato che nel giudizio di legittimità, il potere della Corte di cassazione di attribuire una diversa qualificazione giuridica ai fatti accertati non può avvenire con atto a sorpresa e con pregiudizio del diritto di difesa, in quanto gli artt. 111, comma 3, della Costituzione e 6, comma 3, lett. a), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – come interpretato dalla Corte Europea Diritti dell’Uomo nella sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia – impongono l’instaurazione del contraddittorio tra le parti sulla relativa questione di diritto. (Fattispecie in cui la Corte, ritenendo doversi procedere alla riqualificazione giuridica di una circostanza aggravante contestata nell’imputazione, ha annullato la sentenza impugnata limitatamente a tale aggravante, con rinvio alla corte d’appello per l’instaurazione del contraddittorio in ordine al diverso inquadramento giuridico della circostanza). Sez. 5, n. 36200 del 18/05/2018, Vinciguerra, in cui si è anche chiarito che il principio di cui sopra deve essere armonizzato con l’altrettanto pacifico principio secondo il quale non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare, in quanto non devolute alla sua cognizione. (Tale ultimo principio risulta affermato di recente da Sez. 5, n. 8763 del 17/11/2017, dep. 2018, Principato, Rv. 272635).

Sul tema, la giurisprudenza in esame, fa riferimento anche a quanto affermato nella decisione Corte EDU, sez. 1, sent. 22 febbraio 2018, Drassich c. Italia in relazione alla correlazione dell’accusa e difesa ed al rispetto del principio del contraddittorio.

In estrema sintesi nella decisione citata – che ha posto fine ad una nota e complessa vicenda giudiziaria che non è possibile trattare compiutamente in questa sede – la Corte di Strasburgo ha respinto le doglianze del ricorrente che, in relazione all’ avvenuta riqualificazione giuridica del fatto in sede di legittimità, aveva lamentato il mancato rispetto delle prerogative e delle tempistiche difensive imposte dal diritto sovranazionale ed aveva chiesto il rinvio della causa dinanzi ad un giudice di merito.

Nella pronuncia la Corte, dopo aver ribadito la concezione sostanziale, e non formale, del concetto di accusa di cui all’art. 6 § 1 della Convenzione, già affermata nella precedente pronuncia resa sullo stesso caso nel 2007, ha rigettato il ricorso specificando che la difesa dell’imputato aveva avuto il tempo sufficiente per depositare dinanzi alla Cassazione due memorie scritte e per discutere la causa all’udienza; che il ricorrente non aveva dimostrato di aver presentato argomenti che non avrebbero potuto essere presi in considerazione dalla Corte di cassazione, o che quest’ultima si fosse basata su elementi di diritto o di fatto che non sarebbero stati dibattuti durante il processo, e che, in relazione all’asserito mancato rispetto del contraddittorio per impossibilità di discutere questioni di fatto dinanzi alla Corte di cassazione, il ricorrente non aveva mai contestato il modo in cui la Corte d’appello ed il Tribunale avevano accertato i fatti di causa, e che dal fascicolo non risultava alcuna richiesta di riapertura dell’istruzione al fine di ottenere prove a discarico.

In relazione allo specifico tema dell’importanza del ruolo della difesa tecnica in relazione alla “prevedibilità” della contestazione, il filone maggioritario ha innanzitutto richiamato la pronuncia della Corte EDU sentenza 14/04/2015, Contrada c. Italia, § 79 in cui si è osservato che la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questo requisito è soddisfatto se la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, se necessario con l’assistenza dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali e, se del caso, dopo aver fatto ricorso a “consulenti illuminati” con precise responsabilità.

Ha poi evocato la decisione in cui le già citate Sezioni Unite Aiello hanno ritenuto manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale del nuovo art. 613 cod. proc. pen., per l’asserita violazione degli artt. 24, 111, comma 7, Cost. e 6 CEDU, sottolineando che l’elevato livello di qualificazione professionale richiesto dall’esercizio del diritto di difesa in cassazione rende ragionevole l’esclusione della difesa personale, tanto più in un sistema che ammette il patrocinio a spese dello Stato.

Chiariti i termini del contrasto ed illustrate le ragioni di diritto sottese alle teorie contrapposte per completezza d’esposizione appare utile, in conclusione, rappresentare che nei casi oggetto delle decisioni ascrivibili all’orientamento minoritario, oltre a mancare, evidentemente, la contestazione esplicita dell’aggravante o il riferimento all’art. 476, 2 comma, cod. pen. difettava anche la contestazione “in fatto”.

In particolare in Sez. 5, n. 30435 del 18/04/2018 Rv. 27380701 il giudice d’appello, in riforma della decisione del giudice di primo grado, aveva condannato l’imputato per plurimi episodi di induzione indebita e falso ideologico, e nel riconoscere la continuazione tra i due delitti aveva calcolato la pena considerando più grave il reato di falso ideologico avendolo implicitamente reputato aggravato dall’art. 476 cod. pen.; tuttavia ciò avveniva nonostante la sentenza di primo grado, avesse escluso – in maniera implicita ma univoca – tale aggravante (in primo grado, infatti, era stato ritenuto più grave a norma dell’art. 81 cod. pen. il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità – la cui comminatoria edittale era più grave di quella del falso ex art. 476, primo comma, cod. pen., ma meno severa di quella del falso aggravato dalla natura fidefacente dell’atto).

In Sez 5, n. 24643 del 2018 il capo d’imputazione non conteneva alcuna contestazione in fatto: in esso si rinveniva la sola espressione “falsificava il modello 99 dell’area sanitaria”.

Nel caso di specie oggetto della decisione Sez. 3, n. 6809 del 08/10/2014 (dep. 2015) Rv. 262550, non vi era stata alcuna contestazione” in fatto”, e, in ogni caso, all’atto oggetto di falsificazione (un parere di regolarità tecnica) non era stata riconosciuta natura fidefacente.

Nella fattispecie sottoposta all’esame di Sez. 5, n. 12213 del 13/02/2014 (dep. 13/03/2014), Rv. 260209, un medico aveva aggiunto al testo originario di un referto l’ulteriore falsa attestazione della rottura dei denti incisivi dell’arcata superiore allo scopo di garantire al paziente un rimborso più cospicuo in una pratica di risarcimento danni; anche in questo caso la natura fidefacente non veniva indicata nemmeno “in fatto”.

5. La rimessione alle Sezioni Unite sulla configurabilità del reato di cui all’art. 480 cod. pen. nelle ipotesi in cui, essendo stati indicati in maniera veritiera i presupposti di fatto, l’autorizzazione è stata concessa all’esito di un falso giudizio di conformità ai parametri previsti dalla normativa di settore (Sez. 5, ord. del 11/12/2018, De Salvo ed altro).

Con Ordinanza del 11/12/2018, al momento in cui si scrive non ancora depositata, la quinta Sezione ha rimesso alle Sezioni Unite il quesito “Se, ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 480 cod. pen., la falsità ideologica sia configurabile anche con riferimento al contenuto valutativo concernente il giudizio di conformità alla normativa formulato con riferimento, non già alle situazioni di fatto costituenti il presupposto dell’atto, ma alla interpretazione della normativa stessa (fattispecie in cui, ai fini dell’ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica, venga attestata la conformità alla normativa paesaggistica dell’intervento oggetto della richiesta di provvedimento abilitativo, senza falsificare i presupposti di fatto rilevanti – indici di edificabilità, distanza tra i fondi asserviti, ecc.).

La questione rimessa alle Sezione Unite nasce dal contrasto tra le sezioni semplici sulla configurabilità del reato di falsità ideologica in autorizzazioni ex art. 480 cod. pen. relativamente a fattispecie di rilascio di autorizzazioni paesaggistiche.

Si tratta di ipotesi nelle quali, essendo stati indicati in maniera veritiera i presupposti di fatto, l’autorizzazione è stata concessa all’esito di un falso giudizio di conformità ai parametri previsti dalla normativa di settore.

Il contrasto è sorto perché in alcuni di questi casi le Sezioni semplici hanno ritenuto comunque sussistente il reato di falsità ideologica in autorizzazioni; in altri, invece, si è affermato che non potendosi ravvisare una difformità di quanto dichiarato con la realtà fattuale, la condotta avrebbe potuto integrare, al più, altri tipi di reati (violazioni della normativa paesaggistica e reati contro la pubblica amministrazione) ma non quello previsto dall’art. 480 cod. pen. 

Secondo un primo indirizzo interpretativo la condotta indicata è dunque idonea in astratto a integrare il reato di cui all’art. 480 cod. pen. 

Per tale filone giurisprudenziale la discrezionalità nel rilascio della autorizzazione paesaggistica è vincolata alla verifica della conformità della situazione rappresentata dalla parte richiedente alle previsioni normative ed a quelle degli strumenti del piano di governo del territorio urbanistici e paesaggistici, con conseguente integrazione del reato di falso ideologico, quanto meno in autorizzazione amministrativa, se il detto giudizio di conformità non sia rispondente agli indicati parametri.

L’orientamento in esame dà per presupposto il consolidato insegnamento dei giudici di legittimità per il quale è certamente configurabile il delitto di falso ideologico in atto pubblico – in certificazione od in autorizzazione – in contesti in cui la valutazione sia vincolata a parametri normativamente predeterminati (Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, p.m. in proc. Pasteris; Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso, Rv. 257895).

Più nel dettaglio si distingue l’ipotesi in cui il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, e dunque la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto; da quella in cui, diversamente, ove l’atto da compiere faccia riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettino criteri di valutazione si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, e che pertanto l’atto potrà risultare “ vero o falso” in base alla corrispondenza ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266803; Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, Platamone, Rv. 254305; Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino, Rv. 251533; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini, Rv. 249858; più di recente Sez. 3, n. 9881 del 8/2/2018, Costantini; Sez. 3, n. 30040 del 30/1/2018, Strambone; Sez. 3, n. 57120 del 29/9/2017, Borrello).

Sulla base di tali considerazioni l’orientamento in esame giunge alla conclusione che, poiché la valutazione di compatibilità ambientale espressa nell’autorizzazione

paesaggistica esprime un giudizio sulla rispondenza dell’intervento ad oggettivi e preesistenti criteri normativi che non può compiersi unicamente sulla base di quanto rappresentato nella relazione tecnica allegata all’istanza di parte, l’organo competente è tenuto a verificare, in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, la coerenza della situazione rappresentata con i parametri urbanistici e paesaggistici codificati dalle norme di piano e dalle disposizioni legislative e regolamentari siccome interpretati dalla giurisprudenza amministrativa (Sez. 3, n. 8844 del 18/1/2018, Renna, la quale a sua volta richiama Sez. 3, n. 57108 del 17/5/2017, Renna, cit. negli stessi termini, Sez. 3, n. 8852 del 18/1/2018, Dilonardo Sez. 5, n. 40178 del 2/07/2018 Morciano).

Per tali ragioni, un eventuale giudizio di conformità che non sia rispondente a tali parametri integra il delitto di falsità ideologica ex art. 480 cod. pen. 

Le decisioni espressione di tale posizione sono Sez. 3, n. 54706 del 13/11/2018, Renna; Sez. 3, n. 51833 del 3/10/2018, Morciano; Sez. 5, n. 40178 del 2/7/2018, Morciano; Sez. 3, n. 51832 del 3/10/2018, Cosi; Sez. 3, n. 51831 del 3/10/2018, Cosi; Sez. 3, n. 4566 del 10/10/2017, dep. 2018, Morciano Sez. 3, n. 46228 del 9/7/2018, Cosi; Sez. 3, n. 46227 del 9/07/2018, Baglivo; Sez. 3, n. 46226 del 9/7/2018, De Marini; Sez. 3, n. 46225 del 9/7/2018, Vertua; Sez. 3, n. 39340 del 9/7/2018, Morciano; Sez. 3, n. 39337 del 9/7/2018 Renna; Sez. 3, n. 39248 del 12/7/2018, Morciano; Sez. 3, n. 38838 del 9/7/2018, Morciano; Sez. 3, n. 30040 del 4/7/2018, Renna; Sez. 3, n. 30025 del 4/12/2017 dep. 2018, Scrudato; Sez. 3 n. 18890 del 8/11/2017 – dep. 2018 – Renna.

Al filone ermeneutico illustrato se ne contrappone un altro.

Per questo orientamento la valutazione di compatibilità paesaggistica, correlata alla mera interpretazione della normativa di settore e svincolata da qualsiasi riferimento ad elementi fattuali integranti il presupposto dell’atto, è priva di quella “funzione informativa” in forza della quale è possibile ritenere l’enunciato veritiero o mendace, e pertanto il suo rilascio non integra il fatto tipico di cui all’art. 480 cod. pen.

In proposito si richiamano le condizioni in presenza delle quali è possibile configurare il reato di falso ideologico in atti dispositivi, categoria nella quale rientra sicuramente l’autorizzazione paesaggistica.

Si precisa che nel caso di atto dispositivo è configurabile la falsità ideologica solo in relazione alla parte “descrittiva” in esso contenuta e, più precisamente, in relazione all’attestazione, non conforme a verità, dell’esistenza di una data situazione di fatto costituente il presupposto indispensabile per il compimento dell’atto.

Quindi, con specifico riferimento alla questione in esame, si afferma che l’attestazione di conformità correlata alla mera interpretazione della normativa di settore, ma svincolata da qualsiasi riferimento agli elementi fattuali integranti il presupposto dell’atto, è priva di quella funzione informativa in forza della quale l’enunciato può essere predicato di falsità e pertanto non integra il fatto tipico richiesto dall’art. 480 cod. pen. 

Espressione di tale orientamento sono le decisioni Sez. 5, n. 7879 del 16/1/2018, Da-versa, Rv. 272457, e Sez. 5, n. 19384 del 12/2/2018, De Micheli.

Per completezza di esposizione va segnalata anche l’esistenza di una terza posizione, invero isolata, in cui si è ritenuto che laddove l’attestazione di conformità alla normativa di riferimento sia effettuata in riferimento ad una disciplina la cui interpretazione sia oggettivamente controversa e non univoca – ed i dati di fatto rappresentati nella richiesta finalizzata ad ottenere detta attestazione siano veritieri – non è possibile ritenere integrato il reato di cui all’art. 480 cod. pen. per difetto dell’elemento soggettivo richiesto dalla norma (Sez. 5 n. 37915 del 26/4/2017, Baglivo).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della corte di Cassazione

Sez. U, n. 4 del 20/02/1971, Guarracino, Rv. 118012 Sez. 6, n. 538 del 5/10/1979 – dep. 1980 –, Galante, Rv. 143953 Sez. 2, n. 6942 del 20/11/1981 – dep. 1982 –, Susini, Rv. 154622 Sez. 4, n. 5678 del 10/11/1989 – dep. 1990 –, Gobbo, Rv. 184088 Sez. 1, n. 4592 del 26/09/1995, Abdraim, Rv. 202606 Sez. 6, n. 356 del 15/12/1999 – dep. 2000 –, El Quaret, Rv. 215286 Sez. 2, n. 47863 del 28/10/2003, Ruggio, Rv. 227076 Sez. 1, n. 42407 del 19/10/2007, Melandri, Rv. 237969 Sez. 5, n. 7385 del 14/12/2007 – dep. 2008 –, Favia, Rv. 239112 Sez. 5, n. 38588 del 16/09/2008, Fornaro ed altri, Rv. 242027 Sez. 5, n. 172 del 04/12/2008 – dep. 2009 –, Caputo Rv. 242964 Sez. 5, n. 9727 del 3/02/2009, Gozzi, Rv. 243019 Sez. 5 n. 9651 del 31/01/2011, Nembri, Rv. 249716 Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino, Rv. 251533 Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini, Rv. 249858 Sez. 6, n. 40283 del 28/09/2012, Diaji, Rv. 253776 Sez. 5, n. 10959 del 12/12/2012 – dep. 2013 –, Carrozzini, Rv. 255217 Sez. 5, n. 40415 del 17/05/2012, Fiorillo Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, Platamone, Rv. 254305 Sez. 2, n. 14651 del 10/01/2013, Chatbi, Rv. 255793 Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso, Rv. 257895 Sez. 5, n. 8870 del 9/10/2014, Felline, Rv. 263422 Sez. 3, n. 6809 del 08/10/2014 – dep. 2015 –, Pg. in prc. Sauro, Rv. 262550 Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, p.m. in proc. Pasteris Sez. 5, n. 12213 del 13/02/2014, Amoroso, Rv. 260209 Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438 Sez. 5, n. 38931 del 02/04/2015, Maida, Rv. 265501 Sez. 3, n. 40522 del 30/04/2015, Carcano, Rv. 265499 Sez. 5, n. 41676 del 4/05/2016, Carletti, Rv. 268454 Sez. 5, n. 40282 del 14/04/2016, Montemurno, Rv. 268204 Sez. 5, n. 8359 del 05/02/2016, Calì Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266803 Sez. 5, n. 3422 del 22/11/2016 – dep. 2017 –, Merolla Sez. 5, n. 2712 del 14/09/2016 – dep. 2017 –, Seddone, Rv. 268864 Sez. 3, n. 57120 del 29/09/2017, Borrello Sez. 1, n. 7203 del 28/06/2017, Cospito Sez. 6, n. 41767 del 20/06/2017, Boschi, Rv. 271391 Sez. 2, n. 42517 del 13/04/2017, Scrabole Sez. 3, n. 22296 del 09/03/2017, P.G. in proc. Bavila, Rv. 269992 Sez. 1, n. 51260 del 08/02/2017, Archinito, Rv. 271261 Sez. 2, n. 5260 del 24/01/2017, Golfarini, Rv. 269666 Sez. 7, n. 54647 del 20/11/2017, Luchetti Sez. 5, n. 57562 del 2/10/2017, Triolo Sez. 2, n. 40259 del 14/7/2017, Ndiaye, Rv. 271035 Sez. 2, n. 39093 del 11/07/2017, Grassi Sez. 2, n. 36670 del 22/06/2017, Milani, Rv. 271111 Sez. 2, n. 38815 del 28/04/2017, Girelli Sez. 2, n. 40259 del 14/07/2017, Rv. 271035 Sez. 5, n. 32972 del 04/04/2017, Valentini, Rv. 27067701 Sez. 5, n. 13047 del 2/02/2017, Benestante Sez. 5, n. 55804 del 20/09/2017, Vitagliano, Rv. 271838 Sez. 5, n. 11999 del 17/01/2017, Toma, Rv. 269710 Sez. 5, n. 37915 del 26/04/2017, Baglivo Sez. U, n. 8914 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Aiello, Rv. 272011 Sez. 4, n. 9133 del 12/12/2017 – dep. 2018 –, Giacomelli, Rv. 272263 Sez. 2, n. 12599 del 24/11/2017 – dep. 2018 –, Grassi, Rv 272368 Sez. 4, n. 2340 del 29/11/2017 – dep. 2018 –, Ds., Rv. 27175801 Sez. 5, n. 8763 del 17/11/2017 – dep. 2018 –, Principato, Rv. 27263501 Sez. U, n. 40256 del 19/07/2018 – dep. 2018 –, Felughi, Rv. 27393601 Sez. 1, n. 9429 del 26/09/2017 – dep. 2018 –, Prosperini Sez. 5, n. 2297 del 10/11/2017 – dep. 2018 –, D’Ambrosio, Rv. 272363 Sez. 2, n. 8063 del 6/12/2017 – dep. 2018 –, D’Avino Sez. 3, n. 30025 del 4/12/2017 – dep. 2018 –, Scrudato Sez. 3 n. 18890 del 8/11/2017 – dep. 2018 –, Renna Sez. 3, n. 4566 del 10/10/2017 – dep. 2018 –, Morciano Sez. 3, n. 54706 del 13/11/2018, Renna Sez. 3, n. 39248 del 12/07/2018, Morciano Sez. 3, n. 38838 del 9/07/2018, Morciano Sez. 3, n. 30040 del 4/07/2018, Renna Sez. 5, n. 19384 del 12/02/2018, De Micheli Sez. 3, n. 9881 del 8/02/2018, Costantini Sez. 3, n. 30040 del 30/01/2018, Strambone Sez. 3, n. 8844 del 18/01/2018, Renna Sez. 3, n. 8852 del 18/01/2018, Dilonardo Sez. 5, n. 7879 del 16/01/2018, Daversa, Rv. 272457 Sez. 5, n. 49488 del 29/10/2018, Bevilacqua Sez. 7, n. 47346 del 20/09/2018, Della Piana Sez. 5, n. 54689 del 21/11/2018, Marcis Sez. 2, n. 39961 del 19/07/2018, Tuccillo, Rv. 27392201 Sez. 5, n. 33858 del 24/04/2018, Manganaro, Rv. 273629 Sez. 5, n. 3216 del 4/12/2018, Sorge Sez. 6, n. 55111 del 20/11/2018, Hizi Sez. 2, n. 46760 del 26/09/2018, Cardellini Sez. 7, n. 53112 del 21/06/2018, Rossetti Sez. 2, n. 34216 del 20/06/2018 Costi Sez. 2, n. 8065 del 17/01/2018, Canistro Sez. 6, n. 42917 del 19/06/2018, Sorroche Sez. 3, n. 39052 del 29/05/2018, Gentile Sez. 2, n. 49089 del 24/05/2018, Di Costanzo Sez. 5, n. 43579 del 23/05/2018, Polino Sez. 5, n. 36200 del 18/05/2018, Vinciguerra Sez. 5, n. 30435 del 18/04/2018, Trombetta, Rv. 27380701 Sez. 5, n. 24643 del 16/04/2018, Degli Angioli, Rv. 273339 Sez. 2, n. 28839 del 12/04/2018, Boesso Sez. 5 n. 33843 del 4/04/2018, Scopelliti, Rv. 27362401 Sez. 5, n. 23609 del 4/04/2018, Musso, Rv. 27347301 Sez. 5, n. 32357 del 27/03/2018 Spinelli Sez. 5, n. 19388 del 26/02/2018, Monagheddu Sez. 1, n. 36986 del 20/02/2018, Gatti Sez. 4, n. 22782 del 06/02/2018, Montuori, Rv. 27339601 Sez. 4, n. 9148 del 31/01/2018, Biancoviso Sez. 5, n. 5452 del 18/01/2018, Peroni Sez. 7, n. 47328 del 20/09/2018, Di Lauro Sez. 2, n. 51912 del 28/09/2018, Accurso Sez. 7, n. 54239 del 20/09/2018, Guadagnolo Sez. 3, n. 51833 del 3/10/2018, Morciano Sez. 5, n. 40178 del 2/07/2018, Morciano Sez. 3, n. 51832 del 3/10/2018, Cosi Sez. 3, n. 51831 del 3/10/2018, Cosi Sez. 3, n. 46228 del 9/07/2018, Cosi Sez. 3, n. 46227 del 9/07/2018, Baglivo Sez. 3, n. 46226 del 9/07/2018, De Marini Sez. 3, n. 46225 del 9/07/2018, Vertua Sez. 3, n. 39340 del 9/07/2018, Morciano Sez. 3, n. 39337 del 9/07/2018, Renna Sez. 2, n. 13086 del 01/03/2018, Solla, Rv. 272540 Sez. 2, n. 20456 del 7/03/2018

Sentenze della Corte EDU

Corte EDU del 14/04/2015, Contrada c. Italia Corte EDU del 11/12/2007, Drassich c. Italia

  • reato
  • separazione legale
  • divorzio
  • codice penale

CAPITOLO II

LA NUOVA PREVISIONE DELLA VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI ASSISTENZA FAMILIARE IN CASO DI SEPARAZIONE O SCIOGLIMENTO DEL MATRIMONIO

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 L’introduzione del principio della “riserva di codice”. - 2 L’art. 570-bis cod. pen. in rapporto alle previgenti fattispecie. - 3 La tutela dei figli di genitori non coniugati: il contrasto insorto nel vigore della previgente disciplina. - 4 Il problematico raccordo tra la disciplina previgente ed il nuovo art. 570-bis cod. pen.  - 5 I dubbi di legittimità costituzionale per contrasto con la legge delega. - 6 La soluzione favorevole alla continuità normativa. - 7 Ammissibilità del concorso tra il reato di omesso versamento dell’assegno e la violazione degli obblighi di assistenza ex art. 570, comma 2, cod. pen.  - Indice delle sentenze citate

1. L’introduzione del principio della “riserva di codice”.

Il d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 63 del 22 marzo 2018, in attuazione della delega prevista all’art. 1, comma 85, lett. q) della l. 23 giugno 2017, n. 103, ha introdotto nell’ordinamento penale il principio della riserva di codice.

Nella legge delega si richiedeva la «attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai principi costituzionali, attraverso l’inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale, in particolare i valori della persona umana, e tra questi il principio di uguaglianza, di non discriminazione e di divieto assoluto di ogni forma di sfruttamento a fini di profitto della persona medesima, e i beni della salute, individuale e collettiva, della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico, della salubrità e integrità ambientale, dell’integrità del territorio, della correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato».

Tale indicazione è stata recepita dal legislatore delegato in primo luogo inserendo l’art. 3-bis cod. pen. in base al quale «Nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia».

Al contempo, numerose figure di reato o circostanze originariamente previste da leggi speciali, sono state trasfuse all’interno del codice penale, inoltre, si è provveduto alla creazione di un nuovo Capo I-bis all’interno del Titolo XII del Libro II del codice penale, intitolato ai “delitti contro la maternità”, e di una Sezione I-bis all’interno del Capo III del medesimo titolo, dedicata ai “delitti contro l’uguaglianza”. Altrettando significativo è il collocamento dell’istituto della confisca “allargata” nel codice penale mediante la previsione dell’art. 240-bis cod. pen. rubricato come “Confisca in casi particolari”.

Nell’ambito di tale rilevante opera di revisione sistematica dell’ordinamento penale, finalizzata a garantire una maggiore organicità del sistema punitivo complessivamente considerato, si inserisce l’art. 570-bis cod. pen., rubricato “Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio”, che sanziona, con le pene previste dall’art. 570 cod. pen., la condotta del coniuge che «si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero viola gli obblighi di natura economia in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli».

La norma riproduce, anche se non in modo letterale, le previgenti disposizioni penali contenute all’art. 12-sexies della legge 1 dicembre 1970, n. 898 ed all’art. 3 della legge 8 febbraio 2006, n. 54, norme che, conseguentemente, sono state espressamente abrogate dall’art. 7, lett. b) e d), d.lgs. n. 21 del 2018.

Le modifiche sopra richiamate impongono una verifica, sotto il profilo della successione di leggi penali nel tempo, al fine di escludere che alla non sovrapponibilità letterale l’attuale art. 570-bis cod. pen. ed i previgenti art. 12 sexies l. n. 898 del 1970 ed art. 3 l.n.54 del 2006 corrisponda anche una diversità contenutistica tra norme abrogate e nuova fattispecie codicistica.

Problema che si porrà, in generale, per tutte le fattispecie inserite nel codice penale con conseguente abrogazione delle disposizioni originarie e che ha già visto una prima pronuncia resa da Sez. 1, n. 39542 del 10/4/2018 Di Natale, Rv. 273863, che, in relazione all’aggravante originariamente prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, ha affermato la continuità normativa con l’analoga previsione trasfusa nell’art. 416-bis. 1, comma 1, cod. pen.

2. L’art. 570-bis cod. pen. in rapporto alle previgenti fattispecie.

Nell’originario assetto normativo, la legislazione speciale prevedeva forme differenziate di tutela dei diritti conseguenti alla separazione o del divorzio dei coniugi.

In estrema sintesi, è utile richiamare la previgente tutela differenziata che era accordata ai coniugi.

L’art. 12-sexies della l. n. 898 del 1970, stabiliva un’autonoma ipotesi di reato ricollegata al mero inadempimento dell’obbligo di versamento dell’assegno stabilito in sede di divorzio. Analoga tutela non era, invece, accordata ai coniugi in regime di separazione, rispetto ai quali era configurabile esclusivamente il reato di violazione degli obblighi di assistenza previsto dall’art. 570, cod. pen.

Parimenti diversificata era la tutela dei diritti dei figli, atteso che se nel caso di divorzio l’inadempimento dell’obbligo di contribuzione determinava di per sé la configurabilità del reato di cui all’art. 12-sexies, altrettanto non avveniva nel caso di separazione, sicchè in tale ipotesi i figli potevano unicamente invocare la configurabilità del reato di cui all’art. 570, cod. pen. 

Tale differenziazione è stata superata a seguito dell’introduzione della normativa in tema di “affido condiviso” con la quale, oltre ad introdursi rilevanti modifiche sul piano civilistico ed inerenti ai rapporti tra coniugi separati ed i figli minori, è stata anche prevista all’art. 3 l. n. 54 del 2006 una nuova fattispecie incriminatrice, essenzialmente calibrata sulla falsariga dell’art. 12-sexies l. n. 889 del 1970.

Sulla base di tale riforma, quindi, la violazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno previsto in favore dei figli ed a carico di uno dei genitori separati comportava di per sé la configurabilità del reato punito con la pena prevista dall’art. 570 cod. pen., non occorrendo anche la dimostrazione dell’induzione in uno stato di bisogno come richiesto dall’art. 570, comma 2, cod. pen.

Per quanto concerne, invece, i rapporti tra i coniugi separati, la giurisprudenza formatasi a seguito della novella aveva negato l’applicabilità del combinato disposto dell’art. 12-sexies, legge 1 dicembre 1970, n. 898 e dell’art. 3 , legge 8 febbraio 2006, n. 54 art. , essendosi ritenuto che quest’ultima previsione riguardasse unicamente l’inadempimento dell’obbligo di mantenimento in favore dei figli (minorenni e maggiorenni); ne conseguiva che, nel caso di inadempimento dell’obbligo di contribuzione posto nei confronti del coniuge separato, residua la sola tutela già predisposta dall’art. 570 cod. pen. (Sez. 6, n. 36363 del 22/09/2011, Rv. 250879).

A seguito della trasposizione delle previgenti norme incriminatrici nell’art. 570-bis cod. pen., non si pongono problemi di sorta, con riferimento all’ipotesi originariamente disciplinata dall’art. 12-sexies l. n. 889 del 1970, atteso che l’art. 570-bis cod. pen. sanziona l’inadempimento dell’assegno stabilito in sede di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, sicchè la dizione è la medesima utilizzata anche nella previgente disposizione.

In tal senso si è espressa Sez. F, n. 37766 del 2/8/2018, che non solo ha affermato la continuità normativa tra la nuova disposizione e quella previgente, anche a seguito dell’intervenuta formale abrogazione dell’art. 12-sexies l. n. 898 del 1970, ma ha anche precisato che è rimasto immutato il regime di procedibilità d’ufficio del reato di omesso versamento dell’assegno divorzile. Sul punto, infatti, si è richiamato il principio già affermato da Sez. U, n. 23866 del 31/01/2013, S., Rv. 255270, secondo cui il rinvio contenuto nell’art. 12-sexies ed ora nell’art. 570-bis cod. pen. all’art. 570 cod. pen., si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare e non anche al relativo regime di procedibilità.

3. La tutela dei figli di genitori non coniugati: il contrasto insorto nel vigore della previgente disciplina.

Prima di affrontare la questione relativa all’estensione dell’ambito applicativo dell’art. 570bis cod. pen., è necessario richiamare brevemente il contrasto insorto in giurisprudenza circa l’applicabilità o meno della previsione contenuta all’art. 3 l. n. 54 del 2006 anche ai casi di inadempimento degli obblighi patrimoniali previsti in favore dei figli di genitori non coniugati.

Sul punto si è registrato un contrasto nella giurisprudenza della Sesta sezione, atteso che con una prima decisione si è ritenuto che il reato di omesso versamento dell’assegno periodico previsto dell’art. 12-sexies legge 1 dicembre 1970, n. 898 (richiamato dall’art. 3 della legge 8 febbraio 2006 n. 54) è configurabile esclusivamente nel caso di separazione dei genitori coniugati, ovvero di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, mentre, nel caso di violazione degli obblighi di natura economica derivanti dalla cessazione del rapporto di convivenza può configurarsi il solo reato di cui all’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen. (In motivazione, la Corte ha precisato che l’art. 4, comma secondo, legge n. 54 del 2006, in base al quale le disposizioni introdotte si applicano anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, fa riferimento ai provvedimenti di natura civile e non anche alle previsioni normative che attengono al diritto penale sostanziale) (Sez. 6, n. 2666 del 19/01/2017, B., Rv. 268968).

Tale orientamento, tuttavia, è stato abbandonato dalla giurisprudenza successiva, secondo la quale il reato di omesso versamento dell’assegno periodico per il mantenimento, educazione e istruzione dei figli, previsto dell’art. 12-sexies l. 1 dicembre 1970, n. 898 (richiamato dall’art. 3 della l. 8 febbraio 2006 n. 54), è configurabile non solo nel caso di separazione dei genitori coniugati, ovvero di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, ma anche in quello di violazione degli obblighi di natura economica derivanti dalla cessazione del rapporto di convivenza. (In motivazione, la Corte ha precisato che, alla luce di un’interpretazione sistematica della disciplina sul tema delle unioni civili e della responsabilità genitoriale nei confronti dei figli, introdotta dalla l. 20 maggio 2016, n. 76 e dal d.lgs. 28 dicembre 2013 n. 154, che ha inserito l’art. 337-bis. cod. civ., l’art. 4, comma secondo, legge n. 54 del 2006, in base al quale le disposizioni introdotte si applicano anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, deve essere interpretato con riferimento a tutte le disposizioni previste dalla legge citata, comprese quelle che attengono al diritto penale sostanziale, in quanto una diversa soluzione determinerebbe una diversità di trattamento, accordando una più ampia e severa tutela penale ai soli figli di genitori coniugati rispetto a quelli nati fuori dal matrimonio) (Sez. 6, n. 25267 del 06/04/2017, Rv. 270030; Sez. 6, n. 12393 del 31/01/2018, Rv. 272518; Sez. 6, n. 14731 del 22/02/2018, Rv. 272805; Sez. 6, n. 29902 del 03/05/2018, Rv. 273513).

Sulla base della richiamata evoluzione giurisprudenziale, pertanto, può affermarsi che la disciplina penale antecedente l’introduzione dell’art. 570-bis cod. pen. era stata ritenuta, sia pur con un’iniziale incertezza, applicabile anche nei confronti dei figli di genitori non coniugati.

La perdurante praticabilità di tale forma di tutela, chiaramente improntata all’eliminazione di qualsivoglia disparità di trattamento tra figli nati da genitori coniugati e non, è stata posta seriamente in discussione dal tenore letterale del nuovo art. 570-bis cod. pen.

4. Il problematico raccordo tra la disciplina previgente ed il nuovo art. 570-bis cod. pen. 

Per comprendere i termini della questione è necessario premettere che il previgente art. 3, l. n. 54 del 2006, stabiliva che in caso di violazione degli obblighi di natura economica, sanciti in sede di separazione, si applicava l’art. 12-sexies; il successivo art. 4, tuttavia, estendeva l’intera disciplina sull’affido condiviso introdotta dalla l. n. 54 del 2006 anche ai casi di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonchè ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.

A seguito dell’introduzione dell’art. 570-bis cod. pen. sembrerebbe esser venuto meno qualsivoglia riferimento ai figli nati fuori dal matrimonio, il che ha fatto sorgere il dubbio che la novella abbia in qualche modo inciso, negativamente, sul novero delle situazioni giuridiche coperte dalla tutela penale.

La norma in esame ha introdotto una fattispecie omissiva strutturata come reato proprio, atteso che la condotta incriminata consiste nell’omessa corresponsione da parte del “coniuge” di “ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio”; nella seconda parte la norma, mantenendo fermo il riferimento al coniuge quale soggetto agente, sanziona anche la violazione degli “obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli”.

Dal mero esame del dato letterale sembrerebbe che il reato sanzioni esclusivamente le condotte poste in essere dal coniuge, con la conseguenza che tale qualità soggettiva rappresenti un elemento costitutivo della fattispecie, sicchè sarebbe agevole dedurre l’inapplicabilità della norma incriminatrice alle condotte che, pur consistenti nella violazione degli obblighi di natura patrimoniali inerenti l’affidamento condiviso dei figli, siano poste in essere da un genitore che non ha mai rivestito la qualità di coniuge.

Sulla base dell’esame della struttura del reato introdotto all’art. 570-bis cod. pen., potrebbe sostenersi che l’aver configurato la fattispecie come reato proprio, per la cui commissione è necessario avere (nel caso di separazione) od aver avuto (nel caso di divorzio, annullamento o nullità del matrimonio) la qualità di coniuge, comporterebbe che tutte quelle condotte materiali che, pur consistendo nella violazione degli obblighi inerenti l’affidamento condiviso di figli, sono state commesse da genitori che non sono stati mai legati da alcun vincolo matrimoniale, resterebbero inevitabilmente fuori dall’ambito dei fatti penalmente rilevanti.

La nuova disposizione incriminatrice, inserendo il riferimento al “coniuge”, si discosta notevolmente dal previgente assetto normativo desumibile dagli artt. 3 e 4 della l. n. 54 del 2006.

Prima della modifica normativa, poteva sostenersi che l’art. 4 l. n. 54 del 2006, nell’estendere la disciplina della riforma sull’affido condiviso anche “ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”, richiamava l’intera normativa, ivi compresa la parte penalistica introdotta all’art. 3.

Optando per una interpretazione strettamente letterale del complesso normativo in esame, ne conseguirebbe che, essendo stato abrogato l’art. 3 della l. n. 54 del 2006, sarebbe venuta meno la norma incriminatrice richiamata dall’art. 4 e, quindi, anche la possibilità di estendere la tutela penale ai figli di genitori non coniugati.

È innegabile che tale conclusione comporterebbe un’obiettiva disparità di trattamento, posto che i figli di genitori non coniugati non riceverebbero tutela a fronte del mero inadempimento rispetto alle obbligazioni patrimoniali stabilite dal tribunale per i minorenni, residuando la sola applicabilità dell’art. 570, comma 2, n. 2, cod. pen. che, però, ha presupposti applicativi ben più stringenti, configurando l’illecito penale solo a fronte dell’omessa prestazione dei mezzi di sussistenza e, quindi, della determinazione di uno stato di bisogno.

Peraltro, l’art. 570 cod. pen. tutela esclusivamente i figli minori ed i maggiorenni inabili al lavoro, mentre l’art. 570-bis cod. pen. sanziona l’inadempimento anche se concernente l’assegno stabilito in favore dei figli maggiorenni ma non autosufficienti (ai sensi dell’art. 337-septies cod.civ.).

5. I dubbi di legittimità costituzionale per contrasto con la legge delega.

Come evidenziato in premessa, la delega conferita nella riforma “Orlando” in materia di riserva di codice assegnava al legislatore delegato un compito essenzialmente compilativo e di riassetto di fattispecie penali già previste, consentendo il trasferimento dalla legislazione speciale all’apparato codicistico, ma non anche di modificarne il contenuto.

Ove si ritenesse che la formulazione dell’art. 570-bis cod. pen. ha ristretto l’ambito della fattispecie penale preesistente delineata dagli artt.3 e 4 l. n. 54 del 2006, si porrebbe fondatamente il dubbio circa l’illegittimità costituzionale della novella per eccesso di delega, nella misura in cui il legislatore delegato avrebbe ridotto l’area delle condotte penalmente rilevanti, abrogando la tutela penale per i figli di genitori non coniugati.

In astratto non sarebbe di ostacolo alla proposizione della questione di legittimità costituzionale il fatto che l’eventuale accoglimento si sostanzierebbe in una pronuncia in malam partem che, ampliando l’area del penalmente rilevante si porrebbe in contrasto con il principio della riserva di legge in materia penale.

Pur senza pretesa di esaustività, è utile segnalare Corte cost., sent. n. 5 del 2014 che, dichiarando l’illegittimità di una norma abrogatrice di norma incriminatrice, ha determinato la reviviscenza di una fattispecie che era stata espunta dall’ordinamento.

La Consulta ha affermato che “l’abrogazione della fattispecie criminosa mediante un decreto legislativo, adottato in carenza o in eccesso di delega, si porrebbe, infatti, in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., che demanda in via esclusiva al Parlamento, in quanto rappresentativo dell’intera collettività nazionale, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, precludendo al Governo scelte di politica criminale autonome o contrastanti con quelle del legislatore delegante. Se si escludesse il sindacato costituzionale sugli atti legislativi adottati dal Governo anche nel caso di violazione dell’art. 76 Cost., si consentirebbe allo stesso di incidere, modificandole, sulle valutazioni del Parlamento relative al trattamento penale di alcuni fatti. Deve quindi concludersi che, quando, deducendo la violazione dell’art. 76 Cost., si propone una questione di legittimità costituzionale di una norma di rango legislativo adottata dal Governo su delega del Parlamento, il sindacato di questa Corte non può essere precluso invocando il principio della riserva di legge in materia penale”.

La Corte ha precisato che, in suddetta ipotesi, deve escludersi che la questione di legittimità costituzionale possa essere dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza nel processo a quo, salvo restando che spetterà al giudice del merito valutare le eventuali conseguenze derivanti dall’accoglimento della questione e dal conseguente venir meno dell’effetto abrogativo del reato.

Valorizzando le conclusioni cui è pervenuta la Consulta, potrebbe ipotizzarsi la proposizione della questione di illegittimità costituzionale dell’art. 570-bis cod. pen. ove si ritenga che la norma vada necessariamente interpretata secondo il dato letterale e, quindi, nel senso di escludere la configurabilità del reato nel caso di inadempimento commesso ai danni di figli di genitori non coniugati.

Impostata sulla base di tali coordinate, la questione di legittimità costituzionale potrebbe essere utilmente proposta, tuttavia, appare opportuno sottolineare come il dedotto difetto di delega implica necessariamente una valutazione in merito all’interpretazione della previgente normativa.

Per potersi sostenere che il Legislatore delegato ha violato i principi della delega, infatti, occorrerebbe previamente verificare se – al momento di esercizio del potere normativo – sussisteva o meno un’interpretazione univoca del combinato disposto degli artt. 3 e 4, l. n. 54 del 2006, tale da potersi affermare che l’estensione della responsabilità penale nei confronti del genitore inadempiente nei confronti degli obblighi relativi ai figli nati fuori dal matrimonio costituisse un principio di “diritto vivente”.

Orbene, l’esatta individuazione del perimetro applicativo del previgente art. 3, l. n. 54 del 2006, era tutt’altro che pacifica in giurisprudenza, tant’è che all’epoca dell’entrata in vigore del d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21 sussisteva il contrasto sull’effettiva estensione della norma incriminatrice.

È pur vero che la giurisprudenza intervenuta in concomitanza con l’introduzione della riserva di codice si è andata orientando nel senso di privilegiare l’estensione della tutela penale anche nei confronti di figli di genitori non coniugati, tuttavia, è dubitabile che il ridotto numero di pronunce in tal senso rese possa assurgere al rango di “diritto vivente”.

Nella giurisprudenza della Corte costituzionale, infatti, si tende a ritenere che una determinata interpretazione possa ritenersi definitivamente consolidata solo in presenza di pronunciamenti delle Sezioni unite, ovvero di un indirizzo giurisprudenziale delle sezioni semplici assolutamente consolidato nel tempo ed incontrastato (in tema si veda Corte cost., sent. n. 32 del 2007; Corte cost., sent. n. 117 del 2012; Corte cost., sent. n. 253 del 2013).

Quanto detto comporta che un’eventuale questione di illegittimità costituzionale prospettata sotto il profilo della violazione dei principi espressi nella legge delega, potrebbe essere rigettata sulla base dell’obiezione che la violazione della delega non è configurabile ove il Legislatore delegato, cui era demandato di provvedere alla sola diversa collocazione della normativa speciale senza apportare modifiche sostanziali, vi abbia provveduto mediante una descrizione della fattispecie collimante con una delle due possibili interpretazioni della disciplina esistente.

In buona sostanza, nel caso di specie il Legislatore delegato si sarebbe limitato a prendere atto dell’insussistenza di un’univoca interpretazione del contesto normativo, riproducendo la nuova disposizione secondo una delle due opzioni interpretative emerse in giurisprudenza privilegiando, peraltro, quella fondata su una lettura strettamente letterale del previgente contesto normativo.

A fronte della obiettiva carenza di una lettura univoca e necessitata della fattispecie di reato trasfusa dalla legislazione speciale al corpus codicistico, è maggiormente complesso sostenere la tesi del difetto di delega, potendosi piuttosto affermare che il Legislatore ha dato esecuzione al principio informatore dell’immutabilità delle fattispecie preesistenti riproducendo il contenuto del solo art. 3, l. n. 54 del 2006, senza tener conto dell’eventuale – e tutt’altro che pacifica – clausola di estensione della fattispecie penale desumibile dall’interpretazione estensiva dell’art. 4, l. n. 54 del 2006.

6. La soluzione favorevole alla continuità normativa.

La via della proposizione della questione di legittimità costituzionale non è l’unica che idonea a garantire il mantenimento dell’estensione della tutela penale nel passaggio tra la disciplina previgente ed il nuovo art. 570-bis cod. pen.

La Cassazione, con due recenti pronunce ha ritenuto percorribile una soluzione interpretativa volta a garantire la continuità normativa tra il previgente sistema di tutela e l’art. 570bis cod. pen. 

Con argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili, Sez. 6, n. 55744 del 24/10/2018 e Sez. 6, n. 56080 del 17/10/2018, sono partite dalla premessa che, per valutare i margini normativi che consentano un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina in esame, occorre verificare se il meccanismo di rinvio che, in base al previgente art. 3 della l. n. 54 del 2006 consentiva di estendere la sanzione penale anche in assenza del rapporto di coniugio, possa in qualche modo ritenersi ancora operate.

Come già evidenziato in precedenza, la complessa costruzione previgente, si fondava sull’art. 3 in base al quale, in caso di violazione degli obblighi di natura economica, stabiliti in sede di separazione, si applicava l’art. 12-sexies; il successivo art. 4 estendeva l’intera disciplina sull’affido condiviso introdotta dalla l. n. 54 del 2006 anche ai casi di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonchè ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.

A seguito dell’abrogazione espressa dell’art. 3, si è posto il problema del venir meno di quel rinvio normativo che consentiva a ritroso di estendere la sanzione penale a tutte le ipotesi indicate dall’art. 4.

Tale soluzione, invero, riposa su una lettura della norma che è stata ritenuta formalistica e non attenta all’impostazione sistematica dell’intera disciplina, anche civilistica, che tutela i figli nati fuori dal matrimonio al pari di quelli nati da genitori coniugati.

L’art. 4, comma 2, l. n. 54 del 2006 stabilisce che «Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonchè ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati».

Orbene, non è stato giudicato corretto ritenere che il riferimento alla “presente legge” vada inteso nel senso che l’estensione dell’ambito applicativo è riferibile esclusivamente alle disposizioni formalmente inserite nella l. n. 54 del 2006.

Partendo dal presupposto che il contenuto della norma incriminatrice di cui al previgente art. 3, l. n. 54 del 2006, è stato meramente trasfuso nel testo dell’attuale art. 570-bis cod. pen., se ne è dedotto che l’effetto della novella deve ritenersi limitato alla sola collocazione in un diverso contesto codicistico di una fattispecie penale che, per quanto riguarda il suo portato contenutistico, non ha subito alcuna modifica.

Argomentando in tal senso, osserva Sez. 6, n. 56080 del 17/10/2018 che «L’abrogazione espressa dell’art. 3, però, non può ritenersi abbia determinato il venir meno di quel rinvio normativo che consentiva a ritroso di estendere la sanzione penale a tutte le ipotesi indicate dall’art. 4. L’art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006 stabilisce che “Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati. Appare riduttivo ritenere che il riferimento “alla presente legge” vada inteso nel senso che l’estensione dell’ambito applicativo è riferibile esclusivamente alle disposizioni formalmente inserite nella legge n. 54 del 2006.

È necessario, invece, partire dal presupposto che il contenuto della norma incriminatrice di cui al previgente art. 3 della legge n. 54 del 2006, è stato meramente trasfuso nel testo dell’attuale art. 570-bis cod. pen., sicchè l’effetto della novella deve ritenersi limitato alla sola collocazione in un diverso contesto codicistico di una fattispecie penale che, per quanto riguarda il suo portato contenutistico, non ha subito alcuna modifica.

In sostanza, la fattispecie di reato che attualmente è configurata dall’art. 570-bis cod. pen. è la medesima in precedenza prevista dall’art. 3 della legge n. 54 del 2006; ne consegue che il richiamo contenuto nel successivo art. 4 non va riferito formalmente alla legge in questione, bensì al suo contenuto. Quindi la trasposizione della norma penale non determina in alcun modo l’impossibilità di operare della clausola di richiamo avente efficacia estensiva dell’ambito di incriminazione penale.

Da ciò consegue che l’art. 4 della legge n. 54 del 2006, va interpretato nel senso della perdurante efficacia dell’estensione “ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati” della disciplina sanzionatoria delle violazioni degli obblighi economici, essendo del tutto irrilevante sul piano sostanziale che la norma incriminatrice prima contemplata dall’art. 3, della legge n. 54 del 2006, sia stata successivamente trasfusa nell’art. 570-bis cod. pen.».

Considerazione del tutto analoghe sono poste a fondamento della decisione assunta da Sez. 6, n. 55744 del 24/10/2018 che ha anche sottolineato come la disciplina civilistica preveda la totale equiparazione dei figli rispetto agli obblighi gravanti sui genitori, senza operare alcuna distinzione a seconda che la prole sia nata da genitori coniugati, sicchè la medesima equiparazione deve essere riconosciuta – attuando un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 570-bis cod. pen. – anche in sede penale.

7. Ammissibilità del concorso tra il reato di omesso versamento dell’assegno e la violazione degli obblighi di assistenza ex art. 570, comma 2, cod. pen. 

La tutela del coniuge e dei figli è affidata ad una duplice previsione incriminatrice, ravvisabile nelle norme contenute negli artt. 570 e 570-bis cod. pen. che presuppongono presupposti costitutivi solo parzialmente sovrapponibili.

Ove l’omesso versamento dell’assegno, in considerazione del protrarsi dell’inadempimento e delle condizioni patrimoniali del beneficiario, determini anche lo stato di bisogno di quest’ultimo, si è posto il problema di verificare se sia ammissibile il concorso tra il reato attualmente previsto dall’art. 570-bis cod. pen. e la violazione degli obblighi di assistenza ex art. 570, comma 2, cod. pen. 

Sul punto le soluzioni offerte dalla Cassazione non sono univoche.

Secondo una prima soluzione, la condotta del genitore separato che fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori, omettendo di versare l’assegno di mantenimento, integra esclusivamente il reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, cod. pen., fattispecie nella quale verrebbe assorbita la violazione meno grave prevista dall’art. 12-sexies della legge 1 dicembre 1970, n. 898, richiamato dall’art. 3, legge 8 febbraio 2006, n. 54, norma attualmente trasfusa nell’art. 570-bis cod. pen., (Sez.6, n. 57237 del 10/11/2017, Rv. 271674).

Tale principio si pone in linea di continuità con taluni precedenti arresti della medesima Sezione (Sez. 6, n. 44629 del 17/10/2013, Rv. 256905; Sez. 6, n. 6575 del 18/11/2008, Rv. 243529).

L’analisi della struttura dei reati di cui agli artt. 570, comma 2, cod. pen. e 12-sexies l. n. 898 del 1970 e del bene giuridico tutelato ha indotto la Corte a ritenere che la condotta sanzionata dall’art. 12-sexies rientra nel più ampio paradigma di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, cod. pen.., allorchè la volontaria sottrazione all’obbligo di corresponsione dell’assegno determinato dal tribunale, sufficiente a integrare la prima fattispecie, comporti anche il venir meno dei mezzi di sussistenza, elemento necessario ai fini della integrazione della seconda figura criminosa.

La tesi dell’assorbimento della fattispecie meno grave in quella prevista dall’art. 570, comma 2, cod. pen. non è stata recepita da altro orientamento della Cassazione.

Evidenziando la diversità strutturale delle due fattispecie criminose si è sostenuto che tra le stesse sarebbe ravvisabile un concorso formale eterogeneo e non un rapporto di consunzione (Sez. 6, n. 32540 del 19/5/2005, Rv. 231925; Sez. 6, n. 34736 del 16/6/2011, Rv. 250839; Sez. 6, n. 12307 del 13/3/2012, Rv. 252605).

Secondo i sostenitori di tale soluzione, il mancato versamento dell’assegno divorzile integra il reato di cui all’art. 12-sexies, l. n. 898 del 1970, ma, qualora il genitore divorziato faccia anche mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore, tale condotta realizza anche la diversa fattispecie di cui all’art. 570, comma 2, n. 2 cod. pen.

A sostegno della tesi dell’autonomia delle due fattispecie criminose, si è sottolineato come tali condotte, pur potendo in astratto riferirsi al medesimo fatto storico, individuabile nell’inadempimento alle obbligazioni economiche da parte del genitore non affidatario, presentano degli elementi specializzanti che non consentono di ravvisare una progressione criminosa.

Quest’ultima soluzione è stata ribadita in una recente pronuncia della Cassazione, secondo cui le obbligazioni da cui discendono le due diverse fattispecie di reato avrebbero una fonte diversa, in quanto l’obbligo di contribuzione al mantenimento dei figli, tutelata dall’art. 570 cod. pen., troverebbe fondamento direttamente nel matrimonio, mentre l’obbligo di versamento dell’assegno, tutelato dall’art. 12-sexies, ed ora dall’art. 570-bis cod. pen., si fonda sul provvedimento del giudice civile che pronuncia il divorzio.

La diversità della fonte dell’obbligazione rimasta inadempiuta giustificherebbe la configurabilità del concorso formale eterogeneo, con esclusione del rapporto di consunzione, fra il delitto previsto dall’art. 12-sexies, legge 1 dicembre 1970, n. 898, e quello previsto dall’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen. (Sez. 6, n. 10772, 20/2/2018, Rv. 272763).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 32540 del 19/05/2005, Rv. 231925 Sez. 6, n. 6575 del 18/11/2008, Rv. 243529 Sez. 6, n. 36363 del 22/09/2011, Rv. 250879 Sez. 6, n. 34736 del 16/06/2011, Rv. 250839 Sez. 6, n. 12307 del 13/03/2012, Rv. 252605 Sez. U, n. 23866 del 31/01/2013, S., Rv. 255270 Sez. 6, n. 44629 del 17/10/2013, Rv. 256905 Sez. 6, n. 2666 del 19/01/2017, B., Rv. 268968 Sez. 6, n. 25267 del 06/04/2017, Rv. 270030 Sez. 6, n. 57237 del 10/11/2017, Rv. 271674 Sez. 6, n. 12393 del 31/01/2018, Rv. 272518 Sez. 6, n. 10772 del 20/02/2018, Rv. 272763 Sez. 6, n. 14731 del 22/02/2018, Rv. 272805 Sez. 6, n. 29902 del 03/05/2018, Rv. 273513 Sez. 1, n. 39542 del 10/04/2018, Di Natale, Rv. 273863 Sez. F, n. 37766 del 2/8/2018 Sez. 6, n. 55744 del 24/10/2018 Sez. 6, n. 56080 del 17/10/2018

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 32 del 2007 Corte cost., sent. n. 117 del 2012 Corte cost., sent. n. 253 del 2013

  • responsabilità penale
  • codice penale
  • diritto sanitario

CAPITOLO III

LA RESPONSABILITÀ DELL’ESERCENTE LA PROFESSIONE SANITARIA DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DELLA “GELLIBIANCO”

(di Paola Proto Pisani )

Sommario

1 Premessa: l’introduzione dell’art. 590-sexies cod. pen. ad opera della legge 8 marzo 2017, n. 24 e i precedenti risultati nomofilattici raggiunti dalla giurisprudenza della Quarta sezione della Corte. - 2 Le decisioni in contrasto: l’interpretazione quale nuova regola di parametrazione della colpa in ambito sanitario che non configura una fattispecie di esonero o di limitazione di responsabilità. - 3 (segue) La tesi contraria: l’interpretazione che ritiene configurabile una causa di non punibilità operante nel solo caso di imperizia e indipendentemente dal grado della colpa. - 4 I punti essenziali del contrasto. - 5 La decisione delle Sezioni Unite “Mariotti”. - 6 La giurisprudenza successiva. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa: l’introduzione dell’art. 590-sexies cod. pen. ad opera della legge 8 marzo 2017, n. 24 e i precedenti risultati nomofilattici raggiunti dalla giurisprudenza della Quarta sezione della Corte.

Nel corso dell’ultimo anno è stata depositata la motivazione della sentenza delle Sezioni unite penali n. 8770 del 21/12/2017, – dep. 2018 –, Mariotti, Rv. 272174 – 272175 – 272176 con la quale non soltanto è stato risolto il contrasto insorto, nell’ambito della Quarta sezione, in ordine all’interpretazione dell’art. 590-sexies cod. pen., introdotto dall’art. 6 della legge 8 marzo 2017, n. 24, in tema di responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria (e alla conseguente individuazione della disciplina più favorevole tra quella introdotta dalla novella e quella dettata dall’abrogato art. 3 comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189), ma è stato chiarito quali tra i “risultati nomofilattici” raggiunti dalla giurisprudenza della Quarta sezione della Corte nel vigore dell’abrogata normativa mantengono attualità.

In tema di responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria l’art. 6, comma 1, della legge 8 marzo 2017, n. 24, recante «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie» ha introdotto nel codice penale l’art. 590-sexies, che prevede:

«Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma.

Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».

Il comma 2 del medesimo art. 6 ha abrogato l’art. 3, comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, che prevedeva: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo.».

La legge 24 del 2017 reca una complessa riforma in materia sanitaria, che non si limita alla disciplina della responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria, ma comprende anche una articolata disciplina della responsabilità civile (artt. 7 e ss.), nonché l’introduzione di misure di risk management (artt. da 1 a 4), e l’introduzione di un sistema di accreditamento istituzionale delle linee guida (art. 5).

L’interpretazione dell’art. 590-sexies cod. pen. ha posto, fin dall’entrata in vigore della novella, importanti problemi dovuti al tenore del testo della disposizione che, come rilevato dalla Corte, «suscita alti dubbi interpretativi a prima vista irresolubili, subito messi in luce dai numerosi studiosi che si sono cimentati con la riforma: si mostrano, in effetti, incongruenze interne, tanto radicali da mettere in forse la stessa razionale praticabilità della riforma in ambito applicativo» (Sez. 4, n. 28187 del 20/4/2017, Tarabori, Rv. 270213 -270214). La non punibilità dell’agente che rispetta le raccomandazioni previste dalle linee guida accreditate ai sensi di legge, nel caso in cui esse «risultino adeguate alle specificità del caso concreto» sembra, almeno a prima vista, ovvia, non comprendendosi quale spazio rimanga per la configurabilità di una colpa nel caso in cui l’agente rispetti le raccomandazioni previste da linee guida pertinenti, attualizzandole in concreto in un modo che risulti adeguato rispetto alle contingenze del caso concreto.

D’altra parte la novella, a differenza dell’art. 3 comma 1, del d.l. n. 158 del 2012, non contiene alcun riferimento al grado della colpa, quale discrimine della rilevanza penale della condotta.

La scelta del significato da attribuire alla disposizione in questione, inoltre, incide notevolmente sulla soluzione delle questioni di diritto intertemporale, stante l’intervenuta abrogazione della limitazione della responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria prevista dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012: in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 24 del 2017 si pone, infatti, la questione dell’individuazione della disposizione più favorevole, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2 cod. pen.

Anche l’abrogato art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012 presentava un’apparente contraddizione prevedendo un terapeuta che, contemporaneamente, rispettasse le linee guida e tuttavia fosse in colpa.

Tale illogicità era stata superata dalla Corte (Sez. 4, n. 16237 del 29/1/2013, Cantore, non mass. sul punto, confermata dalla giurisprudenza successiva) sulla base del rilievo che le linee guida danno direttive solo di massima che vanno in concreto applicate senza automatismi ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico, o addirittura disattese. Di conseguenza era stato ritenuto possibile che fosse in colpa il terapeuta rispettoso delle linee guida tanto per errore nella scelta quanto per errore nell’esecuzione delle raccomandazioni previste dalle linee guida, cioè il professionista:

- che, “nel concreto farsi del trattamento” commettesse un errore nell’adattamento delle direttive di massima alle evenienze e peculiarità dello specifico caso clinico;

- o che applicasse le linee guida a un caso in cui dovessero essere disattese, in ragione delle specificità del caso concreto (ad esempio nelle situazioni di comorbilità).

- La giurisprudenza della Corte (Sez. 4, n. 16237 del 29/1/2013, Cantore, non mass. sul punto, confermata anche sotto tale profilo dalla giurisprudenza successiva) aveva anche elaborato criteri idonei a guidare il giudizio nella valutazione della gravità della colpa, ritenendola configurabile, quando:

- «l’erronea conformazione dell’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente»;

- «il terapeuta si attenga allo standard generalmente appropriato per un’affezione, trascurando i concomitanti fattori di rischio o le contingenze che giustifichino la necessità di discostarsi radicalmente dalla routine. In tale situazione potrà parlarsi di colpa grave solo quando i riconoscibili fattori che suggerivano l’abbandono delle prassi accreditate assumano rimarchevole, chiaro rilievo e non lascino residuare un dubbio plausibile sulla necessità di un intervento difforme e personalizzato rispetto alla peculiare condizione del paziente».

Nell’ambito della giurisprudenza della Quarta sezione penale fino all’entrata in vigore della legge n. 24 del 2017 era rimasto, invece, ancora aperto il problema relativo, all’applicabilità o meno della norma di cui all’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012, oltre che alle condotte imperite, anche a quelle negligenti ed imprudenti e, conseguentemente, quello dell’esatta portata degli effetti parzialmente abrogativi ad essa connessi. Alcune pronunce, infatti, ritenevano operante l’esonero da responsabilità per colpa lieve soltanto per l’imperizia, sulla base della considerazione che le linee guida conterrebbero soltanto regole di perizia (Sez. 4, n. 16944 del 20/03/2015, Rota, 263389; Sez. 4, n. 7346 dell’08/07/2014, Sozzi, Rv. 262243; Sez. 3, n. 5460 del 04/12/2013, Grassini, Rv. 258846; Sez. 4, n. 11493 del 24/01/2013, Pagano, Rv. 254756; Sez. 4, n. 26996 del 27/04/2015, Caldarazzo, Rv. 263826). Secondo altre pronunce l’esonero di responsabilità per colpa lieve di cui alla “legge Balduzzi” si estendeva, invece, anche alla negligenza e all’imprudenza, sia perché contenuto delle linee guida possono essere anche regole che afferiscono al parametro della diligenza, come nel caso di professioni sanitarie diverse da quella medica, sia perché la norma abrogata non conteneva alcun richiamo al canone della perizia, sia per l’ «intrinseca opinabilità nella stessa distinzione dei tre profili di colpa generica, della diligenza, prudenza e perizia», (Sez. 4, n. 23283 dell’11/05/2016, Denegri, Rv. 266903; Sez. 4, n. 45527 dell’01/01/2015, Cerracchio, Rv. 264897; Sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, Rv. 260739-260740; Sez. 4, n. 2168 dell’08/07/2014, Anelli, Rv. 261764).

Quanto ai profili di costituzionalità della norma si ricorda che il Tribunale di Milano, con ordinanza del 21/03/2013 (in G.U. del 05/06/2013, n. 23) aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012, sotto il duplice profilo dell’indeterminatezza e dell’irragionevole ampiezza della sua sfera di applicazione: la violazione del principio di tassatività veniva prospettata in ragione dell’indeterminatezza dell’area della non punibilità dovuta non soltanto all’omessa definizione normativa del concetto di colpa lieve, ma anche alla genericità del rinvio operato dalla norma alle linee guida, senza precisazione delle relative fonti, modalità di produzione e procedure di diffusione, rendendo, così, indeterminata l’area della non punibilità; mentre l’irragionevole ampiezza dell’esonero veniva, tra l’altro, ritenuta sussistente sia per la sua possibile applicazione a qualunque reato colposo, anche diverso dai reati contro la persona (quali, ad esempio, quelli in materia di sicurezza sul lavoro.

Come è noto la questione era stata dichiarata manifestamente inammissibile dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 295 del 2013 per l’insufficiente descrizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta, e quindi per l’insufficiente motivazione circa la rilevanza della questione. In tale ordinanza, in via incidentale, la Consulta – con riferimento alla mancata precisazione se nel giudizio a quo fosse sorta questione in ordine al fatto che gli imputati si fossero attenuti a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica proprie del contesto di riferimento, così che potesse venire effettivamente in discussione l’applicabilità della norma censurata – aveva rilevato «che, al riguardo, occorre anche considerare come, nelle prime pronunce emesse in argomento, la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto – in accordo con la dottrina maggioritaria – che la limitazione di responsabilità prevista dalla norma censurata venga in rilievo solo in rapporto all’addebito di imperizia, giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia: non, dunque, quando all’esercente la professione sanitaria sia ascrivibile, sul piano della colpa, un comportamento negligente o imprudente».

La questione della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012 era stata successivamente valutata dalla Corte di cassazione (Sez. 4, n. 12478 del 19/11/2015, Barberi, Rv. 267814) sotto il profilo della possibile irragionevolezza della disparità di trattamento della responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria rispetto alla responsabilità penale di professionisti diversi. Tale irragionevolezza era stata esclusa dalla Corte valorizzando:

- l’applicabilità ai professionisti diversi da quelli esercenti professioni sanitarie della disciplina emergente dal combinato disposto degli art. 43 cod. pen. e 2236 cod. civ., secondo l’orientamento ermeneutico affermatosi nella giurisprudenza di legittimità che ritiene che l’art. 2236 cod. civ., pur non essendo direttamente applicabile in campo penale, può essere utilizzato dal giudice, in ragione del criterio di razionalità del giudizio che esprime, quale regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito per imperizia, quando il caso specifico imponga la soluzione di problemi di particolare difficoltà di carattere tecnico-scientifico o ricorra una situazione di emergenza (Sez. 4, n. 4391 del 22/11/2011, Di Lella, Rv. 251941; Sez. 4, n. 16328 del 05/04/2011, Montalto, Rv. 251960; Sez. 4, n. 39592 del 21/06/2007, Buggè, Rv. 237875);

- i diversi presupposti di applicabilità delle due diverse limitazioni di responsabilità: il rispetto delle linee guida a prescindere dalle speciali difficoltà del caso, per quella di cui all’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012; la speciale difficoltà del caso, nell’ipotesi di inosservanza delle regole dell’arte, per quella di cui all’art. 2236 cod. civ..

Così delimitati gli ambiti di operatività delle due discipline, ad avviso della Corte, lo statuto della colpa professionale risultava connotato da un complesso equilibrio nel quale non era ravvisabile alcun indice concreto di irragionevolezza del differente trattamento riservato agli esercenti la professione sanitaria.

La nuova disciplina della responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria introdotta dalla legge n. 24 del 2017, a differenza dell’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012:

- limita espressamente alla sola colpa per imperizia la “non punibilità” dell’agente che abbia rispettato le linee guida, così prendendo posizione in ordine alla questione che, con riferimento alla disciplina abrogata, era rimasta aperta nell’ambito della giurisprudenza della Quarta sezione della Corte;

- limita ai reati di omicidio e lesioni colposi l’applicabilità della fattispecie di “non punibilità” prevista dal secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen., così da superare, sotto tale profilo, le censure di irragionevolezza mosse dal Tribunale di Milano all’ampiezza dell’esonero di responsabilità previsto dall’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012;

- richiama il rispetto di linee guida di cui è individuata la fonte e disciplinata la procedura di accreditamento istituzionale (art. 5 della legge n. 24 del 2017), così superando le censure di indeterminatezza mosse dal tribunale di Milano nei confronti dell’abrogata fattispecie di esonero di responsabilità.

Se queste differenze consentono di ritenere superati i rilevati problemi posti dall’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012, altre differenze di disciplina hanno invece aperto nuove questioni.

La nuova disciplina, infatti, non richiama espressamente – a differenza dell’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012 – una gradazione della colpa a cui sia ancorata la fattispecie di “non punibilità”, con la conseguenza che, in base a un’interpretazione strettamente letterale della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen., potrebbe ritenersi esclusa la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria anche in caso di imperizia grave, con i conseguenti problemi di costituzionalità evidenziati fin da subito dalla giurisprudenza della Corte.

D’altra parte per integrare la fattispecie di “non punibilità” prevista dalla novella, non è sufficiente – a differenza di quanto previsto dall’abrogata “legge Balduzzi” – il rispetto delle raccomandazioni previste dalle linee guida (o in mancanza di queste, delle buone pratiche clinico-assistenziali), ma anche che tali raccomandazioni «risultino adeguate alle specificità del caso concreto»: con la conseguenza che appare difficilmente configurabile un ambito applicativo della norma, cioè un’ipotesi di imperizia in caso di rispetto di linee guida adeguate alle specificità del caso concreto. Tale difficoltà emerge soprattutto avuto riguardo all’interpretazione della Corte che era riuscita a ricavare un ambito applicativo dell’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012 proprio sulla base del rilievo che poteva essere in colpa il professionista rispettoso delle linee guida perché queste contengono direttive solo di massima che devono essere adeguate alle specificità di ciascun caso clinico, per cui l’errore – non punibile se dovuto a colpa lieve – poteva profilarsi sia nella fase dell’adattamento/adeguamento delle linee guida al caso concreto, sia nella fase della scelta di seguire linee guida in un caso in cui le contingenze peculiari imponevano di disattenderle.

2. Le decisioni in contrasto: l’interpretazione quale nuova regola di parametrazione della colpa in ambito sanitario che non configura una fattispecie di esonero o di limitazione di responsabilità.

Nell’immediatezza dell’entrata in vigore della nuova disciplina la Quarta sezione della Corte ha offerto una prima interpretazione (Sez. 4, n. 28187 del 20/4/2017, Tarabori, Rv. 270213-270214) della nuova disciplina secondo la quale il secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen., detta una «nuova regola di parametrazione della colpa in ambito sanitario», che àncora il giudizio di responsabilità penale a «costituti regolativi precostituiti» (dati dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi dell’art. 5 della legge n. 24 del 2017) e, al contempo, elimina la distinzione, contenuta nella previgente disciplina, tra colpa lieve e colpa grave ai fini dell’attribuzione dell’addebito.

Di conseguenza la norma introdotta dalla novella viene ritenuta meno favorevole rispetto all’abrogato art. 3, comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, che, invece – escludendo la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve in contesti regolati da linee guida e da buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica – limitava la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria ai soli casi di colpa grave (e che, viene, quindi ritenuto applicabile ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della novella).

Secondo tale interpretazione la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen., a differenza dell’abrogato art. 3, comma 1, d.l. 158 del 2012, non contiene una limitazione di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria connessa alla graduazione della colpa.

Ciò in quanto l’apparente contraddittorietà intrinseca contenuta nella disposizione – che prevede che «qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia» non è punibile l’agente che abbia rispettato le linee guida adeguate al caso concreto, cioè l’agente che non è in colpa per imperizia – non può essere superata sul piano dell’interpretazione ritenendo esclusa la punibilità del sanitario che, pur avendo applicato le linee guida, abbia cagionato un evento lesivo per imperizia, quando le linee guida siano estranee al “momento topico” in cui l’imperizia lesiva si sia realizzata (come nel caso del chirurgo che imposta ed esegue l’atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida e, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, invece di recidere il peduncolo della neoformazione, taglia un’arteria con effetto letale).

Tale interpretazione, infatti, viene ritenuta in contrasto con il principio della causalità nella colpa, espressione del principio costituzionale di colpevolezza, che esclude che la colpevolezza si estenda a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione di una prescrizione, e che la limita ai risultati che la regola mira a prevenire, e che, in definitiva «non consente l’utilizzazione di direttive non pertinenti rispetto alla causazione dell’evento, non solo per affermare la responsabilità colpevole, ma anche per escluderla».

L’ipotesi interpretativa prospettata viene, inoltre, scartata, perché implicherebbe un totale esonero di responsabilità, privo di riscontri in altre esperienze nazionali, che rischia di vulnerare l’art. 32 Cost., depotenziando radicalmente la tutela della salute, e perché stabilirebbe uno statuto normativo irrazionalmente diverso rispetto a quello di altre professioni altrettanto rischiose e difficili.

Sul punto la Corte, dopo aver ricordato che le incriminazioni di cui si discute costituiscono un primario, riconosciuto strumento di protezione dei beni della vita e della salute, riconosce che «l’ambito terapeutico è un contesto che giustifica, nell’ambito della normazione e dell’interpretazione, un peculiare governo del giudizio di responsabilità, anche in chiave limitativa», come testimoniato dall’art. 2236 cod. civ., dalla sentenza della Corte costituzionale n. 166 del 1973, dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, e, da ultimo dall’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni dalla legge 8 novembre 2012, n. 189.

E rileva che l’esigenza di scoraggiare la cosiddetta medicina difensiva è stata sottolineata dalla sentenza della Consulta appena citata, secondo cui dagli artt. 589, 42 e 43 cod. pen. e dall’art. 2236 cod. civ. è ricavabile una particolare disciplina in tema di responsabilità degli esercenti professioni intellettuali, finalizzata a fronteggiare due opposte esigenze: non mortificare l’iniziativa del professionista col timore d’ingiuste rappresaglie in caso d’insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso.

Evidenzia, tuttavia che «tale particolare regime, che implica esenzione o limitazione di responsabilità, però, è stato ritenuto applicabile ai soli casi in cui la prestazione comporti la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e riguarda l’ambito della perizia e non quello della diligenza e della prudenza. Considerato che la deroga alla disciplina generale della responsabilità per colpa ha un’adeguata ragion d’essere ed è contenuta entro il circoscritto tema della perizia, la Corte ha ritenuto che non vi sia lesione del principio d’eguaglianza. Per contro la soluzione interpretativa sin qui esaminata, implicando un radicale esonero da responsabilità, è priva di riscontri in altre esperienze nazionali. Essa rischierebbe di vulnerare l’art. 32 Cost., implicando un radicale depotenziamento della tutela della salute, in contrasto con le stesse dichiarate finalità della legge, di protezione del diritto alla salute».

Nell’interpretazione del secondo comma dell’art. 590-sexies viene, allora, valorizzato il dato sistematico per cui la legge, perseguendo la finalità della “sicurezza delle cure”, assicura all’Istituzione sanitaria il governo dell’attività medica, costruendo un sistema istituzionale, pubblicistico, di regolazione dell’attività sanitaria, che ne garantisca lo svolgimento in modo uniforme, aggiornato, appropriato, conforme ad evidenze scientifiche controllate: in tale quadro il professionista, che è tenuto ad attenersi alle raccomandazioni previste dalle linee guida codificate ed istituzionalizzate (art. 5 della legge 24 del 2017), ha la legittima pretesa a vedere giudicato il proprio comportamento alla stregua delle medesime direttive impostegli.

Il «virtuoso impulso innovatore» della riforma viene, quindi, ritenuto focalizzato sulla selezione e codificazione di raccomandazioni volte a regolare l’esercizio dell’ars medica, e ad ancorare il giudizio di responsabilità a regole precostituite, con indubbio vantaggio in termini di determinatezza delle regole e prevedibilità dei giudizi.

Pertanto, in tale pronuncia, la Corte ritiene che il secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen. sia volto a superare i problemi posti dalla configurazione della colpa in ambito sanitario («figurazione vuota e umbratile, dalla forte impronta normativa, bisognosa di etero integrazione»), determinando una «nuova regola di parametrazione della colpa» (nonostante l’uso dell’espressione atecnica dell’esclusione della punibilità) che àncora il giudizio di responsabilità penale a «costituti regolativi precostituiti».

Viene così tradotta in chiave operativa l’istanza di determinatezza, chiarezza, prevedibilità emersa nella materia della responsabilità medica, nell’intento di superare le incertezze manifestatesi dopo l’introduzione della legge n. 189 del 2012 a proposito dei criteri per l’individuazione delle direttive scientificamente qualificate, e stornare il pericolo di linee guida interessate o non scientificamente provate.

Per quanto concerne l’ambito di applicazione della norma, la Corte ritiene che il secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen. si applichi soltanto a eventi che costituiscono espressione di condotte governate da linee guida «appropriate al caso concreto» – quando cioè non vi siano ragioni, dovute solitamente alla comorbilità, di discostarsene radicalmente – e che siano «pertinenti alla fattispecie concreta», cioè che siano state attualizzate in forme corrette, avuto riguardo alle contingenze del caso concreto.

La pronuncia ritiene, inoltre, che l’innovazione prevista dal secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen. vale solo per le situazioni astrattamente riferibili alla sfera dell’imperizia (a differenza dell’art. 3 del d.l. 158 del 2012, ritenuto applicabile anche ad aree della colpa diverse da quella dell’imperizia: cfr. Sez. 4, n. 23283 dell’11/05/2016, De Negri, Rv. 266904).

L’art. 590-sexies cod. pen. non viene, invece, in rilievo (e l’imperizia rileva quindi sul piano penale in applicazione della disciplina generale prevista dagli artt. 43, 589 e 590 cod. pen.): a) quando le linee guida non sono appropriate al caso concreto, e devono essere disattese; b) quando le linee guida siano estranee al momento topico in cui l’imperizia lesiva si sia realizzata, cioè in relazione alle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti e appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo; c) negli ambiti non governati da linee guida.

La sentenza, quindi, esclude che la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen. contenga una limitazione di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria connessa alla graduazione della colpa, a differenza dell’abrogato art. 3, comma 1, d.l. 158 del 2012.

L’abrogazione dell’art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012 implica la reviviscenza della previgente, più severa, normativa che non consentiva distinzioni connesse al grado della colpa, in quanto la novella del 2017 non contiene alcun riferimento alla gravità della colpa. Con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 2 cod. pen. il nuovo regime si applica solo ai fatti commessi in epoca successiva alla riforma, e che, per i fatti anteriori, può trovare applicazione, quando pertinente, la normativa del 2012, che appare più favorevole con riguardo alla limitazione di responsabilità ai soli casi di colpa grave.

In tale sentenza la Corte ribadisce gli approdi cui era giunta sotto la vigenza della legge Balduzzi” (Sez. 4, n. 16237 del/01/2013, Cantore, non mass. sul punto; Sez. 4, n. 23283 dell’11/05/2016, Denegri, non mass. sul punto) in tema di linee guida, rilevando che le stesse:

- avendo di regola contenuto orientativo, perché propongono soltanto direttive, istruzioni di massima, orientamenti che vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico (a differenza dei protocolli delle check list che sono maggiormente rigidi e prescrittivi) non danno, di solito, luogo a norme cautelari e non configurano, quindi, ipotesi di colpa specifica, bensì rilevano nell’ambito delle istanze di determinatezza che permeano la sfera del diritto penale;

- d’altra parte non esauriscono la disciplina dell’ars medica: vi sono aspetti della medicina non regolati dalle linee guida, in relazione ai quali, quindi, il rispetto delle relative direttive è irrilevante nell’ambito del giudizio di colpevolezza;

- così come non esauriscono, anche sotto altro profilo, i parametri di valutazione dell’attività sanitaria: «ben potendo il terapeuta invocare in qualche caso particolare, quale metro di giudizio anche raccomandazioni, approdi scientifici che, sebbene non formalizzati nei modi previsti dalla legge, risultino di elevata qualificazione nella comunità scientifica, magari per effetto di studi non ancora recepiti dal sistema normativo di evidenza pubblica delle linee guida di cui al richiamato art. 5. Si tratta di principio consolidato nella scienza penalistica: le prescrizioni cautelari ufficiali possono essere affiancate da regole non codificate ma di maggiore efficienza nella prospettiva della ottimale gestione del rischio».

Si segnala che la Corte nella pronuncia in esame ha cura di precisare anche che il legislatore ha stornato il pericolo di stallo nell’applicazione delle novella, ponendo in campo, in via residuale, le buone pratiche clinico-assistenziali, perseguendo, peraltro, anche in questo campo, un progetto di emersione, codificazione e monitoraggio delle buone pratiche attraverso l’istituzione di un Osservatorio nazionale (art. 3).

La sentenza si chiude con un richiamo al recente orientamento della Corte che ritiene che la disciplina di cui all’art. 2236 cod. civ., sebbene non direttamente applicabile in ambito penale, sia comunque espressione di un principio di razionalità applicabile, come regola esperienza, a cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà. La Corte conclude, quindi, riconoscendo perdurante attualità a tale giurisprudenza, ed esprimendo l’auspicio che continui ad orientare il giudizio «in una guisa che tenga conto delle riconosciute peculiarità delle professioni sanitarie».

Avuto riguardo alla decisione adottata dalle Sezioni Unite appare opportuno fin da ora segnalare che la sentenza in rassegna affronta il problema della costituzionalità della nuova disciplina avuto riguardo soltanto all’esclusione di responsabilità per colpa grave da imperizia, non contenendo la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen. alcun riferimento al grado della colpa, e non anche con riferimento all’esclusione di responsabilità per colpa lieve, che non sembra, secondo tale pronuncia, sollevare analoghi problemi di costituzionalità.

Ai medesimi fini, occorre inoltre evidenziare che la pronuncia in esame:

- da un lato, nel delineare l’ambito di applicabilità della novella, lo circoscrive a eventi che costituiscono espressione di condotte governate da linee guida che siano non soltanto “appropriate al caso concreto” – quando cioè non vi siano ragioni, dovute solitamente alla comorbilità, di discostarsene radicalmente – ma anche “pertinenti alla fattispecie concreta”, cioè che siano state attualizzate in forme corrette, avuto riguardo alle contingenze del caso concreto (punto 8 della motivazione);

- mentre, dall’altro lato, nell’affrontare i problemi di diritto intertemporale, delinea gli ambiti in cui la nuova disciplina non trova applicazione in quelli non governati da linee guida, o governati linee guida non appropriate al caso concreto che devono essere, quindi, disattese, o governati da linee guida che siano estranee al momento topico in cui l’imperizia lesiva si sia realizzata, cioè «in relazione alle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti e appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo», senza richiamare espressamente, tra tali ambiti, quelli governati da linee guida che «non sono state attualizzate in forme corrette, nello sviluppo della relazione terapeutica, avuto riguardo alle contingenze del caso concreto» (punto 11 della motivazione).

3. (segue) La tesi contraria: l’interpretazione che ritiene configurabile una causa di non punibilità operante nel solo caso di imperizia e indipendentemente dal grado della colpa.

Secondo un’altra interpretazione espressa in una più recente sentenza (Sez. 4, n. 50078 del 19/10/2017, Cavazza, Rv. 270985), invece, il secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen., si configura quale norma più favorevole rispetto all’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, in quanto prevede una causa di non punibilità dell’esercente la professione sanitaria operante – ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso) – nel solo caso di imperizia, ma indipendentemente dal grado della colpa.

Il ragionamento della Corte muove dall’individuazione di quelli che ritiene gli unici punti chiari della novella:

- l’abrogazione della esclusione della responsabilità penale per colpa lieve prevista dalla c.d. “legge Balduzzi”; - la limitazione dell’innovazione prevista dalla novella alle sole situazioni astrattamente riconducibili all’imperizia, e il conseguente superamento in senso restrittivo del dibattito apertosi in sede di legittimità sull’applicabilità della limitazione di responsabilità di cui all’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012 non solo nelle ipotesi di imperizia ma anche nei casi di negligenza ed imprudenza.

Quindi la Corte, avuto riguardo alla lettera della legge, osserva che essa, innovando rispetto alla legge Balduzzi, «non attribuisce più alcun rilievo al grado della colpa, così che, nella prospettiva del novum normativo, alla colpa grave non potrebbe più attribuirsi un differente rilievo rispetto alla colpa lieve, essendo entrambe ricomprese nell’ambito di operatività della causa di non punibilità».

Tale tesi, secondo tale pronuncia, trova conforto nella finalità della legge che ha «esplicitamente inteso favorire la posizione del medico, riducendo gli spazi per la sua possibile responsabilità penale, ferma restando la responsabilità civile».

La nuova disposizione, secondo tale pronuncia, configura una causa di non punibilità in senso tecnico – come tale collocata al di fuori dell’area di operatività del principio di colpevolezza – la cui ratio è da individuarsi nella «scelta del legislatore di non mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di ingiuste rappresaglie, mandandolo esente da punizione per una mera valutazione di opportunità politico criminale, al fine di restituire al medico una serenità operativa così da prevenire il fenomeno della cd. medicina difensiva».

Tale causa di non punibilità, pur se limitata alla sola imperizia, la comprende sia nella forma della colpa lieve che in quella della colpa grave. Ciò in quanto il legislatore, innovando rispetto alla legge Balduzzi che escludeva la responsabilità solo per colpa lieve, non attribuisce più alcun rilievo al grado della colpa.

Quanto alla difficoltà di conciliare la “colpa grave”, con la sussistenza delle condizioni previste per l’impunità del sanitario – cioè con il rispetto delle buone pratiche clinico assistenziali, e, soprattutto, con un giudizio positivo di adeguatezza delle linee guida al caso concreto

– l’ambito applicativo della causa di non punibilità prevista dalla norma viene delineato con riferimento al caso del medico che, seguendo linee guida adeguate e pertinenti pur tuttavia sia incorso in una “imperita” applicazione di queste, nella fase “esecutiva” dell’applicazione.

Al riguardo si precisa che l’imperizia, per essere non punibile, non deve essersi verificata nel momento della scelta della linea guida, «giacchè non potrebbe dirsi in tal caso di essersi in presenza della linea guida adeguata al caso di specie». In questa prospettiva il requisito dell’adeguatezza delle linee guida al caso concreto, viene limitato alla fase della scelta e dell’individuazione delle linee direttive da applicare, a differenza che per il contrapposto orientamento che lo estende anche alla fase esecutiva di applicazione delle linee guida.

Infine, la previsione di un trattamento diverso e più favorevole della colpa per imperizia nell’esercizio della professione sanitaria, rispetto alla colpa per negligenza o per imprudenza, viene ritenuta «una scelta del legislatore – che si presume consapevole», che suscita, però, perplessità in ordine alla compatibilità con l’art. 3 della Costituzione, senza che la questione venga approfondita, per difetto di rilevanza nel caso di specie.

Secondo questa interpretazione, quindi, la novella del 2017 prevede la non punibilità dell’imperizia, anche grave, commessa nell’attuazione delle raccomandazioni previste dalle linee guida, con la conseguenza che, sotto tale profilo, deve ritenersi norma più favorevole rispetto all’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, che aveva depenalizzato solo la colpa lieve.

La legge Balduzzi può, invece, configurarsi come norma più favorevole per i reati coinvolgenti profili di colpa diversi dall’imperizia, e cioè di negligenza e imprudenza qualificati da colpa lieve.

La sentenza in rassegna, in relazione all’interpretazione accolta, non si confronta in alcun modo con i problemi di costituzionalità evidenziati nella motivazione della sentenza Tarabori.

4. I punti essenziali del contrasto.

Entrambe le interpretazioni offerte dalla Corte di cassazione si fondano sulla lettera della disposizione, che richiama espressamente la sola imperizia e non contiene alcun riferimento al grado della colpa: entrambe ritengono limitato l’ambito applicativo della novella alla sola colpa per imperizia e negano rilevanza al grado della colpa al fine di ritenere integrata o meno la fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen.

Le due tesi si distinguono, sul piano dell’interpretazione letterale, per il diverso significato che attribuiscono al requisito richiesto dalla norma con la locuzione «sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate al caso concreto».

La sentenza Tarabori, infatti, attribuisce tale requisito sia alla scelta delle raccomandazioni, che all’attuazione delle stesse, mentre la sentenza Cavazza limita tale requisito alla scelta.

Da tale diversa interpretazione letterale discende la conseguenza opposta a cui giungono le sentenze, della rilevanza penale o meno dell’imperizia, anche grave, nella fase esecutiva, e della stessa configurabilità o meno (di un ambito applicativo) di una limitazione o di un esonero di responsabilità penale.

Conseguentemente diverse sono le conclusioni in ordine all’individuazione della disciplina più favorevole tra quella introdotta dalla novella e quella di cui all’abrogato 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012.

Sul piano dell’individuazione della ratio della norma le due interpretazioni si distinguono in quanto:

- la sentenza Tarabori la individua nella mera esigenza di tipizzazione – determinatezza del giudizio sulla colpa, in ciò ravvisando il novum legislativo che, attraverso il sistema di accreditamento istituzionale delle linee guida, ha posto rimedio all’incertezza nell’individuazione delle linee guida che dovevano guidare l’operato del medico e, quindi, il giudizio sulla sua colpevolezza;

- la sentenza Cavazza individua nell’esigenza di ridurre, rispetto al passato, gli spazi della responsabilità del medico, “ferma restando la responsabilità civile”, al fine di restituirgli serenità operativa così da prevenire il fenomeno della cd. medicina difensiva.

Le tesi sostenute nelle due sentenze divergono, inoltre, anche in ordine all’individuazione dell’ambito di rilevanza penale dell’imperizia, che per la sentenza Cavazza è limitato al solo caso di scelta di linee guida che siano inadeguate alla peculiarità del caso concreto, mentre per la sentenza Tarabori è molto più ampio, comprendendo, oltre al caso di linee guida non appropriate al caso concreto, anche le ipotesi di linee guida estranee al momento topico in cui l’imperizia lesiva si sia realizzata, (cioè di condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti e appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo), nonchè tutti gli ambiti non governati da linee guida.

Diverso, infine, è l’inquadramento dogmatico della fattispecie prevista dal secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen., quale regola sulla configurazione della colpa in ambito sanitario secondo l’interpretazione offerta nella sentenza Tarabori e, invece, causa di non punibilità, secondo l’opzione ermeneutica fatta propria dalla sentenza Cavazza.

Le tesi contrapposte presentano diversi punti di forza e di debolezza.

L’interpretazione offerta dalla sentenza Tarabori, infatti, se da un lato non sembra esporsi a censure di costituzionalità, dall’altro lato però attribuisce un significato molto riduttivo al secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen. – quale norma che si limita a operare sul piano dell’individuazione dei parametri alla cui stregua valutare la colpevolezza dell’esercente la professione sanitaria, e che non contiene una fattispecie di limitazione e/o esonero di responsabilità – che si pone in radicale discontinuità, sotto tale profilo, rispetto all’abrogato art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012.

L’opzione ermeneutica prescelta dalla sentenza Cavazza, invece, pur ponendosi in linea di continuità con la “legge Balduzzi” – attribuendo alla novella il significato di una fattispecie di esonero di responsabilità, sempre ancorata al rispetto delle linee guida ma più ampia di quella prevista dalla disposizione abrogata, in quanto estesa anche alla colpa grave – pone i problemi di costituzionalità evidenziati dalla sentenza Tarabori, e cioè quello della ragionevolezza di una esclusione di responsabilità per colpa grave operante in favore dei soli professionisti dell’ambito sanitario, e della compatibilità con l’art. 32 Cost.

5. La decisione delle Sezioni Unite “Mariotti”.

Il contrasto è stato rimesso alle Sezioni Unite, con provvedimento in data 13 novembre 2017 del Primo Presidente, ai sensi dell’art. 610, comma 2, cod. proc. pen.

La questione controversa rimessa al Supremo consesso è stata così formulata : «Quale sia, in tema di responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria per morte o lesioni, l’ambito applicativo della previsione di “non punibilità” prevista dall’art. 590-sexies cod. pen., introdotto dalla legge 8 marzo 2017, n. 24, anche con riguardo alla precedente disciplina della materia, dettata dall’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189».

Le Sezioni unite si sono pronunciate con la sentenza n. 8770 del 21/12/2017, – dep. 2018 –, Mariotti, Rv. 272174-272175-272176 enunciando i seguenti principi di diritto: «L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica:

a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza;

b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;

c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;

d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico».

Le Sezioni Unite, pur riconoscendo che in ciascuna delle sentenze in contrasto sono espresse molteplici osservazioni condivisibili, in parte anche comuni, non aderiscono a nessuna delle due interpretazioni espresse dalla Quarta Sezione della Corte nelle sentenze citate, bensì offrono una “sintesi interpretativa complessiva capace di restituire la effettiva portata della norma in considerazione” attraverso una attività ermeneutica che, nell’individuare gli elementi costitutivi della nuova previsione, tiene conto non soltanto della lettera ma anche della ratio della legge, ed in particolare di “circostanze anche non esplicitate ma necessariamente ricomprese in una norma di cui può dirsi certa la ratio, anche alla luce del complesso percorso compiuto negli anni dal legislatore sul tema in discussione (…) al quale non risultano estranei il contributo della Corte costituzionale né gli approdi della giurisprudenza di legittimità”.

In estrema sintesi le Sezioni Unite ritengono che l’art. 590-sexies cod. pen., introdotto dall’art. 6 della legge 8 marzo 2017, n. 24, preveda una causa di non punibilità in senso tecnico, operante nei soli casi in cui l’esercente la professione sanitaria abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse.

Tale causa di non punibilità non è, invece, applicabile né ai casi di colpa da imprudenza e da negligenza, né quando l’atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche, né quando queste siano individuate e dunque selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso, né, infine, in caso di colpa grave da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse.

La norma di cui all’art. 590-sexies, secondo comma, cod. pen., quindi, deve essere interpretata nel senso che, nonostante il silenzio della legge, continua a sottendere la nozione di “colpa lieve”; ciò in base alla sua ratio che, come desumibile anche dai lavori parlamentari (che dimostrano la volontà di differenziare, ai fini della esenzione da responsabilità, la colpa grave da imperizia dalla colpa lieve della medesima specie), è in linea con quella di cui all’abrogato art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012 (che aveva legislativamente introdotto la distinzione tra colpa lieve e colpa grave quale discrimine della rilevanza penale della condotta che prescindeva dalla situazione di particolare difficoltà tecnica ed era, invece, connesso al criterio della conformazione alle linee guida) e con la tradizione giuridica che ha mostrato – pur a fronte di un precetto (quale l’art. 43 cod. pen.) che scolpisce la colpa senza distinzioni interne – che il tema della colpa medica penalmente rilevante è sensibile alla questione della sua graduabilità, riconoscendo dapprima la diretta applicabilità dell’art. 2236 cod. civ. (con una interpretazione che aveva ricevuto l’avallo della Corte Costituzionale con la sentenza n. 166 del 1973), e poi la sua valenza quale principio di razionalità e regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia.

Tale interpretazione che va “oltre” il significato delle espressioni usate, ma non contro di esso, è secondo il Supremo Consesso imposta dalla necessità di un’interpretazione conforme a Costituzione.

In proposito si ricorda che il procuratore generale aveva concluso chiedendo sollevarsi questione di legittimità costituzionale dell’art. 590-sexies cod. pen., per contrasto con i principi posti negli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 32, 33, 101, 102 e 111 Cost., ritenendo che l’unica interpretazione possibile della nuova normativa fosse quella fatta propria dalla sentenza Cavazza, in quanto basata sulla lettera della legge, a differenza di quella della sentenza Tarabori che se ne è distaccata tentando una ricostruzione normativa costituzionalmente conforme ma inaccettabile perché sostanzialmente abrogativa del nuovo precetto.

L’interpretazione, fatta propria dalla sentenza Cavazza – secondo cui la causa di non punibilità prevista dal secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen. si applica a qualsiasi condotta imperita del sanitario che abbia provocato la morte o le lesioni, pur se connotata da colpa grave, sul solo presupposto della corretta selezione delle linee-guida pertinenti in relazione al caso di specie – viene, infatti, ritenuta dalle Sezioni Unite in contrasto con il divieto costituzionale di disparità ingiustificata di trattamento rispetto ad altre categorie di professionisti che parimenti operano con alti coefficienti di difficoltà tecnica, nonché rispetto a situazioni meno gravi rimaste sicuramente punibili, quali quelle connotate da colpa lieve per negligenza o imprudenza.

La stessa interpretazione determinerebbe, per altro verso, un evidente sbilanciamento nella tutela degli interessi sottesi, posto che l’esigenza di tutela della salute alla base del contrasto della “medicina difensiva” è incompatibile con l’indifferenza dell’ordinamento penale rispetto a gravi infedeltà alle leges artis; provocherebbe, infine, rilevanti e ingiustificate restrizioni nella determinazione del risarcimento del danno addebitabile all’esercente una professione sanitaria ai sensi dell’art. 7 della legge n. 24 del 2017, poiché tale articolo, al comma 3, stabilisce una correlazione tra il “quantum” del danno risarcibile e i profili di responsabilità ravvisabili ex art. 590-sexies cod. pen..

Viceversa, l’interpretazione che delimita l’ambito applicativo della causa di non punibilità prevista dal secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen. - oltre che ai soli fatti inquadrabili nel paradigma dell’art. 589 o di quello dell’art. 590 cod. pen. - alla sola colpa lieve per imperizia nei soli casi in cui vengano individuate e adottate linee guida adeguate al caso concreto, viene ritenuta non censurabile sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento, rispetto ad altre categorie di professionisti che pure siano esposti alla gestione di rischi particolari, perché circoscrive l’ambito applicativo della causa di non punibilità ai soli operatori ed atti sanitari che si confrontano con la necessità della gestione di un rischio del tutto peculiare, in quanto collegato alla mutevolezza e unicità di ognuna delle situazioni patologiche da affrontare.

In ordine alle censure di tassatività connesse al timore che la distinzione tra colpa lieve e colpa grave possa essere fonte di scelte non prevedibili e ondivaghe, dipendenti dalla ampiezza della valutazione del giudice, rilevano che tale timore è sempre stato adeguatamente contrastato dalla complessa opera ricostruttiva, in seno alla dottrina e alla giurisprudenza, di criteri utili per la tendenziale definizione del giudizio. E ribadiscono in proposito la perdurante valenza dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità sotto la vigenza della disciplina abrogata di cui all’art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012 (tra le molte, Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105; Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016, Denegri), volti a fissare i criteri utili per individuare preventivamente e, quindi, in sede giudiziaria riconoscere, il grado lieve della colpa, che richiamano sia il criterio oggettivo di tipo “quantitativo”,

– per cui rileva il «quantum dello scostamento dal comportamento che ci si sarebbe attesi come quello utile» – sia il parametro soggettivo e dunque «la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente e del suo grado di specializzazione; la problematicità o equivocità della vicenda; la particolare difficoltà delle condizioni in cui il medico ha operato; la difficoltà obiettiva di cogliere e collegare le informazioni cliniche; il grado di atipicità e novità della situazione; la impellenza; la motivazione della condotta; la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa», condividendo l’assunto consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui la valutazione sulla gravità della colpa (generica) debba essere «effettuata “in concreto”, tenendo conto del parametro dell’ homo eiusdem professionis et condicionis, che è quello del modello dell’agente operante in concreto, nelle specifiche condizioni concretizzatesi».

Inoltre, le Sezioni Unite rilevano il notevole ridimensionamento comunque operato dalla legge n. 24 del 2017 della discrezionalità del giudice attraverso la circoscrizione della causa di non punibilità alla sola imperizia e l’introduzione del procedimento pubblicistico di formalizzazione delle linee guida rilevanti.

In proposito le Sezioni Unite, come la sentenza Tarabori – rilevando che il precetto dell’art. 6 deve essere letto alla luce degli artt. 1, 3 e 5 che lo precedono e che costituiscono «uno dei valori aggiunti della novella, nell’ottica di una migliore delineazione della colpa medica» – valorizzano l’indubbia l’utilità del nuovo sistema di “accreditamento istituzionale” delle linee guida, oltre che come guida per l’operatore sanitario (disorientato, in precedenza, dal proliferare incontrollato delle clinical–guidelines), come plausibile risposta alle istanze di maggiore determinatezza che riguardano le fattispecie colpose qui di interesse, «che, nella prospettiva di vedere non posto in discussione il principio di tassatività del precetto, integrato da quello di prevedibilità del rimprovero e di prevenibilità della condotta colposa, hanno necessità di essere etero-integrate da fonti di rango secondario concernenti la disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo». Sul punto le Sezioni Unite precisano che, pur non integrando le linee guida «veri e propri precetti cautelari, capaci di generare allo stato attuale della normativa, in caso di violazione rimproverabile, colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto», la precostituzione delle raccomandazioni consente una tendenziale circoscrizione dei parametri alla cui stregua valutare l’osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia, anziché in base «ad una norma cautelare legata alla scelta soggettiva, a volte anche estemporanea e scientificamente opinabile, del giudicante».

D’altra parte – anche avuto riguardo al fatto che tra i motivi per i quali il procuratore generale aveva chiesto sollevarsi questione di legittimità costituzionale dell’art. 590-sexies cod. pen., vi era proprio il dedotto contrasto della norma con il principio del diritto alla tutela della salute, posto in crisi da una richiesta di applicazione di protocolli non chiaramente calibrati sul caso concreto, nonché con quello della dignità della professione sanitaria, che si contrappone alla rigidità delle linee guida da applicare – si segnala che le Sezioni Unite, avendo cura di precisare che il tema della natura delle linee-guida non risulta investito da divergenza di interpretazioni, ribadiscono le conclusioni maturate in seno alla giurisprudenza delle sezioni semplici della Cassazione, sul tema della natura, finalità e cogenza delle linee-guida ed in particolare sulla loro inidoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti. Si legge, infatti, nella motivazione della sentenza che «anche a seguito della procedura ora monitorata e governata nel suo divenire dalla apposita istituzione governativa, e quindi tendente a formare un sistema con connotati pubblicistici, le linee-guida non perdono la loro intrinseca essenza, già messa in luce in passato con riferimento alle buone pratiche. Quella cioè di costituire un condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, reputate tali dopo un’accurata selezione e distillazione dei diversi contributi, senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti».

Le Sezioni Unite escludono, quindi, che il nuovo sistema introdotto, nonostante le apparenze, possa ritenersi agganciato ad automatismi, (che configuri, cioè, “uno “scudo” contro ogni ipotesi di responsabilità”), rilevando come la efficacia e forza precettiva delle raccomandazioni contenute nelle linee guida dipenda comunque dalla loro dimostrata “adeguatezza” alle specificità del caso concreto: «Non, dunque, norme regolamentari che specificano quelle ordinarie senza potervi derogare, ma regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente e implicanti, in ipotesi contraria, il dovere, da parte di tutta la catena degli operatori sanitari concretamente implicati, di discostarsene.». Ed evidenziano come l’apprezzamento della adeguatezza al caso concreto delle raccomandazioni contenute nelle linee guida costituisca, per il sanitario, proprio «il mezzo attraverso il quale recuperare l’autonomia nell’espletare il proprio talento professionale e, per la collettività, quello per vedere dissolto il rischio di appiattimenti burocratici. Evenienza dalla quale riemergerebbero il pericolo per la sicurezza delle cure e il rischio della “medicina difensiva”, in un vortice negativo destinato ad autoalimentarsi.»

Peraltro l’esclusione, dall’ambito applicativo della causa di non punibilità prevista dall’art. 590-sexies cod. pen., delle ipotesi in cui le linee guida siano individuate e dunque selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata al caso concreto consente alle Sezioni Unite di ravvisare l’incompatibilità della novella «con qualsiasi forma di appiattimento dell’agente su linee-guida che a prima vista possono apparire confacenti al caso di specie (…) e conseguentemente con ipotesi di automatismo fra applicazione in tale guisa delle linee-guida ed operatività della causa di non punibilità» e anche di escludere che il precetto in esame possa essere sospettato di tensione col principio costituzionale di libertà della scienza e del suo insegnamento (art. 33 Cost.), come pure di quello dell’assoggettamento del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.).

In ordine alla nozione di errore nella “scelta” delle linee-guida adeguate al caso concreto, al quale non è applicabile la causa di non punibilità, le Sezioni Unite chiariscono che esso comprende, oltre all’ipotesi di scelta del tutto sbagliata, anche quella di scelta incompleta – per non essersi tenuto conto di fattori di co-morbilità che avrebbero richiesto il ricorso a più linee-guida regolatrici delle diverse patologie concomitanti o comunque la visione integrata del quadro complesso – nonché il caso in cui, in ragione delle peculiarità del caso concreto, l’esercente la professione sanitaria avrebbe dovuto discostarsi radicalmente dalle raccomandazioni previste dalle linee guida.

Infine, in ordine al criterio che deve guidare il giudizio sull’adeguatezza delle linee guida al caso concreto ribadiscono che «la valutazione da parte del giudice sul requisito della rispondenza (o meno) della condotta medica al parametro delle linee-guida adeguate (se esistenti) può essere soltanto quella effettuata ex ante, alla luce cioè della situazione e dei particolari conosciuti o conoscibili dall’agente all’atto del suo intervento, altrimenti confondendosi il giudizio sulla rimproverabilità con quello sulla prova della causalità, da effettuarsi ex post. Ma con la ulteriore puntualizzazione che il sindacato ex ante non potrà giovarsi di una soglia temporale fissata una volta per sempre, atteso che il dovere del sanitario di scegliere linee-guida “adeguate” comporta, per il medesimo così come per chi lo deve giudicare, il continuo aggiornamento della valutazione rispetto alla evoluzione del quadro e alla sua conoscenza o conoscibilità da parte del primo».

Le Sezioni Unite, ritengono inoltre, condivisibile la “perimetrazione”, effettuata dalla sentenza Tarabori-De Luca, dell’ambito di operatività della novella, connessa al fatto che la causa di non punibilità prevista dall’art. 590-sexies, dipende dal rispetto delle linee-guida adeguate allo specifico caso in esame, nell’ipotesi di responsabilità da imperizia. E affermano, pertanto, che la causa di non punibilità non può essere invocata:

- nei casi in cui la responsabilità sia ricondotta ai diversi casi di colpa, dati dalla imprudenza e dalla negligenza;

- né quando l’atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche;

- né quando queste siano individuate e dunque selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso.

Non ritengono invece condivisibile la negazione, operata dalla sentenza Tarabori, di qualsivoglia residuo spazio operativo per la causa di non punibilità, cioè la conclusione circa l’impossibilità di applicare il precetto, e, quindi l’interpretazione abrogatrice da essa offerta, di fatto in collisione con il dato oggettivo della iniziativa legislativa e con la stessa intenzione innovatrice manifestata in sede parlamentare (rilevando, peraltro, che la principale obiezione della sentenza in questione, e cioè la confusione della formulazione legislativa e la sua incongruenza interna, avrebbero dovuto trovare sfogo nella denuncia di incostituzionalità per violazione del principio di legalità).

Pertanto individuano l’ambito applicativo della novella nell’errore commesso nella fase della attuazione/esecuzione delle raccomandazioni contenute nelle linee guida, riferendo il requisito dell’adeguatezza delle linee guida al caso concreto, richiesto dalla norma, alla sola fase della scelta delle stesse, come operato dalla sentenza Cavazza, alla quale le Sezioni Unite riconoscono il pregio di non discostarsi in modo patente dalla lettera della legge, e il difetto di valorizzarla in modo assoluto, attribuendole una portata applicativa impropriamente lata, (cioè quella di rendere non punibile qualsiasi condotta imperita del sanitario che abbia provocato la morte o le lesioni, pur se connotata da colpa grave, sul solo presupposto della corretta selezione delle linee-guida pertinenti in relazione al caso di specie), che rende “più che concreti” i profili di illegittimità della interpretazione stessa, quantomeno per violazione del divieto costituzionale di disparità ingiustificata di trattamento rispetto ad altre categorie di professionisti che parimenti operano con alti coefficienti di difficoltà tecnica.

La formulazione lessicale del precetto non viene, quindi, ritenuta dalle Sezioni Unite, a differenza della sentenza Tarabori, tale da non renderne possibile l’individuazione di un ambito applicativo, in quanto tenendo conto che le fasi della individuazione, selezione ed esecuzione delle raccomandazioni contenute nelle linee-guida adeguate sono articolate è possibile ipotizzare la mancata realizzazione di un segmento del relativo percorso, la quale «giustifica ed è compatibile tanto con l’affermazione che le linee-guida sono state nel loro complesso osservate, quanto con la contestuale rilevazione di un errore parziale che, nonostante ciò, si sia verificato, con valenza addirittura decisiva per la realizzazione di uno degli eventi descritti dagli artt. 589 e/o 590 cod. pen.».

D’altra parte l’errore non punibile non può, però, alla stregua della novella del 2017 (e a differenza di quanto previsto dall’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012) riguardare la fase della selezione delle linee-guida perché, dipendendo il “rispetto” di esse dalla scelta di quelle “adeguate”, qualsiasi errore sul punto, dovuto a una qualsiasi delle tre forme di colpa generica, porta a negare l’integrazione del requisito del “rispetto”.

La ratio di tale conclusione viene individuata «nella scelta del legislatore di pretendere, senza concessioni, che l’esercente la professione sanitaria sia non solo accurato e prudente nel seguire la evoluzione del caso sottopostogli ma anche e soprattutto preparato sulle leges artis e impeccabile nelle diagnosi anche differenziali; aggiornato in relazione non solo alle nuove acquisizioni scientifiche ma anche allo scrutinio di esse da parte delle società e organizzazioni accreditate, dunque alle raccomandazioni ufficializzate con la nuova procedura; capace di fare scelte ex ante adeguate e di personalizzarle anche in relazione alle evoluzioni del quadro che gli si presentino. Con la conseguenza che, se tale percorso risulti correttamente seguito e, ciononostante, l’evento lesivo o mortale si sia verificato con prova della riconduzione causale al comportamento del sanitario, il residuo dell’atto medico che appaia connotato da errore colpevole per imperizia potrà, alle condizioni che si indicheranno, essere quello che chiama in campo la operatività della novella causa di non punibilità».

Come la sentenza Cavazza, inoltre, le Sezioni Unite ritengono che la natura giuridica della fattispecie prevista dall’art. 590-sexies cod. pen. sia quella della causa di non punibilità in senso tecnico: «La previsione della causa di non punibilità è esplicita, innegabile e dogmaticamente ammissibile non essendovi ragione per escludere apoditticamente – come fa la sentenza De Luca-Tarabori – che il legislatore, nell’ottica di porre un freno alla medicina difensiva e quindi meglio tutelare il valore costituzionale del diritto del cittadino alla salute, abbia inteso ritagliare un perimetro di comportamenti del sanitario direttamente connessi a specifiche regole di comportamento a loro volta sollecitate dalla necessità di gestione del rischio professionale: comportamenti che, pur integrando gli estremi del reato, non richiedono, nel bilanciamento degli interessi in gioco, la sanzione penale, alle condizioni date.».

Ciò anche alla luce del fatto che l’intervento protettivo del legislatore è direttamente connesso con l’esigenza di contrastare la medicina difensiva in quanto la novella, a differenza dell’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012, ha circoscritto l’esenzione da pena ai soli comportamenti che causano uno degli eventi descritti dagli artt. 589 e 590 cod. pen., e quindi ad un «perimetro più circoscritto di operatori ed atti sanitari che si confrontano con la necessità della gestione di un rischio del tutto peculiare in quanto collegato alla mutevolezza e unicità di ognuna delle situazioni patologiche da affrontare».

Infine, in ordine ai profili diritto intertemporale, le Sezioni Unite ritengono che l’abrogato art. 3 comma 1, del d.l. n. 158 del 2012, si configura come norma più favorevole rispetto all’art. 590-sexies cod. pen., sia in relazione alle condotte dell’esercente la professione sanitaria connotate da colpa lieve da negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto, e cioè di errore nella valutazione della appropriatezza della linea-guida.

Per l’errore determinato da colpa lieve da imperizia nella sola fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle linee guida che andava esente da responsabilità penale per il decreto Balduzzi, ed è oggetto della causa di non punibilità di cui all’art. 590-sexies, viene ritenuta ininfluente, in relazione alla attività del giudice penale che si trovi a decidere nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio.

6. La giurisprudenza successiva.

La giurisprudenza successiva, senza discostarsi dai principi affermati dalle Sezioni Unite, ha avuto occasione di precisare che, in ragione della successione di leggi nel tempo, la motivazione della sentenza di merito, in tema di responsabilità degli esercenti la professione sanitaria deve indicare se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali, specificare di quale forma di colpa si tratti (se di colpa generica o specifica, e se di colpa per imperizia, o per negligenza o imprudenza), e appurare se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata da linee-guida o da buone pratiche clinico-assistenziali. (Sez. 4, n. 37794 del 22/06/2018, De Renzo, Rv. 273463; Sez. 4, n. 24384 del 26/04/2018, Masoni, Rv. 273536; Sez. 4, Sentenza n. 33405 del 13/04/2018, D. Rv. 273422).

Deve tuttavia darsi atto che, in un caso di impugnazione di sentenza di condanna per grave negligenza esecutiva (nella specie, nel corso di un intervento laparoscopico di rimozione di una cisti splenica, veniva erroneamente realizzata l’asportazione del rene, anziché della cisti), con riferimento al motivo di ricorso con cui si denunciava la mancata applicazione dell’art. 590-sexies cod. pen., lamentando che in sede di merito non erano state svolte considerazioni sul rispetto o meno delle linee guida, la Corte (Sez. 4, n. 39733 del 19/07/2018, Arzillo, non mass.) ha ritenuto che l’elevato grado della colpa riconosciuta in capo all’imputato non consentisse il sindacato della sentenza impugnata per il mancato approfondimento del tema relativo all’osservanza delle raccomandazioni contenute nelle linee guida adeguate al caso di specie, per «l’ontologica inapplicabilità al caso di giudizio della disciplina di cui all’art. 590-sexies cod. pen.» così come della previgente disciplina in materia di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria.

Analogamente, in un caso di impugnazione di una sentenza di condanna per grave negligenza consistita nella mancata preparazione a un intervento chirurgico mediante somministrazione di terapia antibiotica, la Corte (Sez. 4, n. 38365, del 23/05/2018, Carrabs, non mass.), con riferimento al dedotto vizio di motivazione in ordine alla qualificazione della condotta dell’imputato come negligente invece che imperita e alla conseguente invocazione dell’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 590-sexies cod. pen.., ha ritenuto infondato il motivo di ricorso, a prescindere dalla natura della colpa dell’imputato, «difettando, ictu oculi, nel caso di specie, i due requisiti che tanto la legge Balduzzi, quanto la legge Gelli-Bianco, alla luce dei principi affermati dalle Sezioni unite Mariotti, richiedono per essere operative, vale a dire il rispetto delle linee guida ed il grado lieve della colpa».

Inoltre, in un caso di impugnazione di una sentenza di condanna per colpa grave consistita nella mancata somministrazione di terapia antitrombotica, in presenza di un elevato rischio trombotico, la Corte (Sez. 4, n. 40923 del 30/05/2018, Iemmolo, non mass.), ritenendo «evidente lo scostamento dalle linee guida adeguate al caso di specie», in cui i rischio trombotico veniva ritenuto prevalente sul concomitante rischio emorragico, e «assai grave la sottovalutazione operata dal dott. Iemmolo del rischio trombotico in favore di quello emorragico» ha ritenuto irrilevante l’individuazione del regime più favorevole tra quello di cui all’art. 3, comma 1, d.l. n. 158 del 2012 e quello di cui all’art. 590-sexies cod. pen., non sussistendo le condizioni di applicabilità né dell’uno né dell’altro.

Avuto riguardo al principio affermato sotto il vigore della legge “Balduzzi”, secondo cui «in tema di responsabilità medica, ai fini dell’applicazione della causa di esonero da responsabilità prevista dall’art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, è necessaria l’allegazione delle linee guida alle quali la condotta del medico si sarebbe conformata, al fine di consentire al giudice di verificare:

a) la correttezza e l’accreditamento presso la comunità scientifica delle pratiche mediche indicate dalla difesa; b) l’effettiva conformità ad esse della condotta tenuta dal medico nel caso in esame» (Sez. 4, n. 21243 del 18/12/2014 – dep. 2015 –, Pulcini, Rv. 263493; Sez. 4, n. 7951 del 08/10/2013 – dep. 2014-, Fiorito, Rv. 259333) la Corte ha altresì puntualizzato che tale “insegnamento, peraltro, deve essere contestualizzato, alla luce delle sopravvenute modifiche normative, in forza delle quali l’esercente la professione sanitaria è espressamente tenuto ad uniformarsi alle linee guida, che sono state istituzionalizzate” prevedendo che siano espresse da istituzioni individuate dal Ministero della salute e sottoposte a verifica dell’Istituto superiore di sanità in ordine alla conformità a standard predefiniti ed alla rilevanza delle evidenze scientifiche poste a supporto delle raccomandazioni, e, quindi, pubblicate. Conseguentemente, ha ritenuto viziata la motivazione della sentenza che aveva escluso la rilevanza di linee guida in un caso in cui l’imputato non aveva soddisfatto il relativo onere di allegazione, e il giudice non aveva disposto perizia (Sez. 4 , n. 49884 del 16/10/2018, P.), rilevando che con la legge 8 marzo 2017, n. 24, il legislatore ha inteso costruire un sistema istituzionale, pubblicistico, di regolazione dell’attività sanitaria, che ne assicuri lo svolgimento in modo uniforme, appropriato, conforme ad evidenze scientifiche controllate, rappresentate dalle linee guida alle quali l’esercente la professione sanitaria è tenuto a conformarsi.

D’altra parte è stato anche chiarito che, nelle more della pubblicazione delle linee guida di cui all’art. 5 della legge n. 24 del 2017, la rilevanza penale della condotta ai sensi dell’art. 590-sexies cod. pen. può essere valutata con esclusivo riferimento alle buone pratiche clinico assistenziali adeguate al caso concreto. (Sez. 4, n. 37794 del 22/06/2018, De Renzo, Rv. 273463).

In ordine all’errore determinato da colpa lieve da imperizia nella sola fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle linee guida correttamente individuate – che andava esente da responsabilità penale per il decreto Balduzzi, ed è oggetto della causa di non punibilità di cui all’art. 590-sexies cod. pen. – la Corte (Sez. 4, n. 36723 del 19/04/2018, Di Saverio, non mass.), pur dando atto di una «sostanziale omogeneità di previsioni fra il nuovo regime e la legge Balduzzi», ha, evidenziato come, tuttavia, sia ancora riscontrabile una differenza, data dal fatto che, mentre il nuovo art. 590-sexies cod. pen. deve essere correttamente interpretato come avente natura di mera causa di non punibilità, la giurisprudenza di legittimità era concorde nel ritenere che, invece, la previsione dell’art. 3 della legge Balduzzi integrasse una parziale abolitio criminis degli artt. 589 e 590 cod. pen., avendo ristretto l’area del penalmente rilevante individuata da questi ultimi ed avendo ritagliato implicitamente due sotto-fattispecie, una che conservava natura penale e l’altra divenuta penalmente irrilevante (ex multis, Sez. 4, n. 16237 del 29 /01/2013, Cantore, Rv. 255105). Ed ha individuato nella legge Balduzzi la norma più favorevole, da applicarsi ultrattivamente a norma dell’art. 2 cod. pen. ai fatti commessi sotto la vigenza dell’art. 3, comma 1, d.l. n. 158 del 2012, dal momento che integra una parziale abolitio criminis e non una mera causa di non punibilità, dovendo dunque essere applicata a norma dell’art. 2 cod. pen.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 4, n. 39592 del 21/06/2007, Buggè, Rv. 237875 Sez. 4, n. 16328 del 05/04/2011, Montalto, Rv. 251960 Sez. 4, n. 4391 del 22/11/2011, Di Lella, Rv. 251941 Sez. 4, n. 11493 del 24/01/2013, Pagano, Rv. 254756 Sez. 4, n. 16237 del 29/1/2013, Cantore, Rv. 255105 Sez. 4, n. 7951 del 08/10/2013 – dep. 2014 –, Fiorito, Rv. 259333 Sez. 3, n. 5460 del 04/12/2013, Grassini, Rv. 258846 Sez. 4, n. 7346 dell’08/07/2014, Sozzi, Rv. 262243 Sez. 4, n. 2168 dell’08/07/2014, Anelli, Rv. 261764 Sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, Rv. 260739-740 Sez. 4, n. 21243 del 18/12/2014 – dep. 2015 –, Pulcini, Rv. 263493 Sez. 4, n. 45527 dell’01/01/2015, Cerracchio, Rv. 264897 Sez. 4, n. 16944 del 20/03/2015, Rota, 263389 Sez. 4, n. 26996 del 27/04/2015, Caldarazzo, Rv. 263826 Sez. 4, n. 12478 del 19/11/2015, Barberi, Rv. 267814 Sez. 4, n. 23283 dell’11/05/2016, Denegri, Rv. 266903 Sez. 4, n. 28187 del 20/4/2017, Tarabori, Rv. 270213-214 Sez. 4, n. 50078, del 19/10/2017, Cavazza, Rv. 270985 Sez. U, n. 8770 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Mariotti, Rv. 272174-176 Sez. 4, n. 37794 del 22/06/2018, De Renzo, Rv. 273463-464 Sez. 4, n. 24384 del 26/04/2018, Masoni, Rv. 273536 Sez. 4, n. 33405 del 13/04/2018, D. Rv. 273422 Sez. 4, n. 49884 del 16/10/2018, P. Sez. 4, n. 36723 del 19/04/2018, Di Saverio Sez. 4, n. 39733 del 19/07/2018, Arzillo Sez. 4, n. 38365, del 23/05/2018, Carrabs Sez. 4, n. 40923 del 30/05/2018, Iemmolo

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 166 del 1973 Corte cost., ord. n. 295 del 2013

Sentenze di merito

Tribunale di Milano, ordinanza del 21/03/2013

  • reato
  • codice penale
  • pornografia infantile

CAPITOLO IV

PORNOGRAFIA MINORILE E PERICOLO CONCRETO DI DIFFUSIONE DI MATERIALE PEDOPORNOGRAFICO

(di Anna Mauro )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il quadro giurisprudenziale di riferimento: la sentenza delle Sezioni Unite “Bove” e la successiva giurisprudenza della Corte di cassazione. - 3 La rimessione alle Sezioni Unite. - 4 La decisione delle Sezioni Unite “M” del 2018. - 5 Conseguenze del superamento dell’orientamento preesistente: rilevanza penalistica della cd. pornografia domestica. - 5.1 (segue). Overruling interpretativa in malam partem. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Le Sezioni Unite penali, con sentenza n. 51815 del 31/5/2018, M., Rv. 274087, in relazione alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 600-ter, comma 1, n. 1) cod. pen. con riferimento alla condotta di produzione di materiale pedopornografico, hanno affermato il seguente principio di diritto: “Ai fini dell’integrazione del reato di produzione di materiale pedopornografico, di cui all’art. 600-ter, comma 1, cod. pen., non è richiesto l’accertamento del concreto pericolo di diffusione di detto materiale.”

2. Il quadro giurisprudenziale di riferimento: la sentenza delle Sezioni Unite “Bove” e la successiva giurisprudenza della Corte di cassazione.

Va innanzitutto rilevato che, a partire dall’arresto delle Sez. U, n. 13, 31/5/2000, Bove, Rv. 216337, per la giurisprudenza della Corte di cassazione, “Poiché il delitto di pornografia minorile di cui al primo comma dell’art. 600 ter cod. pen. - mediante il quale l’ordinamento appresta una tutela penale anticipata della libertà sessuale del minore, reprimendo quei comportamenti prodromici che, anche se non necessariamente a fine di lucro, ne mettono a repentaglio il libero sviluppo personale con la mercificazione del suo corpo e l’immissione nel circuito perverso della pedofilia – ha natura di reato di pericolo concreto, la condotta di chi impieghi uno o più minori per produrre spettacoli o materiali pornografici è punibile, salvo l’ipotizzabilità di altri reati, quando abbia una consistenza tale da implicare concreto pericolo di diffusione del materiale prodotto.” Le Sezioni unite, nell’occasione, precisavano “che è compito del giudice accertare di volta in volta la configurabilità del predetto pericolo, facendo ricorso ad elementi sintomatici della condotta quali l’esistenza di una struttura organizzativa anche rudimentale atta a corrispondere alle esigenze di mercato dei pedofili, il collegamento dell’agente con soggetti pedofili potenziali destinatari del materiale pornografico, la disponibilità materiale di strumenti tecnici di riproduzione e/o trasmissione, anche telematica idonei a diffondere il materiale pornografico in cerchie più o meno vaste di destinatari, l’utilizzo contemporaneo o differito nel tempo di più minori per la produzione del materiale pornografico – dovendosi considerare la pluralità di minori impiegati non elemento costitutivo del reato ma indice sintomatico della pericolosità concreta della condotta –, i precedenti penali, la condotta antecedente e le qualità soggettive del reo, quando siano connotati dalla diffusione commerciale di pornografia minorile nonché gli altri indizi significativi suggeriti dall’esperienza; ed ha di conseguenza escluso la ricorrenza del concreto pericolo di diffusione del materiale in un’ipotesi in cui l’agente aveva realizzato e detenuto alcune fotografie pornografiche che ritraevano un minorenne, consenziente, per uso puramente “affettivo”, anche se perverso)”.

Tale sentenza è intervenuta appena due anni dopo l’approvazione della legge 3 agosto 1998, n. 269 (Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di schiavitù) che, ispirandosi ai principi sanciti dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176, ha introdotto la nozione di pedopornografia e ha previsto una serie di reati nuovi per il nostro sistema penale (artt. 600-bis – prostituzione minorile; 600-ter – pornografia minorile; 600-quater – detenzione di materiale pedopornografico; 600-quinquies – iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile). Le nuove fattispecie sono state inserite nel Titolo XII della parte speciale dedicata ai Delitti contro la persona e, in particolare, nel Capo III intitolato Dei delitti contro la libertà individuale, sezione I (Dei delitti contro la personalità individuale).

Siffatta decisione ha costituito un importante e fondamentale punto di riferimento in materia anche ove si consideri che, precedentemente, non si registravano precedenti della giurisprudenza di legittimità e decisioni delle corti di merito pubblicate sulle maggiori riviste specializzate, ma solo importanti e svariati contributi della dottrina che, per la maggior parte, al termine “sfruttare” dava un significato lucrativo, quantomeno economico, e non vi comprendeva tutte quelle attività che si risolvevano nell’appagamento di fini intimi e malsani o nell’occasionale utilizzazione di un singolo minore per gli anzidetti scopi. Solo per un’opinione minoritaria, invece, poiché il bene protetto era da individuarsi nell’esigenza di tutela della libertà psico-fisica del minore, appariva preferibile un’interpretazione della norma volta ad includere l’incriminazione di condotte illecite che prescindevano dal ritorno economico.

Le Sezioni unite del 2000, dopo avere ricordato che vi erano ragioni letterali, teleologiche e logico-sistematiche per opporsi ad un’interpretazione economicistica della termine polisemantico di “sfruttamento”, fornivano una nozione del reato in questione che, nella vigenza della L. n. 269/1998, si discostava profondamente da quella proposta all’epoca dalla prevalente dottrina in argomento.

La Corte, infatti, precisava che, nonostante il legislatore avesse adoperato il termine “sfrutta”, che evoca immediatamente le nozioni di “utile” e di “rendimento”, la locuzione “sfruttamento del minore” doveva essere intesa alla luce del bene-interesse protetto dalla norma da individuarsi nella “salvaguardia dello sviluppo fisico, psicologico, spirituale, morale e sociale” dei minori; anche dal punto di vista strettamente semantico, del resto, sottolineava ancora la Corte, il termine sfruttamento poteva essere inteso nel significato di utilizzo a qualsiasi fine (non necessariamente di lucro), “sicché sfruttare i minori vuol dire impiegarli come mezzo, anziché rispettarli come fine e come valore in sé: significa insomma offendere la loro personalità, soprattutto nell’aspetto sessuale, che è tanto più fragile e bisognosa di tutela quanto più è ancora in formazione e non ancora strutturata”.

Ritenuto non necessario lo scopo di lucro per integrare il fatto tipico, il reato di cui si tratta veniva qualificato, quindi, quale fattispecie di pericolo concreto di diffusione del materiale prodotto e di conseguente introduzione nel circuito della pedofilia da accertarsi, di volta in volta, da parte del giudice sulla base di elementi sintomatici, a cominciare dall’esistenza di una struttura organizzativa, anche rudimentale, idonea a corrispondere alle esigenze di mercato dei pedofili o comunque di vaste cerchie di destinatari. Ne consegue che, nell’ipotesi di materiale realizzato per essere conservato dall’autore e non diffuso, secondo il ragionamento delle Sezioni unite del 2000, trovava applicazione non la norma di cui all’art. 600-ter, comma 1, c.p., ma quella di cui all’art. 600-quater che sanziona la mera detenzione di materiale pornografico.

Dopo l’arresto delle Sezioni Unite, la Corte di cassazione, come si è detto, in modo pressoché univoco, nonostante le modifiche apportate agli articoli in esame dalla novella del 2006, ha continuato ad interpretare l’art. 600-ter, comma 1, cod. pen., non prescindendo mai dall’accertamento del pericolo concreto della diffusione del materiale pedopornografico e tale elemento, spesso, è stato utilizzato per distinguere la fattispecie di cui sopra da quella di cui all’art. 600-quater cod. pen.

Procedendo, quindi, ad un rapido excursus delle sentenze massimate, si è ravvisato il pericolo concreto della diffusione nella condotta dell’imputato che, oltre a disporre di un imponente apparato informatico e di un ingente materiale pedopornografico, “aveva effettuato con una macchina digitale numerose riprese fotografiche delle parti intime di una bimba, alla quale era stato celato il volto, foto che erano state scaricate nell’ hard disk del computer in vista dell’uso diffusivo delle immagini pornografiche” (così Sez. 3, n. 5774 del 21/01/2005, Milazzo, Rv. 230732); là dove “i dati pedopornografici vengono immessi nella rete, atteso che tale immissione, pur collocandosi in un momento antecedente all’effettiva diffusione tra il pubblico del materiale vietato, è sufficiente ad integrare il reato, con natura di reato di pericolo concreto, stante la possibilità di accesso ai dati ad un numero indeterminato di soggetti” (Sez. 3, n. 25232 del 21/06/2005, P.M. in proc. Brancato, Rv. 231814); là dove “parte del materiale, per la cui produzione erano state utilizzate contemporaneamente molte minorenni e per il cui utilizzo l’imputato aveva avuto il consenso di queste, era detenuto in auto ed in alcune occasioni era stato mostrato a terzi (Sez. 3, n. 1814 del 20/11/2007, Marchionni, Rv. 238566); e ancora nel caso “di riprese fotografiche, mediante telefono cellulare, di minore nudo” (Sez. 3, n. 49604 del 01/12/2009, Mohammed, Rv. 245749); nel caso di “inserimento di materiale pedopornografico all’interno del social network Facebook ” (Sez. 3, n. 16340 del 12/03/2015, Marmorino, Rv. 263355); nel caso in cui “la videoripresa, coinvolgente una minore, era stata conservata dall’imputato nella memoria del telefono cellulare e successivamente sottoposta in visione a terzi” (Sez. 3, n. 35295 del 12/04/2016 R. e altro, Rv. 267546); “nell’inserimento di materiale pedopornografico in una cartella informatica accessibile da parte di terzi attraverso l’uso del programma di condivisione eMule “ (Sez. 3, n. 33298 del 16/11/2016, D C C., Rv. 270418); nel caso in cui “le immagini pedopornografiche erano state inviate tramite l’applicazione “WhatsApp” di un telefono cellulare ai minori divenuti oggetto delle mire sessuali dell’imputato, quale strumento di persuasione e corruzione” (Sez. 3, n. 37835 del 29/03/2017, De Cicco, Rv. 270906).

Si è ritenuto, inoltre, che “il concetto di “utilizzazione” comporta la degradazione del minore ad oggetto di manipolazioni, non assumendo valore esimente il relativo consenso, mentre le nozioni di “produzione” e di “esibizione” richiedono l’inserimento della condotta in un contesto di organizzazione almeno embrionale e di destinazione, anche potenziale, del materiale pornografico alla successiva fruizione da parte di terzi” (Sez. 3, n. 27252 del 5/6/2007, Aquili, Rv. 237204); la Sez. 3, n. 16616 del 25/3/2015, T., Rv. 263116, in motivazione, ha evidenziato che le disposizioni di cui all’art. 600-ter, comma 1, riguardano fattispecie di pericolo che “per quanto concreto deve considerarsi integrato ogni qual volta la condotta di colui che utilizza il minore per fini pornografici o che induce il minore a partecipare ad esibizioni pornografiche abbia una consistenza tale da implicare un concreto pericolo di diffusione del materiale pornografico prodotto” e ha ritenuto sufficiente, a tal fine, oltre al tono delle conversazioni, anche il fatto che l’imputato fosse “abituale intrattenitore di bambine via video … esperto dell’utilizzo del computer” e fosse uso scambiare video e fotografie.

3. La rimessione alle Sezioni Unite.

La linea della giurisprudenza, tracciata dalle Sezioni Unite con la sentenza Bove, ha subito una svolta con la decisione della Terza sezione della Corte di cassazione che, con ordinanza del 30/11/2017, dep. il 6.3.2018, ha sostenuto che l’impostazione tradizionale non trova più riscontro nel dato normativo e che, anzi, contraddice lo spirito dei numerosi interventi normativi che si sono avuti successivamente al menzionato arresto delle Sezioni unite quali, in particolare, la decisione quadro 2004/68 del Consiglio del 22.12.2003 e la

L. n. 98/2006 che ha recepito, pressoché integralmente, la normativa sovranazionale; sulla base di questa premessa, ha, quindi, ritenuto, in consapevole contrasto con l’orientamento precedente, che ai fini dell’integrazione delle condotte di cui all’art. 600-ter, comma 1, cod. pen. “non è necessario il pericolo, né astratto, né concreto della diffusione materiale, profilo del quale si occupano specificatamente i commi successivi con autonome fattispecie di reato, punite con pene inferiori, ad eccezione del comma 2, relativo al commercio, per il quale si applica la stessa pena del comma 1,” e che la realizzazione dell’esibizione fotografica, la produzione di materiale pornografico e l’induzione alla partecipazione ad esibizioni pornografiche costituiscono di per sé condotte criminose. Ha quindi affermato che “non è sostenibile, laddove non vi sia il pericolo di diffusione, che scatti la previsione dell’art. 600-quater cod. pen. perché questa norma è applicabile laddove sia esclusa ciascuna delle ipotesi contemplate dall’art. 600-ter cod. pen.” Le Sezioni Unite sono state quindi chiamate a pronunziarsi, a norma del comma 1-bis dell’art. 618 c.p.p. introdotto dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, sul seguente quesito: “Se, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 600 ter, comma 1, n. 1, cod. pen., con riferimento alla condotta di produzione del materiale pedopornografico, sia ancora necessario, stante la formulazione introdotta dalla legge 6.2.2006, n. 38, l’accertamento del pericolo di diffusione del suddetto materiale, come richiesto dalla sentenza n. 13 del 31.5.2000 delle Sezioni Unite”.

4. La decisione delle Sezioni Unite “M” del 2018.

A tale quesito le Sezioni Unite hanno dato risposta negativa ritenendo che il requisito del pericolo di diffusione del materiale pornografico è ormai del tutto anacronistico ove si abbia riguardo all’evoluzione normativa, al rapido sviluppo tecnologico e alle modificazioni del contesto sociale che impongono di ricostruire la fattispecie in esame in termini di illecito di danno.

Ed invero, l’introduzione, operata in via interpretativa dalle Sezioni unite del 2000, del requisito del pericolo di diffusione trovava la sua spiegazione nell’ esigenza, legittimamente avvertita dalla Corte, di evitare di trattare con eccessivo rigore sanzionatorio (reclusione da sei a dodici anni e multa da lire cinquanta milioni a lire cinquecento milioni) la realizzazione di materiale pornografico mediante l’utilizzazione di minori in quanto la nozione di “sfruttamento”, coincidendo con quella di “utilizzazione” finiva con ricomprendere in sé anche i casi in cui la produzione di materiale pedopornografico era destinata ad una fruizione meramente privata.

Siffatta ricostruzione, però, osservano ora le Sezioni Unite, non ha più ragion d’essere sia alla luce delle importati novità legislative che sono intervenute medio tempore, sia in considerazione dell’espansione, rapida e non prevedibile per i non addetti al settore, del fenomeno dei social networks e della diffusione e utilizzo di cellulari smartphone, tablet e computer dotati di fotocamera incorporata che rendono velocissimo il collegamento ad Internet e l’utilizzazione di programmi di condivisione e reti sociali. L’accertamento del pericolo di diffusione, dunque, è oggi privo di rilevanza essendo ormai “potenzialmente diffusiva qualsiasi produzione di immagini e video”.

Dopo la sentenza Bove, evidenziano le Sezioni Unite, nel febbraio 2006 è entrata in vigore la legge n. 38 (Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet), che ha modificato lo statuto penale della pedo-pornografia innovando sulle previgenti disposizioni e tipizzando una nuova condotta che è quella di “chi realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico, utilizzando minori degli anni diciotto ovvero induce i medesimi a partecipare ad esibizioni pornografiche”; il verbo “sfruttare” è stato sostituito con “utilizzare”; è sparito “il fine di”, prima previsto; nel secondo comma è stato aggiunto il verbo “diffonde”; non è stato inserito il requisito del pericolo di diffusione. Tale scelta “non può essere considerata neutra sul piano interpretativo” ove la si consideri anche alla luce dell’evoluzione della normativa sovranazionale e delle disposizioni normative che ne sono derivate, tese a punire la generalità delle condotte che danno origine a materiale pornografico in cui vengono utilizzati soggetti minorenni. Nel 2012, con la legge n. 172 che ha ratificato nel nostro ordinamento al convenzione di Lanzerote del 2007, il legislatore, infatti, a completamento di quanto stabilito nella novella del 2006, ha introdotto la definizione di pornografia minorile che, nell’ultimo comma dell’art. 600-ter viene riferita a qualsiasi rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore per scopi sessuali. L’oggetto della tutela penale sono diventate, dunque, l’immagine, la dignità e il corretto sviluppo sessuale del minore e tutto ciò comporta, ad avviso della Corte, che per la consumazione del delitto in questione sarà sufficiente l’utilizzazione dei minori per la produzione di esibizioni o di materiale pornografico a prescindere da qualsiasi finalità lucrativa o commerciale e dalle caratteristiche soggettive del fruitore.

Anche la lettura sistematica delle norme del codice penale induce alla ricostruzione sopra effettuata. Ed invero, sia l’art. 600-ter sia l’art. 600-quater si riferiscono al materiale pornografico realizzato attraverso l’utilizzo dei minori, ma mentre nel primo comma dell’art. 600-ter vengono incriminate la produzione di materiale pornografico e la realizzazione di esibizioni o spettacoli pornografici, l’art. 600-quater incrimina la condotta di chi si procura o detiene detto materiale. Il termine “produzione” – interpretato dalle Sezioni Unite del 2000 – “come produzione di materiale destinato ad essere diffuso nel mercato della pedofilia” deve ora leggersi, per le Sezioni Unite del 2018, in uno con il termine “realizzazione”, utilizzato sempre nel primo comma dell’art. 600-ter con riferimento agli spettacoli pornografici, con la conseguenza che “la produzione altro non è che la realizzazione di materiale pornografico” e l’art. 600-quater, che presenta un nucleo comune con l’art. 600ter, avendo anch’esso riguardo al materiale pornografico, deve applicarsi solo a soggetti diversi dal produttore di tale materiale a cui invece si applicherà la disposizione di cui al primo comma dell’art. 660-ter.

A sostegno di siffatta ricostruzione milita anche, a parere delle Sezioni Unite, l’introduzione da parte del legislatore del 2006 dell’art. 600-quater.1 (Pornografia virtuale) che ha riguardo ad entrambe le ipotesi sanzionatorie dei due precedenti articoli con riferimento, però, ad immagini virtuali di minori realizzate con tecniche di elaborazione grafica non associate a situazioni reali. In tali casi la pena è diminuita di un terzo. Ed invero, l’utilizzo da parte del legislatore nell’articolo da ultimo richiamato, del termine “realizzare” con riferimento ad entrambe le ipotesi specificatamente previste negli articoli 600-ter e 600-quater, evidenzia la totale identità dell’oggetto materiale delle due fattispecie sanzionatorie e “la mancanza di autonomia concettuale della <produzione> rispetto alla realizzazione con conseguente irrilevanza del presupposto del pericolo di diffusione, in quanto tradizionalmente riferito alla sola <produzione>.

5. Conseguenze del superamento dell’orientamento preesistente: rilevanza penalistica della cd. pornografia domestica.

La ricostruzione della fattispecie incriminatrice in termini di reato di danno non è priva di ricadute sotto il profilo pratico e di ciò è perfettamente consapevole la Corte che avverte del rischio di un’applicazione eccessivamente espansiva della norma penale anche ad ipotesi che non presentano il grave disvalore criminale del fenomeno della pedopornografia. Si pensi, ad esempio, alla cd. “pornografia domestica” e, quindi, allo spessore criminale della condotta di chi realizza materiale pornografico in cui sono coinvolti minori che abbiano raggiunto l’età del consenso sessuale nei casi in cui tale materiale è prodotto e posseduto con il consenso di tali minori e unicamente ad uso privato delle persone coinvolte.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale tradizionale, la “pornografia domestica” non rientrava nel concetto di “produzione” per mancanza del pericolo di diffusione, ma aveva comunque rilevanza penale e veniva ricondotta nell’ambito dell’art. 600-quater.

Alla luce, invece, dell’inquadramento da ultimo delineato dalle Sezioni Unite, “l’utilizzazione” del minore, nel significato ricavabile dalle norme in questione, “enfatizzandone la portata dispregiativa” deve essere intesa nel senso che essa implica la strumentalizzazione del minore e la trasformazione di questo “da soggetto dotato di libertà e dignità sessuali in strumento di soddisfacimento di desideri sessuali di altri o per il conseguimento di utilità di vario genere; condotta che rende invalido anche un suo eventuale consenso”. Ne consegue, che deve essere distinta dalla condotta di “produzione” – intesa quale espressione di una posizione di abuso dell’agente verso il minore o per la posizione di supremazia del primo verso il secondo o per le modalità (minacciose o ingannevoli) con le quali il materiale pornografico viene prodotto o per il fine commerciale che sottende alla produzione o per l’età dei minori coinvolti quando questi non siano in grado di prestare il cd. consenso sessuale – la condotta di chi realizza immagini che hanno ad oggetto la vita sessuale nell’ambito di una relazione paritaria, non caratterizzata da condizionamenti (si pensi alla relazione tra due minorenni ultraquattordicenni) e destinate ad un uso strettamente privato.

Il discrimine tra quello che è penalmente rilevante e ciò che non lo è, quindi, è dato dalla configurabilità o meno sia dell’utilizzazione, intesa nel senso di prevaricazione e strumentalizzazione del minore, sia dalla configurabilità della cd. “autonomia privata sessuale”. Tali concetti non sono nuovi alle fonti sovranazionali quali, in particolare, l’art. 3 comma 2 della Decisione Quadro del Consiglio n. 2004/68/GAI del 22 dicembre 2003 e l’art. 20, comma 3 della Convenzione di Lanzerote che fanno riferimento, onde scriminare le condotte, al libero consenso sessuale, alla posizione paritaria dell’agente e del soggetto nei cui confronti vengono indirizzate le attenzioni di quest’ultimo e all’uso privato delle persone coinvolte. Non è di ostacolo, per la Corte, a tale configurazione la circostanza che il legislatore interno, nell’attuazione delle richiamate normative sovranazionali, non abbia ritenuto di fissare delle espresse esclusioni perché è il termine stesso di “utilizzazione”, nell’accezione sopra indicata, a circoscrivere l’ambito di rilevanza penale delle condotte.

5.1. (segue). Overruling interpretativa in malam partem.

La Terza sezione, nell’individuare gli argomenti a sostegno della rimessione della decisione alle Sezioni Unite, ha evidenziato, alla luce della tesi da essa propugnata, la doverosità della propria scelta sia in ragione del disposto di cui all’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen. -che ha di recente esteso al processo penale la regola di quello civile secondo cui qualora una sezione semplice della Corte di cassazione non condivida un principio di diritto già enunciato dalle sezioni unite, non può contraddirlo, ma deve investire nuovamente le medesime sezioni unite –, sia ove si consideri che nella fattispecie in esame, accedendo al ragionamento della Terza sezione, potrebbe profilarsi un’ipotesi di overruling interpretativa in malam partem in quanto, nonostante il caso in questione riguarda fatti commessi nel 2009 e, quindi, sotto la vigenza della norma come riformulata nel 2006, la giurisprudenza della Corte ha continuato a ritenere di pericolo concreto il reato in questione, non considerando che l’intentio legis, nazionale e sovranazionale, diventava sempre più stringente.

Orbene, sul punto occorre sottolineare che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha censurato l’overruling interpretativa in malam partem per violazione dell’art. 7 CEDU, ma che, nel nostro sistema, non constano precedenti nazionali sulle ricadute di tale giurisprudenza in subiecta materia, tranne che nel caso di overruling in bonam partem. In tale ultima ipotesi, infatti, le Sezioni Unite, con sentenza n. 18288 del 21.1.2010, P.G. in proc. Beschi, Rv. 246651, hanno affermato che il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata e ciò in quanto occorre garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona in linea con i principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’ art. 7 include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa sia quello di derivazione giurisprudenziale. La Corte costituzionale, però, con la sentenza n. 230 del 2012 resa in un caso in cui il giudice aveva dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 673 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedeva la possibilità di revoca del giudicato a seguito di mutamento della giurisprudenza, ha ritenuto che, nel nostro ordinamento, nonostante l’orientamento della Corte di Strasburgo, il diritto vivente non può essere collocato tra le fonti di diritto e non ha la medesima funzione della legge e, quindi, non può mettere in discussione il giudicato.

Ed invero, anche se le riforme processuali dell’ultimo decennio hanno sicuramente valorizzato l’incidenza del precedente e il ruolo nomofilattico della Corte di cassazione, è certo che nel sistema del civil low non può prescindersi dall’esigenza di armonizzare due principi entrambi di rango costituzionale: da un lato il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), in forza del quale occorre evitare che situazioni uguali o simili siano giudicate in modo diverso e dall’altro quello (art 101, comma secondo, Cost.) secondo cui i giudici sono soggetti solo alla legge dovendo la loro libertà di giudizio essere libera da qualunque fattore esterno.

Nella fattispecie in esame, però, come evidenziano le Sezioni Unite non viene in rilievo un problema di overruling in malam partem e ciò in quanto oggi è del tutto generalizzato il pericolo di diffusione del materiale pedopornografico e, pertanto, l’esclusione di tale pericolo, quale presupposto per la sussistenza del reato, non comporta in concreto un ampliamento dell’ambito di applicazione della fattispecie penale; del resto, già nel 2000, con la sentenza Bove, la Corte di cassazione aveva individuato una serie di elementi sintomatici del pericolo di diffusione, liberamente apprezzabili, anche disgiuntamente, dal giudice, tra i quali “la disponibilità materiale di strumenti tecnici di riproduzione e /o trasmissione, anche telematica, idonei a diffondere il materiale pornografico in cerchie più o meno vaste di destinatari; tale disponibilità, che all’epoca andava verificata specificatamente, oggi è generalizzata “essendo la riproducibilità e trasmissibilità di immagini e video immediata conseguenza della loro produzione”. Il superamento del presupposto del pericolo di diffusione, non comporta, quindi, l’ampliamento della portata applicativa della disposizione di cui all’art. 600-ter cod. pen. anche ove si abbia riguardo all’interpretazione restrittiva fornita ora dalle Sezioni Unite, del termine “utilizzazione” che consente di escludere un’applicazione in malam partem della norma rispetto al passato e di circoscrivere l’area del penalmente rilevante escludendo, come si è visto, la cd. pornografia domestica.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 13 del 31/05/2000, Bove, Rv. 216337 Sez. 3, n. 5774 del 21/01/2005, Milazzo, Rv. 230732 Sez. 3, n. 25232 del 21/06/2005, P.M. in proc. Brancato, Rv. 231814 Sez. 3, n. 27252 del 5/06/2007, Aquili, Rv. 237204 Sez. 3, n. 1814 del 20/11/2007, Marchionni, Rv. 238566 Sez. 3, n. 49604 del 01/12/2009, Mohammed, Rv. 245749 Sez. U, n. 18288 del 21/01/2010, P.G. in proc. Beschi, Rv. 246651 Sez. 3, n. 16340 del 12/03/2015, Marmorino, Rv. 263355 Sez. 3, n. 16616 del 25/03/2015, T., Rv. 263116 Sez. 3, n. 35295 del 12/04/2016, R. e altro, Rv. 267546 Sez. 3, n. 33298 del 16/11/2016 - dep. 2017 –, D.C.C., Rv. 270418 Sez. 3, n. 37835 del 29/03/2017, De Cicco, Rv. 270906

  • amianto
  • responsabilità penale
  • codice penale

CAPITOLO V

PATOLOGIE AMIANTO CORRELATE E RESPONSABILITÀ PENALE

(di Francesca Costantini )

Sommario

1 Premessa. - 2 I criteri di individuazione della legge di copertura. - 3 Il problema dell’accertamento causale: la causalità generale e la causalità individuale. - 4 La causalità nelle patologie multifattoriali. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nel corso dell’ultimo anno la Quarta sezione penale della Corte di cassazione è tornata più volte a pronunciarsi sul delicato tema della responsabilità connessa alle malattie professionali e ai decessi conseguenti alla prolungata esposizione dei lavoratori ad amianto e altre sostanze tossiche.

In tali arresti sono state esaminate vicende generalmente caratterizzate dalla presenza di più soggetti succedutisi nella titolarità di posizioni di garanzia poste a salvaguardia della salute e della sicurezza dei lavoratori e dunque contrassegnate dalla necessità di accertare le singole responsabilità individuali a fronte di patologie concretizzatesi a lunghissima distanza di tempo.

L’esigenza di rispettare il principio di personalità della responsabilità penale, infatti, impone di accertare il momento della genesi del processo morboso al fine di individuare chi abbia in quel tempo rivestito il ruolo di garante del bene tutelato.

La Corte ha, dunque, di volta in volta, affrontato le specifiche problematiche inerenti l’accertamento del nesso di causalità tra esposizione dei lavoratori alla inalazione delle fibre di amianto ed insorgenza delle patologie tumorali, in considerazione dell’ampio dibattito ad oggi ancora vivo in seno alla comunità scientifica circa la individuazione delle esposizioni eziologicamente rilevanti nonché circa i tempi e i modi di sviluppo e progressione del mesotelioma, al fine di determinare il periodo lavorativo nel corso del quale può dirsi irreversibilmente insorta la malattia ed individuare conseguentemente il contributo causale di ciascuno dei soggetti garanti.

2. I criteri di individuazione della legge di copertura.

Una delle preliminari questioni affrontate dalle pronunce in esame ha riguardato, in particolare, i criteri che devono sorreggere la valutazione del giudice nella individuazione della legge scientifica di copertura sul collegamento tra la condotta e l’evento, proprio in considerazione della costante introduzione in tale tipo di processi di teorie esplicative spesso tra loro contrastanti sia in relazione alla carcinogenesi del mesotelioma pleurico che, soprattutto, alla validità della teoria scientifica del c.d. “effetto acceleratore”, secondo la quale alla protrazione dell’esposizione al fattore nocivo in epoca successiva all’insorgenza della malattia conseguirebbe la progressione del processo morboso e dunque la riduzione dei tempi di latenza.

Il tema risulta approfondito da Sez. 4, n. 16715 del 14/11/2017 – dep. 2018 –, Cirocco, Rv. 273094, relativa a plurime ipotesi di omicidio colposo e lesioni colpose verificatesi presso il Petrolchimico di Mantova tra il 1979 ed il 1989, in danno di lavoratori esposti ad amianto, benzene e altre sostanze nocive.

La Corte, in continuità con la precedente giurisprudenza di legittimità, ha spiegato che nei giudizi debitori del sapere esperto è precluso al giudice di farsi creatore della legge scientifica necessaria all’accertamento. Pur essendo, infatti, attribuito al giudicante il ruolo di peritus peritorum, ciò non lo autorizza ad intraprendere un percorso avulso dal sapere scientifico e a sostituirsi agli esperti ignorando ogni contributo conoscitivo di matrice tecnico-scientifica.

Tale ruolo abilita invece il giudice ad individuare, con l’aiuto dell’esperto, il sapere accreditato che può orientare la decisione e a farne un adeguato uso, pervenendo ad una spiegazione razionale dell’evento. Essendo egli portatore di una “legittima ignoranza” a riguardo delle conoscenze scientifiche, il suo compito sarà quello di valutare l’autorità scientifica dell’esperto che trasferisce nel processo la sua conoscenza nonché comprendere, soprattutto nei casi più problematici, se gli enunciati che vengono proposti trovano comune accettazione tra gli studiosi.

Il sapere scientifico entra nel processo ed è necessario che il giudice selezioni la legge esplicativa che risulti maggiormente condivisa tra gli esperti, non avendo egli autorità per dare patenti di fondatezza a questa piuttosto che a quella teoria.

La Corte ha, dunque, ribadito il dictum della nota sentenza Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943, rimarcando che compito del giudice è quello di “valutare gli indici di attendibilità della teoria accolta esaminando gli studi che la sorreggono e le basi fattuali sulle quali essi sono condotti. L’ampiezza, la rigorosità, l’oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato l’elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in discussione l’ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono formate. L’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l’identità, l’autorità indiscussa, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove” (in tal senso anche Sez. 4, n. 18933 del 27/02/2014, Negroni, Rv. 262139). Del resto, analoghe affermazioni circa l’assenza in capo alla Corte di legittimità di conoscenze scientifiche privilegiate si rinvengono anche in pronunce successive alla sentenza “Cozzini” che, in tema di colpa medica, hanno ribadito che la Corte di cassazione non è giudice del sapere scientifico, ma è chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine alla affidabilità delle informazioni che vengono utilizzate ai fini della spiegazione del fatto (Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105).

Sotto il profilo probatorio, si evidenzia poi come, in ossequio alla natura accusatoria del processo penale, sarà la parte che intende appellarsi ad una determinata teoria che avrà anche l’onere di dimostrare il suo accreditamento presso la comunità scientifica mentre la controparte potrà e dovrà resistere su quel medesimo terreno.

Si precisa, infatti, che anche gli esperti della parte che contesta la utilizzabilità di una determinata teoria quale criterio inferenziale (o quale fonte di regola cautelare, ad esempio) devono necessariamente contraddire sul medesimo campo della accettazione di quella spiegazione da parte della comunità scientifica.

Il giudice, a sua volta, a fronte di una contrapposizione di orientamenti scientifici, potrà ricorrere allo strumento della perizia che consente di fornire una adeguata risposta a tali complesse problematiche che richiedono l’acquisizione di dati o valutazioni di natura tecnica (così, Sez. 4, n. 1886 del 03/10/2017 – dep. 2018 –, Cappel, Rv. 271943, che, in relazione ad un caso di prova contraddittoria del nesso causale, in ragione delle confliggenti conclusioni dei consulenti del pubblico ministero e della difesa in ordine alla sussistenza o meno del cosiddetto “effetto acceleratore” della malattia, derivante dalla protrazione dell’esposizione ad amianto dopo l’iniziazione del processo carcinogenetico, ha annullato con rinvio la sentenza che, all’esito dell’udienza preliminare, aveva disposto il non luogo a procedere senza considerare la necessità di passare ad un vaglio dibattimentale proprio al fine di disporre una perizia).

Ad avviso della Corte, alle esposte considerazioni circa le regole di giudizio che devono guidare la valutazione del giudice di merito, si ricollega, conseguentemente, anche il contenuto del sindacato di legittimità, che, attraverso la valutazione della correttezza logica e giuridica del ragionamento probatorio, ripercorre il vaglio operato dal giudice di merito non per sostituirlo con altro ma per verificare che questi abbia utilizzato i richiamati criteri di razionalità, rendendo adeguata risposta motivazionale.

Poiché tale tipo di valutazione attiene al fatto, non è possibile valutare in sede di legittimità la maggiore o minore attendibilità dei singoli apporti scientifici in quanto il giudice, in virtù del principio del libero convincimento, ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi prospettategli dai differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti.

Ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito è perciò inibito al giudice di legittimità di procedere ad una differente valutazione, poiché si è in presenza di un accertamento in fatto, come tale insindacabile se non entro i limiti del vizio motivazionale (in tal senso anche Sez. 4, n. 27521 del 07/03/2018, Rollo, non mass.; Sez. 4, n. 45207 del 12/07/2018, Altieri, non mass.; Sez. 4, n. 1886 del 03/10/2017 – dep. 2018 –, Cappel, Rv. 271943; Sez. 4, n. 01870 del 12/10/2017 – dep. 2018 –, Rossini, non mass.; Sez. 4, n. 18384 del 20/12/2017 – dep. 2018 –, Dal Pozzo, non mass.; Sez. 4, n. 25125 del 17/10/2018, Bellingeri, non mass.).

Si deve allora escludere che la Corte di legittimità sia detentrice di proprie certezze in ordine all’affidabilità della scienza, e che possa essere chiamata a decidere se una legge scientifica di cui si postula l’utilizzabilità nell’inferenza probatoria sia o meno fondata.

In applicazione di tali principi nella citata sentenza “Cirocco”, proprio in una fattispecie relativa alla questione della sussistenza di una legge statistica di copertura in ordine all’effetto acceleratore sul mesotelioma dell’esposizione ad amianto nella fase successiva a quella dell’insorgenza della malattia, si è precisato che, in tema di prova del nesso causale, non può invocarsi la giurisprudenza della Corte di cassazione per attestare l’esistenza di un ampio consenso nella comunità scientifica in ordine alla legge scientifica di copertura relativa al collegamento tra la condotta e l’evento, non potendosi ricercare nelle pronunce della Corte di legittimità la validazione di una teoria scientifica, in quanto il precedente giurisprudenziale non costituisce il nomos del sapere scientifico.

Sulla medesima linea occorre, infine, segnalare Sez. 4, n. 46392 del 15/05/2018, Beduschi, che si è pronunciata sulla richiesta formulata dalle parti di investire le Sezioni Unite in merito alla questione relativa alla individuazione della legge scientifica da applicare per ottenere un giudizio definitivo sulla scientificità dell’assunto relativo al c.d. “effetto acceleratore”, non unanimemente condiviso.

In tale pronuncia la Corte, dopo aver rimarcato che “in generale, ogni qual volta all’accertamento del fatto non si può pervenire in base al sapere diffuso, proprio delle conoscenze ordinarie, è necessario fare ricorso al sapere scientifico, che costituisce un indispensabile strumento al servizio del giudice di merito per pervenire ad una spiegazione degli accadimenti facendo leva sulle enunciazioni esplicative elaborate dalla scienza”, ha precisato che le varie tesi a confronto vengono discusse secondo i principi della dialettica processuale ed il giudice le pondera nella motivazione della sentenza, esercitando il proprio doveroso controllo sull’affidabilità delle basi scientifiche del giudizio, sicché, tali modalità di acquisizione ed elaborazione del sapere scientifico all’interno del processo, dimostrano che questo è uno strumento al servizio dell’accertamento del fatto, dovendosi escludere anche la possibilità di un intervento risolutore delle Sezioni unite proprio in quanto non si verte in una questione di diritto come previsto dall’art. 618 cod. proc. pen. 

A fronte delle riscontrate incertezze scientifiche conseguenti alla continua evoluzione degli studi in materia, nelle pronunce richiamate si è evidenziato che non è possibile ritenere che l’utilizzazione di una legge scientifica imponga che essa abbia un riconoscimento unanime, soprattutto là dove l’indagine e gli studi degli esperti riguardino un tema complesso come quello in esame, che presenta ancora aspetti non universalmente accettati e fattori individualizzanti di non poco rilievo, rispondendo ogni soggetto esposto all’agente patogeno in maniera diversa e peculiare. Ciò proprio in quanto le divergenze di opinioni degli esperti si riscontrano anche con riferimento al momento della iniziazione della malattia, alla durata della induzione ed al protrarsi del periodo di latenza. Ne deriva che le acquisizioni scientifiche a cui il giudice dovrà attingere nel giudizio penale sono, come sopra rilevato, quelle più generalmente accolte, più radicate e condivise tra gli studiosi. Il giudice dovrà dunque rendere appagante risposta motivazionale sul punto e a ciò si rapporterà il sindacato della Corte di legittimità che varierà a seconda che ci si trovi dinanzi ad una motivazione di una pronuncia di assoluzione o di condanna, dovendosi ritenere che ‹‹il solo serio dubbio, in seno alla comunità scientifica, attinente un meccanismo causale rispetto all’evento è motivo più che sufficiente per assolvere l’imputato. Viceversa, poiché la condanna richiede che la colpevolezza dell’imputato sia provata “al di là di ogni ragionevole dubbio” il ragionamento sulla prova deve trovare il proprio aggancio e la propria motivazione in un sapere scientifico largamente accreditato tra gli studiosi. La generalizzazione scientifica, in altri termini, porterà alla condanna oltre ogni ragionevole dubbio, solo qualora sia ampiamente condivisa dalla comunità degli esperti’’ (cfr. Sez. 4, n. 55005 del 10/11/2017, Pesenti, Rv. 271718).

3. Il problema dell’accertamento causale: la causalità generale e la causalità individuale.

La questione maggiormente rilevante affrontata nelle pronunce in rassegna riguarda la ricostruzione del nesso causale tra decesso determinato da mesotelioma pleurico ed esposizione ad amianto.

Come osservato in premessa, infatti, non essendovi certezza in ordine alle effettive modalità di sviluppo del processo neoplastico, assai frequentemente nei giudizi aventi ad oggetto tali tipologie di malattie professionali si pone l’esigenza di stabilire se l’esposizione successiva all’innesco del processo degenerativo abbia o meno rivestito un ruolo eziologico nella progressione della malattia, accelerandone il decorso e dunque, in definitiva, anticipando il decesso del lavoratore.

Già a livello scientifico si individuano contrapposte teorie in quanto, mentre secondo alcuni studi il protrarsi dell’esposizione nella fase successiva all’iniziazione non avrebbe alcuna incidenza sulla latenza della malattia poiché, stante la capacità delle fibre di amianto di permanere nei tessuti, senza subire alterazioni, la causa della neoplasia rimarrebbe sempre all’interno dell’organismo umano, a prescindere da ulteriori esposizioni; per altri l’esposizione successiva deve ritenersi rilevante in considerazione del cosiddetto “effetto acceleratore” del processo carcinogenetico che deriverebbe dalla protrazione dell’esposizione all’amianto, dovendosi ravvisare un rapporto inverso tra intensità e durata dell’esposizione e sviluppo della malattia per cui al protrarsi dell’esposizione al fattore nocivo si ridurrebbe il tempo di latenza della malattia il cui decorso risulta così accelerato.

Già in tempi meno recenti la giurisprudenza di legittimità aveva avuto modo di occuparsi del problema ponendo in rilievo che l’affermazione del nesso di condizionamento tra la violazione delle norme cautelari, ascrivibile al datore di lavoro, e la morte del lavoratore esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa, all’amianto, è correlata all’accertamento:

a) se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all’effetto acceleratore della protrazione dell’esposizione dopo l’iniziazione del processo carcinogenetico; b) in caso affermativo, se si tratti di una legge universale o solo probabilistica, in senso statistico; c) nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, se l’effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali (Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943).

Anche le pronunce più recenti si sono poste in linea di continuità con tale orientamento affermando in primo luogo sotto il profilo della causalità generale, la necessità che il giudice individui il sapere maggiormente accreditato e dotato di un elevato coefficiente di corroborazione.

Così, nella richiamata sentenza “Cirocco”, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata che era giunta ad una pronuncia di condanna omettendo di operare una adeguata verifica circa lo stato delle conoscenze scientifiche e la effettiva esistenza di un diffuso consenso proprio in ordine alla validità della legge di copertura sull’effetto acceleratore, limitandosi a recepirne acriticamente l’attendibilità senza replicare ai rilievi mossi dalla difesa.

È stata altresì rimarcata, con unità di vedute, così superando in via definitiva i difformi orientamenti sviluppatisi antecedentemente alla sentenza “Cozzini”, la necessità che il giudice, anche qualora emerga il consenso della comunità scientifica in ordine alla bontà della legge che sostiene l’operatività dell’effetto acceleratore, proceda all’accertamento della “causalità individuale”, verificando se tale effetto si sia concretamente realizzato rispetto ai singoli lavoratori coinvolti.

Nella sentenza “Cirocco” risulta, infatti, ribadito il principio per cui “in tema di accertamento del rapporto di causalità tra esposizione ad amianto e morte del lavoratore, per affermare la responsabilità dell’imputato fondata sull’effetto acceleratore sul mesotelioma della esposizione ad amianto anche nella fase successiva a quella dell’insorgenza della malattia, il giudice, avendo la relativa legge scientifica di copertura natura probabilistica, deve verificare se l’abbreviazione della latenza della malattia si sia verificata effettivamente nei singoli casi al suo esame, essendo a tal fine necessarie informazioni cronologiche che consentano di affermare che il processo patogenetico si è sviluppato in un periodo significativamente più breve rispetto a quello richiesto nei casi in cui all’iniziazione non segua un’ulteriore esposizione e dovendo altresì essere noti e presenti nella concreta vicenda processuale i fattori che nell’esposizione protratta accelerano il processo”.

La Corte ha invero precisato che, ove la legge causale utilizzata sia non di tipo universale ma probabilistico, come quella sull’effetto acceleratore che non si verifica solo in una determinata percentuale dei casi e comunque non immancabilmente, il giudice è tenuto ad individuare i segni fattuali che permettono di affermare che in ciascuno dei differenti periodi definiti dall’avvicendarsi degli imputati nel ruolo di garante si è prodotto l’effetto in via teorica possibile.

Ne consegue dunque, ad avviso del collegio, la necessità di accertare l’effettivo inverarsi dell’effetto acceleratore nei singoli casi esaminati. Applicando pertanto tali principi la pronuncia ha affermato la inidoneità del criterio della esclusione delle cause alternative adottato dai giudici di merito per sostenere la sussistenza dell’effetto acceleratore.

La Quarta Sezione ha così annullato con rinvio la pronuncia impugnata che aveva omesso di accertare concretamente, attraverso l’acquisizione di specifiche informazioni cronologiche, se per ciascun periodo di esposizione ad amianto presso Montedison dei lavoratori affetti da mesotelioma vi fossero le tracce di un’abbreviazione della latenza, limitandosi invece ad attribuire rilievo esclusivamente al periodo di esposizione, alla durata della latenza vera e di quella convenzionale, affidandosi ad un criterio di credibilità razionale da ritenersi un “mero artificio verbale” in quanto privo di una significativa base fattuale.

Gli esposti principi in tema di causalità generale ed individuale sono stati più di recente ribaditi anche da Sez. 4, n. 22022 del 22/02/2018 – dep. 2018 –, Tupini, Rv. 273586, che, in relazione alle vicende del cantiere navale di Monfalcone, ha rimarcato il principio per cui “in tema di affermazione del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche e l’evento-morte dovuto a malattia professionale, il dato scientifico sulle proprietà oncogene di una sostanza non è sufficiente dovendo il giudice di merito vagliare nel caso concreto la pertinenza di tale informazione nel passaggio dalla causalità generale a quella individuale, e dovendo esercitare un controllo critico sull’affidabilità delle basi scientifiche e sul grado di convergenza delle opinioni nella comunità scientifica”. Anche in tale caso, in cui la questione atteneva alla verifica della esistenza di una relazione tra intensità/durata dell’esposizione e frequenza della malattia, il riconoscimento di un’accelerazione della fase del processo multistadio di cancerogenesi e la considerazione per la quale la interruzione dell’esposizione modifica nel tempo il rischio del mesotelioma pleurico (rallentamento dell’incidenza di malattia e latenza convenzionale superiore), con decadimento del rischio anche grazie alla capacità differenziata dell’organismo di ridurre il carico di fibre che evita l’insorgenza di nuove malattie e le posticipa, allontanando la conclusione della induzione, la Corte ha evidenziato come fosse del tutto congrua la motivazione offerta dai giudici di secondo grado. Questi ultimi avevano, infatti, recepito la tesi scientifica seguita, elaborata da un vero e proprio team di esperti, non prima di averne opportunamente precisato la valenza sul piano della causalità generale; valutato l’autorevolezza dei soggetti che l’avevano veicolata nel processo; richiamato gli studi più importanti sulla materia; monitorato il dibattito esistente nella comunità scientifica e tra gli stessi consulenti sentiti nel processo; considerato gli esiti di momenti di confronto multidisciplinare; direttamente esaminato il contenuto di alcuni documenti per filtrarne e comprenderne la lettura offerta dall’esperto; esaminato, infine, le osservazioni difensive. Analogamente, poi, passando alla verifica sul piano della causalità individuale, risultavano, ad avviso del collegio, adeguatamente esaminati i dati fattuali acquisiti nel corso delle indagini riguardo alle singole persone offese per ciascuna delle quali erano state considerate le mansioni svolte, i livelli di esposizione, le specifiche condizioni e gli ambienti di lavoro, l’attendibilità della diagnosi e la storia personale caratterizzata da una lunga attività nel cantiere in condizioni di esposizione alle fibre di amianto.

L’esposizione da parte della Corte territoriale della legge di copertura scientifica di tipo probabilistico ai fini della spiegazione della causalità generale e la ricostruzione delle condizioni lavorative mediante la valutazione degli elementi fattuali in grado di validare i risultati della prima con riferimento al giudizio di responsabilità penale individuale, è stato dunque ritenuto del tutto rispettoso dei principi affermati in materia dalla giurisprudenza di legittimità.

Tali insegnamenti hanno trovato applicazione anche in successive pronunce della Sezione, così, ad esempio, Sez. 4, n. 27521 del 07/03/2018, Rollo ha ritenuto esente da censure la sentenza di merito che aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro per il reato di omicidio colposo commesso ai danni di un lavoratore deceduto per mesotelioma pleurico che si assumeva conseguenza della malattia professionale contratta sul luogo di lavoro, riconoscendo la sussistenza del nesso causale sia sotto il profilo della causalità generale che sotto il diverso profilo della causalità individuale. Anche in tale caso la Corte ha valutato la correttezza e la congruità del ragionamento sviluppato dal giudice di merito che, all’esito di una analitica valutazione comparativa e critica delle tesi in campo aveva evidenziato, come, sulla base di opinione ampiamente condivisa nella comunità scientifica, non esistesse, per la patologia occorsa nella specie al lavoratore, una fonte di innesco alternativa alla esposizione alle polveri di amianto e che la più accreditata elaborazione teorica della dose risposta o dose dipendenza non contraddiceva il dato temporale di sei mesi di esposizione del dipendente essendo stata riconosciuta relazione causale anche tra esposizioni minime e la insorgenza della malattia.

Ad analoghe conclusioni la Corte è pervenuta anche riguardo all’ulteriore profilo della eziologia individuale avendo i giudici di appello evidenziato come gli accertamenti del caso concreto avevano consentito di escludere alternative occasioni di induzione della patologia presso le ulteriori sedi lavorative della persona offesa, ovvero ulteriori ipotetiche fonti di innesco alternative ed essendo riscontrata la posizione di garanzia in capo all’imputato in relazione al periodo in cui era intervenuta la esposizione del lavoratore al fattore patogeno.

Tali modalità di ricostruzione del nesso di causalità sono state, infine, ribadite anche da Sez. 4, n. 37802 del 11/07/2018, Zanussi, che ha riconosciuto la correttezza della sentenza impugnata che aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro, risultando adeguatamente supportati entrambi gli aspetti della causalità sulla base di specifiche considerazioni idoneamente argomentate e logicamente conducenti e ‹‹tali da sottrarsi a censure di legittimità, nell’assunto che la Corte di legittimità è chiamata ad esprimere solo un giudizio di razionalità, di logicità dell’argomentazione esplicativa offerta dai giudici di merito, e non a scegliere fra l’una o l’altra delle diverse tesi scientifiche: compito, questo sì, assegnato per l’appunto al giudizio di merito, nell’ambito del quale è possibile accedere all’informazione scientifica attraverso il contributo fornito dagli esperti’’. Nella pronuncia si è, infatti, considerato che la Corte di merito oltre ad operare un’ampia ricostruzione di carattere generale in ordine alla natura univocamente asbesto dipendente della malattia contratta dalla persona offesa, aveva operato una scelta circostanziata e argomentata per la tesi della dose-dipendenza della patologia: tesi largamente accolta in ambito scientifico, secondo la quale la malattia non dipende da una singola dose ma è la risultante di esposizioni progressive all’amianto, per cui tutte le successive esposizioni all’amianto nella fase di induzione del mesotelioma – nella fase di iniziazione e in quella successiva di promozione della malattia – assumono rilievo concausale nel prodursi della patologia. Sul piano individuale poi la Corte di appello aveva valutato non solo il dato fattuale dell’esposizione all’amianto durante il periodo considerato, ma anche il fatto che gli apporti scientifici e gli esami eseguiti, compreso l’esame autoptico, avevano consentito di accertare che la persona offesa era deceduta per mesotelioma pleurico indotto da un’esposizione all’amianto che, pur qualificata come di entità medio bassa, era stata idonea alla formazione della patologia tumorale. Allo stesso tempo, era stata esclusa la sussistenza di decorsi causali alternativi, ossia l’esposizione della vittima ad altre esposizioni ad amianto, sia nel suo rimanente periodo lavorativo, sia in altri contesti.

4. La causalità nelle patologie multifattoriali.

In Sez. 4, n. 16715 del 14/11/2017 – dep. 2018 –, Cirocco, risulta affrontato anche il diverso ma connesso tema dell’accertamento della causalità individuale in caso di patologie multifattoriali ovvero malattie suscettibili di essere cagionate da una pluralità di agenti patogeni alternativi tra loro. Anche in tali casi, ad avviso della Corte, a seguito della individuazione di una legge di copertura, sul piano della causalità generale si pone la necessità di rinvenire la prova che quella legge abbia operato nel caso concreto dando dunque applicazione alla c.d. “regola dell’esclusione” per cui la malattia può essere attribuita alla causa indiziata solo dopo che sia stato escluso che abbia avuto un ruolo eziologico il fattore alternativo, il che significa escludere l’operatività di quei fattori alternativi ai quali il compendio probatorio abbia dato una reale concretezza nel caso specifico.

Al fine, dunque, di ritenere la sussistenza di una relazione causale tra la condotta ascritta all’imputato e la patologia sofferta dal lavoratore, sarà necessario dimostrare che questa non abbia avuto un’esclusiva origine nel diverso fattore astrattamente idoneo a determinarne l’insorgenza e che l’esposizione al fattore di rischio di matrice lavorativa sia stata una condizione necessaria per l’insorgere o per una significativa accelerazione della patologia.

Precisa, infatti, la Corte che ‹‹il rapporto causale va riferito non solo al verificarsi dell’evento prodottosi, ma anche e soprattutto alla natura e ai tempi dell’offesa, sì che dovrà riconoscersi il rapporto eziologico non solo nei casi in cui sia provato che la condotta omessa avrebbe evitato il prodursi dell’evento verificatosi, ma anche nei casi in cui sia provato che l’evento si sarebbe verificato in tempi significativamente più lontani ovvero quando, alla condotta colposa omissiva o commissiva, sia ricollegabile un’accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa’’.

Per poter raggiungere infatti un “alto o elevato grado di credibilità razionale”, così come richiesto dagli insegnamenti offerti dalla nota sentenza delle Sezioni Unite “Franzese” in tema di nesso di causalità, si renderà necessaria un’approfondita analisi del quadro fattuale mediante l’esame dei dati relativi all’entità dell’esposizione al rischio professionale, tanto in rapporto all’entità degli agenti fisici dispersi nell’aria che in rapporto al tempo di esposizione, tenuto altresì conto dell’uso di eventuali dispositivi personali di protezione; dati che devono poi essere necessariamente correlati alle conoscenze scientifiche disponibili. Conclusivamente, per affermare la causalità della condotta del datore di lavoro, nell’insorgenza della patologia occorre dimostrare che essa non abbia avuto esclusiva origine dall’azione del diverso fattore in astratto idoneo a provocare la patologia. Si tratta di insegnamenti che si pongono in continuità con la linea ermeneutica già tracciata dalla Quarta Sezione che in Sez. 4, n. 11197 del 21/12/2011 – dep. 2012 –, Chino, Rv. 252153 aveva affermato il principio per cui “l’accertamento del nesso di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche ascrivibili al datore di lavoro e l’evento morte, dovuto a adenocarcinoma, di un lavoratore fumatore esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa, all’amianto deve, anzitutto, aver riguardo al carattere multifattoriale della predetta patologia e, pertanto, alla sua riconducibilità ad una pluralità di possibili fattori causali; in tal caso il giudice non può ricercare il legame eziologico, necessario per la tipicità del fatto, sulla base di una nozione di concausalità meramente medica, dovendo le conoscenze scientifiche essere ricondotte nell’alveo di una causa condizionalistica necessaria. Ne consegue che, per affermare la causalità della condotta omissiva del datore di lavoro, nell’insorgenza del tumore polmonare del lavoratore, occorre dimostrare che esso non abbia avuto esclusiva origine dal prolungato ed intenso fumo di sigarette e che l’esposizione all’amianto sia stata una condizione necessaria per l’insorgenza o per la significativa accelerazione della patologia”. Questi sono dunque i principi che la Corte ha applicato anche nel caso relativo ai dipendenti del Petrolchimico di Mantova in cui tre lavoratori risultavano affetti da tumore polmonare, patologia multifattoriale in quanto riconducibile sia alla esposizione ad amianto che al tabagismo.

Nella fattispecie, in particolare, mentre rispetto a due lavoratori è stata ritenuta corretta l’affermazione di responsabilità del datore di lavoro, essendosi accertato che uno dei lavoratori non era fumatore mentre l’altro aveva smesso di fumare trenta anni prima del manifestarsi della malattia e comunque si era trattato di un consumo ridotto, per cui l’esistenza di un fattore alternativo appariva meramente congetturale; rispetto al decesso del terzo lavoratore la statuizione di condanna è stata annullata. Infatti, pur avendo quest’ultimo, nel medesimo periodo in cui era stato esposto ad amianto, fatto uso di tabacco e potendo definirsi un consumatore medio, la Corte di appello aveva assertivamente negato la rilevanza causale del fumo, omettendo di ricercare adeguati indici di esclusione della operatività di tale possibile causa. La Corte di legittimità ha, pertanto, censurato tale giudizio non potendosi esso considerare frutto della dimostrazione, sia pure in chiave di elevata credibilità razionale, che nel caso di specie non ebbe ad agire unicamente il fumo di tabacco.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943 Sez. 4, n. 11197 del 21/12/2011 – dep. 2012 –, Rv. 252153 Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv.255105 Sez. 4, n. 18933 del 27/02/2014, Negroni, Rv. 262139 Sez. 4, n. 55005 del 10/11/2017, Pesenti, Rv. 271718 Sez. 4, n. 1886 del 03/10/2017 – dep. 2018 –, Cappel, Rv. 271943 Sez. 4, n. 01870 del 12/10/2017 – dep. 2018 –, Rossini Sez. 4, n. 1886 del 03/10/2017, Cappel, Rv. 271943 Sez. 4, n. 16715 del 14/11/2017 – dep. 2018 –, Cirocco, Rv. 273094 Sez. 4, n. 18384 del 20/12/2017 – dep. 2018 –, Dal Pozzo Sez. 4, n. 46392 del 15/05/2018, Beduschi Sez. 4, n. 27521 del 07/03/2018, Rollo Sez. 4, n. 45207 del 12/07/2018, Altieri Sez. 4, n. 25125 del 17/10/2018, Bellingeri

  • reato
  • giurisprudenza
  • discriminazione etnica
  • discriminazione razziale
  • codice penale

CAPITOLO VI

IL MULTICULTURALISMO NELLA GIURISPRUDENZA PENALE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 I reati culturalmente orientati. - 2 L’incidenza dei motivi sociali o religiosi sulla configurabilità delle scriminanti del consenso dell’avente diritto o dell’esercizio del diritto. - 2.1 (segue) sulla sussistenza della circostanza aggravante prevista dall’art. 61, n. 1, cod. pen. - 2.2 (segue) sulla configurabilità di un giustificato motivo in tema di porto di armi. - Indice delle sentenze citate

1. I reati culturalmente orientati.

Il massiccio fenomeno delle migrazioni, in particolare di quelle a lungo termine o di carattere permanente, ha fatto emergere il fenomeno dei reati culturalmente orientati (cultural offence) ovvero di condotte che, mentre vengono considerate lecite, quando non dovute, dal gruppo culturale di origine del loro autore, al contempo, sono, invece, considerate reato dall’ordinamento giuridico italiano. In tal caso, dunque, non viene in rilievo un conflitto interno dell’agente, che percepisce il disvalore sociale della sua condotta in quanto in contrasto con le regole della sua formazione culturale, bensì una situazione di conflitto esterno che si realizza quando le regole proprie della tradizione e della cultura di un determinato gruppo etnico confliggono con quelle presenti nel territorio ove il soggetto si trova.

Sotto la denominazione di reati culturalmente orientati possono individuarsi fattispecie criminose eterogenee in cui l’elemento distintivo è caratterizzato dal movente della condotta, riconducibile a convenzioni sociali, regole religiose o tradizioni tribali del gruppo culturale di appartenenza. Si tratta per lo più di fattispecie criminose connotate da violenza intrafamiliare o, comunque, da atti di prevaricazione, verso il coniuge o verso i figli, e dettate da una concezione familiare ispirata al potere del capo famiglia e all’assenza di libertà di autodeterminazione della moglie e dei figli. In altre situazioni vengono, inoltre, in rilievo reati contro la persona determinati da moventi eterogenei – quali l’esasperata concezione dell’onore della famiglia o del gruppo, la finalità di affermarne la supremazia in un determinato contesto territoriale o di dimostrare ai suoi membri la propria fedeltà, anche ai fini di una futura affiliazione al sodalizio – da tradizioni religiose o da rituali propri del gruppo culturale di origine.

L’esigenza di organizzare la pacifica ed ordinata coesistenza delle molteplici identità coesistenti in una società multiculturale ha determinato l’affermarsi di due diversi modelli politici: accanto al modello di tipo “assimilazionista”, in cui l’inserimento dello straniero nel tessuto nazionale richiede come contropartita la sostanziale rinuncia alle sue radici etnico-culturali, si pone, infatti, un modello connotato da protocolli di “integrazione-inclusione”, tendenzialmente disposto ad accettare le richieste identitarie dei vari gruppi culturali (Sez. 6, n. 46300 del 26/11/2008 F.A.).

Spesso, tuttavia, è possibile ravvisare dei modelli “misti” in cui coesistono norme ispirate alle due prospettive del multiculturalimo. Ciò accade anche nel nostro ordinamento in cui sono ravvisabili norme ispirate sia al primo modello, quali la norma sulla repressione penale delle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (art. 583-bis cod. pen.),

che al secondo, come la previsione della circostanza aggravante di cui all’art. 3, comma 1, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, conv. con modif. in l. 25 giugno 1993, n. 205, della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso.

Nella giurisprudenza di legittimità è possibile rinvenire un orientamento sostanzialmente omogeneo che, dinanzi all’eterogeneità delle fattispecie criminose riconducibili alla categoria dei reati culturalmente orientati, opera di volta in volta un bilanciamento di interessi secondo il criterio, costituzionalmente e convenzionalmente orientato, della centralità della persona umana, quale principio unificatore in grado di armonizzare le differenti culture coesistenti nella nostra società. Alla luce di tale criterio ermeneutico, qualora vengano in rilievo i c.d. delitti naturali, lesivi dei diritti fondamentali della persona (alla vita, all’integrità personale, alla libertà personale, alla libertà sessuale), si nega ogni rilevanza scriminante alle motivazioni di carattere cultuale o religioso, trattandosi di condotte il cui disvalore sociale, prima ancora che giuridico, è immediatamente percepibile da qualsiasi soggetto capace di intendere e di volere,

In un solo arresto, relativo a un reato non riconducibile nell’ambito dei c.d. delitti naturali, la Corte ha escluso la colpevolezza del soggetto agente riconoscendo l’inevitabilità dell’errore di diritto, ai sensi dell’art. 5 cod. pen. nel testo risultante a seguito della sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 364 del 1988 (Sez. 6, n. 43646 del 22/06/2011, S., Rv. 251045). La fattispecie riguardava la condanna di una donna nigeriana per il reato di concorso nel reato di abusivo esercizio della professione (art. 348 cod. pen.) in quanto aveva fatto praticare un intervento di circoncisione sul proprio figlio da un soggetto non abilitato all’esercizio della professione medica, intervento dal quale era derivata una grave emorragia che aveva richiesto un ricovero d’urgenza in ospedale.

Nel giudizio di merito, tale intervento era stato qualificato come atto medico in quanto:

a) interferisce sull’integrità fisica della persona; b) non può prescindere dalla valutazione delle condizioni del soggetto che lo subisce; c) richiede capacità tecniche e competenze tali da dover essere riservato ai soggetti abilitati alla professione medica. I giudici di merito, inoltre, avevano escluso l’operatività della scriminante dell’esercizio del diritto di professare liberamente la fede religiosa, rilevando che la scelta dell’imputata, di fede cattolica, non costituiva un rito religioso, ma una condotta in uso nella sua comunità di appartenenza. Infine, era stata esclusa la scusabilità dell’errore-ignoranza dell’imputata sulla natura di atto medico dell’intervento di circoncisione, in quanto incidente sul precetto penale.

La Corte di cassazione, pur concordando sulla natura di atto medico della circoncisione

c.d.rituale, si è interrogata sulla possibilità di conciliare la volontà di determinate minoranze che vivono sul territorio di osservare le proprie tradizioni con il rispetto delle regole del nostro ordinamento giuridico.

Ad avviso della Corte, la soluzione di tale questione non può prescindere dalla considerazione del significato e del differente valore che la circoncisione non terapeutica assume a secondo che risponda ad un credo religioso, come quello ebraico, piuttosto che a tradizioni culturali o etniche.

Tale pratica assume, infatti, un pregnante valore simbolico e religioso tra gli aderenti alle religioni ebraica in cui il padre del neonato, in adempimento di un obbligo affermato nella Bibbia, fa sottoporre il figlio alla circoncisione da parte del “mohel” che, di solito, è un medico o una persona specializzata nella pratica della circoncisione. La conformità di tale pratica ai principi dell’ordinamento giuridico italiano è, peraltro, implicitamente riconosciuta dagli artt. 2, comma 1, e 25, della legge 8 marzo 1989, n. 101, di regolazione dei rapporti tra Stato ed Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, laddove garantiscono il diritto di professare e praticare liberamente la religione ebraica in qualsiasi forma e di esercitarne in privato e in pubblico il culto e i riti.

In tali casi, ad avviso della Corte, la circoncisione rituale non è in contrasto con il nostro ordinamento ed ha una preminente valenza religiosa che sovrasta su quella medica, cosicché si esclude che il mohel possa rispondere sia del reato di esercizio abusivo della professione che di quello di lesioni personali, purché la sua condotta non determini una apprezzabile lesione permanente né riveli profili di negligenza, imprudenza o imperizia. Quanto al primo aspetto, vengono in rilievo sia l’art. 19 Cost., dovendosi escludere che la circoncisione rituale praticata dagli ebrei costituisca una pratica contraria al buon costume, sia l’art. 30 Cost. che riconosce il diritto-dovere dei genitori di educare i figli in relazione al quale rileva anche l’educazione religiosa. Quanto al delitto di lesioni personali, la Corte osserva che la pratica del mohel è, comunque, scriminata dal consenso prestato dai genitori del neonato per il compimento di un atto che rientra tra quelli consentiti di disposizione del proprio corpo (art. 5 cod. civ.).

A diversa soluzione giunge, invece, la Corte con riferimento ai casi in cui la circoncisione non terapeutica risponde a tradizioni culturali ed etniche in base alla quali viene, di regola, eseguita da persona priva di adeguata competenza, che vi procede in modo empirico e senza alcuna garanzia circa la sua corretta effettuazione ed il rispetto delle regole dell’igiene e dell’asepsi.

Nel caso di specie, veniva in rilievo tale seconda categoria: l’imputata, nigeriana di fede cattolica, aveva, infatti, sottoposto il proprio figlio alla circoncisione, affidandolo per l’intervento ad una donna priva di competenze, tanto che il minore, a causa delle successive complicanze emorragiche, veniva ricoverato in ospedale. La scelta della donna era stata determinata dalla volontà di adeguarsi ad una pratica (notoriamente estranea ai riti della religione cattolica) in uso presso la comunità di appartenenza. Ciò non consentiva, dunque, di invocare la scriminate dell’esercizio del diritto di praticare liberamente la propria fede religiosa.

In tal caso, in assenza di una previsione legislativa che, a differenza di quanto accade per il rito religioso ebraico, legittimi la circoncisione motivata da tradizioni etniche, ad avviso della Corte, deve necessariamente operare la “riserva professionale” finalizzata a garantire la qualificazione e competenza della persona che procede all’intervento, rendendo, così, configurabile la fattispecie di cui all’art. 348 cod. pen. 

Tuttavia, i giudici di legittimità hanno escluso la responsabilità dell’imputata riconoscendo la sussistenza di un’ignorantia legis inevitabile, rilevante ex art. 5 cod. pen., in considerazione del basso grado culturale della donna, recentemente immigrata in territorio italiano e ancora non integrata nel tessuto sociale del nostro Paese, nonché del forte condizionamento culturale che l’aveva indotta a sottoporre il proprio figlioletto alla circoncisione, ignorando che tale pratica costituisse un “atto medico” che poteva essere eseguito solo da persone fornite di specifica abilitazione.

2. L’incidenza dei motivi sociali o religiosi sulla configurabilità delle scriminanti del consenso dell’avente diritto o dell’esercizio del diritto.

Numerosi arresti relativi a reati contro la persona hanno affrontato il tema del contrasto tra le peculiari concezioni familiari dei diversi gruppi culturali e i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, escludendo la configurabilità delle scriminanti del consenso dell’avente diritto o dell’esercizio del diritto.

In particolare, Sez. 6, n. 3398 del 22/10/1999, Bajrami, Rv. 215158, pronunciandosi in tema di maltrattamenti in famiglia, ha escluso la configurabilità di un consenso della vittima, anch’essa formatasi nel medesimo contesto sub-culturale del reo – che riconosce al capo-famiglia il potere di disporre validamente dei familiari e delle loro abitudini di vita – affermando che la soglia del consenso è, comunque, rappresentata dai diritti inviolabili dell’uomo.

Sempre in tema di maltrattamenti in famiglia, Sez. 6, n. 55 del 08/11/2002, Khouider, Rv. 223192, ha affermato che l’elemento soggettivo del reato in questione non può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi, perciò, particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare, in quanto si tratta di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme che stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano, considerato che la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, cui è certamente da ascrivere la famiglia (art. 2 Cost.), nonché il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3, comma 1 e 2 Cost.) costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione di diritto o di fatto nella società civile di consuetudini, prassi o costumi con esso assolutamente incompatibili.

Tale principio è stato successivamente ampliato da Sez. 6, n. 46300 del 26/11/2008 F.A. che, nell’esaminare le diverse prospettive del multiculturalismo, ha individuato la condizione essenziale per la loro attuazione all’interno del nostro sistema penale nella conformità ai principi cardine del nostro ordinamento, quali, in particolare, quelli di rango costituzionale dettati dagli artt. 2 e 3 Cost. Ad avviso della Corte, tali diritti costituiscono, dunque, uno sbarramento all’introduzione nelle società civili di consuetudini, prassi, costumi che si propongono come “antistorici” a fronte dei risultati ottenuti nel corso dei secoli per l’affermazione dei diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero che sia. Nel caso di specie, la Corte ha, pertanto, ritenuto infondato il ricorso avverso la sentenza di condanna di un cittadino marocchino per vari reati – tra cui quelli di maltrattamenti in famiglia, sequestro di persona e violenza sessuale in danno della moglie – escludendo qualsiasi valenza scriminante della concezione della famiglia tipica del gruppo sociale di appartenenza dell’imputato. Secondo l’assunto difensivo, infatti, ferma restando la consapevolezza della illiceità della condotta secondo le regole dello Stato di residenza, doveva escludersi l’elemento soggettivo del reato in considerazione del concetto che l’imputato, cittadino di religione musulmana, aveva della convivenza familiare e delle potestà, anche maritali, a lui spettanti in quanto capo-famiglia. La Corte, nel rilevare il contrasto di tale modello culturale con le norme cardine del sistema giuridico interno, ha escluso la sua idoneità ad incidere sull’elemento psicologico del reato – stante l’obbligo per l’imputato di conoscere, ai sensi dell’art. 5 cod. pen., il divieto imposto dalla legge ai comportamenti lesivi posti in essere – senza, tuttavia, escludere una possibile rilevanza delle valutazioni individuali sulla innocuità, utilità o non riprovevolezza della condotta, alla stregua della cultura di appartenenza, nel quadro multiforme delle variabili previste dall’art. 133 cod. pen. in punto di personalizzazione e di adeguatezza della pena (in senso conforme: Sez. 6, 19674 del 19/03/2014, A., Rv. 260288).

Sez. 6, n. 32824 del 26/03/2009, D., Rv. 245185, ha, inoltre, escluso qualsiasi incidenza scriminante sul reato di maltrattamenti in famiglia del credo religioso. Ad avviso della Corte, infatti, non sussiste alcun nesso indissolubile tra il reato di maltrattamenti in famiglia e la fede islamica dei coniugi che tra l’altro, «ove pure non sancisca la parità dei sessi nel rapporto coniugale, non autorizza i maltrattamenti da parte del marito e, anzi, pone a fondamento della sua autorevolezza proprio il dovere di astenersene»).

Analogamente, con riferimento al delitto di violenza sessuale, Sez. 3, n. 37364 del 05/06/2015, B., Rv. 265187, ha ritenuto irrilevanti le giustificazioni dedotte in nome di presunti limiti o diversità culturali nella concezione del rapporto coniugale, posto che le stesse porterebbero al sovvertimento del principio dell’obbligatorietà della legge penale e all’affievolimento della tutela di un diritto assoluto e inviolabile dell’uomo quale è la libertà sessuale.

Successivamente, Sez. 5, n. 39197 del 08/05/2015, M., Rv. 265080, pronunciandosi in tema di sequestro di persona con riferimento ad un caso in cui un padre aveva segregato la figlia in un capannone, non condividendone le scelte sentimentali, ha affermato che è ammissibile la rinuncia ad una certa sfera della propria libertà personale per motivi religiosi, nonostante si tratti di un bene costituzionalmente protetto, solo quando, tra l’altro, il consenso della persona non sia viziato da errore, violenza o minaccia (come accaduto nel caso concreto in cui la privazione della libertà personale della giovane si inseriva in un contesto vessatorio volto ad esercitare sulla vittima una indebita pressione psicologica).

Inoltre, Sez. 3, n. 14960 del 29/01/2015, EH., Rv. 263122, ha escluso che lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia (nella specie: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare) possa invocare, anche in forma putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell’ordinamento italiano.

La Corte ha, infatti, rilevato che in una società multietnica non è possibile scomporre l’ordinamento in tanti statuti individuali quante sono le etnie che la compongono, non essendo compatibile con l’unicità dell’ordinamento giuridico l’ipotesi della convivenza in un unico contesto civile di culture tra loro confliggenti.

Nel ribadire, dunque, l’esigenza di armonizzare le diverse istanze culturali al fine di garantirne la pacifica coesistenza, la Corte ha individuato nel principio di uguaglianza riconosciuto dall’art. 3 Cost. – che attribuisce a tutti i cittadini pari dignità sociale e posizione di uguaglianza dinanzi alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione ed opinioni politiche, condizioni personali e sociali – l’unica soluzione, costituzionalmente orientata, in grado di offrire un denominatore minimo comune per l’instaurazione di una società civile e multietnica. Ad avviso della Corte, è, dunque, essenziale, per la stessa sopravvivenza di tale società, che chiunque vi si inserisca adempia l’obbligo giuridico di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano. Ciò esclude che possa riconoscersi la buona fede di chi, consapevole di essersi trasferito in un paese ed in una società in cui convivono culture e costumi differenti dai propri, presume di avere il diritto, non riconosciuto da alcuna norma del diritto internazionale, di proseguire in condotte che, seppure ritenute lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza e, comunque, accettabili secondo la propria formazione culturale, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere.

Le motivazioni culturali o di costume del soggetto agente sono state ritenute inidonee ad incidere sulla rilevanza penale del reato di riduzione in schiavitù da Sez. 5, n. 23052 del 05/05/2016, Mahmuti, Rv. 267014. Nella fattispecie, si procedeva a carico di un gruppo di soggetti per i reati di tratta e di riduzione in schiavitù in danno di una minorenne kosovara che, acquistata dalla famiglia di origine per la somma di 20.000 euro, veniva irregolarmente introdotta nello Stato italiano per essere condotta in un campo nomadi e forzatamente unita in un matrimonio concordato con i genitori della giovane e contratto secondo le consuetudini della comunità di appartenenza. Nel giudizio di merito, gli imputati erano stati assolti dal reato di riduzione in schiavitù mentre il delitto di tratta era stato riqualificato in quello di introduzione illegale nel territorio dello Stato. La Corte di cassazione, annullando con rinvio tali capi della sentenza, ha ritenuto erroneo il ragionamento svolto dai giudici di merito che avevano ritenuto irrilevante la circostanza relativa alla compravendita di cui era stata oggetto la minore, in quanto espressione di una consuetudine tipica dell’ambiente culturale di appartenenza in cui corrisponde a normalità che i matrimoni vengano concordati fra i genitori degli sposi. Ciò in quanto, precisa la Corte, la riduzione della persona offesa ad oggetto di scambio commerciale, mediante la sottoposizione della stessa ad un atto di compravendita, integra di per sé una situazione di sfruttamento rilevante ai fini della configurabilità dei reati in esame.

2.1. (segue) sulla sussistenza della circostanza aggravante prevista dall’art. 61, n. 1, cod. pen.

Nell’ambito del medesimo filone interpretativo si collocano gli arresti che hanno escluso l’idoneità dell’appartenenza o della vicinanza dell’autore del reato a determinati gruppi culturali ad elidere il giudizio sulla futilità del motivo ispiratore della condotta delittuosa.

In un caso, Sez. 1, n. 11591 del 28/10/2015, Passalacqua, Rv. 266559, la Corte ha ravvisato l’aggravante dei futili motivi con riferimento ad un omicidio commesso da due soggetti di etnia rom, escludendo che lo stile di vita e la particolare concezione dell’onore familiare, propri dell’etnia di appartenenza degli imputati, potessero attenuare il disvalore etico-giuridico della condotta, anche solo per escludere l’aggravante in questione. La Corte, infatti, pur condividendo il consolidato principio di diritto che ancora la valutazione della futilità del motivo non ad un astratto comportamento medio, ma agli elementi concreti della fattispecie, alla luce dei connotati culturali dei soggetti giudicati, del contesto sociale in cui si è verificato il fatto e dei fattori ambientali che possono aver condizionato la condotta criminosa (si veda, da ultimo, Sez. 5, n. 36892 del 21/04/2017, M. Rv. 270804), ha affermato che tale criterio di giudizio non può giustificare in alcun modo una compressione della tutela inderogabile dei principi e dei beni fondamentali riconosciuti dall’ordinamento costituzionale, rispetto ai quali nessun orientamento ideale, culturale o di costume proprio di persone, gruppi o comunità che vivono e operano nella comunità generale può porsi in aperto contrasto.

Analoghe considerazioni sono state svolte con riferimento all’appartenenza degli imputati ad una banda giovanile sudamericana. Tali gruppi, infatti, di regola riconoscono come valori positivi la violenza e l’uso della forza – quale forma di affermazione della personalità individuale e di manifestazione dell’appartenenza al gruppo ovvero come prova di iniziazione per potervi essere ammessi – esercitata per il solo fatto che la vittima sia o appaia militare in una formazione contrapposta. Anche in tal caso la Corte ha affermato che la militanza o la vicinanza a siffatti gruppi non consente di ritenere apprezzabile il movente che si pone alla base di condotte connotate da un uso gratuito della violenza, dal momento che tali concezioni e modelli comportamentali offrono occasione per dare libero corso ad impulsi brutali e prevaricatori e si pongono in contrasto con i valori fondamentali riconosciuti dall’ordinamento giuridico, che tutela in primo luogo la vita, la sicurezza e la libertà personale (Sez. 1, n. 25535 del 10/04/2018, Alvarado Ortega, Rv. 273289).

2.2. (segue) sulla configurabilità di un giustificato motivo in tema di porto di armi.

Infine, Sez. 1, n. 24084 del 31/03/2017, Singh, ha escluso che il credo religioso possa legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti ad offendere. La fattispecie riguardava la condanna di un indiano di religione sikh per il porto ingiustificato del kirpan, pugnale rituale costituente uno dei simboli di quel culto. Il motivo di ricorso era incentrato sulla violazione dell’art. 4, l. n. 110 del 1975, e sul vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento del carattere giustificato del porto del coltello che, al pari del turbante, rispondeva, ad un preciso obbligo religioso. La Corte, nel rigettare tale ricorso, ha affermato che, in una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbano riconoscere. Ad avviso della Corte, dunque, se, da un lato, l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la garanzia costituzionale riconosciuta dall’art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, dall’altro lato, tale principio trova un limite invalicabile nel rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. L’immigrato ha, dunque, l’obbligo di verificare la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che regolano la società ospitante. Ciò in quanto il carattere multietnico della società non può portare alla formazione di “arcipelaghi culturali confliggenti”, a secondo delle etnie che la compongono, con il tessuto culturale e giuridico del paese ospitante. Nessun ostacolo viene, inoltre, ravvisato nella libertà religiosa che, prosegue la Corte, incontra dei limiti stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze tra cui quella della pacifica convivenza e della sicurezza. Ad avviso della Corte, inoltre, la necessità di operare un bilanciamento tra pluralismo religioso ed interessi costituzionalmente garantiti risulta in linea con quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 63 del 2016. Come osservato dal Giudice delle Leggi, infatti, «Tutti i diritti costituzionalmente protetti sono soggetti al bilanciamento necessario ad assicurare una tutela unitaria e non frammentata degli interessi costituzionali in gioco, di modo che nessuno di essi fruisca di una tutela assoluta e illimitata e possa, così, farsi “tiranno” (sentenza n. 85 del 2013). Tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto – nel rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra – sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza.» Si tratta di conclusioni che, ad avviso della Corte, non contrastano con l’art. 9, comma 2, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (secondo cui “La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute e della morale, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui.”), come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Edu, in particolare, con la sentenza del 15 gennaio 2013 nel caso Eweida e altri contro Regno Unito in cui è stata riconosciuta la legittimità delle limitazioni alle abitudini di indossare visibilmente collane con croci cristiane nell’ambiente di lavoro ove, peraltro, dipendenti di religione Sikh avevano accettato la disposizione di non indossare turbanti o kirpan (così dimostrando che l’obbligo religioso non è assoluto e può subire restrizioni).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 3398 del 22/10/1999, Bajrami, Rv. 215158 Sez. 6, n. 55 del 08/11/2002, Khouider, Rv. 223192 Sez. 6, n. 46300 del 26/11/2008, F.A, Rv. 242229 Sez. 6, n. 32824 del 26/03/2009, D., Rv. 245185 Sez. 6, n. 43646 del 22/06/2011, S., Rv. 251045 Sez. 6, n. 19674 del 19/03/2014, A., Rv. 260288 Sez. 3, n. 14960 del 29/01/2015, EH., Rv. 263122 Sez. 5, n. 39197 del 08/05/2015, M., Rv. 265080 Sez. 3, n. 37364 del 05/06/2015, B., Rv. 265187 Sez. 1, n. 11591 del 28/10/2015, Passalacqua, Rv. 266559 Sez. 5, n. 23052 del 05/05/2016, Mahmuti, Rv. 267014 Sez. 1, n. 24084 del 31/03/2017, Singh Sez. 5, n. 36892 del 21/04/2017, M., Rv. 270804 Sez. 1, n. 25535 del 10/04/2018, Alvarado Ortega, Rv. 273289

SEZIONE V LEGISLAZIONE COMPLEMENTARE

  • reato
  • reato tributario
  • diritto penale
  • reato economico

CAPITOLO I

L’OMESSO VERSAMENTO DELLE RITENUTE PREVIDENZIALI E ASSISTENZIALI E MODALITÀ DI ACCERTAMENTO DELLA SOGLIA DI PUNIBILITÀ

(di Maria Cristina Amoroso )

Sommario

1 Il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali. - 2 La nuova struttura del reato. - 3 Il riferimento all’annualità. - 4 La posizione del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e dell’Inps. - 5 La posizione della Corte di cassazione in relazione all’individuazione del periodo da ricomprendere nella annualità. - 6 L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite. - 7 La soluzione adottata dalle Sezioni unite. - 8 Le ricadute sulla giurisprudenza della Corte. - 9 Questioni aperte. Il riferimento all’annualità nel caso omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dai datori di lavoro agricoli. - 10 Omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali e particolare tenuità del fatto. - Indice delle sentenze citate

1. Il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali.

L’art. 3, comma 6, del d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 8 ha profondamente ridefinito la struttura del reato previsto dall’art. 2 comma 1-bis, del decreto legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito in legge 11 novembre 1983, n. 638, che punisce l’omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dai datori di lavoro, dai committenti e dai datori di lavoro agricoli sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.

Nella formulazione previgente la norma prevedeva che “l’omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1 è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a lire due milioni. Il datore di lavoro non È punibile se provvede al versamento entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione”.

A tale fattispecie la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto la natura di reato omissivo istantaneo: la consumazione è stata individuata nel momento della scadenza del termine concesso al datore di lavoro per il versamento, risultando a tal fine ininfluente che la data della notifica dell’intimazione di pagamento, di cui all’art. 2, comma 1-bis, fosse fissata nei tre mesi successivi alla contestazione, essendo tale termine rilevante solo per l’eventuale sussistenza della causa di non punibilità (Sez. 3, n. 20251 del 16/04/2009, Casciaro, Rv. 243628; Sez. 3, n. 615 del 14/12/2010, Ciampi, Rv. 249164).

Tenuto conto delle scadenze per i pagamenti previsti per le varie categorie di datori di lavoro interessati dal precetto penale, la Corte ha precisato che per i datori di lavoro subordinato e per i committenti la consumazione andava individuata, ai sensi dell’art 18, comma 1, del d.lgs. n. 241 del 1997, come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 422 del 1998, nel giorno 16 del mese successivo a quello in cui veniva pagata la retribuzione; e per i datori di lavoro agricoli, ai sensi del combinato disposto dell’art. 6, comma 14, del d.l. n. 536 del 1987, convertito con modificazioni dalla legge 48 del 1988, e dell’art. 18, comma 1, del d.lgs. n. 241 del 1997, come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 422 del 1998, nei giorni 16 settembre (per l’omesso pagamento dei contributi relativi al primo trimestre dell’anno), 16 dicembre (per l’omesso pagamento dei contributi relativi al secondo trimestre dell’anno), 16 marzo (per l’omesso pagamento dei contributi relativi al terzo trimestre dell’anno) e 16 giugno (per l’omesso pagamento dei contributi relativi al quarto trimestre dell’anno).

Nella previgente configurazione del delitto, quindi, nell’arco dell’anno potevano verificarsi distinti reati per ogni singola mensilità (tra le tante Sez. 3, n. 26732 del 5/03/2015, P.G. in proc. Bongiorno, Rv. 264031), o per ogni singolo trimestre in cui, alla scadenza, non veniva versato il contributo (Sez. 3, n. 38378 del 09/07/2015, PG. in proc. Varacalli, Rv. 264636).

L’intervento legislativo operato sul comma 1-bis dell’art. 2 della legge citata dal comma 6 dell’art. 3 del d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 8 ha profondamente mutato la fattispecie.

La nuova formulazione della norma prevede che “l’omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l’importo omesso non È superiore a euro 10000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000”. All’indomani dell’intervento legislativo la giurisprudenza di legittimità ha immediatamente chiarito che le modifiche poste in essere non hanno determinato una implicita abrogazione della fattispecie previgente in quanto la nuova formulazione del reato non è incompatibile con quella preesistente giacché rimane inalterato il nucleo caratterizzante, ovvero la condotta omissiva del mancato versamento, e la sanzione originariamente prevista.

L’intenzione del legislatore, quindi, non è stata quella di abolire il reato di cui all’art. 2, comma 1-bis, legge n. 638 del 1983, ma di collegare la rilevanza penale della condotta al superamento di un importo di per sé significativo, anche in ragione della mutata realtà socio – economica, caratterizzata da maggiori difficoltà di liquidità, individuando una soglia la cui entità contemperi le esigenze connesse al buon funzionamento del sistema previdenziale – pensionistico con la reale portata di offensività della condotta (Sez. 3, n. 35589 del 11/05/2016, Di Cataldo, Rv. 268115; Sez. 3, n. 14475 del 07/12/2016 dep. 2017, Mauro, Rv. 269329).

2. La nuova struttura del reato.

Nonostante la continuità va però osservato che la nuova formulazione ha alterato notevolmente l’originaria struttura del reato, in quanto ha introdotto in essa inediti elementi quantitativo – temporali, condizionandone l’esistenza al ricorrere di due fattori: l’omissione del versamento dovuto nel termine previsto, e il superamento nella annualità della soglia di punibilità di 10.000 euro.

Con l’ultimo dei fattori indicati il legislatore non si è limitato semplicemente ad introdurre un limite di non punibilità lasciando inalterato, per il resto, l’assetto della precedente figura normativa che non prevedeva nessun limite, ma, collegando il superamento della soglia al periodo temporale dell’anno, ha individuato un nuovo elemento caratterizzante il disvalore di offensività della condotta che influisce in maniera determinante sul momento consumativo del reato.

Nell’attuale regime il collegamento del superamento della soglia dei 10.000 euro all’annualità determina, a differenza di quanto accadeva in precedenza, la necessità di riferirsi complessivamente a quanto accaduto durante tutti i mesi dell’anno.

Potrà quindi accadere che durante tale arco temporale si verifichino plurime omissioni che, singolarmente considerate, potrebbero anche non costituire reato, ovvero che intervenga un unico omesso versamento che già da solo superi la soglia.

Il reato si configura, quindi, come una fattispecie connotata da una progressione criminosa nel cui ambito, superato il limite di legge, le ulteriori omissioni consumate nel corso del medesimo anno si atteggiano a momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata, la cui definitiva cessazione coincide con la scadenza del termine previsto per il versamento dell’ultima mensilità, e quindi con la data del 16 gennaio dell’anno successivo (In questo senso la Corte di Cassazione che fin’ora ha affrontato la tematica solo per la categoria dei datori di lavoro non agricoli: Sez. 3, n. 37232 del 11/05/2016, Lanzoni, Rv. 268308; tra le tante che hanno ribadito il principio consolidato Sez. 3, n. 649 del 20/10/2016, dep. 2017, Messina, Rv. 268813; Sez. 3, n. 14475 del 07/12/2016, dep. 2017, Mauro, Rv. 269329; Sez. 3, n. 34362 del 11/05/2017, Sbrolla, Rv. 270961).

La Suprema Corte ha precisato che le eventuali omissioni successive al superamento del valore di soglia contribuiscono ad accentuare la lesione inferta al bene giuridico per effetto del già verificatosi superamento dell’importo di legge sicché, da un lato, non possono semplicemente atteggiarsi quale post factum penalmente irrilevante e, dall’altro, approfondendo il disvalore già emerso, non possono segnare, in corrispondenza di ogni ulteriore mensilità non versata, un ulteriore autonomo momento di disvalore (che sarebbe infatti assorbito da quello già in essere).

Alla luce di tali considerazioni la giurisprudenza ha chiarito quindi che, di fatto, la consumazione può avvenire secondo una triplice alternativa: coincidere con il superamento a partire dal mese di gennaio, dell’importo di euro 10.000, ove allo stesso non faccia più seguito alcuna ulteriore omissione, o con l’ulteriore o le ulteriori omissioni successive sempre riferite al medesimo anno ovvero, definitivamente e comunque, laddove anche il versamento del mese di dicembre sia omesso, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo a nulla rilevando il momento in cui il reato è stato accertato (Sez. 3, n. 37232 del 11/05/2016, Lanzoni; Sez. 3, n. 649 del 20/10/2016 dep. 2017, Messina; Sez. 3, n. 22140 del 11/01/2017, Mor, Rv. 269778 che, come precisato, hanno riguardato omessi versamenti posti in essere da datori di lavoro non agricoli).

La Corte ha stabilito che al fine di determinare il superamento o meno del limite di legge di 10.000 euro occorre considerare tutte le omissioni verificatesi nel medesimo anno, incluse quelle eventualmente estinte per prescrizione (anche su tale punto il principio è consolidato: in questo senso Sez. 3, n. 14729 del 09/02/2016, Ratti, Rv. 266633; Sez. 3, n. 37232 del 11/05/2016, Lanzoni; nonché Sez. 3, n. 649 del 20/10/2016 dep. 2017, Messina, Rv. 268813; Sez. F, n. 39882 del 29/08/2017, Tumino).

La consumazione del delitto così riformulato, quindi, può essere istantanea o di durata e, in quest’ultimo caso, ad effetto prolungato sino al termine dell’anno in contestazione (Sez. 3, n. 35589 del 11/05/2016, dep. 29/08/2016, Di Cataldo, Rv. 268115).

3. Il riferimento all’annualità.

Nel silenzio del legislatore si è posto il problema di quale fosse il periodo da ricomprendere nel concetto di “annualità”.

Due giorni prima dell’entrata in vigore della nuova legge, e nei mesi successivi, prima che la Suprema Corte avesse l’occasione di pronunciarsi sulla questione, il Ministero delle politiche sociali e del lavoro e l’Istituto Nazionale di previdenza Sociale, al fine di consentire agli uffici competenti di condurre le proprie attività alla luce della nuova disciplina, hanno fornito, tra le altre, specifiche direttive sulle modalità di individuazione dell’arco temporale dell’ “annualità” che, tuttavia, non sono risultate coincidenti con quanto affermato dalla Suprema Corte nelle decisioni che si sono occupate di tale specifico argomento.

Anticipando sin d’ora quanto sarà illustrato a breve nel dettaglio, il Ministero del lavoro e l’Inps hanno ritenuto che l’annualità cui fa riferimento la norma cominci a decorrere dal primo mese di scadenza del versamento e termini con l’ultimo mese di scadenza del versamento, mentre la Suprema Corte ha ritenuto che cominci a decorrere dalla prima mensilità di pagamento e si esaurisca con l’ultima mensilità di pagamento.

L’adesione all’una o all’altra opzione non è priva di effetti, la scelta influisce significativamente non solo sulle conseguenze sanzionatorie innanzitutto (ma non solo) penali – l’omissione sottosoglia rileva anche da un punto di vista amministrativo – ma anche sulle modalità organizzative delle attività di ispezione, accertamento e riscossione da parte degli Enti competenti, e sulle sorti delle violazioni già accertate.

4. La posizione del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e dell’Inps.

Nella nota n. 6995 del 6 aprile 2016 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, si rinviene il primo riferimento all’annualità: in essa si stabilisce che “per quanto riguarda le fattispecie penali, in considerazione dell’obbligo di comunicazione della notizia di reato ai sensi dell’art. 347 c.p.p., riguardanti omissioni superiori a 10.000 euro per ciascun anno di versamento contributivo (16 gennaio -16 dicembre), il personale ispettivo provvederà alla contestazione degli illeciti penali unitamente all’invito a versare le quote trattenute, notiziando, ai sensi dell’art. 1-ter, d.lgs. n. 463/83, dell’esito della procedura la competente Procura della Repubblica”.

Tale riferimento viene ulteriormente specificato nella nota n. 9099 del 3 maggio 2016, con la quale il Ministero dirama alle direzioni interregionali e territoriali del lavoro le indicazioni operative condivise con l’Inps e con l’ufficio legislativo.

In tale nota viene escluso che l’indicazione relativa alla annualità possa essere intesa come riferita all’anno solare, a causa delle possibili incertezze che tale parametro potrebbe comportare e si afferma esplicitamente che il parametro temporale deve essere individuato nell’anno civile, intendendosi per tale il periodo che va dal giorno 1 gennaio al 31 dicembre.

Tuttavia, nella stessa nota, “in considerazione del fatto che i versamenti contributivi del mese di dicembre vengono effettuati il 16 gennaio dell’anno successivo” si prevede che gli ispettori, nelle verifiche di competenza per la determinazione dell’importo omesso, devono tenere conto dei versamenti effettuati dal 16 gennaio (relativi al mese di dicembre dell’anno precedente) sino al 16 dicembre (relativi al mese di novembre).

Di conseguenza si prevede che le verifiche ispettive in materia devono essere programmate solo successivamente alla chiusura dell’anno contributivo, e che, qualora nell’ambito di un’attività di vigilanza, emergano omissioni riguardanti l’anno in corso, per concludere l’accertamento ed operare le relative contestazioni, gli ispettori dovranno attendere la fine dell’anno contributivo perché solo in tale momento sarà possibile stabilire l’ammontare annuo dell’omissione e quindi la rilevanza penale o amministrativa del relativo illecito. Si precisa, inoltre, che è possibile procedere alla contestazione immediata nel caso in cui siano rilevati importi omessi per un ammontare superiore ai 10.000 euro che già integrano la soglia di rilevanza penale del fatto.

Con la circolare n. 121 del 5.7.2016 l’INPS ribadisce il criterio di calcolo indicato dal Ministero.

In essa si afferma che ai fini della determinazione dell’importo di euro 10.000 annui individuati come discrimine per l’identificazione della fattispecie di illecito penale o amministrativo, l’arco temporale da considerare per il controllo sul corretto adempimento degli obblighi contributivi è quello che intercorre tra il 1° gennaio ed il 31 dicembre di ciascun anno (anno civile).

Tenuto conto delle singole scadenze legali degli adempimenti dovuti dai datori di lavoro, si precisa che i versamenti che concorrono alla determinazione della soglia di euro 10.000 annui sono quelli relativi al mese di dicembre dell’anno precedente all’annualità considerata (da versare entro il 16 gennaio) fino a quelli relativi al mese di novembre dell’annualità considerata (da versare entro il 16 dicembre).

Per tale opzione l’omesso importo “annuo” è la somma del quantum di tutte le omissioni verificatesi in un anno civile, a prescindere dal periodo di insorgenza delle singole obbligazioni omesse e il riferimento alla obbligazione sottostante avrebbe solo la funzione di quantificarne l’ammontare.

5. La posizione della Corte di cassazione in relazione all’individuazione del periodo da ricomprendere nella annualità.

In relazione all’individuazione del periodo da ricomprendere nel concetto di “annualità” la giurisprudenza di legittimità, ha enunciato costantemente due principi.

Innanzitutto, si è affermato che l’arco temporale da considerare ai fini della annualità va individuato facendo riferimento all’anno civile: tutte le decisioni in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali che si occupano dell’individuazione dell’arco temporale fanno riferimento a tale periodo.

Il principio espresso dalla già citata Sez. 3, n. 37232 del 11/05/2016, Lanzoni, Rv. 268308, è stato ripreso in tutte le altre decisioni che costantemente – in alcuni casi utilizzando quale sinonimo di anno civile la diversa locuzione “anno solare” (ad esempio Sez. 3, n. 53722 del 23/02/2016, Guastelluccia, Rv. 268546, Sez. 3, n. 41620 del 7/7/2017, Siracusa) – individuano l’annualità nel lasso temporale che va dal giorno 1 gennaio al giorno 31 dicembre.

In secondo luogo ha stabilito, in maniera altrettanto indiscussa, che dal tenore letterale della norma e dalla natura del debito – che sorge a seguito della corresponsione delle retribuzioni, e dunque al termine di ogni mensilità, con riferimento alla ritenute dovute per ogni mese dell’anno nel quale siano state corrisposte retribuzioni ai dipendenti – l’arco temporale della annualità deve essere inteso quale riferimento all’anno civile nel quale il debito sia sorto, secondo un principio di competenza e non di cassa, in quanto per poter apprezzare la rilevanza della condotta (ai fini del superamento della soglia di rilevanza penale) occorre fare riferimento alla entità complessiva delle omissioni, tenendo conto del momento in cui le relative obbligazioni, poi rimaste inadempiute, sono sorte, e dunque al mese di riferimento in cui il debito sia sorto, a prescindere dal termine di scadenza per il versamento, che rileva solamente ai fini della individuazione del momento consumativo del reato.

Il principio viene affermato dalla Sez. 3, n. 22140 del 11/01/2017, Mor, ed è stato regolarmente ribadito in tutte le decisioni successive che si sono occupate di questo specifico aspetto (fra le tante, Sez. 3, n. 41625 del 7/7/2017, Albanese; Sez. 3, n. 47902 del 18/7/2017, Abrate; Sez. 3 n. 56432 del 18/07/2017, Franzini, in cui l’adesione all’uno o all’altro criterio era determinante).

Secondo la Corte, quindi, l’ammontare del quantum va calcolato sommando le somme omesse dal gennaio a dicembre dell’anno, mentre per individuare il momento della consumazione dovrà farsi riferimento alle scadenze previste dalla legge secondo la triplice alternativa descritta.

6. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite.

Con sentenza del 14 luglio 2016, la Corte di appello di Trieste, confermando la decisione emessa dal Tribunale di Udine in data 5 marzo 2014 che aveva condannato Giorgio del Fabro alla pena di mesi tre e giorni quindici di reclusione ed euro 400 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali, riconosceva l’imputato colpevole del reato previsto e punito dall’art. 2, comma 1–bis, della legge 11 novembre 1983 n. 463 e dall’art. 81 cod. pen. “perché, nella sua qualità di legale rappresentante della ditta De. Bi. con sede legale in Gemona del Friuli, ometteva di versare i contributi previdenziali ed assistenziali ai lavoratori dipendenti nei mesi di dicembre 2010, gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, settembre 2011, per un totale di € 16.722,53; in Udine dal dicembre 2010 al settembre 2011. Con la recidiva reiterata specifica ed infraquinquennale”.

Secondo la ricostruzione dei fatti egli non aveva versato l’importo dovuto né alle scadenze legali, né in seguito alla contestazione ed alla contestuale diffida ad adempiere di cui all’art. 2, comma 1-bis, del citato d.l. n. 463, avvenuta tramite notifica presso l’abitazione dell’imputato con raccomandata con ricevuta di ritorno.

La Corte di Appello, nonostante le doglianze del ricorrente, aveva ritenuto valida l’avvenuta notifica anche se la raccomandata era stata ritirata da persona non identificata, che aveva sottoscritto con il cognome “Del Fabro”.

Avverso la suddetta pronuncia, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi.

Con il primo denuncia la violazione di legge e il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 2 comma 1-bis della Legge 11 novembre 1983 n. 463, in quanto l’assoluta incertezza del sottoscrittore del ricevimento della raccomandata con cui è stato notificato il verbale di contestazione delle omissioni e della diffida ad adempiere avrebbe impedito di riscontrare con sicurezza l’avvenuta conoscenza da parte sua dell’avviso dell’Inps e, in assenza di tale elemento, non avrebbe potuto essere considerato responsabile del reato contestato.

Con il secondo motivo lamenta altresì la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’art. 62-bis cod. pen. per non aver concesso, la Corte d’Appello, le circostanze attenuanti generiche.

Rilevato che in relazione all’individuazione dell’arco temporale dell’annualità cui fa riferimento l’art. 2, comma 1-bis, della legge 11 novembre 1983, n. 683, nella sua nuova formulazione, la posizione della Corte di legittimità e l’orientamento interpretativo dell’Inps non erano coincidenti, il Primo Presidente, ha ritenuto la questione di particolare importanza, in quanto incidente sugli assetti finanziari e organizzativi degli istituti di previdenza, e ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 610, comma 2, cod. proc. pen.

7. La soluzione adottata dalle Sezioni unite.

Le Sezioni unite, con la decisione n. 10424 del 10/1/2018, Del Fabro, Rv. 272163, condividendo la ricostruzione del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e dall’I.N.P.S. hanno affermato che “In tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei dipendenti, l’importo complessivo superiore ad euro 10.000 annui, rilevante ai fini del raggiungimento della soglia di punibilità, deve essere individuato con riferimento alle mensilità di scadenza dei versamenti contributivi (periodo 16 gennaio-16 dicembre, relativo alle retribuzioni corrisposte, rispettivamente, nel dicembre dell’anno precedente e nel novembre dell’anno in corso)” sulla base delle seguenti considerazioni.

In primo luogo vengono richiamati i principi espressi dalla costante giurisprudenza di legittimità secondo la quale la ratio della norma non è solo quella di reprimere il fatto omissivo del mancato versamento dei contributi, quanto, piuttosto, il più grave fatto commissivo dell’indebita appropriazione, da parte del datore di lavoro, di somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti, con la conseguenza che l’obbligo di versare le ritenute nasce solo al momento della effettiva corresponsione della retribuzione, sulla quale le ritenute stesse debbono essere operate. (Sez. 3, n. 26712 del 14/04/2015, Vismara, Rv. 264306; Sez. 3, n. 19574 del 21/11/2013, dep. 2014, Assirelli, Rv. 259741; Sez. 3, n. 29616 del 14/06/2011, Vescovi, Rv. 250529; Sez. 3, n. 38269 del 25/09/2007, Tafuro, Rv. 237827).

In secondo luogo, si sostiene che se è vero “che il debito previdenziale sorge a seguito della corresponsione delle retribuzioni, al termine di ogni mensilità, è altrettanto vero che la condotta del mancato versamento assume rilievo solo con lo spirare del termine di scadenza indicato dalla legge, sicché appare più coerente riferirsi, riguardo alla soglia di punibilità, alla somma degli importi non versati alle date di scadenza comprese nell’anno e che vanno, quindi, dal 16 gennaio (per le retribuzioni del precedente mese dicembre) al 16 dicembre (per le retribuzioni corrisposte nel mese di novembre).

Le Sezioni unite hanno inoltre ritenuto inammissibile il primo motivo di ricorso relativo alla comunicazione dell’avviso di accertamento da parte dell’INPS ed affermato la piena validità della comunicazione, inviata ribadendo il principio (messo in discussione solo da un isolata pronuncia (Sez. 3, n. 43308 del 15/07/2014, Parello, Rv. 260746, la quale escludeva la validità della “compiuta giacenza) secondo il quale la esatta indicazione del destinatario e dell’indirizzo di recapito sulla raccomandata con la quale viene inviata la contestazione della violazione degli obblighi contributivi consente di escludere ogni rilievo all’impossibilità di risalire all’identità dell’effettivo consegnatario in assenza di concreti e specifici dati obiettivi, tali da far ipotizzare che la comunicazione non sia stata portata a sua conoscenza senza sua colpa, poiché deve presumersi che il soggetto che sottoscrive l’avviso di ricevimento sia comunque persona abilitata alla ricezione per conto del destinatario del plico (Sez. 3, n. 19457 del 08/04/2014, Giacovelli, Rv. 259724; Sez. 3, n. 12567, del 19/02/2013, Milletarì; Sez. 3, n. 2859 del 17/10/2013, dep. 2014, Aprea Rv. 258373; Sez. 3 n. 30241 del 14/07/2011, Romano; Sez. 3, n. 43250 del 20/07/2016, D’Alonzo, Rv. 267938; Sez. 3, n. 28761 del 09/06/2015, Bassetti, Rv. 264452; Sez. 3, n. 52026 del 21/10/2014, Volpe Pasini, Rv. 261287; Sez. 3, n. 45923 del 09/10/2014, Bertelli, Rv. 260990).

Parimenti inammissibile è stato dichiarato il secondo motivo di ricorso relativo alla questione concernente il diniego delle circostanze attenuanti generiche in quanto non prospettata nei motivi di appello e pertanto non deducibile con ricorso per cassazione.

Alla luce delle considerazioni sopraesposte, le Sezioni unite hanno affermato il principio di diritto enunciato e, ritenendo che l’inammissibilità del ricorso, tempestivamente presentato, non precludesse l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena effettuata in violazione del principio di legalità (cfr. Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265111; Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106; Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205), hanno annullato con rinvio la sentenza impugnata affinchè il giudice di merito provvedesse alla rimodulazione del complessivo trattamento sanzionatorio, tenendo conto del momento in cui risultava superata la soglia di punibilità e dell’incidenza, nel giudizio di gravità della condotta, dei mancati versamenti afferenti alle mensilità successive.

8. Le ricadute sulla giurisprudenza della Corte.

I principi di diritto enunciati dalle Sezioni unite sono stati immediatamente recepiti dalla giurisprudenza di legittimità.

In particolare si segnalano Sez. 3, n. 30883 del 27/03/2018, Scalmana; Sez. 3, n. 30067 del 24/05/2018, Bignotto.

Nella prima decisione, l’individuazione della data di consumazione del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali alla data del 16 dicembre 2009, alla luce dei principi enunciati dalle S.U., ha consentito di ascrivere la condotta al legale rappresentante della società cessato dalla carica solo pochi giorni dopo (il 22 dicembre dello stesso mese).

Nella seconda pronuncia la Suprema Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza con la quale il giudice delle indagini preliminari aveva rigettato l’istanza di revoca dei già emessi decreti penali affermando, genericamente, che vi era stato “un supermento della soglia dei 10.000,00 euro annui”, senza specificare in quale arco temporale si fossero verificate tali omissioni.

Ribadiscono i principi della Del Fabro anche Sez. 7, ord. n. 45111 del 22/06/2018, Fontana; Sez. 3, n. 51027 del 26/06/2018, Viola; Sez. 3 n. 23199 del 05/04/2018, Maffei; Sez. 3, n. 34129 del 17/04/2018, Scandale, in cui si è precisato che l’esistenza di distinti procedimenti penali (con successivo riconoscimento della continuazione esterna) non impedisce di ritenere superata la soglia dei 10.000 euro annui, posto che il legislatore nel fissarla ha fatto riferimento ad “un dato economico unitario” che prescinde dalla non simultaneità dell’esercizio dell’azione penale rispetto alle singole mensilità del periodo di riferimento.

La necessità di riferirsi al periodo annuale per riconoscere, o escludere, l’esistenza della causa di non punibilità costituita dal mancato raggiungimento della nuova soglia monetaria, è principio ribadito anche, e soprattutto, per i processi in corso aventi ad oggetto condotte di inadempimento di versamenti mensili che, da soli o in sommatoria tra loro, non travalicano il limite normativo dei diecimila euro.

In applicazione del principio è stata ritenuta illegittima la decisione del Gip che, investito della richiesta di decreto di condanna per il reato de quo, ha pronunciato sentenza di proscioglimento dell’imputato ai sensi dell’art. art. 129 cod. proc. pen. in riferimento a omissioni “infraannuali” non superanti la nuova soglia normativa.

In tali ipotesi, si è precisato, il Gip deve rigettare, ai sensi dell’art. 459, comma 3, cod. proc. pen., la richiesta di emissione del decreto penale di condanna e restituire gli atti al Pubblico Ministero per il compimento degli accertamenti funzionali alla verifica dell’esistenza, durante gli altri mesi dell’anno, di omissioni di importo tale da determinare il superamento della soglia di legge. (Sez. 3, n. 53328 del 12/07/2018, Lombardo; Sez. 3, n. 53327 del 12/7/2018, Raimondi; Sez. 3, n. 53326 del 12/7/2018, Montalbano).

Nell’anno in rassegna la giurisprudenza di legittimità ha anche ribadito il principio di diritto secondo cui la nuova disciplina del reato, di fatto, ha determinato il venir meno degli aumenti ex art. 81 cod. pen. per le omissioni realizzate nel medesimo anno – costituenti ormai un unico reato – ed ha fatto sì che si possa riconoscere la continuazione solo tra diverse annualità (al ricorrere delle condizioni di legge Sez. 3, n. 55360 del 9/11/2018 Di Bianco).

Per tale ragione, sotto il profilo della commisurazione della pena, la nuova disposizione è norma più favorevole applicabile ai sensi dell’art. 2, comma quarto, cod. pen. ai procedimenti in corso.

Sul punto si è anche chiarito che non è possibile ovviare in sede di legittimità all’illegalità della pena computata ritenendo esistente la continuazione tra omissioni riferite alla medesima annualità, essendo in tali casi necessario l’annullamento con rinvio “dovendosi provvedere, alla luce del vigente assetto normativo, alla rimodulazione del complessivo trattamento sanzionatorio, tenendo conto del momento in cui risulta superata la soglia di punibilità e dell’incidenza, nel giudizio di gravità della condotta, dei mancati versamenti afferenti alle mensilità successive” (Sez 3, n. 23179 del 21/03/2018, Calderone).

9. Questioni aperte. Il riferimento all’annualità nel caso omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dai datori di lavoro agricoli.

All’indomani della pronuncia delle Sezioni unite rimane aperta la questione dell’individuazione del periodo dell’annualità in riferimento all’omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dai datori di lavoro agricoli.

Va, infatti, precisato che le scadenze previste per il versamento delle ritenute previdenziali sono stabilite in periodi diversi da quelli dei datori di lavoro subordinato e dei committenti.

I riferimenti normativi relativi alla scadenza del temine per il versamento dei contributi per i datori di lavoro agricoli si rinvengono nell’ art. 6, comma 14, del d.l. n. 536 del 1987, convertito con modificazioni dalla legge 48 del 1988 – che recita: “La riscossione dei premi e dei contributi previdenziali ed assistenziali relativa ai dati dichiarati od accertati d’ufficio per ciascun trimestre dell’anno avviene mediante versamento con bollettini di conto corrente postale, predisposti dal Servizio per i contributi agricoli unificati, alle scadenza rispettive del 10 settembre, 10 dicembre dell’anno in corso e 10 marzo e 10 giugno dell’anno successivo” – e nella successiva fissazione da parte dell’art. 18 del d.lgs. n. 241 del 1997 (come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. b n. 1, del d.lgs. n. 422 del 1998) dell’obbligo di versamento “entro il giorno sedici del mese di scadenza”.

Alla luce delle norme citate, la scadenza di versamento per il primo trimestre va individuata nella data del 16 settembre dello stesso anno, per il secondo trimestre nella data del 16 dicembre dello stesso anno, per il terzo trimestre nella data del 16 marzo dell’anno successivo e per il quarto trimestre nella data del 16 giugno dell’anno successivo.

Essendo quindi impossibile far riferimento alle date indicate dalle Sezioni unite (periodo 16 gennaio-16 dicembre) si dovrà innanzitutto verificare se anche in tal caso dovrà farsi riferimento alle mensilità di scadenza dei versamenti contributivi, e, in caso positivo, calcolare l’ammontare del quantum dei contributi che risultano omessi nell’anno civile alle scadenze del 16 marzo, 16 giugno, 16 dicembre e 16 settembre, tenendo conto tuttavia che le obbligazioni sottostanti a tali scadenze sono riferite a due annualità solari differenti (le omissioni di marzo e giugno sono relative ai mesi da luglio a dicembre dell’anno precedente, mentre le omissioni di settembre e di dicembre sono relative alle obbligazioni sorte dal mese di gennaio a giugno dello stesso anno).

10. Omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali e particolare tenuità del fatto.

Per completare il quadro della giurisprudenza in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali è opportuno richiamare le sentenze che si sono occupate della compatibilità di tale reato con la particolare causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.

È principio pacifico che la causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto” è applicabile anche al reato di omissione di versamenti contributivi.

La giurisprudenza di legittimità sul tema ribadisce il principio di diritto affermato nella sentenza n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, delle Sezioni Unite per il quale tale causa di non punibilità è configurabile per ogni fattispecie criminosa, non essendo in astratto incompatibile con la presenza di soglie di punibilità all’interno della fattispecie tipica, anche nel caso in cui, al di sotto della soglia di rilevanza penale, vi siano fattispecie di rilievo esclusivamente amministrativo.

Altrettanto pacifico, in ossequio al carattere della tenuità dell’offesa, è che la suddetta causa di non punibilità si applichi ai soli reati per i quali gli importi omessi superino di poco la cifra dei diecimila euro. In tal senso, Sez. 3, n. 3292 del 3/10/2017, Spera; da ultimo Sez. 3, n. 53964 del 09/07/2018, Riviere; Sez. 3, n. 43654 del 03/07/2018 Schito; Sez. 3, n. 39413 30/05/2018, Grasso.

In merito alla valenza da attribuire, alle plurime omissioni mensili ai fini dell’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. è opinione della prevalente giurisprudenza di legittimità che l’esistenza di più omissioni, commesse sia nel corso della medesima annualità sia in anni diversi, renda la condotta “non occasionale” e l’offesa “non di particolare tenuità”.

In questi termini le decisioni Sez. 3, n. 30882 del 27/03/2018, Zaniboni, in cui si affermato che le omissioni sottosoglia mantengono un loro disvalore integrando comunque un illecito amministrativo; Sez. 3, n. 51027 del 2018 del 9/11/2018, Viola; Sez. 3, n. 31411 del 16/5/2018, Freni, secondo cui anche le omissioni sottosoglia, pur sprovviste di rilevanza penale, sono comunque accrescitive dell’offesa al bene giuridico protetto dalla norma in esame; Sez. 3, n. 30179 del 11/05/2018, Altobrando, in cui si è specificato che la reiterazione delle omissioni rileva ai fini del giudizio della “abitualità” della condotta mentre il superamento della soglia dei diecimila euro annui rileva ai fini della valutazione della tenuità della condotta Sez. 3, n. 29651 del 27/03/2018 Aly Ahmed.

Appare inoltre utile segnalare che in alcune decisioni si è affermato che l’esistenza di una pluralità di omissioni non rende ex se inammissibile la domanda di applicazione dell’istituto ex 131-bis cod. pen., posto che è invece necessario procedere sempre ad una valutazione nel merito che tenga conto del momento in cui si è verificato il superamento della soglia di punibilità e, soprattutto, dell’effettiva entità dello stesso. Sez 3, n. 39413 del 30/05/2018, Grasso; Sez. 3 n. 32501 del 6/06/2018, Zungoni in cui si è affermato che un rigetto basato solo sull’esistenza di plurime omissioni comporterebbe il paradosso che la richiesta ex 131-bis “risulterebbe sempre ammissibile (salva valutazione nel merito) in presenza di una sola omissione contributiva, relativa cioè ad un’unica mensilità, a prescindere dall’importo interessato ed alla sua eccedenza rispetto alla soglia di punibilità di 10.000,00 euro annui; per contro, risulterebbe sempre preclusa – ex se ed in termini assoluti – in presenza di plurime omissioni mensili nell’arco dello stesso anno, anche qualora la sola sommatoria di queste consentisse di superare la soglia medesima, magari per un importo inferiore rispetto a quello dell’unica mensilità citata e, quindi, con un ridotto danno erariale”.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 3, n. 38269 del 25/09/2007, Tafuro, Rv. 237827 Sez. 3, n. 20251 del 16/04/2009, Casciaro, Rv. 243628 Sez. 3, n. 615 del 14/12/2010, Ciampi ed altro, Rv. 249164 Sez. 3, n. 29616 del 14/06/2011, Vescovi, Rv. 250529 Sez. 3, n. 30241 del 14/07/2011, Romano Sez. 3, n. 12567 del 19/02/2013, Milletarì Sez. 3, n. 2859 del 17/10/2013 – dep. 2014 –, Aprea, Rv. 258373 Sez. 3, n. 19574 del 21/11/2013 – dep. 2014 –, Assirelli, Rv. 259741 Sez. 3, n. 43308 del 15/07/2014, Parello, Rv. 260746 Sez. 3, n. 45923 del 09/10/2014, Bertelli, Rv. 260990 Sez. 3, n. 52026 del 21/10/2014, Volpe Pasini, Rv. 261287 Sez. 3, n. 38378 del 09/07/2015, PG. in proc Varacalli, Rv. 264636 Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205 Sez. 3, n. 26732 del 05/03/2015, P.G. in proc. Bongiorno, Rv. 264031 Sez. 3, n. 26712 del 14/04/2015, Vismara, Rv. 264306 Sez. 3, n. 28761 del 09/06/2015, Bassetti, Rv. 264452 Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265111 Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera, Rv. 265106 Sez. 3, n. 14729 del 09/02/2016, Ratti, Rv. 266633 Sez. 3, n. 53722 del 23/02/2016, Guastelluccia, Rv. 268546 Sez. 3, n. 37232 del 11/05/2016, Lanzoni, Rv. 268308 Sez. 3, n. 35589 del 11/05/2016, Di Cataldo, Rv. 268115 Sez. 3, n. 43250 del 20/07/2016, D’Alonso, Rv. 267938 Sez. 3, n. 649 del 20/10/2016 – dep. 2017 –, Messina, Rv. 268813 Sez. 3, n. 14475 del 07/12/2016 – dep 2017 –, Mauro, Rv. 269329 Sez. 3, n. 22140 del 11/01/2017, Mor, Rv. 269778 Sez. 3, n. 34362 del 11/05/2017, Sbrolla, Rv. 270961 Sez. 3, n. 41620 del 7/7/2017, Siracusa Sez. 3, n. 41625 del 7/7/2017, Albanese Sez. 3, n. 47902 del 18/7/2017, Abrate Sez. 3, n. 56432 del 18/07/2017, Franzini Sez. F. n. 39882 del 29/08/2017, Tumino Sez. 3, n. 3292 del 3/10/2017, Spera Sez. 3, n. 30879 del 27/03/2018, Lazzari, Rv. 273335 Sez. 3, n. 30883 del 27/03/2018, Scalmana Sez. 3, n. 29651 del 27/03/2018 Aly Ahmed Sez. 3, n. 30882 del 27/03/2018 Zaniboni Sez. 3, n. 23199 del 05/04/2018, Maffei Sez. 3, n. 34129 del 17/04/2018, Scandale Sez. 3, n. 30179 del 11/05/2018, Altobrando, Rv. 273686 Sez. 3, n. 31411 del 16/05/2018, Freni Sez. 3, n. 30067 del 24/05/2018, Bignotto Sez. 3, n. 50012 del 25/05/2018, Mostoni Sez. 3, n. 39413 del 30/05/2018, Grasso Sez. 7, n. 45111 del 22/06/2018, Fontana Sez. 3, n. 51027 del 26/06/2018, Viola Sez. 3, n. 43654 del 03/07/2018 Schito Sez. 3, n. 53964 del 09/07/2018, Riviere Sez. 3, n. 53326 del 12/7/2018, Montalbano Sez. 3, n. 53327 del 12/7/2018, Raimondi Sez. 3, n. 53328 del 12/07/2018, Lombardo Sez. F, n. 38585 del 7/08/2018, Farro

  • reato tributario
  • diritto penale
  • reato economico
  • prova

CAPITOLO II

SULLA PROVA DEL REATO DI OMESSO VERSAMENTO DI RITENUTE

(di Andra Venegoni )

Sommario

1 Le ragioni del contrasto. - 2 La questione. - 3 Gli orientamenti. - 4 La giurisprudenza più recente. - 5 La natura della dichiarazione fiscale. - 6 L’intervento del 2015 e la sua ipotizzata natura interpretativa. - 7 Il problema dell’eccesso di delega. - 8 Il problema della pena illecita. - 9 Il ne bis in idem. - 10 I termini della decisione. - Indice delle sentenze citate

1. Le ragioni del contrasto.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 24782 del 22/3/2018, Macerata, Rv. 272801, hanno affrontato la seguente questione in materia di diritto penale tributario: se, ai fini dell’accertamento del reato di cui all’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nel testo anteriore all’entrata in vigore dell’art. 7, comma 1, lett. b), d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, per integrare la prova dell’avvenuta consegna ai sostituti di imposta delle certificazioni delle ritenute fiscali sia o meno sufficiente l’acquisizione della sola dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro.

Nella specie, l’imputato veniva citato a giudizio per il reato di cui all’art. 10-bis d.lgs. 74 del 2000, perchè, quale legale rappresentante di una s.r.l., “ometteva di versare, nei termini previsti per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, ritenute alla fonte relative ad emolumenti erogati nell’anno di imposta 2010”, per oltre 200.000 euro; la data di commissione del reato era indicata nel 2011.

Lo stesso veniva condannato in primo grado alla pena di mesi 8 di reclusione.

In uno dei motivi di appello, l’imputato si doleva del fatto che, come prova del reato ai fini della pronuncia di condanna, fosse stata utilizzata la dichiarazione del sostituto di imposta mod. 770, che, a suo avviso, non era idonea a tal fine.

La Corte d’Appello, dopo avere esposto che il reato in questione presenta una componente omissiva – il mancato versamento delle ritenute – ed una precedente componente commissiva consistente in due condotte – l’effettuazione della ritenuta al momento della corresponsione della retribuzione ed il rilascio ai sostituiti delle certificazioni di legge, prima dello spirare del termine della presentazione della dichiarazione di sostituto di imposta – pur dando atto dell’esistenza di un contrasto di giurisprudenza sulla rilevanza del mod. 770 ai fini di prova, rigettava, però, l’appello e confermava la sentenza di primo grado.

L’imputato ricorreva, allora, in Cassazione deducendo l’errore della sentenza di appello sull’utilizzo del mod. 770 ai fini di prova.

La sez. 3 della Corte, all’esito dell’analisi del ricorso, ravvisando un contrasto di giurisprudenza sul punto, riteneva necessaria la rimessione alle Sezioni Unite per dirimere la questione.

2. La questione.

Occorre, in primo luogo, inquadrare la questione per avere chiaro l’oggetto dell’analisi.

In estrema sintesi, essa consiste nello stabilire se, per i reati di cui all’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, commessi prima del 22 ottobre 2015, sia sufficiente, ai fini della prova dell’illecito, la dichiarazione del sostituto di imposta, c.d. Mod. 770, o sia necessaria, invece, la distinta certificazione che il sostituto rilascia al sostituito (c.d. CUD o CU).

Il tema va analizzato anche in relazione alla sequenza normativa che ha riguardato la condotta di omesso versamento delle ritenute.

Prendendo in prestito le parole di questa stessa Corte nella sentenza Sez. Un., n. 37425 del 2013, Favellato, su cui si tornerà nella parte dedicata alle posizioni della giurisprudenza, per descrivere i presupposti del problema, occorre premettere che la sostituzione è uno strumento impositivo con il quale l’Amministrazione finanziaria, in luogo della riscossione dell’imposta direttamente dal percettore del reddito, incassa il tributo da un altro soggetto, che è quello che eroga gli emolumenti, il quale assume la qualifica di “sostituto” d’imposta ed è tenuto al pagamento del tributo in luogo dell’altro (normale soggetto passivo, c.d. “sostituito”), previo l’obbligatorio prelievo di una percentuale (c.d. “ritenuta alla fonte”), da versare all’Erario (in genere mensilmente), della somma oggetto di erogazione (costituente reddito). L’istituto ha la sua ragion d’essere nell’esigenza pratica di colpire la ricchezza da tassare nel momento della produzione, prima ancora che giunga nella disponibilità del destinatario. Il campo di applicazione della riscossione mediante sostituzione è definito dalla legislazione tributaria (v. Titolo III del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600). In via schematica ed esemplificativa può affermarsi che sono tenuti ad effettuare la ritenuta alla fonte, al momento dell’erogazione, gli enti pubblici, gli istituti di credito, i soggetti esercenti attività di impresa, ovvero artistica e professionale, che corrispondono redditi di lavoro dipendente o assimilati, redditi di lavoro autonomo, redditi di capitale, provvigioni inerenti a rapporti di commissione, agenzia, mediazione, rappresentanza di commercio e procacciamento d’affari o redditi diversi. L’operatività del meccanismo di sostituzione d’imposta comporta l’adempimento di alcuni obblighi strumentali a carico del sostituto, il quale deve: 1) rilasciare al sostituito (entro una determinata scadenza, nell’anno successivo, fissata per legge) una “certificazione unica” (CU) attestante l’ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate in modo da permettere al soggetto passivo di documentare e di dimostrare il prelievo subito; 2) presentare annualmente (anche in questo caso, entro una data dell’anno successivo) una dichiarazione unica di sostituto d’imposta (mod. 770) dalla quale risultino tutte le somme pagate e le ritenute operate nell’anno precedente. A loro volta i contribuenti sono obbligati a conservare le certificazioni così rilasciate e ad esibirle a richiesta degli uffici competenti per i dovuti controlli (si veda l’art. 3, comma 3, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600); 3) il sostituto deve, poi, anche in questo caso entro una scedenza determinata per legge, provvedere ovviamente al versamento al fisco degli importi delle ritenute alla fonte operate.

Quanto agli aspetti penalistici, la fattispecie dell’”omesso versamento di ritenute” ha avuto una evoluzione specifica:

a) inizialmente, l’omesso versamento di ritenute da parte del sostituto era previsto dall’art. 2 d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, che nel suo testo originario, prevedeva come reato condotte legate alla dichiarazione ed all’omesso versamento.

In particolare, la norma così recitava:

«1. È punito con l’arresto fino a tre anni o con la ammenda fino a lire sei milioni: 1) chiunque, essendovi obbligato, omette di presentare la dichiarazione annuale di sostituto di imposta se l’ammontare delle somme pagate e non dichiarate è superiore a lire venticinque milioni; 2) chiunque nella dichiarazione annuale presentata in qualità di sostituto di imposta indica le ritenute operate in misura inferiore a quella dovuta, se l’ammontare delle ritenute non operate sulle somme pagate è superiore globalmente a dieci milioni di lire e, con riferimento al singolo percipiente, al cinque per cento delle ritenute operate. Nei casi in cui nella dichiarazione non dovevano essere indicati i percipienti, la pena si applica se l’ammontare delle ritenute non operate è superiore all’uno per mille dello ammontare delle ritenute dichiarate; 3) chiunque nella dichiarazione annuale presentata in qualità di sostituto di imposta indica gli ammontari di cui all’ art. 7 del decreto del presidente della repubblica 29 settembre 1973, n. 600 , in misura inferiore di oltre un milione di lire a quella risultante dalle annotazioni nelle scritture contabili».

«2. Chiunque non versa all’erario le ritenute effettivamente operate, a titolo di acconto o di imposta, sulle somme pagate è punito con la reclusione da due mesi a tre anni e con la multa da un quarto alla metà della somma non versata».

b) Lo stesso art. venne sostituito dall’art. 3 d.l. 16 marzo 1991, n. 83, convertito dalla 15 maggio 1991, n. 154, che, stabilendo

«1. Chiunque, essendovi obbligato, omette di presentare la dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, se l’ammontare delle somme pagate e non dichiarate è superiore a lire cinquanta milioni per periodo d’imposta, è punito con l’arresto fino a due anni o con l’ammenda fino a lire cinque milioni. Ai fini del presente comma non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine prescritto o presentata ad un ufficio incompetente o non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto».

«2. é punito con l’arresto fino a tre anni o con l’ammenda fino a lire sei milioni chiunque, in qualità di sostituto d’imposta, al di fuori del caso di cui al comma 3, non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale ritenute alle quali è obbligato per legge relativamente a somme pagate, per un ammontare complessivo per ciascun periodo d’imposta superiore a lire cinquanta milioni. Non si tiene conto delle ritenute non versate che, in relazione al singolo percipiente, risultano inferiori al 5 per cento delle ritenute ad esso relative».

«3. Chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare complessivo superiore a lire venticinque milioni per ciascun periodo d’imposta, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire tre milioni a lire cinque milioni; se il predetto ammontare complessivo è superiore a dieci milioni di lire ma non a venticinque milioni di lire per ciascun periodo d’imposta si applica la pena dell’arresto fino a tre anni o dell’ammenda fino a lire sei milioni».

«4. Se coesistono i reati di mancata presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta e di mancato versamento delle ritenute di cui, rispettivamente, ai commi 1 e 2, si applicano le sole pene previste al comma 2», in luogo degli omessi versamenti mensili, sanzionò penalmente il mancato versamento delle ritenute entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale, condizionando e graduando la sanzione al raggiungimento di certe soglie di omissione e alla sussistenza o meno della certificazione delle ritenute stesse.

c) Nella vigenza di tali fattispecie penali, con il comma 1 dell’art. 13 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, si introdusse una sanzione amministrativa per l’omissione dei versamenti dovuti «alle prescritte scadenze». («1. Chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui al primo periodo, oltre a quanto previsto dal comma 1 dell’art. 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, è ulteriormente ridotta ad un importo pari ad un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo. Identica sanzione si applica nei casi di liquidazione della maggior imposta ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e ai sensi dell’art. 54-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633»).

Lo spirito della normativa degli anni ‘80 e ‘90, a partire dalla legge del 1982 – non a caso definita nel linguaggio giornalistico “manette agli evasori” – era, quindi, nel senso di una estesa penalizzazione, anche per le condotte di mera omissione dei versamenti fiscali.

Come messo in luce dagli studi specifici sul punto, tale orientamento mutò con la preparazione di una nuova normativa sui reati tributari.

Nella relazione governativa a quello che sarebbe diventato il d.lgs. 74 del 2000, nel paragrafo 3.2.2., si legge che il mero inadempimento dell’obbligazione al pagamento dell’imposta non assume rilevanza penale; ciò ha comportato la eliminazione del delitto di omesso versamento delle ritenute, “figura criminosa che più di altre è stata al centro di vivaci polemiche, anche a fronte dell’abnorme numero di procedimenti penali cui essa, specie nella versione di origine (anteriore alla modifica operata dall’art. 3 del d.l. 83 del 1991) aveva dato esca”; infatti,

d) Il d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, abrogò espressamente (con l’art. 25, lett. d) il titolo I del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, ivi compresi tutti i reati a carico del sostituto di imposta, e, nell’ambito della nuova disciplina in materia di reati tributari che introduceva, non previde fattispecie di reato in continuità normativa rispetto a quella di cui al citato art. 2 della legge n. 516. L’omesso versamento delle ritenute, di conseguenza, non era più previsto come reato ed assoggettato ad alcuna sanzione penale, come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza dell’epoca, (si vedano, in particolare, Sez. 3, n. 3714 del 21/11/2000, Piacente, Rv. 218183; Sez. 3, n. 39178 del 05/10/2001, Romagnoli, Rv. 220360), mentre restò in vigore la citata previsione del comma 1 dell’art. 13 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471.

e) Sennonché, pochissimi anni dopo, in un successivo ripensamento delle proprie scelte politico-criminali, il legislatore, con l’art. 1, comma 414, legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Legge finanziaria per l’anno 2005), inserì nell’impianto normativo del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (contenente la disciplina dei reati in materia di imposte dirette ed IVA), l’art. 10-bis dal titolo «Omesso versamento di ritenute certificate», che così recitava:

«1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta».

Con tale norma venne, quindi, ripristinata una sanzione penale in relazione al mancato versamento delle ritenute entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale, purché fosse raggiunta una certa soglia di omissione e si trattasse di ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti.

Le ragioni di questo cambiamento sono individuate, secondo quanto emerge dalla Relazione accompagnatoria al disegno di legge della legge Finanziaria 2005, legge 30 dicembre 2004, n. 311, nella constatata frequenza del fenomeno e nel danno che da tali comportamenti deriva all’erario. Allo stesso tempo, la nuova normativa voleva evitare l’eccesso di criminalizzazione degli ultimi decenni del secolo scorso e quindi, a fronte della reintroduzione del reato di omesso versamento di ritenute per tutelare l’interesse dell’erario alla completa e regolare percezione dei tributi, ha previsto la rilevanza penale della condotta solo in caso di superamento di una determinata soglia.

Infine, una nuova modifica della norma intervenne nel 2015: il d.lvo 24 settembre 2015, n. 158, all’art. 7, ha, infatti, modificato l’art. 10-bis nei seguenti termini:

a) nella rubrica, dopo la parola: “ritenute” sono state inserite le parole: “dovute o”;

b) nel comma 1, dopo la parola: “ritenute” sono inserite le parole: “dovute sulla base della stessa dichiarazione o”, e la parola: “cinquantamila” È stata sostituita da: “centocinquantamila”.

Dal 22.10.2015 (data di entrata in vigore del d.lgs. 158 del 2015), quindi, il nuovo testo dell’art. 10-bis è divenuto il seguente (con le modifiche evidenziate in grassetto sottolineato):

Omesso versamento di ritenute dovute o certificate

È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta.

A parte l’innalzamento della soglia della rilevanza penale, la differenza tra la norma prima del 2015 e quella successiva a tale data è chiara: nella versione ante-2015 la norma faceva riferimento alle “ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti” (quindi il CUD o CU); dopo il 2015 la norma contiene anche, ed alternativamente, un riferimento alle “ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione” (cioè quella annuale del sostituto, e, quindi, il mod. 770).

Così ripercorse le vicende normative del reato, allora, si comprendono meglio i termini della questione già descritti in termini più generici: la questione consiste nello stabilire se, ai fini della sussistenza del reato in questione, come formulato prima dell’entrata in vigore della novella del 2015, la prova potesse consistere anche solo nella dichiarazione mod. 770.

In giurisprudenza, anche prima della modifica del 2015, si era creata una situazione di incertezza in merito, in particolare, alla prova dell’elemento costitutivo del reato di cui all’art. 10-bis rappresentato, nella versione ante 2015, dall’omesso versamento delle ritenute risultanti dalla certificazione. La novella intervenuta nei termini sopra indicati ha fornito materiale per ulteriori discussioni.

3. Gli orientamenti.

In sintesi, l’ordinanza di rimessione dà atto che sul tema della rilevanza probatoria del mod. 770 per i fatti commessi ante 2015, quando – come visto sopra – la norma faceva riferimento solo alle ritenute risultanti da certificazioni, esistono due orientamenti.

Secondo un primo orientamento, formatosi anche anteriormente alla modifica del 2015 – quando, quindi, la norma prevedeva come condotta l’omesso versamento di ritenute risultanti alla certificazione –, e di cui si identifica l’origine in Sez. 3, n. 1443 del 15/11/2012, dep. 2013, Salmistrano, Rv. 254152, il reato in questione è omissivo istantaneo, sanzionando la semplice omissione del versamento delle ritenute certificate, ma senza che la prova debba necessariamente consistere nel documento certificativo; la prova del fatto che le ritenute omesse siano quelle risultanti dalla certificazione può essere data con ogni mezzo, ed, in particolare, mediante prove documentali, testimoniali o indiziarie e, specificamente, mediante la dichiarazione fiscale acquisita agli atti (il cosiddetto mod. 770), ovvero la testimonianza del funzionario erariale sul contenuto della dichiarazione stessa.

L’analisi della norma, poi, è già stata affrontata dalle Sezioni Unite, sebbene in un contesto diverso da quello di cui ci si occupa in questa sede; Sez. Un. n. 37425 del 2013, Favellato, infatti, era relativa ad un ulteriore profilo incerto dell’art. 10-bis, e cioè l’applicabilità dello stesso – introdotto nel 2004 con decorrenza 1.1.2005 – alle condotte commesse nel 2004; tuttavia, nell’esaminare quella questione, le Sezioni Unite si soffermano sulla struttura del reato vigente in quel momento, e lo considerano come omissivo, laddove il rilascio della certificazione ne è un mero presupposto fattuale e non entra a far parte della fattispecie criminosa; l’omissione costitutiva dell’illecito consiste nel mancato versamento delle ritenute risultanti “dalla certificazione ovvero dalla dichiarazione”, lasciando quasi volere intendere, in tal modo, una sorta di equiparazione, a questi fini, dei due documenti.

Così, la successiva sentenza Sez. 3, n. 20778 del 6/3/2014, Leucci, Rv. 259182, conferma la natura omissiva del reato, in particolare di reato omissivo proprio, di mera condotta, e che il rilascio della certificazione non fa parte della fattispecie, essendo un mero presupposto della condotta omissiva; ciò comporta, come conseguenza, che la prova può essere data con ogni mezzo incluso il mod 770.

L’ordinanza dà poi atto del secondo orientamento, che viene fatto risalire a Sez. 3, n. 40526 del 8/4/2014, Gagliardi, Rv. 260090, la quale si discosta dal primo. Esso ritiene che la condotta penalmente rilevante non è rappresentata dall’omesso versamento delle ritenute nel termine previsto dalla normativa tributaria, ma dal mancato versamento delle ritenute certificate nel maggiore termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al periodo di imposta dell’anno precedente. In base a ciò, si è affermato essere necessaria la prova che il sostituto abbia rilasciato ai sostituiti la certificazione (o le certificazioni) da cui risultino le ritenute il cui versamento è stato poi omesso, essendo dunque il reato ravvisabile solo in seguito al materiale rilascio della certificazione, mentre alcun illecito penale può sussistere se il soggetto che ha effettuato le ritenute non le abbia poi versate al fisco e non abbia rilasciato ai sostituiti la relativa certificazione, ovvero l’abbia rilasciata in ritardo. Dunque, ritiene questo orientamento, la presentazione del modello 770 può costituire al più un mero indizio dell’avvenuto versamento delle retribuzioni e della effettuazione delle ritenute, in quanto con tale modello il datore di lavoro dichiara di averle appunto effettuate, ma non può costituire elemento di prova dell’avvenuto rilascio delle certificazioni ai sostituiti prima del termine previsto per presentare la dichiarazione, “dal momento che tale modello non contiene anche la dichiarazione di avere tempestivamente emesso le certificazioni”.

In questa visione, il reato è a condotta mista; ha una componente omissiva, ma anche una precedente componente commissiva consistente in due condotte: l’effettuazione delle ritenute al momento del pagamento della retribuzione e il rilascio delle certificazioni. In questa visione, essendo il rilascio delle certificazioni elemento costitutivo del reato, occorre la prova specifica dello stesso, che non può consistere nel mod. 770, trattandosi quest’ultimo di indizio, ma non sufficiente per provare il reato, attesa la differenza tra il mod. 770 e la certificazione, sia nella natura che nella funzione. “Invero, mentre la certificazione delle ritenute (che va consegnata entro il 28 febbraio di ogni anno successivo a quello in cui sono state operate le ritenute) è disciplinata dall’art. 4, comma 6 ter, d.P.R. n. 322 del 1998, ed ha la funzione di attestare l’importo delle somme corrisposte dal sostituto di imposta e delle ritenute da lui operate, il cd. mod. 770 è regolato dall’art. 4, comma 1 e ss., del medesimo d.P.R., ed assolve alla funzione di informare l’Agenzia delle Entrate delle somme corrisposte ai sostituiti, delle ritenute operate sulle stesse e del loro versamento all’erario, dovendosi inoltrare nel rispetto di termini di volta in volta fissati dal legislatore (a seconda che si tratti di mod. 770 normale o semplificato)”. Inoltre, la differenza tra i due documenti, secondo tale orientamento, non è solo di ordine formale, ma anche sostanziale: “mentre le certificazioni devono essere emesse soltanto quando il datore ha provveduto a versare le ritenute, la dichiarazione mod. 770 va, invece, obbligatoriamente presentata entro il termine stabilito per legge (salvo, in caso contrario, l’applicazione di sanzioni amministrative). Il corollario di tale affermazione consiste nell’impossibilità, in ragione del differente contenuto e della diversa funzione dei due atti, di desumere dai dati riportati nel modello 770, il concreto rilascio, ad uno o più sostituiti di imposta, del relativo certificato”.

Va anche detto che la questione era anche stata rimessa alle Sezioni Unite, ma poiché nel frattempo il reato si era estinto, le SSUU non sono entrate nel merito. (Sez. U, n. 19755 del 24/9/2015, dep. 2016, Mondello, n.m.).

In questo scenario si è inserita la ricordata novella del 2015 che ha modificato l’art. 10bis nel senso che il reato corrispondente è oggi configurabile laddove non si versino “entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti”; in seguito a ciò la Corte ha affermato ormai in più occasioni, che se il legislatore ha inteso – come si deduce dal fatto che esso ha inserito la dichiarazione annuale di sostituto accanto alla certificazione rilasciata ai sostituiti –, estendere la tipicità del reato anche alle ipotesi di omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione mod. 770, deve ritenersi che non soltanto la precedente formulazione racchiudesse nel proprio perimetro di tipicità soltanto l’omesso versamento di ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, ma richiedesse anche, sotto il profilo probatorio, la necessità di una prova del rilascio della certificazione ai sostituiti; il criterio logico dell’argumentum a contrario, desunto dalla novella che ha esteso la rilevanza normativa all’omesso versamento di ritenute dovute sulla base anche della dichiarazione, infatti, impone di escludere dalla portata applicativa della norma quanto non vi era espressamente compreso in precedenza. In questo senso, l’intervento normativo non avrebbe fatto altro che confermare il secondo degli orientamenti sopra ricordati, formatisi anteriormente alla novella del 2015.

La sentenza Sez. 3, n. 10104 del 7/1/2016, n. 10104, Grazzini, Rv. 266301, è espressione di questo orientamento e si pone il problema del significato della nuova normativa che ha espressamente ricompreso anche le ritenute dovute in base alla dichiarazione. Afferma che la nuova norma non è di interpretazione autentica – secondo una possibile lettura della stessa – ma è utile per interpretare i casi ricadenti nella precedente, nel senso che con la nuova norma anche le dichiarazioni risultanti dalla dichiarazione sono entrate nella fattispecie; ciò significa che – dovendosi ritenere che la stessa abbia introdotto una nuova incriminazione non applicabile retroattivamente – non solo per i fatti ante 2015 rilevavano solo le ritenute risultanti dalle certificazioni (elemento pacifico), ma anche che la prova doveva riguardare specificamente le certificazioni, con esclusione, quindi, del rilievo del mod. 770.

La successiva sentenza Sez. 3, n. 10509 del 16/12/2016, dep. 2017, Pisu, Rv. 269141, in cui si ritrovano molte delle considerazioni sopra esposte, – e dove si afferma che prima delle recenti modifiche, l’elemento costitutivo del reato ex art. 10-bis del D.lgs. 74/2000 era rappresentato dall’avvenuto rilascio della certificazione delle ritenute operate, mentre, dopo le modifiche al sistema sanzionatorio penale tributario (ex D.lgs. 158 del 24 settembre 2015, in vigore dal 22 ottobre 2015), l’art. 10-bis prevede espressamente che il reato è configurabile se non sono versate le ritenute dovute in base alla dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti –, si pone su questa ultima linea delineata dalla sentenza Grazzini.

Premesso tutto ciò, il collegio si interroga sulla natura dell’intervento legislativo del 2015, chiedendosi se, invece di avere avuto natura innovativa – da cui deriva come conseguenza la considerazione sulla insufficienza probatoria del mod. 770 per i fatti anteriori – non abbia avuto, invece, natura interpretativa. In base a quest’ultima opzione, la novella del 2015 non ha affatto esteso la fattispecie, ma ha semplicemente riconosciuto ciò che già esisteva, il fatto che anche prima di essa l’omesso versamento di ritenute dovute in base alla dichiarazione mod. 770 appartenesse al perimetro della disposizione penale, con conseguenza della piena idoneità del mod. 770 a rappresentare prova del reato. È sulla base dal dato letterale di alcune espressioni dei lavori preparatori del d lvo 158 del 2015 che il collegio prospetta la possibilità del mero valore interpretativo, in questa parte, della novella, cosicché sarebbe corretto l’orientamento che riteneva utilizzabile ai fini di prova il mod. 770 anche prima del 2015.

Il collegio, inoltre, solleva dei dubbi sulla fondatezza dell’orientamento che attribuisce valore innovativo alla novella perché conferire portata incriminatrice a questa specifica parte della normativa del 2015 appare del tutto in contrasto con lo spirito complessivo di tale intervento legislativo; si tratterebbe, infatti, dell’unico caso, in tutta la riforma, in cui il legislatore anziché attenuare i profili incriminatori li ha ampliati.

Inoltre il collegio si chiede se l’accoglimento del secondo orientamento – a questo punto, va detto, a maggior ragione se confermato dalle SSUU – non renda implicitamente illegittime tutte le condanne avvenute ante 2015 sulla base della valorizzazione probatoria del mod 770 perché esse si sarebbero tutte basate su una interpretazione estensiva ed illegittima dell’art 10-bis ante 2015, come se la norma già prima del 2015 comprendesse anche le ritenute risultanti dalla dichiarazione ed il reato potesse essere provato sulla sola base della dichiarazione mod 770.

4. La giurisprudenza più recente.

Va detto che, in realtà, dall’analisi della giurisprudenza più recente, anche di poco precedente o successiva all’ordinanza di rimessione, il secondo orientamento, che – per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del d. lvo 158 del 2015 – non ritiene sufficiente la prova del reato sulla sola base del mod 770, sembra essere quello diventato nel frattempo prevalente.

Lo si trova, infatti, accolto - nella sentenza Sez. 3, n. 10475 del 9/10/2014, dep. 2015, Calderone, Rv. 263007, secondo cui: “nel reato di omesso versamento delle ritenute certificate di cui all’art. 10-bis del d.lgs n. 74 del 2000, spetta all’accusa fornire la prova dell’elemento costitutivo rappresentato dal rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate e tale prova non può essere costituita dal solo contenuto della dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro”, -nella sentenza Sez. 3, n. 37075 del 19/12/2014, dep. 2015, Ravelli, n.m. secondo cui, nella specie, la Corte d’Appello non ha risolto la specifica questione centrale posta dall’appellante sull’esistenza dell’elemento costitutivo del reato. Tale questione, come affrontata e risolta dai giudici di merito, porterebbe a stravolgere la portata semantica della norma incriminatrice estendendola fino a identificare la condotta da essa prevista con l’omesso versamento delle ritenute risultanti dalla dichiarazione annuale di sostituto di imposta «tout court», in evidente violazione del principio di tassatività della norma penale. Il modello 770 può certamente essere utilizzato come elemento di prova del reato, ma per evitare il rischio che comode scorciatoie probatorie estendano l’operatività della norma oltre i suoi confini legali, ove l’imputato alleghi espressamente di non aver mai rilasciato i certificati ai propri sostituiti occorre che il giudice fornisca risposte precise e concrete sulle ragioni per le quali non ha percorso la strada diretta dell’acquisizione dei certificati stessi privilegiando una prova pur sempre indiretta del reato, ma a rischio di derive analogico – sostanzialistiche.

- nella sentenza Sez. 3, n. 7884 del 4/2/2016, Bombelli, n.m., secondo cui il nuovo reato di omesso versamento di ritenute, che non richiede più la prova della certificazione, non può applicarsi agli illeciti commessi prima delle modifiche ad opera del d.lgs. n. 158/2015, e dove la Corte si sofferma specificamente anche sull’aspetto probatorio, e con una diffusa analisi sulla differenza tra i due documenti (dichiarazione e certificazione) illustra perchè, ai fini probatori, le stesse non possono essere equipollenti. Afferma, infatti, la Corte, richiamandosi espressamente alla sentenza Gagliardi che “da nessuna casella o dichiarazione contenuta nei modelli 770 emerge che il sostituto attesta (sia pure indirettamente o implicitamente) di avere rilasciato ai sostituiti le relative certificazioni”

Condivide, poi, l’affermazione secondo cui “i due atti (dichiarazione modello 770 e certificazione rilasciata ai sostituiti) presentano differenze sostanziali tali da non consentire di ritenere, automaticamente, che l’uno non possa risultare indipendente dall’altro. Si tratta, infatti, di documenti disciplinati da fonti distinte, rispondenti a finalità non coincidenti e che non devono essere consegnati o presentati contestualmente: la certificazione delle ritenute è regolata, per quanto interessa, dal D.P.R. n. 322 del 1998, art. 4, comma 6 ter, ed ha la funzione di attestare l’importo delle somme corrisposte dal sostituto di imposta e delle ritenute da lui operate (e deve esser consegnata entro il 28 febbraio di ogni anno); diversamente, la dichiarazione mod. 770 è disciplinata dal D.P.R. n. 322 del 1998, art. 4, comma 1 e segg., ed è destinata ad informare l’Agenzia delle Entrate delle somme corrisposte ai sostituiti, delle ritenute operate sulle stesse e del loro versamento all’erario (e deve essere inoltrata nella data fissata volta per volta dal legislatore).

Conclude, quindi, nel senso che “I due documenti sono formalmente e sostanzialmente diversi. E con l’ulteriore precisazione per cui, mentre le certificazioni debbono essere emesse soltanto quando il datore ha provveduto a versare le ritenute, la dichiarazione va invece obbligatoriamente presentata entro il termine stabilito per legge (salvo, in caso contrario, l’applicazione di sanzioni amministrative). Con la conseguenza – fissata dalla sentenza n. 40526/2014 di questa Sezione – che “è perciò impossibile, proprio a causa del differente contenuto e funzione dei due atti, desumere, dai dati riportati nel modello 770, il concreto rilascio, ad uno o più sostituiti di imposta, del relativo certificato”; ed ancora, che “la sola presentazione del modello 770 non è di per sè in grado di escludere il ragionevole dubbio che le certificazioni, invece, non siano mai state date ai dipendenti”.

Questo orientamento è poi confermato:

- nella sentenza sez. 3, n. 30139 del 15/6/2017, Fregolent, Rv 270464;

- nella sentenza sez. 3, n. 57104 del 12/4/2017, Polinari, n.m.;

- nella sentenza Sez. 3, n. 2393 del 22/1/2018, Vecchierelli, n.m., dove si è affermato il principio in base al quale, nei casi di omesso versamento di ritenute certificate oltre la soglia di rilevanza penale antecedenti al 22 ottobre 2015, al fine di affermare la responsabilità del reato, la pubblica accusa è tenuta a provare l’effettivo rilascio della certificazione ai sostituiti. Deve ritenersi insufficiente la prova fondata sulla sola dichiarazione Modello 770.;

- nella sentenza Sez. 3, n. 1439 del 12/7/2017, dep. 2018, Sesana, n.m.

Va, però, segnalata, per completezza, la sentenza sez. 3, n. 35786 del 15/2/2017, Furneri, Rv. 270728, che, riferendosi a condotte del 2013 e 2014, e quindi anteriori alla novella del 2015, afferma che ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 10-bis (e, nella specie, anche 10-ter), d.lgs. n. 74 del 2000 “è necessario e sufficiente il consapevole inadempimento dell’obbligazione tributaria, così come dichiarata dallo stesso contribuente nelle sue dichiarazioni annuali”; questa formulazione sembra quindi, letteralmente, porsi in contrasto con il secondo orientamento, che nelle sentenze più recenti – coeve ad essa – sta diventando quello prevalente. Tuttavia, ad onor del vero, va detto che questa appare, nell’economia della sentenza, più una affermazione incidentale che un ritorno al principio espresso al suddetto primo orientamento, perchè, nel caso specifico, i motivi di ricorso non erano mirati sul particolare problema della rilevanza del mod. 770.

Va, infine, ricordato l’orientamento che ritiene insufficiente, quale prova, il mod. 770 ai fini della affermazione di responsabilità, ma non ai fini cautelari, proprio perchè, considerando la dichiarazione un mero indizio del rilascio della certificazione, la ritiene inidonea a fondare una condanna, ma sufficiente ad integrare il fumus commissi delicti. (Sez. 3, n. 48591 del 26/4/2016, Pellicani, Rv. 268492; Sez. 3, n. 46390 del 9/10/2017, Gambardella, n.m.).

5. La natura della dichiarazione fiscale.

Tale giurisprudenza, come esplicitato, per esempio, da ultimo nella sopra citata sentenza n. 2393 del 2018, si basa anche sull’analisi della natura giuridica della dichiarazione mod. 770 e della sua rilevanza in sede penale. Ne esclude, infatti, la sufficienza a fondare una pronuncia di condanna per il fatto che non riconosce ad essa la natura di confessione stragiudiziale.

Sulla natura della dichiarazione, non solo del mod. 770 ma anche della dichiarazione dei redditi in generale, vi è oggi sufficiente chiarezza da parte anche dalla giurisprudenza tributaria. La dichiarazione è prevalentemente considerata come una mera dichiarazione di scienza (con tutte le conseguenze, estranee a questa analisi, della sua emendabilità, come emerge da Sez. U. civ., n. 13378 del 30/6/2016, Rv. 640206), e non come una dichiarazione di volontà, tranne in alcuni casi o parti specifiche di essa, in particolare laddove il contribuente con la dichiarazione esercita delle opzioni, e quindi manifesta la propria volontà in favore di una determinata scelta.

In sede processual penalistica, è stato messo in luce in dottrina che si tratterebbe di una dichiarazione resa certamente in ambito extra processuale, in un momento che si colloca temporalmente prima ancora che sia sorto, anche lontanamente, qualunque atto che possa far pensare non solo all’esistenza di un procedimento penale, ma anche meramente amministrativo, il quale si configura come semplice eventualità.

In ogni caso, al di là dell’elemento dell’”animus confitendi” – che, se interpretato nel senso che esso deve consistere nella sola consapevolezza di stare compiendo una dichiarazione, sussisterebbe anche in una mera dichiarazione di scienza –, la rilevanza del mod. 770 dovrebbe, poi, essere esaminata anche alla luce del contenuto della stessa. Si è visto come la giurisprudenza ritiene, a tal fine, che il contenuto della dichiarazione mod. 770 sia, in sostanza, la affermazione al fisco di avere effettuato, al momento della corresponsione degli stipendi, le ritenute relative a questi ultimi, dalla quale deriva l’obbligo del versamento delle stesse.

Il contenuto di tale dichiarazione va allora rapportato alla fattispecie in questione: in tal senso, nell’interpretazione che ravvisa il reato nell’omissione delle ritenute risultanti dalla certificazione che il sostituto rilascia al sostituito, la dichiarazione mod. 770 nulla direbbe in merito al rilascio delle certificazioni.

La già citata sentenza Grazzini compie, tuttavia, sulla rilevanza penale del mod. 770 qualche interessante considerazione, laddove, al fine di valutarne la rilevanza ex art. 192 cod. proc. pen., rileva l’ufficialità e vincolatività di quanto dichiarato nel mod. 770 ed il fatto che una eventuale dichiarazione infedele nel mod. 770 contenente l’asserzione di avere operato ritenute in realtà mai effettuate potrebbe essere qualificata come dichiarazione non veritiera assoggettabile – ove ne ricorrano le condizioni – alle sanzioni penali previste dall’art. 76 del d.P.R. 445/2000. Tutto ciò, in aggiunta alla “considerazione empirica che non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e, perciò stesso, certificato”, potrebbe fare propendere per un rilevante valore indiziario del mod. 770 anche sul rilascio delle certificazioni.

Al riguardo, la sentenza si addentra in un paragone con la dichiarazione rilasciata dal datore di lavoro all’INPS nei cd. Mod. DM10 comprovanti il pagamento delle retribuzioni ed il versamento delle ritenute previdenziali, in quanto, anche in quel caso, tale modello, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, costituisce prova dell’avvenuto pagamento delle retribuzioni (Sez. 3, n. 42715 del 28/6/2016, Franzoni, Rv. 267781). A conferma della valenza probatoria di tale dichiarazione e del suo carattere vincolante sotto il profilo penale, rileva la sentenza, va ricordato che la falsa dichiarazione da parte del datore di lavoro, contenuta nel mod. DM10, concernente la corresponsione di prestazioni previdenziali in realtà mai effettuate e tuttavia detratte contabilmente a conguaglio dei contributi dovuti all’INPS, integra il reato di cui all’art. 37 L. n. 689 del 1981 (Sez. 3, n. 15077 del 02/03/2006, Busto, n.m.), ovvero il reato di cui all’art. 640 cpv. cod. pen. (Sez. 3, n. 45225 del 03/11/2014, proc. Petrocco, n.m.), ovvero, secondo diversi orientamenti, il reato di appropriazione indebita aggravata (Sez. 2, n. 41357 del 14/07/2015, Aschettino, Rv. 264869), o, ancora, il reato di indebita percezione di erogazioni di cui all’art. 316 ter cod. pen. (Sez. 2, n. 48663 del 17/10/2014, Talone, Rv. 261140).

A maggior ragione, poi, il rilievo del mod. 770 avrebbe, ovviamente, diverso significato nell’interpretazione secondo cui, anche prima del 2015, la condotta consisteva nell’omissione delle ritenute dovute in base alla dichiarazione.

Per valutare meglio l’ambito della fattispecie prima del 2015, allora, una analisi della nuova normativa può essere un ulteriore elemento per avere maggiore luce sul punto; non a caso, proprio la sentenza Grazzini, che sulla base delle considerazioni sopra esposte sembrerebbe gettare le premesse per una conclusione nel senso della sufficienza probatoria del mod. 770, giunge, alla fine, alla conclusione opposta in base all’analisi dell’intervento normativo del 2015.

6. L’intervento del 2015 e la sua ipotizzata natura interpretativa.

Come si è visto, l’ordinanza di rimessione, pur prendendo atto dello sviluppo del secondo tra gli orientamenti sopra ricordati – che, partendo dall’elemento oggettivo del reato come integrante anche il rilascio della certificazione, deduce l’insufficienza probatoria del solo mod. 770 per i fatti anteriori al 22.10.2015, e vede nell’intervento del 2015 una conferma di tale tesi, qualificandolo come estensivo della fattispecie, da cui la impossibilità di applicarlo retroattivamente (operazione che consentirebbe l’utilizzo ai fini di prova anche del solo mod. 770) –, solleva qualche perplessità su tale valutazione, che fa preferire la natura innovativa della novella del 2015 rispetto a quella interpretativa.

Come evidenziato sopra, pone a fondamento di tali perplessità alcuni elementi:

a) il contesto della novella del 2015: la stessa ha avuto chiaramente una finalità di depenalizzazione; tutte le norme della stessa, infatti, restringono l’area di rilievo penale, innalzando, per esempio, le soglie dei reati. L’operazione compiuta dal legislatore con l’introduzione della modifica dell’art. 10-bis nel senso di avere ampliato l’area penalmente rilevante allargando la fattispecie, costituirebbe, quindi, l’unico caso di tutta la novella in cui l’ambito penalistico sarebbe stato esteso, in contrasto con lo spirito complessivo della riforma;

b) i lavori parlamentari del d.lgs 158 del 2015 confermerebbero le perplessità sul fatto che col nuovo intervento si sia voluto veramente introdurre una nuova fattispecie incriminatrice nell’art. 10-bis, atteso che la terminologia usata è esplicita nell’affermare che la finalità dello stesso è stata puramente “chiarificatrice” della norma già esistente.

Afferma, infatti, la relazione illustrativa del d. lvo 158 del 2015 in merito all’art. 7 che ha modificato l’art. 10-bis del d.lgs. 74 del 2000:

È stata inoltre chiarita, con l’art. 7, la portata dell’omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti di cui all’art. 10-bis (mediante l’aggiunta del riferimento alle ritenute dovute sulla base della dichiarazione).

Ovviamente, se si riconoscesse natura interpretativa all’intervento legislativo del 2015, ciò porterebbe a rivedere completamente la questione della prova dei fatti commessi prima dell’entrata in vigore di questo. Se si afferma, infatti, che la menzione esplicita dell’omisisone delle ritenute risultanti dalla dichiarazione mod. 770 – contenuta nella novella – non ha fatto altro che chiarire il perimetro della norma già esistente, si conclude nel senso che anche prima dell’intervento normativo tale perimetro includesse già l’omesso versamento di ritenute risultanti dalla dichiarazione e che, quindi, anche per i fatti pregressi la prova potesse essere rappresentata dal mod. 770.

La stessa sentenza Grazzini sopra citata affronta il problema delle leggi interpretative, in particolare in diritto penale, affermando che:

“Laddove la modifica normativa venisse ritenuta una norma di interpretazione autentica della precedente fattispecie, oggetto di interpolazione, i riflessi sul piano interpretativo, e, soprattutto, sulla dimensione probatoria del reato di omesso versamento di ritenute sarebbe immediato, e coinvolgerebbe anche i fatti commessi precedentemente all’entrata in vigore del d.lgs. 158 del 2015 (e dunque anche il presente ricorso). In tal senso, dovrebbe ritenersi che il legislatore, consapevole del contrasto interpretativo sulla portata della norma penale, abbia inteso attribuire valenza probatoria anche alla dichiarazione di cui al mod. 770, così assecondando il primo orientamento giurisprudenziale richiamato. Va tuttavia osservato che, pur avendo la giurisprudenza costituzionale più volte affermato che il legislatore può adottare norme che precisino il significato di altre disposizioni legislative, non solo quando sussista una situazione di incertezza nell’applicazione del diritto o vi siano contrasti giurisprudenziali, ma anche in presenza di un indirizzo omogeneo della Corte di cassazione, quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore (ex multis, Corte Cost. n. 525 del 2000; n. 311 del 1995; n. 397 del 1994, secondo cui “Per costante insegnamento della Corte costituzionale, il ricorso da parte del legislatore a leggi di interpretazione autentica non può essere utilizzato per mascherare norme effettivamente innovative dotate di efficacia retroattiva, in quanto così facendo la legge interpretativa tradirebbe la funzione che le è propria: quella di chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale, sia al fine di eliminare eventuali incertezze interpretative, sia per rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea politica del diritto voluta dal legislatore. Tale carattere interpretativo deve peraltro desumersi non già dalla qualificazione che tali leggi danno di se stesse, quanto invece dalla struttura della loro fattispecie normativa, in relazione cioè ad “un rapporto fra norme

– e non fra disposizioni – tale che il sopravvenire della norma interpretante non fa venir meno la norma interpretata, ma l’una e l’altra si saldano fra loro dando luogo a un precetto normativo unitario”; n. 480 del 1992), nondimeno ha individuato una serie di limiti alla legittimità delle norme di c.d. interpretazione autentica, che attengono alla salvaguardia di norme costituzionali; ed uno dei limiti, connessi al principio di irretroattività della norma incriminatrice, deve ritenersi concernere proprio la materia penale, per la peculiare tutela del singolo rispetto all’efficacia retroattiva della legge. Pertanto, oltre alle perplessità derivanti da una modifica normativa che avesse esclusivo valore probatorio, in sostanziale violazione del principio del libero convincimento del giudice e del principio dell’assenza di prove legali nel processo penale, osta ad una tale interpretazione il limite posto alle norme di interpretazione autentica in materia penale, in ragione essenzialmente del divieto di retroattività della norma incriminatrice. L’interpolazione normativa, dunque, deve ritenersi innovativa della fattispecie legale, con un ampliamento della tipicità che, necessariamente, non può avere efficacia retroattiva.

La portata innovativa della novella, dunque, non può assumere incidenza ‘normativa’ sulla definizione del ricorso in esame, non potendo avere efficacia retroattiva, in ragione della già evidenziata estensione dell’ambito dell’incriminazione. Può, tuttavia, assumere, a questo punto, un’incidenza ‘interpretativa’, nel senso di ritenere che, se il legislatore ha inteso estendere la tipicità del reato anche alle ipotesi di omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione (c.d. Mod. 770), non soltanto la precedente formulazione racchiudesse nel proprio perimetro di tipicità soltanto l’omesso versamento di ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti – rilievo sostanzialmente pacifico nella giurisprudenza di legittimità –, ma richiedesse, sotto il profilo probatorio, la necessità di una prova del rilascio della certificazione ai sostituiti; il criterio logico dell’argumentum a contrario, desunto dalla novella normativa che ha esteso la rilevanza normativa all’omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione, infatti, impone di escludere dalla portata applicativa della norma quanto non vi era espressamente compreso in precedenza.”

La dottrina non ravvisa nell’intervento del 2015 natura interpretativa perchè “non specifica, preferendolo, uno dei significati semantici prima attribuibile alla disposizione”, riportandosi, in ciò, a quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 525 del 2000, da cui emerge che l’essenza di una norma interpretativa è imporre per legge una scelta nell’interpretazione di una norma che “rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore”.

Va anche detto, peraltro, che la stessa Corte costituzionale, richiamando i propri precedenti delle sentenze n. 311 del 1995 e n. 397 del 1994, ricorda nella suddetta sentenza del 2000 che uno dei limiti all’adozione di norme interpretative è da ravvisarsi proprio nella materia penale.

La Corte costituzionale analizza per la prima volta la natura della legge interpretativa nella sentenza numero 233 del 1988, ma soltanto alcuni anni dopo con la sentenza numero 455 del 1992 la Corte indica in maniera puntuale le caratteristiche di questo tipo di legge scrivendo che “va riconosciuto il carattere interpretativo ad una legge, la quale, fermo restando il testo della norma interpretata, ne chiarisca il significato normativo e privilegi una delle tante interpretazioni possibili, di guisa che il contenuto precettivo sia espresso dalla coesistenza di due norme, quella precedente e quella successiva, che ne esplica il significato e che rimangono entrambe in vigore. Le due norme si sovrappongono e una, la successiva, non elimina l’altra, la precedente. Il legislatore, con un’operazione ermeneutica, introduce nell’ordinamento un quid novi che rende obbligatorio per tutti il significato da lui dato alla norma precedente che resta in vigore”. La legge interpretativa è quindi caratterizzata da vari elementi, quali la immodificabilità del testo interpretato, la scelta di uno dei possibili significati, la coesistenza delle due norme e la loro sovrapposizione senza alcun effetto abrogativo, un carattere innovativo intrinseco, in quanto si eliminano tutti gli altri possibili significati diversi da quello scelto dal legislatore ed infine la obbligatorietà erga omnes e la retroattività della norma interpretativa stessa.

È stato, poi, rilevato che questa posizione della Corte, però, ha subito una modifica nel senso di una progressiva dilatazione dell’ambito di utilizzabilità dell’interpretazione autentica. Infatti con l’ordinanza numero 480 del 1992 la stessa afferma che presupposto dell’interpretazione autentica non è solo una disposizione contenente un contrasto interpretativo effettivo, ma anche quella che ha un contrasto solo ipotetico. Infatti, scrive la Corte, “è solo necessario che la scelta ermeneutica imposta dalla legge interpretativa rientri fra una della possibili varianti di senso del testo interpretato, cioè stabilisca un significato che ragionevolmente poteva essere ascritto alla legge anteriore” prescindendo da un effettivo contrasto.

La Corte, poi, con alcune importanti decisioni tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, indica anche quale sia la funzione della legge interpretativa.

Nella sentenza numero 123 del 1987 la Corte indica quale compito del legislatore interprete quello di dare il significato vero e autentico ad una disposizione preesistente e con le sentenze numero 155 del 1990 e 397 del 1994 specifica che “la funzione dell’interpretazione autentica è quella di chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili con il tenore letterale, sia al fine di eliminare eventuali incertezze interpretative, sia per rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea politica del diritto voluta dal legislatore”.

Da quest’analisi si coglie chiaramente quello che parte della dottrina costituzionalistica considera come la polifunzionalità dell’intervento del legislatore in sede interpretativa . Infatti ad un’attività di “chiarimento” delle disposizioni esistenti, si affianca il compito di risolvere i contrasti giurisprudenziali, facendo prevalere la linea politica del legislatore.

Dall’analisi della giurisprudenza costituzionale sopra citata si possono, quindi, già trarre argomenti per valutare la natura dell’intervento del 2015, soprattutto alla luce delle considerazioni, compiute da questa Corte di cassazione, sulla natura dei due documenti che vengono in rilievo nella norma in questione: la certificazione e la dichiarazione. Dovrebbe, infatti, ritenersi che la natura interpretativa dell’intervento del 2015 è tanto più riconoscibile quanto più si ravvisa una identità tra i due documenti o quanto meno un rapporto da genere a specie, tale per cui la menzione anche solo di uno possa essere intesa come menzione implicita dell’altro. Tanto meno, per contro, si dovrebbe ravvisare allorchè si ritenga che i due documenti integrino entità differenti sotto ogni punto di vista, sostanziale e finalistico, perchè in tale caso – a maggior ragione con il riconoscimento della natura mista del reato – a ciascuno di essi dovrebbe corrispondere una diversa materialità del reato e, quindi, una diversità di fattispecie.

Si è visto sopra come, in realtà, la giurisprudenza di questa Corte non ha sostanzialente mai ravvisato, in maniera motivata, l’equivalenza tra i due documenti o un rapporto da genere a specie tra essi, ma anzi si sia pronunciata espressamente evidenziando le differenze e le finalità del due documenti, come del resto sostenuto dalla dottrina.

Le affermazioni della sentenza Grazzini in merito alle caratteristiche e differenze tra certificazione delle ritenute e dichiarazione delle stesse nel mod. 770, infatti, non risultano essere mai state contestate analiticamente in altri arresti.

Va anche osservato, per quanto possa rilevare e non certo come elemento decisivo, che in una recentissima pronuncia in cui la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi su uno dei numerosi problemi determinati dall’entrata in vigore proprio della novella del 2015 oggetto della presente analisi – e cioè quello degli effetti penali delle nuove soglie –, in quello che può certamente considerarsi un obiter dictum e non il cuore della sentenza, ma pur sempre in essa contenuto, si ritrovano delle affermazioni che potrebbero essere ulteriormente utili ai fini della presente analisi: la stessa, infatti, occupandosi proprio dell’art. 10-bis, afferma, in un passo della decisione, che la novella che lo ha riguardato ha apportato un “nuovo nomen iuris” del reato, e il nuovo intervento normativo viene descritto in una maniera che potrebbe fare legittimamente pensare che la Corte abbia lo ritenuto di natura innovativa della fattispecie. Afferma la Corte Costituzionale nella ord. n. 25 del 2018: “la novella del 2015 ha previsto che le ritenute, il cui omesso versamento assume rilievo penale, possano risultare, oltre che dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, anche dalla dichiarazione di sostituto d’imposta (donde il nuovo nomen iuris del reato, risultante dalla rubrica, di «Omesso versamento di ritenute dovute o certificate»)”

Come detto, si tratta di una mera affermazione incidentale, alla quale non si può affidare la soluzione del tema in discussione, ma resta il fatto che questa valutazione compiuta dalla Corte potrebbe essere vista in contrasto con una natura meramente interpretativa dell’intervento legislativo del 2015.

Va, infine, rilevato che anche questo Ufficio del Massimario si è già espresso in passato, sebbene in maniera cauta, sul tema, affermando, in una relazione specifica dedicata all’analisi della novità legislativa rappresentata dal d.lgs. 158 del 2015, di non concordare sulla natura interpretativa dell’intervento sull’art. 10-bis del d.lgs. 74 del 2000, nei seguenti termini:

pare comunque di poter escludere che la disposizione introdotta possa definirsi norma di interpretazione autentica, intanto perché così non si autoqualifica, ma soprattutto perché non si limita a chiarire la portata applicativa della disposizione precedente ma anzi ne integra il precetto, così dando mostra di non rispettare i tradizionali indicatori della norma interpretativa, per come rassegnati nella giurisprudenza costituzionale.

7. Il problema dell’eccesso di delega.

Anche dall’esame della dottrina, sembra doversi giungere alla conclusione per cui quella prevalente ha sempre ritenuto che le modifiche del d.lgs. 158 del 2015 abbiano riguardato la descrizione della condotta incriminata, e, quindi, la fattispecie, attribuendole, in tal modo, portata innovativa.

Proprio rispondendo, ovviamente in maniera indiretta, ai dubbi di cui all’ordinanza interlocutoria sulla natura della novella legislativa, basati sulla terminologia utilizzata nella relazione illustrativa del d.lgs 158 del 2015 (dove si afferma, come evidenziato anche nell’ordinanza interlocutoria – come già sopra ricordato – che con il nuovo intervento normativo “è stata chiarita la portata dell’omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti”) per spiegare la natura dell’intervento in relazione all’art. 10-bis, la dottrina afferma che, in realtà, appare “evidente” che “dalla lettura della norma la novella del 2015 abbia ampliato la portata del delitto in commento” cosicché l’intervento ha riguardato il piano sostanziale e non (anche) quello probatorio, attraverso l’aggiunta dell’inciso che amplia la sfera applicativa del reato. Così, gli effetti dello stesso non possono riguardare, ai sensi dell’art. 2 cod. pen., i fatti pregressi, ma solo quelli commessi a partire dal 22 ottobre 2015, data di entrata in vigore del d.lgs. 158 del 2015.

Del resto, l’argomento che si fonda sull’analisi della terminologia usata negli atti dell’iter legislativo del d.lgs 158 del 2015, se da un lato potrebbe rappresentare un punto di appoggio per sostenerne la natura interpretativa, dall’altro può avere la stessa valenza anche per la tesi contraria; non sarebbe, quindi, un argomento decisivo. È stato notato, infatti, che nel resoconto sommario n. 13 del 5 agosto 2015 delle sedute delle Commissioni II e VI (Giustizia e Finanze) del Senato della Repubblica, relativo allo schema di parere sull’atto del Governo che poi portò al decreto legislativo n. 158, si invita il Governo a valutare l’opportunità di modificare la rubrica del novellando art. 10-bis “tenendo conto delle modifiche proposte e, in particolare, dell’estensione del comportamento omissivo penalmente rilevante non più alle sole ritenute certificate, ma anche a quelle dovute in base alla dichiarazione annuale del sostituto di imposta”.

Tale tesi comporta, come rilevato, il fatto che la fattispecie dell’omesso versamento di ritenute dovute in base alla dichiarazione mod. 770 non sia applicabile ai fatti anteriori al 22.10.2015. Essa, inoltre, avvalora il secondo orientamento giurisprudenziale sopra ricordato, secondo cui, riguardando la norma prima della novella la sola omissione di ritenute certificate, la prova del reato per i fatti pregressi non possa consistere nella sola dichiarazione mod. 770.

Questa interpretazione, certamente più garantista per gli autori dei fatti ante-riforma del 2015 giudicati oggi, apre la strada, però, ad ulteriori rilievi, uno dei quali è stato sottolineato anche nell’ordinanza di rimessione, mentre l’altro è stato evidenziato dalla dottrina: la compatibilità della nuova normativa del 2015 con la legge delega e la legalità delle condanne inflitte prima del 2015.

Sul primo aspetto, è stato sottolineato, infatti, che l’art. 8 della legge 23 del 2014 (la legge delega di riforma del sistema tributario) con riferimento alle fattispecie meno gravi (alle quali viene ricondotta l’omissione in questione) prevedeva solo ed esclusivamente di ridurre le sanzioni o di applicare sanzioni amministrative. Non autorizzava il Governo in alcun modo ad estendere la portata dell’incriminazione attraverso la previsione di una condotta che in precedenza era penalmente irrilevante.

Il tema è già stato affrontato dalla Corte costituzionale, esistendo precedenti in cui leggi penali sono state dichiarate incostituzionali per eccesso di delega, anche in senso più sfavorevole per l’indagato.

Nel caso della sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 2014, il governo si era servito dello strumento del decreto legislativo senza il supporto della legge di delegazione parlamentare, abrogando al di fuori dei principi e criteri direttivi il reato di associazione militare. In tal caso, la Corte ha accolto la questione sia in riferimento all’art. 76 Cost., sia in riferimento all’art. 25, comma 2, Cost. In particolare, la Corte ha affermato che “la verifica sull’esercizio da parte del governo della funzione legislativa delegata diviene, allora, strumento di garanzia del rispetto del principio della riserva di legge in materia penale sancito dall’art. 25, comma 2, Cost.”.

Va, tuttavia, anche osservato come il profilo dell’eccesso di delega appaia rilevante, verosimilmente, solo nei giudizi relativi a fatti commessi dopo il 22.10.2015; ad accedere all’interpretazione dell’intervento innovativo, infatti, per i fatti commessi anteriormente la novella non sarebbe applicabile e, quindi, qualora dovesse essere sollevato in uno specifico procedimento, l’eventuale vizio apparirebbe carente del requisito della rilevanza, perché le condanne nei gradi di merito per i fatti commessi prima di tale data provati sulla sola base del mod. 770 dovrebbero essere annullate in sede di legittimità, ed una eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’intervento normativo del 2015 per tali fatti non muterebbe la situazione, dato che, come detto, essi non rientrerebbero sotto la disciplina della novella.

8. Il problema della pena illecita.

Qualora si dovesse aderire all’orientamento che, ritenendo la normativa del 2015 non interpretativa ma innovativa, esclude che per i fatti anteriori la prova potesse consistere nel solo utilizzo del mod. 770, l’ordinanza di rimessione pone un ulteriore problema.

Come già accennato sopra, si tratta del problema se quest’ultima opzione ermeneutica della norma, a maggior ragione qualora dovesse essere confermata dalle SSUU, non renda implicitamente illegittime tutte le condanne definitive avvenute ante 2015 sulla base della valorizzazione probatoria del mod. 770; esse, infatti, sarebbero tutte basate su una interpretazione estensiva ed illegittima dell’art 10-bis ante 2015, come se la norma già prima del 2015 comprendesse anche le ritenute risultanti dalla dichiarazione ed il reato potesse essere provato sulla sola base della dichiarazione mod. 770.

Si tratta dell’ormai notissimo problema della c.d. “pena illecita” o “fuori dal sistema”, su cui si è dibattuto ampiamente negli ultimi tempi in dottrina e giurisprudenza, anche per l’influsso su di esso degli ordinamenti sovranazionali. Il presente caso, in questa prospettazione, avrebbe però una peculiarità davvero specifica, perché il profilo di illiceità della pena non consisterebbe nell’essere essa stata applicata a fatti non più previsti come reato (sia per intervenuta abrogazione o dichiarazione di illegittimità della norma dopo la condanna, ma anche per errore percettivo sul fatto che l’abrogazione era intervenuta già prima della condanna), ma a fatti non ancora previsti come reato.

Un’ipotesi, quindi, veramente particolare.

L’ordinanza non lo afferma espressamente, ma è chiaro che il quesito che resta sullo sfondo – a voler seguire questo ragionamento fino alle sue estreme conseguenze – è quello della eventuale revisione del giudicato ormai formatosi su tali pronunce, avendo le stesse affermato – in qualche modo, illegittimamente – la responsabilità penale degli imputati.

Il caso, come detto, è peculiare perchè opposto a quello di cui si occupa la giurisprudenza prevalente quando tratta di questo tema, e cioè la illegittimità sopravvenuta di una norma sulla cui base è stata emessa la condanna o addirittura la condanna emessa sulla base di una norma già abrogata ed erroneamente non rilevata; nel caso di specie, invece, la condanna sarebbe stata emessa sulla base di una norma che all’epoca non esisteva ed oggi esiste. Si tratterebbe, quindi, di un autentico caso di violazione dell’art. 25 Cost. e art. 1 e 2 c.p. per successione di leggi (e non per mutamento giurisprudenziale), che secondo la Corte costituzionale, in particolare nella sentenza n. 230 del 2012, è il vero contesto in cui si può discutere di violazione dell’art. 25 Cost.

L’affermazione di questa Corte nella sentenza Sez. U, n. 26259 del 2016, secondo cui «la tutela dei diritti costituzionalmente e convenzionalmente presidiati, quale il diritto fondamentale alla libertà personale e il principio di legalità, deve infatti prevalere sull’intangibilità del giudicato, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 210 del 2013 e dalle Sezioni unite a partire dalle sentenze Ercolano e Gatto, non potendo accertarsi l’“applicazione di una pena avulsa dal sistema” (Sez. U, Basile, più volte citata) come quella inflitta con una sentenza di condanna pronunciata per un fatto che, al momento della sua commissione, non aveva rilievo penale e per questo era da ritenersi illegale ab origine» potrebbe operare anche per situazioni come quella ipotizzabile nella specie, con tutte le implicazioni sul rapporto con i sistemi sovranazionali CEDU e dell’Unione Europea, sempre che si ravvisi nella specie un errore percettivo e non semplicemente valutativo.

La questione, però, consiste nello stabilire se le condanne per i fatti ante 2015 sono state pronunciate veramente sul presupposto che la norma avesse un’estensione che, all’epoca, non era stata ancora espressamente riconosciuta dallo stesso legislatore, che, infatti, ha dovuto introdurla da lì a poco, oppure se hanno dato rilievo semplicemente all’elemento probatorio.

Dalla sentenza Leucci, espressione dell’orientamento che riteneva sufficiente, nella vigenza della norma ante 2015, il solo mod. 770 per provare il reato, si deduce che la considerazione su cui si fonda la conclusione è il fatto che il rilascio della certificazione ai sostituiti da parte del sostituto d’imposta non è elemento costitutivo del reato in questione, e non il fatto che la norma sia stata interpretata come comprensiva dell’omesso versamento delle ritenute risultanti in dichiarazione.

Si ritrova, infatti, in tale decisione l’affermazione secondo cui la struttura dell’elemento oggettivo del reato si ritiene consistere in una condotta omissiva che si realizza con il mancato versamento entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti. Come hanno precisato le Sezioni Unite Favellato, si tratta di reato omissivo proprio, istantaneo e di mera condotta, integrato dal mero mancato compimento di un’azione dovuta.

Dal tale estratto emerge, quindi, inequivocabilmente, che, anche nella giurisprudenza che riteneva sufficiente il mod. 770 come prova del reato, la fattispecie è individuata esplicitamente nell’omesso versamento delle ritenute risultanti dalla certificazione. Il rilascio di questo documento, quindi, è individuato nella sentenza Leucci, e in quelle che seguono questo orientamento, quale mero presupposto del reato (per quanto, a dire il vero, poche righe dopo si affermi che il suo rilascio è necessario per l’integrazione del reato, affermazione che potrebbe anche esser letta come contrastante con la prima). In quanto tale, quindi, la prova è ritenuta, per così dire, “libera”, nel senso che può essere fornita anche mediante prove documentali, testimoniali o indiziarie, come appunto è ritenuto il mod. 770.

In altri termini, non sembra che questo orientamento si fondi sul riconoscimento del perimetro del reato, prima del 2015, come inglobante sia le ritenute certificate che quelle risultanti dalla dichiarazione. Sembra, piuttosto, che l’estensione della fattispecie alle sole ritenute risultanti dalla certificazione non sia in discussione, e che la rilevanza del mod. 770 entri in gioco solo ai fini probatori, perchè, essendo il reato puramente omissivo, la prova dello stesso può essere data con ogni mezzo. In questo senso, quindi, il mod. 770 rappresenta la prova del reato di omesso versamento di ritenute certificate, e non l’elemento costituivo del reato di omesso versamento di ritenute dovute in base alla dichiarazione, nella sua affermazione ad opera della giurisprudenza prima ancora che esistesse la norma specifica.

Piuttosto chiara appare, in questo contesto, l’ordinanza sez. 3, n. 21629 del 29/4/2015, con la quale l’identica questione oggi in esame era già stata rimessa alle Sezioni Unite (anche se senza l’analisi della novella del 2015, all’epoca del provvedimento non ancora vigente) e sulla quale queste ultime non si sono pronunciate per l’intervenuta estinzione del reato per morte dell’imputato. In tale provvedimento, che ripercorre le posizioni della giurisprudenza del momento, si afferma, nell’esaminare la struttura della condotta del reato vigente all’epoca (ante riforma), che è “acclarata la necessità del rilascio della certificazione per poter dirsi integrato il delitto di cui all’art. 10-bis del d.lgs. 74/00” e la questione della rilevanza del mod. 770 è definita come “correlata” con esclusivo rilievo ai fini “della prova dell’avvenuto rilascio della certificazione”: non appare quindi, che, in questa giurisprudenza, la rilevanza del mod. 770 stia nel fatto che la fattispecie venisse interpretata già all’epoca come comprensiva anche dell’omesso versamento delle ritenute risultanti dalla dichiarazione.

9. Il ne bis in idem.

Un accenno è, infine, necessario al problema del ne bis in idem con l’ipotesi di illecito amministrativo, di cui all’art. 13 del d. lvo 471 del 1997, per quanto, è bene precisare subito, l’eventuale accoglimento della tesi della natura innovativa dell’intervento del 2015, secondo la dottrina, elimina il problema, almeno per i fatti commessi in data anteriore all’entrata in vigore della novella.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione (n. 37425 del 28/3/2013) avevano, infatti, affermato che l’illecito amministrativo ed il reato tributario erano, nella vigenza della normativa ante 2015, in rapporto di progressione criminosa, differenziandosi per il presupposto della situazione tipica, per la condotta omissiva e per il termine di consumazione dell’illecito. La fattispecie penale si distingueva dalla violazione amministrativa proprio perché presupposto della stessa era il rilascio al sostituito della certificazione delle ritenute ed il mancato versamento delle stesse entro il termine previsto. La violazione amministrativa, invece, in sostanza sanzionava (e sanziona) l’omesso versamento delle ritenute risultanti dalla dichiarazione. Nel sistema ante riforma, il mod. 770 poteva essere uno degli elementi attraverso i quali provare il dolo del reato, ma la condotta tipica consisteva nel rilascio delle certificazioni e nell’omesso versamento delle ritenute da esse risultanti.

Con la riforma del 2015, che, come già ricordato più volte, sanziona ora penalmente anche l’omesso versamento di ritenute risultanti dalla dichiarazione, il rischio di sovrapposizione della fattispecie penale e della violazione amministrativa è notevole. Tuttavia, come già detto, questo rischio coinvolge le condotte tenute dopo il 22.10.2015. Per le condotte anteriori, che sono quelle che interessano maggiormente questa analisi, continua a prospettarsi il rapporto di progressione tra illecito amministrativo e reato, ed ogni violazione del principio del ne bis in idem dovrebbe essere scongiurata.

In ogni caso, e senza volersi addentrare in questa sede in un’analisi del principio – che esulerebbe certamente dalla presente relazione – il rischio di violazione dello stesso appare, a maggior ragione, più difficilmente configurabile oggi anche per l’omesso versamento di ritenute risultanti dalla dichiarazione, alla luce dei chiarimenti forniti dalla stessa Corte EDU sul concetto del ne bis in idem. A partire dalla sentenza A e B. c. Norvegia del 15/11/2016 la Corte sembra, infatti, ammettere la possibilità di un cumulo di sanzioni amministrative e penali per lo stesso fatto (e, nella specie, si trattava proprio di reati tributari) purché le stesse siano, in sostanza, espressione dello stesso intervento punitivo, sebbene ognuna con le proprie specificità. Tale identità di intervento punitivo è desumibile da alcuni elementi fattuali, quale, in particolare, la stretta connessione temporale tra l’irrogazione dei due tipi di sanzioni, oltre che dalla connessione sostanziale tra le stesse, e su questa impostazione sembra, infine, concordare anche la più recente giurisprudenza costituzionale nazionale (si veda, al riguardo, Corte cost., sent. n. 43 del 2/3/2018).

10. I termini della decisione.

La sentenza delle Sezioni Unite che ha risolto il suddetto contrasto ha affermato il seguente principio: «con riferimento all’art. 10-bis nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 158 del 2015, la dichiarazione modello 770 proveniente dal sostituto di imposta non può essere ritenuta di per sé sola sufficiente ad integrare la prova della avvenuta consegna al sostituito della certificazione fiscale».

Ha aderito, così, alla posizione prevalente, e più garantista, della giurisprudenza, che ha considerato l’intervento del 2015 come innovativo.

Le Sezioni Unite premettono che non è in dubbio la circostanza che il legislatore del 2004, nel reintrodurre l’illecito penale di omesso versamento delle ritenute, già previsto, anteriormente, dalla legge n. 516 del 1982 e successivamente abrogato dal d.lgs. n. 74 del 2000, abbia condizionato testualmente l’illecito alle sole ritenute, il cui omesso versamento viene sanzionato, “risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti”; in altri termini, solo le ritenute che risultino, ovvero siano attestate, dalle certificazioni predette sono quelle idonee ad attingere il grado di disvalore penale considerato dal legislatore.

Ciò comporta che, ai fini della consumazione del reato in oggetto, occorre il rilascio delle certificazioni, sia che lo stesso venga configurato come elemento costitutivo del reato, sia invece che lo stesso venga configurato quale presupposto di esso.

Peraltro, la sentenza chiarisce subito di considerare il problema esclusivamente come di natura probatoria, e non attinente agli elementi costitutivi del reato.

Anche sotto questa impostazione, comunque, rimane essenziale stabilire la natura dell’intervento del 2015, se di natura meramente interpretativa o di carattere innovativo.

Il significato della revisione del 2015 viene individuato nel fatto per cui, anziché ricostruire la fattispecie nel senso di un ritorno all’impianto come disciplinato dal d.l. n. 429 del 1982, ove l’obbligo di versamento penalmente presidiato riguardava semplicemente le ritenute «effettivamente operate», si è scelto non solo di mantenere la necessità di una “fonte” di attestazione delle stesse, ma altresì di duplicare la stessa mediante il ricorso anche al contenuto della dichiarazione.

Se questo è il significato della modifica, affermano le Sezioni Unite, non può allora sussistere dubbio sulla portata innovativa della norma che, prendendo atto del prevalente orientamento di questa Corte, ha obiettivamente inciso sullo stesso oggetto materiale della condotta la cui omissione è sanzionata, la cui individuazione, dapprima limitata a quelle sole ritenute che risultavano dalla certificazione, è oggi estesa alle ritenute emergenti dalla dichiarazione modello 770. Viene così smentita l’ipotesi, prospettata nell’ordinanza di rimessione, di intervento legislativo di mera natura interpretativa. La natura di quest’ultima, così come delineata dalla giurisprudenza costituzionale alla quale nella sentenza ci si riferisce, e la differenza strutturale tra certificazione e modello 770 impediscono di ravvisare nel nuovo intervento del 2015 tale natura interpretativa.

Alla luce della portata innovativa dell’intervento, quindi, secondo le sezioni unite, diviene irrilevante, nella specie, ogni possibile questione di legittimità costituzionale o di violazione del divieto di bis in idem, ipotesi che, come si è visto, erano state prospettate come possibili nell’analisi della questione a seguito dell’introduzione del nuovo testo.

In base a tale conclusione, quindi, le Sezioni Unite hanno annullato la sentenza impugnata e rinviato la causa a diversa Corte d’Appello per una nuova analisi della questione alla luce del principio sopra enunciato.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 3, n. 3714 del 21/11/2000, Piacente, Rv. 218183 Sez. 3, n. 39178 del 05/10/2001, Romagnoli, Rv. 220360 Sez. 3, n. 15077 del 02/03/2006, Busto, n.m. Sez. 3, n. 10120/11 dell’1/12/2010, Provenzale, n.m. Sez. 3, n. 1443 del 15/11/2012, Salmistrano, Rv. 254152 Sez. U, n. 37425 del 28/3/2013, Favellato, Rv. 255759 – 255760 Sez. 3, n. 33187 del 12/06/2013, Buzi, Rv. 256429 Sez. 3, n. 20778 del 06/03/2014, Leucci, Rv. 259182 Sez. 3, n. 19454 del 27/03/2014, Onofrio, Rv. 260376 Sez. 3, n. 40256 del 08/04/2014, Gagliardi, Rv. 260090 Sez. 3, n. 27479 del 30/05/2014, Giua, Rv. 259198 Sez. 3, n. 10475 del 9/10/2014 – dep. 2015 –, Calderone, Rv. 263007 Sez. 3, n. 11335 del 15/10/2014 – dep. 2015 –, Pareto, Rv. 262855 Sez. 2, n. 48663 del 17/10/2014, Talone, Rv. 261140 Sez. 3, n. 45225 del 03/11/2014, proc. Petrocco, n.m. Sez. 3, n. 6203 del 29/10/2014, Rispoli, Rv. 262365 Sez. 3, n. 37075 del 19/12/2014 – dep. 2015 –, Ravelli, n.m. Sez. 3, n. 21629 del 29/4/2015, Mondello, n.m. Sez. 2, n. 41357 del 14/07/2015, Aschettino, Rv. 264869 Sez. U, n. 19755/16 del 24/9/2015, Mondello, n. m Sez. U, n. 26259 del 29/10/2015 – dep. 2018 –, Mraidi, Rv. 266872 Sez. 3, n. 10104 del 7/1/2016, Grazzini, Rv. 266301 Sez. 3, n. 7884 del 4/2/2016, Bombelli, n.m. Sez. 3, n. 48591 del 26/4/2016, Pellicani, Rv. 268492 Sez. 3, n. 42715 del 28/6/2016, Franzoni, Rv. 267781 Sez. U civ., n. 13378 del 30/6/2016, Rv. 640206 Sez. 3, n. 10509 del 16/12/2016 – dep. 2017 –, Pisu, Rv. 269141 Sez. 3, n. 35786 del 15/2/2017, Furneri, Rv. 270728 Sez. 3, n. 57104 del 12/4/2017, Polinari, n.m. Sez. 3, n. 30139 del 15/6/2017, Fregolent, Rv. 270464 Sez. 3 n. 1439 del 12/7/2017 – dep. 2018 –, Sesana, n.m. Sez. 3, n. 46390 del 9/10/2017, Gambardella, n.m. Sez 3, n. 2393 del 22/1/2018, Vecchierelli, n.m.

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 123 del 1987 Corte cost., sent. n. 233 del 1988 Corte cost., sent. n. 155 del 1990 Corte cost., sent. n. 455 del 1992 Corte cost., ord. n. 480 del 1992 Corte cost., sent. n. 397 del 1994 Corte cost., sent. n. 311 del 1995 Corte cost., sent. n. 525 del 2000 Corte cost., sent. n. 230 del 2012 Corte cost., ord. n. 25 del 2018 Corte cost., sent. n. 43 del 2018

  • omicidio
  • patente di guida
  • circolazione stradale
  • diritto penale
  • codice della strada
  • infrazione al codice della strada

CAPITOLO III

QUESTIONI IN TEMA DI CIRCOLAZIONE STRADALE

(di Gennaro Sessa )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le pronunzie riguardanti la recidiva nel biennio nella contravvenzione di guida senza patente. - 3 Le pronunzie relative alla contravvenzione di guida in stato di ebbrezza. - 4 Le pronunzie in tema di concorso tra i delitti di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi o gravissime e la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza. - 5 Le pronunzie relative alle sanzioni amministrative accessorie previste per le contravvenzioni al codice della strada. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Numerose sono state le pronunzie in tema di circolazione stradale rese, nel corso dell’anno 2018, dalla Corte di cassazione.

Quelle maggiormente significative, in ragione della materia trattata, possono essere inquadrate in quattro gruppi diversi, distinguendosi pronunzie riguardanti la recidiva nel biennio nella contravvenzione di guida senza patente, pronunzie relative alla contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, pronunzie in tema di concorso tra i delitti di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi o gravissime e la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza e pronunzie relative alle sanzioni amministrative accessorie previste per le contravvenzioni al codice della strada.

2. Le pronunzie riguardanti la recidiva nel biennio nella contravvenzione di guida senza patente.

Nel primo dei gruppi indicati – comprendente, come detto, le pronunzie riguardanti la recidiva nel biennio nella contravvenzione di guida senza patente – si segnalano le sentenze Sez. 4, n. 6163 24/10/2017 – dep. 2018 –, Okere Oneywuchi, Rv. 272209 e Sez. 4, n. 27398 del 06/04/2018, Dedominici, Rv. 273405, di analogo tenore e conformi a due recentissimi precedenti, risalenti agli anni 2016 e 2017 (Sez. 4, n. 48779 del 21/09/2016, P.M. in proc. S., Rv. 268247 e Sez. 4, n. 27504 del 26/04/2017, P., Rv. 270707), nelle quali, con riferimento alla contravvenzione di guida senza patente, s’è chiarito che, per potersi ritenere sussistente la recidiva nel biennio valevole a escludere tale illecito dall’area della depenalizzazione, giusta il disposto dell’art. 5 del d.lgs. 5 gennaio 2016, n. 8, non è sufficiente che sia avvenuta la mera contestazione della fattispecie depenalizzata, ma ne è necessario l’accertamento in via definitiva.

3. Le pronunzie relative alla contravvenzione di guida in stato di ebbrezza.

Di significativa rilevanza risultano poi talune sentenze della Suprema Corte riguardanti la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza.

Nello specifico, con due di esse – Sez. 4, n. 6514 del 18/01/2018, Tognini, Rv. 272225 e Sez. 4, n. 49371 del 25/09/2018, C., Rv. 274039 – inquadrabili in un consolidato filone giurisprudenziale che, nell’ultimo triennio, annovera come precedenti conformi Sez. 4, n. 34886 del 06/08/2015, Cortesi, Rv. 264728; Sez. 4, n. 43894 del 13/09/2016, Virdis, Rv. 268505; Sez. 4, n. 53296 del 27/09/2016, Scuri, Rv. 268690 e Sez. 4, n. 3340 del 22/12/2016 – dep. 2017 –, Tolazzi, Rv. 268885, si è ribadito che l’obbligo del previo avviso al conducente coinvolto in un sinistro stradale di farsi assistere da un difensore di fiducia in relazione al prelievo ematico finalizzato all’accertamento del tasso alcolemico sussiste nella sola eventualità in cui detto prelievo avvenga su richiesta della P.G. esclusivamente per finalità di ricerca della prova della colpevolezza dell’indiziato e non anche allorquando esso sia eseguito nell’ambito di protocolli sanitari finalizzati alla cura della persona.

Con altra decisione – Sez. 4, n. 24087 del 28/02/2018, Massardi, Rv. 272959 – s’è affermato inoltre che la violazione di detto obbligo di previo avviso genera una nullità di ordine generale a regime intermedio, deducibile, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182, comma 2, cod. proc. pen., fino alla pronunzia della sentenza di primo grado e da ritenersi invece sanata, ex art. 183 cod. proc. pen., in ipotesi di richiesta di definizione del procedimento con le forme del giudizio abbreviato.

Con un’ulteriore sentenza – Sez. 4, n. 2343 del 29/11/2017 – dep. 2018 –, Morrone, Rv. 272334 – conforme a un consolidato orientamento di cui sono espressione Sez. 4, n. 9750 del 10/01/2013, Spacagno e altro, Rv. 254944; Sez. 4, n. 1522 del 10/12/2013 -dep. 2014 –, Lo Faro, Rv. 258490 e Sez. 4, 54977 del 17/10/2017, Zago, Rv. 271665, s’è ribadito poi che il prelievo di campioni biologici effettuato presso una struttura sanitaria non per motivi terapeutici, ma su esclusiva richiesta della P.G. e al solo fine di accertare il tasso alcolemico del soggetto e provarne in tal modo la colpevolezza in relazione alla contravvenzione in oggetto non esige il consenso dell’interessato, oltre a quello in ipotesi richiesto in ragione della natura delle operazioni sanitarie strumentali al tipo di accertamento.

Ancora, con sentenza Sez. 4, n. 21057 del 25/01/2018, Ferrara, Rv. 272742 – che trova plurimi precedenti conformi, tra cui, di recente, Sez. 4, n. 45514 del 07/03/2013, Pin, Rv. 257695 – si è precisato che, ai fini della sussistenza della contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, non rileva che il veicolo, all’atto del controllo, sia momentaneamente fermo, costituendo la fermata, intesa come sosta o sospensione della marcia protratta nel tempo, una fase della circolazione.

Con sentenza Sez. 4, n. 6497 del 09/01/2018, Bagordo, Rv. 272600 si è quindi affermato che il personale medico è libero nella scelta del metodo di accertamento della concentrazione alcolica nel sangue, purché esso sia scientificamente corretto, non prescrivendo modalità particolari né il codice della strada, né il relativo regolamento.

Infine, con sentenza Sez. 4, n. 24386 del 27/04/2018, Valinotto, Rv. 273729, conforme a Sez. 4, n. 36036 del 11/04/2017, Visintin, Rv. 270755, la Suprema Corte ha precisato che, ai fini dell’accertamento della contravvenzione in parola, in tutte le ipotesi previste dall’art. 186 del Codice della Strada, l’intervallo di cinque minuti che deve intercorrere tra la prima e la seconda prova spirometrica a norma dell’art. 359 del relativo Regolamento va inteso come spazio temporale minimo per il monitoraggio della curva alcolemica.

4. Le pronunzie in tema di concorso tra i delitti di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi o gravissime e la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza.

Egualmente rilevanti appaiono poi talune pronunzie della Corte in tema di concorso tra i delitti di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi o gravissime e la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza.

In tale ambito si segnalano innanzitutto le sentenze Sez. 4, n. 26857 del 29/05/2018, Vercesi, Rv. 273730 e Sez. 4, n. 50325 del 10/10/2018, K., Rv. 274050, di analogo tenore, nelle quali si è affermato che, successivamente all’introduzione dei delitti di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi o gravissime, la condotta di guida in stato di ebbrezza è divenuta circostanza aggravante di tali illeciti, con la conseguenza che gli stessi, in applicazione della disciplina del reato complesso, non possono concorrere con la contravvenzione sanzionante la medesima condotta.

In materia viene inoltre in rilievo Sez. 4, n. 32221 del 20/06/2018, Carmignani, Rv. 273462 – conforme a Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni, Rv. 253839 – in cui il giudice di legittimità, con specifico riferimento al delitto di omicidio colposo nella formulazione antecedente l’introduzione dell’omicidio stradale e delle lesioni stradali gravi e gravissime (operata dall’art. 1, commi 1 e 2, della legge 23 marzo 2016, n. 41), ha precisato che è configurabile il concorso materiale tra tale illecito qualificato dall’aggravante della violazione di norme in tema di circolazione stradale, quando questa dia luogo a un reato contravvenzionale, la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza o sotto l’influenza di sostanze stupefacenti.

5. Le pronunzie relative alle sanzioni amministrative accessorie previste per le contravvenzioni al codice della strada.

Da ultimo vanno segnalate, per la loro peculiare rilevanza, talune pronunzie della Corte in tema di sanzioni amministrative accessorie previste per le contravvenzioni al codice della strada.

Viene in rilievo innanzitutto la sentenza Sez. 4, n. 6154 del 19/12/2017- dep. 2018-, Vaccari, Rv. 272181 – conforme a Sez. 4, n. 41415 del 24/09/2013, Bellometti, Rv. 256416 e a Sez. 4, n. 6740 del 03/02/2015, Mazzoleni, Rv. 262250 – in cui s’è chiarito che, in tema di guida in stato di ebbrezza, qualora l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione sia stata dichiarata dalla Corte d’Appello, è legittima la conferma della statuizione relativa alla prescrizione del reato se il fatto illecito, pur non essendosi pervenuti a una sentenza di condanna, sia stato accertato in via definitiva.

In tale ambito merita inoltre menzione la sentenza Sez. 4, n. 27405 del 10/05/2018, Quintini, Rv. 273088 – che trova precedenti conformi in Sez. 4, n. 41818 del 10/07/2009, Alibrandi, Rv. 245455 e in Sez. 4, n. 5049 del 11/11/2010 – dep. 2011 –, Beretta, Rv. 249518 – in cui i giudici di legittimità, sempre in tema di guida in stato di ebbrezza, hanno precisato che la pronuncia di estinzione del reato per causa diversa dalla morte del reo comporta, qualora alla violazione consegua la sanzione amministrativa accessoria della revoca o della sospensione della patente di guida, la competenza a provvedere del Prefetto, che è tenuto a verificare la sussistenza delle condizioni di legge.

Egualmente rilevante appare poi la sentenza Sez. 4, n. 21686 del 28/02/2018, Iacob, Rv. 273038, in cui la Corte, con riguardo alla fattispecie di guida senza patente, ha precisato che, in caso di intervenuta depenalizzazione, il giudice non è tenuto a trasmettere gli atti all’autorità amministrativa qualora l’illecito si sia anche estinto per prescrizione.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 4, n. 41818 del 10/07/2009, Alibrandi, Rv. 245455 Sez. 4, n. 5049 del 11/11/2010 – dep. 2011 –, Beretta, Rv. 249518 Sez. 4, n. 46441 del 03/10/2012, Cioni, Rv. 253839 Sez. 4, n. 9750 del 10/01/2013, Spacagno, Rv. 254944 Sez. 4, n. 45514 del 07/03/2013, Pin, Rv. 257695 Sez. 4, n. 1522 del 10/12/2013 – dep. 2014 –, Lo Faro, Rv. 258490 Sez. 4, n. 41415 del 24/09/2013, Bellometti, Rv. 256416 Sez. 4, n. 6740 del 03/02/2015, Mazzoleni, Rv. 262250 Sez. 4, n. 34886 del 06/08/2015, Cortesi, Rv. 264728 Sez. 4, n. 48779 del 21/09/2016, S., Rv. 268247 Sez. 4, n. 43894 del 13/09/2016, Virdis, Rv. 268505 Sez. 4, n. 53296 del 27/09/2016, Scuri, Rv. 268690 Sez. 4, n. 3340 del 22/12/2016 – dep. 2017 –, Tolazzi, Rv. 268885 Sez. 4, n. 6154 del 19/12/2017 – dep. 2018 –, Vaccari, Rv. 272181 Sez. 4, n. 36036 del 11/04/2017, Visintin, Rv. 270755 Sez. 4, n. 54977 del 17/10/2017, Zago, Rv. 271665 Sez. 4, n. 2343 del 29/11/2017 – dep. 2018 –, Morrone, Rv. 272334 Sez. 4, n. 27504 del 26/04/2017, P., Rv. 270707 Sez. 4, n. 6163 del 24/10/2017 – dep. 2018 –, Okere Oneywuchi, Rv. 272209 Sez. 4, n. 27398 del 06/04/2018, Dedominici, Rv. 273405 Sez. 4, n. 6514 del 18/01/2018, Tognini, Rv. 272225 Sez. 4, n. 6497 del 09/01/2018, Bagordo, Rv. 272600 Sez. 4, n. 21057 del 25/01/2018, Ferrara, Rv. 272742 Sez. 4, n. 24087 del 28/02/2018, Massardi, Rv. 272959 Sez. 4, n. 24386 del 27/04/2018, Valinotto, Rv. 273729 Sez. 4, n. 49371 del 25/09/2018, C., Rv. 274039 Sez. 4, n. 26857 del 29/05/2018, Vercesi, Rv. 273730 Sez. 4, n. 32221 del 20/06/2018, Carmignani, Rv. 273462 Sez. 4, n. 50325 del 10/10/2018, K., Rv. 274050 Sez. 4, n. 21686 del 28/02/2018, Iacob, Rv. 273038 Sez. 4, n. 27405 del 10/05/2018, Quintini, Rv. 273088

  • immigrazione
  • reato
  • diritto penale
  • matrimonio di comodo
  • espulsione

CAPITOLO IV

QUESTIONI IN TEMA DI FAVOREGGIAMENTO DELL’IMMIGRAZIONE CLANDESTINA

(di Bruno Giordano )

Sommario

1 Le circostanze aggravanti del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina secondo Sez. U, n. 40982 del 21/06/2018. - 2 Effetti e rilevanza dei diversi orientamenti. - 3 L’orientamento della dottrina. - 4 L’interpretazione delle Sezioni Unite. - 5 Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e la competenza territoriale. - 6 Il diritto all’inseguimento e all’abbordaggio di nave straniera e i poteri di polizia giudiziaria oltre le acque territoriali. - 7 L’attenuante della collaborazione processuale. - 8 Il favoreggiamento mediante la locazione di un immobile. - 9 Il ruolo della persona offesa e l’inapplicabilità dell’attenuante dell’art. 62, comma primo, n. 2 cod. pen. - 10 L’espulsione e l’improcedibilità. - 11 L’espulsione e il patteggiamento. - 12 La protezione sussidiaria. - 13 Inottemperanza al provvedimento di espulsione e giudizio dinanzi al giudice di pace. - 14 Matrimonio simulato per ottenere il permesso di soggiorno. - 15 La violazione dell’ordine di allontanamento. - Indice delle sentenze citate

1. Le circostanze aggravanti del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina secondo Sez. U, n. 40982 del 21/06/2018.

Con la decisione delle Sezioni Unite, n. 40982 del 21/6/18, P., Rv. 273937, il supremo Collegio della Corte interviene per dirimere il contrasto sollevato in tema di disciplina dell’immigrazione, circa le fattispecie disciplinate dall’art. 12, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286: in particolare se tali ipotesi costituiscano circostanze aggravanti del delitto di cui all’art. 12, comma 1, del medesimo d.lgs. ovvero figure autonome di reato; se, in quest’ultimo caso, tali figure integrino un reato di pericolo o a consumazione anticipata, che si perfeziona per il solo fatto di compiere atti diretti a procurare l’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato in violazione della disciplina di settore, senza richiedere l’effettivo ingresso illegale dell’immigrato in detto territorio.

Al riguardo in giurisprudenza si sono affacciate diverse opzioni interpretative.

Una prima opinione (rappresentata da Sez. 1, n. 14654 del 29/11/2016, Yankura e altro, Rv. 269538) ritiene che l’art. 12 comma 3 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 integri una circostanza aggravante per aggiunta, rispetto all’ipotesi di cui al comma 1 del medesimo art. 12.

Una seconda linea interpretativa (espressa da Sez. 1, n. 45734 del 31/03/2017, Bouslim e altri, Rv. 271127) ritiene che la fattispecie del comma 3 costituisca un autonomo titolo di reato.

Nell’ambito di quest’ultima linea a sua volta si distinguono due diversi orientamenti: un primo ritiene che la fattispecie del comma 3 preveda un reato di pericolo o a consumazione anticipata che si perfeziona per il solo fatto di compiere atti diretti a procurare l’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato in violazione della disciplina di settore, non richiedendo l’effettivo ingresso illegale dell’immigrato in detto territorio. Un secondo orientamento ritiene, invece, che le disposizioni dei commi 3 e 3-bis implichino l’effettivo ingresso dello straniero nel territorio dello Stato. Tale presupposto invece non sarebbe richiesto ai fini dell’integrazione del reato di cui al comma 1 del medesimo art. che si configura come delitto a consumazione anticipata (Sez. 1 n. 40624 del 25/03/2014, Scarano, Rv 259923).

2. Effetti e rilevanza dei diversi orientamenti.

Le opzioni interpretative sottoposte al vaglio del Supremo Collegio circa la natura giuridica dell’art. 12 comma 3 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 hanno effetti diversi sul trattamento sanzionatorio, l’elemento soggettivo che deve sorreggere la fattispecie concreta, il concorso di persone e su vari altri istituti anche di ordine processuale ma, ancor prima, hanno una ricaduta diretta su tutto l’apparato strutturale e specificamente sanzionatorio del medesimo art. 12:

1) se si riconosce al comma 3 la natura di circostanza aggravante (ad effetto speciale) ne consegue che il reato semplice previsto dal comma 1 ha due linee aggravanti:

- una prima linea costituita dall’aggravante del comma 3 e dall’ulteriore aggravante del comma 3-bis;

- una seconda linea costituita dall’aggravante del comma 3-ter.

Ne consegue che il meccanismo del bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti ex art. 69 cp (espressamente escluso dal comma 3-quater solo per i commi 3-bis e 3-ter) si applica al comma 3.

2) se si riconosce al comma 3 la natura di reato autonomo ne consegue che il reato semplice previsto dal comma 1 ha una sola circostanza aggravante prevista dal comma 3-ter (non più aggravante di un’aggravante) e sottratta al bilanciamento ex art. 69 cod. pen. in forza del comma 3-quater.

Inoltre non sarebbe applicabile il comma 3-bis poiché collegato soltanto al comma 3. D’altro lato il reato autonomo previsto dal comma 3 avrebbe due linee aggravanti:

- Una prima linea costituita dall’aggravante del comma 3-bis;

- Una seconda linea costituita dall’aggravante del comma 3-ter.

- In entrambi i casi rientranti nel divieto di bilanciamento ex art. 69 cp previsto dal comma 3-quater (appunto solo per i commi 3-bis e 3-ter).

In breve, atteso che dalla diversa natura rintracciabile nel comma 3 discendono sistematicamente una serie di conseguenze diverse sia all’interno dell’art. 12 sia più ampiamente nel sistema penale e processuale, di ciò si deve tener conto quando si vuole individuare la voluntas legis quale rilevante elemento ermeneutico per la risoluzione della quaestio al fine di rintracciare per quale delle due alternative il legislatore abbia voluto optare con la norma di cui al comma 3.

3. L’orientamento della dottrina.

L’orientamento della dottrina sulla quaestio è pressoché unanimemente a favore dell’autonomia strutturale e non della natura circostanziale del comma 3.

Tra gli studi che si sono soffermati sulla materia de qua a favore della natura di reato autonomo si nota che “la norma non contiene un rinvio formale al fatto e alla cornice sanzionatoria del primo comma ma prevede una condotta ed una cornice edittale autonome” (Peccioli, Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nella giurisprudenza e la riforma del 2009, in Dir. Pen. Proc., 2009, 20).

Maggiormente rilevanti gli studi che evidenziano un’ampia riformulazione sia dell’autonoma fattispecie incriminatrice del terzo comma, sia delle circostanze aggravanti dei commi 3-bis e 3-ter che nella maggior parte dei casi ha comportato la diversa qualificazione di elementi già configurati come circostanziali o come integratori della fattispecie incriminatrice (Caputo A., Diritto e procedura penale dell’immigrazione, 2006, 45 ss.; Caputo A., in Caputo A. – Fidelbo G. (a cura di), Reati in materia di immigrazione e di stupefacenti, Giuffrè 2012, 48 ss.).

Tale autorevole ricostruzione porta a ritenere due autonome figure di reato dove il comma 3 è speciale rispetto al comma 1.

Sebbene sia comune la descrizione della condotta tipica, a parere della dottrina in parola, la riforma del 2009 ha tradotto in elementi costitutivi del reato autonomo del comma 3 (speciali rispetto a quelli del comma 1) gli elementi costitutivi della previgente circostanza aggravante, così recependo gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità.

I singoli elementi specializzanti del comma 3 lett. a), b), c), d) corrispondono al riferimento alla persona trasportata già previste dal comma 3-bis, mentre è inedito l’elemento della disponibilità di armi o materie esplodenti di cui alla lettera e).

In conclusione, gli elementi specializzanti del comma 3 rispetto al comma 1 vengono valorizzati in funzione dell’autonomia del reato.

4. L’interpretazione delle Sezioni Unite.

Con la sentenza in esame le Sezioni Unite aderiscono all’orientamento che ritiene la natura di circostanza aggravante.

Invero si osserva che gli elementi aggravatori previsti dal comma 3 sono in rapporto di specialità per aggiunta rispetto alla fattispecie del comma 1; in particolare il comma 3 non muta alcuno degli elementi strutturali essenziali della condotta del comma 1, ma prevede un trattamento sanzionatorio più severo con riferimenti a fatti che accentuano la lesività della condotta base (Sez. 1, n. 14654 del 29/11/2016, Yankura, Rv. 269538).

Cogliendo come un argomento dirimente fondamentale il criterio strutturale dovuto al rapporto di genus ad speciem tra il comma 1 e il comma 3, questa linea giurisprudenziale evidenzia che il comma 3 replica esattamente la condotta del delitto base di cui al comma 1 aggiungendovi delle ipotesi speciali di particolare lesività del medesimo bene giuridico che viene ulteriormente tutelato da altre forme aggressive speciali (Sez. 1, n. 14654 del 29/11/2016, Yankura, Rv. 269538; Sez. 1, n. 12542 del 25/11/2014, Eller, Rv. 263377).

In breve, la medesima descrizione normativa nei commi 1 e 3, nonché la collocazione sistematica e la lettura teleologica che lega i due commi al medesimo bene giuridico, ulteriormente tutelato dalle ipotesi elencate nel comma 3, depongono, secondo tale giurisprudenza, indubbiamente a favore della natura circostanziale del comma 3.

Peraltro il riferimento ai “fatti” di cui ai commi 1 e 3, presente nelle locuzioni normative dei commi 3-bis e 3-ter, non è sufficiente e convincente per affermare che il comma 3 non sia circostanza aggravante, ben potendo tale locuzione riferirsi al “fatto non circostanziato” di cui al comma 1 e al “fatto circostanziato” di cui al comma 3.

Ne consegue che le disposizioni indiscutibilmente aggravanti previste dai commi 3-bis e 3-ter concorrono come ulteriori ipotesi circostanziali che si aggiungono a quelle previste dal comma 3.

Anche la considerazione che il comma 3-quater prevede il divieto del giudizio di bilanciamento delle circostanze attenuanti diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale con le sole aggravanti di cui ai commi 3-bis e 3-ter, non depone necessariamente a favore della tesi dell’autonomia strutturale del fatto previsto dal comma 3.

Il riferimento del comma 3-quater solo ai commi 3-bis e 3-ter è semplicemente il limite all’eccezionale divieto del giudizio di bilanciamento che viene confinato soltanto alle ulteriori aggravanti dei commi 3-bis e 3-ter e non comprende il comma 3; si ritiene pertanto che la norma eccezionale di cui al comma 3-quater sia ingiustificata nel caso della circostanza aggravante del comma 3, per il quale vige il meccanismo ordinario di bilanciamento previsto dall’art. 69 cod. pen.

Invero si deve osservare che l’applicazione dell’ordinario giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen. costituisce una conseguenza della natura della circostanza aggravante rintracciata da tale orientamento nel comma 3; e comunque non rappresenta a contrario un elemento che depone a favore della natura di reato autonomo.

Su tale linea giurisprudenziale si muove la decisione delle Sezioni Unite n. 40982 del 2018 che ritiene corretta l’interpretazione che depone a favore della natura circostanziale del comma 3.

In primo luogo, la Corte osserva che, come risulta con evidenza dagli artt. 61, 62 e 84 cod. pen., non esistendo alcuna differenza ontologica tra elementi costitutivi, o essenziali, ed elementi circostanziali del reato, il legislatore può rendere elementi costitutivi del reato ipotesi che, altrimenti, sarebbero considerate circostanze comuni ovvero considerare «fatti che costituirebbero, per se stessi, reato» come «circostanze aggravanti di un solo reato».

Di conseguenza, il Supremo Collegio evidenzia in un importante obiter dictum che “la risposta in ordine al dubbio sulla natura di una fattispecie è data esclusivamente dalla ricostruzione della volontà del legislatore che, nella sua discrezionalità, tenta di articolare la valutazione penale di determinate condotte in maniera più aderente alle loro concrete manifestazioni, che mutano anche nel tempo”. Ma in mancanza di una manifestazione espressa della volontà del legislatore – come nell’art. 12, comma 3 d.lgs. cit., diversamente dalle ipotesi descritte nell’art. 12, commi 3-bis e 3-ter, che il successivo comma 3-quater qualifica esplicitamente come «aggravanti» – occorre ricavare tale volontà ricercando indici significativi.

In tale ricerca le Sezioni Unite ribadiscono che il criterio principale (anche se non unico) è quello strutturale: il modo in cui la norma descrive gli elementi costitutivi della fattispecie o determina la pena è indicativo della volontà di qualificare gli elementi come circostanza o come reato autonomo.

Si badi che sul punto le Sezioni Unite insistono sulla linea giurisprudenziale tracciata da Sez. U, n. 26351 del 26/06/2002, Fedi, Rv. 221663 (circa l’art. 640-bis cod. pen.), da Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico, Rv. 247910 (circa l’art. 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) e infine, da Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, Casani, Rv. 251270.

Tali decisioni hanno applicato il medesimo criterio strutturale, coerentemente utilizzato ora per sciogliere il nodo ermeneutico della lettura dell’art. 12, comma 3.

In effetti, in conseguenza della ripetizione della descrizione della condotta presente nel primo comma, risulta evidente che gli elementi essenziali della condotta non mutano, mentre le ipotesi descritte dalle lettere da a) ad e) riguardano elementi ulteriori, che non sono necessari per la sussistenza del reato e che, secondo la valutazione del legislatore, rendono più grave la condotta posta in essere.

Osserva al riguardo la sentenza in parola che “la tecnica legislativa di riprodurre integralmente la descrizione della condotta presente nella fattispecie del primo comma è, senza dubbio, insolita ma ottiene lo stesso risultato che avrebbe prodotto un rinvio per relationem non pare, quindi, un indizio inequivoco della volontà del legislatore di creare una diversa fattispecie autonoma”.

In linea con Sez. 1, n. 14654 del 29/11/2016, Yankura e altro, Rv. 269538, la mancata estensione del divieto di bilanciamento delle circostanze di cui al comma 3-quater alle ipotesi del terzo comma non depone necessariamente a favore della sua natura di fattispecie autonoma di reato, potendo essere conseguenza di una ragionata scelta del legislatore di sanzionare talune ipotesi in modo più grave rispetto ad altre.

In ordine al comma 3-ter il riferimento ai «fatti di cui ai commi 1 e 3» non dimostra la natura di fattispecie autonoma dei due commi, ben potendo applicarsi al primo comma per fatti aggravati ai sensi del terzo comma.

Pertanto, ribadito che il delitto di cui al comma 1 è un reato di pericolo o a consumazione anticipata, e non un reato di evento, la Corte riafferma che le condotte descritte ai commi 3 e 3-bis del medesimo art. 12 implicano l’effettivo ingresso dello straniero nel territorio dello Stato, in violazione della disciplina di settore; presupposto che invece non è richiesto ai fini dell’integrazione dell’ipotesi di reato di cui all’art. 12, comma primo, che si configura come delitto a consumazione anticipata (costante giurisprudenza di legittimità sia prima che dopo la riforma operata dalla legge n. 94 del 2009: vedi Sez. 1, n. 4586 del 23/06/2000, Habibi, Rv. 217165).

In definitiva argomenti strutturali, razionali, letterali, sistematici e deontici depongono per la natura di circostanza aggravante del comma 3 dell’art. 12.

5. Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e la competenza territoriale.

Con la decisione della Sez. 1, n. 33708 del 07/02/2018, Laguteta, Rv. 273848, la Corte si occupa della determinazione della competenza territoriale per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sotto uno specifico profilo.

In particolare viene portato all’attenzione del giudice di legittimità il tema dell’A.G. competente ratione loci in caso di atto di favoreggiamento realizzato mediante l’invio telematico di falsa documentazione alla Prefettura.

Merita evidenziare che la quaestio circa la competenza territoriale nella fattispecie sorge per il caso in cui la condotta di favoreggiamento richiede l’insinuazione nella procedura amministrativa mediante anche l’invio telematico di falsa documentazione alla Prefettura al fine di ottenere il nulla osta all’ingresso dello straniero in Italia.

In tal caso per radicare il procedimento per favoreggiamento dell’immigrazione illegale la Corte ha deciso che deve aversi riguardo non al luogo in cui la documentazione è pervenuta, ma al luogo in cui l’invio telematico è disposto, cioè al momento e soprattutto al locus in cui viene avviata telematicamente la procedura con allegata la falsa documentazione. Non rileva pertanto il luogo in cui la comunicazione telematica viene ricevuta cioè quello in cui la Prefettura destinataria ha sede.

Invero la determinazione della competenza territoriale nei reati consumati mediante l’uso della telematica costituisce ormai una costante della giurisprudenza di legittimità che individua centrale il luogo in cui ha inizio l’attività che si sviluppa attraverso i mezzi informatici. Così nel delitto di truffa, quando il profitto è conseguito mediante accredito su carta di pagamento ricaricabile, il tempo e il luogo di consumazione del reato sono quelli in cui la persona offesa ha proceduto al versamento del denaro sulla carta (Sez. 2, n. 14730 del 10/01/2017, Spagnolo, Rv. 269429).

La medesima linea si riscontra nella decisione di Sez. U, n. 17325 del 26/03/2015, Rocco, Rv. 263020, che in tema di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, ha determinato il luogo di consumazione del delitto di cui all’art. 615-ter cod. pen. in quello in cui si trova l’utente che, tramite elaboratore elettronico o altro dispositivo per il trattamento automatico dei dati, digitando la “parola chiave” o altrimenti eseguendo la procedura di autenticazione, supera le misure di sicurezza apposte dal titolare per selezionare gli accessi.

La giurisprudenza citata ha un’analogia con il caso Laguteta arrivato all’attenzione della Corte nel 2018: l’uso della via telematica per la consumazione del reato che trova il momento incipiente del danno o del pericolo per il bene tutelato nel luogo di ubicazione della postazione remota dalla quale avviene l’accesso o l’invio, e non invece nel luogo in cui si trova l’elaboratore centrale, o il destinatario, come nel caso Laguteta, la Prefettura ricevente.

6. Il diritto all’inseguimento e all’abbordaggio di nave straniera e i poteri di polizia giudiziaria oltre le acque territoriali.

Di due importanti quaestiones legate all’area territoriale in cui insiste la condotta di favoreggiamento dell’immigrazione illegale di cittadini extracomunitari previsto dall’art. 12, comma 3, lett. a) e d), del d.lgs. n. 286 del 1998, nonché dei correlati poteri di polizia giudiziaria si occupa Sez. 1, n. 5157 del 22/11/2017 – dep. 2018 –, Khmelyk e altri, Rv. 272414.

Il caso oggetto della decisione è emblematico riguardando ipotesi che accadono quotidianamente in relazione ai flussi migratori via mare che vedono il nostro Paese luogo precipuo di destinazione. Le cronache hanno presentato vari esempi nel 2018 in cui l’A.G. è intervenuta doverosamente nell’ambito della gestione delle imbarcazioni che trasportano immigrati irregolari e soggetti asilanti.

Nel caso Khmelyk, innanzi tutto, la S.C. analizza il combinato disposto degli artt. 4, 6 e 7 cod. pen. ai fini dell’applicazione del principio di territorialità della legge penale italiana e quindi della giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana in relazione al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Si tratta di una fattispecie in cui una parte della condotta era avvenuta nel territorio italiano ed è proseguita nella c.d. zona contigua.

Al riguardo la Corte muove innanzi tutto dalla nozione di territorio dello Stato, a norma dell’art. 4 cod. pen., in cui rientra il mare territoriale che si estende, secondo l’art. 2 cod. nav., fino a dodici miglia marine dalla costa e che comprende i golfi, i seni e le baie quando la distanza tra i punti estremi di essi non superi le ventiquattro miglia marine e, negli altri casi, la porzione del golfo compresa tra i due punti foranei distanti ventiquattro miglia tra loro. Si badi che l’art. 2 cod. nav. fa salve — ai fini della determinazione del mare territoriale

— le disposizioni delle convenzioni internazionali; dopo la firma della citata Convenzione di Montego Bay e dell’Accordo di applicazione fatto a New York il 29 luglio 1994, gli Stati sono autorizzati a fissare la larghezza del proprio mare territoriale fino a un limite massimo di dodici miglia marine, misurate a partire dalle linee di base determinate conformemente alla Convenzione stessa (art. 3).

Nella «zona contigua» al mare territoriale, dell’estensione massima di ulteriori dodici miglia marine, ovvero di ventiquattro miglia dalla linea di base da cui si misura la larghezza del mare territoriale, lo Stato può esercitare l’attività di repressione e prevenzione dei reati. Non vi è, infatti, un obbligo internazionale di limitare l’efficacia della legge penale al mare territoriale, potendosi estenderla alla zona contigua (vedi Sez. 3, n. 12069 del 10/05/1978, Pasqualino, Rv. 140087).

Ciò premesso, l’attenzione della Corte si porta sul concetto di «inseguimento», punto cruciale per definire i limiti dell’applicabilità della legge penale italiana.

Al riguardo si osserva che la Convenzione di Montego Bay (art. 111) attribuisce allo Stato il diritto d’inseguimento della nave straniera anche in alto mare e, quindi, oltre la zona contigua e il mare territoriale, purché detto inseguimento sia iniziato in tali zone e sempre che non sia stato interrotto, quando abbia fondati motivi di ritenere che la stessa abbia violato le leggi dello Stato le cui forze si pongono all’inseguimento.

Sul punto già Sez. 1, n. 32960 del 05/05/2010, Kircaoglu, Rv. 248268, aveva stabilito che «in tema di reati consumati in acque internazionali, per i quali vi sia un rapporto di connessione con reati commessi nel mare territoriale, il diritto di inseguimento e il principio della cosiddetta “presenza costruttiva” consentono – in virtù dell’art. 23 della Convenzione di Ginevra sull’alto mare del 29 aprile 1958, ratificata con legge 8 dicembre 1961, n. 1658

– di inseguire una nave straniera che abbia violato le leggi dello Stato rivierasco, purché l’inseguimento stesso sia iniziato nel mare territoriale, o nella zona contigua, e sia proseguito ininterrottamente nelle acque internazionali, fino all’intercettamento dell’imbarcazione inseguita».

Con il dictum in esame la Corte ribadisce che in base alla Convenzione ONU sul diritto del mare, firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982 (art. 111), si attribuisce allo Stato rivierasco il diritto d’inseguimento della nave straniera fino all’abbordaggio in mare non territoriale; diritto fondato su ragionevoli considerazioni di polizia internazionale del mare in quanto altrimenti vi sarebbero delle zone franche di mare sottratte alla possibilità di espletare compiutamente gli atti di accertamento.

Si badi soprattutto che il diritto de quo si fonda sulla ragionevole considerazione che la nave oggetto di inseguimento abbia violato le leggi dello Stato e che sfugga all’accertamento delle responsabilità portandosi in acque extraterritoriali.

In proposito si noti che la Convezione richiede che detto inseguimento sia iniziato in acque territoriali e che non sia stato interrotto.

Il combinato disposto degli artt. 4, 6 e 7 cod. pen. e 33, 97 e 111 della Convenzione Onu del 10/12/1982 – la cui operatività si sviluppa in base anche agli artt. 10 cost. e 3 cod. pen. -consente di osservare che vige la nostra legislazione penale, con conseguente attuazione dei compiti di polizia giudiziaria, anche quando nel territorio italiano si sia realizzata una parte della condotta o dell’evento e questo può essere accertato in acque extraterritoriali fino all’atto vero e proprio di abbordaggio.

Di conseguenza, attesa la giurisdizione italiana in acque anche extraterritoriali alle condizioni esposte, la medesima decisione si occupa dei poteri-doveri della polizia giudiziaria in tali casi di favoreggiamento dell’immigrazione illegale.

In particolare, il tema riguarda il potere-dovere di arresto in flagranza che viene affrontato compiutamente con la medesima decisione di Sez. 1, n. 5157 del 22/11/2017, dep. 2018 –, Khmelyk, Rv. 272415.

Specificamente la decisione de qua affronta il tema della limitazione della libertà di movimento subita dagli occupanti di un’imbarcazione abbordata in alto mare dalla polizia giudiziaria e dei correlati poteri-doveri della polizia giudiziaria.

La questione portata all’attenzione della Corte di Cassazione riguarda la necessità della conduzione in carcere dell’arrestato o del fermato entro il termine di ventiquattro ore dall’arresto o dal fermo, di cui all’art. 386 cod. proc. pen..

La ratio decidendi della sentenza muove dal rapporto critico tra l’abbordaggio e l’inizio del vinculum per la libertà personale.

Sempre che la nave sia stata legittimamente abbordata a norma degli artt. 110 e 111 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982, si osserva infatti che la libertà di movimento subita dagli occupanti del natante oggetto di abbordaggio in alto mare, dalla polizia giudiziaria subisce una limitazione parziale e relativa, in quanto riguarda il mezzo nautico e le connesse attività di controllo di esso.

Il blocco del natante e l’assunzione del suo controllo non coincidono con l’inizio della limitazione della libertà personale dei soggetti presenti sull’imbarcazione; ciò sebbene, a causa del controllo di polizia e della localizzazione del natante, gli stessi non potessero allontanarsi o darsi alla fuga.

Tale differenziazione da un lato sposta cronologicamente in avanti il termine di conduzione dei soggetti in vinculis verso una struttura carceraria; dall’altro lato mette a fuoco che l’intervento manu militari sulla nave mediante abbordaggio, corrisponde a un legittimo esercizio del potere di controllo sulla nave, derivante dal diritto internazionale del mare, ma non ancora al momento di fermo o arresto fisico dei soggetti che vi sono a bordo e che la polizia giudiziaria può compiutamente prendere in forza per condurre davanti all’autorità giudiziaria.

7. L’attenuante della collaborazione processuale.

La Corte di cassazione si occupa dei requisiti per il riconoscimento della circostanza attenuante ad effetto speciale della collaborazione processuale prevista dall’art. 12, comma 3-quinquies d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ripercorrendo un importante precedente di Sez. 1, n. 6296 del 01/12/2009, Lin, Rv. 246104.

In ordine a tale circostanza, che opera in favore di chi si adoperi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, Sez. 1, n. 2203 del 14/11/2017, dep. 2018 –, Balde, Rv. 272058, approfondisce l’analisi degli elementi costitutivi per definire quale sia il contributo utile e reale alle indagini per consentire l’operatività della circostanza.

Al riguardo la Corte evidenzia che l’”adoperarsi” di cui si fa menzione nella disposizione, si deve estrinsecare in un “apporto apprezzabile, che non assuma caratteristiche meramente neutre, specie in ragione delle conoscenze” rispetto alle quali la collaborazione deve essere piena e completa.

Pertanto per la sussistenza della circostanza de qua non basta ravvisare un qualsiasi atteggiamento di resipiscenza dell’imputato, la sua confessione di responsabilità o la descrizione di circostanze di secondaria importanza: in tali termini il contributo fornito alle indagini può essere seriamente indicativo di un atteggiamento sulla propria posizione processuale, da valutare positivamente ma non ancora sufficiente per ritenere che il soggetto dichiarante effettivamente offra un contributo efficace per lo sviluppo investigativo.

Si badi che la norma include l’attivazione del singolo soggetto e tutti quei contributi protesi a evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori.

A tale fine, però, non è neanche necessario che egli fornisca da solo, in modo autonomamente determinate, il contributo decisivo all’accertamento dei fatti.

È necessario invece che il dichiarante offra una collaborazione reale e utile alle indagini per la ricostruzione dei fatti e per la punizione degli autori dei delitti: quindi un’indicazione degli apporti che inducano la raccolta di elementi di prova decisivi per l’accertamento dei fatti; l’individuazione o la cattura di uno o più correi; la sottrazione di risorse rilevanti alla consumazione dei delitti.

Pur assumendo “forma libera” l’apporto conoscitivo deve, dunque, portare ad un accrescimento di informazioni funzionale ai risultati indicati: un aiuto concreto alle Autorità di polizia e/o giudiziaria, e una oggettiva utilità per le indagini e, quindi, un contributo innovativo o confermativo rispetto al materiale investigativo raccolto.

L’effettività dell’apporto investigativo si misura, in definitiva, sia sul piano oggettivo della prova per la ricostruzione dei fatti e per l’interruzione dell’attività criminosa, sia sul piano soggettivo per la individuazione dei correi del dichiarante.

8. Il favoreggiamento mediante la locazione di un immobile.

L’art. 12, comma 5-bis, d.lgs. n. 286 del 1998 incrimina chi alloggia o cede a titolo oneroso, anche in locazione, un immobile a un cittadino straniero privo di permesso di soggiorno, approfittando della condizione di illegalità.

Su tale fattispecie la Corte è già intervenuta con decisioni che hanno messo in luce vari profili. Si legga da ultimo Sez. 3, n. 20889 del 11/01/2017, P., Rv. 270631 che per l’ipotesi di cessione di un alloggio a titolo oneroso a straniero privo di permesso di soggiorno, configura il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12, comma quinto, d.lgs. n. 286 del 1998. È necessario che l’autore del reato agisca per favorire la permanenza irregolare nel territorio dello Stato al fine di trarre un ingiusto profitto dalla locazione ovvero di dare alloggio ad uno straniero privo di titolo di soggiorno.

Il medesimo caso, riguardante la sublocazione a stranieri privi di permesso di soggiorno di appartamenti a prezzi ampiamente maggiorati rispetto a quelli concordati con i proprietari, è tornato all’attenzione della Corte con la decisione della Sez. 1, n. 29829 del 22/02/2017- dep. 2018 –, Mandelli, Rv. 273503.

La Corte interviene per delineare il quadro circa la natura del reato in oggetto, dovendo scegliere tra la struttura permanente, a effetti permanenti, o istantanea della condotta e dei suoi effetti.

Attesa la contrattualizzazione del rapporto, o comunque l’esistenza di un accordo, che deve intercorrere tra cedente e fruitore dell’immobile, la Corte non esita a qualificare il reato come istantaneo.

Il reato, infatti, si perfeziona non tanto al momento della cessione dell’immobile, o comunque nella messa a disposizione dello stesso per l’alloggiamento dello straniero irregolare ma quanto nel momento in cui, per effetto dell’incontro del consenso delle parti circa la locazione, il contratto si conclude ovvero il rapporto già in essere si rinnova.

L’accordo per costituire il rapporto locativo è il momento in cui viene leso il bene giuridico tutelato, con l’approfittamento (anche) economico da parte del locatore verso chi si trova in una situazione illegale: l’oggetto giuridico non è vietare l’alloggiamento dello straniero irregolare (tant’è che questi non viene punito nemmeno a titolo di concorso) ma evitare di trarre profitto da tale condizione di irregolarità.

Pertanto la Corte precisa che, per il perfezionamento del reato, non è necessario che il contratto abbia avuto esecuzione con la disponibilità effettiva e materiale o con il godimento dell’immobile da parte del conduttore; non è necessario nemmeno che quest’ultimo abbia iniziato a pagare il canone.

Alla qualificazione normativa del reato come istantaneo, consegue che l’esecuzione del contratto da parte del conduttore costituisce un mero effetto, permanente nel tempo, della commissione del reato.

La medesima decisione della Sez. 1, n. 29829 del 22/02/2017 – dep. 2018 –, Mandelli Rv. 273504, si sofferma sull’ipotesi di concorso del locatore nel fatto del conduttore che, dando alloggio a stranieri privi di permesso di soggiorno al fine di trarne profitto, si renda responsabile del reato di cui all’art. 12, comma 5-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

La Corte ritiene che sussista il concorso di persone soltanto qualora il locatore dell’immobile partecipi al profitto realizzato dal conduttore, non essendo sufficiente che abbia semplicemente consapevolezza dell’illecita destinazione dell’immobile. In tal caso l’interesse economico è considerato non soltanto espressione di vile tornaconto ma indice della volontà di concorrere all’approfittamento ricavando indirettamente denaro proveniente dagli alloggiati abusivi, senza che il comportamento (apparentemente estraneo) del locatore possa essere schermato da una sostanziale interposizione del conduttore.

9. Il ruolo della persona offesa e l’inapplicabilità dell’attenuante dell’art. 62, comma primo, n. 2 cod. pen.

Va dato rilievo alla sentenza della Sez. 1, n. 21955 del 09/01/2018, Druscovich, Rv. 272831, che interviene sul concorso doloso della persona offesa nel reato di agevolazione dell’ingresso clandestino nel territorio dello Stato ex art. 12, comma 3, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

La Corte esamina la struttura del reato de quo e la natura di reato di pericolo ritenendo che il bene giuridico si concentri in capo allo Stato: l’obiettivo perseguito dalla norma è contrastare il mercato di esseri umani rendendo penalmente rilevanti le attività parassitarie e lucrative e andando a colpire l’attività svolta dalle organizzazioni criminali.

Pertanto la circostanza attenuante del concorso del fatto doloso della persona clandestina non è applicabile al delitto di agevolazione dell’ingresso clandestino nel territorio dello Stato di cui all’art. 12, comma 3 e 3-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

Il giudice di legittimità osserva ulteriormente che il concorso della volontà della persona non cittadina è già strutturato nel reato in quanto costituisce elemento necessario per la realizzazione della fattispecie, incentrata sui comportamenti di chi gestisce questo traffico (promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua) in una prospettiva analoga a quella dell’art. 416 del codice penale.

L’immigrato clandestino, la cui condotta non è comunque irrilevante penalmente (vedi art. 10-bis del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286), infatti, è il beneficiario della condotta illecita, costituendo quindi un elemento necessario per il suo perfezionamento.

Pertanto il suo contributo attivo – quale ad es. l’accettazione del trasporto e il compimento delle attività connesse, la predisposizione di falsi documenti, il pagamento del compenso

– aggravando la fattispecie, quali condotte autonome e funzionali al raggiungimento dello scopo finale, non possono allo stesso tempo essere considerate come circostanza attenuante, ai sensi dell’art. 62, n. 5, cod. pen. 

Infine la Corte osserva che il reato de quo viene integrato oggettivamente dal pericolo che si perfeziona per il solo fatto di compiere atti diretti a procurare l’ingresso nel territorio dello Stato.

Pertanto, atteso che le circostanze del reato presuppongono l’esistenza del reato, anche la circostanza del concorso del fatto doloso della persona offesa, nella struttura della fattispecie in esame si è in presenza di un reato già perfetto nei suoi elementi costitutivi, sui quali si innesta, mediante una condotta causalmente rilevante, il comportamento della persona offesa, tale da creare un aggravamento dell’evento tipico. Non v’è luogo, quindi, per ritenere come attenuante il medesimo elemento del contributo intenzionale della persona immigrata clandestinamente alla quale non può essere riconosciuta la qualità di persona offesa, ma soltanto di parte eventualmente danneggiata e di soggetto passivo.

10. L’espulsione e l’improcedibilità.

Tre importanti decisioni della Corte di Cassazione si occupano sotto vari profili dell’istituto dell’espulsione, che assume un ruolo centrale nel contrasto all’immigrazione irregolare.

Con la sentenza della Sez. 2, n. 29396 del 31/05/2018, Ago, Rv. 273074, la Corte affronta il tema dell’applicabilità della causa di non procedibilità ex art. 13, comma 3-quater, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, che per i casi di espulsione previsti dai commi 3, 3-bis e 3-ter del medesimo articolo, stabilisce l’improcedibilità per l’avvenuta espulsione.

Si osserva che tale causa di non procedibilità opera soltanto nel procedimento avente ad oggetto il medesimo fatto in relazione al quale la misura dell’espulsione dello straniero sia stata disposta ed eseguita.

In effetti l’espulsione eseguita non preclude l’inizio di altri procedimenti penali per fatti commessi prima dell’espulsione.

Altrimenti, afferma la Corte, “si arriverebbe al risultato irrazionale di ritenere lo straniero espulso beneficiato da una generale condizione di non procedibilità per qualsiasi fatto, anche particolarmente grave, precedentemente commesso”.

Tutti gli argomenti di ordine logico, sistematico e letterale, acutamente utilizzati dalla Corte, depongono a favore dell’applicabilità della causa di improcedibilità esclusivamente per il procedimento nell’ambito del quale è stata disposta ed eseguita l’espulsione.

11. L’espulsione e il patteggiamento.

Il tema dell’espulsione viene affrontato dalla Corte anche in relazione all’applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen., allorché le parti abbiano concordato anche l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato come sanzione sostitutiva della pena detentiva a norma dell’art. 16 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

Al riguardo evidenzia la Corte che lo straniero che versi nelle condizioni di legge per fruire della sanzione sostitutiva dell’espulsione prevista dall’art. 16, quinto comma, d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, è titolare – anche nel caso di sentenza di patteggiamento – di “un vero e proprio diritto ad essere espulso dal territorio dello Stato, anziché rimanervi ad espiare la pena detentiva alla quale sia stato condannato.”

Varie riflessioni e approfondimenti meriterebbe tale ratio decidendi, soprattutto in ordine al rilievo costituzionale di tale diritto soggettivo che, se vagliato positivamente dal giudice, neutralizza la funzione effettivamente rieducativa della pena, in buona sostanza sostituita da una modalità alternativa.

Ma la decisione in parola ci porta importanti considerazioni circa la sorte dell’accordo delle parti nel caso in cui il giudice abbia applicato la pena richiesta dalle parti ma non abbia disposto l’espulsione, sebbene compresa nell’accordo.

Tale accordo, precisa la Corte, deve considerarsi caducato in toto, attenendo la sostituzione della pena detentiva al contenuto essenziale del negozio processuale sulla pena, oggetto del consenso manifestato dalle parti. Pacifico che il giudice di merito non aveva altra scelta che ratificare l’accordo raggiunto dall’imputato e dal pubblico ministero ovvero rigettare in toto la richiesta di patteggiamento

In particolare la Corte osserva che l’omessa applicazione dell’espulsione da parte del giudice comporta la nullità della sentenza di patteggiamento, con trasmissione degli atti al giudice di merito per un nuovo giudizio (Sez. 5, n. 40198 del 29/05/2018, Kola, Rv. 273798).

12. La protezione sussidiaria.

Il dictum della Sez. 1, n. 41949 del 04/04/2018, S., Rv. 273973, si occupa dell’espulsione come misura alternativa alla detenzione circa la tassatività delle cause ostative e la rilevanza delle condizioni per il riconoscimento della cd. “protezione sussidiaria”.

Al riguardo la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza del tribunale di sorveglianza che aveva respinto l’opposizione all’espulsione fondata sul rischio per l’incolumità fisica del ricorrente derivante da una faida in atto tra la sua famiglia e altri soggetti.

In primo luogo, osserva la Corte che le cause ostative all’espulsione dello straniero (come misura alternativa alla detenzione ai sensi dell’art. 16, comma 5, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) indicate nel successivo art. 19, commi 1 e 2, non hanno natura tassativa.

Infatti, tali cause vanno integrate attraverso l’analisi delle fonti sovranazionali – quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Carta di Nizza e le Direttive U.E. sul tema – tese a fornire tutela ai soggetti cui spetta il riconoscimento non solo dello status di rifugiato, ma anche della cd. “protezione sussidiaria”, spettante anche nell’ipotesi di minaccia grave alla vita di un civile derivante da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

13. Inottemperanza al provvedimento di espulsione e giudizio dinanzi al giudice di pace.

La sentenza della Sez. 1, n. 7404 del 01/02/2018, Ajouli, Rv. 272060, si sofferma sul reato di inottemperanza al provvedimento di espulsione.

In relazione a tale frequente fattispecie la Corte viene chiamata a pronunciarsi sulla previsione dell’instaurazione del giudizio dinanzi al giudice di pace nel termine massimo di quindici giorni, di cui all’art. 20-bis del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274.

In proposito si osserva innanzi tutto che la previsione ha carattere tassativo e, in secondo luogo, che tale tipo di giudizio è applicabile, qualora si proceda nelle forme della presentazione immediata davanti al giudice, come espressamente prescritto dall’art. 14, comma 5-quinquies, del d.lgs. n. 286 del 1998, nei procedimenti relativi ai reati di cui agli artt. 10-bis e 14, commi 5-ter e 5-quater, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

La Corte ha precisato che, una volta instaurato tempestivamente, è del tutto ininfluente la circostanza che il giudizio subisca rinvii per ragioni processuali o istruttorie.

14. Matrimonio simulato per ottenere il permesso di soggiorno.

Un’importante decisione è dettata da Sez. 3, n. 30877 del 27/03/2018, S., Rv. 273334, circa l’aggravante di cui all’art. 4, comma 1, n. 3, legge 20 febbraio 1958, n. 75 per l’ipotesi di matrimonio simulato al fine di ottenere il permesso di soggiorno per il coniuge extracomunitario.

In particolare nell’ambito dello sfruttamento della prostituzione, l’ipotesi aggravata di cui all’art. 4, comma 1, n. 3, della legge 20 febbraio 1958, n. 75, è configurabile anche in caso di matrimonio simulato contratto al solo fine di far ottenere allo straniero il permesso di soggiorno.

Tale disposizione prevede l’aggravante dei reati di cui all’art. 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, “se il colpevole…è il marito”.

In proposito la Corte si sofferma sul tenore dell’art. 30, comma 1-bis del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, secondo cui il permesso di soggiorno rilasciato agli stranieri che abbiano contratto matrimonio con cittadini italiani è “immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole”.

Pertanto tale vincolo cessa di produrre i propri effetti giuridici solo qualora si verifichi una delle cause di scioglimento di cui all’art. 149 cod. civ. Fino allo scioglimento del vincolo matrimoniale, ancorché il negozio matrimoniale sia stato artefatto per far ottenere il permesso di soggiorno al coniuge extracomunitario, rimane lo status matrimoniale che costituisce l’aggravante (solo) per il marito.

Si noti infatti che l’impostazione della c.d. legge Merlin, volta a ridisciplinare nel 1958 la prostituzione femminile, unica forma fino ad allora regolamentata, porta ancora oggi l’aggravante de qua soltanto per il marito, e non anche per la moglie.

Salvo un’applicazione analogica (ma in malam partem) alla moglie, e a meno di non ritenere un’interpretazione costituzionalmente orientata volta a correggere l’evidente disparità di trattamento, allo stato l’aggravante è applicabile soltanto al marito e nel caso esaminato dalla Corte, anche se il matrimonio è contratto solo al fine di far conseguire alla moglie il permesso di soggiorno.

15. La violazione dell’ordine di allontanamento.

La decisione pronunciata da Sez. 1, n. 25533 del 27/03/2018, Rv. 273047, torna ad occuparsi del reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine di allontanamento del Questore di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 la cui nuova formulazione, introdotta dall’art. 3 del d.l. n. 89 del 2011, convertito con modificazioni nella legge n. 129 del 2011, è ritenuta dai giudici di legittimità conforme alla direttiva 2008/115/CE (cd. Direttiva rimpatri), come interpretata dalla pronuncia della Corte di giustizia del 28 aprile 2011 nel caso El Dridi.

In particolare la lettura offerta dalla Corte di Cassazione della disposizione incriminatrice, come riformulata dall’art. 3 del d.l. n. 89 del 2011, convertito con modificazioni nella legge n. 129 del 2011, evidenzia il novum normativo: la nuova disposizione non può ritenersi in continuità normativa con la precedente fattispecie di reato, avendo istituito una nuova incriminazione, in discontinuità sostanziale per «tipo di illecito» rispetto alla pregressa (vedia tra le altre, Sez. 1, n. 47831 del 11/10/2013, Afiot Tahroi, Rv. 258452; Sez. 1, n. 38224 del 26/09/2011, Ajayi, Rv. 251172; Sez. 1, n. 36446 del 23/09/2011, George, Rv. 250880).

Ne consegue che giocoforza tale nuova fattispecie innanzi tutto è applicabile solo ai fatti verificatisi dopo la sua entrata in vigore; in secondo luogo comporta l’applicazione di una pena pecuniaria, la multa al posto della detenzione prima prevista.

Con ciò lo stesso legislatore ha corrisposto alla citata decisione della Corte di giustizia UE, secondo la quale la successione delle fasi della procedura di rimpatrio, stabilita dalla direttiva, risponde a una esigenza di «gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione» alla relativa decisione, da quella meno restrittiva per la libertà dell’interessato (la concessione di un termine per la sua partenza volontaria) a quella (il trattenimento, secondo tempi e modalità predeterminati, in un apposito centro) che, tra le misure consentite, è la maggiormente limitativa.

Infatti gli Stati membri non possono introdurre – al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere al rimpatrio coattivo – pene restrittive della libertà personale, dovendo «essi Stati, invece, continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti», finendo altrimenti per ostacolare l’applicazione delle misure di partenza volontaria e ritardare l’esecuzione del rimpatrio stesso.

Pertanto, non costituendo intralcio alla finalità primaria della direttiva di agevolare l’uscita dal territorio nazionale degli stranieri privi di valido titolo di permanenza, il legislatore nazionale – pur non rinunciando alla sanzione penale per sostenere la forza precettiva dell’ordine di allontanamento dal territorio dello Stato, impartito al cittadino di un Paese non appartenente all’Unione europea, e garantirne così l’ottemperanza – ha eliminato la previsione della reclusione, antecedentemente comminata, sostituendola con la pena della multa.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 3, n. 12069 del 10/05/1978, Pasqualino, Rv. 140087 Sez. 1, n. 4586 del 23/06/2000, Habibi, Rv. 217165 Sez. U, n. 26351 del 26/06/2002, Fedi, Rv. 221663 Sez. 1, n. 6296 del 01/12/2009, Lin, Rv. 246104 Sez. 1, n. 32960 del 05/05/2010, Kircaoglu, Rv. 248268 Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico, Rv. 247910 Sez. 1, n. 36446 del 23/09/2011, George, Rv. 250880 Sez. 1, n. 38224 del 26/09/2011, Ajayi, Rv. 251172 Sez. U, n. 4694 del 27/10/2011, Casani, Rv. 251270 Sez. 1, n. 47831 del 11/10/2013, Afiot Tahroi, Rv. 258452 Sez. 1 n. 40624 del 25/03/2014, Scarano, Rv 259923 Sez. 1, n. 12542 del 25/11/2014, Eller, Rv. 263377 Sez. U, n. 17325 del 26/03/2015, Confl. comp. in proc. Rocco, Rv. 263020 Sez. 1, n. 14654 del 29/11/2016, Yankura e altro, Rv. 269538 Sez. 2, n. 14730 del 10/01/2017, Spagnolo, Rv. 269429 Sez. 3, n. 20889 del 11/01/2017, P., Rv. 270631 Sez. 1, n. 29829 del 22/02/2017 – dep. 2018 –, Mandelli, Rv. 273503 Sez. 1, n. 45734 del 31/03/2017, Bouslim e altri Rv. 271127 Sez. 1, n. 2203 del 14/11/2017 – dep. 2018 –, Balde, Rv. 272058 Sez. 1, n. 5157 del 22/11/2017 – dep. 2018-, Khmelyk, Rv. 272414 Sez. 1, n. 21955 del 09/01/2018, Druscovich, Rv. 272831 Sez. 1, n. 7404 del 01/02/2018, Ajouli, Rv. 272060 Sez. 1, n. 33708 del 07/02/2018, Laguteta, Rv. 273848 Sez. 1, n. 25533 del 27/03/2018, Rosca. Rv. 273047 Sez. 3, n. 30877 del 27/03/2018, S., Rv. 273334 Sez. 1, n. 41949 del 04/04/2018, S., Rv. 273973 Sez. 5, n. 40198 del 29/05/2018, Kola, Rv. 273798 Sez. 2, n. 29396 del 31/05/2018, Ago, Rv. 273074 Sez. U, n. 40982 del 21/6/2018, P., Rv. 273937

  • reato
  • traffico di stupefacenti
  • stupefacente
  • diritto penale

CAPITOLO V

DISCIPLINA DEGLI STUPEFACENTI: DIVERSITÀ DELLE SOSTANZE E CONFIGURAUILITÀ DEL FATTO DI LIEVE ENTITÀ

(di Matilde Brancaccio )

Sommario

1 Il contrasto sulla configurabilità del fatto di lieve entità nel caso di condotta avente ad oggetto sostanze stupefacenti di diversa natura. - 2 L’intervento delle Sezioni unite: una riflessione a tutto campo sulla fattispecie di lieve entità. - 2.1 Il fatto di lieve entità configura una (nuova) ipotesi autonoma di reato. - 2.2 L’immutata declinazione dei parametri funzionali all’individuazione del fatto di lieve entità. - 2.3 La differente tipologia di stupefacente non costituisce un “indice negativo assorbente” rispetto al fatto di lieve entità: le Sezioni Unite e la tesi della valutazione complessiva dei parametri normativi previsti dal comma quinto dell’art. 73 t.u.s.. - 2.4 La differente tipologia di sostanze stupefacenti rientra nell’indice normativo delle “modalità dell’azione”. - 3 Le questioni risolte in tema di concorso di reati e la valorizzazione della natura indifferenziata del trattamento sanzionatorio per l’ipotesi di lieve entità. - 4 La soluzione del caso concreto sottoposto alle Sezioni unite: un esempio pratico di corretta applicazione dei nuovi principi affermati. - Indice delle sentenze citate

1. Il contrasto sulla configurabilità del fatto di lieve entità nel caso di condotta avente ad oggetto sostanze stupefacenti di diversa natura.

Da tempo nella giurisprudenza di legittimità, e di conseguenza in quella di merito, si registravano divergenti opzioni sul rilievo da conferire alla diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta, al fine di ritenere o meno configurabile la fattispecie di lieve entità del fatto di reato prevista dal comma quinto dell’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

È noto che il fatto di lieve entità in materia di stupefacenti si configura in presenza di condizioni dettate normativamente e relative alla minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell’azione), da valutarsi complessivamente (Sez. U, n. 17 del 21/6/2000, Primavera, Rv. 216668).

Sull’interagire dei diversi parametri le pronunce di legittimità sono state numerosissime, spesso molto legate alle fattispecie concrete ed al loro molteplice atteggiarsi.

Le Sezioni unite, nel 2018 (con la sentenza Sez. U, n. 51063 del 27/9/2018, Murolo, Rv. 274076-01; 274076-02), hanno stabilito che la diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non è di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, in quanto l’accertamento della lieve entità del fatto implica una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta, selezionati in relazione a tutti gli indici sintomatici previsti dalla disposizione.

Le Sezioni unite arrivano a tale soluzione esaminando il contrasto sorto sul tema nella giurisprudenza di legittimità.

Secondo un primo orientamento (che ha origini più risalenti, ma che è stato ribadito anche di recente), nel caso di detenzione di sostanze di differente tipologia, il fatto non potrebbe essere considerato comunque di lieve entità, anche a prescindere dal dato quantitativo, trattandosi di condotta indicativa della capacità dell’agente di procurarsi sostanze tra loro eterogenee e, per ciò stesso, di rifornire assuntori di stupefacenti di diversa natura, così da recare un danno non tenue al bene della salute pubblica tutelato dal sistema di incriminazioni previsto dall’art. 73 t.u.s.

In tal senso si è espressa Sez. 4, n. 38879 del 29/9/2005, Frank, Rv. 232428, che ha dato origine all’indirizzo in esame, in una fattispecie in cui l’imputato era stato trovato in possesso di modesti quantitativi di tre sostanze differenti – eroina, cocaina e morfina – ritenendo condivisibile il ragionamento del giudice di merito che vedeva in tale diversità qualitativa un indice negativo assorbente nella prospettiva del numero di consumatori che potevano essere i destinatari finali della droga. Successivamente si sono orientate allo stesso modo, tra quelle più significative, Sez. 3, n. 47671 del 09/10/2014, Cichetti, Rv. 261161, in una fattispecie relativa alla detenzione di 91 grammi di hashish e di 181 pasticche di ecstasy, in cui la Corte ha chiarito che la diversità “naturalistica” delle sostanze non viene meno per effetto del loro inserimento in una medesima catalogazione tabellare (poiché il fatto era stato commesso prima della pronuncia di incostituzionalità conseguente alla sentenza n. 32 del 2014 e, dunque, nella vigenza del testo dell’art. 73 T.U. STUP. introdotto dalla legge n. 49 del 2006); Sez. 4, n. 6624 del 15/12/2016, dep. 2017, Bevilacqua, Rv. 269130, nella quale la Corte ha ritenuto corretta la valutazione anche alla luce di ulteriori indicatori che escludevano la possibilità di configurare l’ipotesi di lieve entità (dato quantitativo e possesso di strumenti idonei al confezionamento); Sez. 3, n. 26205 del 05/06/2015, Khalfi, Rv. 264065, la quale, pur stigmatizzando la mancata valutazione di ulteriori aspetti del fatto, aderisce alla opzione in esame, ritenendo la diversità delle sostanze “indice negativo assorbente”; Sez. 3, n. 32695 del 27/03/2015, Genco, Rv. 264491, la quale, pur considerando l’orientamento opposto, aderisce all’impostazione secondo cui la diversità qualitativa dello stupefacente è circostanza che, da sola, esclude la minima offensività del fatto, perché esprime l’attitudine della condotta a rivolgersi ad un cospicuo e variegato numero di consumatori e la sua capacità di penetrazione nel mercato, ritenendo il principio tanto più applicabile nel caso concreto considerato in ragione della valutazione delle modalità attuative del reato, che si caratterizzavano per l’organizzazione dispiegata dagli autori nella consumazione delle condotte illecite.

Un secondo orientamento, sorto in tempi più recenti, ha proposto, invece, una diversa opzione interpretativa: la differente tipologia di sostanze detenute o cedute non sarebbe un dato necessariamente ostativo alla configurabilità della fattispecie di lieve entità, qualora le peculiarità del caso concreto risultino indicative di una complessiva minore portata dell’attività svolta, essendo l’elemento della diversità tipologica idoneo ad escludere l’ipotesi del fatto lieve soltanto qualora sia dimostrativo di una significativa potenzialità offensiva.

Sono espressione di tale indirizzo, tra le altre, Sez. 6, n. 8243 del 12/12/2017 – dep. 2018 –, Scardia, Rv. 272378; Sez. 6, n. 1428 del 19/12/2017 – dep. 2018 –, Ferretti, Rv. 271959; Sez. 6, n. 46495 del 19/09/2017, Rachadi, Rv. 271338; Sez. 4, n. 49153 del 13/07/2017, Amorello, Rv. 271142; Sez. 6, n. 29132 del 09/05/2017, Merli, Rv. 270562; Sez. 4, n. 22655 del 04/04/2017, Ben Ali, Rv. 270013; Sez. 4, n. 22654 del 04/04/2017, Rhimi, Rv. 269946; Sez. 6, n. 14882 del 25/01/2017, Fonzo, Rv. 269457; Sez. 4, n. 48850 del 03/11/2016, Barba, Rv. 268218; Sez. 4, n. 28561 del 25/05/2016, Zuccaro, Rv. 267438; Sez. 6, n. 48697 del 26/10/2016, Tropeano, Rv. 268171; Sez. 3, n. 6824 del 04/12/2014 – dep. 2015, Masella, Rv. 262483; tutte successive agli interventi legislativi del 2013 e del 2014, mentre in precedenza si era espressa negli stessi termini anche Sez. 6, n. 6574 del 10/01/2013, Mallo, Rv. 254598, la quale aveva rilevato un vizio della motivazione nel caso di esclusione della lieve entità del fatto esclusivamente in ragione della diversità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta illecita. Le decisioni elencate evidenziano la necessità di una valutazione complessiva del fatto da parte del giudice di merito che concerna mezzi, modalità e circostanze dell’azione, qualità e quantità della sostanza – anche con riferimento specifico alla percentuale di purezza della stessa –, poiché solo in tal modo è possibile – in concreto – formulare un effettivo giudizio di lieve entità, consentendo tra l’altro il controllo da parte del giudice di legittimità sul percorso giustificativo seguito nel merito per affermarne o negarne la configurabilità.

In tal senso, molte delle sentenze citate e rappresentative di tale secondo orientamento insistono sulla necessità di elaborare una interpretazione della norma conforme ai principi costituzionali di offensività e di proporzionalità.

In tale ottica si sottolinea come, del resto, rappresenti un approdo consolidato nella giurisprudenza di legittimità la considerazione per cui la fattispecie di lieve entità costituisce “strumento” di riequilibrio e “riproporzionamento” del sistema sanzionatorio in materia di stupefacenti in relazione a casi concreti nei quali, per la complessiva non gravità della condotta, il principio di offensività verrebbe sostanzialmente “tradito” applicando le più severe pene previste per le ipotesi diverse dal comma 5 dello stesso art. 73 t.u.s.

2. L’intervento delle Sezioni unite: una riflessione a tutto campo sulla fattispecie di lieve entità.

Il quesito sottoposto dalla Terza sezione e rielaborato dall’Ufficio del Massimario per la decisione delle Sezioni unite immediatamente rappresenta l’idea di una questione non limitata al mero contrasto interpretativo principale sulla possibilità di configurare il fatto di lieve entità nel caso in cui la condotta di reato abbia ad oggetto sostanze stupefacenti di diversa tipologia, a prescindere dal dato quantitativo e dalla valorizzazione degli altri elementi di fattispecie.

Esso verte, infatti, non soltanto sul se la diversità di sostanze stupefacenti, a prescindere dal dato quantitativo, osti alla configurabilità dell’ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, ma anche, in caso si fosse data valenza non ostativa a tale circostanza, sul se tale reato potesse concorrere con le fattispecie previste ai commi 1 e 4 del medesimo art. 73.

Le Sezioni unite, tuttavia, hanno voluto proporre una vera e propria ricostruzione sistematica del tema, inquadrando il fatto di lieve entità nel nuovo universo normativo derivante dagli interventi ripetuti del legislatore, da ultimo negli anni 2013 e 2014, e svolgendo alcune affermazioni di notevole importanza, anche del tutto inedite.

Proponendo una lettura tematica, si possono enucleare alcune principali prese di posizione, necessariamente prima dando atto, però, del percorso normativo compiutosi negli anni.

E così, seguendo lo snodarsi motivazionale delle Sezioni unite, deve evidenziarsi che la versione originaria del d.P.R. n. 309 del 1990 era stata profondamente innovata dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, di conversione del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, che aveva apportato significativi mutamenti all’intera disciplina penale degli stupefacenti ed anche alla fattispecie attenuante prevista dall’art. 73, comma 5, con un intervento dall’elevato valore simbolico, funzionale a soddisfare la richiesta di tutela anticipata dei beni giuridici protetti dalla disciplina penale sugli stupefacenti, intesi in un’accezione che esorbita dal pur ampio concetto di “salute pubblica”, fino a ricomprendere – come sottolineato anche da Sez. U, n. 9973 del 24/6/1998, Kremi, Rv. 211073 – la sicurezza e l’ordine pubblico.

In tale logica si introdusse l’eliminazione generalizzata della tradizionale distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere” (risalente alla legislazione del 1975 e che l’intervento riformatore del 1990 aveva conservato), con equiparazione del loro trattamento sanzionatorio ed inserimento di tutte le sostanze non farmacologiche in un’unica tabella.

L’adozione del regime sanzionatorio unitario e non più differenziato per tipologie di stupefacenti si è accompagnato alla modifica delle disposizioni relative alla classificazione tabellare (in particolare, tra gli altri, gli artt. 13 e 14 T.U. STUP.) con una marcata semplificazione nella catalogazione delle sostanze psicoattive e la riduzione delle stesse tabelle da sei a due: la prima, appunto, contenente tutte le sostanze stupefacenti vietate, la seconda dedicata ai medicinali registrati in Italia e che contenessero sostanze stupefacenti per uso terapeutico.

Coerentemente all’eliminazione di qualsiasi distinzione sul piano punitivo tra sostanze di diverso tipo, l’unificazione del trattamento sanzionatorio tra droghe leggere e droghe pesanti era stata trasposta anche nell’ipotesi attenuata di cui al comma 5 dell’art. 73 e di conseguenza la comminatoria prevista per quest’ultima era stata ridefinita in un unico intervallo sanzionatorio compreso tra la reclusione da uno a sei anni e la multa da euro 3.000 ad euro 26.000.

La novella del 2006 non ha invece modificato le condizioni di configurabilità della fattispecie attenuata rispetto alla iniziale previsione del 1990, che costituiscono l’in se della fattispecie connotata da minore offensività.

Come noto, il giudice delle leggi ha successivamente dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter della legge n. 49 del 2006 per violazione dell’art. 77 Cost. (Corte cost., sent. n. 32 del 2014). Nel precisare gli effetti della declaratoria di incostituzionalità sull’impianto normativo, la stessa Consulta ha poi chiarito che, in considerazione della natura del vizio accertato, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate, dovevano trovare applicazione il testo dell’art. 73 t.u.s. e le tabelle vigenti prima delle modifiche apportate nel 2006, in quanto mai validamente abrogati.

Il comma 5 del citato art. 73 non è stato tuttavia interessato dall’intervento demolitorio del giudice delle leggi – come chiarito nella stessa sentenza n. 32 del 2014 e nella successiva pronunzia della Corte costituzionale n. 179 del 2017 – e ciò in quanto, poco prima della sua pronunzia, tale disposizione era stata nuovamente modificata dal decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10), che l’ha riformulata diminuendone la forbice sanzionatoria (cfr., Sez. 3, n. 11110 del 25/02/2014, Kiogwu, Rv. 258354; Sez. 6, n. 14288 del 08/01/2014, Cassanelli, Rv. 259058; Sez. 4, n. 10514 del 28/02/2014, Verderamo, Rv. 259360). Oltre a quella di attenuare il regime sanzionatorio previsto per la fattispecie di lieve entità, rimodulando in tal senso il massimo edittale della pena detentiva, ma tenendolo indifferenziato a prescindere dalla natura della sostanza oggetto materiale del fatto tipico, la dichiarata intenzione del legislatore – per come esplicitata anche nella relazione al disegno della legge di conversione presentato alla Camera dei Deputati e come espressa nello stesso art. 2 del decreto, che testualmente recita: «Modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. Delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità» – era quella di trasformare la stessa fattispecie da mera circostanza attenuante a figura autonoma di reato, al fine di sottrarla al giudizio di bilanciamento con eventuali aggravanti in funzione degli obiettivi dell’intervento normativo, teso alla riduzione controllata della popolazione carceraria. Ed in tal senso la legge di conversione del succitato decreto ha provveduto altresì a modificare la già menzionata lett. h) dell’art. 380 cod. proc. pen., sostituendo il riferimento alla “circostanza” prevista dal comma 5 dell’art. 73 T.U. STUP. con quello ai “delitti” contemplati dalla stessa disposizione, nonché l’art. 19, comma 5, d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, dove nel disciplinare le condizioni per l’applicabilità delle misure cautelari agli imputati minorenni, è stato inserito analogo riferimento.

Come accennato, il decreto-legge n. 146 del 2013 è stato adottato prima della più volte citata pronunzia della Corte costituzionale ed anche la legge di conversione non ha potuto tener conto della sentenza del giudice delle leggi, non ancora depositata, sicchè si è reso necessario un nuovo intervento legislativo, teso soprattutto a ridisegnare i cataloghi delle sostanze stupefacenti, giacché quelli fatti rivivere dal giudice delle leggi – e cioè quelli antecedenti alla riforma del 2006 – non comprendevano, inevitabilmente, le integrazioni sopravvenute negli anni successivi. A ciò si è provveduto con il decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36, la cui legge di conversione (16 maggio 2014, n. 79) ha, tra l’altro e per quanto qui di interesse, nuovamente sostituito il comma 5 dell’art. 73 T.U. stup.

In realtà l’unica modifica apportata al testo introdotto dal decreto-legge n. 146 del 2013 ha riguardato il trattamento sanzionatorio, nuovamente rimodulato in senso più favorevole entro la forbice edittale della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da 1.032 a 10.329 (e cioè la medesima comminatoria stabilita nel 1990 per l’attenuante nel caso il fatto di lieve entità avesse avuto ad oggetto le c.d. droghe “leggere”), avendo la novella nel resto riproposto l’apparente configurazione della fattispecie come titolo autonomo di reato, la previsione di una indifferenziata risposta sanzionatoria, a prescindere dal tipo di sostanza oggetto delle condotte incriminate, nonché i tradizionali parametri normativi fissati sin dalla legge n. 162 del 1990 per la qualificazione della lieve entità del fatto.

2.1. Il fatto di lieve entità configura una (nuova) ipotesi autonoma di reato.

Le Sezioni Unite, prendendo atto del quadro normativo ampiamente ripercorso, confermano anzitutto, con l’autorevolezza del massimo collegio di legittimità, quello che è stato, sin dalle prime interpretazioni successive al decreto legge del 2013, l’orientamento pacificamente espresso dalle Sezioni semplici in merito alla avvenuta trasformazione della fattispecie prevista dall’art. 73, comma 5, T.U. STUP. da circostanza attenuante in figura autonoma di reato (ex multis Sez. 3, n. 11110 del 25/02/2014, Kiogwu, cit.; Sez. 6, n. 5143 del 16/01/2014, Skiri Mourad, Rv. 258773; Sez. 6, n. 9892 del 28/01/2014, Bassetti, Rv. 259352; tra le più recenti: Sez. 4, n. 36078 del 06/07/2017, Dubini, Rv. 270806; Sez. 4, n. 30238 del 10/05/2017, Tontini, Rv. 270190), ripercorrendo i plurimi indici “esterni” che depongono nel senso dell’avvenuta riqualificazione della fattispecie di lieve entità.

Dalla volontà espressa dal legislatore storico, per come manifestatasi nel corso dei lavori preparatori della legge n. 10 del 2014, alla intitolazione della disposizione che ha provveduto alla riconfigurazione della norma (l’art. 2 del decreto-legge n. 146 del 2013) ed alle modifiche apportate all’art. 380 cod. proc. pen. ed all’art. 19 d.P.R. n. 448 del 1988 con la legge di conversione. In tal senso particolarmente significativa deve ritenersi proprio la modifica apportata alla lett. h) del citato art. 380 del codice di rito.

Indicatori altrettanto convincenti dell’avvenuta mutazione genetica della fattispecie si traggono, secondo le Sezioni Unite anche dalle modifiche apportate nel testo della norma; innanzitutto il ricorso alla locuzione «chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo» in sostituzione della previgente «quando.....i fatti previsti dal presente articolo», rivela l’adozione di scelte lessicali tradizionalmente riservate alla configurazione di una autonoma figura di reato; in secondo luogo, l’introduzione nell’incipit del testo normativo di una espressa clausola di riserva relativamente indeterminata («Salvo che il fatto costituisca più grave reato») è chiaramente scelta incompatibile con l’intenzione di conservare la qualificazione circostanziale, evidenziando invece in maniera inequivocabile la volontà di prevedere una figura delittuosa autonoma.

È interessante riportare anche l’osservazione svolta in motivazione nella sentenza delle Sezioni Unite proprio con riferimento a tale clausola di riserva ed al suo significato: la fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 73, comma 5, T.U. stup., così come ridefinita da ultimo dalla legge n. 79 del 2014, concorre con ognuna di quelle previste dai primi quattro commi dello stesso art. – come configurate precedentemente all’intervento della legge n. 49 del 2006, in quanto fatte rivivere dal giudice delle leggi con la citata sentenza n. 32 del 2014 – nel punire i medesimi fatti descritti da questi ultimi e che la stessa espressamente richiama.

A giudizio delle Sezioni Unite ci si trova dinanzi ad un caso di concorso solo apparente di norme incriminatrici, posto che il suddetto comma 5, isolando attraverso i ricordati parametri una specifica classe di fatti (quelli comunque tipici, ma di lieve entità), si pone in rapporto di specialità unilaterale con le altre disposizioni menzionate, essendo indiscutibile che, qualora dovesse venire meno, i medesimi fatti tornerebbero a ricadere nell’ambito di incriminazione di queste ultime.

Tale constatazione genera qualche perplessità in relazione all’introduzione della menzionata clausola di riserva espressa, che le Sezioni Unite superano constatando come i criteri di specializzazione e sussidiarietà operano entrambi secondo un obiettivo unico del legislatore: ricondurre una determinata fattispecie esclusivamente alla previsione che meglio ne esaurisce il disvalore.

Attraverso la specializzazione viene però selezionata la reazione punitiva più conforme, individuando la norma che risulta meglio aderente alla fattispecie concreta dal punto di vista genuinamente strutturale, sul presupposto implicito che quanto più la valutazione normativa tiene conto dei caratteri distintivi di un determinato fatto, tanto più si presta a rispecchiarne, per l’appunto, l’effettivo disvalore. Il che consente di ritenere che, qualora il legislatore, nel configurare una fattispecie come speciale rispetto ad altre più gravi, preveda altresì una clausola di riserva del tipo indicato, intenda far operare i due criteri su piani distinti ovvero sottrarre la relazione di specialità all’ambito di operatività della clausola di riserva. Una interpretazione della norma rispettosa del contesto normativo in cui si inserisce e delle sue ragioni storiche porta, dunque, a concludere che la suddetta clausola sia stata introdotta – enfatizzando al contempo la scelta operata di configurare un titolo autonomo di reato – per disciplinare l’eventuale o futuro concorso con altre fattispecie più gravi, ma diverse da quelle contenute nell’art. 73 t.u.s., con le quali già si instaura una relazione di genere a specie.

2.2. L’immutata declinazione dei parametri funzionali all’individuazione del fatto di lieve entità.

Le Sezioni unite, una volta stabilita la natura di figura autonoma di reato della nuova fattispecie prevista dal comma quinto dell’art. 73 t.u.s. nel testo riformulato dagli ultimi interventi normativi degli anni 2013/2014, chiariscono un’altra circostanza essenziale nella sua disciplina interpretativa: in tutte le versioni succedutesi nei suoi quasi trent’anni di vita, non è mai mutata, nel testo della citata disposizione, la descrizione dell’elemento specializzante ed in particolare dei parametri funzionali all’individuazione dei fatti di lieve entità (in senso conforme, Sez. 4, n. 15020 del 29/01/2014, Bushi, Rv. 259353 e Sez. 6, n. 9892 del 28/01/2014, Bassetti, Rv. 259352; Sez. 3, n. 27064 del 19/03/2014, Fontana, Rv. 259664).

Le Sezioni unite, quindi, ritengono che, nella trasformazione da attenuante ad effetto speciale a titolo autonomo di reato, la fattispecie di lieve entità abbia conservato la sua funzione di individuare quei fatti che si caratterizzano per una ridotta offensività, allo scopo di sottrarli al severo regime sanzionatorio previsto dalle altre norme incriminatrici contenute nell’art. 73 T.U. stup. (ed al cui ambito applicativo gli stessi fatti sarebbero altrimenti riconducibili), nella prospettiva di rendere il sistema repressivo in materia di stupefacenti maggiormente rispondente ai principi sanciti dall’art. 27 della Costituzione.

Rimangono, pertanto, attuali anche nella visione delle Sezioni unite Murolo i principi affermati in precedenti arresti del Supremo Collegio ai quali la sentenza del 2018 si richiama (Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico, Rv. 247911 e Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216668), ripetutamente evocati dalle decisioni che hanno alimentato il contrasto e secondo cui, per l’appunto, la lieve entità del fatto può essere riconosciuta solo in ipotesi di «minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio».

In proposito, la motivazione della decisione in esame puntualizza come la sentenza Primavera si sia sostanzialmente limitata a richiamare i suindicati principi, recependo in tal senso quello che ha rilevato essere un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in merito alle condizioni di operatività del comma 5 dell’art. 73 e ritenendo conseguentemente adeguata la motivazione con la quale il giudice del merito aveva escluso, nel caso di specie, la configurabilità dell’allora attenuante speciale in ragione del valore ponderale dello stupefacente detenuto e del consolidato contesto illecito in cui il reato era stato commesso.

Nella sentenza Rico, d’altro canto, le Sezioni unite, nel ribadire i principi sopra ricordati per dirimere il contrasto giurisprudenziale relativo alla compatibilità tra l’aggravante della cessione di stupefacenti a minore e l’attenuante della lieve entità, hanno ritenuto opportuno precisare come tale ultima questione «non possa essere risolta in astratto, stabilendo incompatibilità in via di principio, ma deve trovare soluzione caso per caso, con valutazione che di volta in volta tenga conto di tutte le specifiche e concrete circostanze», evidenziandosi come la funzione assegnata alla fattispecie di lieve entità sia proprio quella di adeguare il trattamento sanzionatorio alla concretezza della fattispecie, al fine di garantire la ragionevolezza della risposta repressiva in materia di stupefacenti.

Entrambe le sentenze citate, tuttavia, si limitano a recepire, enunciandola, la giurisprudenza “vivente” e consolidata in materia di giudizio di verifica dei caratteri della lieve entità del fatto, mentre le Sezioni unite, nel 2018, indicano compiutamente – e se ne sentiva il bisogno a fini di chiarezza – la corretta e definitiva interpretazione della valutazione dei parametri di configurabilità della fattispecie di lieve entità, sciogliendo, in tal modo, anche il nodo controverso rimesso al loro giudizio.

2.3. La differente tipologia di stupefacente non costituisce un “indice negativo assorbente” rispetto al fatto di lieve entità: le Sezioni Unite e la tesi della valutazione complessiva dei parametri normativi previsti dal comma quinto dell’art. 73 t.u.s..

La sentenza del massimo collegio del 2018 rappresenta un arresto fondamentale per la chiarezza e la modernità dell’interpretazione proposta.

Partendo dalla ricostruzione storica della giurisprudenza in materia e dal superamento già in epoca risalente di alcune letture particolarmente restrittive del disposto normativo, manifestatesi soprattutto nei primi anni della sua applicazione (secondo cui il giudizio di lieve entità dovrebbe scaturire dal positivo apprezzamento di ciascuno degli elementi indicati dalla legge, con la conseguenza che l’ipotesi di minore offensività non ricorrerebbe quando uno soltanto degli stessi venga considerato negativo: Sez. 4, n. 10783 del 03/07/1991, Del Signore, Rv. 188577; Sez. 6, n. 9528 del 09/05/1991, Recupero, Rv. 188192; Sez. 6, n. 1183 del 05/01/1999, Touria, Rv. 213321), le Sezioni Unite adottano il percorso interpretativo, che ritengono più consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui la verifica della configurabilità del fatto di lieve entità in materia di stupefacenti è il frutto di una valutazione complessiva degli elementi fattuali selezionati dalla norma di cui al comma quinto dell’art. 73 t.u.s..

La sentenza Murolo sottolinea come in realtà un simile risultato interpretativo si era evidenziato già all’indomani della riforma operata dalla legge n. 162 del 1990 e della successiva entrata in vigore del testo unico sugli stupefacenti, in una pronunzia delle stesse Sezioni unite, forse sottovalutata sino ad oggi, le quali avevano avuto modo di sottolineare – seppure in maniera sintetica ed assertiva – come gli indici qualificanti la lieve entità debbano essere, per l’appunto, «valutati globalmente» (Sez. U, n. 9148 del 31/05/1991, Parisi, Rv. 187931).

Questa lettura del dato normativo è stata tramandata dalle sentenze Primavera e Rico (oltre che dalle pronunzie che si riconoscono nel secondo degli orientamenti in contrasto) ed è quella più corretta anche secondo il massimo collegio nomofilattico del 2018.

Diversamente che dalle precedenti sentenze, tuttavia, le Sezioni unite Murolo approfondiscono decisamente le ragioni sulla base delle quali la soluzione interpretativa della valutazione complessiva è quella da preferire.

Anzitutto, essa si rivela come la più aderente al dettato normativo, posto che il comma 5 dell’art. 73 elenca in maniera indistinta i diversi indicatori selezionati (limitandosi a raggrupparli a seconda che essi si riferiscano alla condotta od all’oggetto materiale del reato), astenendosi dallo stabilire un ordine gerarchico tra gli stessi o anche solo dall’attribuire ad alcuni un maggiore valore sintomatico (del resto, neppure il testo normativo autorizza interpretazioni che ne restringano l’ambito di operatività in relazione alla diversa natura dell’oggetto materiale del reato, potendosi anzi trarre dal riferimento alla quantità e qualità “delle sostanze” – termine per l’appunto declinato al plurale – un valido argomento nel senso contrario: cfr. in tal senso alcune pronunzie riconducibili all’indirizzo condiviso dalle Sezioni unite, tra le quali Sez. 6, n. 46495 del 19/09/2017, Rachadi, cit. e Sez. 6, n. 29132 del 09/05/2017, Merli, cit.).

Inoltre, la disposizione citata condiziona la determinazione della lieve entità del fatto proprio su di una pluralità di elementi sintomatici, differenziandosi, ad esempio, dalla scelta compiuta dallo stesso legislatore nella individuazione della fattispecie di eccezionale rilevanza penale di cui al secondo comma dell’art. 80 t.u.s. (cfr., Sez. U, n. 36258 del 24/05/2012, Biondi, Rv. 253150), dove un singolo parametro (quello ponderale) è stato invece ritenuto di per sé sufficiente ad esprimere il maggiore (in questo caso) disvalore del fatto.

Ancora, le Sezioni unite ritengono che la soluzione prescelta sia anche quella che meglio corrisponde alla già ricordata ratio che ha ispirato la introduzione della fattispecie di lieve entità, e cioè rendere la risposta repressiva in materia di stupefacenti compatibile con i principi di offensività e proporzionalità, nella consapevolezza del carattere variegato e mutante del fenomeno criminale cui si rivolge.

È questo il prisma interpretativo in cui trova la sua immagine più vera la struttura normativa dell’art. 73, comma 5, t.u.s.: si chiede all’interprete, sin dal momento della sua qualificazione giuridica, di valutare la minore offensività del fatto, considerandolo nella sua concreta singolarità (e cioè effettiva consistenza lesiva) mediante la globale valutazione di tutti i dati sintomatici descritti dalla norma e delle relazioni intercorrenti tra i medesimi.

Se la valutazione deve essere complessiva, non può esservi spazio per l’idea che uno solo degli indici normativi, prescindendo dagli altri, possa determinare o meno la configurabilità della fattispecie; al tempo stesso, tali indici non devono avere tutti indistintamente segno positivo o negativo: è possibile, infatti, immaginare che tra gli stessi si instaurino rapporti di compensazione e neutralizzazione in grado di consentire un giudizio unitario sulla concreta offensività del fatto anche quando le circostanze che lo caratterizzano risultano prima facie contraddittorie in tal senso, come del resto già era stato in passato sostenuto in alcuni arresti delle Sezioni semplici (cfr., Sez. 6, n. 167 del 23/01/1992, Chorki Bouzhaiem, Rv. 189462; Sez. 4, n. 8954 del 11/05/1992, Bondi, Rv. 191643, la quale, ad esempio, ha sottolineato come la lieve entità del fatto possa essere riconosciuta anche in presenza di una non modica quantità di droga, qualora la concreta modalità e la circostanza della condotta ne ridimensionino la rilevanza penale).

Tale modalità di giudizio sul fatto di lieve entità, d’altra parte, secondo le Sezioni Unite del 2018, non smentisce le affermazioni delle precedenti pronunce del massimo collegio nomofilattico, relative alla possibilità che, a volte, in concreto, all’esito della citata valutazione globale di tutti gli indici che determinano il profilo tipico del fatto di lieve entità, uno di essi assuma valore assorbente e cioè che la sua intrinseca espressività sia tale da non poter essere compensata da quella di segno eventualmente opposto di uno o più degli altri.

Ciò che si sottolinea è la necessità che una tale statuizione costituisca l’approdo della valutazione complessiva di tutte le circostanze del fatto rilevanti per stabilire la sua entità alla luce dei criteri normativizzati e non già il suo presupposto, come invece propone la tesi che vede nella differente tipologia di sostanze stupefacenti una condizione di non configurabilità in astratto (o, per dire diversamente, “in assoluto”) del fatto di lieve entità, conferendo a tale circostanza un aprioristico – ed in quanto tale inaccettabile – significato negativo assorbente.

In forza di tale impostazione è escluso che una singola circostanza possa assumere a priori ed in astratto carattere ostativo alla qualificazione del fatto come di lieve entità, dovendo emergere, come detto, una siffatta conclusione dalla valutazione complessiva dello stesso e dalla riscontrata incapacità degli altri indici selezionati dal comma 5 dell’art. 73 di neutralizzarne la carica negativa.

Le Sezioni unite sottolineano, altresì, l’importanza dello snodo motivazionale: il percorso di valutazione complessiva dei parametri della fattispecie di lieve entità deve riflettersi nella motivazione della decisione, dovendo il giudice dimostrare di avere vagliato tutti gli aspetti normativamente rilevanti e spiegare le ragioni della ritenuta prevalenza eventualmente riservata a solo alcuni di essi.

Il che significa che il discorso giustificativo deve dar conto non solo dei motivi che logicamente impongono nel caso concreto di valutare un singolo dato ostativo al riconoscimento del più contenuto disvalore del fatto, ma altresì di quelli per cui la sua carica negativa non può ritenersi bilanciata da altri elementi eventualmente indicativi, se singolarmente considerati, della sua ridotta offensività.

Come si vede, le Sezioni unite conducono per mano – è il caso di dire – l’interprete verso un’interpretazione coerente e logica della disciplina del comma quinto dell’art. 73 t.u.s., offrendogli un vero e proprio “canale ermeneutico” in cui far scorrere gli imponderabili rivoli delle innumerevoli fattispecie concrete che di volta in volta si troverà ad affrontare.

Non è un caso se, in chiusura della parte motivazionale in esame, la sentenza si preoccupa di insistere sul dato ponderale, definito, con indubbio realismo, “quello che più spesso assume un ruolo centrale nell’apprezzamento giudiziale”: anche la maggiore o minore espressività del dato quantitativo, infatti, deve essere determinata in concreto, nel confronto con le altre circostanze del fatto rilevanti secondo i parametri normativi di riferimento.

In altre parole, sottolineano le Sezioni unite, se resta ferma la possibilità che, nel rispetto delle condizioni illustrate, il dato ponderale possa assumere comunque valore negativo assorbente, tuttavia, anche la detenzione di quantitativi non minimali potrà essere ritenuta non ostativa alla qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 73, comma 5, e, per converso, quella di pochi grammi di stupefacente, all’esito della valutazione complessiva delle altre circostanze rilevanti, può risultare non decisiva per ritenere integrata la fattispecie di lieve entità.

Allo stesso modo, pur non avendo aprioristico valore negativo assorbente la circostanza che la condotta abbia ad oggetto differenti tipologie di sostanza stupefacente, non è escluso che, all’esito di una valutazione complessiva del fatto, guidata dai criteri interpretativi delle Sezioni unite, il dato fattuale in questione possa assumere valenza negativa.

È l’apoteosi dell’ermeneutica applicata al fatto: la disciplina del comma quinto dell’art. 73 t.u.s. non può prescindere in nessun momento – neppure in fase interpretativa e di analisi normativa – dalla valutazione concreta del bilanciamento complessivo di tutti gli indici di configurabilità indicati dalla norma.

2.4. La differente tipologia di sostanze stupefacenti rientra nell’indice normativo delle “modalità dell’azione”.

È interessante osservare – continuando nell’analisi di una sentenza particolarmente ricca di aspetti di rilievo interpretativo – che le Sezioni unite Murolo inseriscono l’indice controverso della differente tipologia di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non già nel parametro normativo della “qualità”, ma in quello delle “modalità dell’azione” evocate dalla disposizione di cui al comma quinto dell’art. 73 t.u.s..

In proposito, peraltro, la sentenza evidenzia che costituisce una mera petizione di principio ritenere – come fa la tesi non condivisa dal supremo collegio nomofilattico – che la detenzione di diverse sostanze sarebbe espressione di un più significativo inserimento dell’agente nell’ambiente criminale dedito al traffico di stupefacenti ed esporrebbe l’interesse tutelato ad un più accentuato pericolo di lesione, essendo, invece, sovente rilevabili dall’esperienza giudiziaria casi in cui il possesso contestuale di differenti tipi di stupefacente è aspetto sostanzialmente neutro.

3. Le questioni risolte in tema di concorso di reati e la valorizzazione della natura indifferenziata del trattamento sanzionatorio per l’ipotesi di lieve entità.

Si è già anticipato che la questione sottoposta alle Sezioni unite in realtà non era limitata alla, pur ampia, vicenda dell’interazione dei parametri di configurabilità della fattispecie, particolarmente a quello della differente tipologia di sostanze oggetto della condotta.

E difatti, una volta adottata la soluzione secondo cui la diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non è di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, in quanto l’accertamento della lieve entità del fatto implica una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta, selezionati in relazione a tutti gli indici sintomatici previsti dalla disposizione, le Sezioni Unite hanno esaminato gli aspetti di concorso di reati conseguenti.

Ed anzitutto si è svolta una importante affermazione di ordine generale: la nozione legale di stupefacente – ancorata al sistema tabellare normativamente configurato, il quale concorre a definire l’ambito di tipicità delle diverse disposizioni incriminatrici (cfr., Sez. U, n. 9973 del 24/06/1998, Kremi, Rv. 211073; Sez. U, n. 29316 del 26/02/2015, De Costanzo, Rv. 264263) – implica, nell’impostazione del legislatore, che condotte aventi ad oggetto sostanze inserite in tabelle differenti costituiscano reati diversi, eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione.

Tale soluzione venne adottata dopo l’entrata in vigore del d.P.R. n. 309 del 1990, a regime tabellare differenziato (sicchè, nel caso di simultanea detenzione di sostanze differenti inserite nelle tabelle 1 e 3 ed in quelle 2 e 4 dell’art. 14, si ritenne non configurabile un concorso apparente di norme incriminatrici, bensì un’ipotesi di concorso tra i reati previsti, rispettivamente, dai commi 1 e 4 dell’art. 73, da ritenersi eventualmente avvinti sotto il vincolo della continuazione là dove ne ricorressero i presupposti: cfr., tra le tante, Sez. 6, n. 35637 del 16/04/2003, Poppi, Rv. 226649; Sez. 4, n. 3208 del 21/02/1997, Buttazzo, Rv. 207879), ed è stata riproposta successivamente all’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 2014 che ha fatto rivivere il sistema tabellare differenziato, abrogato dalla legge n. 49 del 2006 (cfr. le sentenze Sez. 4, n. 43432 del 07/10/2015, Rodriguez, Rv. 264778; Sez. 1, n. 885 del 04/11/2015, dep. 2016, Codebò, Rv. 265719; Sez. 4, n. 43464 del 01/07/2014, Lombardo, Rv. 260731; Sez. 4, n. 44808 del 26/09/2014, Madani, Rv. 260735; Sez. 6, n. 24376 del 06/03/2014, Cordone, Rv. 259154).

Per converso, la singola condotta avente ad oggetto sostanze iscritte nella medesima tabella o nel medesimo gruppo omogeneo di tabelle integra comunque un unico fatto di reato (ex multis, Sez. 6, n. 12153 del 10/10/1994, Napoli, Rv. 200068). E tale orientamento venne ribadito nel vigore della legge n. 49 del 2006 poi dichiarata incostituzionale: la contestuale detenzione di sostanze eterogenee, tuttavia inserite nella medesima ed unica tabella normativa di catalogazione, in virtù dell’adozione del regime sanzionatorio indifferenziato, non integrava una pluralità di illeciti, bensì un unico reato (Sez. 6, n. 1735 del 20/12/2007, dep. 2008, Tawali, Rv. 238391; Sez. 4, n. 37993 del 09/07/2008, Isoni, Rv. 241060; Sez. 6, n. 34789 del 21/04/2008, Castioni, Rv. 241375; Sez. 4, n. 42485 del 17/07/2009, Manganiello, Rv. 245458; Sez. 6, n. 10613 del 11/02/2014, Franzoni, Rv. 259356).

Le Sezioni unite del 2018 adottano tale impostazione generale, svolgendo anche alcune precisazioni di rilievo.

Nella formulazione fatta rivivere dal giudice delle leggi (cfr., Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205) e successivamente integrata dagli interventi legislativi del 2013 e del 2014, l’art. 73 t.u.s. si atteggia a norma mista cumulativa e cioè a disposizione che prevede più norme incriminatrici autonome cui corrispondono distinte fattispecie di reato.

Ognuno dei primi cinque commi contiene invece una norma a più fattispecie, atteso che negli stessi vengono tipizzate modalità alternative di realizzazione di un medesimo reato, come pacificamente riconosciuto dalla consolidata giurisprudenza di legittimità che esclude la configurabilità di una pluralità di reati nel caso di realizzazione da parte dello stesso agente, nel medesimo contesto e con riguardo allo stesso oggetto materiale, di più condotte tra quelle descritte dalle singole disposizioni (in questo senso tra le più recenti, anche successive ai rivolgimenti che hanno interessato l’art. 73, Sez. 6, n. 9477 del 11/12/2009 – dep. 2010 –, Pintori, Rv. 246404; Sez. 3, n. 7404 del 15/01/2015, Righetti, Rv. 262421; Sez. 6, n. 22549 del 28/03/2017, Ghitti, Rv. 270266).

La previsione di autonome norme incriminatrici non esclude, peraltro, che sussistano rapporti di potenziale interferenza tra alcune di esse, riconducibili al fenomeno del concorso apparente; rapporti di interferenza che si risolvono tendenzialmente ricorrendo al principio di specialità.

Ciò vale, secondo le Sezioni unite, sia per i rapporti tra la norma prevista dal comma 5 dell’art. 73 t.u.s. e quelle contenute nei commi precedenti, sia con riguardo alle fattispecie tipizzate dai commi 2 e 3, evidentemente speciali rispetto a quelle previste dai commi 1 e 4.

Quanto ai rapporti tra queste due ultime disposizioni, esse non sono sovrapponibili – pur nell’identità delle condotte che ne integrano l’elemento oggettivo – in ragione della già illustrata impostazione di ordine generale attinenti alla nozione legale di stupefacente e della diversa specificazione dell’oggetto materiale che le caratterizza reciprocamente (droghe pesanti e droghe leggere, inserite in tabelle classificatorie differenti).

Il differente oggetto materiale tra le due fattispecie, che ne determina la differenza strutturale, comporta che il concorso tra le due norme sia sempre reale, anche nel caso in cui le stesse vengano contestualmente realizzate attraverso un’unica condotta, sicchè i loro rapporti devono essere sempre ricondotti al fenomeno del concorso di reati.

Le Sezioni Unite concordano con tale impostazione unanime delle Sezioni semplici e, tuttavia, sottolineano come spesso l’ipotesi di condotte consumate in un contesto unitario, avente ad oggetto sostanze tabellarmente eterogenee, sia stata troppo sbrigativamente ricondotta esclusivamente alla disciplina del reato continuato, senza procedere ad un corretto inquadramento del fatto per come concretamente manifestatosi.

In proposito, invece, le Sezioni unite condividono l’opzione di alcune recenti pronunzie (v., per tutte, Sez. 4, n. 38125 del 05/06/2014, Marletta, Rv. 260729), secondo cui, nel caso in cui la condotta si riveli unica, il concorso di reati deve essere qualificato come formale, trovando conseguentemente la sua disciplina nella previsione di cui all’art. 81, primo comma, cod. pen., senza che debba essere acquisita pertanto la prova di un disegno criminoso unitario al fine di applicare il cumulo giuridico sanzionatorio stabilito dalla richiamata disposizione, giacché questo è sostanzialmente presunto dalla disposizione citata.

Qualora, per converso, siano enucleabili condotte distinte riferibili alle diverse tipologie di stupefacente, sarà ovviamente compito del giudice stabilire se sussistano o meno i presupposti per ricondurre il concorso materiale dei reati alla disciplina del reato continuato.

Le Sezioni Unite passano, quindi, a comporre il complesso quadro di rapporti tra i reati previsti dai commi 1 e 4 dell’art. 73 t.u.s. e quello di cui al comma 5 del medesimo articolo, tema che costituisce la seconda parte del quesito loro rimesso dalla Terza Sezione Penale.

Tentando una schematizzazione, a fini di maggior chiarezza nella ricostruzione, possono enuclearsi diverse ipotesi analizzate dalle Sezioni Unite:

a) condotte consumate in contesti diversi e che non abbiano ad oggetto il medesimo quantitativo di stupefacente od una sua partizione realizzano fatti autonomi; qualora uno degli stessi possa essere qualificato di lieve entità, i reati rispettivamente integrati concorrono e, sussistendone i presupposti, possono essere unificati dal vincolo della continuazione, anche a prescindere dalla omogeneità od eterogeneità delle sostanze che ne costituiscono l’oggetto.

b) condotte consumate in un unico contesto ed in riferimento al medesimo oggetto materiale (naturalisticamente inteso), anche se in tempi diversi, integrano un unico fatto di reato, attesa la natura di norme miste alternative di quelle contenute nei commi 1 e 4 dell’art. 73 t.u.s. La loro eventuale convergenza con la disposizione del comma 5 sull’unico fatto configurabile determina poi un concorso apparente tra norme incriminatrici che deve essere risolto in favore di quest’ultimo qualora il fatto medesimo venga ritenuto di lieve entità;

c) condotte commesse unitariamente ma in relazione ad un oggetto materiale differente e costituito da sostanze diverse poichè tabellarmente eterogenee.

Quest’ultima ipotesi rappresenta proprio quella controversa ed oggetto della fattispecie decisa dalle Sezioni Unite, in relazione alla quale la Terza Sezione Penale, nella sua ordinanza di rimessione, ipotizzava la possibilità di configurare il concorso formale tra reati, uno dei quali eventualmente qualificabile ai sensi del menzionato art. 73, comma 5, cit.; in altre parole l’ordinanza di rimessione riteneva possibile valutare la lieve entità di una parte del “fatto” prescindendo dall’altra ovvero dalla loro contestualità.

Le Sezioni unite fanno notare come tale impostazione sia stata apparentemente ripresa anche da una recente sentenza (Sez. 4, n. 40294 del 05/06/2018, Schiraldi), secondo cui, a seguito del ripristino ad opera del giudice delle leggi della originaria dicotomia nei commi 1 e 4 dell’art. 73 tra l’incriminazione delle condotte relative alle droghe c.d. “pesanti” e quelle ad oggetto le droghe c.d. “leggere”, la stessa sarebbe riproposta anche nel successivo comma 5 (come riformulato nel 2013 e nel 2014) attraverso il richiamo ai “fatti previsti dal presente articolo” e ciò imporrebbe «una valutazione separata delle singole condotte connotate dal peculiare e diverso oggetto materiale».

Ebbene, le Sezioni unite non condividono tali esiti interpretativi, in parte contraddittori rispetto all’impostazione generale adottata nella lettura del comma quinto dell’art. 73 t.u.s. che deve essere frutto di una valutazione complessiva condotta utilizzando tutti gli indicatori selezionati da tale disposizione.

Secondo il massimo collegio di legittimità, nel caso in cui sostanze tabellarmente eterogenee siano oggetto di una condotta che deve essere valutata unitariamente ai fini della verifica circa la configurabilità o meno della fattispecie prevista dal comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, non è possibile ritenere la lieve entità solo di una parte del fatto, prescindendo dall’altra ovvero dalla loro contestualità.

Invero, la Corte ha precisato che l’esito più frequente di tale valutazione sarà quello di ritenere nel suo complesso una fattispecie concreta interamente sussumibile o non nell’ipotesi di lieve entità (pur se, in astratto, le Sezioni Unite non hanno escluso del tutto l’ipotesi di scissione della qualificazione giuridica del fatto, con le relative conseguenze in termini di concorso o continuazione tra reati, con una annotazione che sembra dettata probabilmente dall’ottica generale della sentenza di valorizzare le innumerevoli possibilità di interazione tra le fattispecie previste dall’art. 73 t.u.s. in ragione delle infinite varietà di accadimenti concreti prospettabili).

Inoltre, con affermazione inedita e di estremo rilievo, le Sezioni unite Murolo hanno stabilito che l’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 – così come riformulato dal decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36 (conv. con modificazioni dalla legge 16 maggio 2014, n. 79) – prevede un’unica figura di reato, alternativamente integrata dalla consumazione di una delle condotte tipizzate, quale che sia la classificazione tabellare dello stupefacente che ne costituisce l’oggetto, sicchè la detenzione nel medesimo contesto di sostanze stupefacenti tabellarmente eterogenee, qualora sia qualificabile nel suo complesso come fatto di lieve entità, integra un unico reato e non una pluralità di reati in concorso tra loro (cfr. Rv. 274076-02).

La sentenza respinge, pertanto, l’impostazione – implicita nell’ordinanza di rimessione della Terza Sezione Penale ed esplicitata nella sentenza n. 40294 del 2018 – secondo cui la detenzione contestuale di diverse tipologie di stupefacente comunque riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, t.u.s. darebbe luogo (o potrebbe dar luogo) ad una pluralità di reati in concorso formale (o in continuazione) tra loro, per la natura di “norma mista cumulativa” di tale disposizione, che avrebbe inglobato in maniera simmetrica la dicotomia delle incriminazioni previste dal primo e quarto comma dello stesso art. attraverso il rinvio ai “fatti” ivi previsti, prevedendo pertanto due autonome fattispecie incriminatrici.

Ed infatti, correttamente e condivisibilmente, le Sezioni unite – citando anche un recente filone interpretativo formatosi all’interno della giurisprudenza di legittimità, al quale intendono dare continuità, ancorché con alcune precisazioni (cfr., Sez. 4, n. 36078 del 06/07/2017, Dubini, Rv. 270806; Sez. 3, n. 22398 del 26/01/2018, Allali, Rv. 272997) – rammentano che il vigente comma 5 dell’art. 73 prevede un trattamento sanzionatorio unico ed indifferenziato in relazione alla tipologia di stupefacente oggetto delle condotte incriminate in maniera autonoma dagli altri commi della suddetta disposizione.

E tale impostazione sanzionatoria indifferenziata non può essere frutto di una incongruenza tra la precedente matrice normativa del comma quinto, legata alla legge n. 49 del 2006, e la dichiarazione di incostituzionalità che non ha toccato l’intervento del d.l. n. 146 del 2013, poiché non può trascurarsi che il decreto-legge n. 36 del 2014 – fonte ultima del testo vigente della disposizione – sia intervenuto successivamente alla più volte citata pronunzia della Corte Costituzionale e, dunque, nella piena consapevolezza della riviviscenza dell’originario testo dei commi 1 e 4 dell’art. 73.

Alla luce di tale elemento normativo fondamentale, dunque, deve ritenersi che il legislatore ha inteso consapevolmente e volutamente confermare l’opzione per il regime sanzionatorio indifferenziato, senza distinguere ciò che invece le altre norme incriminatrici richiamate dallo stesso comma 5 distinguono e senza operare riferimento alcuno alla diversa classificazione delle sostanze.

Tale conclusione è ancor più avvalorata – secondo le Sezioni unite – dal fatto che l’intervento legislativo del 2014 ha ridimensionato ulteriormente la comminatoria di pena introdotta solo l’anno precedente, riproponendo gli esatti limiti edittali previsti nel 1990 per quella che allora era la fattispecie attenuante relativa alle droghe c.d. “leggere”.

È la stessa formulazione della disposizione in esame che impedisce, dunque, di ritenere che essa preveda distinte e differenziate ipotesi di reato in ragione della classificazione tabellare della sostanza oggetto delle condotte incriminate, tanto più che la stessa elevazione della fattispecie ad incriminazione autonoma e la scelta di livellare il trattamento sanzionatorio nel senso indicato rivelano l’intenzione del legislatore di considerare comunque il fatto, se di lieve entità, in maniera unitaria, anche quando ha ad oggetto sostanze eterogenee.

Una scelta che acutamente le Sezioni unite sottolineano essere coerente al concreto disvalore di un fatto che viene considerato “lieve” alla luce di una pluralità di parametri, la cui valutazione positiva ha già evidentemente consentito di non attribuire (in astratto, dal punto di vista della struttura normativa) alla presenza di sostanze di natura diversa un significato particolarmente rilevante.

Dunque, il comma 5 dell’art. 73 prevede un’unica fattispecie incriminatrice, cui consegue la configurabilità di un unico reato anche quando nel medesimo contesto la condotta realizzata abbia ad oggetto sostanze tabellarmente eterogenee.

In sintesi, le Sezioni Unite conferiscono dignità sistematica a quella che da molti commentatori è stata ritenuta una aporia del sistema normativo e sanzionatorio in tema di stupefacenti, per la differenziazione e la distanza esistenti tra l’ipotesi di lieve entità e le diverse fattispecie di reato previste dagli altri commi dell’art. 73 t.u.s.

Il comma quinto della citata norma assurge ancor più al ruolo di perno centrale di un’interpretazione costituzionalmente orientata del disvalore dei fatti di reato previsti dal testo unico in materia di stupefacenti: in concreto, la valorizzazione della volontà legislativa di tenere distinti il trattamento sanzionatorio dell’ipotesi di lieve entità e la sua struttura indifferenziata riduce anche le perplessità sistematiche che avevano portato a sollevare in più occasioni questioni di legittimità costituzionale in relazione al rapporto tra il comma quinto e gli ulteriori reati previsti dall’art. 73 cit., conferendo nuova logicità al tenore di una disciplina della lieve entità del fatto che si propone come una vera e propria norma adeguatrice del trattamento sanzionatorio alla concretezza della fattispecie e una disposizione di garanzia della ragionevolezza della risposta repressiva in materia di stupefacenti.

4. La soluzione del caso concreto sottoposto alle Sezioni unite: un esempio pratico di corretta applicazione dei nuovi principi affermati.

La miglior riprova della coerenza con la quale i principi affermati dalle Sezioni unite si risolvono nella regolamentazione dei casi concreti è rappresentata proprio dall’analisi della decisione del massimo collegio nomofilattico nella fattispecie ad esso sottoposta.

L’imputato era stato ritenuto responsabile della detenzione: a) di gr. 316,1 di marijuana, contenenti gr. 64,1 di principio attivo; b) di gr. 190,6 di hashish, contenenti gr. 25,9 di principio attivo; c) di gr. 9,2803 di cocaina, contenenti gr. 4,38 di principio attivo.

La Corte territoriale aveva escluso la minima offensività del fatto e, dunque, la invocata configurabilità dell’ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per alcune ragioni espressamente indicate: lo spaccio delle diverse sostanze avveniva in prossimità di un bar ed era attuato mediante una seppure rudimentale organizzazione. L’imputato deteneva le diverse sostanze stupefacenti all’interno della propria autovettura parcheggiata a pochi metri di distanza dal bar ove si trovava al momento del controllo da parte degli operanti ed al cui interno questi ultimi rinvenivano anche materiale normalmente utilizzato per il confezionamento della droga (1.000 pellicole trasparenti a chiusura ermetica, due scatole di punti per cucitrice, una spillatrice, cinque bilancini di precisione perfettamente funzionanti).

Il Collegio rimettente aveva sottolineato come la sentenza di primo grado avesse escluso la configurabilità dell’ipotesi di lieve entità, valorizzando la diversa tipologia e quantità della sostanza stupefacente, la suddivisione della cocaina in 56 dosi sigillate, nonché la disponibilità del citato materiale utile per il loro confezionamento; inoltre, riconoscendo la pluralità dei reati consumati e l’unicità del disegno criminoso, aveva ritenuto più grave quello di detenzione di cocaina. Sempre l’ordinanza di rimessione evidenzia come il giudice dell’appello, nel condividere le argomentazioni della sentenza appellata in merito all’esclusione della minima offensività del fatto, abbia valorizzato in particolare le circostanze dello svolgimento dell’attività di spaccio nei pressi di un bar – e dunque in un luogo in cui aumenterebbero le occasioni e le possibilità di cessione di sostanze stupefacenti, vista la frequentazione di avventori – e dell’impiego di una sia pur rudimentale capacità organizzativa.

Le Sezioni unite ritengono corretta la decisione dei giudici di merito nel caso esposto di non ritenere configurabile l’ipotesi di cui al comma quinto dell’art. 73 t.u.s., applicando il proprio principio di valutazione complessiva dei parametri di configurabilità dell’ipotesi di lieve entità e ritenendo, peraltro, generiche e manifestamente infondate le censure proposte, con conseguente inammissibilità del ricorso. La Corte territoriale ha operato una valutazione complessiva degli aspetti del fatto rilevanti ai sensi dell’art. 73, comma 5, t.u.s., considerando, con riferimento alla detenzione della cocaina, il contesto complessivo di consumazione della condotta, tenendo conto anche – ma non solo – della simultanea detenzione di quantitativi significativi di altre sostanze.

Interessante anche notare come della valutazione complessiva del fatto entrino a far parte, nella categoria “modalità dell’azione” verosimilmente, le valutazioni inerenti alla seppure rudimentale organizzazione della condotta.

È legittimo, infatti, secondo le Sezioni unite, tenere conto del dato, posto che il condivisibile principio ricavabile dal comma 6 dell’art. 74 t.u.s., e cioè che la predisposizione di un’organizzazione di mezzi non è di per sé incompatibile con l’affermazione della lieve entità del fatto (cfr. in proposito, tra le più recenti, Sez. 6, n. 28251 del 9/2/2017, Mascali, Rv. 270397; Sez. 6, n. 48697 del 26/10/2016, Tropeano, Rv. 268171; Sez. F, n. 39844 del 13/8/2015, Bannour, Rv. 264678; Sez. 6, n. 39374 del 3/7/2017, El Batouchi, Rv. 270849; Sez. 3, n. 14017 del 20/2/2018, Caltabiano, Rv. 272706), non comporta l’assoluta irrilevanza della circostanza ai fini della valutazione complessiva del fatto, ma soltanto che la stessa non assume un aprioristico valore negativo assorbente.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 9148 del 31/05/1991, Parisi, Rv. 187931 Sez. 4, n. 10783 del 03/07/1991, Del Signore, Rv. 188577 Sez. 6, n. 9528 del 09/05/1991, Recupero, Rv. 188192 Sez. 6, n. 167 del 23/01/1992, Chorki Bouzhaiem, Rv. 189462 Sez. 4, n. 8954 del 11/05/1992, Bondi, Rv. 191643 Sez. 6, n. 12153 del 10/10/1994, Napoli, Rv. 200068 Sez. 4, n. 3208 del 21/02/1997, Buttazzo, Rv. 207879 Sez. U, n. 9973 del 24/06/1998, Kremi, Rv. 211073 Sez. 6, n. 1183 del 05/01/1999, Touria, Rv. 213321 Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216668 Sez. 6, n. 35637 del 16/04/2003, Poppi, Rv. 226649 Sez. 4, n. 38879 del 29/9/2005, Frank, Rv. 232428 Sez. 6, n. 1735 del 20/12/2007 – dep. 2008 –, Tawali, Rv. 238391 Sez. 4, n. 37993 del 09/07/2008, Isoni, Rv. 241060 Sez. 6, n. 34789 del 21/04/2008, Castioni, Rv. 241375 Sez. 4, n. 42485 del 17/07/2009, Manganiello, Rv. 245458 Sez. 6, n. 9477 del 11/12/2009 – dep. 2010 –, Pintori, Rv. 246404 Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico, Rv. 247911 Sez. U, n. 36258 del 24/05/2012, Biondi, Rv. 253150 Sez. 6, n. 6574 del 10/01/2013, Mallo, Rv. 254598 Sez. 3, n. 47671 del 09/10/2014, Cichetti, Rv. 261161 Sez. 3, n. 11110 del 25/02/2014, Kiogwu, Rv. 258354 Sez. 6, n. 14288 del 08/01/2014, Cassanelli, Rv. 259058 Sez. 4, n. 10514 del 28/02/2014, Verderamo, Rv. 259360 Sez. 6, n. 10613 del 11/02/2014, Franzoni, Rv. 259356 Sez. 4, n. 15020 del 29/01/2014, Bushi, Rv. 259353 Sez. 6, n. 9892 del 28/01/2014, Bassetti, Rv. 259352 Sez. 3, n. 27064 del 19/03/2014, Fontana, Rv. 259664 Sez. 6, n. 5143 del 16/01/2014, Skiri Mourad, Rv. 258773 Sez. 6, n. 9892 del 28/01/2014, Bassetti, Rv. 259352 Sez. 3, n. 6824 del 04/12/2014 – dep. 2015 –, Masella, Rv. 262483 Sez. 4, n. 43464 del 01/07/2014, Lombardo, Rv. 260731 Sez. 4, n. 44808 del 26/09/2014, Madani, Rv. 260735 Sez. 4, n. 38125 del 05/06/2014, Marletta, Rv. 260729 Sez. 6, n. 24376 del 06/03/2014, Cordone, Rv. 259154 Sez. F, n. 39844 del 13/8/2015, Bannour, Rv. 264678 Sez. U, n. 29316 del 26/02/2015, De Costanzo, Rv. 264263 Sez. 3, n. 26205 del 05/06/2015, Khalfi, Rv. 264065 Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205 Sez. 3, n. 7404 del 15/01/2015, Righetti, Rv. 262421 Sez. 3, n. 32695 del 27/03/2015, Genco, Rv. 264491 Sez. 4, n. 43432 del 07/10/2015, Rodriguez, Rv. 264778 Sez. 1, n. 885 del 04/11/2015 – dep. 2016 –, Codebò, Rv. 265719 Sez. 6, n. 48697 del 26/10/2016, Tropeano, Rv. 268171 Sez. 4, n. 48850 del 03/11/2016, Barba, Rv. 268218 Sez. 4, n. 28561 del 25/05/2016, Zuccaro, Rv. 267438 Sez. 6, n. 48697 del 26/10/2016, Tropeano, Rv. 268171 Sez. 4, n. 6624 del 15/12/2016 – dep. 2017 –, Bevilacqua, Rv. 269130 Sez. 6, n. 14882 del 25/01/2017, Fonzo, Rv. 269457 Sez. 4, n. 22654 del 04/04/2017, Rhimi, Rv. 269946 Sez. 4, n. 22655 del 04/04/2017, Ben Ali, Rv. 270013 Sez. 4, n. 49153 del 13/07/2017, Amorello, Rv. 271142 Sez. 6, n. 46495 del 19/09/2017, Rachadi, Rv. 271338 Sez. 6, n. 29132 del 09/05/2017, Merli, Rv. 270562 Sez. 4, n. 36078 del 06/07/2017, Dubini, Rv. 270806 Sez. 4, n. 30238 del 10/05/2017, Tontini, Rv. 270190 Sez. 6, n. 22549 del 28/03/2017, Ghitti, Rv. 270266 Sez. 4, n. 36078 del 06/07/2017, Dubini, Rv. 270806 Sez. 6, n. 28251 del 9/2/2017, Mascali, Rv. 270397 Sez. 6, n. 39374 del 3/7/2017, El Batouchi, Rv. 270849 Sez. 6, n. 8243 del 12/12/2017 – dep. 2018 –, Scardia, Rv. 272378 Sez. 6, n. 1428 del 19/12/2017 – dep. 2018 –, Ferretti, Rv. 271959 Sez. 3, n. 22398 del 26/01/2018, Allali, Rv. 272997 Sez. 3, n. 14017 del 20/2/2018, Caltabiano, Rv. 272706 Sez. 4, n. 40294 del 05/06/2018, Schiraldi Sez. U, n. 51063 del 27/9/2018, Murolo, Rv. 27407601-602

PARTE SECONDA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E TERRORISMO --- SEZIONE I - LE MANIFESTAZIONI DELL’ASSOCIAZIONE MAFIOSA

  • reato
  • mafia
  • criminalità organizzata
  • diritto penale

CAPITOLO I

MANIFESTAZIONI TERRITORIALI DELLE ASSOCIAZIONI DI TIPO MAFIOSO: DELOCALIZZAZIONI DI MAFIE STORICHE, MAFIA SILENTE, MAFIE STRANIERE, NUOVE MAFIE

(di Andrea Antonio Salemme )

Sommario

1 Introduzione. - 2 I termini della questione relativa alla mafiosità delle articolazioni delocalizzate delle mafie storiche. - 3 Delocalizzazione come circoscritta manifestazione della vita delle strutture mafiose. - 4 Le «caselle intermedie fra l’associazione a delinquere semplice e quella ex art. 416-bis cod. pen.» in territori di mafia. - 5 Delocalizzazione ed epifanie espansive delle mafie storiche. - 6 Delocalizzazione e struttura unitaria della ’ndrangheta. - 7 Le metastasi mafiose. - 8 Mafiosità silente delle metastasi mafiose. - 9 Sez. 5, n. 19141 del 13/02/2006, Rv. 234403, Bruzzaniti e altri, e Sez. 2, n. 15412 del 30/01/2015, Agresta e altri: due opposte accezioni di mafia silente con riferimento a delocalizzazioni ’ndranghetiste nell’Italia settentrionale. - 10 Evoluzioni della giurisprudenza dopo Sez. 2, n. 15412 del 2015. - 11 Mafia silente al di fuori dell’ambito delle delocalizzazioni. - 12 Novità sulla mafia silente intervenute nel 2018: il rigetto di istanze di rimessione alle Sezioni Unite per la composizione del contrasto di giurisprudenza. - 13 (segue) Arricchimento dell’elenco delle definizioni giudiziarie di mafia silente. - 14 (segue) Accezione procedimentale di mafia silente. - 15 (segue) Mafia silente nei territori di storici. - 16 (segue) Mafia silente come «forza di intimidazione “intrinseca” alla struttura dell’associazione mafiosa». - 17 L’importanza, anche storica, della giurisprudenza sulla società svizzera di Frauenfeld e sul locale tedesco di (Real)singen. - 18 Le pronunce del 2018 sulla società di Frauenfeld: la tesi della necessaria mafiosità in concreto. - 19 (segue) I precedenti della tesi della necessaria mafiosità in concreto. - 20 (segue) La natura ’ndranghetista della società di Frauenfeld anche alla stregua della tesi della necessaria mafiosità in concreto. - 21 (segue) La tesi dell’«osmosi tra la forza di intimidazione dei sodalizi storici operanti in Calabria e di quelli ubicati altrove». - 22 (segue) La tesi della valutazione del modo d’essere complessivo della delocalizzazione. - 23 Aggiornamenti sulle mafie straniere. - 24 Cenni alle pronunce sul cd. clan Spada di Ostia. - Indice delle sentenze citate

1. Introduzione.

Il tema della delocalizzazione delle strutture mafiose è affrontato nella giurisprudenza di legittimità con pressoché esclusivo riferimento alla ’ndrangheta ed in particolare alle concrezioni di stampo ’ndranghetista osservate nelle regioni centro-settentrionali del Paese (Piemonte, Liguria e Lombardia, ma anche Emilia-Romagna ed Umbria) ed in talune province straniere (Svizzera e Germania).

Par di doversi escludere, tuttavia, che esista un’afferenza necessitata – e per di più connotata da esclusività – del tema di cui si tratta alla ’ndrangheta, dal momento che l’osservazione della giurisprudenza meno recente fa registrare fenomeni di delocalizzazioni promananti da aggregazioni non, o non solo, ’ndranghetiste. Il pensiero corre alla creazione della sacra corona unita, risalente, quantomeno ‘all’origine delle origini’, all’intraprendenza della camorra cutoliana, che la fondò come società carceraria e che solo in un secondo momento si alleò, nella fase espansiva in salento, con la ’ndrangheta, ma anche, per limitatissime frange, con cosa nostra (d’altronde in quel periodo ed ancora per un paio di lustri essa medesima alleata della ’ndrangheta).

La circostanza che la delocalizzazione sia oggi predicata essenzialmente della ’ndrangheta può trovare spiegazione in una duplice contingenza:

- da un lato, la virulenza della stessa sul piano della criminalità organizzata, anche in rapporto a cosa nostra, che ha subito un indiscutibile ridimensionamento a seguito della reazione dello Stato al periodo stragista del ’92 - ’93;

- dall’altro lato, l’offensiva senza pari che, con l’inaugurazione del nuovo millennio, le agenzie di contrasto hanno mosso alla ’ndrangheta, atteso che è dall’immensa mole di carte riguardanti un numero considerevole di procedimenti contro presunti e conclamati ’ndranghetisti – carte di cui è pressoché impossibile il reperimento – che affiora la crema delle questioni alla fine dibattute in sede di legittimità.

2. I termini della questione relativa alla mafiosità delle articolazioni delocalizzate delle mafie storiche.

La questione fondamentale che in sede di legittimità chiama in causa le delocalizzazioni delle mafie storiche e segnatamente della ’ndrangheta è costituita dall’enucleazione della soglia di mafiosità necessaria, ma anche sufficiente, a connotare le medesime come aggregati rilevanti agli effetti dell’art. 416-bis cod. pen.

Il punto di partenza è rappresentato dalla constatazione – resa plasticamente da Sez. 2, n. 18773 del 31/03/2017, Lee – Rv. 269747, che ha ricondotto all’ipotesi di cui all’art. 416-bis cod. pen. il gruppo criminale nigeriano noto come Eye, attivo tra l’altro in Castel Volturno nelle attività di sfruttamento della prostituzione e di narcotraffico – secondo cui la «carica intimidatrice nascente dal vincolo associativo» ha una dimensione inevitabilmente, sebbene non solo, esterna, perché «si manifesta [anzitutto] internamente attraverso l’adozione di uno stretto regime di controllo degli associati» e – in un momento logicamente successivo – «si proietta anche all’esterno attraverso un’opera di controllo del territorio e di prevaricazione nei confronti di chi vi abita, tale da determinare uno stato di soggezione e di omertà non solo nei confronti degli onesti cittadini, nei riguardi dei quali si dirige l’attività delittuosa, ma anche nei confronti di coloro che abbiano intenti illeciti, costringendoli ad aderire al sodalizio criminale».

Tale constatazione, enunciata a proposito di una mafia straniera, ha valenza trasversale, come dimostra la sua riproposizione in una sentenza concernente una classica manifestazione ’ndranghetista in terra di Calabria (Sez. 3, n. 21650 del 25/01/2018, Grande Vincenzo; similmente, Sez. 5, n. 40467 del 16/04/2018, Lo Sciuto e altri, par. 15.1, pp. 26 e 27 – a proposito di una conclamata derivazione di cosa nostra in Castelvetrano – cita Sez. 2, n. 18773 del 2017, per far constare che l’assenza di «un accordo esplicito [tra due sodali], finalizzato alla consumazione [di un’estorsione], non desta – ovviamente – sorpresa, in ragione dell’omertà che caratterizza i comportamenti non solo degli associati di mafia ma anche di tutti i soggetti che interagiscono con l’ente mafioso, a causa del potere intimidatorio che questo esercita su di essi, potendo […] il riferimento ad un accordo provenire solo o dalle persone offese o dagli stessi coimputati»).

In effetti, la cifra dell’associazione di tipo mafioso è la prospezione verso l’esterno, più che della ‘potenza’, della ‘prepotenza’ (Sez. 5, n. 4307 del 19/12/1997, Magnelli, Rv. 211071), di guisa che, da un lato, il “quisque de populo”, da uomo libero, è trasformato in «strumento indiretto o passivo o, quanto meno, testimon[e] mut[o] dei delitti e degli illeciti commessi dal sodalizio criminale» (Sez. 6, n. 2402 del 23/06/1999, D’Alessandro, Rv. 214923) e, dall’altro, i delinquenti cd. comuni sono egemonizzati dall’associazione stessa, la quale detta le ‘regole’ e ‘regola’ i conti {cfr., esplicitamente, Sez. 1, n. 53632 dell’11/07/2017 (dep. 28/11/2017), Blasi e al., par. 1.1.1, p. 29, circa una consorteria mafiosa della “città vecchia” di Taranto, con riferimento alla quale la Corte ha condiviso la valorizzazione, da parte dei giudici di merito, degli «interventi dei vertici» tesi a «dirimere eventuali contrasti insorti a seguito dell’invasione del territorio riservato all’attività di spaccio dei vari soggetti collegati [ad un preesistente] sodalizio [dedito al narcotraffico]», commentando che essi «costituivano la dimostrazione dell’egemonia criminale acquisita dal clan […] sulla porzione di territorio urbano controllato dai suoi esponenti»}.

Da ciò scaturisce il problema della concentrazione territoriale della forza intimidatrice, problema che, nel caso delle delocalizzazioni, in una sovrapposizione quasi ossimorica tra un “quid” di con-‘centrato’ ed entità de-‘centrate’, perché delocalizzate, viene in linea di conto, non in relazione alla struttura centrale, ma a quelle periferiche.

In adesione alla lezione di un’Autorità in materia di mafia, «la questione nasce perché l’attuale formulazione normativa dell’art. 416-bis cod. pen. ritaglia una fattispecie di associazione mafiosa a forte connotazione sociologico-ambientale, come è dimostrato dal fatto che il legislatore dell’82 ha notoriamente tipizzato, quali elementi costitutivi espliciti dell’art. 416-bis cod. pen., i requisiti della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà: requisiti criminologici, questi, che hanno tradizionalmente caratterizzato le mafie classiche storicamente radicate nel sud Italia dall’Ottocento ad oggi» (Fiandaca, Introduzione, in AA.VV., L’espansione della criminalità organizzata in nuovi contesti territoriali, Padova, 2017, 11). È quando dette mafie escono – con propaggini che (come si vedrà) possono, ma anche non, ‘appartenere’ loro – dalla dimensione geografica di storico radicamento che sorge il rompicapo: seguitano esse a porsi e ad agire come «mafie», vie più «classiche», epperò perdono, in certo qual modo, di quello spessore storico che nei territori originari custodisce la memoria collettiva della capacità di reazione violenta di cui per più di un secolo hanno dato prova.

Né può pensarsi di risolvere il rompicapo cercando di ridurre al massimo la «connotazione sociologico-ambientale» delle «mafie», in specie «classiche» o storiche, perché essa offre il sostrato da cui far derivare, sul piano istruttorio, la legittimità dell’uso di «consolidate massime di esperienza»: invero, «la utilità della conoscenza esperienziale delle dinamiche e della struttura delle associazioni mafiose trova conforto nel fatto che la stessa fattispecie prevista dall’art. 416-bis cod. pen. è stata “costruita” dalla L. n. 646 del 1982 proprio facendo ricorso alla conoscenza che si aveva (in allora) delle modalità di funzionamento delle mafie, prima fra tutte quella denominata “cosa nostra”. Tali paradigmi esperienziali hanno una matrice in parte sociologica, in parte [però anche] “giudiziaria”, laddove i dati di conoscenza circa la struttura ed il funzionamento di tali associazioni sono ricavati dai processi che ne hanno svelato le dinamiche […]. Il ricorso a tale patrimonio cognitivo è indispensabile per evitare un approccio “cieco” alla valutazione delle condotte di partecipazione alle associazioni mafiose storiche, ovvero a quei consorzi criminali che come “cosa nostra” (ma analoghe caratteristiche hanno la ’ndrangheta, la camorra, la sacra corona unita e, financo, alcune risalenti associazioni mafiose straniere) hanno una articolata struttura organizzativa, un profondo radicamento ed una singolare stabilità, che impedisce di considerarli fenomeni transeunti o episodici, dato che le stesse non sono orientate alla esecuzione di un programma criminoso “a termine”, ma perseguono un più ampio e temporalmente indefinito obiettivo antisociale». È singolare che questa citazione – tratta da Sez. 2, n. 46765 del 27/09/2018, Di Stefano A. e altri, par. 1.2.1, p. 8, la quale si segnala per aver applicato l’esposto paradigma onde concludere che «la richiesta a[d un] nuovo esercente del pagamento di una somma alle associazioni criminali che controllano il territorio in occasione dell’apertura del suo esercizio commerciale non è una attività “neutra”, ma piuttosto una azione riconducibile alla tipica e notoria attività estorsiva posta in essere dalle mafie storiche, in specie nei territori di origine, dove la forza di intimidazione esercitata nel corso degli anni ha generato la piena consapevolezza da parte della società civile della pressione estorsiva delle organizzazioni criminali sulle attività produttive» – sia riproposta da altri arresti per sostenere che «la permanenza del vincolo durante il periodo di detenzione trova conforto [tra l’altro] nelle “massime di esperienza” che descrivono le dinamiche associative delle mafie storiche [Sez. 2, n. 23128 del 15/03/2018, Passarello, par. 1.2, p. 5; cfr. anche Sez. 2, n. 11582 del 14/12/2017 – dep. 2018 –, Galea e altri, par. 3.3, 15].

In definitiva, si scarica sulla giurisprudenza il compito di individuare se, oggi, nel mondo del Terzo Millennio, ben diverso da quello in cui le mafie storiche sono nate o, meglio, emerse, basti alle articolazioni delocalizzate, che alle medesime si richiamano, spendere la mafiosità di quelle – e, nell’ipotesi affermativa, in funzione di quali connotati – per affermarsi, o essere riconosciute, come mafiose a loro volta nei territori alieni in cui vivono ed operano.

La risposta al quesito non può non tener conto del cambiamento dei tempi, la misura del quale è restituita da Sez. 6, n. 24535 del 10/04/2015, Mogliani, Rv. 264126, la quale, resa in sede cautelare nella vicenda di “mafia capitale”, si spinge a sostenere che, «ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, ed il suo riflesso esterno in termini di assoggettamento non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale».

3. Delocalizzazione come circoscritta manifestazione della vita delle strutture mafiose.

Parlare di delocalizzazione delle strutture mafiose, quantunque comodo, ragion per cui si seguiterà, anche in questa sede, a farlo, è riduttivo ed impreciso.

Riduttivo, in quanto la delocalizzazione è soltanto una delle manifestazioni della vita delle predette strutture, che, sebbene fotografate dai capi di imputazione nel modo d’essere assunto in un arco di tempo (de)limitato, hanno un ciclo esistenziale nel corso del quale evolvono ed agiscono per perseguire gli scopi – non necessariamente delinquenziali – tipizzati dall’art. 416-bis cod. pen. Tale ciclo esistenziale contempla, non soltanto epifanie espansive delocalizzanti, ma anzitutto una ‘nascita’ nel senso pieno del termine, cui possono seguire ‘crisi’, ‘sospensioni’, ‘chiusure’ e finanche ‘estinzioni’, le quali, dal canto loro, normalmente, ma non indefettibilmente, sfociano in travasi successori verso organismi ulteriori e distinti dai precedenti (non indefettibilmente, perché sono comuni casi in cui più neoformazioni costituenti i precipitati evolutivi di un’originaria concrezione seguitano a trovare una dimensione esclusivamente sotto l’egida della stessa, aprendosi pertanto il dilemma della configurabilità, e contestabilità, soltanto di una ovvero di più associazioni: si pensi alla cd. ‘mafia barcellonese’, descritta dalle sentenze di merito come «un’unica consorteria mafiosa, all’interno della quale sono venuti [però] ad aggregarsi, nel tempo, diversi gruppi, dotati di una certa autonomia decisionale ed operativa, relativamente a territori di competenza, che hanno tra loro interagito e fatto capo a determinate figure di spicco»; rimprovera a tali sentenze Sez. 5, n. 47504 del 18/04/2018, Munafò e altri, par. 10.1.2, p. 48, di non essersi «soffermate specificamente sui rapporti sussistenti tra le “tre frange” [individuate], anche rispetto all’originario unitario sodalizio criminale dei barcellonesi, pur indicando la sussistenza di una certa autonomia decisionale ed operativa, tale da giustificare la configurazione giuridica di una pluralità di sodalizi»).

4. Le «caselle intermedie fra l’associazione a delinquere semplice e quella ex art. 416-bis cod. pen.» in territori di mafia.

La delocalizzazione individua un segmento tutto sommato ristretto dell’azione della mafia ed in particolare della ’ndrangheta, cui dovrebbe affiancarsi un’elaborazione teorica volta a più accuratamente incasellarla nel ciclo di vita dei suoi meandri, al fine, in particolare, di coglierne analogie e differenze con il momento della ‘nascita’ di strutture sia dentro che fuori i territori storici.

In argomento, il segno di una potenzialmente profonda incrinatura del tradizionale approccio teorico all’associazione di tipo mafioso si percepisce – viepiù rispetto ad un territorio permeato di mafia, come quello di Messina, in relazione però ad un sodalizio non (apparentemente) collegato a cosa nostra e per essa alla corrispondente ramificazione locale – in Sez. 6, n. 51762 del 21/06/2018, Genovese Raffaele, par. 2.4, p. 12, la quale, cassando con rinvio la sentenza d’appello affinché sia scandagliato l’esercizio del metodo mafioso anche in funzione dei rapporti con detta ramificazione di cosa nostra, osserva come, modellato l’art. 416-bis cod. pen. su cosa nostra, allora all’apice della sua forza, «nei decenni successivi, l’articolarsi delle vicende di questa associazione e di quelle storicamente consimili (’ndrangheta, camorra) all’interno dei territori di origine o nel loro propagarsi in nuovi territori, ha prodotto gruppi criminali che – a rigore di logica, ma in contrasto con le fondamentali esigenze di tipizzazione nel diritto penale connesse al principio di tassatività delle fattispecie incriminatrici – occuperebbero [notasi] caselle intermedie fra l’associazione a delinquere semplice e quella ex art. 416-bis cod. pen. (con ulteriori variazioni connesse all’introduzione dell’aggravante ex art. 7 [della] legge n. 203 [del] 1991 applicabile a una vasta gamma di reati) sia nella fase di consolidamento di un’associazione prossima a[d] acquisire compiutamente i requisiti richiesti dall’art. 416-bis cod. pen. sia nella fase di dissoluzione di una associazione o di un gruppo che ne costituiva una articolazione».

Sempre a proposito di Messina, in relazione ad un gruppo attestato, secondo la sentenza d’appello, «alle soglie minime della integrazione della fattispecie incriminatrice», in quanto, «pur intendendo proporsi ed affermarsi secondo le logiche criminali della associazione mafiose “storiche”, appar[iva] strutturalmente povero di mezzi e raffazzonato nelle sue modalità operative», più “tranchant” è la posizione espressa da Sez. 6, n. 45737 del 17/07/2018, Talarico, che, ritenendo necessaria l’esteriorizzazione del metodo mafioso in guisa tale che produca intimidazione nella popolazione stanziata sul territorio di riferimento, cassa detta sentenza, riqualificando il gruppo stesso come associazione semplice e non di tipo mafioso, in quanto la corte territoriale «ha richiamato genericamente la materialità di alcuni, singoli e determinati atti violenti e minacciosi, senza accertare poi se gli stessi facessero seguito […] ad un già avvenuto, precedente ed effettivo assoggettamento omertoso della popolazione e, soprattutto, ha trascurato di considerare che i reati fine della pretesa associazione ex art. 416-bis cod. pen. concretamente contestati nei vari capi di imputazione non risultano, come sarebbe stato lecito attendersi, aggravati ex art. 7 della legge 152 [del] 1991 sul piano dell’uso del metodo mafioso» (rispettivamente, par. 2.2, p. 4, e par. 2.4, p. 5).

5. Delocalizzazione ed epifanie espansive delle mafie storiche.

Pur dall’angolo di visuale delle epifanie espansive, parlare di delocalizzazione è impreciso, ancor di più in rapporto alla ’ndrangheta.

La delocalizzazione appartiene all’esperienza di un’accresciuta potenza criminale della ’ndrangheta e risponde ad una vocazione di conquista che innegabilmente la caratterizza.

In una simile prospettiva, la delocalizzazione è una variante della più conosciuta infiltrazione; tuttavia, una volta che si tenti di definirla, vengono al pettine le difficoltà di importazione di concetti appartenenti ad altre aree del sapere.

In economia aziendale – l’evocazione della quale è appropriata alla luce della seguente riflessione di Sez. 5, n. 31666 del 03/03/2015, Bandiera e altri, par. 3.2, p. 21: «Né si pensi che la proliferazione o “delocalizzazione” della [’ndrangheta] sia frutto di mere smanie espansionistiche, per la conquista di nuove frontiere, o di mera “colonizzazione” di aree produttive ovunque site. Il fenomeno […] sembra dovuto […] all’ineludibile esigenza di investire enormi risorse finanziarie od alla possibilità di rilevare […] interi settori commerciali o rami di azienda, per la cui gestione si renda necessario il radicamento “in loco”, ovvero alla vera e propria “vendita” di danaro, ovviamente a condizioni usurarie, ad imprenditori del Nord in difficoltà […], con la necessità, anche in tal caso, del radicamento in zona per assicurarsi la certezza del “rientro” dell’investimento con i “convincenti” sistemi propri del metodo mafioso» – la delocalizzazione (“off shoring”) indica una frammentazione del processo produttivo secondo uno schema decentrato, contrapposto al modello ‘raccolto’ di tipo fordista, ferma, però, e qui sta il punto, l’unitarietà del centro decisionale quale “proprium” dell’impresa. Sul piano organizzativo, un’impresa può delocalizzare secondo schemi differenti, in proporzione al maggiore o minore grado di intensità del collegamento con l’apparato decentrato: si va da semplici rapporti commerciali con realtà già esistenti sul territorio di approdo; ad acquisizioni di pacchetti partecipativi – di minoranza e, se occorre, di maggioranza – nelle medesime; alla creazione di vere e proprie filiali.

Sul terreno delle associazioni di tipo mafioso, il livello di problematicità si acuisce. Una tale associazione può, avvalendosi di propri uomini, fare affari (leciti ed illeciti) con soggetti del territorio di approdo: in tal caso è l’organizzazione mafiosa in sé, nella sua dimensione originaria, ad agire in trasferta, sicché a detti uomini potrà essere imputato soltanto di far parte della stessa; tuttavia, già quando l’associazione inizia a permeare il tessuto imprenditoriale del territorio di approdo, ottenendo, esattamente come un’impresa lecita, la titolarità formale o anche solo sostanziale di partecipazioni in società “target”, sorge questione intorno all’enucleazione territoriale della cabina di regia dell’operazione; detta questione, poi, diviene soverchiante nel caso in cui si osservino sodalizi che assumono l’apparenza, più che di succursali, di vere e proprie filiali, che godono di autonomia rispetto alla casa-madre, ma contemporaneamente sono alla stessa correlate. Di più: un tassello che innalza il grado di problematicità è dato da quei nuclei decentrati che si limitano a replicare modelli e sembianze della ’ndrangheta, senza manifestare legami con la casa-madre, o perché ricusati da questa o perché aspiranti essi medesimi ad una completa autonomizzazione:

- sotto il primo profilo, eclatante è l’esempio della cd. “bastarda” in Piemonte (il riferimento è a Sez. 1, n. 13635 del 28/03/2012, Versaci, Rv. 252358, che ripete, sì, che, per aversi un’associazione ’ndranghetista fuori dalla Calabria, «è necessario che un’autonoma consorteria delinquenziale, la quale mutui il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche, abbia conseguito – in concreto e nell’ambiente nel quale essa opera – un’effettiva capacità di intimidazione, non rilevando il riconoscimento da parte dell’associazione criminale ‘casa-madre’», ma ciò fa in relazione ad un’associazione costituitasi secondo i rituali di ’ndrangheta senza però chiedere l’autorizzazione della ’ndrangheta e perciò dalla stessa appellata “bastarda”), anche se non-bisogna dimenticare che, fino agli anni ’70-’80, persino il locale di Cosenza (sul suggello della cui caratura mafiosa cfr. già Sez. 5, n. 9625 del 03/07/2000, P.G. Catanzaro, Pino e altri), retto da un personaggio noto persino alla storiografia (Luigi Palermo U’ Zorro, menzionato anche dalla predetta Sez. 5, n. 9625 del 2000, cap. I: «La sentenza impugnata», par. 1, p. 9), era considerato “bastardo”;

- sotto il secondo profilo, l’unico caso noto è quello de “La Lombardia”, alla vocazione autonomistica della quale i due collaboratori di giustizia autoaccusatisi dell’omicidio di Carmelo Novella riconducono la feroce reazione della ’ndrangheta calabrese (cfr. tra l’altro Sez. 1, n. 49270 del 24/02/2016, Caristo e altri).

Parlare di delocalizzazione in tema di ’ndrangheta è impreciso, in quanto la delocalizzazione, che banalmente si pone agli antipodi della ‘localizzazione’, finisce per acquisire un’accezione confliggente anche con quella forma di ‘localizzazione’ che nell’organizzazione della ’ndrangheta poggia sui ‘locali’, costituenti l’ancoramento territoriale delle ’ndrine. Premesso che, come il termine “’ndrangheta” denuncia, le ’ndrine, e non i locali, ne costituiscono l’ossatura, la definizione di territorialità dei locali nelle regioni dell’Italia del Nord è di per se stessa difficilmente afferrabile, sol che si consideri come essi individuino la nuova concentrazione toponomastica di famiglie provenienti da uno o più locali in Calabria (l’unico atto giudiziario che affronta l’argomento, ossia l’ordinanza cautelare nel procedimento Infinito del 5 luglio 2010 del G.I.P. di Milano, par. 2.1, p. 74, sostiene la vigenza del «principio di omogeneità geografica», ricordando che il locale di Bollate è composto da gente di Rosarno, quello di Cormano da gente di Grotteria ecc.).

Detto ciò, finanche in Calabria, ben è possibile che una ’ndrina non sia inserita in un locale: ora, considerato che il locale è il luogo di celebrazione dei riti, primo tra tutti il ‘battesimo’, ciò significa che, finanche ed anzi soprattutto in Calabria, ben è possibile che esista «una associazione[,] che può essere ritenuta mafiosa[,] ma non ha un proprio locale di ’ndrangheta e non ha i suoi codici e non per questo non è ’ndrangheta», giacché, «anzi[,] la ’ndrina che non deve dar conto ad un locale è ancora più pericolosa» (così – atteso il resoconto di Rocca, La ’ndrangheta utilizza riti più al Nord che al Sud, in Il quotidiano del Sud, 21 giugno 2015 – il Procuratore-Capo di Catanzaro Lombardo in occasione della presentazione a Lametia Terme del libro di Ciconte, Riti criminali. I codici di affiliazione alla ’ndrangheta, Soveria Mannelli, 2015).

D’altronde, la stessa circostanza che il locale sia il luogo di celebrazione dei riti, tanto più sentiti quanto maggiore è la lontananza dalla Calabria, se può rappresentare una regolarità, non è però una costante. Così, Sez. 2, n. 26834 del 23/03/2018, Nasatti, par. 2.1, p. 18, nel confermare l’esistenza di un locale di ’ndrangheta a Lecco sotto la guida di una certa famiglia, rileva come la corte d’appello meneghina abbia congruamente definito «l’associazione, il territorio su cui la stessa operava […], la ripartizione delle rispettive competenze […], il potere esercitato e l’assenza di “rituali”, vista la lontananza dalle zone in cui gli stessi sono praticati […], la forza di intimidazione […]».

6. Delocalizzazione e struttura unitaria della ’ndrangheta.

Un tema che si accompagna a quello della delocalizzazione della ’ndrangheta impinge sulla struttura, unitaria o meno, della medesima. È opinione prevalente che il decentramento implicato dalla delocalizzazione si arricchisca di senso a misura che i segmenti decentrati rispondano ad un’entità unica, viceversa potendo fungere soltanto da mere proiezioni delle ’ndrine, o dei gruppi di ’ndrine, di riferimento, alla stregua di uno schema che, sul presupposto del modello confederale della ’ndrangheta, era propugnato da uno dei primi documenti ufficiali di spessore sulla ’ndrangheta [Cabras, Relazione sulla situazione della criminalità in Calabria, approvata dalla Commissione Violante il 13 ottobre 1993, XI legislatura, doc. XXIII n. 8, par. 2.7, p. 49].

In argomento, una posizione imprescindibile ricoprono Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Pesce, Rv. 269040, e Sez. 2, n. 29850 del 18/05/2017, Siviglia, perché, nel chiudere rispettivamente i filoni in abbreviato e in ordinario del procedimento Crimine, hanno suggellato la natura unitaria della ’ndrangheta, ancorché nella ’ndrangheta, differentemente che in cosa nostra, gli accertamenti convergano nel far trasparire, piuttosto che una cupola, solo un nodo di raccordo – a mo’ di camera di mediazione di potenziali conflitti, efficace soprattutto nella spartizione dei ruoli di vertice – rappresentato dalla provincia o crimine (par. 2.16, fg. 312).

Rilevato, peraltro, come tale convergenza non sia unanimemente riconosciuta (le di poco anteriori Sez. 2, n. 34525 del 19/06/2014, Laganà e Sez. 2, n. 22989 del 30/04/2013, Gioffrè e Sez. 2, n. 19483, del 16/04/2013, Avallone, replicano infatti l’affermazione unanime, prima del procedimento Crimine, secondo cui il carattere distintivo della ’ndrangheta è l’assenza di unitarietà), per toccare con mano la delicatezza della questione, valga rammentare quanto Sez. 5, n. 44939 del 26/06/2018, Sposato, risponde all’indagato che, in ricorso, si doleva dell’inesistenza della cosca, individuata con i cognomi delle due famiglie preminenti, cui, in Calabria, era accusato di partecipare: «L’associazione mafiosa […] non è costituita da un ristretto nucleo familiare, ma è la ’ndrangheta […]. La struttura della mafia storica, denominata “’ndrangheta”, è consacrata nelle sentenze della Corte di cassazione n. 55359 del 2016 e n. 29850 del 2017, con le quali si è accertata, in via definitiva, l’unitarietà dell’organizzazione […]. Di qui la genericità del motivo di ricorso [per cassazione,] che non coglie il nucleo dell’apparato argomentativo del Tribunale, nonché la sua manifesta infondatezza, essendo la ’ndrangheta una delle “mafie storiche”» (par. 3.1, pp. 5 e 6).

Gli approdi che la giurisprudenza potrebbe guadagnare sulla china dell’unitarietà della ’ndrangheta sono quelli che ha faticosamente raggiunto con riferimento a cosa nostra, a proposito della quale Sez. 2, n. 49082 del 17/04/2018, Comandè, dinanzi alle doglianze degli imputati contro l’affermazione di sussistenza della contestata aggravante di cui al comma 6 dell’art. 416-bis cod. pen., osserva come cosa nostra «operi nel campo economico utilizzando ed investendo i profitti dei delitti che tipicamente pone in essere in esecuzione del suo programma criminoso […]. Tale affermazione […] trova fondamento nell’esperienza storica e soprattutto giudiziaria […] alla stregua di un fatto notorio», con la conseguenza che, nella specie, «il ragionamento svolto dai giudici di merito è coerente tanto all’imputazione ascritta agli imputati, laddove a ciascuno si contesta di avere fatto parte dell’associazione [c]osa [n]ostra, di cui [un certo mandamento] rappresenta una delle articolazioni territoriali, quanto alla riconosciuta natura unitaria di tale sodalizio, al quale debbono essere riferite le attività economiche finanziate con i proventi dei delitti-fine commessi dagli associati anche nelle loro articolazioni».

7. Le metastasi mafiose.

Il sostrato delle elaborazioni sulla mafiosità delle delocalizzazioni di ’ndrangheta può essere illustrato attraverso un paragone utilizzato, nel linguaggio comune ma curiosamente non giuridico, per spiegare la mafia quale cancro che assale la società. Anche la mafia metastatizza e le metastasi mafiose, una volta che abbiano attecchito nel tessuto contaminato, “i.e.”, in un territorio refrattario, cominciano a corromperlo.

Il corrompimento segue declinazioni a sé stanti, in quanto la ’ndrangheta, anche quando esteriorizza il metodo mafioso, compiendo tipicamente estorsioni, non mostra mai, sin da subito, il suo vero volto, quello intimidatorio, ma piuttosto cerca il compiacimento, trasversalmente, di correi e vittime: su tale presupposto Sez. 2, n. 932 del 23/06/2017 – dep. 2018 –, Palermo, censura le sentenze di merito che a Lecco avevano qualificato come semplice un’associazione invece di stampo ’ndranghetista, osservando come «l’intimidazione non viene utilizzata come forza induttiva o propulsiva, ma è agita in modo subdolo, sovente nella fase successiva al coinvolgimento del correo; quando la vittima prescelta si rende conto che dietro l’insegnante, il consigliere comunale, il titolare della società di slot, vi sono “i calabresi”, è troppo tardi. È ciò che accade ai corrotti, ma anche ai destinatari dei tentativi di estorsione» (par. 1.2.1, pp. 9 e 10). A voler accedere a generalizzazioni, le metastasi di ’ndrangheta preferiscono celarsi, fintanto che possono, dietro i volti puliti della ‘società civile’, usati come cellule però già ‘ammorbate’ per penetrare i territori refrattari.

Sia consentito di far emergere una variante del concetto, non di delocalizzazione, ma, al contrario, di ‘localizzazione’, dal momento che, in medicina, è con quest’ultimo termine che si indica il fenomeno della produzione, pur secondaria, di un’alterazione morbosa di un organo: la distanza rispetto al diritto può essere notevole, sol che si consideri che, nell’uomo, a differenza che nelle società malate di mafia, in cui generalmente sopravvivono collegamenti delle associazioni-figlie con le associazioni-madri, le metastasi replicano il tumore primitivo, ma vivono di vita propria. In tale eccezione, effettivamente, il termine “metastasi” è utilizzato dall’unico precedente edito, che ne fa impiego per individuare una struttura ‘siciliana’ in Emilia Romagna rivelatasi autonoma da cosa nostra (Sez. 5, n. 19008 del 13/03/2014, Calamita, par. 3.2, p. 13).

8. Mafiosità silente delle metastasi mafiose.

Il problema della mafiosità delle strutture delocalizzate raggiunge l’acme qualora le metastasi abbiano attecchito nel territorio refrattario, ma non abbiano ancora cominciato a corromperlo: le metastasi, in quanto associazioni-figlie rispetto alle associazioni-madri, sono (“rectius”, possono essere considerate) bensì mafiose, ma in potenza e non in atto, nel senso che la loro attitudine mafiosa non si compie prima che esse comincino ad “operare” nel territorio refrattario.

Si attinge il livello speculativo della mafia silente, a condizione che si ritenga che la mafiosità in potenza delle metastasi sia una mafiosità piena, ma (ancora) inespressa. Il terreno di discussione è quello, ampio, della possibilità o meno di un’autentica mafiosità “in nuce”, ma, quantomeno di primo acchito, il registro di un’attitudine silente della mafia appare legato a doppio filo a quello delle delocalizzazioni.

9. Sez. 5, n. 19141 del 13/02/2006, Rv. 234403, Bruzzaniti e altri, e Sez. 2, n. 15412 del 30/01/2015, Agresta e altri: due opposte accezioni di mafia silente con riferimento a delocalizzazioni ’ndranghetiste nell’Italia settentrionale.

Una prima enucleazione giudiziaria della mafia silente risale a Sez. 5, n. 19141 del 13/02/2006, Rv. 234403, Bruzzaniti: censura la Corte la sentenza impugnata per «avere acriticamente ritenuto che l’indubbio spessore mafioso dei ricorrenti […] fosse di per sé solo sufficiente a dispiegare, anche in contesti spaziali diversi[, nella specie milanesi] (storicamente estranei a certe forme di subcultura e devianza delinquenziale proprie di altre aree geografiche), la capacità intimidatrice che, notoriamente, promana dal vincolo associativo ed ha il suo “pendant” nella paura di denunciare […, s]alvo […] che non risultino, in concreto, specifici indici di mafiosità, nel quadro di una sperimentata nuova impresa delinquenziale che intenda, autonomamente, riproporre in altre aree del Paese le stesse condizioni di assoggettamento e di omertà che, come è noto, costituiscono l’‘humus’ in cui alligna e prolifera la devianza mafiosa […]»; indi rimarca quanto «sia, logicamente, incongrua – nella sentenza impugnata – anche la configurazione di mafia silente, che è ipotesi concettualmente incompatibile con la tipologia normativa di reato associativo mafioso[, … atteso che …] il metodo mafioso, nel disegno normativo, è sempre segno di esteriorizzazione, proprio per il fatto stesso di dover essere strumentale, sia pure nei limiti del mero profittamento della forza intimidatrice (… si avvalgono) ai fini della sua canalizzazione o finalizzazione per il perseguimento di uno degli obiettivi indicati dalla citata disposizione normativa».

Opposta è l’opinione secondo cui, in tema di delocalizzazioni, la mafia silente deve essere intesa, «non già come associazione criminale aliena dal cd. metodo mafioso o solo potenzialmente disposta a farvi ricorso, bensì come sodalizio che tale metodo adopera in modo silente, cioè senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico), ma avvalendosi di quella forma di intimidazione – per certi aspetti ancora più temibile – che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere» (così Sez. 2, n. 15412 del 30/01/2015, Agresta e altri, cap. sull’«Associazione», p. 14, significativamente resa – a conclusione del troncone in abbreviato del procedimento Minotauro – con riferimento a locali di ’ndrangheta torinesi, in relazione ad alcuni dei quali non si registravano emergenze intimidatorie). In tale accezione, la mafia silente costituisce una forma di mafiosità “pura”, in quanto, intrisa com’è (per riprendere il linguaggio della patologia clinica) di virulenza, non ha bisogno di dimostrare ciò di cui è capace, precedendola la sua fama anche in luoghi lontani da quelli di origine.

Il predicato di mafiosità anche della mafia silente è esplicitato da Sez. 6, n. 56966 dell’11/09/2017, Ferminio, la quale, a proposito di un clan di matrice ’ndranghetista del vigevanese, afferma che «l’associazione mafiosa, per essere configurabile, necessita della manifestazione della capacità di intimidazione anche nel caso si tratti di c.d. ‘mafia silente’[, di guisa che] la riconducibilità o meno dei fatti di causa alla c.d. mafia silente non esonera dalla prova della esistenza della capacità di intimidazione [che non è intimidazione “tout court”, n. d.r.] del sodalizio» (par. 5, p. 11). Ancor più icasticamente, Sez. 6, n. 55748 del 14/09/2017, Allavena, par. 5, p. 64, a proposito di due frange di ’ndrangheta dell’estremo Ponente ligure, originariamente unificate ma poi autonomizzatesi in Ventimiglia e Bordighera, spiega che l’irretimento inespresso è «incarnazione della cosiddetta ‘mafia silente’ fin quando possibile, dunque, in conseguenza di una generalizzata capacità intimidatrice dell’associazione mafiosa che non necessita dell’ulteriore impiego di violenza per affermare una capacità di assoggettamento e omertà già stabilita, ma pronto a far uso di forme di intimidazione violente, se necessario alla realizzazione degli interessi vitali del sodalizio».

La posizione, in specie, di Sez. 6, n. 55748 del 2017, non è nuova. Con riguardo all’aggravante dell’uso del metodo mafioso nelle estorsioni perpetrate altresì – e qui sta il punto – nei territori non storici, la giurisprudenza insegna come detta aggravante ben possa essere integrata dall’«utilizzo di un messaggio intimidatorio anche ‘silente’, cioè privo di una esplicita richiesta, qualora l’associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti di violenza o minaccia»: così Sez. 2, n. 26002 del 24/05/2018, Rv. 272884, Pizzimenti, rilevante perché intervenuta a proposito di fenomeni estorsivi di marca ’ndranghetista a Firenze; con riferimento ai territori storici, valga richiamare, per tutte, Sez. 1, n. 54156 del 27/04/2018, Arena G., par. 3.5, p. 17, la quale, in relazione alle estorsioni perpetrate da un clan di Lentini, osserva come il «messaggio intimidatorio “silente”» sia quello «proveniente da associazione mafiosa che ha raggiunto forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso», nonché Sez. 5, n. 29213 del 26/04/2018, Zindato, par. 2, p. 7, la quale, in relazione al prelievo forzoso mensile di merce da un negozio situato nel territorio di una cosca di ’ndrangheta del reggino, ricorda come correttamente i giudici di merito avessero fatto perno, nel ritenere l’esercizio silente del metodo mafioso, ad una intercettazione in cui uno dei responsabili «proclamava una sorta di “manuale” del buon estorsore, il quale deve “farsi volere bene” dalle proprie vittime e non esagerare con pretese esose ed economicamente insostenibili».

10. Evoluzioni della giurisprudenza dopo Sez. 2, n. 15412 del 2015.

L’evocazione di Sez. 2, n. 15412 del 2015, suggerisce di accennare alle ultime prese di posizione della S.C. che si confrontano con essa o con pronunce parallele.

Sez. 1, n. 6973 del 28/11/2017 – dep. 2018 –, Tamburi, interviene sulla ’ndrangheta torinese – in tesi d’accusa costituita da nove locali, da una struttura-funzione denominata “crimine” e da una bastarda – dopo che Sez. 5, n. 14582 del 20/12/2013 – dep. 2014 –, Tamburi e altro, par. 3, pp. 25 e 26, aveva annullato con rinvio la sentenza della Corte territoriale, stimando dovessero esserne integrate le motivazioni «in punto di individuazione in territorio piemontese non già di fenomeni criminali riconducibili ad un’associazione di tipo mafioso, nello schema della “’ndrangheta” calabrese, bensì di doveroso accertamento che i fenomeni in questione si inquadrino in un contesto organizzato su quella base territoriale, prima ancora della verifica dei rapporti dei presunti associati con l’ipotizzata casa-madre», sul presupposto della necessità dell’«adozione», da parte dell’associazione, «di atti materiali, per quanto non intimidatori, dei quali il tessuto sociale in cui l’organizzazione risulti inserita abbia avuto obiettiva contezza, tanto più significativa e necessaria laddove il tessuto in questione non sia (ancora) aduso a confrontarsi con realtà di tal fatta, e manchi pertanto di già radicatesi condizioni di assoggettamento e di omertà di cui il sodalizio possa più immediatamente avvalersi senza nuove manifestazioni esteriori». Afferma Sez. 1, n. 6973 del 2018, non essersi la sentenza di rinvio attenuta alle indicazioni di Sez. 5, n. 14582 del 2014, soprattutto laddove ha ritenuto di trarre la prova della sussistenza della ’ndrangheta in Piemonte sia da Sez. 2, n. 15412 del 2015, sia da Sez. 6, n. 39112 del 20/05/2015, Cataldo, in quanto sentenze relative ai «tronconi principali del procedimento» e pertanto acquisite ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen.: invero, secondo la Corte, «in materia di dimostrazione dell’esistenza delle mafie storiche l’onere di motivazione del giudice patisce una significativa attenuazione in ordine all’“an” del sodalizio a condizione, però, che l’esistenza dello stesso trovi conferma in decenni di storia criminale; il che non è nel caso di specie[,] tanto più che le due pronunce citate non sono tra di loro del tutto corrispondenti[,] atteso che la sentenza della Corte di cassazione del 20 maggio 2015 dubita incidentalmente della sufficienza degli elementi per ritenere tutti i “locali” operativi nel torinese confederati sotto un’unitaria egida associativa piuttosto che – come affermato dalla sentenza della Corte di cassazione del 30 gennaio 2015 – meramente collegati e con profili di elevata collaborazione» (par. 14, p. 25).

Diversamente, Sez. 2, n. 28842 del 07/06/2018, Cataldo, che sopraggiunge dopo il parziale annullamento con rinvio disposto da Sez. 6, n. 39112 del 2015, la quale aveva ritenuto necessario verificare l’esternazione “in loco” del metodo mafioso ad opera di una concrezione di sicura marca ’ndranghetista, omette «ogni considerazione sul tema della cd. “mafia silente”, posto che nel presente procedimento vi è già una sentenza di questa Corte sul punto», ritenendo integrata la dimostrazione di detta esternazione in forza tra l’altro del richiamo, da parte del giudice di rinvio, della «sentenza irrevocabile con la quale la locale del basso Piemonte è stata qualificata come associazione di tipo mafioso» (par. 1.1, p. 5).

11. Mafia silente al di fuori dell’ambito delle delocalizzazioni.

Riprendendo il discorso sulla mafia silente, ne teorizza una terza accezione, che la traghetta fuori dall’ambito delle delocalizzazioni, cui ‘può’, ma non ‘deve’, afferire, Sez. 2, n. 53477, 15/06/2017, Benedetto, resa in ordinario nel procedimento Colpo di coda sui locali di ’ndrangheta di Chivasso e Livorno Ferraris, laddove (par. 2, p. 13), in chiave critica rispetto all’orientamento che esige l’emersione di una mafiosità palese dei locali di ’ndrangheta non calabresi, osserva come il problema della mafia silente sia «mal posto», rilevando – in adesione a Sez. 1, n. 40851 del 19/05/2016, Cavallaro (par. 2.3.2, p. 15) – che la mafia silente attiene ad una «situazione [– affatto diversa da quella della mafiosità dell’associazione-figlia in rapporto all’associazione-madre –] in cui un’organizzazione dalle caratteristiche mafiose, pur costituita ed esistente, non si sia ancora proiettata all’esterno in iniziative delinquenziali per la realizzazione del suo programma criminoso» e soggiungendo come detta fattispecie sia «di problematica soluzione a ragione della formulazione testuale dell’art. 416bis cod. pen., comma 3, il quale pretende, per poter definire mafioso un sodalizio, e quindi distinguerlo da qualsiasi altra formazione incriminata ai sensi dell’art. 416 cod. pen., che lo stesso si avvalga del relativo metodo operativo».

Il concetto di mafia silente non impinge più sulla sola questione delle ramificazioni territoriali delle associazioni-madri, ma attiene alla semplice venuta ad esistenza di strutture nuove, di per se stesse autonome e comunque indipendenti ovvero addirittura in contrasto rispetto a quelle che astrattamente potrebbero essere individuate come le associazioni-madri, dentro oppure fuori i territori di competenza di queste ultime.

A proposito delle nuove ed autonome strutture mafiose, la giurisprudenza sembra assestarsi sull’attribuzione di un significato dirimente alla dimensione di mafiosità “dimostrata sul campo”, insegnando che gli «indicatori fattuali» da cui desumere «la costituzione di una nuova organizzazione, alternativa ed autonoma rispetto ai gruppi storici», ben possano identificarsi «[nel]le modalità con cui sono commessi i delitti-scopo, [nel]la disponibilità di armi e [ne]l conflitto con le tradizionali associazioni operanti sul territorio, purché detti indici denotino la sussistenza delle caratteristiche di stabilità e di organizzazione che dimostrano la reale capacità di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di omertà e di assoggettamento che ne deriva» (Sez. 6, n. 27094 del 01/03/2017, Milite, Rv. 270736, la quale, nell’annullare con rinvio un’ordinanza del tribunale del riesame confermativa della misura custodiale applicata ad un soggetto indagato per la condotta di partecipazione ad un clan camorristico denominato “terzo sistema”, in conflitto con quelli storici, rimarca – par. 2, p. 2 – come l’ordinanza abbia altresì «del tutto trascurato il profilo organizzativo dell’associazione, che in questo tipo di sodalizio assume un rilievo fondamentale, in quanto la prova del carattere mafioso di una consorteria può desumersi anche dall’esistenza di un’efficiente organizzazione»).

12. Novità sulla mafia silente intervenute nel 2018: il rigetto di istanze di rimessione alle Sezioni Unite per la composizione del contrasto di giurisprudenza.

In un quadro già di per se stesso complicato, come quello descritto, si inscrivono nel 2018 eclatanti novità, riconducibili a due livelli espositivi.

Anzitutto, il rigetto dell’estensibilità del concetto di mafia silente anche a congregazioni attive in territori storici ha rappresentato l’addentellato in forza del quale Sez. 6, n. 45456 del 28/06/2018, Aloi, ha respinto la richiesta difensiva di rimessione degli atti alle Sezioni Unite per dirimere il contrasto interpretativo sussistente in tema di sufficienza o meno di una mafia solo silente ai fini della configurabilità del delitto di associazione di tipo mafioso. Osserva la Corte – chiamata ad occuparsi «principalmente di un sodalizio criminale di ’ndrangheta, facente capo a Vincenzo Gallace e operante in Guardavalle e comuni limitrofi, nato a far data dal luglio 2007 dalla scissione dell’associazione mafiosa Gallace-Novella, a seguito dei contrasti insorti tra i capi della cosca» (par. 1.1, p. 3), che «l’evocata contrapposizione di orientamenti interpretativi sul tema della cosiddetta “mafia silente” ha avuto infatti riguardo alla ben diversa fattispecie di gruppi criminali, che si ispirino a sistemi organizzativi ed operativi di famigerate storiche aggregazioni mafiose, operanti in altre aree geografiche rispetto a quelle tradizionali di competenza di quest’ultime», mentre «è evidente c[om] e la questione non rilevi nel caso in esame in cui la cosca Gallace, pur autonoma rispetto alla precedente formazione mafiosa, è pur sempre una formazione nata dalla disgregazione di quest’ultima (la faida Gallace-Novella) e radicata e operante nella medesima realtà territoriale. In tal senso, non appaiono neppure pertinenti gli altri riferimenti giurisprudenziali richiamati dai ricorrenti a sostegno della tesi della necessaria esteriorizzazione del metodo mafioso della compagine mafiosa, che riguardano invece la costituzione di nuove organizzazioni, alternative ed autonome rispetto ai gruppi storici (Sez. 6, n. 27094 del 01/03/2017, Milite, Rv. 270736)» (par. 3.2.1, pp. 24 e 25).

Anche quattro sentenze gemelle di inizio anno (Sez. 1, nn. 9550, 9551, 9552 e 9553 del 15/01/2018, rispettivamente Mammone, Babbino, Danieli e Bruno, investite del tema dell’esistenza di una certa cosca nel comprensorio di Squillace), hanno respinto identiche richieste di rimessioni degli atti alle Sezioni Unite, tuttavia senza predicare la riferibilità della mafia silente alle sole delicalizzazioni, bensì, al contrario, illustrando, sin dalle origini, la mafiosità della cosca e concludendo per l’esteriorizzazione della condotta mafiosa anche attraverso la commissione di reati-fine, quali soprattutto le estorsioni, che in alcuni casi creavano frizioni con una cosca rivale, talché «le ultime [indagini], pur non dimostrando la consumazione di reati-fine, non possono essere considerate a parte, come se il gruppo criminale fosse nato solo allora, ma risultano [esse pure] utili per dimostrare il controllo del territorio e l’unitarietà di gestione degli interessi della cosca» sotto plurimi profili: «la risoluzione di problemi da parte di vittime di reati, veri o presunti, al di fuori del circuito ufficiale, fino a giungere a vere e proprie “indagini” sulla responsabilità di determinate condotte; la forza del gruppo al quale le persone possono “affidarsi”; i rapporti con la criminalità locale con la possibilità di recuperare refurtiva; la trasformazione dei diritti ordinari in possibilità soggette a concessione, previo pagamento di una somma di denaro […]; il controllo del territorio al fine di impedire l’infiltrazione di altre compagini criminali […] (cfr., per tutte, la prima, par. 2, pp. 9 e 10).

13. (segue) Arricchimento dell’elenco delle definizioni giudiziarie di mafia silente.

Partendo dalle conclusioni del paragrafo precedente, si guadagna un ulteriore livello di novità, a sua volta articolato al proprio interno in tre sottopartizioni, le quali arricchiscono l’elenco delle definizioni giudiziarie di mafia silente in una diatriba che si agita tra i due poli delle delocalizzazioni e della casa-madre.

14. (segue) Accezione procedimentale di mafia silente.

Un primo arricchimento si dispiega in chiave ‘procedimentale’, a mo’ di completamento di Sez. 1, nn. nn. 9550, 9551, 9552 e 9553 del 2018. Più precisamente, Sez. 2, n. 28176 del 16/05/2018, Bonarrigo, ha ancora una volta affrontato la questione della mafia silente – “recte”, come si vedrà, dello «stato silente della associazione» – in terra di Calabria, nel cuore della piana di Gioia Tauro, a Rosarno. Alle censure delle difese che revocavano in dubbio l’esistenza di una ’ndrina in quanto nessun segnale ne aveva fatto registrare l’operatività, risponde la Corte che correttamente i giudici di merito, nell’affermare il contrario, avevano valorizzato il «peculiare momento storico fotografato dalle indagini, che non hanno colto l’ordinaria azione criminale del gruppo ma ne hanno registrato l’attività in un periodo di forte crisi[,] in cui era a rischio la sua stessa sopravvivenza a causa del conflitto in corso con la più potente cosca [avversaria]»: le carcerazioni subite dai vertici e la necessità di fronteggiare il conflitto con una storica cosca rivale spiegavano lo scadimento in secondo piano degli ‘affari correnti’, sicché «non può sorprendere che l’attività del gruppo fosse concentrata nel settore delle armi e nella copertura della latitanza dell’esponente più influente ancora libero […,] mentre meno consistenti risultano le tracce di illeciti più lucrativi tipici delle organizzazioni mafiose, a parte le singole violazioni contestate in materie di stupefacenti […]» (par. 22.1, pp. 35-36).

La Corte, facendosi carico dalla durata limitata delle indagini a fronte di fenomeni permanenti, sottolinea che «l’oggetto giuridico peculiare del reato associativo non consiste […] nella repressione dei reati-fine, né di particolari, positive condotte degli associati, costituenti espressione della “societas sceleris”[,] ma è costituito dalla esigenza di tutelare l’ordine pubblico in relazione alla situazione di pericolo che insorge per il solo fatto del “pactum sceleris” […]. Da tali premesse discende la conclusione che la permanenza è perfettamente compatibile con la (apparente) inattività degli associati nella perpetrazione dei reati-fine e, pure, con lo stato silente della associazione […]» (par. 25.1, p. 61).

Completezza vuole che si ricordi come il principio secondo cui la permanenza non è scalfita dallo «stato silente dell’associazione» sia replicato, mediante importazioni dalla giurisprudenza sulle associazioni di tipo mafioso, ma indipendentemente da Sez. 2, n. 28176 del 2018, persino in rapporto all’ordinaria associazione per delinquere. Insegna Sez. 5, n. 44920 del 21/06/2018, Cherubini, par. rubricato: «1. L’associazione a delinquere di cui al capo 1)», pp. 54 e 55, che «la permanenza è perfettamente compatibile con la inattività degli associati [nella specie dovuta anche al sospetto di monitoraggi da parte degli inquirenti] nella perpetrazione dei reati fine e, pure, con lo stato silente della associazione […]. A nulla, pertanto, rileva la carenza “di ulteriori comportamenti omogenei alle finalità del sodalizio” da parte dell’associato […], essendo del tutto coerente con la fisiologia del fenomeno associativo che non tutti gli associati rispondano di tutti i reati-scopo, e che ci possano essere fasi silenti, o associati silenti per delle fasi, essendo rilevante e determinante “l’associarsi allo scopo”».

15. (segue) Mafia silente nei territori di storici.

Un secondo arricchimento dell’elenco delle definizioni di mafia silente appare contermine al primo, nella misura in cui accede alla predicabilità del silenzio anche a sodalizi attivi nei territori storici, predicabilità che, ormai, par chiaro costituire il portato linguistico con cui – spesso implicitamente, ma talvolta esplicitamente – la concreta esperienza giudiziaria si confronta a motivo della prospettazione, in chiave difensiva, di un silenzio di tali sodalizi asseritamente significativo del difetto dei presupposti di mafiosità.

In tale prospettiva, merita di accennare a Sez. 2, n. 14948 dell’11/12/2018, Panuccio, giacché essa, nel ritenere la mafiosità di una certa ’ndrina nel locale di San Martino in Taurianova, nonostante la mancanza, secondo le difese, di esteriorizzazione del metodo mafioso, riconduce “apertis verbis” la questione al tema della mafia silente, «espressione con la quale si allude ad organizzazioni criminali, dagli inconfondibili connotati mafiosi, che non si siano ancora manifestate all’esterno con le imprese delinquenziali in vista delle quali sono state concepite e, quindi, non abbiano avuto ancora modo di proiettare all’esterno la forza intimidatrice di cui sono capaci»; indi, richiamando Sez. 5, n. 31666 del 2015, opina che «il contrasto» sorto tra i due fondamentali orientamenti della sufficienza di una mera capacità intimidatoria ovvero della necessità di un’intimidazione esibita «è stato tuttavia ritenuto solo apparente[,] potendo non risultare tale ove sia possibile affermare che le oscillazioni interpretative (tra mera potenzialità ed attualità della forza intimidatrice) siano il risultato di una diversa individuazione del presupposto fattuale del relativo ragionamento: nella soluzione del quesito è dirimente cioè l’individuazione in concreto della natura della struttura associativa in questione e delle sue precipue connotazioni; infine, sul presupposto che, «in definitiva, il contrasto […] si risolve […] sul piano squisitamente probatorio, trattandosi di accertare, sulla base dei dati acquisiti, se[,] in considerazione delle caratteristiche in concreto dell’associazione[,] essa comprometta l’incolumità di coloro che risiedono in una determinata realtà geografica così estrinsecandosi la intimidazione del sodalizio ed il metodo mafioso», conclude che, nel caso della ’ndrina oggetto di giudizio, eretta secondo le regole ed i riti ’ndranghetisti, «sarebbe […] sufficiente il riscontro dell’inconfondibile marchio di origine ’ndranghetista, per ritenere sussistente la prova della capacità intimidatrice e della condizione di assoggettamento della locale popolazione e di omertà tipiche dell’associazione mafiosa (circostanza confermata dalla ritrattazione di testi e dai numerosi ripensamenti delle vittime di usura)» (fermo che, in aggiunta, vi era comunque la prova ‘schiacciante’ dell’esercizio da parte della stessa di un effettivo controllo del territorio) (par. 1.4, pp. 17 ss.).

In definitiva, l’accenno all’«inconfondibile marchio di origine ’ndranghetista» avvalora, finanche nella prospettiva probatoria fatta propria da Sez. 2, n. 14948 del 2018, un approccio fondato sull’identificazione, nella realtà, dei tratti tipici (o conosciuti per tali) della ’ndrangheta quale presupposto legittimante “ex se” il riconoscimento, in capo alla singola concrezione, non della forza di intimidazione e men che meno del suo esercizio “sub specie” dell’avvalimento ex art. 416-bis, comma 3, cod. pen., ma di una mera «capacità intimidatrice». Né in fondo avrebbe potuto essere diversamente, sol che si consideri che detto accenno è tributario della celebre espressione di Sez. 5, n. 31666 del 2015, la quale, a proposito però di concrezioni delocalizzate in territori refrattari, aveva ritenuto un «fuor d’opera» pretendere «la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento od omertà» pur «in presenza di [una ben nota] caratterizzazione delinquenziale, con [in]confondibile marchio di origine», della ’ndrangheta (par. 3.2, p. 21): se un tale «fuor d’opera» si configura per siffatte concrezioni, non può non configurarsi, a maggior ragioni, per strutture calabresi in territorio calabrese.

16. (segue) Mafia silente come «forza di intimidazione “intrinseca” alla struttura dell’associazione mafiosa».

La conclusione testé raggiunta proietta – tuttavia, quantomeno in prima battuta, sul terreno delle delocalizzazioni, salve agevoli estensioni generalizzanti – al terzo ed ultimo arricchimento dell’elenco delle definizioni di mafia silente, espresso da Sez. 5, n. 47535 dell’11/07/2018, Lombardo, nel sostenere la mafiosità della società svizzera di Frauenfeld (cui saranno dedicati “funditus” i paragrafi seguenti).

La Quinta Sezione principia affermando che le «ipotesi di “delocalizzazione” delle c.d. “mafie storiche” (mafia, “’ndrangheta”, camorra e sacra corona unita, tipizzate dal legislatore nell’art. 416-bis cod. pen. [sebbene, in verità, l’ultimo comma dell’art. 416-bis cod. pen. non menzioni anche la sacra corona unita])», «in considerazione del collegamento con le componenti centrali (la c.d. “casa madre”, in Calabria [,] denominata “Provincia” o “Crimine”), e della fama criminale conseguita nei territori di origine, possono assumere anche la dimensione della c.d. “mafia silente”» (par. 2.3, p. 6). Sin qui “nihil novi”, concentrandosi il discorso sulle delocalizzazioni e sul collegamento delle stesse con la casa-madre. L’elemento di novità emerge poco oltre, laddove la Quinta Sezione scrive che il “proprium” «delle forme di “delocalizzazione” delle “mafie storiche”, e della ’ndrangheta in particolare […], connotata da forme di vera e propria “colonizzazione” dei territori nei quali decide di estendere la propria forza egemonica, risiede nella “intrinseca”, e non “implicita”, forza di intimidazione derivante dal collegamento con le componenti centrali dell’associazione mafiosa, dalla riproduzione sui territori delle tipiche strutture organizzative della ’ndrangheta, dall’avvalimento della fama criminale conseguita, nel corso di decenni, nei territori di storico ed originario insediamento». Pertanto, e qui risalta l’attitudine generalizzante del ragionamento compiuto (in un’ideale linea di continuità con Sez. 2, n. 14948 del 2018) anche sul piano istruttorio dalla Quinta Sezione, è corretto «affermare […] che, ricorrendone i presupposti (strutturali, organizzativi, operativi), la c.d. “mafia silente” rientra nel paradigma normativo dell’art. 416-bis cod. pen., in quanto è capace di avvalersi di una forza di intimidazione “intrinseca” alla struttura dell’associazione mafiosa, nelle sue componenti centrali e delocalizzate, […] pur in assenza di forme di “esteriorizzazione” (che non coincide con il diverso concetto di “estrinsecazione”) eclatante del metodo mafioso e della forza di intimidazione, che non deve essere ritenuta “implicita”, secondo inammissibili logiche di accertamento presuntive, bensì “intrinseca” alla accertata capacità di egemonizzazione criminale dei territori propria delle più potenti e temibili associazioni mafiose» (par. 2.4, pp. 9 e 10).

La mafia silente è la mafiosità «intrinseca» delle articolazioni – indifferentemente centrali e periferiche – della criminalità organizzata: una mafiosità «estrinsecata», ancorché non necessariamente «esteriorizzata», che si rivela come «capacità di egemonizzazione criminale dei territori». Talché, al fondo, permane pur sempre una dimensione territoriale del fenomeno mafioso.

17. L’importanza, anche storica, della giurisprudenza sulla società svizzera di Frauenfeld e sul locale tedesco di (Real)singen.

Nello studio della mafiosità delle delocalizzazioni ’ndranghetiste, un ruolo “ricorrente” ricopre il locale – “recte”, società – di Frauenfeld, in Svizzera, contrapposto al vicino locale di Realsingen o Singen, in Germania. Infatti, ampia parte della produzione giurisprudenziale del 2018 riguarda, senza univocità di vedute, proprio la società di Frauenfeld, dopo che, in rapporto alla medesima, Sez. 2, nn. 15807 e 15808 del 25/03/2015, rispettivamente Nesci A. e Albanese, avevano investito il Primo Presidente per l’eventuale rimessione alle Sezioni Unite della questione se è necessario, oppure no, che le strutture delocalizzate, per essere qualificate come mafiose, esprimano in concreto una propria carica intimidatoria.

Allora come oggi, la società di Frauenfeld, assieme al locale di Singen, possiede la caratteristica di contemplare un organigramma associativo persino ‘battezzato’, con strutturazione gerarchica dipendente dalla casa-madre di Fabrizia e conferimento di ‘doti’, senza tuttavia dare segnali della commissione sul territorio di insistenza di tipici reati intimidatori (con breviloquenza imprecisa, ma efficace, definibili reati-fine).

Le ordinanze di rimessione – esposta la posizione dei giudici di merito secondo cui erano «sufficienti a far ritenere la mafiosità le seguenti circostanze: a) la partecipazione del[l’indagato] a riti ancestrali di matrice ’ndraghetista; b) il dissidio fra i due locali di Frauenfeld e Singen […]; c) il rapporto con il […] capo-cosca del locale di Fabrizia: ossia circostanze “interne” alle dinamiche della “’ndrangheta” ma che nulla hanno a che vedere con i requisiti indicati dall’art. 416-bis/3 cod. pen.» – rilevavano come essa aderisse alla tesi (rappresentata tra l’altro da Sez. 1, n. 5888 del 10/01/2012, Garcea, Rv. 252418; Sez. 2, n. 4304 del 11/01/2012, Romeo, Rv. 252205; Sez. 5, n. 45711 del 02/10/2003, Peluso, Rv. 227994; Sez. 5, n. 38412 del 25/06/2003, Di Donna, Rv. 227361) secondo cui, ai fini della qualificazione come mafiosa di un’organizzazione criminale, «è sufficiente la capacità potenziale, anche se non attuale, di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con gli affiliati all’organismo criminale, non essendo, quindi, necessario che sia stata effettivamente indotta una condizione di assoggettamento ed omertà nei consociati attraverso il concreto esercizio di atti intimidatori»; ma osservavano che tale tesi si poneva in contrasto con altra (rappresentata essenzialmente da Sez. 1, n. 25242 del 16/05/2011, Baratto, Rv. 250704; Sez. 5, n. 19141 del 2006, Rv. 234403) secondo cui, invece, «è necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione e, quindi, deve necessariamente avere una sua esteriorizzazione quale forma di condotta positiva, come si evince dall’uso del termine “avvalersi” contenuto nell’art. 416-bis cod. pen. (cfr., per entrambe, Sez. 2, n. 15807 del 2015, par. 3, p. 5).

Il Primo Presidente, con provvedimento del 28 aprile 2015, riteneva che il contrasto potesse essere risolto senza l’intervento del Massimo consesso, tenuto presente che «il panorama giurisprudenziale complessivamente considerato sembra convergere nell’affermazione di principio secondo cui l’integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il sol fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obbiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti».

Nondimeno, come rilevato da Sez. 2, n. 24851 del 04/04/2017, Garcea e al., Rv. 270442, par. 4.1, p. 6, pur dopo il provvedimento del Primo Presidente, gli orientamenti delle singole Sezioni hanno seguitato ad essere irriducibili ad unità.

18. Le pronunce del 2018 sulla società di Frauenfeld: la tesi della necessaria mafiosità in concreto.

Le pronunce intervenute nel 2018 sulla società di Frauenfeld offrono una panoramica completa, ed anzi “arricchita”, delle direttrici percorse in giurisprudenza a proposito della mafiosità delle delocalizzazioni ’ndranghetiste: pertanto, ragguagliando sulle prime, risultano possibili brevi cenni anche alle seconde.

Anzitutto, vengono in linea di conto Sez. 6, nn. 22545 e 22546 dell’11/04/2018, rispettivamente Rullo e Nesci B.: esse – prendendo le distanze dal tribunale del riesame, il quale, nell’ordinanza impugnata, aveva fatto propria la posizione che, «nell’ipotesi di gruppo criminale che si presenti come articolazione di un’associazione mafiosa, per così dire, “tradizionale” o “storica”, reputa sufficiente la prova che il sodalizio presenti evidenti connotati di “mafiosità” sul piano organizzativo interno, qualora il gruppo criminale medesimo si sia insediato in aree di non tradizionale radicamento mafioso» – aderiscono sul piano teorico all’opinione della necessaria mafiosità in concreto: opinione «maggiormente aderente alla lettera della legge nella ricostruzione ermeneutica dei requisiti oggettivi propri della fattispecie criminosa di cui [all’art. 416-bis cod. pen.], in linea con la più accreditata tesi dottrinaria che configura il delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso come reato a struttura mista, a significare cioè l’esigenza di un elemento ulteriore, rispetto al mero dato dell’organizzazione di una pluralità di persone accomunate dalla volontà di perseguire le finalità illecite indicate dalla norma, che segna la differenziazione di detta ipotesi criminosa dal delitto associativo puro. Vale a dire il concreto dispiegarsi della forza d’intimidazione, che non può quindi essere oggetto di automatico riconoscimento, attraverso una non consentita semplificazione probatoria […], in presenza di articolazioni delle c.d. “mafie storiche”, ove le stesse intendano impiantarsi in territori “vergini”, estranei all’originario radicamento del fenomeno mafioso […]» (quanto ad entrambe, par. 2, pp. 3 e 4).

19. (segue) I precedenti della tesi della necessaria mafiosità in concreto.

La Sesta Sezione cita a conforto due ultimi precedenti.

Il primo è Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, Vicidomini, Rv. 271102,che, in motivazione, propone di «rivisita[re] criticamente l’assunto secondo cui anche l’associazione mafiosa sarebbe un reato associativo “puro”, che si perfeziona sin dal momento della costituzione di una organizzazione illecita che si limiti a programmare di utilizzare la propria forza di intimidazione e di sfruttare le conseguenti condizioni di assoggettamento e omertà per la realizzazione degli obiettivi indicati dalla norma, anche nel caso in cui l’effetto intimidatorio non sia in concreto prodotto» (par. 2, p. 4), sottolineando però ad un tempo che «il ricorso alla violenza o alla minaccia non costituisce una modalità con cui puntualmente debba manifestarsi all’esterno la condotta degli agenti, dal momento che la condizione di assoggettamento e gli atteggiamenti omertosi, indotti nella popolazione e negli associati stessi, costituiscono [piuttosto] la conseguenza del prestigio criminale dell’associazione» (par. 2, p. 5). Detta sottolineatura è viepiù significativa in quanto Sez. 6, n. 41772 del 2017, non riguarda delocalizzazioni ’ndranghetiste, ma una nuova cellula camorristica, che ha caratterizzazioni intrinseche disomogenee rispetto alla ’ndrangheta, sorta viepiù in un territorio tradizionale in continuità di un clan storico.

Il secondo precedente citato dalla Sesta Sezione è più pregnante, perché riguarda il locale antagonista della società di Frauenfeld, ossia il locale di Singen, rispetto al quale Sez. 1, n. 55359 del 2016, celebre per aver proclamato, nel troncone in abbreviato del procedimento Crimine, la natura unitaria della ’ndrangheta, ha escluso la caratura mafiosa in difetto dell’evidenza di manifestazioni “in loco” di intimidazione (Rv. 269043).

Sez. 1, n. 55359 del 2016, rigetta la censura imperniata sul difetto di giurisdizione italiana in rapporto alle condotte degli appartenenti al locale di Singen, per essere il procedimento stato correttamente radicato in Italia in funzione della «prospettazione» d’accusa, intesa a sostenere che «a) il gruppo di Singen va inquadrato come cellula di “’ndrangheta”, pur operante all’estero; b) tale realtà territoriale mantiene un legame con la “casa madre” attraverso contatti funzionali al mantenimento di una rete comune di interessi; c) il soggetto aderente, sia pure all’estero, a tale organismo territoriale contribuiva in tal modo al raggiungimento delle finalità complessive della organizzazione ed era pertanto punibile anche in Italia» (par. 6.51.5, fg. 415). Nondimeno giudica infondata siffatta prospettazione, poiché gli accertamenti compiuti – arrestatisi «su un profilo (l’unico disponibile) di mera cornice», a termini del quale non constava che l’autoproclamata «squadra», eretta (si badi) secondo riti e codici di ’ndrangheta sotto l’egida del locale di Fabrizia, «avesse espresso un radicamento mafioso nel territorio» – restituivano «una realtà estera di problematico inquadramento sotto il profilo effettuale e giuridico, potendosi trattare – ma in via di mera ipotesi – di un “embrione” di cellula “’ndranghetistica” o anche di un nucleo effettivo delle cui modalità operative non vi è però prova alcuna» (par. 6.51.6, fg. 416).

Quel che preme di porre in evidenza è che Sez. 1, n. 55359 del 2016, sul presupposto dell’unitarietà della ’ndrangheta, avrebbe agevolmente potuto percorrere l’opzione della mafiosità delle cellule presenti fuori dalla Calabria per il dato in sé del loro riferimento al corpus centrale, opzione invece respinta in favore di una lettura più garantista.

Ma quel che preme ancor di più di porre in evidenza è che una simile opzione è stata in effetti percorsa da Sez. 2, n. 29850 del 2017, intervenuta medesimamente a conclusione del procedimento Crimine, ma nel troncone dibattimentale. La Seconda Sezione – premesso che le conclusioni di Sez. 1, n. 55359 del 2016, sono «solo in parte condivisibili» (par. 1.2.2, p. 33), quanto all’enunciato di una ’ndrangheta unitaria – ritiene invece che non lo siano ove fanno scadere in secondo piano la centralità del collegamento della neoformazione con l’associazione-madre: qualora, infatti, «la neoformazione […] nasca come effettiva articolazione periferica o ‘gemmazione’ dell’organizzazione mafiosa radicata nell’area tradizionale di competenza[,] in presenza di univoci elementi dimostrativi di un collegamento funzionale ed organico con la casa-madre, la cellula o aggregato associativo non potrà che considerarsi promanazione dell’originaria struttura delinquenziale, di cui non può che ripetere tutti i tratti distintivi, compresa la forza intimidatrice del vincolo e la capacità di condizionare l’ambiente circostante» (par. 1.2.3, p. 39); donde «è condivisibile il giudizio espresso dalla Corte territoriale che, nel caso di specie, ha ritenuto di poter individuare i connotati distintivi dell’associazione per delinquere di stampo mafioso […]. A tal fine sono stati correttamente considerati […] i moduli organizzativi della neoformazione, univocamente ispirati ai canoni d’impostazione strutturale della ’ndrangheta, attraverso tipici rituali di affiliazione e ripartizione dei ruoli, segretezza del vincolo, rapporti di comparaggio o comparatico fra gli adepti, rispetto del vincolo gerarchico, uso di un linguaggio criptico. Raggiunta la prova dei connotati distintivi della ’ndrangheta e del collegamento con la casa madre, la nuova formazione associativa è stata ritenuta in sé pericolosa per l’ordine pubblico, indipendentemente dalla manifestazione di forza intimidatrice nel contesto ambientale in cui era radicata. I singoli partecipanti, che erano, di certo, ben consapevoli di non aderire ad un circolo ricreativo o ad un’associazione “no-profit” – secondo la felice espressione utilizzata dalla […] sentenza n. 31666/2015 – sono stati giustamente chiamati a rispondere del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.» (ivi, pp. 46-47).

In effetti, il prototipo del ragionamento adottato da Sez. 2, n. 29850 del 2017, si rinviene in Sez. 5, n. 31666 del 2015, la quale, chiamata ad occuparsi, concludendo in abbreviato il procedimento Alba chiara, di numerosi locali di ’ndrangheta attivi nel Piemonte meridionale, cui taluni degli imputati avevano persino confessato di aver aderito, proclama che «non è revocabile in dubbio che nella realtà fenomenica, a fronte della teorica molteplicità di manifestazioni di criminalità organizzata, di fatto le possibili diversità tendono a risolversi nella seguente alternativa[: i]l nuovo aggregato delinquenziale può […] porsi come struttura autonoma ed originale, anche se si proponga di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche, attraverso lo sfruttamento di quella maggiore forza intimidatrice che, fisiologicamente, si riconnette alla forma associativa[; o]vvero può configurarsi come mera articolazione di tradizionale organizzazione mafiosa, in stretto rapporto di dipendenza o, comunque, in collegamento funzionale con la casa madre», traendone la conclusione che, solo «nel primo caso, [è] imprescindibile la verifica, in concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie di reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.» (par. 3.1, p. 19). In aderenza alla motivazione, la massima estratta da Sez. 5, n. 31666 del 2015, “sub” Rv. 264471, ricordando come la S.C. abbia tra l’altro valorizzato il fatto che una delegazione di appartenenti alla struttura periferica si era recata in Calabria per ottenere, da un esponente di spicco dell’organizzazione mafiosa, il “placet” per la costituzione di una nuova cellula in altro comune piemontese, recita che «il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. è configurabile – con riferimento ad una nuova articolazione periferica (c.d. “locale”) di un sodalizio mafioso radicato nell’area tradizionale di competenza – anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice, qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella “madre” del sodalizio di riferimento, ed il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc.) presenti i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l’ordine pubblico».

20. (segue) La natura ’ndranghetista della società di Frauenfeld anche alla stregua della tesi della necessaria mafiosità in concreto.

Prima di concludere su Sez. 6, nn. 22545 e 22546 del 2018, è necessario render conto di un “colpo di scena”, giacché esse, nonostante la premessa teorica di cui si è disquisito, hanno – previa rettifica della motivazione ex art. 619 cod. proc. pen. – confermato l’ordinanza impugnata, rilevando come, stante la formulazione dell’incolpazione, l’oggetto dell’indagine fosse «costituito[,] non dall’esistenza di un’associazione di tipo mafioso di matrice ’ndranghetista, dotata di una sua autonomia, in territorio estero, ma precipuamente dall’affiliazione alla stessa associazione-madre, operante anche e innanzi tutto nel territorio di elezione, che riceve altresì un contributo dai propri membri attivi all’estero, ove essi risultano organizzati. Del che offre puntuale riscontro la correlata constatazione che l’A.G. procedente è quella di Reggio Calabria […] e non già quella del territorio in cui è attiva la locale, come avvenuto nelle notorie vicende processuali che hanno avuto ad oggetto le locali della Lombardia o del Piemonte, cui pure si fa riferimento nell’ordinanza in esame: ciò, appunto, perché la prospettazione accusatoria è nel senso che, per effetto dell’anzidetto contributo offerto alla casa-madre, quella parte della condotta criminosa risulta commessa in Italia ed è pertanto punibile in seno al nostro ordinamento, nel rispetto dei principi generali dettati dall’art. 6 cod. pen.»; talché «la mancata contestazione di reati-fine attiene al tema della esteriorità della mafiosità dell’organizzazione delocalizzata nell’area di Frauenfeld, di per sé sola considerata, che non risulta in alcun modo determinante rispetto alla problematica della gravità indiziaria relativa alla partecipazione de[gli indagati] alla ’ndrangheta reggina, per quanto detto del tutto estranea all’ambito del ricorso» (per entrambe, par. 3, pp. 5 e 6).

Trattasi di un’impostazione innovativa.

Più precisamente, all’opposta conclusione di una non dimostrata mafiosità della società di Frauenfeld – alla quale però, e non alla ’ndrangheta come tutto, gli indagati parrebbe fossero accusati di aver fatto parte – erano giunte le due pronunce successive, nell’ambito dei rispettivi procedimenti, al provvedimento del Primo Presidente del 28 aprile 2015, ossia Sez. 2, nn. 34278 e 34279 del 14/07/2015, Nesci A. e Albanese, in cui leggesi che «manca nell’ordinanza impugnata, al di là della citazione di conversazioni intercettate che denotano indubbiamente la comunanza di interessi o di frequentazioni tra i componenti della locale di Frauenfeld e i “corrispondenti” calabresi, l’indicazione di concreti elementi circa l’effettiva capacità di intimidazione dell’articolazione di Frauenfeld nell’area geografica di riferimento e, quindi, alla percezione della stessa articolazione nel territorio elvetico come associazione criminale» (cfr., per entrambe, la prima, par. 2, p. 4).

Più recentemente, anche Sez. 1, n. 13143 del 09/03/2017, Nesci Domenico, sul versante del locale di (Real)singen, ne ha escluso la mafiosità con argomentazioni sovrapponibili (cfr. in part. par. 5.2, p. 9), a fronte però – e a questo punto la carica innovativa di Sez. 6, nn. 22545 e 22546 del 2018, risalta al massimo grado – della contestazione all’indagato del «delitto di partecipazione all’associazione mafiosa denominata “’ndrangheta”, operante sul territorio della provincia di Reggio di Calabria, del territorio nazionale ed estero[,] costituita da molte decine di «locali», articolati in “mandamenti” e con organo di vertice denominato «Provincia», e segnatamente all’articolazione tedesca denominata “società di Riealsingen” della quale ricopriva il ruolo di “vice-capo del locale” (artt. 416-bis, primo, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, cod. pen. [… e] 3, l. n. 146/2006) […]» (par. 1 del «Ritenuto in fatto», p. 2).

21. (segue) La tesi dell’«osmosi tra la forza di intimidazione dei sodalizi storici operanti in Calabria e di quelli ubicati altrove».

Una posizione opposta, quantomeno in diritto, a quella di Sez. 6, nn. 22545 e 22546 del 2018, assume Sez. 5, n. 28722 del 24/05/2018, Demasi Giovanni (adesivamente citata da Sez. 5, n. 47535 del 2018, par. 2.2., pp. 4 e 5), la quale, pronunciando sulla «riconducibilità al reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. della realtà associata costituita dal “locale” [“recte”, società] di Frauenfeld quanto, in particolare, alle implicazioni della – eventuale – mancata esteriorizzazione del metodo mafioso, ma anche della dipendenza dalla ’ndrangheta calabrese» (par. 2, p. 1), propende per la tesi dell’«osmosi tra la forza di intimidazione dei sodalizi storici operanti in Calabria e di quelli ubicati altrove» (par. 3.2.1, p. 3). A tal fine afferma di porsi nel solco di Sez. 2, n. 24850 del 2017, e soprattutto di Sez. 5, n. 31666 del 2015, richiamando, in particolare, quella parte della motivazione di quest’ultima (par. 3.2, p. 21) a termini della quale «l’immediatezza e l’alta cifra di diffusione dei moderni mezzi di comunicazione, propri della globalità, hanno contribuito ad accrescere a dismisura la fama criminale di certe consorterie, di cui, oggi, sono a tutti note spietatezza dei metodi, ineluttabilità delle reazioni sanzionatorie, anche trasversali, inequivocità ed efficacia persuasiva dei codici di comunicazione. Sicché, non è certo lontano dal vero opinare che il grado di diffusività sia talmente elevato che il messaggio – seppur adombrato – della violenza (di quella specifica violenza di cui sono capaci le organizzazione mafiose) esprima un linguaggio universale da tutti percepibile, a qualsiasi latitudine […. L]’immagine di una ‘ndrangheta cui possa inerire un metodo “non mafioso” rappresenterebbe un ossimoro, proprio in quanto il sistema mafioso costituisce l’in sé della ’ndrangheta, mentre l’impatto oppressivo sull’ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo da questa stessa consorteria. Il baricentro della prova deve, allora, spostarsi sui caratteri precipui della formazione associativa e, soprattutto, sul collegamento esistente – se esistente – con l’organizzazione di base. In questo senso, vanno dunque lette ed apprezzate le statuizioni di questa Corte regolatrice, che reputano sufficiente la mera potenzialità del vincolo associativo, indipendentemente dal suo concreto esteriorizzarsi».

In buona sostanza, Sez. 5, n. 28722 del 2018, segue l’orientamento che valorizza il collegamento della delocalizzazione con la casa-madre, giacché esso rappresenta il cordone ombelicale corrente tra le due e trasferisce sulla prima, ancorché non per derivazione, ma per «gemmazione» (sostantivo di uso corrente a partire da Sez. 5, n. 31666 del 2015, par. 3.2, p. 20), l’impronta di mafiosità della seconda. La riprova si ha in ciò che, in difetto, ricorre il ben diverso caso di una «neoformazione» la quale, presentandosi come «struttura autonoma ed originale, ancorché caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche», fa insorgere – essa sì, come già visto – nel teatro del procedimento penale l’indefettibilità della «verifica, in concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie ex art. 416-bis cod. pen., tra cui la manifestazione all’esterno del metodo mafioso […]» (Sez. 2, n. 24850 del 28/03/2017, Cataldo A., Rv. 270290, che ha confermato la natura mafiosa del locale di Giaveno, nel torinese).

22. (segue) La tesi della valutazione del modo d’essere complessivo della delocalizzazione.

Infine, Sez. 2, n. 30387 del 11/01/2018, Demasi Nazareno Salvatore parrebbe oltrepassare il segno di Sez. 5, n. 28722 del 2018, giacché non disconosce l’importanza del «collegamento tra la cellula svizzera [– la società di Frauenfeld –] e la ’ndrangheta reggina», non però quale perno della mafiosità della cellula stessa, ma come uno soltanto dei plurimi elementi del suo modo d’essere: invero, «le risultanze investigative apprezzate in un’ottica globale e complessiva, unitamente ad elementi quali il modulo organizzativo dell’articolazione territoriale in esame, univocamente ispirato ai canoni d’impostazione strutturale della ‘ndrangheta, i tipici rituali di affiliazione e di ripartizione dei ruoli, con assegnazione a ciascuno delle colorite qualificazioni proprie del gergo mafioso, le tipiche riunioni mafiose, occasioni di incontro con finalità operative e strategiche e il dimostrato collegamento tra la cellula svizzera e la ‘ndrangheta reggina, che faceva della prima una diretta promanazione dell’altra, devono far deporre per l’inequivocabile ed obiettivamente riscontrabile capacità intimidatoria esternata sul territorio elvetico a prescindere dalla realizzazione di reati fine» (par. 3, p. 3).

23. Aggiornamenti sulle mafie straniere.

Prescindono da una territorialità intesa come controllo pervasivo e totalizzante del territorio le pronunce sulle mafie straniere, atteso che – giusta radicato insegnamento – la verifica delle condizioni di assoggettamento e di omertà deve essere espletata con riferimento, sì, allo specifico ambito territoriale in cui il sodalizio opera, ma è necessario considerare il «particolare ambiente culturale, geografico ed etnico in cui i fatti sono maturati», di modo che la ricorrenza del metodo mafioso emerga dalla combinazione di «vari elementi indiziari, in una chiave di lettura che tenga conto delle nozioni socio-antropologiche e del particolare ambiente culturale, geografico ed etnico in cui i fatti sono maturati» (Sez. 1, 10/12/1997, Rasovic).

Tale concetto è ribadito, in tempi recenti, da Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017, P. Rv. 271192, che, ritenendo la mafiosità di un’associazione di romeni operante a Torino nell’ambito dei locali notturni frequentati o gestiti da cittadini parimenti romeni, puntualizza come «il reato previsto dall’art. 416-bis cod. pen. [sia] integrato anche da organizzazioni diverse dalle mafie cosiddette ‘tradizionali’ ad alto numero di appartenenti con radicamento su un vasto territorio, essendo sufficiente che i caratteri precipui dell’associazione di stampo mafioso vengano accertati anche solo rispetto ad un ambito territoriale o settoriale circoscritto».

A tali elaborazioni, arricchite da una prospettiva esegetica che attribuisce rilevanza al profilo strutturale dell’organizzazione (Sez. 2, n. 54875 del 28/11/2017, Omoregie, par. 3, pp. 4 e 5), è ferma la giurisprudenza, che non ha avuto occasione di ritornare sulle mafie straniere, eccezion fatta per una serie di pronunce conformi della Quinta Sezione le quali, a proposito di una concrezione cinese in quel di Firenze, Prato e Roma qualificata dal G.I.P. come mafiosa, hanno giudicato immuni da censure le ordinanze di annullamento “in parte qua” del Tribunale del riesame (Sez. 5, n. 35844 dell’11/06/2018, P.T. Firenze e Zhang Naizhong; Id., n. 40120 del 25/06/2018, P.T. Firenze in proc. Zhang Chaozhe e altro; Id., n. 40769 del 25/06/2018, P.T. Firenze in proc. Chen Qin; Id., n. 48617 del 20/09/2018, P.T. Firenze in proc. Lin Bingzhong).

In tutte le suddette pronunce, la S.C. ha ritenuto che correttamente il Tribunale, inquadrata l’associazione oggetto di scrutinio nel fenomeno delle cd. ‘nuove mafie’, avesse preso in considerazione l’eterogeneo catalogo contestativo dei reati-fine onde appurare se questi fossero indici di un’associazione di tipo mafioso o, in subordine, quantomeno di un’associazione ordinaria, sulla base dell’insegnamento – risalente a Sez. 1, n. 5405 del 11/12/2000, Fanara, Rv. 218089, – che, «mentre non può parlarsi di associazione per delinquere ordinaria quando gli associati abbiano come scopo esclusivo la commissione non di un numero indeterminato di delitti, ma solo di uno o più delitti previamente individuati, nulla vieta la configurabilità, invece, del reato di associazione di tipo mafioso quando gli associati, pur essendosi dati un programma che, quanto a fatti specificamente delittuosi, presenti le stesse limitazioni dianzi accennate, siano tuttavia mossi da altre concorrenti finalità comprese fra quelle previste dalla norma incriminatrice e comunque adottino, per la realizzazione di quel programma e delle altre eventuali finalità, i particolari metodi descritti dalla stessa norma». Ineccepibile è parso pertanto alla Corte il percorso logico seguito dal Tribunale nell’osservare, da un lato, come al «presunto capo supremo dell’associazione mafiosa» fosse addebitato un numero affatto esiguo di reati in concorso (quattro su trentuno) e, dall’altro, come mancasse in sé e per sé «un adeguato livello di gravità indiziaria in relazione ad alcuni delitti-scopo», di guisa che «non era desumibile la sussistenza di una struttura associativa qualificabile in termini mafiosi e neppure di una ordinaria associazione per delinquere» (cfr., per tutte, Sez. 5, n. 35844 del 2018, parr. 4.3. e 4.4, p. 11).

Un ulteriore profilo di interesse, per la rilevanza operativa delle indicazioni che se ne possono trarre, concerne il «travisamento dei fatti e delle prove» lamentato dal P.G. ricorrente in ordine alla mancata valorizzazione di «conversazioni confessorie» del capo, rispetto alle quali il Tribunale, pur cogliendo «il contesto malavitoso» di riferimento, aveva ritenuto la necessità di «un approfondimento per verificare se i termini cinesi impiegati […] fossero esattamente corrispondenti ai termini italiani “capo”, “mafia” e “mafioso”, propri del fenomeno criminoso italiano della mafia». La Corte – premesso che è denunciabile per cassazione solo il travisamento di una prova e non il travisamento di un fatto, estraneo di per sé alla cognizione del Giudice di legittimità – risponde che difettava il requisito della decisivistà alla censura, avendo il Tribunale osservato «che era necessario (così come, del resto, avevano convenuto sia l’attività investigativa, sia l’ordinanza del primo giudice) verificare e chiarire se e in qual modo [le ricordate] espressioni verbali rivestissero un effettivo contenuto criminale, per ancorare le ipotesi di reato a dati fattuali specificamente acquisiti (che invece non risultavano effettivamente significativi)» (cfr., nuovamente, per tutte, Sez. 5, n. 35844 del 2018, parr. 9.1, 9.2 e 9.3, pp. 16 e 17). Talché, in definitiva, l’emersione in indagini di ‘auto-qualificazioni’ finanche esplicite in termini di mafiosità del sodalizio straniero oggetto di osservazione non è di per sé prova regina, necessitando di essere ancorata a risultanze fattuali suscettibili di inquadramento in conformità a dette ‘auto-qualificazioni’.

24. Cenni alle pronunce sul cd. clan Spada di Ostia.

Concludono il presente lavoro brevissimi cenni alle numerose pronunce che nel 2018 si sono occupate, in sede cautelare, del cd. clan Spada di Ostia.

È curioso rilevare come, nonostante che si versi in ipotesi di cd. nuova mafia in un territorio refrattario, soltanto una di esse sia stata richiesta di pronunciare espressamente sulla natura mafiosa o meno di detto clan. Trattasi di Sez. 5, n. 44156 del 13/06/2018, Spada C., la quale, nondimeno, ha avuto agio ad affermare la natura mafiosa del clan ricostruendone sia la storia, fatta di alleanze con esponenti di mafie tipiche “in loco” e di alleanze e contrapposizioni rispetto a famiglie autoctone, una delle quali riconosciuta come mafiosa con sentenze passate in giudicato (ad essa riferendosi tra l’altro Sez. 6, n. 57896 del 26/10/2017, Fasciani, Rv. 271724, secondo cui «il reato previsto dall’art. 416-bis cod. pen. è configurabile in relazione ad organizzazioni diverse dalle mafie cosiddette ‘tradizionali’, anche nei confronti di un sodalizio costituito da un ridotto numero di partecipanti, che tuttavia impieghi il metodo mafioso per ingenerare, sia pur in un ambito territoriale circoscritto, una condizione di assoggettamento ed omertà diffusa»); sia la caratura criminale, restituita dalla commissione, nel corso di un lungo torno di tempo, di una lunga serie di gravi delitti, che spaziano da pestaggi vari, ad estorsioni, ad omicidi tentati e consumati. Talché – secondo la Corte – non può essere revocato in dubbio né l’esercizio del metodo mafioso né il conseguente stato di omertosa intimidazione in capo alla popolazione delle zone di Ostia sottoposte al controllo del clan (resa plasticamente dal rifiuto di riferire alcunché agli inquirenti da parte di un testimone oculare ad un omicidio). La questione riguardava piuttosto la circostanza che non si è di fronte ad un sodalizio tradizionalmente individuato come mafioso, ma ad una concrezione ristretta attiva in un ambito territoriale limitato, senza che l’omertosa intimidazione cui si accennava abbia pervaso il territorio. La Corte, tuttavia, significativamente richiamate, oltre che la predetta Sez. 6, n. 57896 del 2017, le già citate Sez. 6, n. 24535 del 2015, su “mafia capitale”, e Sez. 2 n. 36311 del 2017, sull’associazione mafiosa di matrice rumena che taglieggiava i locali notturni gestiti da rumeni a Torino, conclude (parr. 4 e 4.1, pp. 7 ss.) condividendo la massima estratta da Sez. 2, n. 24851 del 2017, a termini della quale, «in ipotesi di strutture delocalizzate e di mafie ‘atipiche’, non è necessaria la prova che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della connotazione finalistica richiesta dalla suddetta norma incriminatrice».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 5, n. 4307 del 19/12/1997, Magnelli, Rv. 211071 Sez. 1, 10/12/1997, Rasovic Sez. 6, n. 2402 del 23/06/1999, D’Alessandro, Rv. 214923 Sez. 5, n. 45711 del 02/10/2003, Peluso, Rv. 227994 Sez. 5, n. 38412 del 25/06/2003, Di Donna, Rv. 227361 Sez. 1, n. 5405 del 11/12/2000, Fanara, Rv. 218089 Sez. 5, n. 9625 del 03/07/2000, Pino Sez. 5, n. 19141 del 13/02/2006, Rv. 234403, Bruzzaniti Sez. 1, n. 25242 del 16/05/20114, Baratto, Rv. 25070 Sez. 1, n. 13635 del 28/03/2012, Versaci, Rv. 252358 Sez. 2, n. 4304 del 11/01/2012, Romeo, Rv. 252205 Sez. 1, n. 5888 del 10/01/2012, Garcea, Rv. 252418 Sez. 5, n. 14582 del 20/12/2013 – dep. 2014 –, Tamburi Sez. 2, n. 22989 del 30/04/2013, Gioffrè Antonio Sez. 2, n. 19483, del 16/04/2013, Avallone Sez. 2, n. 34525 del 19/06/2014, Laganà Sez. 5, n. 19008 del 13/03/2014, Calamita Sez. 6, n. 24535 del 10/04/2015, Mogliani, Rv. 264126 Sez. 2, n. 15808 del 25/03/2015, Albanese Sez. 2, n. 15807 del 25/03/2015, Nesci A. Sez. 5, n. 31666 del 03/03/2015, Bandiera Sez. 2, n. 15412 del 30/01/2015, Agresta Sez. 2, n. 34279 del 14/07/2015, Albanese Sez. 2, n. 34278 del 14/07/2015, Nesci A. Sez. 6, n. 39112 del 20/05/2015, Cataldo Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Pesce, Rv. 269040 Sez. 1, n. 40851 del 19/05/2016, Cavallaro e altri Sez. 1, n. 49270 del 24/02/2016, Caristo e altri Sez. 2, n. 54875 del 28/11/2017, Omoregie Sez. 6, n. 57896 del 26/10/2017, Fasciani, Rv. 271724 Sez. 6, n. 55748 del 14/09/2017, Allavena Sez. 6, n. 56966 dell’11/09/2017, Ferminio Sez. 1, n. 53632 dell’11/07/2017 – dep. 2017 –, Blasi Sez. 2, n. 932 del 23/06/2017 – dep. 2018-, Palermo Sez. 2, n. 53477 del 15/06/2017, Benedetto Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, Vicidomini, Rv. 271102 Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017, P., Rv. 271192 Sez. 2, n. 29850 del 18/05/2017, Siviglia Sez. 2, n. 24851 del 04/04/2017 Garcea, Rv. 270442 Sez. 2, n. 18773 del 31/03/2017, Lee, Rv. 269747 Sez. 2, n. 24850 del 28/03/2017, Cataldo, Rv. 270290 Sez. 1, n. 13143 del 09/03/2017, Nesci Domenico Sez. 6, n. 27094 del 01/03/2017, Milite, Rv. 270736 Sez. 2, n. 11582 del 14/12/2017 – dep. 2018 –, Galea Sez. 1, n. 6973 del 28/11/2017 – dep. 2018 –, Tamburi Sez. 2, n. 14948 dell’11/12/2018, Panuccio Sez. 2, n. 46765 del 27/09/2018, Di Stefano A. Sez. 5, n. 48617 del 20/09/2018, Lin Bingzhong Sez. 6, n. 45737 del 17/07/2018, Talarico Sez. 5, n. 47535 dell’11/07/2018, Lombardo Sez. 6, n. 45456 del 28/06/2018, Aloi Sez. 5, n. 44939 del 26/06/2018, Sposato Sez. 5, n. 40769 del 25/06/2018, Chen Qin Sez. 5, n. 40120 del 25/06/2018, Zhang Chaozhe Sez. 6, n. 51762 del 21/06/2018, Genovese Raffaele Sez. 5, n. 44920 del 21/06/2018, Cherubini Sez. 5, n. 44156 del 13/06/2018, Spada C. Sez. 5, n. 35844 dell’11/06/2018, Zhang Naizhong Sez. 2, n. 28842 del 07/06/2018, Cataldo Sez. 5, n. 28722 del 24/05/2018, Demasi Giovanni. Sez. 2, n. 26002 del 24/05/2018, Pizzimenti, Rv. 272884 Sez. 2, n. 28176 del 16/05/2018, Bonarrigo Sez. 1, n. 54156 del 27/04/2018, Arena G. Sez. 5, n. 29213 del 26/04/2018, Zindato Sez. 5, n. 47504 del 18/04/2018, Munafò Sez. 2, n. 49082 del 17/04/2018, Comandè Sez. 5, n. 40467 del 16/04/2018, Lo Sciuto Sez. 6, n. 22546 dell’11/04/2018, Nesci Sez. 6, n. 22545 dell’11/04/2018, Rullo e Nesci Sez. 2, n. 26834 del 23/03/2018, Nasatti Sez. 2, n. 23128 del 15/03/2018, Passarello Sez. 3, n. 21650 del 25/01/2018, Grande Vincenzo Sez. 1, n. 9553 del 15/01/2018, Bruno Sez. 1, n. 9552 del 15/01/2018, Danieli Sez. 1, n. 9551 del 15/01/2018, Babbino Sez. 1, n. 9550, del 15/01/2018, Mammone Sez. 2, n. 30387 del 11/01/2018, Demasi Nazareno Salvatore

Giurisprudenza di merito

Giudice per le indagini preliminari di Milano, ordinanza del 5 luglio 2010

SEZIONE II I REATI DI TERRORISMO

  • reato
  • terrorismo
  • diritto penale

CAPITOLO I

I REATI COMMESSI CON FINALITÀ DI TERRORISMO

(di Piero Silvestri )

Sommario

1 Premessa. - 2 La nozione di terrorismo. - 3 (segue). Il profilo soggettivo delle condotte terroristiche. - 4 L’associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico (art. 270-bis cod. pen.): la condotta. - 4.1 (segue). Il terrorismo di matrice anarchica. - 4.2 (segue). Il terrorismo di matrice ideologico-religiosa. - 4.2.1 L’evoluzione della giurisprudenza sul tema nel corso del 2018. - 5 L’arruolamento con finalità di terrorismo (art. 270-quater). - 6 L’addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270quinquies). - 7 L’attività di apologia. - 8 Il reato di attentato per finalità terroristiche o di eversione (art. 280 cod. pen). - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Il presente contributo, che si propone di esaminare le sentenze intervenute nel corso del 2018, riprende il tema dei reati commessi con finalità di terrorismo, già affrontato nelle Rassegne predisposte dall’Uffico nel 2016 e nel 2017, di cui costituisce lo sviluppo.

Si è soliti distinguere un “terrorismo” avente finalità eminentemente politiche “interne”, perseguite con obiettivi mirati e selezionati e che si collocano nell’ambito di una strategia di attacco crescente ad istituzioni ed uomini rappresentativi dello Stato, ed un fenomeno di “terrorismo” internazionale, manifestatosi con gli attacchi dell’11 settembre 2001.

Si è evidenziato come quest’ultimo sia un fenomeno radicalmente diverso, caratterizzato da una strategia sostanzialmente bellica, di dimensione sovranazionale e, si afferma, anche “ultraindividuale”, in cui non solo l’attacco proviene o è pianificato dall’esterno delle società aggredite, ma gli stessi autori sono strumenti pronti ad immolarsi ed a sacrificare la vita alla “causa” sovrastante, di natura “religioso-culturale”.

La pericolosità di tale nuovo fenomeno, riconducibile ad organizzazioni sostanzialmente militari con localizzazione centrale all’estero, è stata fronteggiata con metodi che hanno condotto a doversi cimentare con nuove questioni di diritto penale, derivanti dall’introduzione di nuove incriminazioni di comportamenti prodromici; si è assistito ad una anticipazione della soglia della rilevanza penale, con conseguente anticipazione, sul piano processuale, del momento d’inizio delle indagini e della applicazione di misure cautelari.

Si è accentuata l’esigenza di ulteriori strumenti di prevenzione e di anticipazione della rilevanza penale delle condotte da perseguire; si coglie in giurisprudenza una tendenza ad allargare l’ambito applicativo del reato di partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo.

La ragione di tale tendenza è appunto rinvenuta nella esigenza di adeguare in termini di efficienza ed effettività la risposta penale a condotte, comportamenti, azioni compiute da nuclei terroristici strutturati ‘a cellula’ o ‘a rete’, che sono in grado di operare a distanza attraverso elementari organizzazioni di uomini e mezzi, facendo rientrare, in tale contesto, anche l’operato di coloro che, per la totale autonomia organizzativa, sono comunemente definiti “lupi solitari”.

Si è assistito ad una progressiva anticipazione della soglia della rilevanza penale, anche della condotta di “partecipazione”, con conseguente corrispettiva anticipazione, sul piano processuale, del momento d’inizio delle indagini e della applicazione di misure cautelari.

A ciò è conseguita, in dottrina ma anche nella giurisprudenza, una diffusa operazione di elaborazione, di riflessione e di adattamento di alcuni principi, per molto tempo affermati.

2. La nozione di terrorismo.

Si è assistito a livello europeo ad un fenomeno di armonizzazione delle fonti attraverso la Convenzione di Varsavia adottata dal Consiglio d’Europa nel 2005 per la “prevenzione” del terrorismo, nonché le decisioni quadro dell’Unione europea del 2002 e poi del 2008, recentemente sostituite dalla Direttiva 2017/541 contro il terrorismo, emanata sulla nuova base giuridica fornita dal Trattato di Lisbona, in specie dagli artt. 82 (per quanto riguarda la disciplina processuale) ed 83, par. 1, TFUE (per quanto riguarda il diritto penale sostanziale).

Il terrorismo è infatti incluso fra gli ambiti di criminalità grave e transnazionale, da combattere su basi comuni, per cui è prevista una specifica competenza concorrente dell’Unione europea in materia penale.

A livello nazionale l’art. 270-sexies cod. pen. è stato introdotto dall’art. 15 del d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modifiche, nella legge 31 luglio 2005, n. 155 (recante «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale»), con la finalità di dare una definizione legislativa del concetto di terrorismo, in ordine alla cui delimitazione vi erano state incertezze interpretative ed applicative.

In precedenza, le attenzioni degli interpreti si erano concentrate sulla distinzione tra terrorismo ed eversione, concetti cui vi è richiamo negli artt. 270-bis, 280 e 289-bis cod. pen. 

Mentre della formula «eversione dell’ordine democratico» il legislatore aveva dato una interpretazione autentica con l’art. 11 della l. 29 maggio 1982, n. 304 (per cui doveva intendersi come «eversione dell’ordinamento costituzionale»), il problema ermeneutico si era posto quando, con la modifica dell’art. 270-bis cod. pen., si era voluti intervenire per sanzionare condotte criminose dirette a colpire Stati stranieri, soprattutto nei casi in cui le iniziative delittuose si fossero inserite in un contesto di guerra o di guerriglia.

Le locuzioni “terrorismo” e “finalità terroristiche” non erano affatto estranee all’ordinamento interno, che ad esse faceva esplicito riferimento in più disposizioni del codice penale: nello stesso art. 270-bis cod. pen., (“associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico”), nell’art. 280, introdotto dall’art. 2 della legge 6 febbraio 1980, n. 15, (“attentato per finalità terroristiche o di eversione”), nell’art. 289-bis, inserito dall’art. 2 della legge 21 marzo 1978, n. 191 (“sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione”), nell’art. 1 della legge n. 15 del 1980, art. 1 concernente la circostanza aggravante ad effetto speciale applicabile ai reati qualificati dalla finalità di terrorismo.

In adempimento dell’obbligo di modificare l’ordinamento interno in modo da renderlo conforme all’atto normativo comunitario, con il D.L. 27 luglio 2005, n. 144, art. 15, comma 1, convertito nella L. 31 luglio 2005, n. 155, è stato, come detto, inserito l’art. 270 sexies cod. pen. con cui sono state definite “condotte con finalità di terrorismo” quelle “che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”.

L’esplicito richiamo, in funzione integrativa, al vincolo derivante dalle fonti internazionali fa sì che quella adottata dall’art. 270 sexies cod. pen. costituisca una definizione aperta, destinata, cioè, ad estendersi o a restringersi per effetto non solo delle convenzioni internazionali già ratificate, ma anche di quelle future alle quali sarà prestata adesione.

È stato infatti normativamente predisposto un meccanismo, fondato su un rinvio dinamico o formale, idoneo ad assicurare automaticamente l’armonizzazione degli ordinamenti degli Stati che compongono la collettività internazionale al fine di predisporre gli strumenti occorrenti per la comune azione di repressione della criminalità terroristica transnazionale.

Dalla precedente considerazione deve inferirsi che la definizione prevista dall’art. 270-sexies cod. pen. deve essere coordinata con quella della Convenzione del 1999, resa esecutiva con la L. n. 7 del 2003, e che, di riflesso, gli elementi costitutivi delle condotte con finalità di terrorismo – indicati dalla norma nazionale sulla scia della Decisione quadro dell’Unione Europea – devono essere integrati facendo riferimento anche alle previsioni della predetta convenzione.

Dall’integrazione della normativa interna con l’anzidetta fonte internazionale discende che la finalità di terrorismo è altresì configurabile quando le condotte siano compiute nel contesto di conflitti armati – qualificati tali dal diritto internazionale anche se consistenti in guerre civili interne – e siano rivolte, oltre che contro civili, anche contro persone non attivamente impegnate nelle ostilità, con l’esclusione, perciò, delle sole azioni dirette contro i combattenti, che restano soggette alla disciplina del diritto internazionale umanitario.

In generale, si è stabilito che sono terroristiche quelle condotte che, per la loro «natura o contesto», sono idonee ad arrecare «grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale»; come si dirà in prosieguo, i comportamenti terroristici sono qualificati da tre possibili finalità, alternative tra loro.

Si è evidenziato come il legislatore non chiarisca quale bene giuridico debba essere posto in pericolo dalla condotta; da ciò si deduce l’indifferenza che il pericolo del grave danno ricada su un bene di natura patrimoniale, personale o collettiva.

Si assume che questa scelta sarebbe coerente, da un lato, con la presenza nell’ordinamento di norme in materia di terrorismo poste a tutela tanto di beni personali (ad es. l’art. 280), quanto di beni patrimoniali (ad es. l’art. 280-bis) e collettivi (ancora, cfr. l’art. 280-bis comma 3), dall’altro, con la scelta del legislatore comunitario — vincolante per il legislatore nazionale — che nella decisione quadro 2002/475/GAI ha espressamente posto a base della definizione di atto terroristico una serie di condotte che vanno dall’attentato alla vita e all’integrità fisica delle persone, alle distruzioni di vasta portata di strutture governative o di infrastrutture.

La Corte di cassazione – esaminando una vicenda cautelare relativa ad episodi di attentati con ordigni micidiali ed esplosivi commessi da alcuni soggetti che si erano opposti alla realizzazione di opere concernenti la linea ad alta velocità tra Torino e Lione – ha definito i contorni applicativi della norma in esame, sostenendo che, per ritenere integrata la finalità di terrorismo di cui all’art. 270-sexies cod. pen., non è sufficiente la direzione dell’atteggiamento psicologico dell’agente, ma è necessario che la condotta sia concretamente idonea a realizzare uno degli scopi indicati nel predetto art. (intimidire la popolazione, costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali ecc. di un Paese o di un’organizzazione internazionale), determinando un evento di pericolo di portata tale da incidere sugli interessi dell’intero Paese.

Si è precisato che il riferimento al “contesto”, contenuto nel citato art. 270-sexies cod. pen., sulla base del quale deve essere valutato il significato della condotta, impone di dar rilievo al pericolo del “grave danno” anche quando questo non dipenda solo dall’azione individuale considerata, ma sia piuttosto il frutto dell’innesto di essa in una più ampia serie causale non necessariamente controllata dall’agente, fermo restando che questi deve rappresentarsi e volere tale interazione. (Sez. 6, n. 28009 del 15/5/2014, Alberto, Rv. 260076).

La Corte ha chiarito la valenza del riferimento alla “natura o contesto” della condotta, quali elementi indefettibili della valutazione in punto di pericolosità; la previsione svolge un ruolo di “allargamento”, atteso che quando la caratteristica di alcuni fatti risiede proprio (ed anche) nella “macrodimensione dell’evento temuto, è consentito al legislatore il ricorso esplicito a segnali che valorizzino il contributo individuale alla produzione, effettiva o potenziale, dell’evento medesimo, per evitare che tale contributo resti annullato dalla serie coordinata di forze che, nei fatti, è necessaria per esplicare concretamente l’effetto”.

Si tratterebbe di una applicazione delle regole comuni in materia di causalità e concorso di persone (artt. 41 e 110 cod. pen.), e, in particolare, del principio dell’equivalenza, anche tra condizioni riferibili a comportamenti umani, con il limite esclusivo delle cause “da sole” sufficienti a produrre l’evento.

Si è precisato, tuttavia, che l’interazione tra condotta individuale e contesto deve segnare il momento rappresentativo e quello volitivo nella determinazione dell’agente: se la possibilità dell’evento dannoso grave dipende da tale interazione, è necessario che l’agente si rappresenti gli elementi della congerie causale che conferiscono alla sua personale condotta l’efficienza peculiare sanzionata dalla norma e dovrà volerne l’influsso sulla serie nella quale il suo comportamento confluisce.

Una implicazione del principio è che il “contesto” non può essere ricostruito tenendo conto di condotte ed avvenimenti successivi al comportamento del reo, non potendo questi farne oggetto di rappresentazione e di pianificazione, salva l’ipotesi in cui si riscontri la pertinenza del fatto ad una programmazione che comprenda dall’origine futuri elementi di contesto utili ad interagire con l’azione commessa.

Si tratterebbe, a questo punto, d’una mera questione di prova e motivazione.

Sul tema è intervenuta anche Sez. 1, n. 47479 del 16/7/2015, Alberti, Rv. 265405 così massimata “Per ritenere integrata la finalità di terrorismo di cui all’art. 270 sexies cod. pen., non è sufficiente che l’agente abbia intenzione di arrecare un grave danno al Paese, ma è necessario che la sua condotta crei la possibilità concreta – per la natura ed il contesto obiettivo dell’azione, nonché degli strumenti di aggressione in concreto utilizzati – che esso si verifichi, nei termini di un reale impatto intimidatorio sulla popolazione, tale da ripercuotersi sulle condizioni di vita e sulla sicurezza dell’intera collettività, posto che solo in presenza di tali condizioni lo Stato potrebbe sentirsi effettivamente coartato nelle sue decisioni. (Nella specie la Suprema Corte ha escluso la sussistenza della finalità di terrorismo negli episodi di danneggiamento ai cantieri TAV, ritenendo che le condotte delittuose non fossero concretamente idonee a costringere le pubbliche autorità a rinunciare alla realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità, né avessero la capacità di produrre un grave danno al Paese)”.

La Corte ha affermato, quanto alla finalità di terrorismo, che essa deve ulteriormente connotare la condotta di attentato ai beni materiali, che non è sufficiente a integrare detta finalità la sola direzione dell’atteggiamento psicologico dell’agente, ma è necessario che la condotta posta in essere sia concretamente idonea a realizzare uno degli scopi indicati nell’art. 270-sexies cod. pen. (intimidire la popolazione, destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, ovvero, come contestato nel caso di specie, costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto), determinando un evento di pericolo di portata tale da incidere sugli interessi dell’intero Paese colpito dagli atti terroristici.

Allo scopo di individuare il discrimen proprio della finalità di terrorismo rispetto ad altre attività illecite e, in particolare, a quelle di natura sovversiva, incriminate sul piano associativo dall’art. 270 cod. pen., la Corte aveva già precisato che il terrorismo costituisce, più che un obiettivo, un mezzo o una strategia che si caratterizza per l’uso indiscriminato della violenza, non solo perché accetta gli effetti collaterali della violenza diretta, ma anche perché essa può essere rivolta in incertam personam, allo scopo di generare panico, terrore, insicurezza, e costringere chi ha il potere di prendere decisioni a fare o tollerare soluzioni che non avrebbe accettato in condizioni normali (Sez. 5, n. 46340 del 4/07/2013, Stefani, Rv. 257547).

L’art. 270-sexies cod. pen. avrebbe una struttura complessa, nella quale, accanto alla descrizione delle finalità, sono compresi, come si dirà in prosieguo, anche elementi di carattere obiettivo, misuratori della specifica offensività dei fatti contemplati.

Non sarebbe sufficiente pertanto che l’agente abbia l’intenzione di arrecare il (grave) danno, ma occorre che la sua condotta crei la possibilità concreta – sul piano oggettivo – che esso si verifichi, secondo lo schema di un evento di pericolo concreto, da valutarsi alla stregua del criterio della prognosi postuma tenendo conto della natura della condotta e del contesto in cui essa si colloca: il finalismo terroristico postulato dall’art. 270-sexies cod. pen., in definitiva, non può limitarsi a un fenomeno esclusivamente psicologico, ma deve materializzarsi in un’azione seriamente capace di realizzare i fini tipici descritti nella norma.

Nella occasione la Corte ha riconosciuto in sede cautelare l’esistenza di gravi indizi in ordine alla riconducibilità di una associazione sovversiva di matrice anarco-insurrezionalista alla previsione di cui all’art. 270-bis cod. pen., rilevando all’interno della compagine criminosa – ancorché non gerarchizzata – una chiara suddivisione di ruoli fra ideologi e militanti operativi, disponibilità di forme di finanziamento e di un simbolo nonché il proposito, desumibile dai suoi progetti e risultante dalle azioni commesse in esecuzione del programma associativo, di intimidire indiscriminatamente la popolazione, suscitando terrore e panico e non già di indirizzarsi esclusivamente ad obiettivi di elezione allo scopo di ottenere un effetto paradigmatico.

3. (segue). Il profilo soggettivo delle condotte terroristiche.

Accanto all’aspetto oggettivo, di cui si è appena detto, l’art. 270-sexies richiede, per poter essere qualificate come terroristiche, che le condotte perseguano una delle tre finalità ivi elencate, e cioè che siano state «compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale».

Si tratta di una formula che ripropone quasi pedissequamente quella contenuta nella decisione quadro 2002/475/GAI dell’Unione europea, più volte richiamata.

Secondo la Corte di cassazione l’accostamento dei tre eventi e la loro parificazione a fini di trattamento sanzionatorio costituisce un fattore irrinunciabile per l’esatta ricostruzione delle rispettive fisionomie. (Sez. 6, n. 28009 del 2014, cit.)

Quanto allo scopo di “intimidire la popolazione”, si è evidenziato che esso avrebbe il significato di “portare nella società un turbamento profondo e perdurante, tale che la collettività, nel suo complesso, senta menomata la propria aspettativa di vita in condizioni di libertà e sicurezza”.

In tal senso è stata configurata una continuità tra la nozione di “spargimento del panico tra la popolazione” individuata dalla giurisprudenza più risalente (Sez. U., n. 2110 del 23/11/1995, (dep. 1996), Fachini, Rv. 203770) e quella di grave intimidazione nei confronti della popolazione, fissata nell’art. 1, comma 1, della Decisione quadro n. 2002/475/GAI, sostanzialmente ripresa con il D.l. n. 144 del 2005, art. 15 e, dunque, con l’art. 270-sexies cod. pen.: “... è comunque presente la connotazione tipica degli atti di terrorismo individuata dalla più autorevole dottrina nella “depersonalizzazione della vittima” in ragione del normale anonimato delle persone colpite dalle azioni violente, il cui vero obiettivo è costituito dal fine di seminare indiscriminata paura nella collettività e di costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un determinato atto”.

In secondo luogo, si è attribuita rilevanza alla destabilizzazione od alla distruzione delle strutture istituzionali fondamentali di un Paese o di una organizzazione internazionale: una finalità più prossima allo scopo tradizionale dell’eversione dell’ordine costituzionale e democratico, spinta fino alla “destabilizzazione” delle istituzioni più essenziali dal punto di vista politico, costituzionale, economico o sociale.

Quanto alla identificazione dell’evento “costrizione”, si è sottolineato che il mero fine di condizionamento politico sarebbe del tutto inidoneo a selezionare le condotte con finalità terroristiche; rilevante, ai fini della configurazione della finalità costrittiva, sarebbe innanzitutto la “scala” della decisione potenzialmente imposta al potere pubblico: dovrà trattarsi, secondo la Corte, di “un affare particolarmente rilevante, capace di influenzare le condizioni della vita associata, per il suo oggetto o per l’implicazione che ne deriva in punto di “tenuta” delle attribuzioni costituzionali”.

Sotto altro profilo, secondo la sentenza in esame, la finalità di costrizione deve essere perseguita utilizzando un metodo illecito.

Sotto ulteriore profilo, si assume, il fine di “costrizione” non potrebbe assumere una dimensione terroristica per il solo fatto che la condotta strumentale contrasti con un precetto penalmente sanzionato.

Secondo la giurisprudenza, una funzione chiarificatrice nella interpretazione della finalità costrittiva è assolta proprio dal requisito del rischio di “grave danno” per il Paese.

Si evidenza come il soggetto passivo del “danno” venga dalla legge indicato nel Paese, lasciando intendere l’irrilevanza dei patrimoni privati in quanto tali, e, nel contempo, come lo stesso venga definito “grave”, assumendo quindi una dimensione di scala, la quale, per un verso, non potrebbe che essere “enorme” (finendo paradossalmente per restringere l’ambito della tutela), e, per altro, verso sembrerebbe incompatibile con la fisionomia patrimoniale dell’offesa, per la sua entità e per la stessa sua natura.

Sarebbe dunque il collegamento con il carattere politico – istituzionale del finalismo terroristico a qualificare e rendere accettabilmente determinato il “grave danno per il Paese” che la condotta di volta in volta considerata deve rendere possibile (un collegamento siffatto sembra implicitamente evocato anche dalla decisione che ha escluso l’integrazione dell’art. 270-sexies per gravi fatti di devastazione commessi dai tifosi di una squadra calcistica: Sez. 1, n. 25949 del 27/05/2008, Minotti, Rv. 240465, in cui la Corte, in sede cautelare, ha escluso la configurabilità della circostanza aggravante della finalità di terrorismo prevista dall’art. 270-sexies cod. pen. nei fatti di devastazione commessi, in occasione della morte di un tifoso di calcio, da un gruppo di altri tifosi e concretatisi in aggressioni violente alle forze di polizia, lancio di bombe carta, assalto a caserme e incendio di autobus della stessa polizia, danneggiamento indiscriminato di auto e moto in sosta, in quanto in tali condotte, quantunque gravi, non sarebbe stata ravvisabile, in assenza di elementi di più adeguata strutturazione, la prospettiva teleologica ineludibile nella finalità medesima).

4. L’associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico (art. 270-bis cod. pen.): la condotta.

La condotta oggetto della norma incriminatrice consiste, alternativamente, nel promuovere, costituire, organizzare o dirigere associazioni che si propongono di realizzare con la violenza i fini descritti nella norma, ovvero nel partecipare ad un’associazione già costituita.

Il Supremo collegio ha puntualizzato che per la configurabilità dei reati di cui agli artt. 270 e 270-bis è sufficiente la costituzione di una associazione che aggiunga agli schemi normativi suoi propri, quelli contenuti in detti articoli, che si sostanziano unitariamente, a parte le specificazioni, in comportamenti finalizzati a sovvertire violentemente l’ordinamento dello Stato nelle sue varie articolazioni e a travolgere, in definitiva, il suo assetto democratico e pluralistico.

La norma appresta tutela, quindi, contro il programma di violenza e non contro l’idea, anche se questa è collocata in un’area ideologica in contrasto con lo assetto costituzionale dello Stato.

L’idea, infatti, anche se di natura eversiva, se non accompagnata da programmi e comportamenti violenti, riceve tutela proprio dall’assetto costituzionale, che ha consacrato il metodo democratico e pluralistico e che essa, contraddittoriamente, mira a travolgere (Sez. 1, n. 8952 del 7/4/1987, Angelini, Rv. 176516).

Tale principio è stato riaffermato in più occasioni dalla Corte di cassazione secondo cui il reato previsto dall’art. 270-bis è un reato di pericolo presunto, per la cui configurabilità occorre, tuttavia, l’esistenza di una struttura organizzata, con un programma – comune fra i partecipanti - finalizzato a sovvertire violentemente l’ordinamento dello Stato e accompagnato da progetti concreti e attuali di consumazione di atti di violenza: con la conseguenza che la semplice idea eversiva, non accompagnata da propositi concreti e attuali di violenza, non vale a realizzare il reato, ricevendo tutela proprio dall’assetto costituzionale dello Stato che essa, contraddittoriamente, mira a travolgere (Sez. 1, n. 22719 del 22/3/2013, Lo Turco, Rv. 256489; Sez. 1, n. 30824 del 15/6/2006, Tartag, Rv. 234182; Sez. 1, n. 1072 del 11/10/2006, Bouyahia Maher, Rv. 235289).

Non è necessaria la realizzazione dei reati oggetto del programma criminoso, ma occorre l’esistenza di una struttura organizzata, anche elementare, che presenti un grado di effettività tale da rendere almeno possibile l’attuazione del programma criminoso, mentre non richiede anche la predisposizione di un programma di azioni terroristiche (Sez. 5, n. 2651 del 8/10/2015, (dep. 2016), Nasr Osama, Rv. 265924; nello stesso senso, Sez. 6, n. 46308 del 12/7/2012, Chahchoub, Rv. 253943).

La necessità di una organizzazione rudimentale non significa, ovviamente, assenza di organizzazione laddove, al contrario, l’esecuzione delle numerose azioni poste in essere dal gruppo nell’arco di breve tempo dimostra l’organizzazione e la capacità della stessa di operare funzionalmente ai fini prefissati nonché la stabilità organizzativa della struttura della associazione eversiva (Sez. 1, n. 22673 del 22/4/2008, Di Nucci, Rv. 240085).

4.1. (segue). Il terrorismo di matrice anarchica.

Sez. 2, n. 25452 del 21/02/2017, Beniamino, è tornata a definire la condotta di partecipazione.

Ha ribadito la Corte che, ai fini del reato previsto dall’art. 270-bis cod. pen., occorre richiamare i principi enunciati dalle Sezioni Unite a proposito del delitto associativo previsto dall’art. 416bis cod. pen., che hanno chiarito che “si definisce partecipe colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo è ma fa parte della (meglio ancora: prende parte alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima” (Sez. U, n. 33748 del 12 luglio 2005, Mannino, Rv. 231673).

Si è affermato con chiarezza che la prova della partecipazione ad associazioni terroristiche non può essere desunta dal solo riferimento all’adesione psicologica o ideologica al programma criminale, ma la dichiarazione di responsabilità presuppone la dimostrazione dell’effettivo inserimento nella struttura organizzata attraverso condotte univocamente sintomatiche consistenti nello svolgimento di attività preparatorie rispetto alla esecuzione del programma oppure nell’assunzione di un ruolo concreto nell’organigramma criminale. Ne segue che la partecipazione può concretarsi anche in condotte strumentali e di supporto logistico alle attività dell’associazione che inequivocamente rivelino il suo inserimento nell’organizzazione.

In tale contesto si colloca anche Sez. 2, n. 28753 dell’1/4/2016, Iacovacci, Rv. 267512, così massimata: “Il compimento di atti di violenza di matrice anarchica non consente di ritenere integrato il reato associativo di cui all’art. 270-bis cod. pen., qualora sia supportato da una mera adesione individuale al programma di un’associazione ispirata a tale ideologia, essendo invece necessario che i soggetti agenti abbiano costituito una “cellula” della predetta associazione, o un “gruppo di affinità” alla stessa, alla quale risultino riconducibili le azioni delittuose poste in essere”.

Oggetto del giudizio della Corte di Assise Appello erano una serie di attentati ed episodi di danneggiamento di matrice anarchica ricondotti dagli inquirenti all’attività della FAI, Federazione Anarchica Informale, ed alla sua successiva evoluzione in FAI/FRI, Fronte Rivoluzionario Internazionale, vasta e ramificata associazione di matrice anarchica internazionale.

Il procedimento, in particolare, riguardava, undici attentati commessi nella zona dei Castelli romani dal 9/11/2010 all’11/12/2012, oggetto di rivendicazioni con la sigla FAI - Individualità Anarchiche Anticivilizzazione, FAI/FRI Individualità Sovversive Anticivilizzazione, con scritte murali apparse in occasione di singoli episodi criminosi, con striscioni o con comunicati apparsi sui siti Internet di area anarchica.

La sentenza di primo grado aveva ritenuto che i due imputati non si fossero limitati ad aderire al programma criminoso della predetta federazione anarchica, ma avessero anche costituito una “cellula” (o “gruppo di affinità”), denominata “Individualità Sovversive Anticivilizzazione” o “ Individualità Anarchiche Anticivilizzazione”, così ponendo in essere i fatti specifici loro addebitati come atti qualificanti l’adesione al progetto sovversivo della FAI.

La Corte di Assise di Appello non aveva condiviso tale ricostruzione negando che gli imputati avessero costituito un “gruppo di affinità” o una cellula aderente alla FAI.

La Corte territoriale aveva osservato che soltanto gli attentati realizzati da una data fossero stati oggetto di rivendicazione “FAI” ed aveva ritenuto significativo che le azioni comuni fossero state concluse e condotte a termine al di fuori di qualsiasi riferimento, esplicito o implicito, alle teorizzazioni della FAI, in coerenza, del resto, con il comportamento processuale di uno dei prevenuti, proclamatosi anarchico individualista; da ciò era stata tratta la logica conseguenza che non potesse riconoscersi la prova di alcun legame tra lo stesso imputato e la macro-associazione FAI.

In tale quadro di riferimento la Corte di cassazione ha evidenziato come già in passato la giurisprudenza di legittimità avesse avuto modo di riconoscere in più occasioni la configurabilità del reato di cui all’art. 270-bis cod. pen. con riferimento a soggetti stabilmente dediti al compimento di atti di violenza secondo il predetto manifesto programmatico (Sez. 1, n. 21686 del 22/4/2008, Fabiano, Rv. 240075; Sez. 5, n. 46340 del 4/7/2013, Stefani, Rv. 257547), ma si era sempre trattato di soggetti che non si erano limitati ad aderire singolarmente ed individualmente a tale programma, e si erano invece associati in “gruppi di affinità” ispirati a tale programma, gruppi nei quali sono stati riconosciuti gli estremi dell’associazione ex art. 270-bis cod. pen.

Ha aggiunto la Corte che l’organismo “fluido” al quale si ispira la FAI, dì per sé mal si concilia con lo schema dell’art. 270-bis cit., mentre, invece, le finalità di tale organismo avevano indotto più volte la stessa Corte di cassazione a riconoscere la natura dì associazione sovversiva ai “gruppi di affinità” che alla FAI si ispirano, ben potendo tali gruppi o cellule presentare i requisiti richiesti dalla norma incriminatrice.

Così, con riferimento ad un gruppo di affinità costituito tra anarchici ed ecologisti che, adendo alla FAI – “Federazione Anarchica Informale”, avevano posto in essere anche atti di violenza, la Cassazione aveva rilevato che “in presenza di un gruppo che aveva fatto dell’eversione il proprio scopo, attraverso la deliberazione di un programma e il compimento concreto di atti di violenza secondo il piano teorizzato dall’ideologo Bonanno, e che aveva inoltre realizzato in parte il suo programma, non vi è dubbio che si trattasse di un’associazione sovversiva” (Cass. sez. 1, n. 21686 del 22/4/2008, Fabiani, Rv. 240075).

In tal senso si pone anche altra sentenza (Sez. 5, n. 46340 del 4/7/2013, Stefani, Rv. 257547), che ha riconosciuto l’esistenza di gravi indizi in ordine al reato di cui all’art. 270-bis cod. pen. con riferimento ad aderenti alla FAI costituitisi in un gruppo di affinità, rilevando in quel caso all’interno di tale compagine criminosa – ancorché non gerarchizzata – una chiara suddivisione di ruoli fra ideologi e militanti operativi, la disponibilità di forme di finanziamento e di un simbolo nonché il proposito, desumibile dai suoi progetti e risultante dalle azioni commesse in esecuzione del programma associativo, di intimidire indiscriminatamente la popolazione, suscitando terrore e panico e non già di indirizzarsi esclusivamente ad obiettivi di elezione allo scopo di ottenere un effetto paradigmatico.

Anche in tale circostanza, però, la Corte aveva riconosciuto tali caratteristiche in un “gruppo di affinità” aderente alla FAI, e non già nel mero compimento di azioni individuali ispirate al programma ed aveva conseguentemente configurato tale cellula o gruppo come un’associazione sovversiva ex art. 270-bis cod. pen.

Sotto altro profilo, si è affermato che per la configurabilità della condotta associativa è irrilevante sia la durata dell’impegno assunto dai sodali, che eventuali limitazioni territoriali alla sua operatività (Sez. 6, n. 3241 del 10/2/1998, Cadinu, Rv. 210680).

Si è già detto di come il delitto di associazione con finalità di terrorismo internazionale o di eversione dell’ordine democratico è integrato in presenza di una struttura organizzativa con grado di effettività tale da rendere possibile l’attuazione del programma criminoso, mentre non richiede anche la predisposizione di un programma di azioni terroristiche.

4.2. (segue). Il terrorismo di matrice ideologico-religiosa.

Con riferimento al terrorismo di matrice ideologico – religioso, alcune recenti pronunce di legittimità hanno richiamato, quanto alla configurabilità del reato di cui all’art. 270--bis, comma 2, cod. pen., principi giuridici consolidati in tema di reato associativo, reinterpretandoli, tuttavia, in modo, almeno in parte, nuovo e, soprattutto, “elastico” in ragione della necessità di adattarli e conformarli alle nuove manifestazioni criminali; si sono valorizzate, al fine della configurazione della “partecipazione” all’associazione terroristica, condotte di mera propaganda, di proselitismo o arruolamento, purché supportate dall’adesione psicologica al programma criminoso dell’associazione medesima.

È tuttavia obiettivamente avvertito il rischio che, dall’ampliamento dell’ambito applicativo della condotta partecipativa, derivi uno svuotamento, una limitazione, una compressione del controllo giurisdizionale della necessaria ed effettiva materialità della stessa e della sua concreta incidenza causale in ordine alla realizzazione della finalità perseguita nel programma criminoso dell’associazione.

Tale rischio si rivela concretamente e si coglie ove si consideri la parallela elaborazione giurisprudenziale in tema di partecipazione in associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis, comma 1, cod. pen.) e di concorso esterno nella associazione medesima, nel cui contesto, come detto, è invece diffusa l’affermazione secondo cui “si definisce partecipe colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo è ma fa parte della (meglio ancora: prende parte alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima” (Sez. U, n. 33748 del 12 luglio 2005, Mannino, Rv. 231673).

La questione è oltremodo complessa perché, come sottolineato in dottrina, involge anche il rapporto tra condotta di partecipazione e le altre numerose condotte di sostanziale agevolazione dell’associazione terroristica ed attiene al come la progressiva, tendenziale, a volte sommersa, smaterializzazione della condotta di partecipazione si coniughi con la incriminazioni delle singole condotte di “agevolazione”.

In particolare, con riferimento ai più recenti fenomeni di terrorismo legati a forme di “fanatismo” religioso, si è ribadito che integra il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale la formazione di un sodalizio, connotato da strutture organizzative “cellulari” o “a rete”, in grado di operare contemporaneamente in più Paesi, anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici ovvero informatici anche discontinui o sporadici tra i vari gruppi in rete, che realizzi anche una delle condotte di supporto funzionale all’attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali quelle volte al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda, all’assistenza agli associati, al finanziamento, alla predisposizione o acquisizione di armi o di documenti falsi, all’arruolamento, all’addestramento. (Sez. 6, n. 46308 del 12/7/2012, Chahchoub, Rv. 253944).

Non diversamente, si è affermato che il delitto di partecipazione ad un’associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico, di cui all’art. 270-bis cod. pen., è integrato dalla condotta di chi, offrendo ospitalità ai “fratelli” ritenuti pericolosi, preparando documenti d’identità falsi e propagandando all’interno dei luoghi di culto la raccolta di fondi per i “mujaeddin” ed i familiari dei cd. “martiri”, esprime, in tal modo, il sostegno alle finalità della stessa associazione terroristica ed assicura un concreto intervento in favore degli adepti, in adesione al perseguimento del progetto “jiadista”. (Sez. 5, n. 2651 del 8/10/2015 (dep. 2016), Nasr Osama, Rv. 265925 in cui la Corte ha precisato che lo svolgimento di tali condotte in via continuativa consente di attribuire all’agente il ruolo di organizzatore).

In tale contesto, Sez. 5, n. 48001 del 14/7/2016, Hosni, Rv. 268164, che ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna per il reato previsto dall’art. 270-bis cod. proc. pen., assume rilievo soprattutto in tema di prova della esistenza del vincolo associativo (per le tematiche affrontate dalla sentenza si fa comunque rinvio a quanto si dirà nei paragrafi relativi all’attività di arruolamento, addestramento e apologia).

Dalla sentenza emerge che agli imputati era stato contestato il coinvolgimento in un programma criminoso avente ad oggetto l’avviamento di soggetti islamici verso una radicalizzazione tendente a renderli dei combattenti disponibili al martirio, inteso come esaltazione e ricerca della morte insieme al maggior numero possibile di infedeli.

Dal contenuto di conversazioni intecettetate sarebbero stati desumibili i riferimenti ad un «gruppo»; la destinazione all’indottrinamento, nei termini indicati, di luoghi nella disponibilità di uno dei ricorrenti, segnatamente la moschea di un paese in Puglia, ove questi svolgeva la propria predicazione ed il call center dello stesso gestito; l’utilizzazione dei computers installati in quest’ultimo esercizio commerciale, allorché nello stesso si trovavano i componenti del gruppo, per la connessione con siti riconducibili all’area jihadista e lo scaricamento dagli stessi di filmati su attentati e scene di guerra e documenti illustrativi della preparazione di armi ed esplosivi e delle modalità per raggiungere luoghi di combattimento e trasmettere in rete messaggi criptati; la disponibilità di documenti falsi destinati a consentire la permanenza illegale di immigrati clandestini in Italia; la manifestazione di odio verso la popolazione ebraica, l’ambiente di vita in Italia e l’attività ivi svolta dagli immigrati di fede islamica; le cautele manifestate dall’imputato nell’invio ad un conoscente milanese di documentazione di apparente natura religiosa.

Sulla base di tale quadro di riferimento fattuale, la Corte ha ritenuto non esistente la prova della esistenza della struttura e del vincolo associativo, annullando senza rinvio la condanna.

Si è affermato che l’attività di indottrinamento, finalizzata ad indurre nei destinatari una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa, non consente di ravvisare quegli atti di violenza terroristica o eversiva il cui compimento, per quanto detto, deve costituire specifico oggetto dell’associazione in esame.

Si è notato come in passato la stessa giurisprudenza di legittimità abbia sì attribuito significatività, ai fini della ravvisabilità del reato, alla vocazione al martirio ma ciò, tuttavia, ai limitati fini della valutazione sulla sussistenza di gravi indizi per l’adozione di misure cautelari nei confronti del singolo partecipante ad una cellula terroristica, della quale sia stata “aliunde” riconosciuta l’effettiva operatività (Sez. 2, n. 669 del 21/12/2004, (dep. 2005), Ragoubi, Rv. 230431), e, comunque, nel caso in cui “alle attività di indottrinamento e reclutamento fosse affiancata quella di addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento (Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, cit.), che attribuisca all’esaltazione della morte, in nome della guerra santa contro gli infedeli, caratteristiche di materialità che realizzino la condizione per la quale possa dirsi che l’associazione, secondo il dettato normativo già ricordato, «si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo»”.

Esclusa la decisiva valenza degli elementi fattuali in questione, la Corte ha aggiunto che nella specie neppure poteva attribuirsi rilievo agli ulteriori riferimenti contenuti nella sentenza impugnata: “essendo il procacciamento e la visione di filmati e documenti propagandistici attività strumentali all’indottrinamento, e non diversamente potendo concludersi in ordine alle accennate condotte di falsificazione di documenti. In secondo luogo, e comunque, non emerge dalle conversazioni riportate nella sentenza impugnata, né è peraltro evidenziato nella stessa alcun elemento indicativo della effettiva capacità del gruppo di realizzare atti anche astrattamente definibili come terroristici secondo la previsione dell’art. 270-sexies cod. pen.; atti, cioè, che creino la concreta possibilità di un grave danno per uno Stato, nei termini di un reale impatto intimidatorio sulla popolazione dello stesso, tale da ripercuotersi sulle condizioni di vita e sulla sicurezza dell’intera collettività (Sez. 1, n. 47479 del 16/07/2015, rv. 265405), ovvero di un determinante esito costrittivo o destabilizzante nei confronti dei pubblici poteri (Sez. 6, n. 28009 del 15/05/2014, Alberto, rv. 260076)”.

Si è evidenziato, viceversa, come la Corte territoriale non potesse che dare atto della circostanza di segno evidentemente contrario, costituita dal decorso del tempo dall’epoca delle intercettazioni risalenti al 2009, senza che risultasse il compimento di alcun atto terroristico attribuibile all’associazione, anche nella forma minima, e forse neppure sufficiente, della partenza di taluno degli adepti per le zone interessate da combattimenti riferibili alla guerra santa di matrice islamica.

In senso non esattamente simmetrico si è posta Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645-646-647, in cui agli imputati, in sede cautelare, era stata contestata di aver partecipato all’organizzazione terroristica internazionale denominata ISIS, allo scopo di commettere atti con finalità di terrorismo sia in territorio siriano che nel territorio italiano, costituendo una “cellula” di soggetti radicalizzati e dediti al proselitismo della jihad antioccidentale combattuta dallo Stato islamico, attraverso la diffusione via Internet di video e messaggi di incitamento e propaganda, nonché attraverso l’addestramento e l’autoaddestramento, per commettere attentati anche in Italia .

La Corte, pur rimarcando l’esigenza di “evitare torsioni del precetto penale previsto dall’art. 270-bis cod. pen., tenendo sempre presente che, pur configurandosi il delitto con natura di pericolo presunto, l’anticipazione della soglia di punibilità non può sfuggire alla valutazione di offensività in concreto, pur sempre demandata al giudice per tali tipologie di reato (in coerenza con i principi espressi dalla Corte costituzionale sul tema: cfr. sentenze n. 62 del 1986 e n. 333 del 1991, nonché nn. 263 del 2000 e 225 del 2008; da ultimo cfr. anche Corte cost. n. 172 del 2014)”, ha ribadito che la “costituzione di un sodalizio criminoso avente la caratteristiche di cui all’art. 270-bis cod. pen. non può dirsi esclusa per il fatto che lo stesso sia imperniato per lo più attorno a nuclei culturali che si rifanno all’integralismo religioso islamico perché, al contrario, i rapporti ideologico-religiosi, sommandosi al vincolo associativo che si propone il compimento di atti di violenza con finalità terroristiche, lo rendono ancor più pericoloso (Sez. 2, n. 669 del 21/12/2004, dep. 2005, Ragoubi, Rv. 230432), potendo esso costituire un collante più forte di molti altri vincoli tra sodali)”.

Secondo la Corte esiste “una sottile linea di confine fenomenologica tra la libertà di manifestazione, anche collettiva, di una ideologia, in forme legittime o eventualmente sussumibile nel reato di apologia di cui all’art. 414, comma 4, cod. pen. (cfr., Sez. 1, n. 47489 del 6/10/2015, Halili, Rv. 265264), e la partecipazione ad un’associazione con finalità terroristica a prescindere o prima della commissione di reati-fine, in presenza di una struttura organizzativa rudimentale, flessibile e a volte del tutto spontaneistica rispetto al collegamento con esponenti dell’ISIS o di altre organizzazioni terroristiche internazionali. In tale seconda ipotesi, infatti, la valutazione di rilevanza penale passa per un’analisi rigorosa della configurazione degli elementi, pur se minimi, di manifestazione della composizione organizzativa di uomini e attività prodromiche alla commissione di eventuali reati fine”.

Nell’ambito di una articolata motivazione, si è affermato che:

- la struttura organizzativa delle “cellule” o dei gruppi minimali di combattenti, ricollegabili direttamente o indirettamente alla propaganda islamica estremista ed antioccidentale è flessibile, snella, caratterizzata dal minimo di contatti e di predisposizione di strumenti idonei all’attuazione del programma criminoso terroristico, nonchè formata anche da consessi di persone molto limitati nella composizione numerica;

- la modalità di creazione “dell’affectio societatis” tra i sodali della singola cellula e la struttura internazionale terroristica ISIS è essa stessa peculiare, influenzata da una propaganda di adesione improntata ad un modello spontaneista e privo di formalismi, spesso avulso da qualsiasi contatto fisico tra soggetti che siano esponenti riconosciuti dell’organizzazione terroristica islamistica di riferimento e persone aderenti ai gruppi o cellule che compiono poi gli attentati;

- l’ISIS, e, in generale, le moderne organizzazioni terroristiche di matrice islamica radicale, propongono una formula di adesione alla struttura sociale che può definirsi “aperta” e “in progress”, sempre disponibile ad accogliere le vocazioni criminali provenienti da singoli e gruppi.

Si tratta di affermazioni di rilievo perché da esse pare cogliersi una tendenza a smaterializzare la condotta di partecipazione di coloro che fanno parte della singola cellula alla organizzazione terroristica internazionale.

In applicazione dei principi indicati, la Corte ha ritenuto in sede cautelare sussistenti i gravi indizi di appartenenza ad una cellula terroristica operante su una parte del territorio nazionale, in considerazione del fatto che i componenti della cellula:

- si incontrassero costantemente e vivessero abitualmente nella medesima abitazione, divenuta base d’appoggio, luogo di incontro e di preghiera, non solo per gli aderenti alla cellula terroristica, ma anche per numerosi altri soggetti di religione islamica;

- fossero dediti ad attività di addestramento ed autoaddestramento finalizzate al compimento di azioni terroristiche, sia direttamente, allenandosi fisicamente, sia mediante la visione di video promozionali diffusi dall’ISIS, da loro tutti, collettivamente, scaricati e commentati, nei quali venivano spiegate tecniche di aggressione ed uccisione utilizzando armi da taglio, venivano fornite istruzioni specifiche per la fabbricazione e l’uso di esplosivi home made, erano riprodotte immagini di combattimenti e di azioni di guerra condotti dai nniliziani nei territori di guerra nelle aree mediorientali;

- esprimessero collettivamente, in discorsi e ragionamenti quotidiani, la loro adesione all’ideologia jihadista, inneggiando al martirio ed agli attentati, frequenti e recenti, contro i Paesi occidentali e le loro popolazioni, ed ipotizzando in un’occasione la possibile commissione di un’azione terroristica proprio a Venezia, mediante l’esplosione di una bomba con obiettivo il ponte di Rialto;

- mostrassero una suddivisione, pur se “embrionale”, di ruoli all’interno della “leggera” e flessibile struttura organizzativa criminale

Secondo la Corte “tali elementi oggettivi, lungi dal rappresentare una mera adesione psicologica all’ideologia estremistica jihadista, configurano, invece, la struttura di un vero e proprio reato associativo con finalità terroristica di matrice islamica, essendosi realizzata una cellula organizzata volta alla possibile, effettiva e concreta messa in atto di azioni terroristiche”.

Ha aggiunto la Corte che, nell’ipotesi di specie, la cellula di ispirazione jihadista non soltanto costituiva di per sé un’autonoma e sufficiente struttura idonea a configurare il reato di cui all’art. 270-bis cod. pen., ma realizzava anche la contestata fattispecie di partecipazione all’associazione criminale terroristica di riferimento, denominata ISIS, pur restando ferma: “la necessità di verificare i caratteri di concretezza ed effettiva possibilità di azione della “cellula” terroristica dal punto di vista dell’offensività in concreto che deve pur sempre caratterizzare la fattispecie a pericolo presunto di partecipazione ad associazione criminale di qualsivoglia natura, e, dunque, anche di quella con finalità terroristiche. Tale verifica, tuttavia, opera su di un piano diverso, casistico e concreto, appunto, ma non incide sulla configurabilità astratta della fattispecie e risponde non soltanto ai principali motivi difensivi, ma anche alle preoccupazioni della giurisprudenza di legittimità, qui condivise, di evitare qualsiasi sottovalutazione del dato strutturale e organizzativo insito nel delitto associativo, per scongiurare il rischio che l’anticipazione della repressione penale (connaturata ai reati a pericolo presunto) finisca per reprimere idee piuttosto che fatti e per sanzionare la semplice adesione ad un’astratta ideologia che, pur aberrante per l’esaltazione della indiscriminata violenza e per la diffusione del terrore, non sia accompagnata dalla possibilità di attuazione del programma. Nel caso di specie, la citata verifica porta ad esiti favorevoli circa la configurabilità di una condotta partecipativa all’associazione terroristica riconosciuta ed individuata con la denominazione di ISIS, non potendosi dubitare che il contributo di proclamata condivisione e propaganda dell’ideologia estremista religiosa jihadista, sommato alla adesione e disponibilità alla “guerra santa” ed a compiere attentati sul territorio italiano ed estero dei componenti della “cellula” individuata integrino una partecipazione al reato previsto dall’art. 270-bis cod. pen. sotto il profilo del rafforzamento e consolidamento del sodalizio terroristico di ispirazione. Deve, quindi, concludersi nel senso che la dimensione plausibile di partecipazione “per adesione” ad un modello di associazione terroristica costruito su scala internazionale, secondo canoni tanto precisi nella loro finalizzazione alla jihad, quanto inneggianti all’attivismo spontaneista delle singole “cellule” operative, può dirsi configurata, in questa fase cautelare, a carico dei ricorrenti, ferma la sussistenza nei loro confronti – e la sufficienza, dal punto di vista della rilevanza penale – di uno schema organizzativo “minimo”, caratterizzato da grado di effettività tale da rendere possibile l’attuazione del programma criminoso attraverso la violenza terroristica”.

4.2.1. L’evoluzione della giurisprudenza sul tema nel corso del 2018.

Nel corso del 2018, la Corte di cassazione è tornata ad occuparsi del tema. Sez. 6, n. 14503 del 19/12/2017, dep. 2018, Messaoudi, Rv. 272730- 731, che ha affrontato la qustione dei rapporti tra condotta individuale e partecipaizone ad un associaizone internazionale (Isis) con finalità di terrorismo, si pone in senso non propriamente simmetrico rispetto ai principi enunciati nella sentenza Bakay, di cui si è detto.

Non potendo la condotta di partecipazione consistere in una mera adesione psicologica al programma criminale dell’associazione, secondo la Corte, essa presuppone il rigoroso accertamento: a) della esistenza e della effettiva capacità operativa di una struttura criminale, su cui si innesta il contributo partecipativo; b) della consistenza materiale della condotta individuale ovvero del contributo prestato, che non può essere smaterializzato, meramente soggettivizzato, limitato alla idea eversiva, privo di valenza causale ovvero ignoto all’associazione terroristica alla cui attuazione del programma criminoso si intende contribuire.

Quanto al primo profilo, si è ribadito che è necessaria una condotta del singolo che si innesti in una struttura organizzata, anche elementare, che presenti un grado di effettività tale da rendere almeno possibile l’attuazione del programma criminoso, mentre non è necessaria anche la predisposizione di un programma di concrete azioni terroristiche.

Quanto al secondo dei profili indicati, davanti ad fenomeno obiettivamente complesso e disarticolato, in cui ogni individuo può da sé commettere attentati in ragione della volontà di dare attuazione al programma di un’organizzazione terroristica, si è evidenziata la difficoltà nell’individuazione del limite inferiore a partire dal quale possa dirsi che un soggetto – che pure compie atti che possono coincidere con quelli attuativi del programma di un’associazione con finalità di terrorismo – “partecipa” alla stessa, ai sensi dell’art. 270-bis, comma 2, cod. pen.

La questione attiene al quando è possibile affermare che sia stata raggiunta la prova dell’effettivo inserimento del singolo nella struttura associativa, e, in particolar modo, dell’associazione internazionale.

Secondo la Corte di cassazione, in senso conforme ai principi espressi dalla sentezna Hosni, i propositi di partire per combattere “gli infedeli”, la vocazione al martirio, l’opera di indottrinamento possono costituire elementi da cui desumere, quantomeno in fase cautelare, i gravi indizi di colpevolezza per il reato di “partecipazione” all’associazione di cui all’art. 270-bis cod. pen. a condizione che vi siano elementi concreti che rivelino l’esistenza di un contatto operativo che consenta di tradurre in pratica i propositi di morte.

È necessario che la condotta del singolo si innesti nella struttura, cioè che esista un legame, anche flessibile, ma concreto e consapevole tra la struttura e il singolo.

Non sono state nella occasione condivise le costruzioni giuridiche che, ai fini della configurabilità della condotta di partecipazione, avevano ritenuto sufficiente l’adesione del singolo a proposte “in incertam personam”- quelle del sodalizio internazionale – anche nel caso in cui l’adesione non sia accompagnata dalla necessaria conoscenza, anche solo indiretta, mediata, riflessa, di essa da parte della “struttura” internazionale.

Per configurare la partecipazione alla associazione internazionale con finalità di terrorismo, è necessario che questa, anche indirettamente, sappia di avere a disposizione, di “poter contare” su un determinato soggetto.

“se è certamente vero che l’Isis e, in generale, le moderne organizzazioni terroristiche di matrice islamica radicale, propongono una formula di adesione alla struttura sociale che può definirsi “aperta” e “in progress”, sempre disponibile ad accogliere le vocazioni criminali provenienti da singoli e gruppi, è altrettanto vero che ciò che deve essere verificato è se, alla stregua delle singolarità del caso concreto e, soprattutto, delle condotte prodromiche poste in essere da chi si assume essere “partecipe”, siano individuabili in concreto contatti con associazioni criminose terroristiche internazionali e se tali contatti costituiscano espressione della concretizzazione del proposito del singolo di attuare azioni delittuose strumentali al perseguimento del programma del gruppo internazionale.

Dalla prova della partecipazione ad un gruppo che opera sul territorio nazionale con finalità di terrorismo non discende automaticamente la prova della partecipazione all’associazione internazionale (in senso diverso, Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, cit.).

Diversamente, si rischia di considerare “partecipi” all’associazione internazionale Isis anche coloro che con lo Stato Islamico non hanno nessun contatto – la cui esistenza è ignota al gruppo “madre”- i cui rapporti con questa sono limitati alla mera condivisione di informazioni mediante i più diffusi social- network; la “partecipazione” all’associazione internazionale non può prescindere dalla esistenza di un contatto reale, non putativo, non eventuale, non meramente interiore, con chi a quella associazione è stabilmente legato perché partecipe della cellula madre.

In astratto, la chiamata al jihad può essere onorata anche attraverso condotte individuali, autonome e scisse da ogni contatto, anche solo informativo, con qualsiasi struttura ovvero sulla base di un gruppo che opera sul territorio ma che, tuttavia, non abbia rapporti con quello “madre” internazionale; in tale ultimo caso si può in astratto configurare la partecipazione, ai sensi dell’art. 270-bis cod. pen., ad una organizzazione con finalità di terrorismo, quella – per cosi dire – “locale”, ma da tale partecipazione non può farsi discendere automaticamente la partecipazione all’associazione internazionale Isis, in assenza di accertamenti ulteriori… al cospetto delle nuove forme di manifestazione del terrorismo globale e specialmente del terrorismo islamista, l’uso della parola, al di là del tema del contenuto apologetico, assume un ruolo – correttamente definito in Dottrina- “costitutivo”, perché può non essere limitato alla semplice divulgazione, alla mera manifestazione del pensiero: “incitamento, propaganda, apologia o anche solo manifestazioni di simpatia possono essere componenti di un più ampio raggio di azione finalizzato ad indottrinare, a prospettare cambiamenti di vita, ad infondere idee e senso di potenza nei “fedeli”, ad incrementare l’arruolamento tra le fila radicali, soprattutto nei casi in cui l’oggetto della comunicazione non riguarda uno specifico evento, un singolo attentato, quanto piuttosto, la vocazione al martirio, e, soprattutto, la partecipazione ad un gruppo terroristico”. L’esaltazione di un’organizzazione terroristica, l’invito ad aderirvi, la “militanza ideologica”, la diffusione delle immagini e dei video di “combattenti” “hanno una valenza diversa se compiuti da un soggetto che abbia davvero rapporti con l’associazione terroristica di cui parla, ovvero, viceversa, da una persona del tutto slegata da contesti di criminalità organizzata; si tratta di condotte che possono rendere complessa la distinzione tra la libera posizione ideologica ed il fatto penalmente rilevante, a sua volta astrattamente riconducibile a diverse fattispecie eterogenee, che vanno dai comuni reati d’opinione, al delitto d’associazione con finalità di terrorismo, passando per un nutrito catalogo di ipotesi intermedie”.

Dunque, conclude la Corte, una struttura organizzata, anche se elementare ed una condotta materiale, diversa dalla mera adesione psicologica o ideologica al programma criminale, che presupponga la dimostrazione di un inserimento nella struttura organizzata, anche attraverso il compimento di condotte sintomatiche.

Non occorre uno stabile inserimento nell’apparato dell’associazione, né l’attribuzione di specifiche funzioni: per partecipare e rafforzare una siffatta associazione è sufficiente che il partecipe si metta ‘a disposizione’ della “rete” per attuare il disegno terroristico, che l’associaizone internazionale sappia dei progetti criminosi.

Si tratta di principi che sono stati ripresi ed approfonditi in altre due sentenze, in corso di massimazione.

Sez. 6, n. 40348 del 23/02/2018, Afli Nafaa, e Sez. 6, n. 51218 del 12/06/2018, El Khalfi, (quest’ultima in tema di struttura servente, avente ad oggetto la diffusione attraverso un forum telematico delle ideologie dell’ssociazione internazionale denominata Al Qaeda) nel contesto dei principi affermati con la sentenza Messaoudi, hanno affrontato il tema complementare dell’accertamento probatorio.

Si è osservato che è necessario distinguere due situazioni molto diverse tra di loro: a) quella in cui le condotte oggetto del procedimento sono considerate indicative/costitutive di una associazione – per così dire – autonoma rispetto ad associazioni criminose internazionali della cui esistenza non si dubita; b) quella in cui le condotte sono invece ricondotte ad associazioni ritenute pacificamente esistenti, nel senso che i soggetti, nella sostanza, danno vita a una cellula che in sé non presenta i caratteri di cui all’art. 270-bis cod. pen., ma che è legata ad un’associazione internazionale pacificamente riconosciuta tale.

Nel primo caso, si sostiene, è necessario fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, ma la prova della esistenza di una associazione autonoma con finalità di terrorismo per così dire “locale” non fornisce anche la prova della partecipazione all’associazione internazionale.

Nel caso in cui, invece, la organizzazione non sia autonoma, non sia ex sé riconducibile allo schema di cui all’art. 270-bis cod. pen., ma sia solo “servente”, ciò che deve essere provato è l’esistenza di un legame tra la cellula e l’organizzazione criminale “madre”; in tali casi non si pongono problemi in ordine all’accertamento delle due finalità (finale e strumentale) dell’organizzazione, in quanto elementi dati per sussistenti nel momento in cui si ritiene che la cellula sia collegata con organizzazioni terroristiche pacificamente esistenti e considerate tali e, tuttavia, ciò che deve provato, rispetto alla condotta di partecipazione è il collegamento tra le due strutture, non potendosi attribuire di per sé rilevanza, ai fini della configurazione della condotta partecipativa, nè a condotte di supporto ad una generica finalità terroristica, quali la preparazione di documenti di identità falsi ovvero la propaganda all’interno di luoghi di culto, né, come detto, a quelle relative ad una generica messa a disposizione “unilaterale”.

Ciò che deve essere provato in tali casi è il collegamento bilaterale tra la cellula e l’organizzazione madre; ciò consente di attribuire rilievo ai fini della fattispecie di cui all’art. 270bis cod. pen. alle condotte di supporto, di propaganda da parte di un gruppo che non risulta direttamente impegnato in attività terroristiche (In senso sostanzialmente adesivo a tale impostazione, pare, Sez. 1, n. 51654 del 09/10/2018, Rahman).

In tale contesto si colloca anche Sez. 1, n. 49128 del 11/05/2018, Abdul Nauroz, secondo cui “non appare appagante la mera evocazione della categoria dei reati a pericolo presunto (pur richiamata in numerosi arresti sul tema), quanto, piuttosto, la necessaria presa d’atto di una precisa scelta legislativa di anticipazione della soglia di rilevanza penale, ragionevole se ed in quanto correlata a condotte realizzate in forma associativa che abbiano la concreta ‘idoneità potenziale’ di inserirsi efficacemente in quella complessa serie causale che va dal fanatismo ideologico-religioso al compimento dello specifico atto di violenza terrorista. Si tratta, pertanto, di individuare con la dovuta certezza processuale – in sede di merito – le caratteristiche obiettive della aggregazione, i suoi collegamenti con strutture superiori, la capacità di contribuire al raggiungimento dello scopo ultimo, la tipologìa di azioni finali che il gruppo ed i suoi aderenti sì propongono di realizzare” (Il tema è stato oggetto di attenzione anche da parte di Sez. 1, n. 49728 del 16/04/2018, Marianna ed in Sez. 6, n. 51218 del 2018, di cui si è già detto, che ha chiarito come la fattispecie prevista dall’art. 270-bis cod. pen., debba essere interpretata alla luce del principio secondo cui anche nei reati di pericolo astratto non si può prescindere dalla prova della esistenza di un fatto pericoloso, in quanto il tratto caratteristico di questo tipo di reati riguarda solo il livello al quale si colloca il giudizio di pericolosità che appartiene al genere di azione e non al fatto nella sua individualità e concretezza, nel senso che la condotta deve essere sussumibile sotto la classe o tipo astratto di quelle condotte che normalmente si rivelano pericolose per il bene giuridico tutelato dalla norma).

Nel solco delle direttive indicate, si pone, in una sorta di posizione intermedia, Sez. 2, n. 38208 del 27/04/2018, Waqas Muhammad.

Nella occasione, la Corte ha precisato che il dato dell’adesione all’associazione, in funzione della generalizzata chiamata alla Jihad che l’Isis diffonde in modo capillare con i mezzi di comunicazione più svariati, è certamente un momento di pura condivisione e accettazione delle regole fondanti dell’associazione, ed è tale elemento a dipendere dalle forme e dalla struttura associativa dell’ISIS, e non viceversa: come sottolineato in precedenza, la struttura dell’associazione che opera in una realtà del tutto globalizzata, consente allo stesso tempo di stabilire connessioni tra coloro che aderiscono all’Isis superando distanze geografiche e ostacoli fisici e, proprio per tale caratteristica, non impone altre formalità per la partecipazione al sodalizio se non la decisione del singolo di rispondere a quella chiamata manifestando la propria adesione alla ideologia del “Califfato”. È evidente che una siffatta adesione, da sola considerata, non può ritenersi elemento giuridicamente sufficiente per dare prova del ruolo di partecipe all’associazione terroristica; da essa, però, si colgono le premesse che sono alla base delle determinazioni relative alle iniziative, ai programmi, alla predisposizione degli atti finalizzati a commettere atti di violenza, in modo da prendere parte al programma comune degli aderenti a quell’associazione.

In altri termini, secondo la Corte, la risposta alla chiamata alla jihad non costituisce la prova della condotta di partecipazione, ma segna il momento in cui si instaura il legame tra il singolo e l’associazione, alla luce del quale vanno lette le condotte che il singolo pone in essere richiamandosi e utilizzando il patrimonio ideologico, culturale e di condivisione delle tecniche terroristiche, che costituisce il sostrato organizzativo dell’associazione denominata ISIS.

Ai fini della prova della “partecipazione”, non sarebbe necessario, secondo la sentenza in esame il contatto diretto tra i vertici (promotori, dirigenti, organizzatori) dell’associazione e i singoli aderenti, né può ipotizzarsi che per ciascun associato siano preventivabili e individuabili ruoli e incarichi, così come l’affidamento di compiti predeternninati a livello apicale; l’ “effettivo inserimento” potrà essere logicamente desunto dalle condotte poste in essere dal singolo di cui risulti certa l’adesione al programma dell’associazione.

5. L’arruolamento con finalità di terrorismo (art. 270-quater).

Con il reato di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale, introdotto dall’art. 270-quater con la finalità di contrastare il fenomeno del terrorismo, soprattutto di natura internazionale e di origine fondamentalista islamica.

Con tale norma incriminatrice si è inteso sanzionare coloro che, operando nel territorio dello Stato italiano, arruolano persone destinate a svolgere le attività delittuose ivi elencate: condotte che, non essendo finalizzate ad esporre lo Stato italiano al pericolo di guerra, non potevano integrare gli estremi dei reati in materia di «arruolamento» previsti dagli artt. 244 e 288, ovvero di «reclutamento» di cui all’art. 4 della l. 12 maggio 1995, n. 210.

La condotta sanzionata si concretizza nell’arruolamento, che, seguendo l’indirizzo esegetico formatosi nella lettura dell’art. 244 cod. pen., consiste «nell’ ingaggio di soggetti armati», e, cioè, nell’inserimento di uno o più soggetti in una struttura militare, regolare o irregolare, che implichi un rapporto gerarchico fra comandanti e subordinati.

Secondo la Corte di cassazione, in tema di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale, la nozione di “arruolamento” è equiparabile a quella di “ingaggio”, per esso intendendosi il raggiungimento di un serio accordo tra soggetto che propone il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo e soggetto che aderisce.

Ciò che rileva, cioè, è che l’accordo di arruolamento abbia non solo il carattere della serietà – intesa, da un lato, come autorevolezza della proposta (il proponente deve avere la concreta possibilità di inserire l’aspirante nella struttura operativa una volta concluso l’ingaggio) e, dall’altro, come fermezza della volontà di adesione al progetto – ma soprattutto sia caratterizzato in modo evidente dalla doppia finalizzazione prevista dalla norma (con relativa pienezza dell’elemento psicologico).

Il quadro normativo, come è noto, è mutato in quanto l’art. 1, comma 1, del d.l. 18 febbraio 2015, n. 7 (recante “Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione”), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 2015, n. 43, in attuazione di quanto stabilito dalla Risoluzione ONU n. 2178 (2014), ha introdotto nell’art. 270-quater un comma 2 che stabilisce che, fuori dei casi di cui all’art. 270-bis (e cioè che l’interessato risulti partecipe dell’associazione con finalità di terrorismo), e salvo il caso di addestramento, anche la persona arruolata è punita.

Si è chiarito che la nozione di “arruolamento” è equiparabile a quella di “ingaggio”, per esso intendendosi il raggiungimento di un serio accordo tra soggetto che propone il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo e soggetto che aderisce. (Sez. 1, n. 40699 del 09/09/2015, Elezi, Rv. 264719).

In tale contesto è intervenuta, Sez. 2, n. 17772 del 02/02/2017, Veapi, che ha ritenuto immune da vizi il provvedimento del Tribunale del riesame che aveva confermato l’ordinanza con la quale era stata applicata la misura cautelare della custodia in carcere con riguardo al concorso nel reato di cui all’art. 270-quater, comma 1, cod. pen.; si è evidenziato come dal compendio indiziario emergesse, da un lato, un’adesione ideologica dell’indagato alle tesi sostenute da un Innan, tanto da promuoverne l’arrivo in Italia e la predicazione coranica, e, dall’altro, una piena e totale disponibilità ad assumere un ruolo non solo di intermediazione ma decisamente attivo nell’individuare “i fratelli” maturi per l’avvio alla Jihad, intesa come guerra santa da realizzare attraverso il martirio, tale essendo la morte in combattimento e quindi e in definitiva tesa a determinare un’adesione all’ISIS.

6. L’addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270quinquies).

La condotta sanzionata può concretizzarsi nell’addestramento o nel fornire istruzioni per la preparazione o l’uso di esplosivi e vari tipi di armi e sostanze chimiche o batteriologiche, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali.

L’esatta delimitazione tra i due concetti assume rilievo anche per stabilire la punibilità o meno del soggetto nei cui riguardi l’attività si indirizza.

Mentre, infatti, l’art. 270-quinquies prevede espressamente che la pena si applichi anche al soggetto addestrato, nulla è invece detto per colui che riceva le istruzioni: persona, questa, che sarebbe punibile a condizione di ritenere l’attività di chi fornisce istruzioni come una sottospecie di quella più generale riguardante l’addestramento.

La fattispecie delittuosa di cui all’art. 270-quinquies cod. pen. ha quali soggetti attivi l’”addestratore”, ossia colui che non si limita a trasferire informazioni, ma agisce somministrando specifiche nozioni, in tal guisa formando i destinatari e rendendoli idonei ad una funzione determinata o ad un comportamento specifico, l’”informatore”, ossia colui che raccoglie e comunica dati utili nell’ambito di un’attività e che, quindi, agisce quale veicolo di trasmissione e diffusione di tali dati, e, infine, l’”addestrato”, ossia colui che, al di là dell’attitudine soggettiva di esso discente o dell’efficacia soggettiva del docente, si rende pienamente disponibile alla ricezione non episodica di quelle specifiche nozioni alle quali si è fatto sopra riferimento.

La Corte ha precisato che resta esclusa dalla previsione punitiva la figura del mero “informato”, individuabile in colui che rimane mero occasionale percettore di informazioni al di fuori di un rapporto, sia pure informale, di apprendimento e che non agisce a sua volta quale informatore/addestratore (Sez. 1, n. 38220, del 12/07/2011, Korchi, Rv. 251363).

È stato chiarito quale sia l’ambito di applicazione della norma incriminatrice in esame, puntualizzando che non integra il delitto di addestramento ad attività con finalità di terrorismo, la mera attività di informazione e di proselitismo che non costituisce in chi riceve il messaggio un bagaglio tecnico sufficiente a preparare o usare armi, esplosivi o sostanze nocive o pericolose, o a compiere atti di violenza o di sabotaggio, poichè si tratta di condotta non qualificabile come insegnamento, ma come mera divulgazione o proposta ideologica (Sez. 1, n. 4433 del 6/11/2013 (dep. 2014), El Abboubi, Rv. 259020).

Secondo la Corte la norma in esame, punendo condotte di addestramento o istruzione di tipo militare (sulla preparazione o uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali) con finalità di terrorismo (il comma 2 della norma estendendo la punizione delle condotte vietate alle persone addestrate e quindi anche al soggetto che si auto addestri), impone la distinzione tra formazione e informazione (ovvero tra insegnamento e divulgazione), senza potersi anticipare la soglia di punibilità a uno stadio della condotta che non sia ancora insegnamento ma mera divulgazione ovvero (laddove la finalità sia di terrorismo) di proposta ideologica.

Si assume che per il principio di legalità, di cui all’art. 1 cod. pen., non si possono promuovere manifestazioni di pericolosità sociale (sia pur grave e qualificata) a condotte penalmente rilevanti: le nozioni fornite (od acquisite) di tipo militare devono essere, appunto, idonee a costituire in chi le riceve (o le acquisisce) un bagaglio tecnico sufficiente a preparare o ad usare armi e quant’altro, non solo a suscitare o ad aumentare il proprio o altrui interesse in tale settore.

L’oggettiva assenza della condotta materiale rende ininfluente la specificità soggettiva del fine (nella specie, la partecipazione, fino al martirio, alla jihad islamica).

La disposizione in esame è stata modificata dall’art. 1, comma 3, del d.l. 18 febbraio 2015, n. 7 (recante “Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione”), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 2015, n. 43, che:

a) integrando il comma 1, ha stabilito la punibilità pure del c.d. ‘combattente isolato’ (anche detti “lupi solitari”) ovvero del soggetto che si è “auto-addestrato”, e cioè “della persona che avendo acquisito, anche autonomamente, le istruzioni per il compimento degli atti di cui al primo periodo, pone in essere comportamenti univocamente finalizzati alla commissione delle condotte di cui all’art. 270-sexies”;

b) inserendo nell’art. 270-quinquies un comma 2, ha previsto l’aggravante per il caso in cui il reato “di chi addestra o istruisce” sia commesso “attraverso strumenti informatici o telematici”.

Per la configurabilità del reato (anche in relazione alla nuova figura dell’auto-addestrato) è richiesto il dolo specifico, consistente nella coscienza e volontà di addestrare o di fornire istruzioni per la preparazione o l’uso di esplosivi e vari tipi di armi e sostanze chimiche o batteriologiche, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo.

Sul punto la Cassazione ha precisato che, ai fini della configurabilità del delitto di addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale, l’art. 270-quinquies cod. pen., richiede un duplice dolo specifico, caratterizzato non solo dalla realizzazione di una condotta in concreto idonea al compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, ma anche dalla presenza della finalità di terrorismo descritta dall’art. 270-sexies c.p. (Sez. 5, n. 29670 del 2/7/2011, Garouan, Rv. 250517).

La Corte ha altresì precisato che, ai fini della configurabilità del reato di addestramento ad attività con finalità di terrorismo (art. 270 quinquies cod. pen.) anche internazionale, commesso dalla persona che abbia acquisito autonomamente informazioni strumentali al compimento di atti con la suddetta finalità, è comunque necessario che il soggetto agente ponga in essere comportamenti significativi sul piano materiale, univocamente diretti alla commissione delle condotte di cui all’art. 270-sexies cod. pen., senza limitarsi ad una mera attività di raccolta di dati informativi o a manifestare le proprie scelte ideologiche. (Sez. 5, n. 6061 del 19/07/2016, Hamil, Rv. 269581 in cui la Corte ha ritenuto configurabile in sede cautelare il reato di cui all’art. 270-quinquies cod. pen. sulla base di molteplici indici fattuali concreti, tra i quali il possesso da parte dell’imputato di video ed immagini riconducibili alla propaganda terroristica per lo Stato islamico o illustrativi di tecniche per la preparazione di un ordigno, scaricati con elevata frequenza nell’arco di un significativo periodo di tempo, nonchè l’avere in rubrica telefonica un’utenza collegata ad altra in uso a soggetto poi arrestato per detenzione di armi ed esplosivi).

7. L’attività di apologia.

La Corte ha ripetutamente affermato che ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 414 cod. pen. non basta l’esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, per quanto odioso e riprovevole esso possa apparire alla generalità delle persone dotate di sensibilità umana, ma occorre che il comportamento dell’agente sia tale, per il suo contenuto intrinseco, per la condizione personale dell’autore e per le circostanze di fatto in cui si esplica, da determinare il rischio, non teorico, ma effettivo, della consumazione di altri reati e, specificamente, di reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato (Sez. 1, n. 8779 del 05/05/1999, Oste, Rv. 214645; nello stesso senso, Sez. 1, n. 11578, del 17/11/1997, Gizzo, Rv. 209140 secondo cui l’’elemento oggettivo dell’apologia di uno o più reati punibile ai sensi dell’art. 414, comma terzo, cod. pen., non si identifica nella mera manifestazione del pensiero, diretta a criticare la legislazione o la giurisprudenza o a promuovere l’abolizione della norma incriminatrice o a dare un giudizio favorevole sul movente dell’autore della condotta illecita, ma consiste nella rievocazione pubblica di un episodio criminoso diretta e idonea a provocare la violazione delle norme penali, nel senso che l’azione deve avere la concreta capacità di provocare l’immediata esecuzione di delitti o, quanto meno, la probabilità che essi vengano commessi in un futuro più o meno prossimo. (Fattispecie relativa alla pubblicazione, in un periodico di ispirazione anarchica, di tre articoli dedicati alla descrizione di altrettanti attentati a impianti di pubblica utilità, nonché a stabilimenti industriali, e connotati da una forte esaltazione dei fatti, capace di far sorgere il pericolo di ulteriori reati e di turbare l’ordine pubblico).

Si è, peraltro, ripetutamente ricordato che l’accertamento del pericolo concreto di commissione di delitti in conseguenza dell’istigazione o dell’apologia è riservato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato (Sez. 1, n. 25833 del 23/04/2012, Testi, Rv. 253101).

È incontestato che l’apologia possa avere ad oggetto anche un reato associativo e, quindi, anche il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale di cui all’art. 270-bis cod. pen., cosicché il pericolo concreto può concernere non solo la commissione di atti di terrorismo, ma anche la partecipazione di taluno ad un’associazione di questo tipo (art. 270-bis, comma 2 cod. pen.).

In tale contesto è stato affrontato il tema della apologia mediante la diffusione su siti internet di documenti di propaganda del c.d. “Stato islamico” e dell’associazione terroristica dell’Isis.

Sez. 1, n. 47489 del 6/10/2015, Halili, Rv. 265264 ha affermato il principio così massimato “In tema di reato di apologia riguardante delitti di terrorismo, previsto dall’art. 414, comma quarto, cod.pen., il pericolo concreto, derivante dalla condotta dell’agente di consumazione di altri reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal reato esaltato, può concernere non solo la commissione di specifici atti di terrorismo ma anche la adesione di taluno ad un’associazione terroristica”.

La Corte ha rigettato il ricorso avverso la decisione che aveva ritenuto la sussistenza del reato di apologia di cui all’art. 414, comma quarto, cod. pen. nella condotta di diffusione su internet di un documento che sollecitava l’adesione dei potenziali lettori allo “Stato islamico”, esaltandone la natura combattente e la sua diffusione ed espansione, anche con l’uso delle armi.

Nonostante il ricorrente avesse sostenuto la tesi secondo cui il documento diffuso su internet sollecitasse solo un’adesione “ideologica” dei potenziali lettori allo “Stato islamico” e alle sue caratteristiche di “stato sociale”, attento al benessere dei suoi “cittadini”, è stato valorizzato il fatto che, invece, lo scritto presupponesse e accettasse la natura combattente e di conquista violenta da parte dell’organizzazione (cioè l’esecuzione di atti di terrorismo), esaltasse la sua diffusione ed espansione, anche con l’uso delle armi, distinguesse l’umanità tra “un campo di Iman esente da ipocrisia e un campo di miscredenza esente da Iman” e valorizzasse “la mappa della futura espansione del Califfato, che in poche parole è l’intero pianeta Terra”.

Il documento faceva esplicito riferimento alle “molteplici fazioni militari Islamiche” alleate con il Califfo, riportava una frase del Portavoce ufficiale evocativa della conquista (“Vi promettiamo che, con il permesso di Allah, questa sarà la ultima vostra campagna. Verrà annientata e sconfitta come successe con tutte le vostre ultime campagne. Eccetto per cui questa volta saremo noi ad assaltarvi e non ci assalterete mai più. Se non saremo noi a raggiungervi saranno i nostri figli o i nostri nipoti”), e presentava personaggi ufficialmente classificati come terroristi nei documenti internazionali e conteneva diversi link a siti internet facenti capo all’organizzazione terroristica.

Nella specie era stato eccepito anche che, poiché il delitto di cui all’art. 414, comma 3, cod. proc. pen. è reato contro l’ordine pubblico, esso sarebbe riferibile esclusivamente allo Stato e al suo territorio; l’adesione allo Stato Islamico sarebbe stata, nella specie, finalizzata invece ad esplicare i propri effetti turbativi all’estero: si sarebbe trattato di associazione costituita ed operante all’estero e non punibile in Italia ai sensi degli artt. 7, 8 e 10 cod. pen.

Il corollario che se ne faceva discendere è che non vi fosse la lesione all’interesse giuridico tutelato dalla norma in relazione ad un concetto di “Stato islamico” diverso da quello recepito nel nostro ordinamento e in quello internazionale, vale a dire da quello di un’organizzazione terroristica internazionale.

La Corte ha osservato in primo luogo che l’apologia di reato oggetto della contestazione era stata posta in essere in Italia ed era diretta a soggetti residenti nel nostro Paese (tanto che il documento era stato scritto in italiano); in secondo luogo, ha negato che l’associazione denominata ISIS sia operante esclusivamente all’estero.

“In effetti, il ricorrente si spinge a sostenere che non vi sarebbe punibilità di tale associazione nel nostro Paese ai sensi degli artt. 7, 8 e 10 cod. pen.: ma la giurisprudenza di questa Corte, applicando il principio generale secondo cui, in relazione a reati commessi in parte anche all’estero, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato l’evento o sia stata compiuta, in tutto o in parte, l’azione, con la conseguenza che, in ipotesi di concorso di persone, perché possa ritenersi estesa la potestà punitiva dello Stato a tutti i compartecipi e a tutta l’attività criminosa, ovunque realizzata, è sufficiente che in Italia sia stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione ad opera di uno qualsiasi dei concorrenti (Sez. 1, n. 41093 del 06/05/2014, rv. 260703), ha già ritenuto integrante il delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale la formazione di un sodalizio, connotato da strutture organizzative “cellulari” o “a rete”, in grado di operare contemporaneamente in più Paesi, anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici ovvero informatici anche discontinui o sporadici tra i vari gruppi in rete, che realizzi anche una delle condotte di supporto funzionale all’attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali quelle volte al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda, all’assistenza agli associati, al finanziamento, alla predisposizione o acquisizione di armi o di documenti falsi, all’arruolamento, all’addestramento, con l’affermazione della giurisdizione italiana in caso di cellula operante in Italia per il perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base dell’attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio di nuovi adepti, da inviare all’occorrenza nelle zone teatro di guerra, e della raccolta di denaro destinato al sostegno economico dei combattenti del “Jihad” all’estero (Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, rv. 253944; cfr. anche Sez. 5, n. 31389 del 11/06/2008, rv. 241175 di conferma della condanna per il delitto di cui all’art. 270-bis cod. pen. per imputati che avevano collegamenti con una associazione di natura terroristica, che aveva posto in essere azioni di chiaro stampo terroristico nel Kurdistan)”.

Sotto ulteriore profilo, era stato sostenuto che le modalità di diffusione del documento – presente su due siti web – non potessero integrare la natura pubblica dell’apologia: la Corte, condividendo la valutazione del giudice di merito, ha evidenziato invece come l’accesso ai siti fosse libero, senza che esistesse alcun filtro di accesso e che, per di più, lo stesso indagato era consapevole della potenzialità diffusiva della pubblicazione sui siti internet, tanto da sollecitarla su un altro sito chiedendo di “aiutarlo ad espandere (questo lavoro) e farlo leggere ad altri fratelli o sorelle” (Rv. 265265).

Nel 2017 le questioni indicate sono state nuovamente affrontate in Sez. 1, n. 24103 del 01/04/2017, Dibrani, Rv. 270604, così massimata: “Integra il reato di istigazione a delinquere, la diffusione, mediante l’inserimento su profilo personale Facebook, di comunicazioni contenenti riferimenti alle azioni militari del conflitto bellico siro-iracheno e all’Isische ne è parte attiva, dai quali, anche solo indirettamente, possa dedursi un richiamo alla jihad islamica e al martirio, in considerazione, sia della natura di organizzazioni terroristiche, rilevanti ai sensi dell’art. 270-bis cod.pen., delle consorterie di ispirazione jihadista operanti su scala internazionale sia della potenzialità diffusiva indefinita della suddetta modalità comunicativa. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale del riesame che aveva disposto la liberazione dell’indagato, escludendo la rilevanza apologetica di alcune videoregistrazioni postate sul profilo Facebook tra le quali alcune, riguardanti il conflitto bellico siro-iracheno, prive di espliciti riferimenti all’Isis e alla matrice islamica radicale che ispirava le sue azioni, ma altre inneggianti esplicitamente alla jihad e al martirio)”.

Nella specie il tribunale del riesame aveva annullato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in relazione all’art. 414 cod. pen.; si contestava all’indagato di avere pubblicato su un profilo personale sul social network, denominato Facebook, materiale apologetico dell’associazione terroristica Isis. Il materiale postato sul profilo Facebook del Dibrani si connotava per la sua matrice islamica radicale e comprendeva: una fotografia con commento di un imam, già arrestato dalla polizia macedone per avere reclutato soggetti affiliati all’Isis; alcune videoregistrazioni inneggianti al martirio religioso jihadista, che riprendevano immagini di individui armati e vestiti con abiti militari mimetici; la condivisione di lunghi brani di discorsi di autorità religiose, appartenenti all’area islamica radicale, che esaltavano l’adesione di singoli combattenti al “califfato” e la loro morte in qualità di martiri jihadisti; materiale di provenienza telematica eterogenea mirante a propagandare l’ideologia e le attività dello stesso sodalizio terroristico, sia sul piano politico che su quello religioso. Questi accertamenti conseguivano alle attività di intercettazione, telefonica e telematica, attivate nel corso delle indagini preliminari, che consentivano di accertare la presenza sul personal computer dell’indagato di ulteriore materiale di natura propagandistica e di matrice islamica radicale, avente contenuto analogo a quello postato sul suo profilo Facebook.

Il Tribunale del riesame, esclusa preliminarmente la rilevanza penale delle comunicazioni private e interpersonali, fondava la sua ordinanza su una disamina del materiale telematico postato sul profilo Facebook dell’indagato ed escludeva che dette trasmissioni audiovisive contenessero materiale di contenuto apologetico riguardante l’organizzazione terroristica di matrice islamica radicale denominata Isis.

Secondo il Tribunale le videoregistrazioni in questione, pur riguardando il conflitto bellico in corso di svolgimento sull’area geografica siro-irachena, non contenevano alcun riferimento esplicito allo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria e alla matrice islamica radicale che ispirava le sue azioni, limitandosi a diffondere informazioni sull’interpretazione coranica del ruolo di combattenti svolto dagli adepti di fede musulmana che fornivano il loro sostegno al conflitto in questione.

Differente, invece, era il contenuto di altre videoregistrazioni, che, tuttavia, secondo il Tribunale, facevano sì esplicitamente riferimento all’Isis, ma su un piano esclusivamente istituzionale e religioso, riguardante la legittimazione che lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria avrebbe sotto il profilo del riconoscimento internazionale; profilo, quest’ultimo, a sua volta collegato ad una più ampia piattaforma dogmatica, finalizzata a giustificare sul piano teologico la presenza di tale organismo sulla scena internazionale, a prescindere dai richiami alla matrice jihadista dei suoi proclami.

Veniva pertanto esclusa la portata apologetica delle videoregistrazioni sul presupposto che tale materiale audiovisivo risultasse inidoneo a conferire all’attività di propaganda che vi era connessa il rischio di effettiva consumazione di ulteriori reati, tra cui quello di adesione allo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria.

Si ribadiva, pertanto, che le videoregistrazioni erano prive di contenuto apologetico e possedevano una valenza esclusivamente rilevante rispetto alla confessione religiosa professata dall’indagato.

A seguito del ricorso della Procura della Repubblica, la Corte ha ritenuto immune da vizi il provvedimento impugnato in relazione alle conversazioni telematiche, escludendone la loro portata apologetica, posto che “ i messaggi in questione rimanevano circoscritti «all’ambito conoscitivo del solo ricorrente, ovvero all’interlocuzione individuale con altro soggetto nelle citate conversazioni o in chat, ciò che esclude quella necessaria pubblicità intesa come potenzialità diffusiva indefinita equiparabile alla stampa»”.

Si è evidenziato come, per configurare il delitto di cui all’art. 414 cod. pen., occorra che il comportamento del soggetto attivo del reato si connoti per la sua valenza diffusiva, desumibile dalle circostanze di fatto in cui la condotta apologetica si esplica, tale da determinare il rischio concreto – valutabile alla luce del contesto ambientale nel quale le comunicazioni hanno luogo – di consumazione di altri reati, lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato (cfr. Sez. 1, n. 8779 del 05/05/1999, Oste, Rv. 214645; Sez. 1, n. 11578 del 17/11/1997, Gizzo, Rv. 209140).

Né, si è aggiunto, può rilevare di per sé la circostanza che le condotte apologetiche di cui all’art. 414 cod. pen. abbiano ad oggetto anche l’esternato apprezzamento nei confronti di associazione con finalità di terrorismo internazionale, di cui all’art. 270-bis cod. pen., ben potendo il pericolo concreto concernere non solo l’approvata commissione di atti di terrorismo, ma anche la scelta di partecipare ad una siffatta organizzazione; tuttavia, ai fini della configurazione della fattispecie dell’art. 414 cod. pen., non rileva la tipologia dei reati in relazione ai quali si esplica l’attività comunicativa, ma le modalità con cui la comunicazione viene esternata, che devono possedere connotazioni di potenzialità diffusiva, conseguenti al fatto di essere destinate a un numero indeterminato di soggetti e comunque non riconducibili, come nel caso in esame, ad un ambito strettamente interpersonale (cfr. Sez. 1, n. 25833 del 23/04/2012, Testi, cit.; Sez. 1, n. 26907 del 05/06/2001, Vencato, cit.).

Quanto invece alle videoregistrazioni postate su facebook, il percorso motivazionale del tribunale è stato ritenuto viziato; si è ricordato come la giurisprudenza di legittimità, da tempo, abbia affermato che l’attività di proselitismo, fondata su ragioni di carattere etnico o religioso, ben può essere effettuata mediante i canali telematici – tra i quali occorre certamente comprendere il social network denominato Facebook – attraverso cui si mantengono i contatti tra gli aderenti o i simpatizzanti, mediante la diffusione di documenti e testi apologetici, la programmazione di azioni dimostrative, la raccolta di elargizioni economiche, la segnalazione di persone responsabili di avere operato a favore della causa propagandata (cfr., Sez. 5, n. 33179 del 24/03/2013, Scarpino, Rv. 257216; Sez. 3, n. 8296 del 02/12/2004, dep. 2005, Ongari, Rv. 231243).

Si è aggiunto che il Tribunale non aveva tenuto conto delle conseguenze apologetiche che i riferimenti, espliciti e impliciti, al conflitto bellico siro-iracheno – nel quale risulta coinvolta un’organizzazione terroristica di ispirazione jihadista come Ilsis – contenuti nelle videoregistrazioni in esame erano in grado di provocare rispetto ai frequentatori del social network. Nel valutare la portata apologetica di tali videoregistrazioni, quindi, occorreva considerare la natura di organizzazioni terroristiche, rilevanti ai sensi dell’art. 270-bis cod. pen., delle consorterie di ispirazione jihadista operanti su scala internazionale, analoghe allo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria.

Secondo la Corte, nell’affermare che le videoregistrazioni postate su Facebook si limitavano a richiamare il conflitto bellico in corso di svolgimento sul territorio siro-iracheno in termini meramente ideologici, si era trascurato di considerare che i riferimenti ad una delle parti in guerra, rappresentata dall’isis, presupponevano il richiamo alla Jihad islamica, che costituisce la fonte di ispirazione, dichiarata e non controversa, delle azioni militari dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, e, dall’altra, che costituisce un dato incontrovertibile quello secondo cui la guerra civile attualmente in corso di svolgimento sul territorio siro-iracheno vede contrapposte diverse fazioni militari, una delle quali è rappresentata dallo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, la cui matrice ideologica e religiosa è rappresentata dal richiamo alla Jihad islamica, che ispira le azioni belliche condotte su quell’area del Medio Oriente dall’Isis, e costituisce, su scala internazionale, il collante del terrorismo islamico.

8. Il reato di attentato per finalità terroristiche o di eversione (art. 280 cod. pen).

Sez. 1, n. 44850 del 28/03/2017, Albano, è tornata ad occuparsi dell’elemento soggettivo necessario ai fini della configurazione del reato di attentato per finalità terroristiche o di veresione (art. 280 cod. pen.)

La vicenda processuale riguardava l’’attacco sferrato nel 2013 al cantiere di Chiomonte in provincia di Torino ove era in corso di realizzazione un tunnel geognostico in funzione del collegamento TAV della linea Torino-Lione. Dall’iniziativa era derivato l’incendio di un compressore, utilizzato per alimentare i martelli pneumatici, posto nei pressi dell’imbocco del tunnel. La Corte d’assise d’appello, esposta la sequenza processuale, affrontava la tematica relativa all’inquadramento delle fattispecie di cui agli artt. 280 e 280-bis cod. pen.; si chiariva che l’azione si era svolta per la durata di circa quattro minuti, snodandosi su due fronti, l’uno adiacente l’ingresso al tunnel in realizzazione e l’altro più esterno, per creare una sorta di diversivo per le forze di polizia. Riteneva, poi, non sussistente l’ipotesi di cui all’art. 280 cod. pen., poiché obiettivo primario dell’azione era stata la distruzione dei mezzi d’opera e non già l’offesa agli operai addetti alle lavorazioni. Escludeva ancora la sussistenza della finalità di terrorismo e la Corte d’assise d’appello addiveniva ad assoluzione dalle relative contestazioni.

Aveva presentato ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d’appello osservando come la sentenza impugnata fosse giunta a ritenere che per aversi attentato fosse necessario, sul piano dell’elemento oggettivo, che ricorressero atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte o lesione delle persone individuate come bersaglio e, su quello soggettivo, che ricorresse il dolo di omicidio o di lesioni.

Contrariamente, riteneva il ricorrente, che fosse configurabile la fattispecie in esame anche allorquando, sul piano oggettivo, l’azione non si fosse rivolta alla morte o alla lesione di persone ma fosse diretta al pericolo concreto per la vita o l’incolumità delle persone stesse. Nella vicenda di specie si sarebbe, pertanto, dovuto appurare se i soggetti avessero creato un pericolo concreto per l’incolumità delle persone o se avessero solo accettato il rischio del verificarsi degli eventi oggetto di pericolo.

La Corte di cassazione, valorizzando la motivazione della sentenza impugnata – in cui era stato chiarito come: a) l’obiettivo primario dell’attacco fosse la distruzione dei mezzi d’opera destinati alla realizzazione del tunnel geognostico; b) contro il compressore di alimentazione dei martelli pneumatici, situato all’ingresso del cunicolo, furono lanciate le molotov; c) l’azione non fosse diretta all’offesa degli operai addetti alle relative lavorazioni, che non furono mai i diretti destinatari dei gesti di lancio; d) i soggetti preposti al presidio del cantiere furono solo bersaglio del lancio di sassi, petardi e fuochi d’artificio, per assicurare la copertura necessaria a permettere l’accesso al cantiere e il raggiungimento della pista sovrastante il cunicolo stesso, da cui colpire i mezzi di lavoro sottostanti; e) le stesse bottiglie molotov, dunque, furono oggetto d’impiego in sostanza solo verso i mezzi d’opera che si trovavano nei pressi del tunnel- ha escluso la sussistenza del dolo di attentato all’incolumità delle persone, richiesto dall’art. 280 cod. pen., ( nello stesso senso Sez. 1, n. 47479 del 16/07/2015, P.M. in proc Alberti e altri, Rv. 265404).

Secondo la Corte “attentare all’incolumità della persona o alla vita significa, invero, porre in essere un’azione idonea e diretta in modo non equivoco ad attingere i beni indicati. Il dolo della fattispecie non si differenzia affatto dall’ipotesi in cui il soggetto è riuscito nell’intento ed ha prodotto la lesione dell’incolumità o la morte del soggetto passivo. Ciò è quanto si ricava direttamente dall’esame dei commi 2 e 4 dell’art 280 cod. pen. La norma ricalca, infatti, nella sua struttura, il tentativo, categoria in cui non si è mai dubitato che l’elemento soggettivo del delitto fosse di natura e consistenza identica a quella della omologa fattispecie di parte speciale, nella forma consumata e dalla cui combinazione con l’art. 56 cod. pen. gemma il delitto nella forma tentata. Ciò premesso si intende come non possa convincere l’argomentazione spesa in ricorso, secondo cui oggetto del dolo del delitto di attentato sarebbe, appunto, non la rappresentazione e la volizione della lesione alla incolumità o alla vita, ma la sola messa in pericolo (sia pur concreto) dei beni anzidetti. Agire al fine e con la consapevolezza, non di recare lesione all’incolumità o di produrre la morte, ma di mettere solo in pericolo concreto quei beni, significa, secondo le categorie dogmatiche penalistiche, accettare il rischio della verificazione, sul piano naturalistico, degli eventi indicati. L’azione finirebbe per qualificarsi, pertanto, come sorretta dal dolo cd. eventuale o indiretto. Forma di dolo siffatto non risulta, contrariamente e pacificamente, compatibile con le fattispecie d’attentato. D’altro canto che l’oggetto del dolo non si limiti al mero “pericolo di lesione”, sia pur concreta, come sostenuto dal ricorrente, è supportato dal dato testuale della norma di cui all’art. 280 cod. pen. Essa al comma 4 prevede che, nel caso di morte della persona, si applichi l’ergastolo, là dove l’agente abbia attento alla vita; si applicherà la reclusione di anni trenta là dove l’agente abbia, contrariamente, attentato all’incolumità e provocato la morte. In questo caso il soggetto… agisce solo con il dolo tipico di ledere l’incolumità e produce l’evento ulteriore della morte. È chiaro dalla formulazione normativa che l’azione è sorretta da dolo diretto di lesioni e non da mera rappresentazione e volizione del puro pericolo concreto di esse” (nello stesso senso, Sez. 6, n. 28009 del 2014, Alberto, Rv. 260078 secondo cui “nei delitti di attentato, la volontà dell’agente deve dirigersi direttamente verso gli eventi naturalistici presi in considerazione dalla norma incriminatrice, non potendosi ritenere sufficiente la sussistenza del dolo eventuale”, così che “se fosse affermata una ricostruzione in fatto tale da ridurre l’atteggiamento degli assalitori ad una mera accettazione del rischio di colpire delle persone, dovrebbe dedursene la impossibilità di qualificare l’azione come delitto di attentato, per la già chiarita incompatibilità tra la struttura tipica delle fattispecie in questione ed il dolo eventuale”. Egualmente si è ribadito che per integrare il delitto di attentato per finalità terroristiche o eversive di cui all’art. 280 cod. pen., non è sufficiente la sola rappresentazione ed accettazione del rischio dell’evento lesivo, ma è necessario che la condotta dell’agente sia intenzionalmente diretta a ledere la vita o l’incolumità di una persona, quali beni protetti dalla norma (Sez. 1, n. 47479 del 16/07/2015, Alberti e altri, Rv. 265404).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 2, n. 5831 del 14/2/1985, Agresti, Rv. 169747 Sez. 1, n. 8952 del 7/4/1987, Angelini, Rv. 176516 Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995 – dep. 1996 –, Fachini, Rv. 203770 Sez. 1, n. 11578, del 17/11/1997, Gizzo, Rv. 209140 Sez. 6, n. 3241 del 10/2/1998, Cadinu, Rv. 210680 Sez. 1, n. 8779 del 05/05/1999, Oste, Rv. 214645 Sez. 6, n. 36776 del 01/07/2003, Nerozzi, Rv. 226049 Sez. 3, n. 8296 del 02/12/2004 – dep. 2005 –, Ongari, Rv. 231243 Sez. 2, n. 669 del 21/12/2004 – dep. 2005 –, Ragoubi, Rv. 230431 Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231673 Sez. 1, n. 1072 del 11/10/2006, Bouyahia Maher, Rv. 235289 Sez. 1, n. 30824 del 15/6/2006, Tartag, Rv. 234182 Sez. 1, n. 22673 del 22/4/2008, Di Nucci, Rv. 240085 Sez. 5, n. 75 del 18/7/2008, Laagoub, Rv. 242355 Sez. 1, n. 25949 del 27/05/2008, Minotti, Rv. 240465 Sez. 1, n. 21686 del 22/4/2008, Fabiano, Rv. 240075 Sez. 5, n. 29670 del 2/7/2011, Garouan, Rv. 250517 Sez. 5, n. 12252 del 23/2/2012, Bortolato, Rv. 251920 Sez. 1, n. 25833 del 23/04/2012, Testi, Rv. 253101 Sez. 6, n. 46308 del 12/7/2012, Chahchoub, Rv. 253943 Sez. 1, n. 22719 del 22/3/2013, Lo Turco, Rv. 256489 Sez. 5, n. 33179 del 24/03/2013, Scarpino, Rv. 257216 Sez. 5, n. 46340 del 4/7/2013, Stefani, Rv. 257547 Sez. 1, n. 4433 del 6/11/2013 – dep. 2014 –, El Abboubi, Rv. 259020 Sez. 6, n. 28009 del 15/5/2014, Alberto, Rv. 260076 Sez. 1, n. 47479 del 16/7/2015, Alberti, Rv. 265405 Sez. 1, n. 47489 del 6/10/2015, Halili, Rv. 265264 Sez. 5, n. 2651 del 8/10/2015 – dep. 2016 –, Nasr Osama, Rv. 265924 Sez. 2, n. 28753 dell’1/4/2016, Iacovacci, Rv. 267512 Sez. 5, n. 48001 del 14/7/2016, Hosni, Rv. 268164 Sez. 2, n. 17772 del 02/02/2017, Veapi Sez. 2, n. 25452 del 21/02/2017 Beniamino Sez. 1, n. 44850 del 28/03/2017, Albano Sez. 1, n. 24103 del 01/04/2017, Dibrani, Rv. 270604 Sez. 5, n. 50189 del 13/07/2017, Bekaj, Rv. 271645- 646-647 Sez. 6, n. 14503 del 19/12/2017 – dep. 2018 –, Messaoudi, Rv. 272730- 731 Sez. 6, n. 40348 del 23/02/2018, Afli Nafaa Sez. 1, n. 49728 del 16/04/2018, Marianna Sez. 2, n. 38208 del 27/04/2018, Waqas Muhammad Sez. 1, n. 49128 del 11/05/2018, Abdul Nauroz Sez. 6, n. 51218 del 12/06/2018, El Khalfi Sez. 1, n. 51654 del 09/10/2018, Rahman

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 62 del 1986 Corte cost., sent. n. 333 del 1991 Corte cost., sent. n. 263 del 2000 Corte cost., sent. n. 225 del 2008 Corte cost., sent. n. 172 del 2014

SEZIONE III MISURE DI PREVENZIONE

  • reato
  • diritto penale

CAPITOLO I

L’ “ALLINEAMENTO” DELLA DISCIPLINA DELLE MISURE DI PREVENZIONE AL PRINCIPIO DI LEGALITÀ

(di Luigi Giordano )

Sommario

1 La sentenza delle Sezioni unite “Paternò”. - 2 L’interpretazione “in chiave tassativizzante” delle fattispecie normative che descrivono la pericolosità cd. generica. - 3 I soggetti destinatari: La dedizione ai traffici delittuosi. - 4 (segue). Coloro che vivono abitualmente con i proventi di attività delittuose. - 5 (segue). Coloro che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. - 6 (segue). L’evasore fiscale. - 7 La pericolosità “qualificata”: La sentenza Gattuso. - 8 (segue). Le ricadute della sentenza illustrata nella giurisprudenza della Corte. - 9 La violazione del divieto di partecipare a pubbliche riunioni. - 10 Interpretazione tassitivizzante e questione di legittimità costituzionale. - 11 Procedimento ed elementi valutativi del giudizio di prevenzione. - Indice delle sentenze citate

1. La sentenza delle Sezioni unite “Paternò”.

Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, il contenuto precettivo del reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale di cui all’art. 75 del d.lgs. n. 159 del 2011 era integrato anche dalla violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, che si riferiscono a condotte che costituiscono illeciti sia penali, sia amministrativi, dovendo ammettersi, nel primo caso, il concorso formale con il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale.

Muovendo dalle considerazioni espresse da Sez. U, n. 32923 del 29/05/2014, Sinigaglia, Rv. 260019, che ha espunto dalle prescrizioni sanzionabili ai sensi del citato art. 75 la violazione dell’obbligo di portare la carta precettiva, e dal criterio ermeneutico offerto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 27 del 1959 in ordine alla necessità di accordare rilevanza alle sole inottemperanze del sorvegliato speciale sintomatiche della pericolosità sociale già accertata in sede di giudizio di prevenzione, con la sentenza Sez. U, n. 40076 del 27/04/2017, Paternò, Rv. 270496, la Corte di cassazione si è posta in posizione di netta discontinuità con la precedente giurisprudenza, escludendo che la violazione delle suddette prescrizioni possa integrare il reato di cui all’art. 75, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011.

Il punto di partenza di tale overruling, sollecitato dalla valutazione critica espressa dalla Corte EDU nella sentenza “De Tommaso” sulle fattispecie di cd. pericolosità generica, è rappresentato dalla necessità di propendere per un’interpretazione “tassativizzante” e “tipizzante” delle norme in tema di misure di prevenzione. Ad avviso delle Sezioni unite, infatti, il contenuto precettivo della fattispecie di cui all’art. 75 del d.lgs. n. 159 del 2011 può essere integrato solo dagli obblighi e dalle prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico. Questi caratteri difettano alle prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”, che si risolvono in un «mero ammonimento di carattere morale».

La Corte ha osservato che l’obbligo di rispettare le leggi, «nella misura in cui opera un riferimento indistinto a tutte le leggi dello Stato», non indica un comportamento specifico da tenere, presentando un deficit di determinatezza e di precisione che lo rende privo di contenuto precettivo e, comunque, tale da impedire al destinatario di conoscere quali specifiche condotte siano sanzionate penalmente.

Le Sezioni unite, inoltre, hanno ritenuto non praticabile la soluzione interpretativa che ipotizzava una restrizione della portata precettiva della prescrizione di rispettare le leggi alle sole violazioni delle norme penali e agli illeciti amministrativi di maggiore gravità, in considerazione dell’ampio margine di discrezionalità rimesso al giudice, cui verrebbe riconosciuto il potere di “comporre” il contenuto della norma incriminatrice, e della conseguente incertezza e imprevedibilità della condotta sanzionata.

È stato affermato, pertanto, il seguente principio di diritto: «L’inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non configura il reato previsto dall’art. 75, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, il cui contenuto precettivo è integrato esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche; la predetta inosservanza può, tuttavia, rilevare ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione».

Per effetto di tale interpretazione il contenuto precettivo del reato di cui all’art. 75, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011 è stato limitato alle sole prescrizioni c.d. specifiche, mentre la violazione del dovere di rispettare le leggi e di vivere onestamente può rilevare ai fini dell’eventuale aggravamento della sorveglianza speciale ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. n. 159 del 2011.

2. L’interpretazione “in chiave tassativizzante” delle fattispecie normative che descrivono la pericolosità cd. generica.

Le Sezioni unite, dunque, hanno ridimensionato il valore delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare la legge”, riconducendole a meri indici dell’eventuale maggiore pericolosità del proposto rispetto a quella accertata nel giudizio di prevenzione.

Tale arresto ha rappresentato un passo fondamentale per l’accoglimento di un modello di interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme delle disposizioni sulle misure di prevenzione, in verità già invalso nella giurisprudenza della Corte di cassazione.

Le misure di prevenzione, infatti, pur se sprovviste di natura sanzionatoria in senso stretto, rientrano in un’accezione lata di provvedimenti con portata afflittiva; il che impone di ritenere applicabile il generale principio di tassatività e determinatezza della descrizione normativa dei comportamenti presi in considerazione come fonte giustificatrice di dette limitazioni (Sez. 1, n. 39599 del 14/06/2018, Dell’Aira, n.m.; Sez. 1, n. 51469 del 14/06/2017, Bosco; Sez. 1, n. 54119 del 14/06/2017, Sottile).

3. I soggetti destinatari: La dedizione ai traffici delittuosi.

L’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, attualmente trasfuso nell’art. 1, del d.lgs. n. 159 del 2011, invero, contempla tre categorie di “pericolosità generica”:

a) coloro che, sulla base di elementi di fatto, debbano ritenersi abitualmente dediti a traffici delittuosi;

b) coloro che per condotta e tenore di vita debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;

c) coloro che, per il loro comportamento, debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica (con riferimento a tale ultima categoria, peraltro, l’art. 15 del d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, convertito in l. 18/04/2017, n. 48, ha introdotto una prima specificazione normativa degli “elementi di fatto” da considerare nel giudizio di prevenzione, facendo riferimento alle reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio nonché dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla vigente normativa).

L’analisi della più recente giurisprudenza di legittimità in tema di misure di prevenzione, al riguardo, permette di desumere il consolidarsi di alcuni indici di “tipizzazione” delle fattispecie di pericolosità semplice oggi disciplinate dall’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011 in forza dei quali il sistema può ritenersi conforme alle regole convenzionali e costituzionali.

A tal proposito, anche nel corso del 2018 è stato ribadito l’indirizzo secondo cui le categorie previste dall’art. 1, n. 1 e n. 2, della l. 1423 del 1956 si caratterizzano per il fatto di essere identificate con riferimento ad attività criminose che costituiscono delitti (come si desume dall’impiego dell’aggettivo “delittuosi” per descrivere le “attività” ed i “traffici”), con esclusione, dunque, delle contravvenzioni (Sez. 6, n. 42934 del 28/06/2018, La Moglie, n.m.; in precedenza cfr. Sez. 2, n. 16348 del 23/03/2012, Crea, Rv. 252240).

Nella nozione di “traffici delittuosi”, inoltre, rientrano non solo tutte quelle condotte delittuose caratterizzate da una tipica attività “trafficante” (quali ad esempio, quelle prevista dagli artt. 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602 cod. pen., dagli artt. 3 e ss., l. n. 75 del 1958 o dagli artt. 73 e 74 del d.P.R. n. 309 del 1990), ma anche tutte quelle connotate dalla finalità patrimoniale o di profitto e che si caratterizzano per la spoliazione (quali ad esempio quelle previste dagli artt. 314, 317, 624, 643, 646, 628, 629 cod. pen.), l’approfittamento e, in genere, per l’alterazione di un meccanismo negoziale o dei rapporti economici, sociali e civili (quali ad esempio, quelle previste dagli artt. 316-bis, 318, 640, 644 cod. pen.) (Sez. 2, n. 11846 del 19/01/2018, Carnovale ed altri, Rv. 272495; Sez. 6, n. 40913 del 16/05/2018, Ascione e altri, n.m.; Sez. 1, n. 37044 del 23/03/2018, Lo Bianco e altri; Sez. 1, n. 51469 del 14/06/2017, Bosco, n.m.).

Secondo Sez. 2, n. 9914 del 21/02/2018, PG nel proc. Perona, per “traffici delittuosi” deve intendersi un’attività delittuosa che comporti illeciti arricchimenti anche senza il ricorso a mezzi negoziali fraudolenti. Il legislatore, infatti, «ha inteso prendere in esame la condizione di un soggetto che – seppure con valutazione incidentale operata dal giudice della prevenzione – è ritenuto autore di ‘delitti’ consistenti in attività di intermediazione in vendita di beni vietati (traffici delittuosi) o genericamente produttivi di reddito (provento di attività delittuose)» (Sez. 1, n. 13375 del 22/03/2018, Brussolo ed altri). In altre parole, «il “delittuoso” non è connotazione di disvalore generico della condotta pregressa, ma attributo che la qualifica, dunque il giudice della misura di prevenzione deve, preliminarmente, attribuire al soggetto proposto una pluralità di condotte passate (dato il riferimento alla abitualità) …» (così, ancora Sez. 1, n. 13375 del 22/03/2018, Brussolo ed altri, cit.).

Su questo punto, tuttavia, va segnalata l’interpretazione più restrittiva offerta da Sez. 6, n. 53003 del 21/09/2017, D’Alessandro, Rv. 272266, che, in conformità alle esigenze di tipicità evidenziate dalla Corte edu con la sentenza De Tommaso c. Italia, ha circoscritto l’ambito di operatività dei “traffici delittuosi” alle sole ipotesi di commercio illecito di beni materiali (come, ad esempio, stupefacenti, armi, materiale pedopornografico), immateriali (ad esempio, influenze illecite, notizie riservate, dati protetti dalla disciplina in tema di privacy), o di esseri viventi, nonché alle condotte lato sensu negoziali ed intrinsecamente illecite (usura, corruzione). Si rileva, infatti, che, nel senso comune della lingua italiana, il termine trafficare significa commerciare nonché «darsi da fare, affaccendarsi, occuparsi in una serie di operazioni, di lavori, in modo affannoso, disordinato, talvolta inutile», non potendosene estendere il significato fino a comprendere qualsiasi azione delinquenziale svolta con finalità di arricchimento.

È stato precisato che l’inquadramento nella categoria in esame, presuppone, quanto alla parte constatativa del giudizio, la realizzazione di attività delittuose non episodica ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto; la realizzazione di attività delittuose che siano produttive di reddito illecito; la destinazione, almeno parziale, di tali proventi al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento della persona e del suo eventuale nucleo familiare (Sez. 2, n. 9914 del 21/02/2018, PG nel proc. Perona, cit.).

4. (segue). Coloro che vivono abitualmente con i proventi di attività delittuose.

L’inquadramento del proposto nella categoria di coloro che vivono abitualmente con i proventi di attività delittuose (oggi prevista dall’art. 1, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011), da operarsi sulla base di idonei elementi di fatto (ivi compreso il riferimento alla condotta e al tenore di vita), secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 1, n. 31209 del 24/03/2015, Scagliarini, Rv. 264321), presuppone le seguenti verifiche:

a) la realizzazione di un’attività delittuosa non episodica, ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto, che sia produttiva di reddito illecito (cfr. di recente, Sez. 1, n. 13375 del 20/09/2017 – dep. 2018 –, Brussolo, Rv. 272702, secondo cui l’applicazione della misura presuppone l’accertamento del compimento di attività delittuose capaci di produrre reddito e non già di condotte genericamente devianti o denotanti un semplice avvicinamento a contesti delinquenziali).

b) la destinazione, almeno parziale, di tali proventi al soddisfacimento dei-bisogni di sostentamento della persona e del suo eventuale nucleo familiare.

La definizione della categoria dei soggetti che “per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, … che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”, secondo la Corte di cassazione, «acquista concretezza e specificità in quanto caratterizzata dalla realizzazione di attività delittuose, con carattere non episodico ma, al contrario, riferibile ad un significativo intervallo temporale della vita del soggetto proposto; tali attività, inoltre, devono risultare idonee a produrre reddito illecito, la cui destinazione, anche solo parziale, sia quella del soddisfacimento dei-bisogni di sostentamento della persona e del suo eventuale nucleo familiare» (Sez. 2, n. 28434 del 21/02/2018, De Glaudi e altri, n.m.).

All’esito di un’analisi casistica circoscritta alle sentenze depositate nel 2018, è emerso che il presupposto della pericolosità sociale generica, che concerne i soggetti che vivono abitualmente ed anche in parte con i proventi di attività delittuose, è stato ravvisato nei confronti colui che sia attualmente sotto processo per il delitto di furto aggravato (Sez. 6, n. 42936 del 28/06/2018, Staiti, n.m.) oppure sia gravato da numerose condanne passate in giudicato per fatti aggressivi del patrimonio altrui e per altre fattispecie, quali lo spaccio di stupefacenti, parimenti produttive di redditi illeciti, anche da minorenne (Sez. 6, n. 33687 del 27/06/2018, Adzovic, n.m.), mentre non può essere ravvisato nel caso di soggetto meramente “indiziabile” per uno dei vari delitti da cui i proventi possono derivare (Sez. 5, n. 13438 del 27/02/2018, Castaldo, n.m.) oppure dedito in maniera non occasionale alla commissione di fatti criminosi lesivi di beni giuridici meramente individuali (Sez. 5, n. 15492 del 19/01/2018, Bonura, Rv. 272682).

5. (segue). Coloro che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.

L’art. 1, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 159 del 2011, inoltre, ravvisa la pericolosità sociale generica anche nei confronti di “coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, …, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”. Secondo Sez. 1, n. 46124 del 02/05/2018, Marsano, la formulazione testuale della norma suggerisce all’interprete estrema cautela, richiedendo il necessario collegamento con “comportamenti” e “elementi di fatto”, onde evitare pericolosi slittamenti verso il cd. “tipo d’autore”. In particolare, «Tale riferimento, se per un verso impone il necessario ancoraggio a circostanze oggettive, onde evitare pericolosi soggettivismi nella interpretazione di fatti e accadimenti, per altro verso consente di ritenere certamente integrato il relativo requisito in presenza di fatti di reato debitamente accertati all’esito di un procedimento penale. Questo, tuttavia, non è ancora sufficiente, atteso che la norma in esame richiede un requisito ulteriore, costituito dall’essere il soggetto “dedito” alla commissione non di un qualunque reato, quanto piuttosto di reati “che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”. Ne consegue che, secondo il significato proprio delle parole che compongono il relativo enunciato normativo, il soggetto, in quanto dedito alla commissione di reati, deve essere solito, con frequenza o assiduità, violare la legge penale, non essendo sufficiente la realizzazione di sporadiche – o comunque distanziate nel tempo – condotte di inosservanza della legge penale. Violazioni che, in ogni caso, debbono essere connotate o dalla particolare qualità soggettiva delle persone offese, o dallo specifico bene giuridico vulnerato.

6. (segue). L’evasore fiscale.

L’interpretazione “in chiave tassativizzante” delle fattispecie normative che descrivono la pericolosità sociale cui è pervenuta, nel corso del tempo, la Corte di legittimità, con pronunce anche sia antecedenti, sia successive alla sentenza della Corte EDU del febbraio 2017, “De Tommaso”, in particolare, si ravvisa con riferimento alla figura dell’evasore fiscale. Anche nel 2018, la Corte ha ribadito l’orientamento secondo cui il mero status di evasore fiscale non è sufficiente ai fini del giudizio di pericolosità generica che legittima l’applicazione della confisca (Sez. 2, n. 31307 del 26/04/2018, Quacquarelli, n.m.; Sez. 2, n. 8584 del 10/01/2018, Mainardi e altri; Sez. 2, n. 11846 del 19/01/2018, Carnovale; Sez. 5, n. 12374 del 14/12/2017 – dep. 2018 –, La Porta e altri, n.m.). La condizione di “evasore fiscale”, difatti, non si sovrappone necessariamente ed automaticamente a quella di chi debba ritenersi “abitualmente dedito a traffici delittuosi” e “viva abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” e sia, quindi, sottoponibile alle misure di prevenzione (Sez. 5, n. 12374 del 14/12/2017 – dep. 2018 –, cit.). Va considerato pericoloso, invece, solo il soggetto dedito in modo continuativo a condotte elusive degli obblighi contributivi e fiscali e che reinvesta i relativi profitti in attività commerciali, vivendo così abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose (Sez. 1, n. 37024 del 28/02/2018, Zappalà, n.m.).

Il giudice della prevenzione, più specificamente, deve individuare i delitti di natura tributaria ascritti al proposto (Sez. 1, n. 37044 del 23/03/2018, cit.). È necessaria una approfondita indagine in fatto per individuare le specifiche condotte attribuibili all’evasore, posto che la rilevanza penale delle stesse è ancorata al superamento delle soglie di rilevanza quantitativa contemplate in pressoché tutte le ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 (Sez. 5, n. 13438 del 27/02/2018, cit.). Il giudizio di pericolosità sociale presupponela condotta di sistematica evasione fiscale e reinvestimento dei proventi nelle attività imprenditoriali condotte dal proposto che vi ha impiegato risorse in misura tale da comprovare il superamento altrettanto sistematico, negli anni, delle soglie di punibilità previste dai reati tributari (Sez. 2, n. 31307 del 26/04/2018, cit.). Ad esempio, può ritenersi pericoloso il soggetto condannato in via definitiva ad una significativa pena per associazione a delinquere finalizzata al compimento di una serie plurima ed indefinita di reati fiscali (Sez. 2, n. 8584 del 10/01/2018, cit.).

Questo indirizzo, invero, è stato inaugurato da Sez. 5, n. 6067 del 06/12/2016, Malara, Rv. 269026, dunque ben prima della sentenza “De Tommaso”, a riprova della tensione esistente nella giurisprudenza di legittimità verso un’interpretazione tassativizzante delle fattispecie di pericolosità sociale. Tale sentenza ha anche evidenziato che le sanzioni previste per la sottrazione agli adempimenti tributari (e contributivi) possono essere tanto di carattere amministrativo, quanto penale, distinguendosi, in tal caso, ipotesi contravvenzionali ed ipotesi delittuose. Solo queste ultime soddisfano i requisiti posti dagli artt. 1, comma 1, lett. a) e b), e 4, del d.lgs. n. 159 del 2011.

In linea di continuità con questa impostazione ermeneutica, si è posta la sentenza Sez. 6 n. 53003 del 21/09/2017, D’Alessandro, cit., secondo al quale la nozione di “evasore fiscale seriale” può essere variamente declinata in relazione alle diverse fattispecie di reato riferibili al proposto. Mentre l’accertamento della reiterazione delle condotte criminose di cui agli artt. 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti inesistenti) e 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) può, in linea astratta e per la specificità della fattispecie, far ritenere che il soggetto responsabile viva abitualmente dei relativi proventi, determinandosi «quella sorta di confusione tra patrimonio di origine lecita e incrementi derivanti da condotte illecite di evasione tributaria», diverse problematiche pone l’accertamento della pericolosità generica in relazione agli altri reati. Con riferimento al reato di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, inoltre, va rilevato che solo l’autoliquidazione delle imposte è infedele, mentre il reddito rimane di origine lecita. Ciò impone, pertanto, di focalizzare l’attenzione sul rapporto tra la frazione lecita del patrimonio e l’importo dell’imposta evasa nonché sull’eventuale incidenza dei meccanismi conciliativi con l’amministrazione fiscale. Analoghe riflessioni si impongono, anche con riferimento ai reati previsti dagli artt. 5, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11, del d.lgs. n. 74 del 2000.

Un discorso analogo a quello svolto per le condotte fraudolente può, invece, essere svolto, prosegue la Corte, con riferimento ai c.d. reati ostacolo previsti dagli artt. 8 e 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, ove commessi reiteratamente, professionalmente e, comunque, dietro remunerazione.

Questa sentenza ha anche osservato che, ai fini dell’accertamento della pericolosità, occorre considerare anche l’eventuale adesione, nel periodo di tempo considerato a fini di prevenzione, a meccanismi di conciliazione con l’amministrazione fiscale. Ad avviso della Corte, infatti, «l’eventuale recupero dell’imposta evasa sottrae per definizione all’evasore la frazione illecita di redditi con cui ha arricchito il suo patrimonio e, salva la dimostrazione di un reinvestimento della quota parte di imposta evasa comunque indebitamente trattenuta», ciò rende problematico estendere al reddito residuo, ove lecitamente prodotto, gli effetti contaminanti della condotta illecita di evasione fiscale. Diversamente, ove non risulti che nel procedimento penale o a seguito di procedura conciliativa, sia avvenuto il recupero dell’imposta evasa o del suo importo equivalente (in conseguenza di provvedimenti di sequestro preventivo e confisca o, ad esempio, di un versamento volontario), non dovrebbe esservi ostacolo a ritenere l’evasore fiscale seriale socialmente pericoloso ai sensi dell’art. 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011.

7. La pericolosità “qualificata”: La sentenza Gattuso.

Le censure formulate dalla sentenza della Corte EDU “De Tommaso” alla disciplina delle misure di prevenzione, come è stato illustrato, riguardavano espressamente le categorie di c.d. pericolosità semplice. La sentenza della Corte europea, tuttavia, stimolato la giurisprudenza di legittimità ad una lettura “tipizzante” e “tassativizzante” anche della categoria dell’indiziato di appartenenza ad un’associazione di stampo mafioso.

Nella giurisprudenza della Corte di cassazione, invero, era già emerso un indirizzo che, prendendo atto della criticità rappresentata dall’eccessivo estensione del concetto di appartenenza alle associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen., era incline ad una interpretazione restrittiva di tale nozione. La sentenza Sez. 6, n. 3941 del 08/01/2016, Gaglianò, Rv. 266541, in particolare, aveva affermato che la situazione di contiguità necessaria ad integrare l’appartenenza deve consistere in un contributo fattivo proveniente dal proposto alle attività ed allo sviluppo del sodalizio criminoso, proponendo un’interpretazione del dato normativo ripresa, dopo la sentenza De Tommaso, da Sez. 1, n. 54119 del 14/06/2017, Sottile, la quale, rifiutando «approcci interpretativi tesi a degradarne il significato in termini di mera contiguità ideologica, comunanza di cultura mafiosa e riconosciuta frequentazione con soggetti coinvolti nel sodalizio», ne aveva sottolineato la portata “tassativizzante”.

Il tema è stato specificamente affrontato dalla sentenza Sez. U, n. 111 del 30/11/2017, dep. 2018, n. 111, Gattuso, Rv. 251511-12.

La questione rimessa alle Sezioni Unite riguardava il contrasto interpretativo in merito alla necessità di una motivazione “in positivo” sull’attualità della pericolosità sociale dell’indiziato di appartenenza ad associazione mafiosa.

Le Sezioni Unite, al riguardo, hanno aderito all’opzione ermeneutica che sottolinea il carattere necessario dell’accertamento del requisito dell’attualità della pericolosità anche nel caso dell’indiziato di appartenenza ad una associazione di tipo mafioso. Ai sensi dell’art. 6, d.lgs. n. 159 del 2011, infatti, l’accertamento della pericolosità costituisce un presupposto legittimante l’applicazione delle misure di prevenzione personale per tutte le categorie previste dall’art. 4, ivi compresi gli indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose, nella cui valutazione rientra l’analisi della sua attualità.

La sentenza, pertanto, ha affermato il seguente principio: «Ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso è necessario accertare il requisito della “attualità” della pericolosità del proposto».

La Sezione rimettente, peraltro, aveva segnalato anche l’opportunità di un’adeguata riflessione, stimolata dalla sentenza della Corte EDU “De Tommaso”, sulla conformità ai principi costituzionali e convenzionali delle opzioni ermeneutiche sulla nozione di “appartenenza”.

Sul punto, il percorso logico seguito dalle Sezioni unite ha seguito due argomentazioni tra loro convergenti: la rilettura della nozione di appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso e la perimetrazione della valenza e dell’ambito applicativo della massima di esperienza relativa alla tendenziale stabilità del vincolo associativo.

La Corte ha rilevato che, secondo la soluzione ermeneutica condivisa sia in dottrina, sia in giurisprudenza, il concetto di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa comprende la condotta di “partecipazione” e quella astrattamente inquadrabile nella figura del “concorso esterno”. Pur muovendosi in continuità con tale univoca interpretazione, tuttavia, è stato ridefinito l’ambito di applicazione alla luce dei più recenti approdi interpretativi sul tema e della recente introduzione con la legge 17 ottobre 2017, n. 161 della categoria di pericolosità qualificata dell’indiziato dell’attività di fiancheggiamento del gruppo illecito, sanzionata dall’art. 418 cod. pen. (inserita all’art. 4, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011).

Ad avviso della Corte, la previsione di tale autonoma fattispecie preventiva, infatti, costituisce un indice particolarmente significativo dell’impossibilità di includere nella nozione di “appartenenza” «la condotta che, nella consapevolezza dell’illecito, si muova in una indefinita area di contiguità o vicinanza al gruppo, che non sia riconducibile ad un’azione, ancorché isolata, che si caratterizzi per essere funzionale agli scopi associativi».

L’inclusione della fattispecie concorsuale nel concetto di “appartenenza”, inoltre, ha costituito la premessa del secondo argomento logico affrontato dalle Sezioni Unite: la valenza e l’ambito di applicazione della regola di esperienza relativa alla stabilità dell’apporto.

In linea generale, infatti, le Sezioni Unite non hanno escluso l’astratta validità di tale regola, ma ne hanno circoscritto l’applicabilità ai soli casi in cui l’appartenenza all’associazione mafiosa si manifesti attraverso elementi sintomatici di una “partecipazione” del proposto. Si sottolinea, infatti, che l’occasionalità della connessione dell’attività del concorrente “esterno” rispetto alle finalità perseguite dalla consorteria mafiosa non consente di ritenere sistematicamente verificata la massima di esperienza relativa alla stabilità del contributo.

Ponendosi, dunque, in posizione di continuità con la giurisprudenza della Corte Costituzionale sia in tema di misure di prevenzione (si richiama, a tal fine la sentenza n. 291 del 2013), sia sul tema delle esigenze cautelari e del regime di presunzioni previsto dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. (avuto riguardo, in particolare, oltre alla sentenza n. 139 del 2010 in tema di presunzione di superamento del reddito minimo e della preclusione dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, alla sentenza n. 48 del 2015 che ha ritenuto irragionevole la presunzione di adeguatezza della misura custodiale in relazione al concorso esterno in associazione mafiosa), le Sezioni Unite, pertanto, hanno escluso la legittimità dell’applicazione di presunzioni semplici, la cui valenza è radicata nelle caratteristiche concrete del patto sociale, nel caso in cui l’appartenenza del proposto non riveli gli elementi indicativi di una sua “partecipazione” al sodalizio mafioso, bensì di una collaborazione occasionalmente prestata, ancorché funzionale al raggiungimento degli scopi del gruppo. In tal caso, l’accertamento dell’attualità della pericolosità del proposto dovrà essere ancorato a valutazioni specifiche sulla ripetitività del contributo, sulla permanenza di determinate condizioni di vita e di interessi in comune.

In presenza, invece, di elementi sintomatici di una “partecipazione” al gruppo associativo, secondo la sentenza in commento, il richiamo alle presunzioni semplici non può costituire l’unico dato fondante l’accertamento dell’attualità della pericolosità e deve essere sempre corroborato dalla valorizzazione di specifici elementi di fatto che le sostengano ed evidenzino la natura strutturale dell’apporto. Ciò impone, dunque, di confrontarsi, ai fini dell’attualizzazione del giudizio di pericolosità, con qualunque elemento di fatto che possa incidere sulla valutazione della condotta come forma di “partecipazione” al gruppo associativo, al di là della dimostrazione del formale recesso dalla stessa, quale il decorso di un rilevante periodo di tempo o il mutamento delle condizioni di vita tali da rendere incompatibili con la persistenza del vincolo. Ha sottolineato, infatti, il Supremo consesso che, alla luce dei rilievi mossi dalla Corte EDU con la sentenza “De Tommaso”, l’esigenza di una lettura in chiave tassativizzante e tipizzante, già affermata dalle Sezioni unite con la sentenza n. 40076 del 27/04/2017, Paternò, in relazione alla fattispecie di cui all’art. 75, d.lgs. n. 159 del 2011, deve necessariamente estendersi ai criteri applicativi delle misure, in considerazione della loro caratteristica di afflittività, al di fuori della connessione con un fatto reato, e della loro pertinenza ad una situazione di allarme sociale di cui devono essere definiti specificamente i contorni per giustificarne l’applicazione senza alcun automatismo applicativo.

È stato affermato, pertanto, il principio così massimato: «Il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione, comprende la condotta che, sebbene non riconducibile alla “partecipazione”, si sostanzia in un’azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi, con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale».

8. (segue). Le ricadute della sentenza illustrata nella giurisprudenza della Corte.

Gli arresti giurisprudenziali successivi alla sentenza Gattuso risultano pienamente in linea con i principi espressi da tale pronuncia. In particolare, Sez. 6, n. 51366 del 17/05/2018, Trovato ed altri, n.m. dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011, ha rilevato che «quanto alla assunta vaghezza del concetto di appartenenza ed alla soglia di rilevanza indiziaria, anche in questa materia si registra nella giurisprudenza di legittimità una tendenza ad interpretare alcune disposizioni ed alcuni istituti in modo conforme ai principi di tassatività e di prevedibilità». La nozione di appartenenza è stata interpretata in chiave restrittiva al fine di agganciarla a più chiari e definitivi parametri di materialità della condotta. È stato precisato che la situazione di contiguità necessaria ad integrarla deve risolversi in un contributo fattivo proveniente dal proposto alle attività ed allo sviluppo del sodalizio criminoso, rifiutando letture della norma tesi a degradare il significato di “appartenenza” in termini di mera contiguità ideologica, comunanza di cultura mafiosa e riconosciuta frequentazione con soggetti coinvolti nel sodalizio. ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione.

È stato affermato, pertanto, che, ai fini della “appartenenza” ad una associazione di tipo mafioso, a norma dell’art. 4 d.lgs. n. 159 del 2011, non rilevano situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale, sottolineando che il giudice della prevenzione, per concludere per la pericolosità del soggetto, deve valorizzare il compimento di condotte, sia pur isolate, ma funzionali agli scopi associativi (Sez. 6, n. 42938 del 28/06/2018, Rao, n.m.).

È stato anche osservato che il metodo di accertamento della pericolosità sociale di un soggetto indiziato di “appartenenza” al sodalizio deve rifuggire dall’applicazione di improprie regole presuntive, gemmate dal principio del “semel mafioso semper mafioso”, destinato a valere per il diverso giudizio di partecipazione al sodalizio criminoso ex art. 416-bis cod. pen. (Sez. 6, n. 50340 del 13/09/2018, Oppedisano ed altri, n.m.). Il giudice della prevenzione, infatti, è chiamato a formulare, quanto all’attualizzazione di un pericolo, un giudizio prognostico, orientato nello scrutinio dell’estremo della pericolosità ad una critica serrata degli elementi negativi del fatto diretti a contrastare o negare la presunzione semplice di appartenenza che derivi dal contatto del proposto volto a favorire gli scopi dell’associazione. Il confronto critico è poi destinato ad intensificarsi ove più si incrementi lo iato temporale tra il fatto posto a fondamento della misura ed il momento applicativo per valorizzazione di elementi che il decorso del tempo renda espressivi di un progressivo allentamento del vincolo di appartenenza. Nella specie, la Corte ha ravvisato l’appartenenza al gruppo criminale di un soggetto condannato nel 2014 per la partecipazione all’associazione accertata fino al 2011, era stato sottoposto alla misura di prevenzione nel 2015, che aveva proposto deduzioni generiche, inidonee a provare il venir meno della pericolosità.

Nel caso in cui sussistano elementi sintomatici di una “partecipazione” del proposto al sodalizio mafioso, in particolare, è possibile applicare la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo, purché la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e che la stessa non sia posta quale unico fondamento dell’accertamento di attualità della pericolosità (Sez. 1, n. 50896 del 27/06/2018,

Alvaro ed altri, n.m., in una fattispecie in cui è stato affermato che la condanna subita dal proposto per il delitto di procurata inosservanza di pena per avere favorito il capo di una cosca criminale, l’ospitalità fornita al latitante nella sua masseria dove avvenivano riunioni degli appartenenti all’associazione mafiosa «dimostrano l’appartenenza all’associazione mafiosa, nozione comprensiva di ogni comportamento che, pur non integrando gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa, sia funzionale agli interessi dei poteri criminali e costituisca una sorta di terreno favorevole permeato di cultura mafiosa»).

La massima di esperienza desumibile dalla tendenziale stabilità del vincolo può applicarsi solo attraverso la previa analisi specifica dei suoi presupposti di validità nel caso oggetto della proposta, non potendo da sola genericamente sostenere l’accertamento di attualità (Sez. 5, n. 15724 del 9/02/2018, Diana, n.m.). Invero, «sussistendo … elementi sintomatici della “partecipazione” del proposto al sodalizio è possibile applicare la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo, anche tenendo in considerazione il fatto che la proposta di applicazione della misura di prevenzione è intervenuta in un arco di tempo prossimo all’accertamento della condotta» (Sez. 6, n. 41600 del 27/06/2018, Ietto, n.m.). Il giudice della prevenzione, tuttavia, deve verificare la validità della presunzione alla luce di specifici elementi di fatto (cfr. Sez. 6, n. 40267 del 27/06/2018, Chirumbolo, n.m.).

È onere del giudice verificare e fornire un’adeguata motivazione delle ragioni, per cui si ritiene attuale il requisito della pericolosità sociale dell’interessato soprattutto quando il proposto sia stato sottoposto ad un apprezzabile periodo di detenzione e, in special modo se gli elementi posti a fondamento del giudizio di prevenzione siano anteriori al sorgere dello stato detentivo e vi siano ulteriori elementi, successivi alla detenzione, che depongano in senso favorevole al proposto (Sez. 6 n. 10248 dell’11/10/2017 – dep. 2018 –, Ursache, n.m.).

La presunzione di pericolosità del soggetto condannato per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., in difetto della verifica dell’attualità di questa pericolosità, renderebbe la misura di prevenzione incompatibile con la sua ratio di pertinenza ad una situazione di allarme sociale incombente e varrebbe ad eludere quei richiami sulla necessità di una lettura tassativizzante e tipizzante della fattispecie, prospettati dalla giurisprudenza sovranazionale e costituzionale (Sez. 6, n. 34972 del 14/06/2018, Gargiulo, n.m.).

Seguendo le indicazioni delle Sezioni unite, sono stati ritenuti specifici indicatori dell’appartenenza al sodalizio mafioso la natura storica del gruppo illecito a cui tale appartenenza si riconduce; la tipologia della partecipazione, con particolare riferimento all’apporto del proposto ed al suo accertamento in special modo con sentenza definitiva; la particolare valenza del contributo individuale nella vita del gruppo, per effetto, ad esempio, del ruolo verticistico rivestito dall’interessato. Questi elementi che costituiscono la base applicativa della regola di esperienza da cui è tratta la presunzione di stabilità, desunta dalla natura e tipologia del vincolo associativo (cfr. ex plurimis, Sez. 5, n. 20826 del 23/03/2018, Pesce; Sez. 2, n. 18250 del 13/03/2018, Marazita, n.m.; Sez. 2, n. 18251 del 13/03/2018, Tramparulo, n.m.; Sez. 2, n. 24585 del 09/02/2018, PG in proc. Papalia, n.m.).

9. La violazione del divieto di partecipare a pubbliche riunioni.

La Corte EDU, nella sentenza De Tommaso, ha censurato anche la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni che, ad avviso dei giudici di Strasburgo, si presenta generica e priva della delimitazione del suo ambito spaziale e temporale di applicazione, sostanzialmente rimesso alla discrezionalità del giudicante. La violazione di questa prescrizione prevista dall’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011 integra il reato di cui all’art. 75 del medesimo d.lgs.

Il tema è stato affrontato da alcune decisioni della Suprema Corte del 2018.

Un indirizzo giurisprudenziale ha ritenuto che la genericità delle prescrizioni imposte con la misura di prevenzione, ravvisata dalla sentenza Paternò quanto al “vivere onestamente” e al “rispettare le leggi”, non ricorre nel caso del divieto di partecipare a pubbliche riunioni. Secondo questa sentenza, quello che rileva è la «conoscibilità da parte del destinatario delle specifiche condotte la cui inosservanza può determinare la responsabilità penale (...)», condizione soggettiva certamente riscontrabile perché la prescrizione è riportata nella carta precettiva e perché si risolve nell’imposizione di un comportamenti specifici, a cui poter attribuire valore precettivo. Del resto, «laddove si escludesse la possibilità di emettere prescrizioni accessorie necessarie alla tutela delle esigenze di difesa sociale connesse alle misure di sorveglianza speciale e correlate al giudizio di pericolosità sociale del sorvegliato, si snaturerebbero le finalità preventive perseguite da tali misure, peraltro ribadite dalle stesse Sezioni unite». (Sez. 1, n. 28261 del 8/05/2018, Lo Giudice, Rv. 273295).

Questo orientamento, pur riconoscendo che la nozione di “pubblica riunione” sia suscettibile di interpretazioni variabili, ritiene superabile il deficit di certezza affidandosi alla ratio della fattispecie in esame, per cui, ai fini della configurazione del reato in esame, rileverebbe qualsiasi situazione in cui può intervenire un numero elevato e indeterminato di persone, tale da rendere più difficile il controllo dei presenti e più agevole la commissione di reati (cfr., in termini, Sez. 1, n. 15870 del 11.3.2015, dep. 2015, Carpano, Rv. 263320). È stato precisato, pertanto, che il divieto imposto al sorvegliato speciale di partecipare a riunioni pubbliche trae il suo fondamento dall’esigenza di impedire o contenere possibili occasioni di incontro del prevenuto con altri soggetti e che prescinde dalle ragioni delle riunioni, in relazione alle quali non è consentito un controllo adeguato dei suoi comportamenti da parte degli organi di pubblica sicurezza (Sez. 1, n. 28261 del 8/05/2018, cit.).

Questa impostazione, in particolare, ritiene che la nozione di riunione pubblica sia sufficientemente determinata. Essa, infatti, non deve essere intesa in un’accezione formalistica, non rilevando le modalità di celebrazione dell’incontro, dovendosi ricomprendersi in tale ambito qualsiasi occasione di ritrovo, anche informale, caratterizzata dalla presenza in un luogo pubblico o aperto al pubblico di una pluralità di persone non preventivamente determinabile (Sez. 1, n. 28261 del 8/05/2018, cit.). La prescrizione, pertanto, è stata ritenuta violata nel caso della partecipazione ad una seduta del consiglio comunale indetta per celebrare il compimento dei 100 anni di un personaggio pubblico noto nell’ambiente cittadino, reputando irrilevante la circostanza che l’assemblea fosse stata sciolta per mancanza del numero legale dei suoi componenti, in quanto, per riunione pubblica, deve intendersi qualsiasi incontro, pubblico o aperto al pubblico, al quale abbia facoltà di accesso un numero indeterminato di individui (Sez. 1, n. 28261 del 8/05/2018, cit.).

Un diverso orientamento, invece, ha affermato che, anche con riferimento al “divieto di partecipare a pubbliche riunioni”, la normativa interna necessiti di una lettura “tassativizzante” e “tipizzante” della fattispecie, all’esito della quale emerge che, nell’ordinamento, non è rintracciabile una definizione univoca di “pubblica riunione” (Sez. 1, n. 31322 del 9/04/2018, Pellegrini, Rv. 273499). Ad esempio, la nozione di cui all’art. 266, comma terzo, n. 3, cod. pen. (“agli effetti della legge penale, il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso...in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata”) è diversa da quella di cui all’art. 18, comma secondo, del R.d. 18 giugno 1931, n. 773 (è “considerata pubblica anche una riunione, che, sebbene indetta in forma privata, tuttavia per il luogo in cui sarà tenuta, o per il numero delle persone che dovranno intervenirvi, o per lo scopo o l’oggetto di essa, ha carattere di riunione non privata”). Si tratta di definizioni non soltanto non perfettamente sovrapponibili tra loro, ma di ampiezza tale da esporre la relativa figura criminosa a censure di legittimità costituzionale per la violazione del canone della determinatezza e tassatività della fattispecie, che rende ingiustificata la grave menomazione del diritto costituzionalmente garantito di riunirsi pacificamente e senza armi (art. 17 Cost.). Queste perplessità sono acuite dal fatto che gli indici elencati per qualificare “non privata” una riunione, rilevando anche alternativamente tra loro, elevano oltre misura il tasso della discrezionalità rimessa al giudice.

Secondo questa impostazione, il difetto di precisione della prescrizione non può essere superato affidandosi alla ratio della fattispecie in esame, per cui, ai fini della configurazione del reato in esame, rileverebbe qualsiasi situazione in cui può intervenire un numero elevato e indeterminato di persone. Questa soluzione non è condivisibile perché è espressione di una inversione logico-giuridica per effetto della quale la ratio giustificatrice della fattispecie assurge ad elemento integrativo di quest’ultima. Si ritiene, pertanto, che il precetto si atteggia in termini incerti ed imprecisi demandando di fatto alla discrezionalità del giudice il compito di colmare il vuoto di determinatezza della norma.

Qualsiasi interpretazione voglia seguirsi per restringere la portata della norma per mezzo di una definizione della nozione di “pubblica riunione”, infatti, si tratta pur sempre di soluzioni inidonee a ridimensionare la vasta discrezionalità attribuita al giudice nel “comporre” il contenuto della norma incriminatrice, dal momento che potrebbero farvisi rientrare condotte partecipative ad eventi o situazioni, profondamente diversi tra loro e non sempre in linea con la ratio giustificatrice del divieto di assistervi. L’indeterminatezza dell’oggetto del divieto è tale che impedisce la stessa conoscibilità del precetto in primo luogo da parte del destinatario e poi da parte del giudice che, si è visto, essere anzi chiamato a dare, egli, un contenuto preciso alla prescrizione. Il difetto di precettività impedisce alla norma in questione di influire sul comportamento del destinatario, in quanto non sono individuate quelle condotte socialmente dannose, che devono essere evitate, e non sono prescritte quelle socialmente utili, che devono essere perseguite. In questa situazione di incertezza il sorvegliato speciale non è in condizione di conoscere e prevedere le conseguenze della violazione di una prescrizione che si presenta in termini così generali. D’altra parte, in presenza di un precetto indefinito l’ordinamento penale non può neppure pretenderne l’osservanza”.

Un’esegesi costituzionalmente orientata della fattispecie in esame, dunque, secondo la sentenza illustrata, non può che portare all’affermazione del principio secondo cui l’inosservanza del divieto di partecipare a pubbliche riunioni da parte del soggetto sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non integra il reato previsto dall’art. 75, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011.

Un’altra decisione, invece, proseguendo in una interpretazione tassativizzante della fattispecie, ha cercato di delimitare l’ambito del divieto in esame, affermando che non possa ricomprendere la limitazione della libertà di partecipare a comizi elettorali (Sez. 1, n. 49731 del 6/06/2018, Sassano, n.m.). Il divieto di partecipare a pubbliche riunioni, infatti, non deve assumere un contenuto ampio ed elastico che si risolve nella compressione generalizzata di una libertà fondamentale, senza correlarsi all’aspetto della ritenuta pericolosità sociale e senza, soprattutto, dire per quale ragione essa imposizione si renda, nel singolo caso concreto, necessaria in funzione dell’attuazione del controllo di pericolosità.

All’udienza del 19/12/2018, la Sez. 1, ha rimesso alle Sezioni unite la questione se possa ritenersi penalmente rilevante e, in particolare, sanzionata dall’art. 75 del d.lgs. n. 159 del 2011, la partecipazione del sorvegliato speciale ad una manifestazione sportiva.

10. Interpretazione tassitivizzante e questione di legittimità costituzionale.

È stato illustrato, dunque, come, secondo un orientamento giurisprudenziale, il risultato di adeguare la disciplina in tema di misure di prevenzione ed anche la fattispecie penale prevista dal codice antimafia per la violazione della sorveglianza speciale al principio di legalità possa essere conseguito sulla base della lettura “tipizzante” delle categorie di pericolosità generica. Questa linea interpretativa, in buona sostanza, ritiene che il caso esaminato dai Giudici di Strasburgo sia stato superato dal diritto vivente in tema di pericolosità sociale, sia generica, sia qualificata, perché l’inquadramento del proposto nelle fattispecie preventive si fonda su circostanze obiettivamente identificabili e controllabili con esclusione di elementi privi di riscontri concreti, quali meri sospetti, illazioni e congetture. In particolare, è stata sottolineata l’evoluzione giurisprudenziale volta a fondare il giudizio di pericolosità «sull’oggettiva valutazione di fatti sintomatici della condotta abituale e del tenore di vita del soggetto – accertati in modo da escludere valutazioni meramente soggettive ed incontrollabili da parte dell’autorità giudiziaria» (Sez. 6, n. 43446 del 15/06/2017, Cristodaro, Rv. 271220). Dai più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità, pertanto, è possibile desumere le linee-guida per un’interpretazione delle categorie di pericolosità semplice coerente con le indicazioni della sentenza “De Tommaso”. Ciò sia con riferimento agli “elementi di fatto”, sia al contenuto delle fattispecie di pericolosità sociale (Sez. 1, n. 51469 del 14/06/2017, Bosco).

In definitiva, «l’evoluzione giurisprudenziale interna ha assicurato precisione e concretezza ai presupposti soggettivi indispensabili per l’applicazione delle misure di prevenzione, in uno con l’accertamento del dato della pericolosità sociale» (Sez. 2, n. 28434 del 21/02/2018, cit.).

È stata ritenuta manifestamente infondata, pertanto, da Sez. 6, n. 2385 del 11/10/2017, dep. 2018, Pomilio, Rv. 272231, la questione di legittimità costituzionale delle fattispecie di pericolosità generica previste dalle lett. a) e b) dell’art. 1, d.lgs. n. 159 del 2011, per contrasto con l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 2, Prot. 4 CEDU come interpretato dalla sentenza De Tommaso c. Italia. Ad avviso della Corte, infatti, l’attuale interpretazione della disciplina vigente consente di ricostruire il contenuto delle categorie in esame con riferimento alla realizzazione abituale o, comunque, non episodica, di delitti fonte di illeciti arricchimenti, oggetto di pregressi accertamenti in sede penale nonché, per la sola ipotesi di cui alla lett. b), alla successiva destinazione dei proventi derivanti da tali attività per le esigenze di vita del proposto.

Negli stessi termini, Sez. 1, n. 349 del 15/06/2017 – dep. 2018 –, Bosco, Rv. 271996, ha reputato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. a) e b), del d.lgs, n. 159 del 2011, in quanto, alla stregua dell’interpretazione della disciplina relativa alle misure di prevenzione emergente dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’iscrizione del proposto in una categoria criminologica tipizzata può aver luogo sulla base, non già di meri sospetti, bensì esclusivamente di un giudizio di fatto che ricostruisca le condotte materiali del medesimo, onde successivamente valutarle ai fini della verifica della sua pericolosità sociale, con la conseguenza che la legge interna non incorre in alcun difetto di chiarezza, determinatezza, precisione e prevedibilità degli esiti applicativi, integrante un vizio di qualità avente rilievo convenzionale.

Più di recente, infine, Sez. 1, n. 43826 del 19/04/2018, Righi ed altri, ha affermato che la descrizione della categoria criminologica contenuta codice antimafia «… consente di superare il giudizio negativo espresso dalla Corte Edu nel caso De Tommaso in punto di “qualità della legge” …» perché le disposizioni «contengono gli spunti tassativizzanti che consentono di ritenerle disposizioni idonee ad orientare le condotte dei consociati in modo congruo».

Sottesa queste valutazioni vi è la considerazione secondo cui «la valutazione espressa dalla Corte EDU sulla “cattiva qualità” della legge n. 1423 in relazione alla chiarezza e precisione delle astratte categorie criminologiche che fungono da presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione non può atteggiarsi a giudizio demolitorio dell’intera piattaforma normativa interna, anche considerato che la stessa Corte EDU ha in più occasioni evidenziato la legittimità convenzionale del ricorso a strumenti tesi alla prevenzione delle condotte aggressive verso beni giuridici primari» (Sez. 1, n. 30139 del 27/2/2018, Trompino ed altri, n.m.). Laddove sia individuabile una potenziale tensione tra una o più norme di legge ordinaria e i principi della Convenzione Europea (per come gli stessi vivono nella interpretazione loro data dalla Corte di Strasburgo, primo – anche se non unico – interprete di quel testo), del resto, «il giudice interno, prima di investire la Corte Costituzionale … ha il preciso dovere … di ricorrere allo strumento della interpretazione -costituzionalmente e convenzionalmente – conforme delle disposizioni in rilievo, nel senso che la questione va sollevata solo nel caso in cui il testo della disposizione (o delle disposizioni) non sia interpretabile in modo tale da evitare ogni potenziale conflitto di significato precettivo» (Sez. 1, n. 13375 del 22/03/2018, Brussolo ed altri, cit.).

Va segnalato, tuttavia, che un diverso indirizzo ha ritenuto che l’obiettivo di allineare la disciplina delle misure di prevenzione al principio di legalità non può essere conseguito in via interpretativa. La Seconda sezione della Corte, in particolare, ha optato per la rimessione della questione alla Consulta, deducendo il contrasto tra l’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011 e gli artt. 25, comma 2 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione al parametro interposto dell’art. 7 Cedu e dell’art. 2, prot. 4, CEDU (Sez. 2, n. 49194 del 11/10/2017, Sorresso, n.m.; la questione era già stata stata sollevata anche dal Tribunale di Udine, dal Tribunale di Padova e dalla Corte di appello di Napoli, con l’ordinanza del 14/03/2017, nel proc. n. 53 del 2015. La Corte costituzionale ha fissato il giudizio all’udienza pubblica del 20/10/2018).

11. Procedimento ed elementi valutativi del giudizio di prevenzione.

Appare opportuno, infine, rilevare che, anche nel corso del 2018, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito l’ineliminabile componente “ricostruttiva” del giudizio di prevenzione, tesa a rappresentare l’apprezzamento di fatti idonei a garantire l’iscrizione del soggetto proposto in una delle categorie tipizzate di cui sopra.

Più precisamente, è stato confermato che il giudizio in esame consta di una prima fase “constatativa” (ossia di apprezzamento di fatti idonei ad iscrivere il soggetto in una delle categorie criminologiche tipizzate), cui può seguire la fase “prognostica” in senso stretto (ossia la valutazione delle probabili, future condotte, in chiave di offesa ai beni tutelati), logicamente influenzata dai risultati della prima (Sez. 1, n. 13375 del 22/03/2018, Brussolo ed altri, cit.). «Il soggetto coinvolto in un procedimento di prevenzione, in altre parole, non viene ritenuto “colpevole” o “non colpevole” in ordine alla realizzazione di un fatto specifico, ma viene ritenuto «pericoloso» o “non pericoloso” in rapporto al suo precedente agire (per come ricostruito attraverso le diverse fonti di conoscenza) elevato ad «indice rivelatore» della possibilità di compiere future condotte perturbatrici dell’ordine sociale costituzionale o dell’ordine economico e ciò in rapporto all’esistenza delle citate disposizioni di legge che «qualificano» le diverse categorie di pericolosità» (così ancora, Sez. 1, n. 13375 del 22/03/2018, Brussolo ed altri, cit.). L’applicazione ai c.d. “pericolosi generici” di una misura di prevenzione non deve fondarsi su meri sospetti, ma sull’oggettiva valutazione di fatti certi, sintomatici dell’effettiva tendenza a delinquere del proposto (Sez. 2, n. 9517 del 07/02/2018, Pardo, Rv. 272521). Il giudizio di prevenzione, difatti, si configura come un giudizio ricostruttivo di condotte materiali, tali da consentire, dopo il preliminare ma non decisivo inquadramento criminologico del proposto in una delle tipologie legislative di potenziali destinatari, la formulazione di una prognosi di pericolosità, secondo un paradigma costituzionalmente compatibile, il quale riconduce la discrezionalità del giudice agli ordinari compiti di interpretazione degli elementi di prova e di manifestazione di un giudizio prognostico, da quelle risultanze probatorie oggettivamente influenzato (Sez. 1, n. 30139 del 27/2/2018, Trompino ed altri, cit.).

Il procedimento valutativo tipico del giudizio di prevenzione, funzionale ad un giudizio prognostico avente ad oggetto la probabilità della futura commissione di reati, dunque, verte sulla pericolosità sociale del soggetto, che per dar luogo alla sottoposizione alla misura deve essere concreta, attuale e specifica e desumibile da specifici comportamenti. Tale giudizio deve essere fondato su elementi certi, sottoposti a puntuale disamina critica per affermarne la refluenza sul giudizio di pericolosità sulla base di un ragionamento da condurre in piena autonomia rispetto all’accertamento della responsabilità penale compiuto nel giudizio di cognizione (Sez 1, n. 7421 del 1/2/2018, Raffa).

In particolare, quanto alle fonti di conoscenza del giudice della prevenzione, cioè ai dati cui si debba fare riferimento per esprimere un giudizio valutativo in relazione alla personalità del soggetto e prognostico in relazione al suo agire futuro, pur ammettendosi la possibilità di importare elementi probatori da un correlato procedimento penale, la giurisprudenza di legittimità distingue secondo che sui fatti oggetto del procedimento penale sia intervenuto o meno il giudicato:

- in assenza di giudicato penale, invece, il giudice della prevenzione può ricostruire in via autonoma la rilevanza penale delle condotte emerse durante l’istruttoria, dando conto in motivazione della ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice idonea alla produzione di proventi illeciti (Sez. 6, 16/05/2018, n. 40913, cit.);

- in applicazione del principio di tassatività e, soprattutto, di unitarietà dell’ordinamento, il giudice della prevenzione ha l’obbligo di tenere conto del giudicato penale di assoluzione, anche di quello per carenza dell’elemento psicologico, non potendosi sostenere la sopravvivenza del disvalore di un delitto in assenza del dolo. Ad avviso della Corte, in caso di proscioglimento per intervenuta prescrizione è, tuttavia, possibile un’autonoma valutazione dei fatti accertati in sede penale «lì dove il fatto risulti delineato con sufficiente chiarezza nella decisione di proscioglimento o sia comunque ricavabile in via autonoma dai fatti» (Sez. 2, n. 9914 del 21/02/2018, PG nel proc. Perona, cit.; Sez. 1, n. 51469 del 14/06/2017, Bosco, cit.).

In definitiva, «l’unico limite autonomia del giudizio di prevenzione è quello della negazione in sede penale, con pronunce irrevocabili di determinati fatti: ciò in quanto la negazione penale irrevocabile di un determinato fatto impedisce di ritenerlo esistente e quindi di assumerlo come elemento iniziale del giudizio di pericolosità sociale» (Sez. 2, n. 9914 del 21/02/2018, PG nel proc. Perona, cit.).

Ai fini della dimostrazione della pericolosità, inoltre, può possono utilizzarsi indizi, anche quando essi non abbiano i requisiti di cui all’art. 192 cod. proc. pen., purché essi siano non meramente soggettivi ma rivelatori della pericolosità sociale, legittimamente desumibile anche dai precedenti penali e giudiziari, da recenti denunce per gravi reati, dal tenore di vita e dalla frequentazione assidua di pregiudicati (Sez. 2, n. 9915 del 21/2/2018, Cavalloro, n.m.).

Un altro elemento di valutazione è rappresentato dal percorso esistenziale del proposto che può essere indicato della stabile, duratura e ostinata propensione alla commissione di reati a scopo di lucro, dai quali trae, almeno in parte, la fonte di sostentamento (Sez. 1, n. 37026 del 15/3/2018, Jerinò ed altri, n.m.). È necessario cioè evidenziare una sorta di “iter esistenziale” che connoti, in modo significativo, lo stile di vita del soggetto il quale si deve caratterizzare quale individuo che abbia consapevolmente scelto il crimine come pratica comune di vita per periodi adeguati o comunque significativi (Sez. 2, n. 9915 del 21/2/2018, cit.).

Nessuna rilevanza assume la mancanza di una condanna a carico del proposto, stante la diversa natura del procedimento penale rispetto a quello di prevenzione, derivante dal fatto che il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale (Sez. II, n. 6586 del 19/9/2017 – dep. 2018 –, Bentivenga, n.m.; Sez. 5, n. 9411 del 14/2/2018, Ghiotto ed altri, n.m.).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 2, n. 16348 del 23/03/2012, Crea, Rv. 252240 Sez. U, n. 32923 del 29/05/2014, Sinigaglia, Rv. 260019 Sez. 1, n. 31209 del 24/03/2015, Scagliarini, Rv. 264321 Sez. 6, n. 3941 del 08/01/2016, Gaglianò, Rv. 266541 Sez. 5, n. 6067 del 06/12/2016, Malara, Rv. 269026 Sez. U, n. 40076 del 27/04/2017, Paternò, Rv. 270496 Sez. 1, n. 54119 del 14/06/2017, Sottile Sez. 1, n. 51469 del 14/06/2017, Bosco Sez. 1, n. 349 del 15/06/2017 – dep. 2018 –, Bosco, Rv. 271996 Sez. 6, n. 43446 del 15/06/2017, Cristodaro, Rv. 271220 Sez. 2, n. 6586 del 19/9/2017 – dep. 2018 –, Bentivenga Sez. 6, n. 53003 del 21/09/2017, D’Alessandro, Rv. 272266 Sez. 6, n. 2385 del 11/10/2017 – dep. 2018 –, Pomilio, Rv. 272231 Sez. 6, n. 10248 dell’11/10/2017 – dep. 2018 –, Ursache Sez. U, n. 111 del 30/11/2017 – dep. 2018 –, Gattuso, Rv. 251511-512 Sez. 5, n. 12374 del 14/12/2017 – dep. 2018 –, La Porta e altri Sez. 2, n. 8584 del 10/01/2018, Mainardi e altri Sez. 2, n. 11846 del 19/01/2018, Carnovale ed altri, Rv. 272495 Sez. 5, n. 15492 del 19/01/2018, Bonura, Rv. 272682 Sez. 1, n. 7421 del 1/2/2018, Raffa Sez. 2, n. 9517 del 07/02/2018, Pardo, Rv. 272521 Sez. 5, n. 15724 del 9/02/2018, Diana Sez. 2, n. 24585 del 09/02/2018, PG in proc. Papalia Sez. 5, n. 9411 del 14/2/2018, Ghiotto e altri Sez. 2, n. 9915 del 21/2/2018, Cavalloro Sez. 2, n. 28434 del 21/02/2018, De Glaudi e altri Sez. 2, n. 9914 del 21/02/2018, PG nel proc. Perona Sez. 1, n. 30139 del 27/2/2018, Trompino e altri Sez. 5, n. 13438 del 27/02/2018, Castaldo Sez. 1, n. 37024 del 28/02/2018, Zappalà Sez. 2, n. 18250 del 13/03/2018, Marazita Sez. 2, n. 18251 del 13/03/2018, Tramparulo Sez. 1, n. 37026 del 15/3/2018, Jerinò e altri Sez. 5, n. 20826 del 23/03/2018, Pesce Sez. 1, n. 37044 del 23/03/2018, Lo Bianco e altri Sez. 1, n. 13375 del 22/03/2018, Brussolo e altri Sez. 1, n. 31322 del 9/04/2018, Pellegrini, Rv. 273499 Sez. 1, n. 43826 del 19/04/2018, Righi e altri Sez. 1, n. 46124 del 02/05/2018, Marsano Sez. 1, n. 28261 del 8/05/2018, Lo Giudice, Rv. 273295 Sez. 1, n. 49731 del 6/06/2018, Sassano Sez. 6, n. 40913 del 16/05/2018, Ascione e altri Sez. 6, n. 34972 del 14/06/2018, Gargiulo Sez. 1, n. 39599 del 14/06/2018, Dell’Aira Sez. 6, n. 51366 del 17/05/2018, Trovato e altri

Sez. 6, n. 33687 del 27/06/2018, Adzovic Sez. 6, n. 40267 del 27/06/2018, Chirumbolo Sez. 6, n. 41600 del 27/06/2018, Ietto Sez. 1, n. 50896 del 27/06/2018, Alvaro e altri Sez. 6, n. 42936 del 28/06/2018, Staiti Sez. 6, n. 42938 del 28/06/2018, Rao Sez. 6, n. 42934 del 28/06/2018, La Moglie Sez. 6, n. 50340 del 13/09/2018, Oppedisano e altri

  • reato
  • diritto penale

CAPITOLO II

IL GIUDIZIO DI ATTUALITÀ DELLA PERICOLOSITÀ SOCIALE

(di Luigi Giordano )

Sommario

1 La valutazione sull’attualità della pericolosità. - 2 La sentenza “Marillo”. - 3 (segue). Il contrasto sulle conseguenze della mancata rivalutazione della pericolosità. - 4 (segue). la tesi che esclude che la mancata rivalutazione della pericolosità integri una causa di sospensione ex lege della misura. - 5 (segue). La soluzione accolta dalla Corte. - 6 (segue). La necessità dell’attualità della pericolosità sociale. - 7 La riforma del codice antimafia. - 8 Alcune considerazioni conclusive. - Indice delle sentenze citate

1. La valutazione sull’attualità della pericolosità.

Una delle dinamiche evolutive della giurisprudenza che si è formata sulla disciplina delle misure di prevenzione è rappresentata dalla valorizzazione del presupposto applicativo dell’attuale pericolosità sociale del proposto. La sentenza Sez. U, n. 111 del 30/11/2017, dep. 2018, Gattuso, in particolare, ha statuito che, anche nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali agli indiziati di “appartenere” ad un’associazione di tipo mafioso, è comunque necessario accertare il requisito della attualità della pericolosità del destinatario, non potendo farsi ricorso ad alcuna presunzione.

Nel corso del 2018, la Corte ha ribadito che è onere del giudice della prevenzione verificare “in concreto” la persistenza della pericolosità del proposto, soprattutto nei casi in cui sia decorso un apprezzabile periodo di tempo tra l’epoca dell’accertamento penale e il momento della formulazione del giudizio sulla prevenzione nonché quando tra la pregressa violazione della legge penale e tale ultimo giudizio si collochi un periodo detentivo che miri alla risocializzazione del proposto o comunque esente da ulteriori condotte sintomatiche di pericolosità (Sez. 6, n. 10248 del 11/10/2017, – dep. 2018, Ursache, Rv. 272323).

Secondo il consolidato principio giurisprudenziale, in particolare, la pericolosità sociale del sottoposto deve sussistere al momento in cui viene adottata la decisione di primo grado, essendo, a tal fine, irrilevante che gli elementi sintomatici o rivelatori della medesima risultino lontani nel tempo al momento della celebrazione dei successivi gradi di giudizio (Sez. 6, n. 33484 del 28/06/2018, Taverniti, n.m.).

La sentenza Sez. 2, n. 18254 del 13/3/2018, Racco ed altri, n.m., inoltre, in relazione al proposto appartenente ad una organizzazione criminale, ha affermato che, in presenza di un apprezzabile intervallo temporale tra condotta accertata in sede penale e giudizio di pericolosità attuale, la valutazione va operata alla luce di tre indicatori fondamentali:

a) il livello di coinvolgimento dell’attuale proposto nelle pregresse attività del gruppo criminoso di appartenenza, essendo ben diversa la potenzialità criminale espressa da un soggetto di vertice rispetto a quella di chi ha posto in essere condotte di mero ausilio o di episodica contiguità finalistica;

b) la tendenza del gruppo di riferimento a mantenere intatta la sua capacità operativa nonostante le mutevoli composizioni soggettive correlate ad azioni repressive da parte dell’autorità giudiziaria, posto che solo in detta ipotesi può ragionevolmente ipotizzarsi una nuova “attrazione” del soggetto nel circuito relazionale illecito;

c) la manifestazione, in tale intervallo temporale, da parte del proposto di comportamenti denotanti l’abbandono delle logiche criminali in precedenza condivise.

La più recente disciplina legislativa sembra fornire indicazioni significative per ricostruire un criterio generale di valutazione dell’incidenza del fluire del tempo, anche se trascorso dal proposto in regime detentivo, sul giudizio di attualità della pericolosità. In particolare, come meglio si vedrà nel prosieguo, l’art. 14, comma 2-ter, del d.lgs. n. 159 del 2011, introdotto dalla legge 17 ottobre 2017, n. 161 prevede che l’esecuzione della sorveglianza speciale resta sospesa durante il tempo in cui l’interessato è sottoposto a detenzione per espiazione di pena. Dopo la cessazione dello stato di detenzione, se esso si è protratto per almeno due anni, il tribunale verifica, anche d’ufficio, sentito il pubblico ministero che ha esercitato le relative funzioni nel corso della trattazione camerale, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato, assumendo le necessarie informazioni presso l’amministrazione penitenziaria e l’autorità di pubblica sicurezza, nonché presso gli organi di polizia giudiziaria. (...). Secondo una pronuncia della corte di cassazione, da questa previsione discende che anche il decorso di un periodo di pochissimo inferiore a due anni di detenzione in regime di espiazione di pena, e quindi di sottoposizione a trattamento specificamente tendente alla risocializzazione della persona, non è di per sè sufficiente a fondare una presunzione cd. semplice di cessazione dello stato di pericolosità sociale. Inoltre, da essa si può inferire che fatti specificamente sintomatici di pericolosità sociale commessi nel biennio antecedente l’applicazione della misura di prevenzione personale possano essere sufficienti a fondare un giudizio di attualità, fatta salva, ovviamente, la sopravvenienza di apprezzabili elementi di segno contrario. Appare inoltre ragionevole ritenere che anche fatti specificamente sintomatici di pericolosità sociale anteriori di oltre due anni rispetto al momento di applicazione della misura di prevenzione possano costituire il fondamento di un giudizio di attualità della pericolosità, alla luce di una valutazione complessiva di tutti gli elementi acquisiti, specie se a tali fatti non sia seguito un periodo di espiazione di pena pari o superiore ai due anni (Sez. 6, n. 33484 del 28/06/2018, Taverniti, cit.).

2. La sentenza “Marillo”.

Su questo tema è intervenuta la sentenza Sez. U, n. 51407 del 21/06/2018, Marillo, Rv. 273952, che segna una ulteriore tappa nel percorso di progressiva valorizzazione del presupposto dell’attualità della pericolosità sociale, ragione giustificatrice, sul piano costituzionale e convenzionale, dell’applicazione di una misura di prevenzione

La Prima sezione della Corte di cassazione, in particolare, con ordinanza n. 16332 del 20 marzo 2018, depositata il 12 aprile 2018, ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite la seguente questione: «Se sia configurabile il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, previsto dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, art. 75, nei confronti di soggetto destinatario di misura di sorveglianza speciale, la cui esecuzione sia stata sospesa per effetto di detenzione di consistente durata, anche qualora al momento della risottoposizione alla misura non si sia proceduto di ufficio ad una rivalutazione dell’attualità e persistenza della sua pericolosità sociale ad opera del giudice della prevenzione, in base ai principi affermati da Corte cost. n. 291 del 2013, e tale rivalutazione non sia stata dallo stesso sollecitata».

La questione, dunque, riguarda il rapporto tra la misura di prevenzione della sorveglianza speciale e lo stato di detenzione dell’interessato per espiazione di pena o per l’applicazione di un provvedimento cautelare.

L’art. 11, comma secondo, della legge n. 1423 del 1956 (poi trasfuso nell’art. 14, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011) stabilisce che l’esecuzione della sorveglianza speciale è interrotta, qualora l’interessato, nel corso del suo svolgimento, riporti una condanna. In tale caso, “il termine ricomincia a decorrere dal giorno nel quale è scontata la pena”.

L’art. 12, comma secondo, della legge n. 1423 del 1956 (poi riprodotto nell’art. 15 del d.lgs. n. 159 del 2011) prevede che “il tempo trascorso in custodia cautelare seguita da condanna o in espiazione di pena detentiva … non è computato nella durata dell’obbligo di soggiorno”.

Alla regolamentazione normativa, pertanto, sfuggiva l’eventualità dell’applicazione di una misura di prevenzione a soggetti già ristretti in carcere.

A ciò ha dato risposta la giurisprudenza con la sentenza Sez. U, n. 6 del 25/03/1993, Tumminelli, Rv. 194062, che ha espresso l’indirizzo, seguito in modo costante dalla successiva giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le altre, Sez. U, n. 10281 del 25/10/2007 Cc., dep. 2008, Gallo, Rv. 238658; più di recente, Sez. 1, n. 30101 del 25/03/2015, Cambareri, Rv. 264616), secondo cui le misure di prevenzione personali possono essere deliberate anche nei confronti di persone detenuta in espiazione di pena.

Questo orientamento ha riconosciuto che anche il detenuto può essere socialmente pericoloso, nulla autorizzando a considerare certo l’esito positivo del trattamento penitenziario. In tale ipotesi, però, l’esecuzione della misura resta sospesa, essendo differita al momento in cui viene a cessare lo stato di detenzione, salva la possibilità per l’interessato di chiedere la revoca del provvedimento qualora, medio tempore, la pericolosità precedentemente accertata sia venuta meno.

Dall’applicazione dell’indirizzo illustrato discende la conseguenza che il provvedimento di prevenzione possa essere posto in esecuzione a distanza di tempo rispetto alla sua deliberazione, senza alcun approfondimento in ordine alla persistente pericolosità sociale della persona ad essa sottoposta.

Questo tema è stato affrontato dalla Corte costituzionale, con la sentenza del 6/12/1993, n. 291, che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 12 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, ormai trasfuso nell’art. 15 del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato nel momento dell’esecuzione della misura.

3. (segue). Il contrasto sulle conseguenze della mancata rivalutazione della pericolosità.

Nella giurisprudenza successiva alla pronuncia della Corte Costituzionale si è registrato un contrasto in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 75 del d.lgs. n. 159 del 2011.

Secondo un orientamento, infatti, qualora successivamente all’adozione della misura di prevenzione il sottoposto sia assoggettato all’espiazione di pena detentiva per un apprezzabile periodo temporale idoneo ad incidere sullo stato di pericolosità in precedenza delibato, la misura deve considerarsi sospesa nella sua efficacia anche dopo la scarcerazione fino a quando il giudice della prevenzione non ne valuti nuovamente l’attualità alla luce di quanto desumibile in favore dell’interessato dalla esperienza di carcerazione patita. Finché tale nuova valutazione non sia stata effettuata dal giudice della prevenzione, non può considerarsi sussistente il reato di cui al all’art. 75, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011. Manca infatti il presupposto dell’illecito consistente nell’inadempimento ad obblighi e prescrizioni imposti da una misura di prevenzione efficace (Sez. 1, n. 7307 del 28/01/2014, Fusco, Rv. 259167; Sez. 1, n. 6878 del 05/12/2014 – dep. 2015 –, Villani, Rv. 262311; Sez. 1, n. 22547 del 08/01/2015, Di Rocco, Rv. 263575; Sez. 1, n. 48686 del 29/09/2015, Mancuso, Rv. 265665; Sez. 5, n. 33345 del 13/06/2016, Cartanese, Rv. 268046; Sez. 1, n. 38775 del 19/07/2016, Fantauzzi, Rv. 267800; per l’affermazione del medesimo principio prima della sentenza della Corte costituzionale n. 291 del 2013, inoltre, si veda Sez. 1, n. 33504 del 7/07/2010, Deganutti, Rv. 247958).

Secondo questa impostazione, in particolare, non assume rilievo il fatto che la causa della sospensione dell’esecuzione della misura di prevenzione sia integrata dall’espiazione di una pena detentiva definitiva ovvero dall’applicazione di una misura cautelare incompatibile con il provvedimento di prevenzione. In entrambi i casi, infatti, occorre valutare l’attualità della pericolosità sociale dell’interessato dal parte del giudice della prevenzione, funzionalmente competente nel momento dell’esecuzione della misura di prevenzione, rimanendo altrimenti sospesa l’efficacia del provvedimento (Sez. 1, n. 7307 del 28/01/2014, Fusco, cit.; Sez. 1, n. 26821 del 8/05/2014, Cirillo, n.m.; Sez. 1, n. 6878 del 05/12/2014, dep. 2015, Villani, cit.; Sez. 1, n. 22547 del 08/01/2015, Di Rocco, cit.; Sez. 1, n. 38775 del 19/07/2016, Fantauzzi, cit.).

La cognizione del giudice che debba accertare la sussistenza dei reati previsti dall’art. 75 del d.lgs. n. 159 del 2011, in particolare, è limitata alla sola verifica della durata del periodo di sospensione dell’efficacia della misura ai fini della necessità di un nuovo esame circa l’attualità dello stato di pericolosità del sottoposto (Sez. 1, n. 26821 del 8/05/2014, Cirillo, cit). Laddove ritenga che il soggetto sia stato sottoposto all’espiazione di pena detentiva o a provvedimento cautelare per un lasso temporale apprezzabile, «la misura stessa deve considerarsi sospesa nella sua efficacia fino a quando il giudice della prevenzione non ne valuti nuovamente l’attualità alla luce di quanto desumibile in favore del sottoposto dalla esperienza carcerazione patita» (Sez. 1, n. 26821 del 8/05/2014, Cirillo, cit).

4. (segue). la tesi che esclude che la mancata rivalutazione della pericolosità integri una causa di sospensione ex lege della misura.

Un diverso indirizzo, invece, pur ribadendo la doverosità della rinnovazione dell’esame della pericolosità sociale dopo detenzione di lunga durata, rimessa alla competenza funzionale del giudice della misura di prevenzione, sostiene che la mancanza di tale rivalutazione non equivalga «ad automatica inesistenza (originaria o sopravvenuta) del titolo genetico o che tenga luogo d’una sua sospensione ex lege». Secondo questa interpretazione, «il presupposto di pericolosità sociale, condizione strutturale essenziale della misura, che trae genesi dal titolo originario, continua ad esistere, perché adottato nel concorso delle condizioni legittimanti ed all’esito della verifica giurisdizionale e ciò finché il giudice funzionalmente competente non provveda ad operare una rivalutazione di segno contrario» (così, Sez. 1, n. 27970 del 09/03/2017, Greco, Rv. 270655).

Dal mancato riesame della pericolosità sociale, in particolare, non deriva di per sé la perdurante sospensione dell’esecuzione della misura stessa, con la conseguenza che, «ai fini della rivalutazione della pericolosità sociale, deve escludersi ogni forma di automatismo decisorio – favorevole o sfavorevole al prevenuto – non potendosi prescindere dalla valutazione delle emergenze del caso concreto» (Sez. 1, n. 29197 del 09/05/2017, Iamonte, n.m.).

Tale orientamento trova supporto normativo nell’art. 10 del d.lgs. n. 159 del 2011 che prevede l’immediata esecutività dei provvedimenti che applicano una misura di prevenzione sono immediatamente esecutivi, non essendo previsto un regime di sospensione degli effetti neppure in caso di impugnazione.

All’indirizzo appena illustrato è stato ricondotto anche l’orientamento espresso da Sez. 2, n. 12915 del 5/03/2015, Rango, Rv. 262930, che ha operato una netta distinzione tra l’ipotesi in cui lo stato detentivo sia determinato dall’espiazione della pena e quella provocata dall’applicazione di misura cautelare. In questa pronuncia, infatti, è stato affermato che, quando l’esecuzione della sorveglianza speciale resta sospesa per lo stato detentivo dell’interessato, «unica interpretazione costituzionalmente orientata è quella di considerare la sospensione dell’esecuzione della misura come destinata a risolversi solo a seguito della rivalutazione da parte del giudice, non dell’esecuzione, bensì dal medesimo giudice che ha applicato la misura, ovvero il Tribunale competente a norma degli artt. 5 e ss. del d.lgs. n. 159 del 2011».

Infatti, «… mentre la detenzione per espiazione di pena di chi sia sottoposto a misura di prevenzione personale incrementa la possibilità, favorita dal trattamento rieducativo individualizzato “che intervengano modifiche nell’atteggiamento del soggetto nei confronti di valori della convivenza civile”, la sottoposizione a misura cautelare personale, sia essa detentiva o non detentiva (come nella specie), non consente di ritenere superata o attenuata la presunzione di attualità della pericolosità sociale emessa in sede di applicazione, ma si pone, in realtà, come indiretta conferma della valutazione stessa, avuto riguardo alla ritenuta sussistenza di esigenze cautelari riferibili anche alla personalità dell’indagato e al concreto rischio di commissione di gravi reati».

Secondo questa decisione, quindi, non occorre alcuna rivalutazione della pericolosità sociale nell’ipotesi in cui la sospensione sia stata determinata dall’applicazione di misura cautelare, la quale, a differenza della detenzione in espiazione pena, non è un trattamento specificamente finalizzato al reinserimento sociale.

Una posizione intermedia tra gli orientamenti illustrati, infine, è stata assunta da una recente decisione sembrano rimettere la valutazione incidentale sulla persistente pericolosità sociale – e quindi sull’efficacia della nuova sottoposizione alla misura di prevenzione dopo un periodo di detenzione – al giudice di merito che procede in ordine alla contestata violazione degli obblighi inerenti detta misura (Sez. 1, n. 11619 del 3/10/2017 – dep. 2018 –, Iaria, n.m.).

5. (segue). La soluzione accolta dalla Corte.

Le Sezioni unite hanno condiviso il primo orientamento interpretativo, ponendo a sostegno della soluzione prescelta, in primo luogo, argomenti desunti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 291 del 2013.

Con questa pronuncia, in particolare, è stato rilevato che, nella materia delle misure di sicurezza, la verifica della persistenza della pericolosità sociale, imposta dall’art. 679 cod. proc. pen., deve essere effettuata due volte: in un primo momento dal giudice della cognizione, che deve verificarne la sussistenza al momento della pronuncia della sentenza; successivamente, dal magistrato di sorveglianza, che deve verificarne l’attualità quando la misura, già disposta, deve avere inizio.

Valutata l’affinità tra gli istituti delle misure di scurezza e delle misure di prevenzione, in quanto species di un unico genus di strumenti finalizzati a recuperare all’ordinato vivere civile soggetti che manifestano pericolosità sociale, con la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 12 della legge n. 1423 del 1956, la Corte costituzionale ha inteso armonizzare le due discipline. Il decorso di un rilevante lasso di tempo, tra la applicazione della misura e la sua esecuzione, sospesa per l’espiazione di una pena, secondo il giudice delle leggi, «incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell’atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile». Infatti, considerata la funzione rieducativa assegnata dalla nostra Costituzione alla pena, «se è vero, in effetti, che non può darsi per scontato a priori l’esito positivo di detto trattamento, per quanto lungo esso sia, meno ancora può giustificarsi, sul fronte opposto, una presunzione – sia pure solo iuris tantum – di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivale alla negazione della sua stessa funzione».

In sintesi la Corte costituzionale ha espresso un monito destinato anche ad incidere sulla questione al vaglio delle Sezioni unite: «se presunzione vi deve essere, dopo l’espiazione di una pena essa deve essere intesa come avvenuta risocializzazione del condannato, dal che la necessità di una rinnovata valutazione della sua pericolosità sociale nella prospettiva della esecuzione della misura di sicurezza».

Anche prima della pronuncia della Corte Costituzionale, del resto, il cd. “diritto vivente” aveva preso atto della necessità di dare una risposta costituzionalmente compatibile alla problematica dell’applicazione delle misure di prevenzione dopo un periodo di detenzione. In particolare, Sez. U, n. 10281 del 25/10/2007, Gallo, Rv. 238658, dopo aver premesso che la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza è applicabile anche nei confronti di persona detenuta, aveva affermato che, «dovendosi distinguere tra momento deliberativo e momento esecutivo della misura di prevenzione e attenendo la sua incompatibilità con lo stato di detenzione del proposto unicamente alla esecuzione della misura stessa, questa può avere inizio solo quando tale stato venga a cessare, ferma restando la possibilità per il soggetto di chiederne la revoca, per l’eventuale venire meno della pericolosità in conseguenza dell’incidenza positiva sulla sua personalità della funzione risocializzante della pena».

6. (segue). La necessità dell’attualità della pericolosità sociale.

Successivamente alla declaratoria di incostituzionalità, inoltre, la tensione a svalutare la presunzione di pericolosità sociale attestata nel provvedimento genetico è stata costante. In particolare, Sez. U, n. 111 del 30/11/2017 – dep. 2018 –, Gattuso, Rv. 271511, come si è visto, recependo il monito della Corte costituzionale sull’importanza della valutazione del “singolo caso” ai fini dell’accertamento della pericolosità sociale, ha affermato che anche «ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso è necessario accertare il requisito della “attualità” della pericolosità del proposto». È stato rimarcato, dunque, che tale accertamento costituisce un presupposto legittimante l’applicazione delle misure di prevenzione personale pure per le categorie previste dall’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011, ivi compresi gli indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose.

L’esigenza di una valutazione della attualità della pericolosità sociale della persona per l’applicazione a suo carico della misura di prevenzione, peraltro, è stata più volte ribadita dalla Corte EDU che ha affermato la necessità di accertare che i requisiti che giustificano l’iniziale applicazione della misura permangono anche durante la sua esecuzione.

Al riguardo, in passato, con la sentenza del 22/02/1994, Raimondo c. Italia, la Grande Camera della Corte EDU aveva ritenuto compatibili le misure di prevenzione con i principi comunitari, in ragione della minaccia alla società democratica rappresentata dalla mafia; quindi la misura della sorveglianza speciale era necessaria «per il mantenimento dell’ordine pubblico» e «per la prevenzione del crimine». Pertanto aveva riconosciuto la legittimità di misure tese ad impedire il compimento di nuovi reati, piuttosto che a sanzionare quelli già compiuti.

In successive pronunce, però, la Corte di Strasburgo ha ribadito la necessità che i requisiti che giustificano l’iniziale applicazione della misura debbano permanere anche durante la sua esecuzione. Nella sentenza del 06/04/2000, Labita c. Italia (p. 195), la Grande Camera della Corte EDU ha accertato la violazione dell’art. 2, Prot. 4, CEDU, rilevando che «... la sorveglianza speciale applicata nei confronti di Labita è stata decisa il 10 maggio 1993, quando esistevano effettivamente indizi riguardo la sua partecipazione alla mafia, ma è stata applicata solo il 19 novembre 1994, ossia dopo il proscioglimento, pronunciato dal Tribunale di Trapani». Anche da tale pronuncia, pertanto, si desume come la Corte EDU pretenda che per l’applicazione delle misure di prevenzione, oltre all’accertamento di elementi concreti e non meri sospetti, anche che la valutazione della pericolosità sociale dell’interessato sia «attuale».

7. La riforma del codice antimafia.

La codificazione dell’evoluzione del diritto vivente si è completata con la legge 17 ottobre 2017, n. 161, recante “Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni”, che, con l’art. 4, ha introdotto nel corpo dell’art. 14 del d.lgs. 159 del 2011 i commi 2-bis e 2-ter.

Ai sensi del nuovo comma 2-bis, in particolare, l’esecuzione della sorveglianza speciale resta sospesa durante il tempo in cui l’interessato è sottoposto alla misura della custodia cautelare. In tale caso, il termine di durata della misura di prevenzione continua a decorrere dal giorno nel quale è cessata la misura cautelare, con redazione di verbale di sottoposizione agli obblighi.

Il nuovo comma 2-ter della medesima disposizione, inoltre, prevede che l’esecuzione della sorveglianza speciale resta sospesa durante il tempo in cui l’interessato è sottoposto a detenzione per espiazione di pena, aggiungendo che la verifica della pericolosità avviene ad opera del tribunale, anche d’ufficio, dopo la cessazione della detenzione che si è protratta per almeno due anni, attraverso un procedimento, nel corso del quale sono assunte le necessarie informazioni presso l’amministrazione penitenziaria e l’autorità di pubblica sicurezza. Se la pericolosità sociale è cessata, il tribunale emette decreto con cui revoca il provvedimento di applicazione della misura di prevenzione; se, invece, persiste, il tribunale ordina l’esecuzione della misura di prevenzione, il cui termine di durata continua a decorrere dal giorno in cui il decreto stesso è comunicato all’interessato.

Queste disposizioni regolano la decorrenza della misura di prevenzione, recependo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, secondo cui la sorveglianza speciale può essere deliberata anche nei confronti di soggetto ristretto in carcere, tanto per espiazione della pena, tanto a seguito dell’applicazione di una misura cautelare. In questi casi, il decreto che dispone la misura può essere comunque adottato, anche se lo stato detentivo determina l’insorgenza di una causa di sospensione della sua esecuzione, che riprenderà dal giorno in cui è cessato lo stato detentivo.

Non è stato modificato, invece, l’art. 15 del d.lgs. 159 del 2011, di modo che non deve essere computato nella durata dell’obbligo di soggiorno il tempo trascorso in espiazione di penale o in custodia cautelare, ma, in questo secondo caso, «solo se seguita da condanna».

Le nuove norme, inoltre, hanno inteso anche dare attuazione ai contenuti della sentenza della Corte costituzionale n. 291 del 2013 dapprima illustrata, fissando in quanto meno due anni il periodo di detenzione minima che rende necessaria la rivalutazione, anche ex officio, del giudizio di pericolosità espresso nel decreto sospeso.

La nuova legge, dunque, ha positivizzato il concetto di “consistente lasso di tempo” tra deliberazione della misura e sua applicazione espresso dalla sentenza della Corte costituzionale del 2013, ai fini della rivalutazione della pericolosità sociale, determinandolo in due anni.

Recependo in modo rigoroso la sentenza della Corte costituzionale, peraltro, il nuovo art. 14, comma 2-ter, del Codice antimafia prevede l’obbligo di verifica della persistenza della pericolosità sociale solo nel caso di carcerazione «per espiazione di pena», non essendo stato esteso anche alla diversa ipotesi della restrizione carceraria sofferta in custodia cautelare.

Le nuove norme, nel dare attuazione al contenuto della sentenza della Corte costituzionale n. 291 del 2013, quindi, hanno completato il disegno normativo, sciogliendo i residui dubbi interpretativi posti dalla giurisprudenza.

8. Alcune considerazioni conclusive.

Alla luce di quanto esposto, le Sezioni unite hanno osservato che l’art. 15 del d.lgs. n. 159 del 2011, nel disciplinare il rapporto tra stato di detenzione (per espiazione pena) ed esecuzione di una misura di prevenzione personale, dopo l’intervento additivo della Corte costituzionale n. 291 del 2013, prevede che, in caso di detenzione di lunga durata, lo stato di sospensione della misura non cessi all’atto della fine dell’esecuzione della pena, ma permanga fino a quando il giudice competente non verifichi nuovamente la pericolosità sociale della persona sottoposta alla misura e quest’ultima non gli sia stata notificata.

In tali ipotesi, pertanto, la nuova verifica da parte del giudice competente, attestante la pericolosità della persona, costituisce una condizione di efficacia della misura di prevenzione.

In difetto di tale accertamento, non sussiste il reato di cui all’art. 75, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011 in quanto, non avendo efficacia il provvedimento genetico della misura di prevenzione, non può configurarsi il fatto penalmente rilevante della sua violazione.

Tale interpretazione trova ora sostegno normativo nel nuovo art. 14, comma 2-ter, del d.lgs. n. 159 del 2011, introdotto dalla legge n. 161 del 2017. La disposizione prevede che, dopo la cessazione dello stato di detenzione per espiazione di pena, la verifica della pericolosità avviene ad opera del tribunale, anche d’ufficio, dopo la cessazione della detenzione che si è protratta per almeno due anni, attraverso un procedimento, nel corso del quale sono assunte le necessarie informazioni.

Si valorizza in tal modo l’esigenza di un accertamento dell’attualità della pericolosità sociale, necessario presupposto sul piano costituzionale e convenzionale, dell’applicazione di una misura di prevenzione.

Tale prospettiva interpretativa fornisce continuità alla recente pronuncia delle Sezioni unite secondo cui l’accertamento della “attualità” della pericolosità è necessario persino per coloro che sono indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso (Sez. U, n. 111 del 30/11/2017 – dep. 2018 –, Gattuso, cit.).

In considerazione di quanto argomentato, le sezioni unite hanno affermato il seguente principio di diritto: «Nei confronti di un soggetto destinatario di una misura di sorveglianza speciale, la cui esecuzione sia stata sospesa per effetto di una detenzione di lunga durata, in assenza di una rivalutazione dell’attualità e persistenza della sua pericolosità sociale ad opera del giudice della prevenzione, al momento della nuova sottoposizione alla misura, non è configurabile il reato di reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, previsto dal D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, art. 75».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 6 del 25/03/1993, Tumminelli, Rv. 194062 Sez. 1, n. 33504 del 7/07/2010, Deganutti, Rv. 247958 Sez. 1, n. 7307 del 28/01/2014, Fusco, Rv. 259167 Sez. 1, n. 26821 del 8/05/2014, Cirillo Sez. 1, n. 6878 del 05/12/2014, dep. 2015, Villani, Rv. 262311 Sez. 1, n. 22547 del 08/01/2015, Di Rocco, Rv. 263575 Sez. 2, n. 12915 del 5/03/2015, Rango, Rv. 262930 Sez. 1, n. 30101 del 25/03/2015, Cambareri, Rv. 264616 Sez. 1, n. 48686 del 29/09/2015, Mancuso, Rv. 265665 Sez. 5, n. 33345 del 13/06/2016, Cartanese, Rv. 268046 Sez. 1, n. 38775 del 19/07/2016, Fantauzzi, Rv. 267800 Sez. 1, n. 27970 del 09/03/2017, Greco, Rv. 270655 Sez. 1, n. 29197 del 09/05/2017, Iamonte Sez. 1, n. 11619 del 3/10/2017 – dep. 2018 –, Iaria Sez. 6, n. 10248 del 11/10/2017 – dep. 2018 –, Ursache, Rv. 272323 Sez. U, n. 10281 del 25/10/2007 – dep. 2008 –, Gallo, Rv. 238658 Sez. U n. 111 del 30/11/2017 – dep. 2018 –, Gattuso Sez. 2, n. 18254 del 13/3/2018, Racco ed altri Sez. U, n. 51407 del 21/06/2018, Marillo, Rv. 273952 Sez. 6, n. 33484 del 28/06/2018, Taverniti

  • confisca di beni
  • diritto penale
  • fallimento

CAPITOLO III

CONFISCA DI PREVENZIONE E TUTELA DEI CREDITORI: DOMANDA DI AMMISSIONE ALLO STATO PASSIVO E DECORRENZA DEL TERMINE DECADENZIALE

(di Paolo Bernazzani )

Sommario

1 Il principio di diritto enunciato da Sez. U, n. 39608 del 22/02/2018, Business Partner Italia s.p.a. - 2 La vicenda processuale. - 3 I motivi di ricorso. - 4 Il quadro normativo. - 5 L’ordinanza di rimessione ed i precedenti di legittimità. - 6 La decisione delle Sezioni Unite. - 6.1 (segue). Il quadro normativo e giurisprudenziale - 6.2 (segue) Le opzioni decisorie disattese dalla Corte. - 6.3 (segue). L’itinerario decisorio prescelto dalle Sezioni Unite. - 7 Conclusioni. - Indice delle sentenze citate

1. Il principio di diritto enunciato da Sez. U, n. 39608 del 22/02/2018, Business Partner Italia s.p.a.

Nel complesso e variegato panorama interpretativo che caratterizza la materia della confisca di prevenzione, la tematica della tutela del terzo titolare di un credito ipotecario – e delle altre posizioni soggettive a tale figura assimilate – in sede di domanda di ammissione allo stato passivo, con peculiare riferimento ai procedimenti non soggetti alla disciplina “a regime” del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, bensì a quella dettata dall’art. 1, commi 199-206, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, è stata oggetto di un recentissimo ed importante intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Sez. U, n. 39608 del 22/02/2018, Business Partner Italia S.p.a., Rv. 273660).  

La decisione è così massimata:

«In tema di confisca di prevenzione, i creditori muniti di ipoteca iscritta sui beni confiscati all’esito dei procedimenti per il quali non si applica la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, devono presentare la domanda di ammissione del loro credito al giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca nel termine di decadenza previsto dall’art. 1, comma 199, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, anche nel caso in cui non abbiano ricevuto le comunicazioni di cui all’art. 1, comma 206, della stessa legge, in quanto il termine di decadenza decorre indipendentemente dalle predette comunicazioni.

L’applicazione di detto termine è, comunque, subordinata all’effettiva conoscenza, da parte del creditore, del procedimento di prevenzione in cui è stata disposta la confisca o del provvedimento definitivo di confisca ed è, in ogni caso, fatta salva la possibilità per il creditore di essere restituito nel termine stabilito a pena di decadenza, se prova di non averlo potuto osservare per causa a lui non imputabile. (In motivazione, la Corte ha precisato che la medesima disciplina si applica alle altre categorie di creditori richiamate dall’art. 1, comma 198, della legge n. 228 del 2012, quale risultante a seguito della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 94 del 2015)».

2. La vicenda processuale.

La vicenda processuale che ha dato origine alla rimessione alle Sezioni Unite nasce dalla concessione da parte di un istituto di credito, nel corso del 2001, di un mutuo garantito mediante iscrizione di ipoteca su di un complesso immobiliare di proprietà del mutuatario. A seguito della mancata restituzione di parte dell’importo ad opera del debitore (nella specie il soggetto resosi successivamente acquirente dell’immobile ipotecato, il quale si era accollato una quota del mutuo), l’istituto iniziava una procedura di espropriazione forzata mediante trascrizione di atto di pignoramento sull’immobile de quo, eseguita nel 2011.

In epoca (2008) precedente all’avvio dell’espropriazione, ma comunque successiva a quella dell’iscrizione ipotecaria, su tale immobile era stato, peraltro, trascritto un provvedimento di sequestro di prevenzione emesso dal Tribunale di Palermo, seguito dalla confisca, disposta con decreto divenuto definitivo nel gennaio 2012.

La mutuante, con ricorso depositato il 28 gennaio 2014, chiedeva al Tribunale competente, in funzione di giudice dell’esecuzione, di ammettere il proprio credito al passivo della procedura di liquidazione di tale immobile, ai sensi dell’art. 58, comma 2, del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. “codice antimafia”) ed in forza del rilievo che i rapporti fra creditori ipotecari ed Erario nell’ambito dei procedimenti di prevenzione per i quali non trovi applicazione, ratione temporis, la disciplina recata dallo stesso codice, sono regolati dall’art. 1, commi da 194 a 206, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (c.d. legge di stabilità 2013), in vigore dal 1 gennaio 2013.

Il Tribunale, tuttavia, dichiarava inammissibile la domanda, sul presupposto che la confisca di prevenzione dell’immobile ipotecato era divenuta irrevocabile prima dell’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012; con riferimento a tale ipotesi, l’art. 1, comma 199, di tale legge prevede espressamente che le domande di ammissione del credito al passivo del procedimento di liquidazione del bene confiscato vadano proposte, a pena di decadenza, entro 180 giorni dall’entrata in vigore della stessa legge, avvenuta il 1 gennaio 2013, onde la domanda di ammissione del credito avrebbe dovuto essere presentata entro il 30 giugno 2013; pertanto, essendo stato il ricorso contenente tale domanda depositato soltanto nel 2014, la banca ricorrente era irrimediabilmente decaduta dal diritto invocato.

3. I motivi di ricorso.

Avverso tale ordinanza, parte creditrice, attraverso una società mandataria, proponeva ricorso per cassazione, affidato a due motivi. Con il primo di essi, deduceva il vizio di violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 1, comma 206, legge 24 dicembre 2012, n. 228: con la citata legge (art. 1, commi da 194 a 206), come detto, è stata espressamente disciplinata la tutela dei terzi in riferimento ai beni confiscati nell’ambito di procedimenti di prevenzione patrimoniali per i quali, come nella specie, non trovi applicazione la disciplina “a regime” del “codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione” (d.lgs. n. 159 del 2011).

Vero è, secondo la ricorrente, che i creditori del prevenuto, a favore dei quali sia stata iscritta ipoteca sul bene confiscato prima della trascrizione del sequestro di prevenzione, possono presentare domanda di accertamento del proprio credito nell’ambito della procedura di liquidazione entro 180 giorni dall’entrata in vigore di tale legge (ex art. 1, comma 199), se la confisca è divenuta definitiva prima di tale giorno.

Tuttavia, il successivo comma 206 dello stesso art. 1 dispone espressamente che l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (di seguito, l’ “Agenzia”) «entro dieci giorni dall’entrata in vigore della presente legge, ovvero dal momento in cui la confisca diviene definitiva, comunica ai creditori di cui al comma 198, a mezzo posta elettronica certificata, ove possibile e, in ogni caso, mediante apposito avviso inserito nel proprio sito internet: a) che possono, a pena di decadenza, proporre domanda di ammissione del credito ai sensi dei commi 199 e 205; b) la data di scadenza del termine entro cui devono essere presentate le domande di cui alla lettera a); c) ogni utile informazione per agevolare la presentazione della domanda».

Proprio in tale cornice precettiva si annida l’essenza del problema: ad avviso della ricorrente, la decisione impugnata non aveva tenuto in alcuna considerazione la necessità di coordinare il comma 199 con il successivo comma 206; nel caso concreto, nessuna comunicazione era stata inviata dall’Agenzia al creditore ipotecario, né alcuna pubblicazione era stata effettuata sul sito internet della stessa Agenzia, e tale inadempimento degli obblighi previsti dal comma 206 non poteva non riverberarsi sulla stessa decorrenza del termine decadenziale in esame, poiché la società creditrice non era stata posta in condizione di poter esercitare l’unico mezzo di tutela previsto per far valere i propri diritti.

L’orizzonte si amplia, ma sempre nel segno della continuità argomentativa, con il secondo motivo di ricorso, che lamenta l’inosservanza di norme processuali ex art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 178 stesso codice; 4 Decisione Quadro 2005/212/GAI del Consiglio in data 24 febbraio 2005 (secondo cui, in tema di confisca di beni, strumenti e proventi di reato «ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie ad assicurare che le persone cui si applicano le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 dispongano di effettivi mezzi giuridici a tutela dei propri diritti») ed 1, comma 206, legge n. 228 del 2012; oggetto di richiamo è anche la proposta di direttiva n. 2012/0036/ COD, relativa al congelamento e alla confisca dei proventi di reato nell’Unione Europea presentata il 12 marzo 2012 dalla Commissione Europea al Parlamento UE e la giurisprudenza della CEDU, con particolare riferimento alla decisione del 26/06/2001, C.M. c/ Francia, in causa 28078/95.

In tale dimensione interpretativa, si evidenzia come la garanzia del proprio diritto alla partecipazione al procedimento di prevenzione, nel rispetto della disciplina comunitaria e della Convenzione EDU, possa essere assicurata esclusivamente dal rigoroso rispetto della procedura prevista dal citato art. 1, comma 206, della legge n. 228 del 2012, nella specie non avvenuto.

4. Il quadro normativo.

L’inquadramento della complessa problematica in esame rende opportuna un sintetico richiamo del quadro normativo che caratterizza la materia della confisca di prevenzione, ovviamente esaminato sotto il peculiare angolo prospettico della tutela del terzo titolare di un diritto reale di garanzia.

Come è noto, la confisca definitiva di prevenzione determina l’acquisizione al patrimonio dello Stato dei beni che ne costituiscono l’oggetto. La misura determina, in primo luogo, la perdita del diritto sul bene da parte del precedente titolare, sia esso identificabile con lo stesso proposto ovvero con un terzo formale intestatario; in secondo luogo, produce effetti indiretti sulle posizioni giuridiche di altri soggetti, in particolare nei confronti dei terzi titolari di diritti di credito verso il proposto, assistiti da garanzie reali, i quali, a causa del provvedimento di acquisizione del bene al patrimonio dello Stato, vedono indirettamente pregiudicata la tutela del credito stesso.

In subiecta materia, il più rilevante intervento normativo è, senza dubbio, coinciso con l’emanazione del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il cui titolo IV disciplina un sistema organico di tutela della generalità dei creditori del proposto, articolato in un vero e proprio procedimento incidentale di verifica dei crediti in contraddittorio con successiva formazione di un «piano di pagamento», sulla falsariga degli omologhi istituti previsti dalla legge fallimentare.

L’assetto che ne è derivato, come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 94 del 2015, «rappresenta il frutto del bilanciamento legislativo tra i due interessi che in materia si contrappongono: da un lato, l’interesse dei creditori del proposto a non veder improvvisamente svanire la garanzia patrimoniale sulla cui base avevano concesso credito o effettuato prestazioni; dall’altro, l’interesse pubblico ad assicurare l’effettività della misura di prevenzione patrimoniale e il raggiungimento delle sue finalità, consistenti nel privare il destinatario dei risultati economici dell’attività illecita».

Tale bilanciamento di interessi di natura privata e di carattere pubblicistico – il quale ultimo comporta, quale fondamentale effetto, la devoluzione allo Stato del bene confiscato, privo di oneri e pesi (cfr. l’art. 45, comma 1, d.lgs. cit.) con correlativa sospensione delle azioni esecutive e successiva estinzione all’esito della confisca –, viene assicurato dalla tutela attribuita ai terzi, come disciplinata dagli artt. 57 e 58. Rileva qui l’assegnazione da parte del giudice delegato – dopo il deposito del decreto di confisca ed una volta ricevuto dall’amministratore giudiziario l’elenco nominativo di tutti i creditori e dei titolari di diritti reali di godimento o garanzia o di diritti personali sui beni, anteriori al sequestro – di un termine perentorio per il deposito delle istanze di accertamento dei rispettivi diritti, con successiva fissazione dell’udienza di verifica dei crediti.

A tali scansioni procedimentali si abbina un meccanismo notificatorio agli interessati, a cura dell’amministratore giudiziario (comma 2), teso a garantire l’effettività della conoscenza a tutela dei terzi sopra indicati; ad essi viene, comunque, consentito, in caso di mancato rispetto del prefissato termine di decadenza, di presentare domande tardive entro un anno dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo, previa dimostrazione, a pena di inammissibilità, di non aver potuto presentare la domanda tempestivamente per causa non imputabile (art. 58, comma 5).

La disciplina “a regime” è, tuttavia, applicabile unicamente ai procedimenti di prevenzione instaurati dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011, avvenuta il 13 ottobre 2011.

Per converso, rispetto ai procedimenti nei quali, alla predetta data, «sia già stata formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione», l’art. 117, comma 1, del citato decreto legislativo stabilisce l’inapplicabilità delle disposizioni di cui al Libro I – fra cui proprio quelle degli artt. 52 e seguenti – aggiungendo che «in tali casi, continuano ad applicarsi le norme previgenti», vale a dire la disciplina dalla legge n. 575 del 1965.

Su tale assetto normativo ha, in epoca successiva al d.l. n, 159 del 2011, inciso la legge n. 228 del 2012, il cui art. 1, commi da 194 a 206, ha introdotto una specifica disciplina applicabile ai procedimenti di prevenzione non rientranti nell’area di operatività del Libro I del d.lgs. n. 159 del 2011.

La ratio ispiratrice rinvia al principio secondo cui l’interesse dello Stato a confiscare i beni frutto o provento di attività illecita deve prevalere su quello del creditore a soddisfarsi sull’immobile ipotecato, «onde è inopponibile allo Stato l’ipoteca iscritta su di un bene immobile confiscato, ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, prima che ne sia stata pronunciata l’aggiudicazione nel procedimento di espropriazione forzata, in virtù della norma di diritto transitorio prevista dall’art. 1, comma 194, della legge 24 dicembre 2012, n. 228» (cfr. Sez. U civ., n. 10532 del 07/05/2013, Min. Economia Finanze ed altro c. Aspra Finance s.p.a. ed altri, Rv. 626570; Sez. 1, n. 44267 del 24/09/2014, Italfondiario s.p.a., Rv. 260543).

In estrema sintesi, la disciplina della legge n. 228 del 2012 distingue fra due ipotesi fondamentali, a seconda che il provvedimento di confisca sia stato emesso prima o dopo il 1° gennaio 2013, data di entrata in vigore della legge stessa. Nei procedimenti di prevenzione in cui, alla predetta data, sia già stata disposta la confisca, la legge distingue ulteriormente due sottoipotesi: quella in cui il bene confiscato sia stato assoggettato a procedura esecutiva, ma non sia stato ancora aggiudicato o trasferito, e quella in cui, invece, sia già avvenuto il trasferimento o l’aggiudicazione, ancorché in via provvisoria.

Con riferimento alla prima sottoipotesi (beni confiscati e non ancora aggiudicati o trasferiti alla data del 10 gennaio 2013), l’art. 1 della legge n. 228 stabilisce il divieto di azioni esecutive, a pena di nullità, sui beni suddetti (comma 194); l’estinzione di diritto degli oneri e dei pesi iscritti o trascritti anteriormente alla confisca (comma 197); la possibilità per i soggetti legittimati all’azione, ossia i creditori ipotecari, pignoranti od intervenuti nell’esecuzione (comma 198), ai quali, a seguito della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 94 del 2015, vanno aggiunti i titolari di crediti derivanti da prestazioni di lavoro in regime di subordinazione nei confronti del prevenuto, di essere soddisfatti, nei limiti e con le modalità di cui ai commi da 194 a 206.

In particolare, per ciò che qui maggiormente rileva: a) l’iscrizione dell’ipoteca, la trascrizione del pignoramento o l’intervento nel processo esecutivo devono essere avvenuti prima della trascrizione del sequestro di prevenzione; b) entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge (ossia entro il 30 giugno 2013), tali creditori devono, a pena di decadenza, aver proposto domanda di ammissione del credito, ai sensi dell’art. 58, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, al giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca (comma 199); c) il giudice dell’esecuzione, accertato l’an ed il quantum del credito nonché le condizioni di cui all’art. 52 d.lgs. citato, ammette il credito al pagamento, dandone immediata comunicazione all’Agenzia; si applicano le disposizioni di cui all’art. 666 commi 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 9 cod. proc. pen. (comma 200).

Nell’altra sottoipotesi considerata, relativa ai casi in cui, alla data del 1° gennaio 2013 siano già avvenuti il trasferimento o l’aggiudicazione nell’ambito dell’esecuzione forzata, ovvero in cui il bene da confiscare consista in una quota di proprietà indivisa già pignorata, restano fermi gli effetti dell’esecuzione o dell’aggiudicazione (comma 195).

Infine, nel caso in cui alla medesima data del 10 gennaio 2013 i beni ipotecati o sottoposti ad esecuzione forzata non siano ancora stati confiscati, si applicheranno le stesse misure previste per quelli che alla medesima data siano già stati confiscati, ma non ancora aggiudicati, con l’unica differenza che il termine di decadenza di 180 giorni decorrerà dal momento in cui il provvedimento che dispone la confisca diviene definitivo (comma 205).

In termini conclusivi, come osserva la Corte, può dirsi che la normativa della legge di stabilità 2013 tratteggia un meccanismo di tutela fondato su un procedimento incidentale di verifica dei crediti e sulla predisposizione di un piano di pagamento dei creditori ammessi, secondo modalità distinte e semplificate rispetto a quelle delineate dalla normativa “a regime”, ma con alcune differenze di fondo, sia riguardo al meccanismo della presentazione delle domande di ammissione del credito, sia, soprattutto, quanto ai soggetti tutelati: infatti, mentre per i procedimenti di prevenzione sottoposti alla disciplina “a regime”, la procedura incidentale di verifica è estesa a tutti i creditori, per i procedimenti sottoposti alla legge n. 228 del 2012 la legittimazione è circoscritta ai soli creditori ipotecari, pignoranti o intervenuti nell’esecuzione, nonché, per effetto della sentenza n. 94 del 2015 della Corte costituzionale, ai creditori per prestazioni di lavoro subordinato, che comunque sono assistiti da privilegio generale sui beni mobili, ai sensi dell’art. 2751-bis, n. 1, cod. civ., e con diritto alla collocazione sussidiaria sul prezzo degli immobili, ai sensi dell’art. 2776 cod. civ. Va, altresì, rilevato che, per effetto dell’art. 37 della legge 17 ottobre 2017, n. 161 (Interpretazione autentica dell’art. 1, commi da 194 a 206, della legge 24 dicembre 2012, n. 228), le richiamate disposizioni della legge n. 228 del 2012 devono intendersi applicabili anche con riferimento ai beni confiscati ai sensi dell’art. 12-sexies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, e successive modificazioni, all’esito di procedimenti iscritti prima del 13 ottobre 2011.

5. L’ordinanza di rimessione ed i precedenti di legittimità.

L’ordinanza di rimessione pronunziata dalla Prima sezione penale prende le mosse da due presupposti in fatto incontestati, ossia: a) che l’Agenzia, nel caso di specie, non aveva adempiuto all’obbligo informativo richiesto dal citato comma 206 dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012, avente ad oggetto (anche) il termine di proposizione delle domanda di ammissione dei crediti in esame al passivo della procedura di liquidazione dell’immobile confiscato; b) che la predetta domanda era stata presentata dopo la scadenza del termine, previsto a pena di decadenza, di cui all’art. 1, comma 199, della stessa legge n. 228.

In tale cornice ricostruttiva, il Collegio rimettente richiama, in senso critico, il precedente costituito da Sez. 1, n. 20479 del 12/02/2016, Banco Popolare soc. coop., Rv. 266891, secondo cui «in tema di confisca di prevenzione, il titolare di crediti ipotecari, che intenda far valere il proprio diritto dinanzi al giudice dell’esecuzione, deve presentare domanda di ammissione allo stato passivo entro il termine, previsto a pena di decadenza, di 180 giorni, che decorre dall’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012, oppure, per i beni confiscati in data successiva alla data anzidetta, dal momento in cui il provvedimento di confisca è divenuto definitivo».

Il punctum dolens del citato arresto giurisprudenziale, secondo l’ordinanza di rimessione, risiede nel fatto che lo stesso, «nell’interpretare la disciplina della decadenza dal diritto all’accertamento del credito recata dal comma 199 (espressamente richiamata dal successivo comma 205)», «ha omesso di prendere in considerazione le disposizioni contenute nel successivo comma 206 e la relativa incidenza su quelle contenute nei commi 199 e 205. In buona sostanza, quella decisione si è limitata solo a prendere atto del contenuto testuale (in sé inequivoco) della disposizione recata dal comma 199 (e di quella contenuta nel comma 205), opportunamente collegata con quella contenuta nel successivo comma 201; omettendo però di dare un qualche senso al contenuto della disciplina legale degli avvisi di cui al successivo comma 206».

In base al differente approccio esegetico adottato dall’ordinanza di rimessione, invece, l’adempimento da parte dell’Agenzia stessa risulterebbe l’imprescindibile cardine della disciplina in esame, «pena l’elisione del diritto del creditore all’accertamento giudiziale del proprio credito (secondo le prescrizioni contenute nell’art. 52 del d.lgs. n. 159 del 2011)». Nel delineare la propria impostazione, il Collegio rimettente non disconosce le differenze esistenti fra la disciplina introdotta dalla legge n. 228 del 2012 e quella recata dal c.d. Codice antimafia: la prima, invero, non contempla gli adempimenti prescritti dagli artt. 57 e 58 del d.lgs. n. 159 del 2011, a loro volta modellati sull’archetipo costituito dalla disciplina dell’accertamento dei crediti nel fallimento e, più in generale, segue le scansioni di un procedimento semplificato. Si evidenzia, peraltro, un comune denominatore, costituito dall’atto di comunicazione ai creditori titolari di diritti reali di garanzia sui beni confiscati delle modalità per l’esercizio dei propri diritti, secondo le prescrizioni imposte dall’art. 58, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, e del relativo termine di decadenza (art. 1, commi 199 e 205, legge 228 del 2012; art. 57, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011), al fine di «assicurare all’interessato la conoscibilità del momento di iniziale decorrenza del termine stesso, onde poter utilizzare, nella sua interezza, il tempo assegnatogli», sull’evidente scorta delle numerose pronunzie della Corte costituzionale secondo le quali, ove un termine sia prescritto per l’esercizio di un’azione a tutela di diritti soggettivi, la cui omissione si risolva in pregiudizio della situazione tutelata, deve essere assicurata all’interessato la conoscibilità del momento di iniziale decorrenza del termine stesso, onde poter utilizzare, nella sua interezza, il tempo assegnatogli, pena la violazione dell’art. 24 Cost. (l’ordinanza di rimessione richiama, fra le altre, Corte cost. n. 159 del 1971, n. 255 del 1974, n. 15 del 1977, n. 156 del 1986, nonché le numerose decisioni con le quali la Corte costituzionale ebbe ad intervenire sulla disciplina legale relativa ai termini processuali per l’esercizio di diritti soggettivi previsti dalla legge fallimentare ante riforma ex dal d.lgs. n. 5 del 2006, dalla sentenza n. 255 del 1974 alla n. 538 del 1990).

Né è privo di rilievo che, sotto tale profilo, il c.d. Codice antimafia prevede un meccanismo di recupero delle domande di accertamento del credito presentate tardivamente: l’art. 58, comma 5 del d.lgs. n. 159 del 2011 ne consente l’ammissione «solo ove il creditore provi, a pena di inammissibilità della richiesta, di non aver potuto presentare la domanda tempestivamente per causa a lui non imputabile», ipotesi che sarebbe destinata a ricomprendere l’ipotesi di mancata comunicazione ai creditori prevista dall’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 159.

L’ordinanza di rimessione non manca di evidenziare come tale soluzione normativa sia mutuata da quella dell’art. 101, ultimo comma, l.fall., in tema di domande di ammissione di crediti c.d. “supertardive”, ossia presentate anche oltre il termine, prescritto a pena di decadenza, indicato dal primo comma dello stesso art. 101, consentite «se l’istante prova che il ritardo è dipeso da causa a lui non imputabile»; norma interpretata dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che, «ai fini dell’ammissibilità della domanda tardiva di ammissione del credito ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 101 legge fall. (cd. supertardiva), il mancato avviso al creditore da parte del curatore del fallimento, previsto dall’art. 92 legge fall., integra la causa non imputabile del ritardo da parte del creditore; peraltro, il curatore ha facoltà di provare, ai fini dell’inammissibilità della domanda, che il creditore abbia avuto notizia del fallimento, indipendentemente dalla ricezione dell’avviso predetto». (cfr. Sez. 1 civ., n. 4310 del 19/03/2012, Dell’Amico c. Fall. Mirko Menconi Marmi Srl, Rv. 622027-01; Sez. 6-1 civ., ord. n. 21316 del 20/10/2015, Banca Italease spa c. Fallimento GAE.TRA spa, Rv. 637221-01).

Per converso, il silenzio serbato dalla legge n. 228 del 2012, in ordine all’ammissibilità di eventuali domande tardive, particolarmente nel caso di inadempimento da parte dell’Agenzia dell’obbligo di comunicazione ex art. 1, comma 206 cit., finirebbe per determinare, ove si seguisse l’orientamento patrocinato dalla citata Cass. Sez. 1, n. 20479/16, un irreversibile effetto decadenziale per i terzi creditori dal diritto di presentare domanda per l’accertamento giudiziale dei propri crediti, collegato in via immediata ed esclusiva all’inutile decorso del termine di 180 giorni, decorrente dal dies a quo indicato dalla legge.

In tale prospettiva, l’ordinanza della Prima sezione evidenzia una possibile soluzione interpretativa diretta a colmare quella che è definita una vera e propria lacuna normativa, ipotizzando l’applicazione, in sede di analogia in bonam partem, dell’istituto della restituzione nel termine processuale previsto dall’art. 175 cod. proc. pen., facendo leva sul rilievo che le decisioni sulle domande di ammissione di crediti seguono la procedura indicata dall’art. 666, commi 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 9, cod. proc. pen. (art. 1, comma 200, della legge n. 228 del 2012).

6. La decisione delle Sezioni Unite.

Sulla base delle descritte premesse può convenientemente essere intesa la portata della decisione delle Sezioni Unite in ordine alla questione di diritto rilevante ai fini della decisione sul ricorso in esame, che lo stesso supremo consesso ha riformulato, a fini di maggior chiarezza, nei seguenti termini: «Se i creditori muniti di ipoteca iscritta sui beni confiscati all’esito dei procedimenti di prevenzione, per i quali non si applica la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, devono presentare la domanda di ammissione del loro credito, al giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca, nel termine di decadenza previsto dall’art. 1, comma 199, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, anche nel caso in cui non abbiano ricevuto le comunicazioni di cui all’art. 1, comma 206, della legge da ultimo citata».

6.1. (segue). Il quadro normativo e giurisprudenziale

L’inquadramento della tutela del terzo titolare di un diritto reale di garanzia nell’ambito del sistema della confisca di prevenzione non poteva prescindere, nella logica argomentativa delle Sezioni Unite, da una puntuale ricostruzione, in chiave diacronica, del quadro normativo e giurisprudenziale, nazionale e sovranazionale, afferente il tema d’indagine.

Prendendo le mosse dal diritto dell’Unione europea, la Corte richiama, in particolare, la decisione quadro 2005/212/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato, il cui art. 4 precisa che «ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie ad assicurare che le persone cui si applicano le disposizioni di cui agli articoli 2 e 3 dispongano di effettivi mezzi giuridici a tutela dei propri diritti»; nonché la direttiva 2014/42/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014, relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’unione europea, con particolare riferimento al «diritto di essere ascoltati per i terzi che sostengono di essere proprietari del bene in questione o di godere di altri diritti patrimoniali, quale il diritto di usufrutto». L’indagine ricognitiva non manca di soffermarsi su una pertinente analisi dei principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e della giurisprudenza della Corte EDU, dalla quale la decisione in esame ricava due fondamentali direttrici di fondo: a) la confisca come misura di prevenzione non solo non contrasta con le norme della CEDU, ma, anzi, è una misura indispensabile per contrastare il crimine (cfr., ad esempio, Corte EDU, sent. 22/02/1994, Raimondo c. Italia; 04/09/2001, Riela c. Italia; 05/07/2001, Arcuri c. Italia); b) la confisca dev’essere comunque conforme alle prescrizioni dell’art. 1, primo paragrafo, Prot. 1 CEDU, con la duplice conseguenza che essa: (b1) dev’essere irrogata sulla base di una espressa previsione di legge e (b2) deve realizzare il “giusto equilibrio” tra l’interesse generale e la salvaguardia dei diritti dell’individuo che, nell’ipotesi di confisca ai danni di un terzo, diverso dal reo o dal prevenuto, deve ritenersi soddisfatto quando al terzo proprietario dei beni confiscati sia data la possibilità di un ricorso giurisdizionale (cfr. Corte EDU, 26 giugno 2001, C.M. c. Francia).

La capillare e particolarmente esaustiva analisi condotta dalla Suprema Corte non manca di interessarsi anche alle altre fonti del diritto internazionale: in particolare, la Convenzione di Strasburgo dell’8 novembre 1990 sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, ratificata con l. 9 agosto 1993, n. 328, (in particolare, l’art. 5) e la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, fatta a Palermo il 12-15 dicembre 2000 (il cui art. 12, nel consentire la confisca, anche per equivalente, dei proventi e dei beni strumentali rispetto ai reati contemplati dalla Convenzione stessa, prevede espressamente, al punto n. 8, che «l’interpretazione delle disposizioni del presente art. non deve ledere i diritti dei terzi in buona fede»).

Il complesso quadro del diritto sovranazionale permette alle Sezioni Unite «di enucleare alcuni principi, utili per orientare l’interpretazione del diritto interno, con specifico riferimento alla posizione del terzo. In particolare: a) la confisca, anche di prevenzione, deve essere prevista da una espressa disposizione di legge e deve realizzare un bilanciamento tra l’interesse generale e la salvaguardia del diritti dell’individuo; b) il soggetto proprietario o titolare di diritti reali sul bene oggetto di confisca deve disporre di effettivi mezzi giuridici di tutela, e ciò vale anche qualora si tratti di un soggetto terzo, non direttamente coinvolto nel procedimento di confisca; c) l’effettività della tutela presuppone che il procedimento di confisca sia conosciuto dagli interessati e che siano loro garantite la facoltà di impugnazione e le connesse prerogative difensive; d) sul piano sostanziale, non può comunque ricevere pregiudizio il diritto del terzo di buona fede; e) quanto alla buona fede, l’ordinamento può legittimamente prevedere che la relativa prova incomba sul terzo».

Quanto alla giurisprudenza costituzionale, ampiamente occupatasi della legittimità delle norme in tema di misure di prevenzione, senza, peraltro, affrontare nel merito la specifica questione relativa alla decorrenza dei termini incombenti sul terzo titolare di diritti sui beni confiscati, le Sezioni Unite richiamano, fra le più significative, le sentenze n. 487 del 1995 n. 229 del 1974 e n. 1 del 1997. In merito alla possibilità per il legislatore di fissare un termine di decadenza per l’esercizio del diritto del terzo creditore, va osservato che, nelle numerose occasioni in cui la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi sul tema, la stessa ha costantemente affermato che tale facoltà incontra soltanto due limiti, e cioè l’insussistenza di un interesse generale e la fissazione di termini così ristretti da rendere impossibile od eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto (sent. n. 297 del 2008; ordinanze n. 197 del 2006, n. 213 del 2005 e n. 185 del 2009); ed il rapporto fra conoscenza di un atto e decorrenza del termine per la sua impugnazione, in materia fallimentare e di procedure concorsuali, è stato scolpito da numerose decisioni (ad esempio, le sentenze n. 42 del 1981, n. 303 del 1985, n. 881 del 1988, n. 538 del 1990).

In tale prospettiva, le Sezioni Unite pervengono ad una prima, fondamentale acquisizione, cogliendo nella giurisprudenza richiamata «un complesso organico di enunciati che, ponendosi in armonia con i principi di livello sovranazionale già richiamati al par. 2.4., consente di delineare uno “statuto costituzionale” dei diritti dei terzi, valido anche per la tutela della posizione del terzo creditore nel procedimento di prevenzione, basato sulla conoscenza effettiva del procedimento di confisca, quale portato della necessità di conferire effettività al diritto di difesa e ai principi di ragionevolezza e di affidamento».

Da tali principi deriva un ineludibile corollario. Non può ammettersi la decorrenza del termine stabilito a pena di decadenza per l’espletamento di un onere processuale nei confronti di coloro che non siano stati in grado di avere conoscenza del “fatto” o del provvedimento a cui il momento iniziale di tale decorrenza è collegato, in modo da poter utilizzare nella sua interezza il lasso temporale previsto dalla legge per far valere il loro diritto.

Esigenza, questa, che può essere assicurata dalle forme ordinarie di comunicazione e notificazione, o da altre forme di pubblicità, fermo restando, peraltro, che ciò che rileva non è il dato formale dell’adempimento dei relativi obblighi, ma quello sostanziale della conoscenza, che può anche derivare aliunde.

6.2. (segue) Le opzioni decisorie disattese dalla Corte.

Così delineato, con rigore argomentativo ed ampiezza di indagine, il contesto di riferimento nel quale calare la decisione, la Corte, individua, innanzitutto, tre opzioni ermeneutiche possibili, sulle quali esercita un penetrante vaglio critico.

Una prima opzione è quella, implicitamente fatta propria dalla già citata Sez. 1, n. 20479 del 12/02/2016, Banco Popolare soc. coop., Rv.266891, secondo cui il termine de quo decorre immancabilmente dall’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012, oppure, per i beni confiscati in data successiva alla data anzidetta, dal momento in cui il provvedimento di confisca è divenuto definitivo (nello stesso senso Sez. 1, n. 36626 del 12/04/2016, Banca Monte dei Paschi di Siena, Rv. 267609, e Sez. 1, n. 46185 del 19/05/2016, Italfondiario s.p.a.).

È evidente come tale interpretazione valorizzi il rapporto di reciproca autonomia fra il comma 199 ed il comma 206 dalla legge n. 228 del 2012: in tale contesto, l’adempimento dell’obbligo informativo imposto all’Agenzia, inteso quale forma di pubblicità-notizia, assolve semplicemente la funzione di agevolare l’attivazione dei creditori assistiti da diritto reale di garanzia, per consentir loro di proporre, a pena di decadenza, domanda di ammissione del credito entro il predetto termine, comunque decorrente dai momenti fissati dalla stessa legge n. 228. Si tratterebbe, dunque, di una disposizione di carattere meramente organizzativo, onde, da un lato, il termine imposto all’Agenzia non potrebbe che essere ordinatorio e sprovvisto di sanzione e, dall’altro, l’eventuale violazione del predetto obbligo informativo da parte dell’Agenzia non potrebbe esercitare alcuna influenza sul contenuto e sulla struttura del primo obbligo e, in particolare, sulla decorrenza del relativo termine decadenziale posto a carico del creditore.

Le Sezioni Unite ammettono, bensì, che tale interpretazione è aderente al dato letterale delle norme evocate e corrisponde, altresì, alla logica della disciplina transitoria, tesa ad ottenere una rapida “chiusura” delle posizioni pregresse; tuttavia, affermano che la stessa, ove rigidamente applicata, finirebbe per escludere qualsiasi rilevanza della “effettiva conoscenza” e, quindi, per violare palesemente il principio, desumibile dall’ordinamento sovranazionale e da quello costituzionale, secondo cui un termine decadenziale non può decorrere nell’ambito di un procedimento qualora il soggetto nei confronti del quale decorre non conosca quello stesso procedimento. Ciò, inoltre, senza considerare l’irrazionale differenziazione rispetto alla disciplina a regime, che àncora la decorrenza del termine alla conoscenza del procedimento e addirittura consente la presentazione di domande tardive (art. 58, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011).

Non esente da criticità altrettanto significative appare, tuttavia, l’interpretazione, di segno diametralmente opposto, secondo cui il comma 206 rivestirebbe una essenziale funzione integrativo-specificativa, sul piano non solo cronologico, ma altresì logico e funzionale, rispetto al comma 199, onde lo stesso obbligo del creditore diverrebbe attuale solo a condizione che l’Agenzia abbia previamente adempiuto all’obbligo comunicativo ex comma 206; comunicazione che assumerebbe, così, una funzione di pubblicità “costitutiva”, ponendosi quale vero e proprio presupposto normativo dell’operatività del termine decadenziale in esame.

Anche questa tesi, osserva la Corte, non risulta accettabile. In primo luogo, essa finisce per svuotare il contenuto precettivo del comma 199: infatti, ritenere che la condizione essenziale per far scattare l’operatività del più volte citato termine di 180 giorni sia costituita dal perfezionamento della comunicazione da parte dell’Agenzia «significa, in concreto, far coincidere il dies a quo da cui decorre il predetto termine con il ricevimento della predetta comunicazione; con la conseguenza che la sanzione della decadenza comminata dal comma 199 (e richiamata dal comma 205) non avrebbe più alcun significato, logico e giuridico». Nello stesso senso, appare inoltre significativo che il comma 206, nella sua formulazione letterale, non contempli, di per sé, una sanzione di decadenza, ma operi un rinvio ai commi 199 e 205 e, quindi, agli obblighi e alla decadenza dagli stessi sanciti; né ancora, si osserva, sarebbe lecito desumere dal sistema che il sistema di pubblicità previsto dal comma 206 costituisca una forma di conoscenza esclusiva e privilegiata del procedimento per i terzi creditori di cui al precedente comma 198, in mancanza della quale gli stessi non possano essere ritenuti informati del procedimento. All’opposto, è certamente possibile che gli stessi abbiano conoscenza del procedimento di prevenzione per altra via (ad esempio, attraverso la trascrizione di un pignoramento successivo al sequestro di prevenzione), nel qual caso, non vi è alcuna ragione di escludere la decorrenza del termine di cui al comma 199 nei loro confronti.

Infine, la terza opzione ermeneutica, ritenuta egualmente insoddisfacente dalla Corte, è quella per cui, in caso di mancata comunicazione, ex art. 1, comma 206, ai creditori muniti di ipoteca sui beni confiscati nei procedimenti di prevenzione non sottoposti alla disciplina del d.lgs. n. 159 del 2011, non si applica il termine di decadenza previsto dall’art. 1, comma 199, ma le loro domande sono considerate tardive, in base alla disciplina “a regime” dettata dall’art. 58, comma 5, secondo periodo, del d.lgs. n. 159 del 2011, che consente ai creditori “ritardatari” di presentare la domanda di ammissione entro un anno dal deposito di decreto di esecutività dello stato passivo, qualora provino di non averla potuto presentare tempestivamente per causa a loro non imputabile.

Tale soluzione, secondo le Sezioni Unite, non è praticabile per almeno due motivi.

Il primo, di ordine sistematico, è che l’art. 58, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011 non è affatto richiamato dalla disciplina transitoria, la quale si limita a rinviare (art. 1, comma 199, legge n. 228 del 2012) al solo comma 2 della stessa norma, in merito ai requisiti della domanda di ammissione del credito; e ciò appare ancor più significativo sol che si consideri «la chiara autonomia della disciplina transitoria rispetto alla disciplina a regime e vista la non irragionevolezza della diversità della prima rispetto alla seconda».

In secondo luogo, l’art. 58, comma 5, secondo periodo, d.lgs. citato non sembra riferirsi ai casi di mancata conoscenza del procedimento, posto che «il regime delle domande tardive non concerne il caso in cui la notificazione non sia stata regolarmente ricevuta, ma piuttosto la diversa situazione in cui, ricevuta la notificazione, il creditore non abbia comunque potuto presentare tempestivamente la domanda per causa a lui non imputabile».

6.3. (segue). L’itinerario decisorio prescelto dalle Sezioni Unite.

Terminata la pars destruens, la Corte, a tal punto della trattazione, passa ad edificare la pars construens.

E lo fa confrontandosi ancora una volta con la proposta esegetica dell’ordinanza di rimessione, la quale ipotizza, quale soluzione interpretativa, il richiamo, attraverso l’analogia in bonam partem, all’istituto della restituzione nel termine processuale previsto dall’art. 175 cod. proc. pen. (peraltro, puntualizzano le Sezioni Unite, nella specie non richiesta dalla ricorrente), facendo leva sul rilievo testuale che, in virtù del richiamo operato dall’art. 1, comma 200, legge n. 228 del 2012, la decisione sulle domande di ammissione dei crediti è soggetta alla procedura indicata dall’art. 666, commi 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 9, cod. proc. pen. nell’ambito di un segmento procedimentale nel quale, invero, può trovare agevolmente spazio il rimedio in esame.

In tale ottica, il termine di decadenza di 180 giorni previsto dall’art. 1, comma 199, decorrente ex lege dall’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012, ovvero dal momento successivo in cui la confisca è divenuta definitiva, ex art. 1, comma 205, opererebbe, in linea di principio, anche nel caso di omessa comunicazione delle informazioni indicate nel comma 206 da parte dell’Agenzia; il tutto, peraltro, con il correttivo della possibilità di avvalersi, alle dovute condizioni, della rimessione in termini.

La prospettata soluzione è ritenuta dal massimo consesso nomofilattico condivisibile ma sostanzialmente non esaustiva, nel senso che la stessa rappresenta una soluzione soltanto parziale: secondo l’impostazione avallata dalla Corte, invero, l’art. 175, comma 1, cod. proc. pen., quale meccanismo di ultima garanzia, presuppone che il termine per la presentazione della domanda «sia riferibile ad un momento iniziale del quale le parti siano state poste in grado di avere conoscenza (almeno formale)» e che le stesse non abbiano potuto osservare siffatto termine per caso fortuito o forza maggiore. Quindi, l’istituto della rimessione in termini non potrebbe soddisfare completamente l’esigenza di costruire il sistema della tutela dei terzi rispetto al principio “a monte” dell’effettiva conoscenza del procedimento di prevenzione ovvero del provvedimento definitivo di confisca.

Ciò posto, la sentenza in esame propone la propria ricostruzione del rapporto fra i controversi commi 199 e 206 dell’art. 1 citato, nella convinzione che essa assicuri «un equo contemperamento fra le esigenze di tutela del creditore e le esigenze di speditezza, di economia di “cassa”, di effettivo depauperamento del patrimonio del prevenuto, a cui risponde la disciplina transitoria dei commi 194 e ss. dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012».

I due capisaldi ricostruttivi sono individuati chiaramente in due affermazioni nette: da un lato, che il termine di decadenza previsto dal richiamato comma 199 decorre indipendentemente dalle comunicazioni di cui al successivo comma 206, per le ragioni superiormente evidenziate; dall’altro, che «la decorrenza di tale termine deve comunque essere ritenuta ancorata all’effettiva conoscenza, da parte del terzo, del procedimento di prevenzione in cui è stata disposta la confisca o del provvedimento definitivo di confisca».

Tale conoscenza diviene una sorta di prius logico-interpretativo, una sorta di dato “ontologico” che «deve ritenersi che il legislatore (un legislatore consapevole e rispettoso dei principi fondamentali regolanti la materia) abbia semplicemente presunto, almeno nell’impianto originario della normativa in esame, dandola come normalmente esistente, avuto riguardo alle categorie di soggetti nei cui confronti la stessa era indirizzata: creditori la cui posizione è connotata da un rapporto diretto con i beni oggetto di confisca e che, in quanto titolari di un diritto reale di garanzia sul bene, erano legittimati a partecipare al procedimento di prevenzione patrimoniale».

Dunque, l’asse portante di tutta la questione della tutela dei terzi creditori è individuato, con estrema lucidità e senza infingimenti di sorta, nella effettività della conoscenza, che la disciplina in esame dà per presupposta secondo l’id quod plerumque accidit, ma senza escludere la possibilità di superare tale “presunzione”.

A tal fine, è necessario che il creditore ipotecario, nel momento in cui formula la domanda di ammissione del credito dopo la scadenza del termine di cui al comma 199, «deduca la mancata conoscenza del procedimento di prevenzione e del provvedimento definitivo di confisca», spettando, poi, al giudice del merito verificare, sulla base degli atti e delle ulteriori informazioni acquisibili, la fondatezza di tali prospettazioni.

Non sarebbe, invece, sufficiente secondo la Corte «la mera deduzione della mancata ricezione delle comunicazioni di cui al comma 206, perché tali comunicazioni hanno una funzione esclusivamente notiziale e agevolatrice», pur non potendosi negare – se si è rettamente inteso l’argomentare della sentenza – che tale omessa comunicazione, pur da sola insufficiente, sia comunque suscettibile di essere uno degli elementi valorizzabili, assieme ad altri, per corroborare l’assunto della parte creditrice.

Inoltre, il creditore ipotecario, oltre ad assolvere agli oneri di deduzione e prova indicati, è comunque tenuto a proporre la domanda di ammissione del credito entro 180 giorni dall’avvenuta conoscenza: in tal senso, il termine fissato dal comma 199 resta applicabile – in quanto indispensabile, data la natura stessa del procedimento, ispirato a fini di speditezza e di economia, oltre che all’esigenza di garantire l’effettivo depauperamento del patrimonio del prevenuto – ma con un dies a quo diverso, per i motivi specificati, rispetto a quello coincidente con l’entrata in vigore della legge o la definitività del provvedimento di confisca.

Infine, quale meccanismo di chiusura del sistema, discendente sul piano sistematico dal generale principio contra non valentem agere non currit praescriptio, la Corte riconosce spazio all’istituto della rimessione in termini, nei limiti fissati dall’art. 175, comma 1, cod. proc. pen. 

Nella visione della Corte, l’istituto sarà destinato a trovare applicazione «nel caso in cui il terzo creditore non possa prospettare in sede di domanda di ammissione la mancata conoscenza del procedimento di prevenzione o dell’esistenza di un provvedimento definitivo di confisca» e richiede la prova, a carico dell’istante, «che, nonostante le informazioni in possesso, non ha potuto proporre domanda tempestiva per causa a lui non imputabile».

Ancora una volta, la Corte non manca di precisare che la causa non imputabile al creditore non è integrata sic et simpliciter dalla omessa o tardiva comunicazione da parte dell’Agenzia, di cui al comma 206, trattandosi di adempimento informativo costituente mera pubblicità notizia, di carattere organizzativo e con funzione meramente agevolativa dell’obbligo del creditore ex art. 1, comma 199.

Acquisita tale conclusione, non mancano le Sezioni Unite di annotare che la medesima soluzione deve trovare applicazione anche per le altre categorie dei creditori cui fa riferimento lo stesso comma 198 della legge n. 228 del 2012, ossia: a) i creditori che prima della trascrizione del sequestro di prevenzione abbiano trascritto un pignoramento sul bene o siano intervenuti, prima dell’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012, nell’esecuzione iniziata con il pignoramento trascritto prima della trascrizione del sequestro sul bene; b) i titolari di crediti da lavoro subordinato, in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 94 del 2015.

Proprio con riferimento a tale ultima categoria di creditori, è innegabile come non possa in alcun modo parlarsi di presunzione di conoscenza del procedimento e dell’eventuale confisca, per il semplice motivo che la posizione degli stessi non è caratterizzata «da un rapporto diretto con i beni oggetto del procedimento di confisca e da quella legittimazione a partecipare, già nel sistema previgente, a detto procedimento, che in qualche modo, come detto, potevano giustificare detta presunzione»: è difficilmente discutibile, del resto, che l’individuazione, da parte dell’Agenzia, degli appartenenti a tale categoria di creditori in vista della comunicazione a mezzo PEC risulti particolarmente complessa e difficoltosa.

Da ciò consegue che, qualora la domanda di tali soggetti risulti apparentemente tardiva, sarà compito in ogni caso al giudice di merito verificare se ed in quale momento sia per essi maturata la conoscenza effettiva del procedimento o del provvedimento lesivo dei loro diritti, dovendosi per converso presumere, in difetto di prova sul punto, la tempestività della domanda.

7. Conclusioni.

L’analisi che si è condotta evidenzia in modo esauriente come l’illustrata decisione delle Sezioni Unite sia sensibile all’esigenza di garantire l’effettività e la funzionalità delle diverse disposizioni contenute nei commi di cui si è trattato, in un quadro di sintesi organico e coerente, oltre che attento alle esigenze di salvaguardia degli interessi delle categorie creditorie esaminate.

In tale orizzonte interpretativo, l’adempimento dell’obbligo informativo in capo all’Agenzia non diviene, dunque, un elemento che condiziona la stessa operatività del termine per presentare la domanda di ammissione del credito (che continua, in linea di principio, a decorrere dal dies a quo stabilito dalla legge, ossia dal 1° gennaio 2013 ovvero dalla definitività del provvedimento di confisca); e tuttavia, viene fatto salvo, attraverso i meccanismi enucleati, l’imprescindibile prerequisito costituito dalla effettiva conoscenza in capo al creditore del procedimento di prevenzione o del provvedimento di confisca, così da esorcizzare le, altrimenti inevitabili, conseguenze pregiudizievoli a carico di posizioni soggettive pur tutelate da principi di rango costituzionale e sovranazionale.

Il che, come assai opportunamente sottolineano in chiusura le Sezioni Unite, è destinato a valere «non soltanto nel senso di evitare ingiustificati pregiudizi per il creditore in buona fede, danneggiato dall’omissione informativa, ma anche al fine di prevenire altrettanto ingiustificati ed irragionevoli vantaggi che potrebbero scaturire da un automatismo applicativo di segno opposto: quello che vorrebbe il terzo creditore in incolpevole ignoranza per la sola circostanza che l’Agenzia non abbia adempiuto agli obblighi informativi imposti dal richiamato comma 206 dell’art. 1».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1 civ., n. 4310 del 19/03/2012, Dell’Amico c. Fall. Mirko Menconi Marmi Srl, Rv. 622027 Sez. U civ., n. 10532 del 07/05/2013, Min. Economia Finanze ed altro c. Aspra Finance

s.p.a. ed altri, Rv. 626570 Sez. 1, n. 44267 del 24/09/2014, Italfondiario s.p.a., Rv. 260543 Sez. 6 civ., n. 21316 del 20/10/2015, Banca Italease Spa c. Fallimento GAE.TRA Spa, Rv. 637221 Sez. 1, n. 20479 del 12/02/2016, Banco Popolare soc. coop., Rv. 266891 Sez. 1, n. 36626 del 12/04/2016, Banca Monte dei Paschi di Siena, Rv. 267609 Sez. 1, n. 46185 del 19/05/2016, Italfondiario s.p.a., n.m. Sez. U, n. 39608 del 22/02/2018, Business Partner Italia s.p.a., Rv. 273660

  • confisca di beni
  • istituto di credito ipotecario
  • diritto penale

CAPITOLO IV

LA TUTELA DEI TERZI CESSIONARI DI CREDITO IPOTECARIO NELLA CONFISCA DI PREVENZIONE

(di Matilde Brancaccio )

Sommario

1 Il difficile equilibrio tra la tutela dei terzi cessionari di crediti ipotecari e le esigenze della prevenzione. - 2 Il contrasto sull’anteriorità della cessione del credito ipotecario al fine di tutela. - 3 La soluzione delle Sezioni unite n. 29847 del 31/5/2018, Island Refinancing. - 4 La buona fede del terzo cessionario di credito ipotecario. - Indice delle sentenze citate

1. Il difficile equilibrio tra la tutela dei terzi cessionari di crediti ipotecari e le esigenze della prevenzione.

Nel 2018 si è finalmente chiarito un aspetto fondamentale della delicata questione della tutela, nel procedimento di prevenzione, dei terzi cessionari di crediti ipotecari, evitando d’ora innanzi (questa è l’auspicata prospettiva) – soluzioni contrastanti, a volte addirittura nell’ambito della stessa procedura, con risultati di ammissione o non del credito calibrati diversamente sulla base dell’adesione (soprattutto nella giurisprudenza di legittimità) all’una o all’altra delle opzioni in gioco.

Due opposti orientamenti giurisprudenziali avevano, infatti, creato non pochi problemi di gestione uniforme di situazione giuridiche identiche, in un contesto dove spesso sussistono rilevanti interessi economici e giuridici in gioco.

Secondo una opzione, il terzo cessionario di un credito garantito da ipoteca su beni sottoposti a sequestro e a confisca di prevenzione gode della medesima tutela attribuita al creditore originario a condizione che risulti anche nei suoi confronti l’esistenza del requisito temporale dell’anteriorità della cessione rispetto al sequestro, quale presupposto necessario per la verifica della buona fede del cessionario.

Altra tesi, invece, aveva affermato che il riconoscimento di una situazione di affidamento incolpevole del cessionario non è precluso dal fatto che la cessione del credito sia avvenuta successivamente al sequestro; all’interno di tale indirizzo sussiste, inoltre, una ulteriore difformità fra pronunce che limitano tale conclusione al caso della cessione in blocco dei crediti ed altre, più recenti, che la estendono a tutte le fattispecie di cessione.

L’argomento si presenta caratterizzato da un “volto” non limitato alla scena interpretativa penalistica, bensì coinvolgente piani di riflessione civilistici, relativi alla successione nel credito ed al ruolo del soggetto subentrante, principalmente dal lato attivo, anche per l’ulteriore aspetto problematico cui si è già fatto riferimento: e cioè l’eventuale rilievo della modalità di cessione dei crediti “in blocco” (o “in massa” che dir si voglia), poiché, in effetti, pressochè tutte le sentenze che si esprimono in merito sono state rese in ipotesi di cessione dei crediti ex art. 58 d.lgs. n. 385 del 1993.

Come noto, tale norma del testo unico bancario prevede la possibilità di trasferire crediti “in blocco” (da parte di soggetti che esercitano professionalmente il credito) mediante una procedura di “cartolarizzazione” guidata da istruzioni appositamente emanate dalla Banca d’Italia (che in taluni casi prescrive una propria autorizzazione alla cessione), con pubblicità della cessione assicurata dalla pubblicazione dell’operazione in Gazzetta Ufficiale (che produce gli effetti indicati dall’art. 1264 cod. civ. nei confronti dei debitori ceduti), in seguito alla quale non vi è necessità di altre formalità o annotazioni affinché “i privilegi e le garanzie di qualsiasi tipo, da chiunque prestati o comunque esistenti a favore del cedente” conservino validità e il loro grado a favore del cessionario.

La questione sembrava, dunque, attinente a due differenti aspetti: se sia ammissibile o non ipotizzare che la cessione dei crediti o del credito garantito da ipoteca che avvenga successivamente alla trascrizione del provvedimento ablatorio comporti di per sé la automatica mala fede del creditore cessionario e, sostanzialmente, la perdita dei suoi diritti di credito; di conseguenza, se, una volta ammesso che il cessionario di tal fatta non sia di per sé in mala fede, abbia o meno rilievo la modalità in blocco con la quale siano stati trasferiti i crediti, ai fini della valutazione delle sue condizioni di buona fede, diligenza e affidamento incolpevole.

È evidente, dunque, come sia un sistema normativo complesso quello che deve essere preso in considerazione per la regolamentazione di tali ipotesi di rapporti creditori.

Accanto alle norme civilistiche che disciplinano il fenomeno della cessione del credito (art. 1260 cod. civ. e ss.), le disposizioni generali che rilevano nella soluzione della questione controversa sono quelle contenute nel cd. codice antimafia – il citato d.lgs. n. 159 del 2011 – che agli artt. 52 e 58 disciplina i diritti dei terzi (e le modalità del loro esercizio) in caso di confisca (e sequestro) di prevenzione, indicando, tra i presupposti affinchè questi non subiscano pregiudizio dal provvedimento ablatorio, l’anteriorità del sorgere del credito o del diritto reale di garanzia e la non strumentalità del credito all’attività illecita o a quelle che ne costituiscono il frutto o il reimpiego, sempre che il creditore dimostri la buona fede e l’inconsapevole affidamento.

La complessità della materia sta tutta proprio nel tentativo della legislazione vigente di contemperare le esigenze di tutela della collettività, legate all’intervento del sistema della prevenzione, con i diritti di coloro i quali, se in buona fede, abbiano acquisito un bene sottoposto a misura di prevenzione.

L’art. 52 cit., al comma 3, delinea i criteri di giudizio per la valutazione della buona fede del terzo.

Le disposizioni del capo II del titolo IV (artt.57 e seguenti) disciplinano, poi, l’attività di accertamento dei diritti dei terzi.

Peraltro, deve rilevarsi come l’impianto normativo del codice antimafia del 2011 abbia subito un nuovo intervento con la legge 17 ottobre 2017, n. 161, le cui rimodulazioni spaziano dalle modifiche al sistema delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, alla riforma della disciplina dell’amministrazione, gestione e destinazione dei beni, fino anche al sistema di tutela dei terzi.

Tra tutte le modifiche, deve segnalarsi che un fondamentale aspetto innovativo della riforma consiste nell’ampliamento dei destinatari delle misure di prevenzione personali e patrimoniali (art. 1) e nella modifica relativa alla garanzia di intervento nel procedimento, riconosciuta ai terzi dall’art. 23 del codice antimafia, che viene estesa (dall’art. 5 comma 7 della riforma) anche a coloro che vantino sul bene in sequestro diritti reali di garanzia, e non più solo diritti reali o personali di godimento.

In riferimento alla tutela dei terzi ed ai rapporti con le procedure concorsuali, la cui disciplina è contenuta all’interno del Titolo IV del codice antimafia, il legislatore è intervenuto a modificare numerose disposizioni, tra cui in particolare: proprio il citato art. 52 che detta le norme generali in materia; l’art. 53, sul limite della garanzia patrimoniale; l’art. 55, relativo alle azioni esecutive; l’art. 56, dedicato ai rapporti pendenti; gli artt. dal 57 al 61, volti a disciplinare l’accertamento dei diritti dei terzi; e gli artt. 63 e 64 relativi ai delicati rapporti con le procedure concorsuali. Viene, inoltre, aggiunto ex novo l’art. 54-bis, specificamente dedicato al pagamento di debiti anteriori al sequestro.

In particolare, l’art. 20 della citata legge di riforma del 2017 sembra avere esteso i parametri di estraneità all’attività illecita quale condizione di tutela del terzo creditore: mentre prima era sufficiente dimostrare la buona fede per il riconoscimento del proprio credito, in virtù del riformato art. 52, comma 1, lettera b), il terzo creditore è tenuto a provare sia la mancanza di strumentalità del credito all’attività illecita, sia la sussistenza non solo della propria buona fede, ma anche dell’inconsapevole affidamento (in tal senso viene letta la modifica della endiadi “a meno che” con quella attuale “sempre che” rispetto all’onere di dimostrare la propria buona fede ed il proprio affidamento da parte del creditore).

La lettera a) di detto primo comma ha stabilito l’accesso del creditore al piano di riparto purchè il destinatario dei provvedimenti cautelari non disponga di altri beni sui quali esercitare la garanzia patrimoniale. Il secondo comma dell’art. 52 ha poi precisato che i crediti accertati concorreranno al riparto sul valore dei beni ai quali si riferiscono, configurando una sorta di loro attribuzione “per masse distinte”.

Di rilievo pure la previsione del comma 3-bis dell’art. 52, secondo cui il decreto di rigetto della domanda di ammissione al passivo, quando riferito all’istanza presentata da un soggetto sottoposto alla vigilanza della Banca d’Italia, deve essere comunicato a quest’ultima per le opportune verifiche.

Il comma 4 dello stesso art. 52 stabilisce lo scioglimento, conseguente alla confisca definitiva dei beni, anche dei contratti aventi ad oggetto un diritto reale di garanzia.

Il novellato art. 53 precisa che i crediti per titolo anteriore al sequestro possano essere soddisfatti al netto delle spese sostenute per il procedimento di confisca, per l’amministrazione dei beni e per la procedura di accertamento dei diritti dei terzi.

È necessario, altresì, rammentare che, con la legge 24 dicembre 2012, n. 228 (commi 194-205), si è dettata una disciplina finalizzata a regolare i rapporti tra creditori ipotecari e pignoranti e Stato, con riferimento alle procedure di confisca non soggette alla disciplina del “codice delle misure di prevenzione” (d.lgs. n. 159 del 2011), entrato in vigore il 13 ottobre 2011 (come è quella oggetto della questione rimessa alle Sezioni unite, disposta nell’anno 2002).

È indubbio che l’intera disciplina legislativa così come delineata, e in particolare quella costruita dal decreto legislativo antimafia del 2011, è diretta a garantire l’effettività della misura reale e ad assicurare tutela ai terzi, evitando, nel contempo, che il proposto si avvalga di prestanomi che vantino fittiziamente diritti sui beni soggetti alla misura reale, in modo da riottenerne il controllo.

In tale prospettiva, si giustificano i requisiti che l’art. 52 cit. impone affinché il diritto del terzo sia soddisfatto pur in presenza di una misura di prevenzione patrimoniale e fra essi, in particolare, la non strumentalità del credito rispetto all’attività illecita del proposto, salva la dimostrazione dell’ignoranza del nesso di strumentalità da parte del terzo in buona fede (in tal senso, Sez. 6, n. 36690 del 30/6/2015, Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., Rv. 265606; Sez. 6, n. 55715 del 22/11/2017, Banca Popolare di Sondrio s.c.p.a, Rv. 272232; cfr. anche Sez. 1, n. 39148 del 13/4/2017, De Luca, Rv. 271190).

I criteri di giudizio per la valutazione della buona fede del terzo sono individuati, come detto, da una specifica disposizione: il terzo comma dell’art. 52 del d.lgs. n. 159 del 2011.

Le disposizioni del capo II del titolo IV (artt. 57 e seguenti) disciplinano, poi, le modalità attraverso le quali l’accertamento dei diritti dei terzi deve essere effettuato; la procedura disegna un modello che – come è stato affermato – ricalca quello dell’accertamento dei crediti e dei diritti nel passivo fallimentare (così Sez. 5, n. 1841 del 24/11/2016 – dep. 2017 –, Italfondiario s.p.a., Rv. 269123).

Il procedimento è svolto con l’ausilio di un amministratore, sotto la direzione del giudice delegato; l’amministratore forma l’elenco dei creditori e di coloro che vantano diritti reali o personali di godimento sui beni oggetto della misura di prevenzione; viene fissato un termine per la presentazione delle istanze di ammissione ed una data per l’esame delle domande proposte. Il giudice delegato forma lo stato passivo e lo rende esecutivo, con provvedimento soggetto ad opposizione avanti al tribunale.

La successiva fase distributiva, in effetti, riprende ancora lo schema delle procedure fallimentari, prevedendo la formazione di un progetto di pagamento dei crediti ad opera dell’amministratore, l’intervento del giudice delegato per eventuali modifiche e la definitiva formulazione di un piano di riparto.

Si comprende, dunque, perché una parte della recente giurisprudenza affermi che la disciplina introdotta dal legislatore, al fine di assicurare la tutela dei terzi titolari di un diritto di credito rispetto ai beni soggetti a misura di prevenzione patrimoniale, sia modellata sulla procedura fallimentare (ed in tal senso depone la stessa Relazione illustrativa e di commento al Codice delle leggi antimafia).

2. Il contrasto sull’anteriorità della cessione del credito ipotecario al fine di tutela.

Alla luce dell’inquadramento della questione poc’anzi proposto, e seguendo quella che è stata la stessa impostazione delle Sezioni unite nel 2018 (chiaramente espressa nella sentenza in commento, Sez. U, n. 29847 del 31/5/2018, Island Refinancing s.r.l., Rv. 272978), il tema decisivo, sul quale va posta in primo luogo l’attenzione è quello della collocazione temporale della cessione del credito rispetto al sequestro del bene a cui il credito afferisce — naturalmente anche nel caso in cui lo stesso sia stato adottato contestualmente alla confisca, possibile secondo i principi affermati dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 20215 del 23/02/2017, Yang Xinjao, Rv. 269589).

La sentenza del massimo collegio nomofilattico del 2018, infatti, precisa proprio in apertura – e non si può che condividere questa appagante impostazione sistematica – come l’attribuzione di tale decisività all’elemento cronologico indicato sia coerente con la struttura testuale dell’art. 52, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011, che pone il dato dell’anteriorità al sequestro quale precondizione per l’ammissione del credito, disponendo al primo periodo che la confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi, che risultino da atti aventi data certa precedente al sequestro, e i diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore a tale provvedimento; e prevedendo rispettivamente alle successive lettere a) e b)-c) e d) le ulteriori condizioni che, ai sensi del comma 2 del citato art. 52, legittimano il creditore a concorrere al riparto sul valore del bene.

La ratio della previsione di tali condizioni è stata individuata dalla Corte Costituzionale nell’ambito della decisione dichiarativa dell’illegittimità dell’art. 1, comma 198, legge n. 228 del 2012, nella parte in cui non includeva fra i creditori ipotecari, da soddisfare nei modi e limiti indicati dalla norma, i titolari di crediti da lavoro subordinato (Corte cost., sent. n. 94 del 2015).

In particolare, la necessità dell’insussistenza di altri beni idonei al soddisfacimento del credito è funzionale allo scopo di impedire che i proventi dell’attività illecita siano utilizzati per liberare altri beni nella disponibilità del proposto; la prescrizione della mancanza di strumentalità del credito all’attività illecita è funzionale all’esigenza di escludere dalla tutela i crediti scaturiti da prestazioni connesse a quella attività (con il temperamento di disciplina dato dalla possibilità, offerta al creditore, di dimostrare la propria buona fede in ordine alla strumentalità del credito, che si traduce, secondo i principi affermati sul punto dalla giurisprudenza di legittimità, nella mancanza di collusione del creditore nell’attività illecita, nell’inconsapevolezza dello stesso con riguardo a tale attività e nell’errore scusabile del predetto sulla situazione apparente del debitore: Sez. 6, n. 55715 del 22/11/2017, Banca Popolare di Sondrio s.c.p.a., Rv. 272232; Sez. 6, n. 25505 del 02/03/2017, Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., Rv. 270028; Sez. 6, n. 32524 del 16/06/2015, Banca Ragusa, Rv. 264374; Sez. 2, n. 41353 del 11/06/2015, Di Giacomo, Rv. 264655; Sez. 5, n. 6449 del 16/01/2015, Monte dei Paschi di Siena s.p.a., Rv. 262735.

Nella stessa pronuncia la Corte Costituzionale ha evidenziato la funzione specifica della previsione relativa all’anteriorità del credito, al fine di garantire la tutela del terzo nell’ambito delle procedure di prevenzione: il carattere normativo è stato dettato al fine di evitare che gli effetti della misura di prevenzione patrimoniale vengano elusi attraverso la simulazione di crediti (postumi rispetto alla misura preventiva) incidenti sul valore del bene confiscato.

Alla luce di tali premesse logico-giuridiche, la questione controversa ha avuto ad oggetto proprio lo stabilire se il requisito dell’anteriorità rispetto al provvedimento ablativo del bene, indicato dalla legge fra le condizioni per l’ammissione del credito, debba o meno connotare non solo il momento della costituzione del credito, ma anche quello della cessione dello stesso.

Sul punto, come accennato, si erano manifestati, nella giurisprudenza di legittimità, due orientamenti contrastanti.

Secondo un primo indirizzo, la posteriorità della cessione del credito rispetto al sequestro precluderebbe di per sé al cessionario l’ammissione del credito (Sez. 2, n. 38821 del 28/03/2017, Island Refinancing s.r.I., Rv. 271181; Sez. 2, n. 7694 del 11/02/2016, Italfondiario s.p.a., Rv. 266204; Sez. 2, n. 38821 del 01/07/2015, Italfondiario s.p.a., Rv. 264831; Sez. 2, n. 28839 del 03/6/2015, Italfondiario Spa, Rv. 264299; Sez. 2, n. 10770 del 29/01/2015, Island Refinancing s.r.I., Rv. 263297; Sez. 2, n. 28841 del 03/6/2015, Italfondiario s.p.a.).

La tesi sostenuta in queste pronunce fa leva in primo luogo sul dato testuale per il quale l’art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011 non prevede alcuna distinzione, fra i crediti di cui si chiede l’ammissione, in base alla natura originaria ovvero derivata degli stessi; desumendone l’intento legislativo di attribuire al creditore cessionario una tutela analoga a quella offerta al creditore originario, e quindi soggetta alle stesse condizioni, tra le quali anche quella dell’anteriorità rispetto all’apprensione del bene a cui il credito è relativo: tale condizione, riferita al momento dell’insorgenza della pretesa del creditore, per il cessionario dovrebbe aver riguardo all’atto di cessione, del quale sarebbe pertanto necessaria l’anteriorità rispetto al sequestro.

Accanto a tale analisi semantica, la tesi in esame pone sicuramente anche un dato sistematico di fondo, che ne permea l’opzione giurisprudenziale: la tendenziale preferenza per l’interesse dello Stato all’acquisizione del bene oggetto di confisca, emergente dal complesso della normativa in tema di misure di prevenzione patrimoniali e che induce ad un’interpretazione restrittiva delle condizioni che consentono il soddisfacimento dei crediti dei terzi.

Un secondo, differente indirizzo giurisprudenziale, invece, al dato letterale del citato art. 52 attribuisce un diverso significato: la norma non contempla l’ipotesi della cessione del credito, ma fa esclusivo riferimento ai crediti sorti anteriormente al sequestro, sicchè il legislatore ha voluto stabilire l’irrilevanza delle vicende successive di tali crediti e, fra esse, della loro eventuale cessione (Sez. 6, n. 39368 del 15/06/2017, Sagrantino Italy s.r.I., Rv. 271194; Sez. 6, n. 43126 del 15/06/2017, Island Refinancing s.r.I.). L’estensione del requisito dell’anteriorità al sequestro alla cessione del credito costituisce, in questa prospettiva, una non consentita analogia in malam partem (Sez. 1, n. 57848 del 23/11/2017, Italfondiario s.p.a., Rv. 271618), sottolineandosi, altresì, (Sez. 1, n. 39148 del 13/04/2017, De Luca, Rv. 271190; Sez. 6, n. 2555 del 02/03/2017, Banca Monte Dei Paschi di Siena s.p.a., Rv. 270028), la lettura integrata dei commi 1 e 3 dell’art. 52, che suggerisce l’inerenza delle finalità perseguite dal legislatore al rapporto diretto fra il creditore ed il proposto, evidentemente insussistente nell’ipotesi in cui il credito sia ceduto ad un terzo.

L’elemento testuale viene, inoltre, sviluppato anche sotto un altro profilo: la norma riferisce il requisito dell’anteriorità al credito, e non alla posizione giuridica del creditore; il che porterebbe a concludere che in tanto tale requisito possa essere attribuito anche all’atto con il quale il credito viene ceduto, in quanto la cessione determini una sostanziale novazione del credito, dando vita ad un diverso rapporto del quale debba essere verificata la costituzione in epoca anteriore o successiva al sequestro. Ma la normativa civilistica, si osserva ancora, esclude che la cessione del credito dia luogo ad una siffatta novazione dell’obbligazione, nel momento in cui prevede che il credito è trasferito al cessionario con i privilegi, le garanzie e gli altri accessori (Sez. 1, n. 39157 del 4/5/2017, Island Refinancing s.r.l.). Per effetto della cessione, si verificherebbe dunque unicamente la sostituzione al creditore originario del creditore cessionario, che si limiterebbe a subentrare nella stessa posizione giuridica del primo, comprendente, ove sussista in concreto, l’anteriorità del credito al sequestro (Sez. 5, n. 1841 del 24/11/2016, dep. 2017, Italfondiario S.p.a., Rv. 269123).

Infine, quale argomento di chiusura sistematica, al riferimento dell’indirizzo giurisprudenziale opposto al preminente interesse dello Stato all’acquisizione del bene confiscato, la tesi in esame contrappone l’analoga considerazione dell’ordinamento per la tutela dei diritti del terzo pregiudicati.

3. La soluzione delle Sezioni unite n. 29847 del 31/5/2018, Island Refinancing.

Le Sezioni unite ritengono condivisibile il secondo dei due orientamenti illustrati al paragrafo precedente: la condizione dell’anteriorità rispetto al sequestro del bene oggetto di confisca, ai fini dell’ammissione al riparto del credito assistito da garanzia sul bene confiscato, è prevista per la costituzione del credito e non anche per l’eventuale cessione dello stesso.

A tale conclusione le Sezioni unite giungono ponendo coerentemente in analisi una serie di elementi indiscutibili, tuttavia soltanto dopo aver escluso il rilievo decisivo di due degli argomenti forti delle opzioni giurisprudenziali in contrasto:

- il dato lessicale e testuale negativo, consistente nella constatazione della mancata considerazione dell’ipotesi della cessione del credito nell’art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011, non è di per sé indicativo, secondo le Sezioni unite, della correttezza né dell’una né dell’altra delle due tesi contrapposte;

- egualmente, il richiamo alla tendenziale preferenza dell’ordinamento per l’interesse dello Stato all’acquisizione dei beni confiscati ovvero alla tutela delle posizioni creditorie dei terzi non è dirimente: le Sezioni unite non attribuiscono rilievo prevalente né all’una né all’altra delle due esigenze di fondo richiamate da ciascuna delle due tesi in contrasto.

Ed invece, secondo il massimo collegio nomofilattico, ha valore significativo l’osservazione – presente in parte dell’indirizzo giurisprudenziale orientato nel senso prescelto – del dato normativo dell’art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011, disposizione che appare testualmente riferita al credito, oggettivamente considerato, e non alla posizione creditoria del terzo: l’anteriorità rispetto al sequestro è in effetti menzionata al comma primo quale attributo del diritto di credito e al credito sono associate le ulteriori condizioni dell’impossibilità di soddisfacimento su beni diversi da quelli confiscati (lett. a dell’art. 52), e dell’assenza di strumentalità all’attività illecita (lett. b).

Le Sezioni unite, per ritenere ininfluente l’eventuale cessione del credito rispetto alla sussistenza o meno delle condizioni per l’ammissibilità del credito, insistono, oltre che su questi aspetti, anche sul dato testuale del comma 1 dell’art. 52 cit.

In tale disposizione, il requisito dell’anteriorità è specificamente previsto anche con riguardo ai diritti reali di garanzia e, a questi fini, i diritti tutelati sono indicati in quelli «costituiti in epoca anteriore al sequestro», con inequivoco riferimento al termine di valutazione dell’anteriorità rispetto al sequestro espressamente indicato nel momento della costituzione del diritto reale collegato al credito.

Sicchè, in presenza di questa chiara espressione normativa, l’attribuzione della condizione dell’anteriorità anche alla successiva eventuale cessione del credito presupporrebbe un’interpretazione estensiva, o addirittura analogica come rilevato in talune pronunce di legittimità, tale da richiedere ulteriori elementi indicativi dell’assimilabilità della cessione del credito alla costituzione dello stesso; laddove, invece, secondo la stessa ricostruzione della sentenza, che apre un’ampia parentesi di ordine interpretativo civilistico, la cessione del credito non è assimilabile ad un fenomeno costitutivo del credito stesso e dei diritti reali di garanzia ad esso associati, in quanto la cessione non integra alcuna novazione del rapporto obbligatorio ceduto.

Richiamando i principi affermati dalla Corte di cassazione in sede civile, le Sezioni unite concordano nel ritenere che la cessione del credito ha efficacia meramente derivativa (Sez. 5 civ., n. 9842 del 20/04/2018, Rv. 648359), e non novativa o sostitutiva dell’obbligazione; ad essere sostituito è solo il creditore originario, al quale il cessionario subentra nella stessa posizione giuridica (Sez. 3 civ., n. 20548 del 20/10/2004, Rv. 577782). Al creditore cessionario vengono trasferiti, quindi, le garanzie reali e tutti gli accessori del credito ed egli subentra nella stessa posizione giuridica del cedente, assumendo la titolarità del credito anche nella possibilità di far valere le condizioni, a quel credito afferenti, per l’ammissione dello stesso al riparto in caso di confisca del bene oggetto del diritto di garanzia associato al credito.

Tra tali condizioni rientra l’anteriorità della costituzione originaria del credito rispetto al sequestro del bene, che, ove sussistente, permane in capo al cessionario anche laddove lo stesso abbia acquisito il credito successivamente al sequestro.

La soluzione trova ulteriore sostegno, secondo la sentenza delle Sezioni unite, nella sua conformità alla ratio della previsione normativa della necessaria anteriorità del credito al sequestro, individuata dalla Corte Costituzionale, nella citata sentenza n. 94 del 2015, nella finalità di impedire l’elusione degli effetti della misura di prevenzione reale con la simulazione di crediti gravanti sul bene confiscato: è evidente, infatti, come la cessione di un credito effettivamente esistente sia estranea ad un fenomeno simulatorio riguardante la stessa sussistenza del credito.

4. La buona fede del terzo cessionario di credito ipotecario.

La sentenza Island Refinancing s.r.l. risolve anche l’ulteriore questione, connessa a quella principale della non necessità che il requisito dell’anteriorità si riferisca alla cessione del credito, relativa all’incidenza sulla buona fede del creditore della posteriorità della cessione rispetto al sequestro.

La buona fede costituisce una condizione di ammissibilità del credito diversa ed ulteriore rispetto a quella dell’anteriorità al sequestro e, nell’ottica dell’art. 52, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011 ha ad oggetto l’assenza di strumentalità del credito rispetto all’attività illecita del proposto o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego e in quanto tale può sicuramente ricorrere anche laddove il bene sia successivamente sottoposto a sequestro.

Per questa ragione, nel caso in cui il credito sia ceduto in epoca posteriore alla trascrizione del sequestro, il creditore cessionario può comunque avvalersi, per quanto detto in precedenza, della condizione di buona fede sussistente in capo al creditore originario, al quale è subentrato nella stessa posizione; ed è pertanto irrilevante nei suoi confronti la possibilità che egli sia o possa essere a conoscenza, al momento dell’acquisto del credito, di un vincolo che non gli impedisce il soddisfacimento del credito per effetto di quella condizione.

Ecco perché al quesito proposto alle Sezioni unite deve darsi risposta negativa non soltanto quanto alla riferibilità del requisito dell’anteriorità alla cessione successiva del credito, ma anche sotto il profilo della prospettata esclusione della buona fede del creditore cessionario per il solo fatto che il credito sia stato ceduto successivamente alla trascrizione del sequestro del bene, circostanza del tutto irrilevante ai fini della verifica di buona fede.

Ed infatti, traendo logica conseguenza dalla ricostruzione dei rapporti fra il creditore originario ed il creditore cessionario in termini di successione di quest’ultimo nella stessa posizione creditoria del primo, le Sezioni unite affermano che, oltre al presupposto dell’anteriorità al sequestro, anche la condizione della buona fede del creditore sull’assenza di strumentalità all’attività illecita deve sussistere all’epoca della costituzione del credito e in capo al creditore originario.

Tale conclusione, che si dichiara indiscussa nel dibattito giurisprudenziale, comporta che il creditore cessionario è chiamato fra l’altro a provare, ai fini dell’ammissione del credito, la sussistenza originaria del requisito della buona fede nei termini appena indicati, oltre alla buona fede propria sotto il profilo, segnalato dalla giurisprudenza di legittimità, della mancanza di accordi fraudolenti con il proposto (Sez. 1, n. 57848 del 23/11/2017, Italfondiario s.p.a., Rv. 271618).

In questa prospettiva, le Sezioni unite rilevano che ai fini di tale prova non è decisiva la circostanza per la quale il credito sia stato acquisito nell’ambito di un’operazione di acquisto di crediti in blocco, conformemente a quanto previsto dall’art. 58 d.lgs. n. 385 del 1993.

Tale disposizione prevede, infatti, unicamente una particolare modalità di cessione del credito che non esime il cessionario dagli oneri di verifica sulla originaria sussistenza dei requisiti di ammissibilità dei crediti, il cui adempimento dovrà pertanto essere comunque dimostrato, non potendo in particolare il cessionario affidare la prova della buona fede al mero richiamo a tale particolare forma di acquisizione del credito.

Ecco, dunque, le ragione in base alle quali le Sezioni unite affermano che, in tema di misure di prevenzione patrimoniali, la cessione di un credito ipotecario, precedentemente insorto, successiva alla trascrizione di un provvedimento di sequestro o di confisca del bene sottoposto a garanzia, non preclude di per sè l’ammissibilità della ragione creditoria, nè determina automaticamente uno stato di mala fede in capo al terzo cessionario del credito, potendo quest’ultimo dimostrare la propria buona fede.

Ad ulteriore chiarimento delle complesse questioni in gioco, la Corte ha precisato che l’acquisto del credito “in blocco”, ai sensi dell’art. 58, d.lgs. n. 385 del 1993, non è circostanza decisiva ai fini della prova della buona fede, costituendo una semplice modalità di cessione del credito che non esime il cessionario dagli oneri di verifica relativi alla originaria sussistenza dei requisiti di ammissibilità.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 2, n. 38821 del 01/07/2015, Italfondiario s.p.a., Rv. 264831 Sez. 2, n. 28839 del 03/6/2015, Italfondiario Spa, Rv. 264299 Sez. 2, n. 10770 del 29/01/2015, Island Refinancing s.r.l., Rv. 263297 Sez. 2, n. 28841 del 03/6/2015, Italfondiario s.p.a. Sez. 6, n. 32524 del 16/06/2015, Banca Ragusa, Rv. 264374 Sez. 2, n. 41353 del 11/06/2015, Di Giacomo, Rv. 264655 Sez. 5, n. 6449 del 16/01/2015, Monte dei Paschi di Siena s.p.a., Rv. 262735 Sez. 6, n. 36690 del 30/6/2015, Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., Rv. 265606 Sez. 2, n. 7694 del 11/02/2016, Italfondiario s.p.a., Rv. 266204 Sez. 5, n. 1841 del 24/11/2016 – dep. 2017 –, Italfondiario S.p.a., Rv. 269123 Sez. 5, n. 1841 del 24/11/2016 – dep. 2017 –, Italfondiario s.p.a., Rv. 269123 Sez. 6, n. 55715 del 22/11/2017, Banca Popolare di Sondrio s.c.p.a, Rv. 272232 Sez. 1, n. 39148 del 13/4/2017, De Luca, Rv. 271190 Sez. U, n. 20215 del 23/02/2017, Yang Xinjao, Rv. 269589 Sez. 6, n. 55715 del 22/11/2017, Banca Popolare di Sondrio s.c.p.a., Rv. 272232 Sez. 6, n. 25505 del 02/03/2017, Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., Rv. 270028 Sez. 2, n. 38821 del 28/03/2017, Island Refinancing s.r.l., Rv. 271181 Sez. 6, n. 39368 del 15/06/2017, Sagrantino Italy s.r.l., Rv. 271194 Sez. 6, n. 43126 del 15/06/2017, Island Refinancing s.r.l. Sez. 1, n. 57848 del 23/11/2017, Italfondiario s.p.a., Rv. 271618 Sez. 1, n. 39148 del 13/04/2017, De Luca, Rv. 271190 Sez. 6, n. 2555 del 02/03/2017, Banca Monte Dei Paschi di Siena s.p.a., Rv. 270028 Sez. 1, n. 39157 del 4/5/2017, Island Refinancing s.r.l. Sez. 1, n. 57848 del 23/11/2017, Italfondiario s.p.a., Rv. 271618 Sez. U, n. 29847 del 31/5/2018, Island Refinancing s.r.l., Rv. 272978 Sez. 5 civ., n. 9842 del 20/04/2018, Rv. 648359

PARTE TERZA LA CRIMINALITÀ ECONOMICA --- SEZIONE I - I REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

  • pubblico ufficiale
  • diritto penale

CAPITOLO I

LE QUALIFICHE SOGGETTIVE

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 La concezione funzionale-oggettiva delle nozioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio. - 2 La funzione legislativa in relazione all’attività del membro del Parlamento diversa da quella di stretta partecipazione alla formazione di atti aventi forza di legge. - 3 La funzione giudiziaria. - 4 Le questioni controverse in relazione alla funzione pubblica: la privatizzazione del-l’Ente Poste e l’attività di raccolta del risparmio. - 4.1 L’addetto al servizio postale. - 4.2 2.Il “controllore” dell’azienda di trasporto pubblico urbano. - 5 Gli addetti alla riscossione di tributi per conto della P.A. - 6 Il “general contractor”. - Indice delle sentenze citate

1. La concezione funzionale-oggettiva delle nozioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio.

Con la riformulazione degli artt. 357 e 358 cod. pen. ad opera della legge 26 aprile 1990, n. 86, è stato definitivamente positivizzato il superamento della concezione soggettiva delle nozioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio, che privilegiava il rapporto di dipendenza dallo Stato o da altro ente pubblico, con l’adozione di una prospettiva funzionale-oggettiva, secondo il criterio della disciplina pubblicistica dell’attività svolta e del suo contenuto.

Ciò che conta, infatti, ai fini dell’assunzione della qualifica di pubblico ufficiale è l’esercizio di una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Tale ultima funzione è stata specificamente definita al secondo comma dell’art. 357 cod. pen., introdotto dalla legge 7 febbraio 1992, n. 181, attraverso specifici indici di carattere oggettivo che consentono di delimitare la funzione pubblica, verso l’esterno, da quella privata e, verso l’interno, dalla nozione di pubblico servizio. Si definisce, infatti, pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico (Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, definisce tali quelle attinenti all’organizzazione generale dello Stato) e da atti autoritativi e caratterizzata, nell’oggetto, dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o, nelle modalità di esercizio, dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi (Sez. U, n. 7958 del 27/03/1992, Delogu). Come emerge dall’impiego nel testo della norma della disgiuntiva “o”, in luogo della congiunzione “e”, i suddetti criteri normativi di identificazione della pubblica funzione non sono tra loro cumulativi, ma alternativi. È stato, inoltre, precisato che nel concetto di poteri “autoritativi” rientrano non soltanto i poteri coercitivi, ma tutte quelle attività che sono esplicazione di un potere pubblico discrezionale nei confronti di un soggetto che viene a trovarsi così su un piano non paritetico – di diritto privato – rispetto all’autorità che tale potere esercita; rientrano, invece, nel concetto di “poteri certificativi” tutte quelle attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria, quale che ne sia il grado (Sez. U, Delogu).

La giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, attribuito rilevanza anche all’esercizio di fatto della pubblica funzione, purchè questo non sia usurpato, ma accompagnato dall’acquiescenza, dalla tolleranza o dal consenso, anche tacito, dell’amministrazione (Sez. 6, n. 19217 del 13/01/2017, Como, Rv. 270151). Non occorre, dunque, un’investitura formale se vi è, comunque, la prova che al soggetto sono state affidate effettivamente delle pubbliche funzioni. (In senso conforme, si veda anche Sez. 6, n. 34086 del 26/07/2013, Bessone, Rv. 257035 con riferimento all’assunzione della qualifica di incaricato di pubblico servizio del soggetto che, di fatto, svolge delle attività diverse da quelle inerenti alle mansioni istituzionalmente affidategli).

L’attività dell’incaricato di pubblico servizio, secondo la definizione contenuta al successivo art. 358 cod. pen., è ugualmente disciplinata da norme di diritto pubblico, ma presenta due requisiti negativi in quanto manca dei poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione, con la quale è in rapporto di accessorietà e complementarietà, e non ricomprende le attività che si risolvono nello svolgimento di mansioni di ordine o in prestazioni d’opera meramente materiale. Si tratta, dunque, di un un’attività di carattere intellettivo, caratterizzata, quanto al contenuto, dallo svolgimento di compiti di rango intermedio tra le pubbliche funzioni e le mansioni di ordine o materiale.

Quale diretta conseguenza del criterio oggettivo-funzionale adottato dal legislatore, la qualifica pubblicistica dell’attività prescinde dalla natura dell’ente in cui è inserito il soggetto o dal suo operare o meno in regime di monopolio. La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, da tempo affermato che anche i soggetti inseriti nella struttura organizzativa di una società per azioni possono essere qualificati come pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, quando l’attività della società sia disciplinata da norme di diritto pubblico e persegua delle finalità pubbliche sia pure con strumenti privatistici (da ultimo, Sez. 6, n. 19484 del 23/01/2018, Bellinazzo, Rv. 273781).

Quanto alla possibile rilevanza dell’errore sulla qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, Sez. 6, n. 9473 del 13/01/2017 S., Rv. 269131 ha affermato che la definizione codicistica, di cui rispettivamente agli artt. 357 e 358 cod. pen., richiama con rinvio ricettizio le norme extrapenali che determinano la natura pubblica della funzione o del servizio e, pertanto, il contenuto di quelle definizioni, così ampiamente inteso, acquista natura di norma penale non solo perché i predetti articoli sono inseriti nel codice penale, ma soprattutto perchè la qualità del soggetto ivi contemplata deve intendersi richiamata in ogni precetto di natura penale che prevede la figura di pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio quale soggetto attivo o passivo del reato. Pertanto, coerentemente con i principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità successivamente alla sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988 (per tutte, Sez. U, 8154 del 10/06/1994, Calzetta, Rv. 197885), la Corte ha escluso che l’errore sulla qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, derivante da ignoranza o falsa interpretazione della legge, possa scusare l’agente, risolvendosi in errore sulla legge penale, potendosi ravvisare una condizione di ignoranza inevitabile solo nel caso in cui l’interessato abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza al c.d. “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia (nella fattispecie, il ricorrente aveva invocato l’errore sulla qualità di pubblico ufficiale assunta con l’incarico di tutore della sorella, in considerazione della sua limitata alfabetizzazione e delle generiche indicazioni impartite dal Giudice tutelare).

2. La funzione legislativa in relazione all’attività del membro del Parlamento diversa da quella di stretta partecipazione alla formazione di atti aventi forza di legge.

Nel nostro ordinamento si ritengono investiti della funzione legislativa i parlamentari e i consiglieri regionali (M. Gambardella, sub. art. 257, in Codice Penale, Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, a cura di G. Lattanzi – E. Lupo, Giuffrè, 2015, 1073). Detta funzione è tradizionalmente riferita a tutte le attività strettamente correlate al procedimento di formazione degli atti aventi forza di legge.

Si è, tuttavia, posta la questione della riconducibilità a tale funzione delle attività diverse da quella strettamente legislativa. Una soluzione positiva è stata offerta da Sez. 6, n. 40347 del 02/07/2018, Berlusconi, Rv. 273790. La Corte ha affrontato tale tema, partendo da una nozione della funzione legislativa, comprensiva non solo dell’attività di partecipazione, nelle forme tipiche disciplinate dalla Costituzione e dai regolamenti parlamentari, al procedimento di formazione delle leggi, ma anche allo svolgimento delle ulteriori funzioni parlamentari che possono esercitarsi, sempre nel rispetto dei regolamenti e delle disposizioni di legge, sul versante delle funzioni di indirizzo politico, di ispezione e controllo, di impulso e di garanzia. La Corte ha, inoltre, escluso che da tale interpretazione possa derivare un inquadramento del parlamentare quale pubblico ufficiale in servizio permanente effettivo, occorrendo che venga, comunque, in evidenza l’esercizio delle funzioni.

Ad avviso della Corte, infatti, le varie funzioni parlamentari ineriscono, comunque, alla manifestazione di volontà che è del Parlamento o della singola Camera, come nel caso della nomina del presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali o dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura o del voto di fiducia (in senso conforme, con riferimento all’attività delle commissioni parlamentari di inchiesta, ex art. 82 Cost., Sez. U, n. 4 del 12/03/1983, Savina, Rv. 162719, ha affermato che il potere di inchiesta è strettamente correlato a quello legislativo, trattandosi dello stesso potere che, per fini pratici, non è esercitato dalla Camera nella sua ordinaria composizione. Dette commissioni sono, dunque, espressioni di un potere che si identifica con quello istituzionale e primario delle assemblee legislative, posto che l’inchiesta, cui inerisce l’attività delle anzidette commissioni, consiste nella esplicazione di un’attività informativa e propedeutica all’esercizio della legislazione, ossia si risolve in un mezzo diretto a porre la Camera in condizione di verificare la opportunità di far luogo ad una determinata produzione normativa).

In altro precedente arresto della Sesta sezione, n. 36769 del 06/06/2017, Volontè, Rv. 270439 la Corte, pronunciandosi in relazione all’attività posta in essere dal membro del Parlamento quale rappresentante italiano dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, ha affermato che la nozione di funzione legislativa non può essere circoscritta alla sola attività di produzione normativa in senso stretto, ma appare predicabile, come espressione di sintesi, a tutte le attività tipicamente e storicamente connesse all’attività dei membri del Parlamento (nella fattispecie, la Corte ha ritenuto che l’attività del Rappresentante italiano è qualificabile a norma degli artt. 357 e 358 cd. pen. come attività svolta da un pubblico ufficiale o, quanto meno, da un incaricato di pubblico servizio soprattutto in considerazione della stretta compenetrazione tra tale funzione e quella di membro del Parlamento italiano).

3. La funzione giudiziaria.

La legge 7 febbraio 1992, n. 181, ha modificato l’art. 357, comma 1, cod. pen. sostituendo l’originario sintagma “funzione giurisdizionale” con quello di “funzione giudiziaria”. In dottrina, si è affermato che in tal modo il legislatore ha inteso superare ogni incertezza in merito alla sussumibilità in tale ambito, oltre che dell’attività svolta dai giudici ordinari, amministrativi ed onorari, anche dell’attività del pubblico ministero (M. Gambardella, cit., 1079).

La giurisprudenza di legittimità ha adottato un’interpretazione in senso ampio di tale nozione qualificando come pubblici ufficiali anche i soggetti che svolgono una funzione ausiliaria o di collaborazione con l’attività del giudice o del pubblico ministero.

Nell’anno in corso, Sez. 6, n. 39280 del 30/05/2018, Corrotto, Rv. 273682 ha affermato che, mentre il testimone assume la veste di pubblico ufficiale sin dal momento della sua citazione ed anche successivamente alla sua audizione, sino alla definizione del processo, la persona informata sui fatti non assume tale qualifica in quanto il suo contributo conoscitivo si colloca nella fase delle indagini preliminari e, dunque, in un momento in cui è ancora fluida l’acquisizione del materiale probatorio che si ignora se condurrà o meno al rinvio a giudizio dell’indagato (in senso conforme, quanto alla qualifica del testimone, Sez. 6, n. 25150 del 03/04/2013, Testa, Rv. 256809). Ciò in quanto il testimone contribuisce con la propria deposizione alla formazione del convincimento del giudice per cui occorre tutelarne la libertà di disporre e la sincerità delle dichiarazioni sin dall’emissione del provvedimento di ammissione della prova e, comunque, dalla citazione del soggetto indicato.

Tale ampia nozione della funzione giudiziaria risulta pienamente coerente con la stessa nozione di “atto giudiziario” elaborata dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al delitto di cui all’art. 319-ter cod. pen. con riferimento al suo rapporto di funzionalità rispetto al procedimento giudiziario, cosicché sono state ricomprese in detta funzione sia la deposizione testimoniale resa nell’ambito di un processo penale (Sez. 6, n. 29400 del 17/05/2018, R., Rv. 273620), sia l’atto del funzionario di cancelleria, collocato nella struttura dell’ufficio giudiziario, che esercita un potere idoneo ad incidere sul suo concreto funzionamento e sull’esito dei procedimenti (Sez. 6, n. 19496 del 21/02/2018, Cante, Rv. 273278, relativa alla condanna di alcuni cancellieri di Corte di appello i quali, dietro compenso in denaro: 1) manipolavano i criteri di assegnazione dei procedimenti e facevano assegnare un determinato procedimento ad una sezione della Corte; 2) occultavano il relativo fascicolo in modo da impedire al presidente di fissare l’udienza, e le successive notifiche, determinando, così, dei rinvii del processo al fine di far maturare il termine di prescrizione; 3) ritardavano la trasmissione degli atti alla Corte di cassazione in modo da assicurare al privato corruttore di poter scontare la pena, prima, in regime di arresti domiciliari e, poi, di detenzione domiciliare).

4. Le questioni controverse in relazione alla funzione pubblica: la privatizzazione del-l’Ente Poste e l’attività di raccolta del risparmio.

La trasformazione dell’assetto giuridico ed amministrativo dell’Amministrazione delle Poste, divenuta prima ente pubblico economico e poi società per azioni, ha posto all’attenzione dei giudici di legittimità la delicata questione relativa alla determinazione dello statuto penale degli addetti al servizio di raccolta del risparmio.

Prima di esaminare i diversi orientamenti emersi nella giurisprudenza di legittimità in merito alla natura di tale servizio, è opportuno ricostruire i principali passaggi normativi di tale trasformazione:

- con il d.l. 1 dicembre 1993, n. 487, conv. con modificazioni nella legge 29 gennaio 1994, n. 71, fu disposta la trasformazione dell’Amministrazione postale in ente pubblico economico e, successivamente, con delibera del CIPE del 18 dicembre 1997 in società per azioni. In particolare, l’art. 2 del d.l. cit. stabiliva che fino all’adozione dello statuto e del contratto di programma continuavano ad essere espletati tutte le attività e i servizi già di pertinenza dell’Amministrazione postale, mentre l’art. 10 manteneva al Ministero delle Poste pregnanti poteri di indirizzo, coordinamento, vigilanza e controllo.

- Nel successivo contratto di programma stipulato nel gennaio 1995 fra il Ministro delle Poste e il nuovo Ente Poste Italiane è stata introdotta una distinzione delle attività e dei servizi svolti da quest’ultimo in universali riservati, universali non riservati e non universali e non riservati (da esercitare in regime di libera concorrenza). Fra i servizi universali (da garantire cioè necessariamente su tutto il territorio nazionale) non riservati, come sottolineato da Sez. 6, n. 20118 del 08/03/2001, Di Bartolo, vengono ricompresi anche quelli di raccolta del risparmio postale in nome e per conto della Cassa depositi e prestiti.

- L’art. 2, comma 19, legge 23 dicembre 1996, n. 662 ha stabilito che per i “servizi postali e di pagamento” non riservati al monopolio legale si segue il regime della libera concorrenza, ed ha imposto la contabilità separata fra i servizi in regime di monopolio legale e quelli in regime di concorrenza.

- La legge 27 dicembre 1997, n. 447 ha collegato espressamente la raccolta del “risparmio postale” con la finalità di “generare un utile per il servizio coerente con le regole del mercato” (art. 53, comma 5).

- L’art. 40, comma 4, legge 23 dicembre 1998, n. 448 ha autorizzato il Governo ad emanare apposito provvedimento di modifica del T.U. in materia postale, di bancoposta e delle telecomunicazioni, approvato con d.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, volto ad assicurare la prestazione di un servizio postale universale con prezzi accessibili a tutti gli utenti, la determinazione dei servizi oggetto di riserva e la revoca delle concessioni di cui all’art. 29 del citato testo unico, e a definire le modalità di applicazione ai servizi di bancoposta della normativa di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (testo unico sull’intermediazione finanziaria), “fatti salvi i principi normativi che governano il risparmio postale nelle sue peculiari caratteristiche”.

- Il d.lgs. 22 luglio 1999, n. 261, di attuazione della direttiva 97/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio, oltre a mantenere la distinzione tra servizi universali riservati e universali non riservati e l’obbligo di contabilità separata (artt. 3, 4 e 7), definisce espressamente quali incaricati di pubblico servizio, ai sensi dell’art. 358 del codice penale, le persone addette ai servizi postali “da chiunque gestiti” (art. 18).

- Inoltre, l’art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. 30 luglio 1999, n. 284, relativo al riordino della Cassa depositi e prestiti, ha espressamente previsto quali risorse utilizzabili per l’esercizio delle sue funzioni “i fondi rimborsabili sotto forma di libretti di risparmio postale, buoni fruttiferi postali e di altri prodotti finanziari, assistiti dalla garanzia dello Stato”. Il successivo terzo comma prevede, inoltre, che Cassa depositi e prestiti si avvale di Poste Italiane S.p.A. per la raccolta del risparmio attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi; può, inoltre, avvalersi di banche, di intermediari vigilati e di imprese di collocamento degli altri prodotti finanziari, emessi dalla Cassa stessa, di cui al comma 1, lett. b).

Ebbene, secondo Sez. 6, n. 20118 del 08/03/2001, Di Bartolo, Rv. 218903 tali misure di snellimento, razionalizzazione e liberalizzazione non hanno determinato la sottrazione al regime pubblicistico non solo dei servizi postali propriamente detti, ma neppure dei servizi non riservati, come quelli relativi alla raccolta del risparmio attraverso i libretti di risparmio postale ed i buoni postali fruttiferi. Quale diretta conseguenza di tale principio, la Corte ha, dunque, qualificato come pubblico ufficiale l’addetto alla contabilità nel servizio di raccolta del risparmio (cosiddetto bancoposta), in considerazione dei poteri certificatori esercitati.

A tale principio hanno dato continuità successivi arresti della Corte (Sez. 6, n. 36007 del 15/06/2004, Perrone, Rv. 229758; Sez. 6, n. 33610 del 21/06/2010, Serva, Rv. 248271; Sez. 5, n. 31660 del 13/02/2015, Barone, Rv. 265290) che, proprio in considerazione della natura pubblicistica dei servizi non riservati, quale quello di raccolta del risparmio, hanno riconosciuto la qualità di incaricato di pubblico servizio all’addetto all’attività contabile in tale settore.

In particolare, la sentenza Serva ha affermato che la disciplina della raccolta del risparmio postale in nome e per conto del Ministero dell’economia e finanze e della Cassa depositi e prestiti non ha subito mutamenti per effetto della successiva trasformazione di quest’ultima in società per azioni (d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con modificazioni nella legge 24 novembre 2003, n. 326) nonché del d.m. di attuazione emesso il 5 dicembre 2003 dal Ministero dell’economia e Finanze che ha disciplinato la sorte dei rapporti in essere alla data di trasformazione della Cassa depositi e prestiti in società per azioni. In particolare, ai sensi dell’art. 3, comma 4, del citato d.m, il Ministero dell’economia e delle finanze è subentrato alla Cassa depositi e prestiti, nei rapporti derivanti, tra l’altro, dai buoni fruttiferi postali di cui all’allegato 2 e dal servizio dei conti correnti postali istituiti ai sensi del decreto luogotenenziale 22 novembre 1945, n. 822 (art. 3, comma 4); la C.D.P. S.p.a. è, invece, subentrata nei rapporti derivanti, tra gli altri, dai libretti di risparmio postale e dai buoni fruttiferi postali indicati nell’allegato 4 (art. 5).

In posizione di consapevole contrasto con l’orientamento sopra analizzato si pongono due arresti della Sesta sezione n. 18457 del 30/10/2014, Romano, Rv. 263359 e n. 10124 del 21/10/2014, De Vito, Rv. 262746 che hanno escluso la natura pubblica del servizio di bancoposta. In particolare, la sentenza Romano ha criticato le argomentazioni poste a fondamento dell’opposto orientamento sulla base delle seguenti considerazioni: 1) l’esclusione di un rapporto di immedesimazione organica/rappresentanza in forza del quale Poste S.p.a., nell’attività di raccolta del risparmio, agisce, oltre che “per conto”, anche in nome del Ministero dell’Economia e della Cassa depositi e prestiti; 2) l’analisi della disciplina in merito all’attribuzione della qualità pubblica che, mentre dall’art. 1 d.P.R. n. 156 del 1973 (testo unico delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni, modificato dal d.lgs. 259/2003 solo attraverso l’eliminazione del riferimento alle telecomunicazioni), è riconosciuta agli addetti ai servizi postali e di bancoposta (qualificati, secondo la natura della funzione svolta, come pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio), viene, invece, riconosciuta dal successivo art. 18 del d.lgs. 22 luglio 1999, n. 261 alle persone addette ai servizi postali (qualificati come incaricati di pubblico servizio) senza alcun riferimento all’addetto ai servizi bancari; 3) l’oggetto del contratto di programma del 21 settembre 2000 tra il Ministero delle comunicazioni e Poste Italiane relativo ai soli servizi postali. 4) L’analisi della disciplina del servizio bancoposta, contenuta nel d.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, che, tra l’altro, rinvia, per quanto non previsto dal decreto, alle disposizioni contenute nelle leggi civili per la disciplina dei rapporti con la clientela del conto corrente postale e non contiene alcuna disposizione che preveda, o lasci intendere, che l’ente Poste abbia condizioni di esercizio diverse da quelle ordinarie delle banche nello svolgimento dell’attività di tipo bancario che, di per sé, è un’attività privata. Ad avviso della Corte, la natura pubblica del servizio bancoposta non può, infine, essere desunta dal rapporto tra Cassa depositi e prestiti e Poste atteso che: a) C.D.P. può avvalersi, oltre che di Poste Italiane S.p.a., anche di altre banche, intermediari finanziari vigilati e imprese di investimento per il collocamento degli altri prodotti finanziari emessi dalla Cassa stessa, di cui al comma 1, lett. b) (art. 2, d.lgs. 30 luglio 1999, n. 284); b) nessuna disposizione del citato d.lgs. consente di affermare che Poste, in ragione del rapporto con CDP, opera secondo regole diverse rispetto alle banche comuni; c) la circostanza che il capitale di Poste possa fare capo a C.D.P. non è rilevante, non essendo gestito in modo diverso da qualsiasi capitale investito dall’azionista di una banca. Sulla base di tali argomentazioni la Corte conclude, dunque, qualificando l’attività di bancoposta quale attività di tipo privatistico rientrante nell’ambito delle comuni attività bancarie in cui la rigida separazione della contabilità impedisce la commistione di fondi delle attività bancarie e postali. Da ciò consegue che il dipendente addetto alle attività di bancoposta non riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio cosicché l’appropriazione delle somme dei risparmiatori commessa con abuso del ruolo integra il reato di appropriazione indebita e non quella di peculato.

In una posizione intermedia tra i due orientamenti si colloca, infine, Sez. 6, n. 10875 del 23/11/2016, Carloni, Rv. 272079 (cui ha dato continuità Sez. 6, n. 14227 del 13/01/2017, Spataro, Rv. 269481) secondo cui la natura pubblicistica può essere riconosciuta non a tutte le attività del servizio bancoposta ma solo alla raccolta del risparmio postale di cui all’art. 2, comma 1, lett. b), d.P.R. 14 marzo 2001, n. 144 e successive modifiche.

Osserva, infatti, la Corte che tale norma distingue chiaramente la “raccolta del risparmio postale” dall’ordinaria raccolta del risparmio tra il pubblico, menzionata alla lett. a), normativamente assimilata agli ordinari servizi bancari e finanziari e, in quanto tale, sottoposta alla generale disciplina del testo unico bancario (TUB) e del testo unico finanza (TUF), per la cui applicazione Poste è equiparata alle banche italiane (art. 2, commi 3, 4 e 5, d.P.R. n. 144 del 2001). Ai sensi del successivo art. 2, comma 6, l’attività di raccolta del risparmio postale resta, invece, disciplinata dal d.l. 1 dicembre 1993, n. 487, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 gennaio 1994, n. 71 (relativo alla trasformazione dell’Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni in ente pubblico economico), dal decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 284 (relativo al riordino della Cassa depositi e prestiti), dal decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 6 ottobre 2004, e dalle norme del testo unico della finanza indicate nel comma 4 (in quanto compatibili), nonché dalle norme del testo unico bancario, ove applicabili.

Occorre, inoltre, considerare, prosegue la Corte, la stretta correlazione esistente tra le finalità di pubblico interesse perseguite dalla Cassa depositi e prestiti, sotto qualsiasi forma, anche a seguito della sua trasformazione in S.p.a. (quali, il finanziamento dello Stato, delle Regioni, degli enti locali, degli altri enti pubblici, dei gestori di pubblici servizi e le operazioni di pubblico interesse) e gli strumenti del risparmio postale (libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi) che rappresentano forme di investimento prudenziale caratterizzate dalla immediata liquidabilità dell’investimento senza perdite in conto capitale o penalizzazioni (a differenza degli investimenti nei comuni di titoli di Stato, soggetti, in caso di vendita anticipata, ad eventuali fluttuazioni del valore in conto capitale). Attraverso tali strumenti del risparmio postale si persegue, infatti, la duplica finalità di tutela del pubblico degli investitori e di assicurare un flusso di fondi costante e a tassi moderati per il finanziamento delle attività di pubblico interesse affidata alla CDP S.p.a.

A ciò si aggiunge che, coerentemente con la distinzione tra l’ordinaria raccolta di risparmio tra il pubblico e la raccolta del risparmio postale, la legge riserva alla Cassa depositi e prestiti S.p.a. il monopolio nell’emissione dei buoni fruttiferi postali distribuiti da Poste Italiane S.p.a. che «a tale riguardo agisce “per conto della Cassa Depositi e Prestiti (art. 1, lett. b), d.P.R. n. 144/2001» e riserva a Poste Italiane S.p.a o alle società da questa controllate, il collocamento presso il pubblico degli strumenti di risparmio postale (d.P.R. 156/1973, d.P.R.n. 144/2001; art. 5, comma 7, lett. a, d.l. n. 269/2003).

La Corte individua, inoltre, ulteriori indici normativi, sintomatici della natura pubblicistica dell’attività di raccolta del risparmio postale nelle disposizioni che, con riferimento alle attività di bancoposta, prevedono: a) specifiche strutture organizzative e di governo societario; b) specifiche disposizioni in tema di contabilità (quali la separazione contabile, patrimoniale ed organizzativa delle attività di bancoposta e l’istituzione di una gestione separata nell’ambito di C.D.P. S.p.a. cui sono assegnate le attività previste dall’art. 5, comma 7, lett. a), d.l. 269/2003, e le partecipazioni ad esse strumentali che siano state acquisiste mediante risorse provenienti dal risparmio postale e che può avvalersi dell’Avvocatura dello Stato); c) specifiche forme di vigilanza e di controllo (sia C.D.P. S.p.a che Poste Italiane S.p.a.sono sottoposte al controllo della Corte dei Conti che, per quest’ultima viene esercitato sia per il servizio postale universale che per le attività di bancoposta).

Osserva, infine, la Corte che tale ricostruzione sistematica trova ulteriore conferma nell’art. 12 d.P.R. n. 156/1973, come modificato dall’art. 218, lett. h, d.lgs. n. 259 del 2003 con la soppressione del riferimento alle telecomunicazioni, secondo cui “Le persone addette ai servizi postali e di bancoposta, anche se dati in concessione ad uso pubblico, sono considerate pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, secondo la natura delle funzioni loro affidate, in conformità degli articoli 357 e 358 del codice penale”. Ad avviso della Corte, infatti, qualora nessuna delle attività di bancoposta avesse avuto finalità e disciplina di carattere pubblicistico e tutte fossero rientrate nei servizi bancari gestiti in forma privatistica, il mantenimento della qualifica pubblicistica, al momento della modifica della norma, avrebbe avuto senso solo con riferimento ai servizi postali c.d. universali in ragione dell’interesse pubblico loro proprio. Pertanto, salvo si voglia accedere ad una interpretazione in chiave parzialmente abrogativa, deve ritenersi che, alla luce degli indici normativi evidenziati, tra le attività del servizio bancoposta, quella di raccolta del risparmio postale si configura ancora come pubblico servizio.

4.1. L’addetto al servizio postale.

La natura pubblica del servizio postale ha reso meno problematico l’inquadramento degli addetti al servizio postale, sulla base del criterio oggettivo-funzionale di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen. 

Alla stregua del paradigma offerto dal modello legale, sono stati qualificati come incaricati di pubblico servizio gli addetti alle attività connotate da discrezionalità ed autonomia tipiche delle mansioni di ordine, con esclusione, dunque, di quelle di natura applicativa o esecutiva, quali: l’addetto alla riscossione dei pagamenti su bollettino postale (Sez. 6, n. 21314 del 05/04/2018, Prospero, Rv. 272949); l’impiegato addetto alla regolarizzazione, mediante affrancatura, dei bollettini mod. 267 dei pacchi da restituire al mittente, ed alla tenuta di un apposito registro nel quale annotare i dati identificativi di ciascuna operazione (Sez. 6, n. 39591 del 02/11/2010, Grillo, Rv. 248532; Sez. 6, n. 37102 del 07/05/2004, Ferreri, Rv. 230374); il dipendente con mansioni di “cedolista”, trattandosi di un’attività che comporta non solo mansioni di ordine o prestazioni materiali, quale il trasporto dei dispacci, ma anche compiti accessori e complementari allo svolgimento della funzione pubblica, quale l’apposizione di firma liberatoria di quanto ricevuto in consegna dalle ditte accollatarie della corrispondenza speciale (Sez. 5, n. 22018 del 21/03/2013, Passaro, Rv. 224671); il portalettere che, avendone la disponibilità in ragione del suo servizio, si impossessi di un vaglia postale (Sez. 6, n. 27981 del 12/05/2011, Calzoni, Rv. 250543) o dei bollettini di spedizione di pacchi contro assegni e dei rispettivi importi, spettanti ai legittimi creditori (Sez. 6, n. 35512 del 21/05/2013, Raimondo, Rv. 256329). Quanto all’attività del “portalettere”, la sentenza Calzoni ha escluso che riguardi solo lo svolgimento di mansioni d’ordine e di prestazioni di opera meramente materiali, in quanto si tratta di un’attività che comporta funzioni accessorie e complementari allo svolgimento del servizio pubblico, tra cui compiti di certificazione in ordine alla consegna e alla ricezione di un certo tipo di corrispondenza (es. vaglia postali, raccomandate, assicurate).

La qualifica di incaricato di pubblico servizio è stata, invece, esclusa con riferimento all’attività svolta dall’addetto allo smistamento della corrispondenza, con il compito di sopperire all’episodico malfunzionamento delle macchine, trattandosi di un’attività di semplice esecuzione e di prestazioni meramente materiali, ordinariamente compiute dal sistema automatizzato, prive di ogni carattere di discrezionalità e di autonomia decisionale (In applicazione di tale principio Sez. 6, n. 5064 del 19/11/2013, Guarneri, Rv. 258768 ha riqualificato la condotta appropriativa da peculato in appropriazione indebita aggravata dall’abuso di relazioni d’ufficio). Ad analoghe conclusioni è pervenuta Sez. 6, n. 46245 del 20/11/2012, D’Auria, Rv. 253505 con riferimento all’addetto, con mansioni di “ripartitore”, ad attività di mero smistamento della corrispondenza.

È stata, invece, riconosciuta la qualità di pubblico ufficiale al direttore dell’ufficio postale che si appropri di somme di denaro contenute in plichi consegnati da corrieri all’ufficio postale e custodite nella cassa dell’ufficio, in considerazione dei poteri certificativi esercitati per le consegne o i versamenti di denaro effettuati dagli utenti e per la contabilizzazione dei relativi passaggi movimentati (Sez. 6, n. 40747 del 28/06/2016, Frecciarulo, Rv. 268220). La Corte ha, infatti, specificato che detta attività non rientra nello svolgimento dell’attività di tipo bancario, ma attraverso i comportamenti inerenti alla ricezione, custodia e verifica del contenuto dei plichi consegnati all’ufficio postale, viene in rilievo la stessa precondizione di regolarità dell’esercizio delle diverse tipologie di funzioni che possono svolgersi nelle attività dell’amministrazione postale, ove la garanzia di destinazione delle somme alla cassa viene attestata proprio in forza dei poteri certificativi attribuito al direttore dell’ufficio postale, poteri che, di norma, si esplicano tramite il rilascio di documenti aventi efficacia probatoria sui quali non può incidere la natura privatistica assunta dall’Ente Poste.

4.2. 2.Il “controllore” dell’azienda di trasporto pubblico urbano.

Pur essendo indubbia la natura pubblica della funzione svolta dal concessionario del servizio di trasporto urbano, non altrettanto univoca è stata l’interpretazione in ordine alla qualità assunta dal “controllore”, ricondotta, ora, a quella di incaricato di pubblico servizio, ora a quella di pubblico ufficiale. L’adozione dell’una o dell’altra opzione ermeneutica ha inevitabilmente condizionato la qualifica della condotta del privato che rilasci allo stesso delle false dichiarazioni in ordine alle sue generalità, sussunta, secondo la prima opzione ermeneutica, nell’ambito del reato di cui all’art. 496 cod. pen. e, secondo il contrario orientamento, nel più grave reato di cui all’art. 495 cod. pen. 

La prima tesi è stata sostenuta da due arresti della Quinta sezione n. 31391 del 11/06/2008, Rusetti, Rv. 241176 e n. 45524 del 15/06/2016, Cusenza, Rv. 268467 che hanno riconosciuto la qualità di incaricato di pubblico servizio in ragione della funzione pubblica svolta dall’azienda di trasporto e delle mansioni di concetto, e non meramente esecutive, svolte dal “controllore” consistenti, tra l’altro, nell’accertamento delle infrazioni al contratto di trasporto. In particolare la sentenza Cusenza ha affermato che tale mansione implica un giudizio relazionale di rapporto del caso concreto alla norma astratta, regolatrice dei rapporti con la clientela, a nulla rilevando la circostanza (allegata dal ricorrente quale indice del carattere meramente esecutivo dell’attività svolta) che il “controllore” riporti l’esito di tale attività su di un modulo prestampato, che può essere riempito alche mediante barratura di apposite caselle predisposte.

Nell’anno in corso la Corte, discostandosi in modo consapevole da tale orientamento, ha, invece, riconosciuto la qualità di pubblico ufficiale al “controllore” dell’azienda di trasporto urbano in ragione dei poteri autoritativi e certificativi attribuiti dalle norme di legge, regionale e nazionale, individuati nelle funzioni di accertamento dell’infrazione al regolamento di servizio, di identificazione personale dell’autore della violazione e di redazione del relativo verbale di accertamento (Sez. 5, n. 25649 del 13/02/2018, Popescu, Rv. 273324). Nella specie, la Corte ha, pertanto, ritenuto corretta la qualificazione ai sensi dell’art. 495 cod. pen. (anziché, come invocato dal ricorrente, ai sensi del meno grave reato di cui all’art. 496 cod. pen.) della condotta del privato che aveva declinato al “controllore” delle false generalità in ragione dalla natura di atto pubblico del verbale di accertamento dallo stesso redatto.

Sulla base di analoghe motivazioni la Corte ha riconosciuto la qualità di pubblico ufficiale del personale di Trenitalia S.p.a. incaricato del controllo dei biglietti di linea il quale, nell’ambito delle attività di prevenzione e di accertamento delle infrazioni relative al trasporto ferroviario, è tenuto a provvedere alla constatazione dei fatti ed alle relative verbalizzazioni (Sez. 6, n. 15113 del 17/03/2016, Totta, Rv. 267311).

5. Gli addetti alla riscossione di tributi per conto della P.A.

Nel corso degli ultimi anni la Suprema Corte è più volte intervenuta sul tema della qualifica degli addetti alla riscossione di tributi per conto della Pubblica Amministrazione adottando una soluzione univoca, che, in una sorta di progressione ermeneutica fondata sui parametri di delimitazione esterna ed interna indicati dagli artt. 357 e 358 cod. pen., ha ricondotto le diverse categorie interessate nell’alveo degli incaricati di pubblico servizio.

In particolare, quanto alla categoria dei titolari di tabaccheria autorizzati alla rivendita di valori bollati, si è posto l’accento sia sulla natura pubblica dell’attività di riscossione delle imposte di bollo (e poi, anche delle tasse di concessione governativa) destinate allo Stato che sulla natura non meramente esecutiva dell’attività di determinazione dell’imposta, quali indici sintomatici, quanto meno, della qualità di incaricati di pubblico servizio (ex plurimis: Sez.6, n. 36656 del 04/06/2015, Tortello, Rv. 264583). Si è, pertanto, affermato che, nello svolgimento delle incombenze loro affidate, i titolari di tabaccheria subentrano nella posizione della pubblica amministrazione e svolgono mansioni che ineriscono al corretto e puntuale svolgimento della riscossione della tassa medesima.

Sulla base delle medesime argomentazioni la Corte ha qualificato come incaricato di pubblico servizio il gestore dell’agenzia di pratiche automobilistiche autorizzata alla riscossione delle tasse regionali (Sez. 6, n. 45082 del 01/10/2015, Marrocco, Rv. 265341), l’amministratore e legale rappresentante di una società privata incaricata della gestione del servizio di riscossione di tributi comunali (Sez. 6, n. 46235 del 21/09/2016, Froio, Rv. 268127), e, con riferimento alle attività di riscossione e versamento del prelievo unico erariale, il sub-concessionario per la gestione dei giochi telematici, trattandosi di un soggetto che, in virtù di una facoltà riconosciuta al concessionario dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, è investito contrattualmente dell’esercizio dell’attività di agente contabile, a nulla rilevando la natura privatistica del contratto con il concessionario (Sez. 6, n. 49070 del 05/10/2017, Corsino, Rv. 271498).

L’ultima tappa di tale progressione ermeneutica è segnata dalla sentenza della Sesta sezione, n. 32058 del 17/05/2018, Locane, Rv. 273446, che ha riconosciuto la qualità di incaricato di pubblico servizio al gestore di struttura ricettiva residenziale che, anche in assenza di un preventivo specifico incarico da parte della pubblica amministrazione, procede alla riscossione dell’imposta di soggiorno per conto dell’ente comunale. Sulla base dei criteri ermeneutici offerti dalla giurisprudenza di legittimità in sede civile (Sez. U, n. 13330 del 01/06/2010, Rv. 613290; Sez. U, n. 14891 del 21/06/2010, Rv. 613822, Sez. U, n. 232 del 10/04/1999, Rv. 525148-01) e da quella contabile (Sezioni riunite in sede giurisdizionale della Corte dei Conti, n. 22/2016, QM del 08/06/2015) che ha individuato gli elementi essenziali ai fini dell’assunzione della qualifica di agente contabile nel carattere pubblico dell’ente per il quale il soggetto agisce e del denaro o del bene oggetto della sua gestione, la Corte ha ritenuto che l’incaricato o responsabile della riscossione dell’imposta di soggiorno assume tale qualità, e non quella di sostituto d’imposta, svolgendo un’attività ausiliaria nei confronti dell’ente impositore ed oggettivamente strumentale rispetto all’esecuzione dell’obbligazione tributaria la quale comporta, tra l’altro, lo svolgimento di compiti relativi all’informazione, al calcolo dell’imposta dovuta e all’incasso delle somme versate spontaneamente dal soggetto passivo, cui sono strettamente correlati gli obblighi dichiarativi, certificativi e di immediato riversamento all’ente impositore delle somme riscosse a titolo di imposta.

6. Il “general contractor”.

In tema di appalti di opere pubbliche, Sez. 6, n. 9385 del 13/04/2017 – dep. 2018 –, Giugliano, Rv. 272226 ha riconosciuto la qualità di incaricato di pubblico servizio al c.d. “contraente generale” di cui agli artt. 9, d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190, 176 e 177 d.lgs. 1 aprile 2006, n. 1631 e successive modifiche (oggi prevista dagli artt. 194 -199 d.lgs. 18/04/2016, n. 50), atteso che, in considerazione dei compiti assunti nei confronti della stazione appaltante – quali, ad esempio, la scelta dei soggetti terzi cui affidare le opere e/o le forniture che consentano di realizzare il risultato all’amministrazione aggiudicatrice, lo sviluppo del progetto definitivo, le attività tecnico-amministrative necessarie alla sua approvazione da parte del Cipe, ove detto progetto non sia posto a base di gara – nonché dei diritti speciali ed esclusivi che gli sono riconosciuti dall’autorità competente secondo le norme vigenti, esso deve essere ricompreso tra i soggetti indicati nell’art. 3, comma 29, d.lgs. n. 163 del 2006 come ente aggiudicatore e, pertanto, indipendentemente dalla sua natura privatistica ed anche al di fuori della quota di lavori per cui deve effettuare gare ad evidenza pubblica comunitaria, è vincolato al rispetto delle regole poste dal codice degli appalti a tutela della libertà di concorrenza e della par condicio (Fattispecie relativa ai componenti del comitato tecnico del Consorzio COCIV, società di diritto privato prescelta da T.A.V. s.p.a., cui è subentrata R.F.I. s.p.a., quale contraente generale per la realizzazione di uno dei lotti della rete ferroviaria dell’alta velocità).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione penale

Sez. U, n. 4 del 12/03/1983, Savina, Rv. 162719 Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994, Calzetta, Rv. 197885 Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211190  Sez. U, n. 7958 del 27/03/1992, Delogu, Rv. 191171-172-173 Sez. 6, n. 20118 del 08/03/2001, Di Bartolo, Rv. 218903 Sez. 6, n. 37102 del 07/05/2004, Ferreri, Rv. 230374 Sez. 6, n. 36007 del 15/06/2004, Perrone, Rv. 229758 Sez. 5, n. 31391 del 11/06/2008, Rusetti, Rv. 241176 Sez. 6, n. 33610 del 21/06/2010, Serva, Rv. 248271 Sez. 6, n. 39591 del 02/11/2010, Grillo, Rv. 248532 Sez. 6, n. 27981 del 12/05/2011, Calzoni, Rv. 250543 Sez. 6, n. 46245 del 20/11/2012, D’Auria, Rv. 253505 Sez. 5, n. 22018 del 21/03/2013, Passaro, Rv. 224671 Sez. 6 n. 25150 del 03/04/2013, Testa, Rv. 256809 Sez. 6, n. 35512 del 21/05/2013, Raimondo, Rv. 256329 Sez. 6, n. 34086 del 26/07/2013, Bessone, Rv. 257035 Sez. 6, n. 5064 del 19/11/2013, Guarneri, Rv. 258768 Sez. 6, n. 10124 del 21/10/2014, De Vito, Rv. 262746 Sez. 6, n. 18457 del 30/10/2014, Romano, Rv. 263359 Sez. 5, n. 31660 del 13/02/2015, Barone, Rv. 265290 Sez. 6, n. 36656 del 04/06/2015, Tortello, Rv. 264583 Sez. 6, n. 45082 del 01/10/2015, Marrocco, Rv. 265341 Sez. 6, n. 15113 del 17/03/2016, Totta, Rv. 267311 Sez. 5, n. 45524 del 15/06/2016, Cusenza, Rv. 268467 Sez. 6, n. 40747 del 28/06/2016, Frecciarulo, Rv. 268220 Sez. 6, n. 46235 del 21/09/2016, Froio, Rv. 268127 Sez. 6, n. 10875 del 23/11/2016, Carloni, Rv. 272079 Sez. 6, n. 9473 del 13/01/2017, S., Rv. 269131 Sez. 6, n. 14227 del 13/01/2017, Spataro, Rv. 269481 Sez. 6, n. 19217 del 13/01/2017, Como, Rv. 270151 Sez. 6, n. 9385 del 13/04/2017, Rv. 272226 Sez. 6, n. 36769 del 06/06/2017, Volontè, Rv. 270439 Sez. 6, n. 49070 del 05/10/2017, Corsino, Rv. 271498 Sez. 6, n. 19484 del 23/01/2018, Bellinazzo Sez. 5, n. 25649 del 13/02/2018, Popescu, Rv. 273324 Sez. 6, n. 19496 del 21/02/2018, Cante, Rv. 273278 Sez. 6, n. 21314 del 05/04/2018, Prospero, Rv. 272949 Sez. 6, n. 29400 del 17/05/2018, R., Rv. 273620 Sez. 6, n. 32058 del 17/05/2018, Locane, Rv. 273446 Sez. 6, n. 39280 del 30/05/2018, Corrotto, Rv. 273682 Sez. 6, n. 40347 del 02/07/2018, Berlusconi, Rv. 273790

Sentenze della Corte di cassazione civile

Sez. U, n. 232 del 10/04/1999, Rv. 525148 Sez. U, n. 13330 del 01/06/2010, Rv. 613290 Sez. U, n. 14891 del 21/06/2010, Rv. 613822

  • reato
  • contratto di forniture
  • diritto penale

CAPITOLO II

I REATI DEI PRIVATI CONTRO LA P.A.: LA TURBATA LIBERTÀ DEGLI INCANTI E LA FRODE NELLE PUBBLICHE FORNITURE

(di Raffaele Piccirillo )

Sommario

1 Premessa. - 2 Le gare tutelate dal delitto di turbata libertà degli incanti. - 3 La nozione di ente aggiudicatore. - 4 Il rapporto cronologico tra le condotte tipizzate dall’art. 353 cod. pen. e l’iter delle procedure competitive tutelate. - 5 La proposta di formulare un’offerta di comodo come tentativo di turbata libertà degli incanti. - 6 La nozione di preposto agli incanti nell’art. 353, comma secondo, cod. pen.  - 7 La turbata libertà del procedimento di scelta del contraente come reato di pericolo. - 8 La prova del delitto di inadempimento di contratti di pubbliche forniture. - 9 Il momento consumativo del delitto di frode nelle pubbliche forniture. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

La giurisprudenza di legittimità dell’anno 2018 in tema di turbativa di gara e turbata libertà dei procedimenti di scelta del contraente ha continuato a misurarsi con le trasformazioni della disciplina amministrativa dei contratti pubblici e con moduli gestori dei servizi pubblici che, su impulso del diritto comunitario, hanno infranto il monopolio statale, introducendo “nuovi attori” che concorrono con le pubbliche amministrazioni alla gestione e alla disciplina del mercato interno.

Ci si riferisce, in particolare, al sistema delineato dal Codice dei contratti pubblici adottato con il d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 che, sulla falsariga del previgente d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, non designa più i sistemi di scelta del contraente come pubblici incanti e licitazioni private, né parla più di appalto-concorso o trattativa privata, imperniando piuttosto il sistema sulla distinzione tra procedure aperte, ristrette, negoziate e sul concetto di dialogo competitivo. Un nuovo disegno che, almeno con riferimento all’area dei contratti pubblici, impone il costante ad attamento della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 353 cod. pen. secondo criteri che guardano, piuttosto che ai nomina iuris assegnati alle diverse procedure, alle dinamiche competitive ad esse sottese e alle loro implicazioni sul piano delle necessità di tutela del bene giuridico da presidiare. A questo tema afferiscono le pronunce richiamate nel capitolo dedicato alla definizione delle gare tutelate.

Si intreccia con questo tema quello dei nuovi soggetti chiamati a concorrere alla gestione dei pubblici servizi, tra i quali merita particolare attenzione la decisione in tema di statuto penalistico del general contractor, figura che l’art. 194 del d.lgs. n. 50 del 2016, sulla falsariga del previgente art. 176 del d.lgs. n. 163 del 2006, definisce come il “soggetto dotato di adeguata esperienza e qualificazione nella costruzione di opere, nonché di adeguata capacità organizzativa, tecnico-realizzativa e finanziaria”, cui la stazione appaltante affida, mediante un apposito contratto, la realizzazione di un’opera con qualsiasi mezzo, nel rispetto delle esigenze specificate nel progetto preliminare o nel progetto definitivo redatto dalla medesima stazione appaltante e posto a base di gara, contro un corrispettivo pagato, in tutto o in parte, dopo l’ultimazione dei lavori.

Come vedremo, la soluzione si giova della nozione oggettivo-funzionale delle qualifiche codicistiche del pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio e del concetto pubblicistico di “ente aggiudicatore” (art. e del d.lgs. n. 163 del 2006), per scongiurare il rischio che la scelta di una peculiare formula organizzativa dell’attività della P.A. determini irrazionali vuoti nella tutela della libera concorrenza e dell’interesse dell’amministrazione.

Spiegano un effetto anti-elusivo anche la decisione che plasma sulle cadenze procedurali dettate dal bando (lex specialis della procedura competitiva) il momento effettivamente conclusivo della gara, entro il quale le condotte perturbatrici possono assumere rilevanza ai sensi dell’art. 353 cod. pen.; così come quella che ribadisce una definizione del preposto alle gare concentrata sui comportamenti collusivi o condizionanti assunti, anche in via di fatto, in qualsiasi momento della procedura.

Le due decisioni che concludono la parte di questo capitolo dedicata alle turbative di gara e alle figure affini ribadiscono quanto già evidenziato nella precedente edizione di questa Rassegna in tema di rapporto tra i delitti ex art. 353 e 353-bis cod. pen. e di configurazione di entrambi quali reati di pericolo.

In tema di inadempimento (art. 355 cod. pen.) e di frode nelle pubbliche forniture (art. 356 cod. pen.), le decisioni segnalate si caratterizzano: la prima, per aver colto nel fatto tipico una nozione autonoma dell’inadempimento penalmente rilevante, il cui accertamento può derivare da elementi anche diversi da quelli acquisibili mediante le procedure di collaudo; la seconda, per aver assecondato, in tema di momento consumativo del delitto, una linea interpretativa relativamente recente e una nozione della frode ex art. 356 cod. pen. che, senza confondersi con quella che caratterizza il delitto di truffa, è però più ricca di quella che la fa consistere nel mero inadempimento doloso: profilo quest’ultimo che, come vedremo, non è scontato neppure nell’elaborazione recente della giurisprudenza di legittimità.

2. Le gare tutelate dal delitto di turbata libertà degli incanti.

Sez. 6, n. 9385 del 13/04/2017 – dep. 2018 –, Giugliano, Rv. 272227 conferma l’orientamento sostanzialista della Corte sul tema delle gare tutelate dalla fattispecie incriminatrice della turbata libertà degli incanti.

Rilevante, secondo questa decisione, non è il nomen iuris assegnato alla procedura di scelta del contraente, quanto piuttosto il fatto che si tratti di una procedura competitiva, anche informale, della quale siano previamente indicati e resi noti ai concorrenti i criteri di selezione e di presentazione delle offerte: “È la previsione di un meccanismo selettivo delle offerte nel quale i soggetti che vi partecipano, consapevoli delle offerte di terzi, propongono le proprie condizioni quale contropartita di ciò che serve alla pubblica amministrazione, a qualificare come gara la procedura di individuazione del contraente attivata da una pubblica amministrazione e, di conseguenza, le condotte collusive che turbano la competizione e la concorrenza tra i partecipanti, come delitto di cui all’art. 353 cod. pen.”.

Resta, invece, estraneo all’ambito applicativo della fattispecie il caso nel quale l’amministrazione si limiti a interpellare una pluralità di soggetti, ciascuno dei quali presenti indipendentemente la propria offerta e l’amministrazione conservi piena liberta di scegliere secondo i criteri di convenienza e di opportunità propri della contrattazione tra privati.

Il principio enunciato dalla decisione Giugliano si conforma a quanto affermato da Sez . 6, n. 12238 del 30/09/1998, De Simone, Rv. 213033 che aveva già escluso il contrasto tra siffatta lettura dell’ambito applicativo della fattispecie e il divieto di analogia in malam partem, ravvisando, piuttosto, “una interpretazione estensiva (…) volta a garantire il regolare svolgimento sia dei pubblici incanti e delle licitazioni private sia delle gare informali o di consultazione, le quali finiscono con il realizzare, sostanzialmente, delle licitazioni private”.

Nello stesso senso si erano poi espresse Sez. 6, n. 44829 del 22/09/2004, Di Vincenzo, Rv. 230522 e, più recentemente, Sez. 6, n. 8044 del 21/01/2016, P.G. in proc. Cereda, Rv. 266118, secondo la quale “il reato di turbata libertà degli incanti è configurabile in ogni situazione in cui vi è una procedura di gara, anche informale e atipica, mediante la quale la P.A. proceda all’individuazione del contraente, a condizione, tuttavia, che l’avviso informale di gara o il bando, o comunque l’atto equipollente, pongano i potenziali partecipanti nella condizione di valutare le regole che presiedono al confronto e i criteri in base ai quali formulare le proprie offerte, sicché deve escludersi la esistenza di una gara allorché, a prescindere dalla legittimità del meccanismo adottato, sia prevista solo una comparazione di offerte che la P.A. è libera di valutare, in mancanza di precisi criteri di selezione”.

3. La nozione di ente aggiudicatore.

La procedura competitiva affrontata dalla decisione Sez. 6, n. 9385 del 13/04/2017 -dep. 2018 –, Giugliano era stata gestita dai componenti del comitato tecnico del Consorzio Collegamenti Integrati Veloci (COCIV), società di diritto privato prescelta da T.A.V. s.p.a. (cui era subentrata R.F.I. s.p.a.) quale contraente generale (general contractor) per la realizzazione di un lotto della rete ferroviaria dell’alta velocità.

La natura privatistica del consorzio non ha impedito alla Corte di qualificarlo come ente aggiudicatore, né le ha impedito di qualificare i membri del comitato tecnico consortile come incaricati di pubblico servizio e la procedura competitiva praticata per le selezione dei fornitori come gara, con ripercussioni confermative non soltanto dell’addebito cautelare formulato ai sensi dell’art. 353 cod. pen., ma anche della concorrente contestazione della fattispecie di corruzione attiva per atto contrario ai doveri d’ufficio (v. Rv. 272226).

Muovendo dalla nozione oggettivo-funzionale delle qualifiche di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen., così come definite dal legislatore del 1990, la Corte ha concentrato la sua attenzione sulla natura, il rilievo e la disciplina del servizio interessato, piuttosto che sulla forma giuridica dell’ente, sulla sua costituzione secondo le norme del diritto pubblico, sulla sussistenza o meno di un legame di appartenenza tra i funzionari responsabili degli affidamenti e la pubblica amministrazione.

L’approccio corrisponde all’indicazione testuale dell’art. 358 cod. pen. che, diversamente dalla disposizione previgente, non presenta più alcun riferimento al rapporto di impiego con lo Stato o con altro ente pubblico ed esprime – con la locuzione “coloro i quali a qualunque titolo prestano un pubblico servizio” – il privilegio ermeneutico riservato al criterio della disciplina pubblicistica dell’attività svolta.

In tale prospettiva, hanno assunto rilievo i compiti assegnati al general contractor dalle convenzioni stipulate prima con TAV e poi con RFI s.p.a., che includono alcune funzioni tipiche del committente pubblico, quali la scelta dei soggetti terzi cui affidare le opere e/o le forniture che consentono di realizzare il risultato all’amministrazione aggiudicatrice, lo sviluppo del progetto definitivo, le attività tecnico-amministrative necessarie alla sua approvazione da parte del Cipe, ove detto progetto non sia posto a base di gara.

È stata poi valorizzata l’obbligatorietà della procedura di evidenza pubblica che la decisione Giugliano – riprendendo quanto affermato da Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015 – dep. 2016 –, Bonomelli, Rv. 267045 – ha individuato come indice sintomatico del rilievo pubblicistico del servizio svolto “in quanto la sua previsione presuppone la necessità e il riconoscimento che una determinata attività, relativa a settori strategici per gli interessi pubblici di uno Stato, sia sottoposta ad un regime amministrativo che assicuri la tutela della concorrenza assieme all’imparzialità della scelta del soggetto aggiudicatario”.

Nel caso in esame, detto indice ha trovato riscontro in una previsione convenzionale, con la quale il COCIV assumeva l’impegno di “far eseguire il 60% dei lavori civili e di armamento (…) mediante affidamenti ad imprese terze, selezionate dallo stesso consorzio con l’applicazione delle procedure comunitarie di affidamento ad evidenza pubblica”.

Ulteriori conferme della matrice pubblicistica del servizio assegnato al consorzio sono stati ricavati:

- dalla giurisprudenza amministrativa che riconosce al subappaltatore il diritto di accedere agli atti delle procedure di appalto gestite dal general contractor (Ad. Pl. 30/8/2005, n. 5); e che configura un potere di autotutela per ragioni di pubblico interesse in capo ai contraenti generali, sul presupposto della natura oggettivamente amministrativa delle procedure di evidenza pubblica da questi gestite (Cons. Stato, sez. 6, 28/10/1998, n. 1478);

- dalla giurisprudenza civile di legittimità che configura una responsabilità contabile del general contractor, nell’ambito delle funzioni a lui attribuite nell’iter che conduce alla realizzazione di un’opera pubblica (Sez. U, n. 16240 del 16/7/2014).

Una volta ritenuta, sulla base degli indicatori citati, la matrice pubblicistica del servizio assegnato al general contractor e la sua qualità di ente aggiudicatore secondo il codice dei contratti pubblici, non ha importanza – secondo la Corte – che la procedura incriminata riguardi una fornitura non rientrante nella quota per la quale è prescritta la procedura di evidenza pubblica e attenga, invece, alla quota (il 40% dei residui lavori civili e di armamento) per la quale la medesima convenzione tra TAV e COCIV esclude l’obbligo della gara comunitaria.

L’obbligo di evidenza pubblica serve a connotare lo statuto del servizio e del soggetto chiamato a gestirlo, non a circoscrivere l’ambito delle condotte penalmente rilevanti:

“(…) nel momento in cui i contraenti generali effettuano la scelta di soggetti terzi contraenti, a cui dovranno essere sub-affidate le opere o le forniture che consentiranno di conseguire il risultato che essi si sono obbligati a fornire all’amministrazione aggiudicatrice, indipendentemente dalla propria veste di soggetto privato ed anche al di fuori della quota del 60% dei lavori per cui (…) sono obbligati ad effettuare gare ad evidenza comunitaria, essi, quali enti aggiudicatori, sono comunque vincolati alle regole poste dal Codice degli appalti a tutela della libera concorrenza e della par condicio; e, qualora, per la scelta dei sub affidatari, si determinino a seguire una procedura concorrenziale, violandone le regole, ne rispondono non in qualità di soggetto privato bensì di incaricato di pubblico servizio, per effetto del già citato art. 176, comma 6, d.lgs. n. 163/2006 (oggi art. 194, d.lgs. n. 50/2016), trattandosi di affidamenti effettuati per conto della pubblica amministrazione, volti alla realizzazione di un’opera pubblica finanziata da pubblico denaro”.

Il rilievo della qualifica di ente aggiudicatore determinata secondo le previsioni del codice dei contratti e la sua preminenza rispetto alla considerazione della natura privatistica o pubblicistica del soggetto che gestisce la procedura competitiva ai fini della configurabilità della violazione dell’art. 353 cod. pen. trova un antecedente prossimo nella sentenza Sez. 6, n. 49266 del 10/10/2017, Gabbiadini, Rv. 271571, per la quale:

“Il reato di turbata libertà degli incanti è configurabile anche nel caso in cui la procedura di gara per la realizzazione di un’opera pubblica è gestita direttamente dal privato, titolare del permesso di costruire e quindi di diritti edificatori, il quale, ai sensi dell’art. 32, comma 1, lett. g), d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 , esercita la funzione di stazione appaltante – in quanto altro soggetto aggiudicatore – ed è tenuto ad appaltare le opere a terzi con procedura negoziata, senza previa pubblicazione del bando di gara, ed a rispettare i criteri di scelta del contraente previsti dal successivo art. 57, comma 6” (la disposizione richiamata nella massima indica il criterio del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più vantaggiosa, previa verifica del possesso dei requisiti di qualificazione previsti per l’affidamento dei contratti di uguale importo mediante procedura aperta, ristretta o negoziata”).

Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto immune da vizi la condanna degli amministratori di una società investita, con la convenzione urbanistica, della funzione di stazione appaltante per la costruzione di un edificio scolastico, i quali avevano alterato due gare di appalto, partecipandovi in proprio, schermati da compagini ad essi riconducibili, e avevano invitato alla selezione società compiacenti, non interessate realmente all’aggiudicazione e destinate all’esclusione perché prive dei requisiti tecnici, ovvero versanti in stato di decozione.

Anche in questo caso, l’esigenza sostanziale di evitare che la convenzione urbanistica divenga “strumento elusivo delle norme sui contratti e sugli appalti pubblici”, si accorda con i principi in tema di estensione della tutela penale alle gare informali ed esplorative riproposti dalla decisione Giugliano.

4. Il rapporto cronologico tra le condotte tipizzate dall’art. 353 cod. pen. e l’iter delle procedure competitive tutelate.

Nel capitolo della Rassegna 2017 dedicato al rapporto tra il delitto di turbata libertà degli incanti e le figure affini, si era dato conto della persistenza dell’indirizzo giurisprudenziale che, anche dopo l’introduzione, da parte della legge 13 agosto 2010, n. 136, della fattispecie anticipatoria di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente (art. 353-bis cod. pen.), riteneva sussumibili nella portata dell’art. 353 cod. pen. non soltanto le condotte perturbatrici o impeditive verificatesi dopo il formale avvio della gara, ma anche quelle attuate prima della pubblicazione del bando di gara (o di un suo equipollente), alla duplice condizione:

a) che una gara fosse stata poi successivamente indetta, giacché in assenza dell’avvio formale di una gara il delitto non avrebbe potuto configurarsi neppure nelle forme del tentativo, per carenza del suo presupposto oggettivo (Sez. 5, n. 25091 del 16/06/2016, Annese, Rv. 267324);

b) che lo svolgimento della competizione fosse stato, da quelle manovre preliminari, quanto meno turbato. Su questa linea si sono attestate alcune pronunce intese a dimostrare la perdurante rilevanza penale di fatti commessi prima dell’entrata in vigore dell’art. 353-bis cod. pen.

Così, Sez. 6, n. 653 del 14/10/2016 – dep. 2017 –, Venturini, Rv. 269525, trattando di condotte collusive finalizzate a condizionare i requisiti di partecipazione ad una procedura competitiva da indire, aveva affermato: “In tema di turbata libertà degli incanti, la turbativa illecita di cui all’art. 353 cod. pen. può essere realizzata anche nella procedura che precede la indizione della gara, purché essa abbia idoneità ad alternarne il risultato finale”; mentre Sez. 6, n. 6259 del 27/01/2016, Bellinazzo, Rv. 266313 aveva individuato il discrimine tra il delitto tradizionale e quello di recente introduzione affermando che “integrano il reato previsto dall’art. 353 cod. pen. i comportamenti manipolatori che incidono sulla formazione di un bando di gara poi adottato, non rilevando che essi siano stati commessi prima dell’art. 353-bis cod. pen., atteso che in quest’ultima fattispecie incriminatrice rientrano, invece, le condotte manipolatorie del procedimento non seguite dalla emissione del bando e quelle di manipolazione dell’”iter” procedurale che non abbiano, tuttavia, influenzato la legittimità del bando poi adottato”.

Sul finire dell’anno 2017, la decisione Sez. 6, n. 57251 del 09/11/2017, Vigato, Rv. 271727 aveva affrontato il tema del rapporto cronologico tra la turbativa e l’iter delle procedure competitive, con riguardo alle fasi finali dei procedimenti.

Si era affermato che il delitto di cui all’art. 353 cod. pen. può essere integrato da condotte intervenute nell’intervallo tra l’aggiudicazione provvisoria e quella definitiva, sul presupposto che “la prima ha una valenza meramente endo-procedimentale ed è solo con l’aggiudicazione definitiva che il procedimento di scelta del contraente giunge al termine”.

Nell’anno 2018, Sez. 2, n. 34746 del 04/05/2018, Porcari, Rv. 273550 conferisce rilievo “anche alla condotta posta in essere dall’agente, a seguito dell’aggiudicazione definitiva, nel periodo di tempo necessario ai controlli e alle verifiche prodromiche alla stipula del contratto”, poiché “solo con tale atto il procedimento di scelta del contraente giunge al termine”.

Veniva in considerazione una composita attività che si era snodata in diversi momenti della procedura, attraverso condotte variamente riconducibili al paradigma tipizzato dall’art. 353 cod. pen. Alcune di esse erano consistite in “contatti, violenze e minacce” poste in essere dopo l’aggiudicazione definitiva dell’appalto, al fine di costringere la società aggiudicatrice alla rinuncia. Tale rinuncia aveva reso impossibili i controlli e le verifiche successive all’aggiudicazione, che il bando di gara indicava come condizioni essenziali per addivenire alla stipula del contratto, in assenza delle quali era previsto lo scorrimento della graduatoria in favore dell’impresa seconda classificata.

La decisione richiama la lettura del termine “gara” propugnata, con riferimento agli incanti previsti dal codice di procedura civile, da Sez. 2, n. 28388 del 21/04/2017, Leo, Rv. 270388, secondo la quale “il delitto di turbata libertà degli incanti è integrato da tutte le condotte indicate dall’art. 353 cod. pen. che si inseriscono nell’ambito della procedura di incanto falsandone l’esito, anche se intervenute successivamente alla chiusura dell’asta”, poiché “l’utilizzo, nell’art. 353 cod. pen., del termine gara in luogo di asta indica che il confine giuridico della condotta è segnato dalla vendita definitiva del bene”.

Ora, l’esportazione in via generale nell’ambito delle procedure di evidenza pubblica di un argomento forgiato con riferimento alle esecuzioni immobiliari civili è problematica.

La decisione Leo era, infatti, incentrata sulla peculiare struttura dell’incanto previsto dal codice di procedura civile. Ne è ben consapevole la Seconda sezione che, nella sentenza in esame, richiama la giurisprudenza amministrativa che identifica il momento conclusivo del procedimento di gara con l’aggiudicazione definitiva (Cons. Stato, Sez. 4, n. 5497 del 07/11/2014; Cons. Stato, Sez. 5, n. 4241 del 08/09/2008).

La stessa decisione Vigato si è conformata a tale orientamento, così come in precedenza vi si era attenuta la sentenza Sez. 1, n. 46546 del 11/11/2005, Castiglione, Rv. 232960 che, proprio prendendo le mosse dalle posizioni della giurisprudenza amministrativa, aveva reputato estranee al paradigma del reato di cui all’art. 353 cod. pen. le pressioni esercitate, dopo l’aggiudicazione definitiva, per convincere un concorrente escluso a rinunciare a un ricorso.

La decisione Porcari non mette in discussione questi principi. Rileva però che quando la lex specialis della gara prevede la possibilità di controlli successivi al provvedimento di aggiudicazione, idonei a ribaltare il provvedimento anzidetto in favore di altro concorrente, mediante lo scorrimento della graduatoria, “il procedimento di scelta del contraente si conclude solo all’esito delle verifiche successive al provvedimento formale, mediante la stipula del contratto, sicché anche condotte verificatesi in tale segmento possono integrare il reato di cui all’art. 353 cod. pen.”

5. La proposta di formulare un’offerta di comodo come tentativo di turbata libertà degli incanti.

Il tentativo del reato di turbativa d’asta è stato ravvisato da Sez. 6, n. 34948 del 14/06/2018, Turotti, Rv. 273789 nella condotta di colui che propone a un concorrente, senza che questi accetti, di formulare un’offerta di comodo, offrendo in cambio di fare altrettanto in un’altra gara di imminente indizione alla quale il concorrente è interessato, in modo da garantire ad entrambi di risultare aggiudicatari in ciascuna delle due gare.

Nel ventaglio delle condotte impeditive o perturbatrici tipizzate dal primo comma dell’art. 353 cod. pen. (violenza o minaccia, doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti), la Corte ha sussunto la proposta di formulare un’offerta di comodo nella categoria della promessa, escludendo che, invece, detto comportamento potesse essere ricondotto alla nozione di collusione.

La precisazione è significativa perché la collusione postula un’iniziativa bilaterale, ovvero il convergere di più condotte in correlazione strumentale tra loro. La proposta unilaterale, non accolta dal destinatario, di un accordo collusivo non potrebbe configurarsi come tentativo, ma al più come istigazione non punibile, ex art. 115 cod. pen. (Sez. 6, n. 705 del 03/12/1999 – dep. 2000 –, Cervone, Rv. 215321).

Rispondendo poi ad un motivo di ricorso inteso a segnalare la genericità della proposta formulata dall’imprenditore ricorrente, in un colloquio telefonico intercettato, la Corte ha ritenuto invece “preciso e specifico” lo scambio di favori prospettato dall’imputato, che aveva per oggetto la spartizione di due appalti con azzeramento della concorrenza, in una condizione di apparente regolarità della gara.

Pertanto, la proposta poteva essere equiparata alla promessa di denaro formulata al fine di indurre altri a non partecipare ad un’asta che, nel caso di mancata accettazione dell’offerta o di mancata astensione del destinatario dalla competizione, integra – secondo Sez. 5, n. 9671 del 14/07/2014 – dep. 2015 –, Russo, Rv. 262873; Sez. 6, n. 44497 del 03/12/2010, Rabbia, Rv. 248965 – il tentativo di turbativa d’asta, in quanto atto idoneo univocamente diretto ad alterare lo svolgimento e il risultato della gara.

Atto idoneo ai sensi dell’art. 56 cod. pen., sul presupposto che la turbativa d’asta si configura come reato di pericolo, la cui consumazione non esige un danno effettivo, ma ha luogo anche nel caso di danno mediato e potenziale, dice la Corte richiamando Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, Adami, Rv. 254906.

6. La nozione di preposto agli incanti nell’art. 353, comma secondo, cod. pen. 

In relazione all’aggravante speciale prevista dall’art. 353, comma secondo, cod. pen. con riferimento alla posizione della persona preposta dalla legge o dall’Autorità agli incanti o alle licitazioni private, Sez. 6, n. 40890 del 29/05/2018, C. ha affermato che la nozione di “preposto” non è circoscritta al solo soggetto che presiede o dirige la gara nel suo momento terminale, ma comprende chiunque svolga funzioni nel corso del complesso iter procedi-mentale; e che l’indebito intervento di costui non deve necessariamente sostanziarsi in un atto tipico rientrante nelle specifiche mansioni assegnategli dalla legge o dall’autorità, ma può consistere in qualsiasi ingerenza, anche di mero fatto, idonea a influenzare gli esiti della selezione.

L’affermazione si ricollega, nel ragionamento della Corte, alla qualificazione del delitto in esame come reato di pericolo e si colloca nel solco di quanto affermato da Sez. 6, n. 9845 del 16/04/1991, Sciuto, Rv. 188415 e 188416, da Sez. 6, n. 4185 del 13/01/2005, P.G. in proc. Cadeddu, Rv. 230906, nonché, più recentemente, da Sez. 6, n. 10886 del 28/11/2013 – dep. 2014 –, Grasso, Rv. 259494.

Detti arresti assegnano la qualifica di preposto a tutti coloro che, in qualsiasi momento dell’iter procedurale, svolgono, anche di fatto, funzioni essenziali ai fini della realizzazione dell’obiettivo finale di tutela della libera concorrenza.

Nella decisione del 2018, il principio conduce alla conferma della condanna pronunciata nei confronti di un dirigente comunale che si era adoperato in favore di un imprenditore sprovvisto dei requisiti necessari per partecipare alle gare, con comportamenti collusivi e fraudolenti consistiti in contatti, suggerimenti, facilitazioni, proposte operative indirizzate allo stesso imprenditore favorito (per esempio, quella di associarsi in ATI con altro imprenditore, per ovviare alla carenza dei requisiti tecnico-professionali), insistenti pressioni esercitate sui funzionari degli altri uffici coinvolti nella procedura per condizionare la tempistica delle gare, la durata e l’estensione degli appalti, i criteri di valutazione delle offerte.

La riconduzione dei comportamenti indicati alla nozione tipica di collusione del preposto riprende quanto affermato dalla già citata Sez. 6, n. 57251 del 09/11/2017, Vigato, Rv. 271728, per la quale “integra il reato di turbata libertà degli incanti la collusione tra il preposto alla gara ed uno dei concorrenti, per effetto della quale il primo fornisca al secondo suggerimenti e consigli ai fini della determinazione del contenuto dell’offerta da presentare”, in quanto detto comportamento costituisce ausilio indebito, offerto da chi dovrebbe garantire la correttezza e quindi la parità di condizioni dei concorrenti, a vantaggio di uno solo di essi, e, quindi a danno degli altri, con modalità idonee ad influire sul normale svolgimento delle offerte.

7. La turbata libertà del procedimento di scelta del contraente come reato di pericolo.

La sentenza Sez. 6, n. 29267 del 05/04/2018, Baccari, Rv. 273449 ha ricostruito la struttura del reato di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente (art. 353-bis cod. pen.), nel contesto dello scrutinio di un complesso provvedimento cautelare personale che vedeva i ricorrenti colpiti altresì da addebiti di corruzione propria e turbata libertà degli incanti.

Le contestazioni formulate ai sensi dell’art. 353-bis cod. pen. riguardavano, in particolare: le pressioni esercitate da un imprenditore operante nel settore della raccolta differenziata dei rifiuti perché un’impresa a lui collegata fosse invitata dalla stazione appaltante (società partecipata del Comune di Cisterna di Latina) a presentare un’offerta per l’aggiudicazione della fornitura di buste, pressioni che non avevano poi avuto l’esito sperato; l’intesa collusiva stabilita da altro imprenditore con un funzionario comunale al fine di condizionare in termini per lui vantaggiosi i contenuti di un bando di gara relativo a lavori stradali che non era stato poi emesso.

Ritenendo immune da censure la configurazione del delitto contestato nei due casi in esame, la Corte ha affermato che il delitto di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente è un reato di pericolo, posto a tutela dell’interesse della Pubblica Amministrazione di poter contrarre con il miglior offerente, per il cui perfezionamento è necessario che sia posta concretamente in pericolo la correttezza della procedura di predisposizione del bando di gara, non anche che il contenuto di detto provvedimento venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente.

Nella motivazione la Corte ha chiarito il rapporto tra la fattispecie in esame e quella di turbata libertà degli incanti, ravvisando da un lato coincidenti tipologie di condotta punibile (violenza, minaccia, doni, promesse, collusioni, altri mezzi fraudolenti) e identico interesse giuridico tutelato (sul punto, la decisione si allinea a Sez. 6, n. 13431 del 16/02/2017, Imperadore, Rv. 269384); dall’altro, un profilo differenziale, concentrato essenzialmente sul momento di operatività della tutela.

La turbativa d’asta esige “l’esistenza di una gara, comunque denominata”; mentre il delitto previsto dall’art. 353-bis cod. pen. si configura a prescindere dall’effettiva adozione del bando, così esprimendo la scelta anticipatoria compiuta dal legislatore, rivelatrice della consapevolezza che “gli interessi meritevoli possono essere lesi non solo da condotte successive ad un bando il cui contenuto sia stato determinato nel pieno rispetto della legalità, ma anche da comportamenti precedenti, in grado di avere influenza sulla formazione di detto contenuto”.

La costruzione normativa del fatto tipico, che configura il condizionamento del contenuto del bando di gara come fine della condotta (fuoco del dolo specifico, si direbbe) anziché come evento del reato, conferma, secondo la decisione Baccari, che “per integrare il delitto non è necessario che il contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente, né, a maggior ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente condizionata. È sufficiente, invece, che si verifichi un turbamento del processo amministrativo, ossia che la correttezza della procedura di predisposizione del bando sia messa concretamente in pericolo”.

Corrisponde dunque alla ratio legis un’incriminazione estesa “anche a quei tentativi di condizionamento a monte degli appalti pubblici che risultino ex post inidonei ad alterare l’esito delle relative procedure”.

Le affermazioni della decisione Baccari si collocano nel solco di quanto affermato in Sez. 6, n. 6259 del 27/01/2016, Bellinazzo, Rv. 266313; Sez. 6, n. 1 del 02/12/2014 – dep. 2015 –, Pedrotti, Rv. 262917; Sez. 6, n. 44896 del 22/10/2013, Franceschi, Rv. 257270.

8. La prova del delitto di inadempimento di contratti di pubbliche forniture.

In tema di inadempimento di contratti di pubbliche forniture (art. 355 cod. pen.), Sez. 6, n. 19112 del 22/02/2018, Zanotti, Rv. 273785 ha affermato che il giudice penale può accertare l’inosservanza delle obbligazioni contrattuali necessarie per il funzionamento e per l’espletamento dell’attività di rilievo pubblicistico anche in difetto di una formale verifica, nelle forme del collaudo, dell’inadempimento.

In motivazione, la Corte ha evidenziato da un lato che il nostro sistema processuale non contempla prove legali; dall’altro, che il procedimento di collaudo delle opere pubbliche corrisponde alla funzione, precipuamente civilistica, di verificare la sussistenza delle condizioni per procedere alla liquidazione del credito dell’appaltatore.

Compito del giudice penale è, invece, quello di accertare che dall’inadempimento degli obblighi derivanti dal contratto di fornitura concluso con lo Stato o con altri soggetti pubblici sia derivata la mancanza, totale o parziale di “cose o opere” necessarie all’espletamento delle attività di rilievo pubblicistico del committente pubblico.

Nel caso di specie, detta mancanza era stata adeguatamente motivata dai giudici del merito sulla base della documentazione acquisita e delle testimonianze rese, nel contraddittorio delle parti, da soggetti qualificati, come il responsabile unico del procedimento e del Responsabile dei lavori nominato dall’Azienda ospedaliera appaltante, nonché all’esito della puntuale critica delle prove contrarie offerte dalla difesa.

9. Il momento consumativo del delitto di frode nelle pubbliche forniture.

Sez. 6, n. 9081 del 23/11/2017 – dep. 2018 –, Aviano, Rv. 272384 ha affrontato il tema in un contesto nel quale occorreva stabilire se la prescrizione del delitto in parola fosse maturata prima della sentenza di primo grado o, invece, nel tempo trascorso tra questa e la successiva decisione del giudice d’appello, che aveva dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione, confermando le statuizioni civili di primo grado.

La questione era rilevante ai fini della validità delle statuizioni adottate ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., sul presupposto che “è illegittima la sentenza d’appello nella parte in cui, accertando che la prescrizione del reato è maturata prima della pronuncia di primo grado, conferma le statuizioni civili in questa contenute”, giacché in tale ipotesi “non sussistono i presupposti in presenza dei quali l’art. 578 cod. proc. pen. consente al giudice dell’impugnazione di decidere sugli effetti civili anche nel caso in cui dichiari l’estinzione del reato” (Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211191; conf., ex plurimis, Sez. 4, n. 27393 del 22/03/2018, P.G. in proc. Fasolino, Rv. 273726; Sez. 5, n. 32636 del 16/04/2018, Suraci, Rv. 273502; Sez. 2, n. 24458 del 22/03/2018, P.G. in proc. Domenico, Rv. 273235).

Secondo la prospettazione difensiva, il momento consumativo del reato avrebbe dovuto identificarsi con la data di fornitura dei beni, ritenuti di quantità, qualità e prezzo inferiori a quelli previsti dall’appalto. Il giudice d’appello, invece, aveva spostato in avanti detto momento, conferendo rilievo ai computi metrici allegati agli stati di avanzamento dei lavori e, da ultimo, al certificato di regolare esecuzione, nel quale si era falsamente attestata la conformità delle opere eseguite rispetto alle indicazioni del progetto e dei suoi analitici allegati.

La decisione Aviano ha affermato che “il mero inadempimento contrattuale non determina la consumazione del reato di cui all’art. 356 cod. pen., in quanto la condotta tipica presuppone anche la fraudolenta dissimulazione operata in danno del contraente pubblico, sicché, nel caso di prestazioni complesse e progressive, la consumazione del reato coincide con il momento in cui la P.A. è messa in condizione di compiere le attività di verifica e controllo”. Doveva dunque ritenersi corretta l’operazione della Corte d’appello che aveva individuato la data di consumazione del reato di cui all’art. 356 cod. pen. e la conseguente decorrenza della prescrizione, con riferimento alla presentazione del conto finale da parte dell’impresa appaltatrice e l’emissione del certificato di regolare esecuzione da parte del direttore dei lavori.

La decisione sembra conformarsi alla linea interpretativa che definisce la frode di cui all’art. 356 cod. pen., esigendo un quid pluris, rispetto al mero inadempimento contrattuale, consistente nella fraudolenta dissimulazione dell’aliud pro alio, nell’espediente malizioso o nell’inganno inteso a far apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti, secondo la lezione di Sez. 6, n. 5317 del 10/01/2011, Incatasciato, Rv. 249448 e di numerose pronunce precedenti (fra le altre, Sez. 6, n. 11144 del 25/02/2010, Semeraro, Rv. 246544; Sez. 6, n. 2631 del 12/04/2006, Cento, Rv. 235171; Sez. 6, n. 36567 del 09/05/2001, Nervoso, Rv. 220296).

Le ricadute di questa interpretazione sull’identificazione del momento di decorrenza del termine di prescrizione erano state già individuate da Sez. 6, n. 38346 del 15/05/2014, Moroni, Rv. 260269 (ripresa nel par. 2 della decisione Aviano).

Secondo questa decisione, proprio perché necessariamente integrata da un comportamento dissimulatorio, la condotta punibile “presuppone il compimento da parte del contraente pubblico di un’attività di verifica in grado di disvelare il mancato adempimento del contratto nei suoi profili essenziali, e pertanto coincide con la contestazione di specifici vizi o inadempienze all’appaltatore, non essendo sufficiente una qualsiasi difformità nell’esecuzione della prestazione o la mera interlocuzione fra le parti”.

Integrare nel momento consumativo la verifica e il controllo della stazione appaltante sulla prestazione eseguita dall’appaltatore non costituisce, secondo questa prospettiva, impropria confusione tra la condotta punibile e il suo accertamento, in quanto la dissimulazione, che della condotta tipica fa parte, postula necessariamente una relazione con il soggetto destinatario della frode.

Per altro verso, la soluzione indicata dalla sentenza Aviano rimanda a quanto affermato da Sez. 6, n. 50334 del 02/10/2013, La Chimia, Rv. 257847: “Il delitto di cui all’art. 356 cod. pen. presuppone un inadempimento fraudolento che si ponga come momento di una complessiva inesecuzione della prestazione, letta nella sua integralità e non parcellizzata tramite i singoli momenti attraverso i quali si realizza, salvo che gli stessi assumano un rilievo essenziale rispetto alla corretta esecuzione degli obblighi assunti”.

Nella decisione La Chimia, il principio conduceva all’annullamento di una sentenza di condanna che era stata pronunciata, nei confronti del responsabile di una società privata aggiudicataria dell’esternalizzazione di alcuni servizi regionali, in ragione di un singolo inadempimento, marginale nell’assetto complessivo del rapporto e dell’interesse pubblico da realizzare, consistito nell’aver adibito un dipendente a funzione diversa da quella pattuita.

Nella decisione Aviano, il medesimo principio serve ad affermare l’irrazionalità di soluzioni interpretative che, parcellizzando la condotta del fornitore inadempiente, releghino nell’area del post factum non punibile comportamenti di rilievo essenziale come l’aver falsamente certificato la conformità di una prestazione alle previsioni contrattuali.

Poiché la decisione in commento si colloca all’interno di un dibattito ricco di sfumature, sia nell’ambito della giurisprudenza di legittimità che in ambito dottrinario, è utile precisare che la scelta interpretativa di conferire rilievo al momento fraudolento della condotta punita dall’art. 356 cod. pen. non implica la pretesa di un evento decettivo, né della sequenza atto dispositivo patrimoniale – danno per la parte offesa/profitto per l’agente, che la norma in esame non richiede.

Emblematico al riguardo è il principio affermato dalla sentenza Moroni (Rv. 260270) in tema di diagnosi differenziale e concorso reale tra frode in pubbliche forniture e truffa:

“Il reato di frode nelle pubbliche forniture (art. 356 c.p.) non richiede una condotta implicante artifici o raggiri, propri del reato di truffa, né un evento di danno per la parte offesa, coincidente con il profitto dell’agente, essendo sufficiente la dolosa inesecuzione del contratto pubblico di fornitura di cose o servizi, con la conseguenza che ove ricorrano anche i suddetti elementi caratterizzanti la truffa è configurabile il concorso tra i due delitti” (conf. Sez. 2, n. 15667 del 20/03/2009, Mari, Rv. 243951).

Per completezza, deve segnalarsi che proprio la preoccupazione di distinguere gli elementi costitutivi della frode ex art. 356 cod. pen. da quelli tipici della truffa induce un filone giurisprudenziale ad escludere la necessità di espedienti dissimulatori per integrare il primo delitto, evocando la sufficienza dell’oggettiva violazione del canone di buona fede nell’esecuzione del contratto sancito dall’art. 1375 cod. civ. (v. Sez. 6, n. 6905 del 25/10/2016, Milesi, Rv. 269370 e le altre richiamate nella Relazione n. 51/2017 dell’Ufficio del Massimario).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 9845 del 16/04/1991, Sciuto, Rv. 188415-416 Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211191 Sez. 6, n. 12238 del 30/09/1998, De Simone, Rv. 213033 Sez. 6, n. 705 del 03/12/1999 – dep. 2000 –, Cervone, Rv. 215321 Sez. 6, n. 36567 del 09/05/2001, Nervoso, Rv. 220296 Sez. 6, n. 44829 del 22/09/2004, Di Vincenzo, Rv. 230522 Sez. 6, n. 4185 del 13/01/2005, P.G. in proc. Cadeddu, Rv. 230906 Sez. 1, n. 46546 del 11/11/2005, Castiglione, Rv. 232960 Sez. 6, n. 2631 del 12/04/2006, Cento, Rv. 235171 Sez. 6, n. 11144 del 25/02/2010, Semeraro, Rv. 246544 Sez. 6, n. 44497 del 03/12/2010, Rabbia, Rv. 248965 Sez. 6, n. 5317 del 10/01/2011, Incatasciato, Rv. 249448 Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, Adami, Rv. 254906 Sez. 6, n. 44896 del 22/10/2013, Franceschi, Rv. 257270 Sez. 6, n. 50334 del 02/10/2013, La Chimia, Rv. 257847 Sez. 6, n. 10886 del 28/11/2013 – dep. 2014 –, Grasso, Rv. 259494 Sez. 6, n. 38346 del 15/05/2014, Moroni, Rv. 260269 Sez. 5, n. 9671 del 14/07/2014 – dep. 2015 –, Russo, Rv. 262873 Sez. 6, n. 1 del 02/12/2014 – dep. 2015-, Pedrotti, Rv. 262917 Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015 – dep. 2016 –, Bonomelli, Rv. 267045 Sez. 6, n. 8044 del 21/01/2016, P.G. in proc. Cereda, Rv. 266118 Sez. 6, n. 6259 del 27/01/2016, Bellinazzo, Rv. 266313 Sez. 5, n. 25091 del 16/06/2016, Annese, Rv. 267324 Sez. 6, n. 653 del 14/10/2016 – dep. 2017 –, Venturini, Rv. 269525 Sez. 6, n. 6905 del 25/10/2016, Milesi, Rv. 269370 Sez. 6, n. 13431 del 16/02/2017, Imperadore, Rv. 269384 Sez. 6, n. 9385 del 13/04/2017 – dep. 2018 –, Giugliano, Rv. 272226-227 Sez. 2, n. 28388 del 21/04/2017, Leo, Rv. 270388 Sez. 6, n. 49266 del 10/10/2017, Gabbiadini, Rv. 271571 Sez. 6, n. 57251 del 09/11/2017, Vigato, Rv. 271727-271728 Sez. 6, n. 9081 del 23/11/2017 – dep. 2018 –, Aviano, Rv. 272384 Sez. 6, n. 19112 del 22/02/2018, Zanotti, Rv. 273785 Sez. 2, n. 34746 del 04/05/2018, Porcari, Rv. 273550 Sez. 4, n. 27393 del 22/03/2018, P.G. in proc. Fasolino, Rv. 273726 Sez. 2, n. 24458 del 22/03/2018, P.G. in proc. Domenico, Rv. 273235 Sez. 6, n. 29267 del 05/04/2018, Baccari, Rv. 273449 Sez. 5, n. 32636 del 16/04/2018, Suraci, Rv. 273502 Sez. 6, n. 40890 del 29/05/2018, C. Sez. 6, n. 34948 del 14/06/2018, Turotti, Rv. 273789

  • reato
  • corruzione
  • diritto penale

CAPITOLO III

LA TRUFFA E IL PECULATO

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 Gli elementi distintivi tra i reati di peculato e truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9, cod. pen.  - 2 La nozione penalistica di possesso. - 2.1 Il possesso nell’ambito delle procedure complesse. - Indice delle sentenze citate

1. Gli elementi distintivi tra i reati di peculato e truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9, cod. pen. 

Nell’anno in corso la Corte, pronunciandosi in relazione a condotte appropriative poste in essere da pubblici ufficiali o da incaricati di pubblico servizio, ha confermato il consolidato orientamento secondo cui l’elemento distintivo tra i reati di peculato e truffa aggravata dall’abuso di potere o dalla violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o ad un pubblico servizio non va individuato nella precedenza cronologica o nella contestualità dell’appropriazione rispetto all’attività ingannatoria, bensì nelle modalità di acquisizione del possesso del denaro o del bene pubblico oggetto di appropriazione. Si ritiene, infatti, sussistere il delitto di peculato allorché il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio fa proprio il bene di cui ha già il possesso o la disponibilità giuridica per ragioni del suo ufficio o del servizio, ricorrendo eventualmente all’artificio o al raggiro per occultare la commissione dell’illecito, per assicurarsi l’impunità o per appropriarsi del bene. In tale ultimo caso, dunque, l’inganno o il raggiro integra una mera modalità con la quale viene posta in essere la condotta appropriativa (Sez. 6, n. 10680 del 21/09/1988, Barone, Rv. 179604) ovvero un post factum non punibile in quanto compiuti per conseguire un risultato ulteriore finalizzato all’occultamento o al perfezionamento della materiale appropriazione della res (Sez. 6, n. 10569 del 05/12/2017, dep. 08/03/2018, Alfieri, Rv. 273395). Sussiste, invece, il delitto di truffa allorché il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene (Sez. 6, n. 39010 del 10/04/2013, Baglivo, Rv. 256595; Sez. 6 n. 5087 del 21/01/2014, Bartolone, Rv. 258051; Sez. 6, n. 10309 del 22/01/2014, Lo Presti, Rv. 259507; Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014, Campanile, Rv. 260154; Sez. 6, n. 10762 del 01/02/2018, Gambino; Sez. 6, n. 21314 del 05/04/2018, Prospero, Rv. 272949).

Il medesimo criterio è stato utilizzato per distinguere il delitto di peculato da quello di frode informatica (art. 640-ter cod. pen.) in cui, a differenza del reato di truffa, l’attività fraudolenta dell’agente investe non la persona (soggetto passivo), di cui difetta l’induzione in errore, bensì il sistema informatico di pertinenza della medesima, attraverso la manipolazione di detto sistema (Sez. 2, n. 44720 del 11/11/2009, Gabbriellini, Rv. 245696; Sez. 2, n. 41435 del 09/06/2016, Valenza, Rv. 268270). Sez. 6, n. 21739 del 01/03/2018, Waldner, Rv. 272929, ha, infatti, affermato che è configurabile il peculato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropri del bene avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragioni dell’ufficio o servizio, mentre ricorre la frode informatica quando il soggetto attivo si procuri il possesso della predetta res fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per procurarsi un ingiusto profitto con altrui danno (conf. Sez. 5, n. 24634 del 06/04/2018, Talluto).

Nel peculato, dunque, il possesso precede la condotta appropriativa e trova la sua causa nelle ragioni di ufficio o di servizio. Gli artifici o la falsa documentazione non incidono sulla struttura del reato, ma servono per occultarlo (Sez. 5, n. 24634 del 06/04/2018, Talluto). Tale delitto si consuma, dunque, con l’appropriazione del bene o del denaro pubblico. Diversamente, come precisato dalla sentenza Alfieri, la truffa si consuma con il conseguimento del bene ottenuto con la frode o l’inganno, essendo in tale momento che il funzionario consegue l’ingiusto profitto con altrui danno. In tal caso, infatti, gli artifici ed i raggiri costituiscono uno degli elementi costitutivi del reato e sono antecedenti all’appropriazione fraudolenta del bene altrui (Sez. 5, n. 24634 del 06/04/2018, Talluto).

La causa del possesso consente, inoltre, di distinguere il delitto di peculato da quello di appropriazione indebita in quanto, il primo postula il previo possesso da parte del soggetto agente per ragioni di ufficio o di servizio, mentre l’appropriazione indebita presuppone che il possesso sia stato devoluto all’agente “intuitu personae” e l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri servono all’autore non per procurarsi il possesso ma ad agevolarlo nella realizzazione della condotta tipica (Sez. 6, n. 21314 del 05/04/2018, Prospero).

2. La nozione penalistica di possesso.

Già in epoca precedente la riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, introdotta con la legge 26 aprile 1990, n. 86, la giurisprudenza di legittimità ha interpretato la nozione di possesso assunta dall’art. 314 cod. pen. attribuendole un significato più ampio di quello civilistico. Si ritiene, infatti, non necessario che il pubblico ufficiale abbia la materiale detenzione o la diretta disponibilità del denaro, essendo sufficiente la disponibilità giuridica, ossia la possibilità di disporne, mediante un atto di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, e di conseguire quanto poi costituisca oggetto di appropriazione (ex plurimis: Sez. 6, n. 6753 del 04/06/1997, Finocchi, Rv. 211008; Sez. 6, n. 11633 del 22/01/2007, Guida, Rv. 236146; Sez. 6, n. 7492 del 18/10/2012, Bartolotta, Rv. 255529; Sez. 6, n. 45908 del 16/10/2013, Orsi, Rv. 257385; Sez. 6, n. 10762 del 01/02/2018, Gambino). Nella nozione di possesso qualificato dalla ragione dell’ufficio o del servizio è stato, inoltre, ricompreso non solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez. 6, n. 12368 del 17/10/2012, Medugno, Rv. 255998; Sez. 6, n. 9660 del 12/02/2015, Zonca, Rv. 262458; Sez. 6, n. 33254 del 19/05/2016, Caruso, Rv. 267525; Sez. 6, n. 10569 del 05/12/2017, dep. 08/03/2018, Alfieri; Sez. 6, n. 19484 del 23/01/2018, Bellinazzo).

Sez. 6, n. 4129 del 19/02/1993, Resta, Rv. 194522, ha, tuttavia, precisato che il concetto di disponibilità «non può essere allargato fino a comprendervi una qualsiasi relazione, anche mediata ed eventuale con la cosa o con il denaro, valendo invece ad indicare quei soli poteri giuridici che consentono all’agente, che sia privo del corpus del possesso, di esplicare sulla cosa quegli stessi comportamenti, uti dominus, che vengono a substanziare la condotta di appropriazione.» Di conseguenza, sono stati esclusi dal concetto di disponibilità quei poteri del pubblico ufficiale che possono assimilarsi non già alle facoltà del “dominus”, ma a quelle del creditore in un rapporto obbligatorio e che gli consentono di esigere la prestazione della controparte o di adempiere alla propria, ponendo le premesse per l’adempimento altrui.

Secondo un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, il denaro versato dal contribuente al concessionario in adempimento di un’obbligazione tributaria verso lo Stato o altro ente pubblico appartiene alla P.A. sin dal momento dell’esazione, prima ancora che l’esattore provveda al suo versamento nelle casse dello Stato, con la conseguenza che l’eventuale imputazione di tali somme alla copertura di voci di altra natura, esulanti dal fine pubblico per cui sono state versate e ricevute, ovvero l’omesso o ritardato versamento di tali somme, realizza la condotta appropriativa di cui all’art. 314 cod. pen. (Sez. 6, n. 45082 del 01/10/2015, Marrocco, Rv. 265342; Sez. 6, n. 46235 del 21/09/2016, Froio, Rv. 268127; Sez. 6, n. 32058 del 17/05/2018, Locane, Rv. 273446). Ciò anche nel caso in cui si tratti di obbligazioni di quantità cui l’esattore sia tenuto verso l’ente impositore (Sez. 6, n. 36656 del 04/06/2015, Tortello, Rv. 264583). L’omesso o ritardato versamento delle somme ricevute per conto della P.A. costituisce, infatti, inadempimento non ad un proprio debito pecuniario, ma all’obbligo di consegnare il denaro al suo legittimo proprietario, cosicché si ritiene che la sottrazione della “res” alla disponibilità dell’ente pubblico per un lasso temporale ragionevolmente apprezzabile, realizza una inversione del titolo del possesso “uti domius” idonea ad integrare la fattispecie del peculato che è un reato a consumazione istantanea (Sez. 6, n. 17616 del 27/03/2008, Pizza, Rv. 240068; Sez. 6, n. 2963 del 29/11/2017, dep. 22/01/2018, De Luca Rv. 272131, in relazione alla riscossione delle tasse automobilistiche; Sez. 6, n. 15853 del 01/02/2018, Munafò, Rv. 272910 in relazione alla rivendita di valori bollati; Sez. 6, n. 32058 del 17/05/2018, Locane, Rv. 273446 in relazione all’omesso versamento delle somme riscosse a titolo di imposta di soggiorno da parte del gestore di una struttura ricettiva residenziale).

Si afferma, infatti, che il rapporto di concessione è caratterizzato dal fatto che il denaro versato dal contribuente è destinato alla pubblica amministrazione cosicché, anche quando il denaro è riscosso da un soggetto che agisce nell’interesse della P.A., il possesso così conseguito rimane qualificato dal fine pubblico cui risulta destinato.

2.1. Il possesso nell’ambito delle procedure complesse.

La giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente ampliato la nozione penalistica di possesso con riferimento alle c.d. procedure complesse, quali le ordinarie procedure di spesa.

Si è, infatti, ritenuto che il possesso del denaro della pubblica amministrazione può anche essere mediato e far capo congiuntamente a più pubblici ufficiali quando le norme interne dell’ente pubblico prevedono che l’atto dispositivo sia di competenza di un organo collegiale ovvero richieda l’intervento di più organi dello stesso ente (Sez. 6, n. 5502 del 11/01/1996, Zini, Rv. 204987; Sez. 6, n. 10680 del 21/09/1988, Barone, Rv. 179605). In tal caso, secondo quanto affermato da Sez. 6, n. 139 del 08/11/1971, Bianco, Rv. 119841, può, dunque, accadere che uno solo dei compossessori mediati del denaro pubblico compia illecitamente la parte di sua competenza dell’atto dispositivo, conseguendo la disponibilità del denaro per effetto della semplice omissione di ogni controllo da parte degli altri compossessori, senza necessariamente averli ingannati o indotti in errore.

Con riferimento al caso in cui il funzionario infedele ricorra all’inganno per ottenere l’atto dispositivo, Sez. 6, n. 10762 del 01/02/2018, n. 10762, Gambino, Rv. 272761, ha affermato che risponde di peculato mediante induzione in errore, ex artt. 48 e 314 cod. pen., e non di truffa aggravata, il pubblico ufficiale, preposto all’organo competente all’istruttoria della pratica ed alla predisposizione del provvedimento finale, che, inducendo in errore il consiglio di amministrazione di un ente sulla legittimità della delibera di spesa, ne ottiene l’approvazione con conseguente erogazione a taluni dipendenti di compensi di importo superiore a quello dovuto. Ad avviso del Collegio, infatti, il frazionamento della disponibilità giuridica del bene tra i diversi organi non esclude la configurabilità del peculato in quanto l’art. 314 cod. pen. non richiede quale presupposto l’esclusività del possesso o della disponibilità del bene. Si è, pertanto, affermato che qualora il pubblico agente, che “co-detiene” la disponibilità giuridica del bene, induce in errore gli altri pubblici ufficiali, al fine di appropriarsene, lo stesso abusa della propria disponibilità giuridica e, in virtù del combinato disposto degli artt. 48 e 314 cod. pen., tale condotta è qualificabile come peculato. Ad avviso del Collegio, tale conclusione consegue al carattere di specialità dell’art. 314 cod. pen., consistente nella precedente disponibilità giuridica del bene, rispetto alla diversa fattispecie del delitto di truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9, cod. pen., la cui sfera di operatività attiene al diverso caso in cui il pubblico agente non abbia la disponibilità o la co-disponibilità del bene.

La configurabilità del delitto di peculato mediante induzione in errore, ai sensi del combinato disposto degli artt. 48 e 314 cod. pen., era stata precedente ammessa in numerosi arresti della Corte (Sez. 6, n. 186 del 28/01/1970, Chiarantaretto, Rv. 114961; Sez. 6, n. 139 del 08/11/1971, Bianco, Rv. 119841; Sez. 6, n. 2064 del 13/01/1984, Forino, Rv. 162992; Sez. 6, n. 37030 del 10/06/2003, Maronato, Rv. 227007; Sez. 6, n. 39039 del 15/04/2013, Malvaso, Rv. 257096). In particolare, la sentenza Maronato ha affermato che il pubblico ufficiale che emette mandati di pagamento, supponendo in buona fede che il denaro sia destinato a coprire spese effettivamente sostenute dal proprio ufficio, non concorre nel reato di peculato con il proprio dipendente, il quale, prospettando fittiziamente tali spese, lo abbia sollecitato ad emettere i relativi mandati col pretesto di eseguire il pagamento, appropriandosi delle somme in esse portate.

Inoltre, un arresto isolato della Sesta sezione, n. 4411 del 01/03/1996, Menia Bagatin, Rv. 204775, ha ritenuto che debba rispondere di peculato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 48 e 314 cod. pen., anche l’estraneo che, traendo in inganno il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, si appropri di una cosa da questo posseduta per ragioni del proprio ufficio.

Ad una conclusione diametralmente opposta è, invece, pervenuta Sez. 6, n. 31243 del 04/04/2014, Currao, Rv. 260505 che, senza affrontare il tema dell’applicabilità dell’art. 48 cod. pen. in relazione al delitto di peculato, ha ravvisato gli estremi del delitto di truffa, aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 9, cod. pen., e non di quello di peculato, nel caso in cui l’atto che in concreto produce l’effetto di appropriazione si inserisce in una procedura articolata, nella quale più soggetti sono chiamati ad intervenire e l’agente infedele, per ottenere il trasferimento della cosa nella sua materiale e personale disponibilità, deve ricorrere ad una condotta decettiva che gli procuri il compimento di atti di disposizione aventi natura costitutiva la cui adozione compete a terzi. (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata che aveva ravvisato il delitto di truffa aggravata nella condotta del dipendente della tesoreria di un ente locale il quale aveva predisposto mandati di pagamento informatici falsificando il codice IBAN dell’effettivo creditore a vantaggio proprio o di suoi concorrenti, per la cui esecuzione, tuttavia, era richiesto il successivo visto del dirigente responsabile della spesa ed eventualmente quello della Corte dei conti)”. Ad avviso della Corte, infatti, il criterio elaborato dalla giurisprudenza al fine di distinguere il reato di peculato, cui accedano condotte fraudolente, e quello di truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9, cod. pen. trova applicazione anche nei casi di procedure complesse. Si afferma, pertanto, che mentre l’art. 314 cod. pen. sanziona l’abuso del possesso e colpisce in particolare il «tradimento» di fiducia del soggetto al quale l’ordinamento ha conferito la possibilità di disporre in autonomia della cosa affidatagli, il delitto di truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9 cod. pen., sanziona «l’abuso funzionale» dell’agente pubblico. Alla luce di tale premessa ermeneutica, osserva la Corte che nel caso in cui le caratteristiche della procedura impongono all’agente di ricorrere ad una condotta decettiva fondata sulla frode al fine di procurarsi atti di disposizione, connotati da un valore costitutivo e rimessi ad altri soggetti (fuori dall’ipotesi di concorso nel reato), deve ritenersi che non vi è stato un pieno affidamento dell’amministrazione nei confronti dell’interessato, e che, soprattutto, manchi l’abuso del possesso da parte del funzionario infedele, sussistendo, invece, l’abuso della funzione.

Il tema della qualificazione della condotta appropriativa, risolto dalla sentenza Currao alla luce della dicotomia abuso del possesso – abuso della funzione, è stato affrontato da altro arresto della Sesta sezione n. 50758 del 15/12/2015, Bolzan, Rv. 265931, facendo riferimento alla presenza o meno nel procedimento amministrativo di una previa ed effettiva procedura di controllo da parte di più organi che potrebbero essere indotti in errore dalla condotta decettiva dell’agente infedele. Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto configurabile il delitto di peculato nella condotta della dipendente di una ASL, preposta all’intero procedimento per il pagamento delle prestazioni ai medici ambulatoriali interni – comprensivo sia della fase accertativa della prestazione da riconoscere ai singoli professionisti, sia di quella dispositiva del denaro da erogare – che, alterando i documenti informatici attraverso l’inserimento di IBAN diversi, faceva confluire parte del denaro su conti bancari nella propria disponibilità. La Corte, infatti, ha rilevato che l’interessata, partecipando al procedimento di formazione della volontà dell’ente, aveva già la disponibilità giuridica del denaro e, svolgendo un’attività connotata dall’impossibilità di un reale controllo, poteva farlo confluire in conti bancari nella sua sostanziale disponibilità senza necessità di carpire la volontà della p.a.erogatrice con artifici o raggiri. Ciò in quanto, in considerazione della natura ripetitiva delle voci di spesa e della natura tecnica del controllo, il procedimento di formazione della volontà della pubblica amministrazione era di fatto demandato al personale amministrativo, che solo poteva svolgere le necessarie verifiche delle ore lavorate e dei conti correnti intestati ai singoli, verifiche rispetto alle quali il visto formalmente apposto dal dirigente non consentiva di desumere alcun controllo reale.

Sempre in considerazione della presenza di un effettivo e reale controllo sugli atti predisposti dall’agente infedele, Sez. 6, n. 32863 del 25/5/2011, Pacciani, Rv. 250901, ha ritenuto configurabile il delitto di tentata truffa aggravata con riferimento alla condotta di due imputati che, nelle qualità di provveditore alle opere pubbliche e capo dell’ufficio tecnico, avevano falsificato i provvedimenti di nulla osta alle liquidazioni dei compensi in favore di due professionisti per prestazioni mai rese. In particolare, la Corte ha escluso che i due imputati avessero la disponibilità giuridica del denaro della p.a. in quanto, con riferimento alle erogazioni come quelle oggetto della fattispecie concreta, la disciplina del regolamento delle procedure di spesa e contabili (d.P.R. 20 aprile 1994, n. 367) prevede il controllo preventivo della ragioneria ed il controllo di legalità e regolarità della spesa cosicché nessun atto dispositivo poteva essere eseguito per ottenere la disponibilità del denaro e conseguire le somme oggetto di appropriazione senza la firma del dirigente responsabile della spesa, il visto della competente ragioneria e quello della Corte dei Conti.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 186 del 28/01/1970, Chiarantaretto, Rv. 114961 Sez. 6, n. 139 del 08/11/1971, Bianco, Rv. 119841 Sez. 6, n. 2064 del 13/01/1984, Forino, Rv. 162992 Sez. 6, n. 4129 del 19/02/1993, Resta, Rv. 194522 Sez. 6, n. 5502 del 11/01/1996, Zini, Rv. 204987 Sez. 6, n. 4411 del 01/03/1996, Menia Bagatin, Rv. 204775 Sez. 6, n. 6753 del 04/06/1997, Finocchi, Rv. 211008 Sez. 6, n. 10680 del 21/09/1998, Barone, Rv. 179604 Sez. 6, n. 37030 del 10/06/2003, Maronato, Rv. 227007 Sez. 6, n. 11633 del 22/01/2007, Guida, Rv. 236146 Sez. 6, n. 17616 del 27/03/2008, Pizza, Rv. 240068 Sez. 2, n. 44720 del 11/11/2009, Gabbriellini, Rv. 245696 Sez. 6, n. 32863 del 25/5/2011, Pacciani, Rv. 250901 Sez. 6, n. 12368 del 17/10/2012, Medugno, Rv. 255998 Sez. 6, n. 7492 del 18/10/2012, Bartolotta, Rv. 255529 Sez. 6, n. 39010 del 10/04/2013, Baglivo, Rv. 256595 Sez. 6, n. 39039 del 15/04/2013, Malvaso, Rv. 257096 Sez. 6, n. 45908 del 16/10/2013, Orsi, Rv. 257385 Sez. 6 n. 5087 del 21/01/2014, Bartolone, Rv. 258051 Sez. 6, n. 10309 del 22/01/2014, Lo Presti, Rv. 259507 Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014, Campanile, Rv. 260154 Sez. 6, n. 31243 del 04/04/2014, Currao, Rv. 260505 Sez. 6, n. 9660 del 12/02/2015, Zonca, Rv. 262458 Sez. 6, n. 36656 del 04/06/2015, Tortello, Rv. 264583 Sez. 6, n. 45082 del 01/10/2015, Marrocco Sez. 6, n. 50758 del 15/12/2015, Bolzan, Rv. 265931 Sez. 6, n. 33254 del 19/05/2016, Caruso, Rv. 267525 Sez. 2, n. 41435 del 09/06/2016, Valenza, Rv. 268270-01 Sez. 6, n. 46235 del 21/09/2016, Froio, Rv. 268127 Sez. 6, n. 2963 del 29/11/2017, De Luca Rv. 272131-01 Sez. 6, n. 10569 del 05/12/2017, Alfieri, Rv. 273395 Sez. 6, n. 19484 del 23/01/2018, Bellinazzo Sez. 6, n. 10762 del 01/02/2018, Gambino, Rv. 272761 Sez. 6, n. 15853 del 01/02/2018, Munafò, Rv. 272910-01 Sez. 6, n. 21739 del 01/03/2018, Waldner, Rv. 272929-01 Sez. 6, n. 21314 del 05/04/2018, Prospero, Rv. 272949 Sez. 5, n. 24634 del 06/04/2018, Talluto, Rv. 273649 Sez. 6, n. 32058 del 17/05/2018, Locane, Rv. 273446

SEZIONE II I REATI FALLIMENTARI

  • reato
  • diritto penale
  • fallimento

CAPITOLO I

NOVITÀ IN TEMA DI REATI FALLIMENTARI

(di Giuseppe Marra )

Sommario

1 Questioni nuove in tema di operazione infragruppo. - 2 Precisazioni in relazione ai reati di cui all’art. 236 legge fallimentare. - 3 L’applicabilità dell’art. 2409 cod. civ. all’attività di controllo dei sindaci delle S.r.l. e conseguenze penali. - 4 Il problema della violazione del divieto di ne bis in idem tra i reati di appropriazione indebita e di bancarotta per distrazione degli stessi beni. - 5 Le pene accessorie della bancarotta fraudolenta dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018. - Indice delle sentenze citate

1. Questioni nuove in tema di operazione infragruppo.

In materia di bancarotta tra società infragruppo, tema sempre attuale e foriero di questioni nuove, si segnalano in particolare due sentenze: la prima, Sez. 5, n. 34457 del 05/04/2018, Castiglioni e altro, Rv. 273625, che offre un primo approfondimento circa la rilevanza del contratto cosiddetto di cash pooling con riguardo a pagamenti all’interno di un gruppo societario; la seconda, Sez. 5, n. 31997 del 06/03/2018, Vannini e altri, Rv. 273635, che estende la figura del “gruppo di imprese” anche tra enti che abbiano differente natura giuridica, nella specie tra società di capitali e un’associazione senza fini di lucro.

La sentenza n. 34457 del 2018 ha espresso un principio di diritto massimato nei seguenti termini: “In materia di bancarotta tra società infragruppo, i pagamenti in favore della controllante non configurano il reato di bancarotta preferenziale e possono eventualmente essere ricondotti all’operatività del contratto cosiddetto di “cash pooling” – che consiste nell’accentrare in capo ad un unico soggetto giuridico l’amministrazione delle disponibilità finanziarie di un gruppo societario, operando tramite la gestione di un conto corrente unico sul quale vengono riversati i saldi dei conti correnti periferici di ciascuna consociata – solo qualora ricorra la formalizzazione di tale contratto di conto corrente intersocietario, con puntuale regolamentazione dei rapporti giuridici ed economici interni al gruppo. (Nella fattispecie, la Corte ha respinto i ricorsi degli imputati volti a ricondurre i pagamenti preferenziali nell’ambito del contratto di “cash pooling”, rilevando che dai documenti della società fallita non risultava alcun formale contratto di tal genere, ma solo una prassi del gruppo societario tesa alla gestione delle risorse finanziare del gruppo nella maniera più utile per affrontare situazioni di criticità economica comuni)”. L’approfondita motivazione, dopo aver descritto i requisiti tipo del contratto c.d.di cash pooling, che può essere concluso all’interno di un gruppo di società per gestire in maniera più proficua le disponibilità finanziare delle varie società, ha affrontato in termini astratti la rilevanza di tale figura contrattuale nel caso di pagamenti in favore della controllante al fine di escludere la configurabilità del reato di bancarotta preferenziale. La Corte ha ammesso che siffatto contratto potrebbe avere rilevanza, ma solo alla condizione che esso sia stato formalizzato e contenga una puntuale regolamentazione dei rapporti giuridici ed economici interni al gruppo, in cui la gestione unitaria della situazione finanziaria del gruppo potrebbe consentire la compensazione dei saldi attivi di conto corrente di alcune società con i saldi negativi di altre, realizzando così un risparmio di interessi passivi ed ottenendo il risultato indiretto di finanziare le società che presentano una posizione debitoria nei confronti degli istituti di credito. Nel caso di specie però la Quinta sezione non ha rinvenuto in capo alla società fallita alcun vantaggio compensativo derivante dalla presunta (e non provata) operazione di cash pooling, rigettando perciò il ricorso degli imputati, condannati per bancarotta fraudolenta preferenziale, che avevano eccepito come un tale accentramento della tesoreria delle società del gruppo in capo alla capogruppo presentasse anche vantaggi compensativi che avrebbero dovuto essere considerati nella logica infragruppo.

La sentenza n. 31997 del 2018, invece, ha affermato il seguente innovativo principio, secondo cui: “In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale è configurabile un “gruppo di imprese” – rilevante ai fini della ipotizzabilità di eventuali “vantaggi compensativi” – anche tra enti che abbiano differente natura giuridica (società ed associazioni senza fini di lucro), purchè tra loro si instauri un rapporto di direzione nonché di coordinamento e controllo delle rispettive attività facente capo al soggetto giuridico controllante. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso, in concreto, l’esistenza di un “gruppo di imprese” per l’assenza di attività di direzione da parte dell’associazione senza fini di lucro indicata come controllante, nonchè di un centro unico di coordinamento delle attività e di un piano di azione imprenditoriale comune con le società fallite ad essa collegate)”. La sentenza che opera un’ampia ricostruzione della figura giuridica del “gruppo di impresa” e del tema dei cosiddetti “vantaggi compensativi” per escludere la rilevanza penale di atti distrattivi, individua in relazione a queste due questioni piuttosto frequenti nei processi per bancarotta fraudolenta per distrazione, il nucleo essenziale di identificazione dei predetti fenomeni societari.

Quanto alla nozione di “ gruppo” di imprese si afferma che ciò che rileva non è tanto la natura societaria di tutti i suoi componenti ( che possono essere quindi anche degli enti non commerciali, non soggetti a procedura fallimentare in caso di decozione), quanto piuttosto “…la relazione economico-imprenditoriale tra i soggetti imprenditoriali componenti del gruppo e la presenza di un ente con funzioni di coordinamento e direzione”. Il nucleo essenziale è perciò individuato nel rapporto di direzione, coordinamento e controllo delle attività di gestione, e ciò anche tale attività di gestione spetti a un’associazione rispetto a delle società di capitali.

Con riferimento all’eccezione sollevata dalla difesa circa la presenza di eventuali “vantaggi compensativi” per le società fallite al fine di escludere la natura distrattiva di un’operazione intergruppo, è stata ribadita la posizione già espressa in più occasioni dalla Suprema Corte, ossia che non è sufficiente allegare la mera partecipazione al gruppo, ovvero l’esistenza di un vantaggio per la società controllante, dovendo invece l’interessato dimostrare il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse del gruppo, elemento indispensabile per considerare lecita l’operazione temporaneamente svantaggiosa per la società depauperata (cfr., tra le tante, Sez. 5, n. 46689 del 30/6/2016, Coatti, Rv. 268675; Sez. 5, n. 44963 del 27/9/2012, Bozzano, Rv. 254519). In sintesi, si è perciò riaffermato che la natura distrattiva di un’operazione infragruppo può essere esclusa solo in presenza di vantaggi compensativi che riequilibrino gli effetti immediatamente negativi per la società fallita e neutralizzino gli svantaggi per i creditori sociali (così Sez. 5, n. 16206 del 02/03/2017, Magno, Rv. 269702).

2. Precisazioni in relazione ai reati di cui all’art. 236 legge fallimentare.

Nel corso del 2018 sono state decise alcune importanti questioni relative ai reati previsti dall’art. 236 legge fallimentare (Concordato preventivo e, accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari, convenzione di moratoria, norma modifica), norma modificata più volte nel corso del tempo, per ultimo dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 132. Come è noto il primo comma riguarda condotte illecite poste allo scopo di essere ammessi alla procedura di concordato preventivo o di omologazione di un accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari, mentre il secondo comma riguarda condotte poste in essere nel caso di concordato preventivo (punendo però condotte distrattive commesse anche prima dell’ammissione al concordato preventivo, ed a prescindere da una successiva dichiarazione di fallimento: così Sez. 5, n. 26444 del 28/05/2014, Denaro, Rv. 259849).

Con riguarda al primo comma dell’art. 236 legge fall. di sicuro interesse è la sentenza Sez. 5, n. 42591 del 10/07/2018, Marini e altri (in corso di massimazione), che ha approfondito due importanti questioni relativamente ai presupposti applicativi delle fattispecie previste dal citato primo comma. Quanto all’elemento oggettivo del reato, la sentenza chiarisce il significato da attribuire alla condotta dell’imprenditore che, “al solo scopo di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo…”, si attribuisce “..attività inesistenti..”. Nella specie i ricorrenti eccepivano che essi erano stati ingiustamente condannati per la sopravvalutazione operata nella richiesta di concordato preventivo di alcune poste attive ( il parco mezzi, un terreno e alcuni crediti), condotta estranea alla fattispecie incriminatrice contestata, la quale punisce esclusivamente l’esposizione di attività inesistenti e non anche, per l’appunto, la ipervalutazione di poste comunque esistenti. La sentenza dopo aver evidenziato l’esistenza di un contrasto che vede da una parte (la sentenza Sez. 5, n. 9392 del 3/07/1991, D’Amico, Rv. 188188) chi ha sostenuto il difetto di tipicità della condotta di sopravvalutazione di beni effettivamente esistenti nel patrimonio del fallito, e dall’altra, in epoca più recente, (Sez. 5, n. 3736 del 26/01/2000, Simoncelli, Rv. 215721) chi invece ha ritenuto che la formula normativa ricomprenda anche l’omessa indicazione di debiti e la sopravvalutazione di immobili, e, dunque, la simulazione o la dissimulazione, anche parziale dell’attivo o del passivo, ha sostenuto una posizione per cosi dire intermedia, affermando che : “ …è indubbio che l’errata valutazione di attività effettivamente esistenti nel patrimonio del fallito sia condotta che travalica il tenore letterale della norma incriminatrice. Va però precisato che l’attribuzione di attività inesistenti è condotta integrata anche quando la sopravalutazione si traduca nella vera e propria esposizione di poste attive sostanzialmente insussistenti, come nel caso in cui lo scostamento dal valore reale di queste ultime sia tale da far apparire come esistente un bene intrinsecamente diverso da quello realmente presente nel patrimonio dell’imprenditore. Nella ricostruzione dell’effettivo significato della locuzione normativa è infatti necessario, come opportunamente sottolineato nella sentenza Simoncelli, fare riferimento alla ratio dell’incriminazione e, dunque, alla peculiare funzione informativa che la comunicazione dell’imprenditore sulla propria consistenza patrimoniale svolge ai fini della valutazione giudiziale dell’ammissione alla procedura concordataria e di quella del ceto creditorio sull’opportunità di aderirvi ”. La Corte, in applicazione del predetto principio, ha quindi ritenuto corretta l’interpretazione fornita dai giudici di appello in ordine alla sussistenza del reato contestato poiché la sentenza impugnata aveva valutato che le attestazioni concernenti il parco automezzi ed i crediti fossero al tal punto sommarie da non poter essere riferite a specifici beni concretamente individuabili, risultando, così, sostanzialmente fittizie. Tuttavia la sentenza di condanna è stata annullata senza rinvio perché il fatto contestato non è previsto come reato, in relazione alla qualifica soggettiva degli imputati, nella loro qualità di amministratori e soci illimitatamente irresponsabili di una società in nome collettivo, laddove l’art. 236, comma primo, l. fall. individua il soggetto attivo del reato esclusivamente nell’imprenditore individuale. La sentenza de quo, in conformità ad un risalente precedente della Corte (così Sez. 5, n. 14773 del 2/06/1989, Danesi, Rv. 182422) ha optato per l’interpretazione restrittiva aderente alla lettera della legge, affermando però che “….in dottrina non si è mancato di evidenziare l’incomprensibilità della scelta legislativa..”, ma che tuttavia “… la lettera della disposizione citata non consente ampliamenti in via interpretativa che si risolverebbero nell’applicazione dell’analogia in malam partem, atteso che, quando il legislatore ha inteso estendere le incriminazioni previste dalla legge fallimentare ai soggetti titolari di cariche societarie, lo ha indicato in maniera espressa. Né è possibile superare i limiti esegetici della norma incriminatrice ricorrendo alla clausola di estensione della responsabilità ai soci illimitatamente responsabili di società in nome collettivo di cui all’art. 222 legge fall., posto che, espressamente, tale disposizione riguarda esclusivamente le fattispecie di bancarotta propria previste nel Capo I del Titolo IV della suddetta legge e cioè quelle previste dagli artt. 216, 217 e 218 della medesima”. Sul tema delle qualifiche soggettive dei reati di cui all’art. 236 legge fall., è utile a questo punto ricordare la massima della sentenza Sez. 5, n. 10517 del 29/09/1983, Totaro, Rv. 161588, che, con riferimento alle previsioni del secondo comma dell’art. 236 legge fall., afferma: “È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 236, secondo comma, n. 1, legge fallimentare, in relazione all’art. 3 cost., nella parte in cui dichiara applicabili, nel caso di concordato preventivo o di amministrazione controllata, le disposizioni degli artt. 223 e 224 agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società, e non anche agli imprenditori individuali”.

Con riferimento invece alle fattispecie illecite contenute nel secondo comma dell’art. 236 L.fall., merita di essere segnalata la Sez. 5, n. 39517 del 15/06/2018, Schiano, Rv. 273842, la cui massima afferma: “ Non viola il divieto di estensione analogica in malam partem la configurabilità del reato di cui all’art. 236 legge fall. anche nell’ipotesi di concordato preventivo con continuità aziendale, previsto dall’art. 186-bis legge fall. (introdotto dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134), poiché tale ultima disposizione normativa non ha disciplinato una nuova figura di concordato ma si è limitata a tipizzare una procedura già concretamente esistente nella prassi”.

La questione riguardava l’applicabilità dell’art. 236 legge fall. anche all’ipotesi anche al concordato preventivo con continuità aziendale, in assenza di un esplicito richiamo nella norma incriminatrice dell’istituto previsto dall’art. 186-bis legge fall., introdotto dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134. Il ricorrente eccepiva infatti che, rimasto immutato l’art. 236 legge fall., non era possibile estendere in malam partem la norma penale all’ipotesi di concordato preventivo con continuità aziendale, che configura un istituto del tutto diverso, in ragione della estraneità dello stato di decozione, sotto il profilo funzionale e strutturale, dalla procedura concordataria liquidativa.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando perentoriamente che il citato art. 186bis non ha introdotto nella legge fallimentare un nuovo istituto concordatario, ma ha solo dettato una compiuta disciplina ad una procedura già ricompresa nella pluralità di forme attraverso cui il concordato preventivo poteva già essere declinato. In estrema sintesi una funzione ricognitiva e non innovativa di quanto già esistente nella prassi. Fatta questa premessa la conclusione giuridica è stata nel senso di negare la sussistenza di un fenomeno successorio della legge extrapenale, rilevante ai sensi dell’art. 2 cod. pen..

In motivazione si legge infatti: “Nel caso in disamina, l’intervento normativo attuato mediante inserimento, nella legge fallimentare, dell’art. 186-bis ha comportato la mera previsione, in dettaglio, di speciali benefici connessi all’istituto del concordato con continuità aziendale, invece strutturalmente già previsto in quanto rientrante nel novero delle molteplici forme in cui la procedura concordataria poteva già atteggiarsi, in presenza dei previsti requisiti. Di guisa che lo ius novum è circoscritto alla sola triplice esplicazione della prosecuzione dell’attività d’impresa, declinata “in modo legalmente tipico dall’art. 186bis”, e dai requisiti formali ivi previsti, ma non investe in alcun modo le coordinate essenziali dell’istituto, non dispiegando effetto alcuno sulla portata del precetto penale di cui all’art. 236 legge fall. In tal senso, il mancato richiamo all’art. 186-bis nella norma incriminatrice appare del tutto in linea con la funzione e la struttura della predetta norma extrapenale, e non esprime, invece – come prospettato dal ricorrente – alcuna volontà del legislatore di escludere rilievo penale a gravi condotte consumate prima o mediante la procedura di concordato con continuità aziendale, apparendo del tutto irragionevole ritagliare una pretesa area di impunità in riferimento a condotte distrattive poste in essere prima dell’ammissione o nel corso del concordato preventivo, in qualunque declinazione l’istituto operi, rientrando le stesse nell’ambito previsionale dell’art. 236, comma 2, n. 1) L. fall. che, in virtù dell’espresso richiamo del precedente art. 223 della stessa legge, punisce i fatti di bancarotta previsti dall’art. 216, commessi da amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società fallite. Non vi è, pertanto, alcuna giustificazione razionale nel pretendere un diverso regime penale rispetto ad una ipotesi di concordato che riposa sulle medesime condizioni delle ulteriori forme della stessa procedura, e che se ne distingue solo in ordine alla disciplina civilistica di dettaglio, funzionale alla continuità dell’attività di impresa”.

La decisione, negando la rilevanza della nuova norma extrapenale sul precetto penale dell’art. 236 legge fall. rimasto inalterato, si presenta quindi perfettamente in linea con i principi espressi dalle Sez. U, n. 2451/2008 del 27/09/2007 (dep. 16/01/2008), Pg in proc. Magera, Rv. 238197.

3. L’applicabilità dell’art. 2409 cod. civ. all’attività di controllo dei sindaci delle S.r.l. e conseguenze penali.

La sentenza Sez. 5, n. 44107 del 11/05/2018, Machieraldo, Rv. 274014, ha affermato un principio innovativo, ossia che nell’ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale, i componenti del collegio sindacale di una società a responsabilità limitata possono segnalare al tribunale le irregolarità di gestione degli amministratori ai sensi dell’art. 2409 cod. civ. (Denunzia al tribunale). In motivazione si legge sul punto la seguente argomentazione sistematica: “ Per l’adempimento dei compiti riservatigli dalla legge il collegio sindacale, ed ogni suo componente, è titolare di una serie di poteri che lo pongono senz’altro in condizione di assolvere compiutamente ed efficacemente l’incarico. Esso può, infatti, procedere, in ogni momento, ad “atti di ispezione e controllo”, nonché chiedere informazioni agli amministratori su ogni aspetto dell’attività sociale o su determinati affari (art. 2403/ bis cod. civ.) e deve convocare l’assemblea societaria quando ravvisi fatti censurabili di rilevante gravità (art. 2406 cod. civ.); inoltre, può, e all’occorrenza deve, secondo una parte della giurisprudenza (tutta di merito) finora formatasi sul punto, denunziare al Tribunale le gravi irregolarità commesse dall’amministratore, per consentire all’Autorità giudiziaria di intraprendere le iniziative di sua competenza (art. 2409 cod. civ., ultimo comma, cod. civ.). Sebbene l’argomento sia oggetto di discussione anche nella giurisprudenza civile, non è corretto affermare – ad avviso di questo Collegio – che il collegio sindacale delle società a responsabilità limitata sia sprovvisto del potere di segnalazione previsto dall’art. 2409 cod. civ., giacché la norma suddetta disciplina, con carattere di generalità, i poteri del collegio sindacale, laddove esistente..”. Fatta questa premessa la Corte ha rigettato il ricorso dell’imputato, sindaco di una società fallita, che era stato condannato per concorso nella bancarotta fraudolenta patrimoniale, perché omettendo i dovuti controlli sull’operato degli amministratori infedeli aveva favorito i propositi distrattivi di questi ultimi . Ovviamente la Corte ha ribadito che dal punto di vista dell’elemento soggettivo non basta provare che il componente del collegio sindacale abbia operato con negligenza o imperizia anche gravi, ma occorre sempre dimostrare che la sua condotta omissiva ha determinato o favorito, consapevolmente, la commissione di fatti di bancarotta da parte dell’amministratore.

La sentenza Machieraldo si pone in linea di continuità con altri precedenti giurisprudenziali che hanno affermato la responsabilità per concorso nel delitto di bancarotta commesso dall’amministratore dei componenti del collegio sindacale per omesso esercizio dei poteri di controllo. Si segnala in particolare Sez. 5, n. 18985 del 14/01/2016, A T e altri, Rv. 267009, la cui massima afferma : “ I componenti del collegio sindacale concorrono nel delitto di bancarotta commesso dall’amministratore della società anche per omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo loro attribuiti dagli artt. 2403 cod. civ. e ss., che non si esauriscono nella mera verifica contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori ma, pur non investendo in forma diretta le scelte imprenditoriali, si estendono al contenuto della gestione sociale, a tutela non solo dell’interesse dei soci ma anche di quello concorrente dei creditori sociali ” (conf. Sez. 5, n. 14045 del 22/03/2016, De Cuppis e altri, Rv. 266646; in sede civile è stato riconosciuta la responsabilità dei sindaci per omessa vigilanza da Sez. 1, n. 22911 del 11/11/2010, Casana e altro contro Alpi Assic. S.p.a. in Lca, Rv. 614697). La novità però consiste nell’aver ritenuto applicabile anche all’ambito delle società a responsabilità limitata la disciplina di cui all’art. 2409 cod. civ. prevista espressamente solo per le società per azioni. Va infatti sottolineato che tale estensione è stata negata dalla Cassazione civile dalla sentenza Sez. 1, n. 403 del 13/01/2010, Della Fonte e altri contro Erroi, Rv. 611079, che ha ritenuto che in tal senso deponga, oltre alla diversità dei connotati attribuiti a tale tipo di società dalla riforma organica di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la formulazione letterale dell’art. 2488 cod. civ. (nel testo introdotto dal d.lgs. n. 6 cit.) e dell’art. 92 disp. att. cod. civ., nonché, per le ipotesi in cui sia obbligatoria la costituzione del collegio sindacale, la genericità del rinvio alla disciplina delle società per azioni contenuto nell’art. 2477 cod. civ., il quale va pertanto riferito ai soli requisiti professionali ed alle cause di ineleggibilità, incompatibilità e decadenza dei sindaci previste dagli artt. 2397 e ss. cod. civ., conformemente all’intento manifestato dal legislatore di privatizzare il controllo societario in favore dei singoli soci. La questione giuridica appare perciò assolutamente “aperta” ad ulteriori prese di posizione.

4. Il problema della violazione del divieto di ne bis in idem tra i reati di appropriazione indebita e di bancarotta per distrazione degli stessi beni.

Il tema dei rapporti tra il delitto di appropriazione indebita di beni dell’impresa e la fattispecie di bancarotta patrimoniale per distrazione degli stessi bene è per così dire un “classico” che è stato più volte affrontato dalla giurisprudenza, anche sotto il profilo del divieto di bis in idem qualora vi sia un’identità oggettiva dei beni sottratti all’impresa.

La vicenda giunta all’attenzione della Cassazione, decisa con la sentenza Sez. 5, n. 25651 del 15/02/2018, Pessotto, Rv. 273468, riguardava il ricorso proposto dall’imputato che eccepiva la violazione dell’art. 649 cod. proc. pen. per il fatto di essere stato assolto con sentenza irrevocabile in altro giudizio dal reato di appropriazione indebita della somma di euro 35.000 della società da lui amministrata, condotta successivamente contestata negli stessi termini come bancarotta fraudolenta patrimoniale ex art. 216 legge fall., a seguito della dichiarazione di fallimento della società stessa. Pur essendoci identità di condotta dal punto di vista soggettivo ed oggettivo, l’imputato era stato comunque condannato per il reato di bancarotta, sull’assunto che “all’apparente unicità della condotta della condotta non corrisponde l’unicità del fatto”, giacché successivamente al giudicato assolutorio era intervenuto, secondo i giudici di appello, un fatto nuovo, da intendere come evento in senso naturalistico, costituito dal dissesto/insolvenza della società. La sentenza della Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’imputato riconoscendo la violazione del divieto di bis in idem, annullando con rinvio alla Corte d’Appello.

L’approfondita sentenza della Quinta sezione parte dall’analisi della pronuncia della Corte cost., n. 200 del 31/05/2016, che ha individuato la sussistenza dell’identità del fatto quando vi è corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (così anche Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Pg. in proc. Donati e altro, Rv. 231799). Il punto controverso era individuato quindi nella valutazione da attribuire all’ elemento specializzante della dichiarazione di fallimento, che “attualizza” l’offesa insita nell’appropriazione dei beni dell’impresa per fini personali, ledendo gli interessi dei creditori all’integrità delle garanzie patrimoniali. Il Collegio compie pertanto una scelta di campo ritenendo che la dichiarazione di fallimento è una condizione obiettiva di punibilità (quindi ulteriore rispetto agli elementi costitutivi del reato; cfr. Sez. 5, n. 4400/2018 del 6/10/2017 – dep. 2018 –, Cragnotti, Rv. 272256) che “…non può essere annoverata tra gli elementi che concorrono alla identificazione del fatto…” nell’accezione assunta dal giudice delle leggi. Di conseguenza depurata da questo elemento (la dichiarazione di fallimento), la bancarotta per distrazione non si differenzia in nulla dall’appropriazione indebita (quando, beninteso, abbiano lo stesso oggetto), sicché non presenta la diversità necessaria a superare il divieto di bis in idem.

La sentenza articola comunque una “controprova” per sostenere la violazione del divieto di bis in idem, ed afferma in conclusione quanto segue : “ Pur ammettendo (in ipotesi) che, agli effetti dell’art. 649 cod. proc. pen., appropriazione indebita e bancarotta siano fatti diversi, per la presenza, nella bancarotta, di un elemento naturalisticamente diverso dall’appropriazione, deve riconoscersi che l’unica condotta che ha dato origine ad entrambi i procedimenti era stata, prima dell’avvio del procedimento per il reato fallimentare, oggetto di accertamento in sede penale, con esito liberatorio per l’imputato, sicché su di esso si era formato il giudicato. Anche per tale motivo, quindi, la seconda azione penale non avrebbe potuto essere promossa ”.

La sentenza in esame non appare peraltro in contrasto con l’affermazione, consolidata in giurisprudenza, secondo cui il reato di bancarotta fraudolenta integra una figura di reato complesso ex art. 84 cod. pen. rispetto a quello di appropriazione indebita, con assorbimento di quest’ultimo in quello di bancarotta, sicché gli stessi fatti, già contestati ex art. 646 cod. pen., possono essere ricondotti, dopo la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, alla fattispecie di bancarotta ( così per ultimo Sez. 5, n. 2295/2016 del 03/07/2015 (dep. 20/01/2016), P.C. in proc. Marafioti, Rv. 266018), affrontando però il caso specifico in cui l’imputato era stato assolto in via definitiva dal reato di appropriazione indebita e successivamente processato per il delitto di bancarotta per distrazione delle stesse somme di denaro.

5. Le pene accessorie della bancarotta fraudolenta dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018.

La questione della legittimità costituzionale, in riferimento soprattutto agli artt. 3 e 27 della Costituzione, della durata fissa delle pene accessorie previste dagli artt. 216 e 223 legge fallimentare per i reati di bancarotta fraudolenta, ha trovato per ultimo soluzione con la sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 25/09/2018, che ha dichiarato l’illegittima costituzionale dell’ art. 216, ultimo comma legge fall. (richiamato dall’art. 223, ult. comma, legge fall.), nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente art. importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente art. importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».

La decisione di cui sopra giunge un pò a sorpresa in quanto il medesimo tema era stato affrontato dalla Corte costituzionale nel 2012 con la sentenza n. 134 del 21/05/2012, che aveva però dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 216, ult. comma, legge fall., sollevate anche dalla Corte di cassazione, che aveva invitato la Consulta a prendere una decisione additiva, in particolare di aggiungere le parole “fino a” all’ultimo comma dell’art. 216 legge fall., al fine di rendere possibile l’applicazione anche per quelle fattispecie della disciplina contenuta nell’art. 37 cod. pen. La Corte costituzionale, pur ribadendo l’opportunità che il legislatore ponesse mano ad una riforma delle pene accessorie, aveva fondato la sua decisione rilevando che “.. l’addizione normativa richiesta dai giudici a quibus non costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata, ed eccede i poteri di interventi di questa Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore”. Successivamente la questione era stata riproposta dalle difese in molti processi non trovando però mai accoglimento presso i giudici. La Suprema Corte in molteplici occasioni è intervenuta sul tema; si segnala per ultimo la sentenza Sez. 5, n. 33880 del 6/07/2018, Marchesi e altro, che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sia perché già risolta negativamente dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 134 del 2012, non qualificabile come «sentenza monito», sia perché la rigidità del sistema sanzionatorio previsto per il reato di bancarotta fraudolenta sarebbe solo parziale e limitata alle sole pene accessorie, mentre al giudice era comunque attribuito un ampio ventaglio per la graduazione della risposta sanzionatoria con la pena principale. Quanto all’ultima osservazione la Quinta sezione ha richiamato la sentenza della Corte costituzionale n. 91 del 04/04/2008 , la quale ha ribadito la tendenziale contrarietà delle pene fisse “ al volto costituzionale dell’illecito penale”, principio che però deve intendersi riferito alle pene fisse nel loro complesso e “…non ai trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide e articolazioni elastiche, in maniera tale da lasciare adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, ai fine dell’adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete”; di conseguenza i parametri costituzionali che esigono l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio non potevano, secondo la sentenza citata, considerarsi lesi nell’ipotesi di comminatoria, per un determinato illecito, di una pena principale dotata di una forbice edittale, congiunta ad una pena accessoria fissa; infatti, in una simile evenienza, il giudice conserva, agendo anche solo sulla pena principale, la possibilità di adeguare la risposta punitiva alle specificità del singolo caso. (cfr. in questi termini anche Sez. 5, n. 36087 del 03/05/2018, Cannone; Sez. 5, n. 33150 del 30/03/2018, Pacchioni ed altri; Sez. 5, n. 12360 del 01/02/2018, Quaranta; Sez. 5, n. 56323 del 26/10/2017, Intrieri, Rv. 271896).

Malgrado questo consolidato orientamento giurisprudenziale, facente capo alla Quinta sezione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 216 e 223, in riferimento agli artt. 3, 4, 41, 27 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 della C.E.D.U. e 1 del protocollo addizionale alla predetta, Convenzione, è stata nuovamente sollevata dalla Prima sezione della Cassazione in data 17/11/2017, trovando infine accoglimento con la sentenza n. 222 del 2018 già citata in epigrafe.

La Consulta ha motivato tale decisione, che rivede come detto quella assunta con la sentenza n. 134 del 2012, ricordando che la determinazione del trattamento sanzionatorio per i fatti previsti come reato è riservato alla discrezionalità del legislatore, in conformità a quanto stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost.; …tuttavia, tale discrezionalità incontra il proprio limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, limite che – in subiecta materia – è superato allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato. In tal caso, si profila infatti una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (ex multis, sentenze n. 236 del 10/11/2016, n. 68 del 23/03/2012 e n. 341 del 19/07/1994).

La Corte costituzionale ha quindi affermato che la durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in questione non può ritenersi “ragionevolmente proporzionata rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato”. Sul punto ha osservato che anzitutto, l’art. 216 della legge fallimentare (richiamato, nel suo contenuto precettivo, dall’art. 223, primo comma, della medesima legge) raggruppa una pluralità di fattispecie che, già a livello astratto, sono connotate da ben diverso disvalore, come dimostrano i relativi quadri sanzionatori previsti dal legislatore: reclusione da tre a dieci anni per i fatti previsti dal primo e secondo comma; reclusione da uno a cinque anni per gli assai meno gravi fatti (di bancarotta cosiddetta preferenziale) previsti dal terzo comma.

È stato altresì osservato che anche all’interno delle singole figure di reato previste in astratto da ciascun comma, nonché di quelle previste dall’art. 223, secondo comma, della legge fallimentare, la gravità dei fatti concreti ad esse riconducibili può essere marcatamente differente, in relazione se non altro alla gravità del pericolo di frustrazione delle ragioni creditorie (in termini sia di probabilità di verificazione del danno, sia di entità del danno medesimo, anche in termini di numero delle persone offese) creato con la condotta costitutiva del reato. La durata delle pene accessorie temporanee comminate dall’art. 216, ultimo comma, legge fall. restava invece indefettibilmente determinata in dieci anni, quale che fosse la qualificazione astratta del reato ascritto all’imputato (ai sensi del primo, del secondo o del terzo comma dello stesso art. 216), e quale che fosse la gravità concreta delle condotte costitutive di tale reato; e restava, altresì, insensibile all’eventuale sussistenza delle circostanze aggravanti o attenuanti previste dall’art. 219 della medesima legge, le quali pure determinano variazioni significative della pena edittale, potendo determinare un abbassamento del minimo sino a due anni (ulteriormente riducibili in caso di scelta di riti alternativi da parte dell’imputato), ovvero un innalzamento del massimo sino a quindici anni di reclusione.

La sentenza ha concluso perciò il suo argomentare affermando: “Una simile rigidità applicativa non può che generare la possibilità di risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso – e dunque in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. – rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi; e appare comunque distonica rispetto al menzionato principio dell’individualizzazione del trattamento sanzionatorio”.

La Corte costituzionale infine, per risolvere il problema dell’eventuale vuoto normativo e spiegare il mutamento di posizione rispetto alla sentenza n. 134 del 2012, ha affermato che è “ essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte «precisi punti di riferimento» e soluzioni «già esistenti» (sentenza n. 236 del 2016) – esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non “costituzionalmente obbligate” – che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima; sì da consentire a questa Corte di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia. Resta ferma, d’altra parte, la possibilità per il legislatore di intervenire in qualsiasi momento a individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione sanzionatoria, purché rispettosa dei principi costituzionali”. In sintesi si può osservare che l’attuale approccio della Consulta non reputa più necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista da una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis; è invece sufficiente, per consentire il sindacato e l’intervento della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato, che il sistema nel suo complesso offra alla Corte precisi punti di riferimento e soluzioni già esistenti immuni da vizi di illegittimità, ancorché non costituzionalmente obbligate, che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima, e ciò al dichiarato fine di consentire di porre rimedio immediatamente al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla pronuncia. Quanto infine all’operatività dell’art. 37 cod. pen. alle pene accessorie previste per i reati di cui agli artt. 216 e 223 legge fall., la Consulta ha sostenuto: “ Fermo restando che «la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento […] spetta al giudice del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l’incidente di costituzionalità» (sentenza n. 28 del 12/01/2010), a parere di questa Corte la regola residuale di cui all’art. 37 cod. pen. continuerà dunque a non operare rispetto all’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare – come risultante dalla presente pronuncia –, dal momento che tale regola ha come suo presupposto operativo che la durata della pena accessoria temporanea non sia espressamente determinata dalla legge. L’esistenza di una lex specialis, in effetti, esclude l’operatività del criterio residuale di cui all’art. 37 cod. pen.”, indicando quindi in motivazione la netta preferenza per un sistema di determinazione delle pene accessorie autonomo rispetto alla pena principale, purché entro il limite massimo di dieci anni.

A seguito della decisione della Corte costituzionale la Cassazione si è interrogata sulle ricadute pratiche nei processi in corso.

Una prima decisione Sezione 5, n. 1963/2019 del 7/12/2018 – dep. 2019 –, Piermartini (in fase di massimazione), ha dato soluzione positiva al quesito se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta a norma dell’ultimo comma dell’art. 216, legge fall., nella formulazione derivata dalla sentenza n. 222 del 2018 della Corte cost., siano soggette alla disciplina di cui all’art. 37 cod. pen., non seguendo perciò le indicazioni contenute nella motivazione della sentenza n. 222 del 2018 più volte citata, che invece, come detto, si è espressa in senso contrario.

A distanza di pochi giorni l’ordinanza sempre della Sez. 5, n. 56458 del 12/12/2018, Suraci e altri, ha invece rimesso alle Sezioni Unite la questione se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta a norma dell’art. 216, ult. comma, legge fall., come riformulato ad opera della sentenza n. 222 del 2018 della Corte Cost. con sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale, mediante l’introduzione della previsione della sola durata massima “fino a dieci anni”, debbano considerarsi pene con durata non espressamente “predeterminata” e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all’art. 37 cod. pen. (che prevede la commisurazione della pena accessoria non predeterminata alla pena principale inflitta), con la conseguenza che è la stessa Cassazione a poter operare la detta commisurazione con riferimento ai processi pendenti; ovvero se, per effetto della nuova formulazione, la durata delle pene accessorie, debba invece considerarsi «predeterminata» entro la forbice data, con la conseguenza che non troverebbe applicazione l’art. 37 cod. pen. ma, di regola la rideterminazione involge un giudizio di fatto di competenza del giudice del merito, da effettuarsi facendo ricorso ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen. L’ordinanza ha evidenziato che la motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018 porta certamente a ritenere che l’opzione indicata dai giudici della Consulta è quella che permetta di calibrare autonomamente la pena accessoria, indipendentemente dalla commisurazione della pena principale, pur sempre in applicazione dei criteri orientativi espressi dall’art. 133 cod. pen., con un distinto giudizio collegato al diverso grado di afflittività e alla diversa finalità della sanzione, con la conseguente non applicabilità della disciplina contenuta nell’art. 37 cod. pen. Il Collegio remittente ha mostrato però consapevolezza che tali conclusioni potrebbero però conseguire a due diversi percorsi argomentativi: l’uno, basato su di una completa rivisitazione delle interpretazioni ispiratrici della sentenza Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014 – dep. 2015 –, B., Rv. 262328, che ha affermato in massima il seguente principio: “Sono riconducibili al novero delle pene accessorie la cui durata non è espressamente determinata dalla legge penale quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell’art. 37 cod. pen., a quella della pena principale inflitta; l’altro, più selettivamente, rivolto a sottrarre dalla disciplina dell’art. 37 cod. pen. solo le specifiche pene accessorie scaturenti dalla formulazione dell’art. 216, ult. comma, legge fall., così come ridisegnato dalla Consulta. Con queste osservazioni, in particolare considerando l’emergere di un possibile contrasto con la sentenza Sez. U, n. 6240 del 2015 (che però è antecedente alla decisione della Corte costituzionale) e con altre decisioni della stessa Quinta sezione, si è ritenuto perciò necessaria la rimessione alle Sezioni Unite per una nuova rivalutazione complessiva della disciplina delle pene accessorie.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 5, n. 10517 del 29/09/1983, Totaro, Rv. 161588 Sez. 5, n. 14773 del 2/06/1989, Danesi, Rv. 182422 Sez. 5, n. 9392 del 3/07/1991, D’Amico, Rv. 188188 Sez. 5, n. 3736 del 26/01/2000, Simoncelli, Rv. 215721 Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Pg. in proc. Donati e altro, Rv. 231799 Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007 – dep. 2008 –, Pg in proc. Magera, Rv. 238197 Sez. 1 civ., n. 403 del 13/01/2010, Della Fonte e altri contro Erroi, Rv. 611079 Sez. 1 civ., n. 22911 del 11/11/2010, Casana e altro contro Alpi Assic. Spa In Lca, Rv. 614697 Sez. 5, n. 44963 del 27/9/2012, Bozzano, Rv. 254519 Sez. 5, n. 26444 del 28/05/2014, Denaro, Rv. 259849 Sez. 5, n. 2295 del 03/07/2015 – dep. 2016 –, P.C. in proc. Marafioti , Rv. 266018 Sez. 5, n. 18985 del 14/01/2016, A T e altri, Rv. 267009 Sez. 5, n. 14045 del 22/03/2016, De Cuppis e altri, Rv. 266646 Sez. 5, n. 46689 del 30/6/2016, Coatti, Rv. 268675 Sez. 5, n. 16206 del 02/03/2017, Magno, Rv. 269702 Sez. 5, n. 4400 del 6/10/2017 – dep. 2018 –, Cragnotti, Rv. 272256 Sez. 5, n. 56323 del 26/10/2017, Intrieri, Rv. 271896 Sez. 5, n. 25651 del 15/02/2018, Pessotto, Rv. 273468 Sez. 5, n. 12360 del 01/02/2018, Quaranta Sez. 5, n. 33150 del 30/03/2018, Pacchioni e altri Sez. 5, n. 31997 del 06/03/2018, Vannini e altri, Rv. 273635 Sez. 5, n. 34457 del 05/04/2018, Castiglioni e altro, Rv. 273625 Sez. 5, n. 44107 del 11/05/2018, Machieraldo, Rv. 274014 Sez. 5, n. 36087 del 03/05/2018, Cannone Sez. 5, n. 39517 del 15/06/2018, Schiano, Rv. 273842 Sez. 5, n. 33880 del 6/07/2018, Marchesi e altro Sez. 5, n. 42591 del 10/07/2018, Marini e altri Sez. 5, n. 1963 del 7/12/2018 – dep. 2019 –, Piermartini Sez. 5, n. 56458 del 12/12/2018, Suraci e altri

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 341 del 1994 Corte cost., sent. n. 91 del 2008 Corte cost., sent. n. 28 del 2010 Corte cost., sent. n. 68 del 2012 Corte cost., sent. n. 134 del 2012 Corte cost., sent. n. 200 del 2016 Corte cost., sent. n. 236 del 2016 Corte cost., sent. n. 222 del 2018

SEZIONE III LA RESPONSABILITÀ DA REATO DELLE PERSONE GIURIDICHE

  • responsabilità penale
  • diritto penale

CAPITOLO I

LA GIURISPRUDENZA IN TEMA DI RESPONSABILITÀ DA REATO DEGLI ENTI

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 Premessa. - 2 Rapporti tra responsabilità dell’ente e tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen.  - 3 Natura della responsabilità degli enti e conseguenze in tema di legittimazione ad impugnare le ordinanze cautelari. - 4 I rapporti tra l’accertamento dell’illecito ed il fallimento dell’ente. - 4.1 La legittimazione a partecipare al giudizio: curatore o legale rappresentante dell’ente dichiarato fallito? - 4.2 La scissione della legittimazione a rappresentare l’ente tra fase cautelare e fase di merito. - 5 I presupposti per l’accesso al patteggiamento. - 6 Ammissibilità del sequestro preventivo “impeditivo” nel procedimento a carico dell’ente. - 7 I presupposti del sequestro preventivo finalizzato alla confisca. - 8 Responsabilità da reato, confisca e rapporti con il risarcimento del danno erariale. - 9 Le Sezioni unite sul tema dell’interesse ad impugnare nel caso di revoca della misura cautelare interdittiva. - 10 Sopravvenuta carenza di interesse e decisione de plano. - 11 Il contrasto emerso nella giurisprudenza delle sezioni semplici. - 12 La peculiarità del procedimento cautelare a carico degli enti. - 12.1 Revoca della misura cautelare per condotte riparatorie ed interesse all’impugnazione. - 12.2 L’illegittimità della decisione de plano. - 13 Dichiarazione de plano dell’inammissibilità e compatibilità con l’art. 111 Cost. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nel corso dell’anno oggetto della presente rassegna sono intervenute plurime pronunce in tema di responsabilità da reato degli enti, che hanno riguardato sia le tematiche conseguente della confisca e delle misure cautelari, ma anche aspetti di rilievo prettamente sostanziale.

In particolare, è pervenuta per la prima volta all’attenzione della Cassazione la problematica concernente la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto riferita al reato presupposto della responsabilità degli enti, con il conseguente interrogativo circa l’estensibilità o meno della previsione dell’art. 131-bis cod. pen. anche al sottosistema punitivo disciplinato dal d.lgs. n. 231 del 2001.

Altrettanto interessante è l’approfondimento compiuto sulla natura giuridica della responsabilità degli enti finalizzato all’esatta qualificazione dei rapporti tra l’illecito amministrativo ed il reato ed alla conseguente risoluzione della problematica, di natura processuale, circa la possibilità per l’indagato di impugnare la misura cautelare disposta a carico dell’ente.

Sempre attinente alla tematica cautelare è la pronuncia resa da Sez. U. “Romeo Gestioni” intervenuta in ordine alla verifica circa la perdurante sussistenza dell’interesse ad impugnare la misura cautelare interdittiva disposta nei confronti dell’ente, nonostante la sopravvenuta revoca conseguente a condotte riparatorie.

2. Rapporti tra responsabilità dell’ente e tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. 

La legislazione penale dell’ultimo periodo si è contraddistinta per l’introduzione di istituti giuridici che – sia pur sulla base di diversi presupposti – tendono a realizzare una funzione deflattiva rispetto alle sopravvenienze penali ed, al contempo, a modulare l’irrogazione della sanzione penale escludendone l’applicazione a quei casi connotati da una minima offensività (tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen.), ovvero rispetto ai quali sono intervenute forme di riparazione del danno (162-ter cod. pen.) o, comunque, di ravvedimento da parte dell’imputato (messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen.).

Tali istituti sono stati diversamente modulati anche in relazione alla natura giuridica, sicchè mentre la tenuità del fatto è espressamente qualificata quale causa di non punibilità, la messa alla prova e le condotte riparatorie agiscono quali cause di estinzione del reato.

A fronte di tali rilevanti innovazioni sul piano penale sostanziale, il Legislatore ha totalmente omesso di raccordare le disposizioni codicistiche valevoli per l’imputato con la parallela disciplina applicabile all’ente in relazione ai reati presupposto per i quali gli istituti in questione risultano applicabili.

L’effetto di tale vuoto normativo è che l’interprete è stato posto dinanzi alla necessità di verificare se ed in quale misura i nuovi istituti sono applicabili anche nel processo a carico dell’ente, ovvero se la non punibilità o l’estinzione del reato possano indirettamente produrre un effetto favorevole anche relativamente all’illecito commesso dall’ente.

La questione risente direttamente della qualificazione giuridica della responsabilità degli enti, oramai divenuta diritto vivente per effetto delle plurime pronunce della Cassazione, anche a Sezioni unite.

Come noto, la responsabilità ex d.lgs. n. 231 del 2001 è stata ritenuta una forma di responsabilità amministrativa che, in considerazione della diretta derivazione dalla responsabilità penale, si connota come un tertium genus, salvo restando che non può certamente sostenersi una totale equiparazione alla responsabilità penale (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261112).

Tale affermazione determina che le modifiche introdotte in ambito penale sostanziale non sono direttamente applicabili all’ente, proprio perché il sottosistema punitivo che disciplina tale forma di responsabilità ha natura giuridica autonoma e non pienamente assimilabile alla responsabilità penale.

Invero, pur essendo stata prospettata la diretta applicazione all’ente di istituti quali la messa alla prova, allo stato l’unica pronuncia edita in materia è di segno contrario. Va precisato, peraltro, che l’estensione di istituti di diritto penale sostanziale non è in alcun modo contemplato nel sistema d.lgs. n. 231 del 2001, tant’è che gli artt. 34 e 35 prevedono l’applicabilità nel processo a carico degli enti delle sole disposizioni processuali, in quanto compatibili.

Una volta esclusa la diretta applicabilità degli istituti in questione nei confronti dell’illecito commesso dall’ente, l’altra via astrattamente percorribile consiste nel verificare se la non punibilità del fatto (131-bis cod. pen.), ovvero l’estinzione del reato (162-ter cod. pen.; 168bis cod. pen.) possano indirettamente incidere sulla configurabilità dell’illecito dell’ente.

La questione è stata recentemente esaminata in relazione alla tenuità del fatto da Sez. 3, n. 9072 del 17/11/2017 – dep. 2018 –, Ficule Lucas & C.sas, Rv. 272447, che si è pronunciata con riguardo ad un caso in cui nei confronti dell’imputato, cui si contestava il reato di gestione non autorizzata di rifiuti, ex art. 25, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, era stata riconosciuta la tenuità del fatto.

Nei confronti dell’ente, responsabile del correlato illecito amministrativo, in sede di merito veniva pronunciata sentenza assolutoria quale diretta conseguenza della riconosciuta tenuità del fatto in favore dell’imputato persona fisica.

Tale soluzione non è stata avallata in sede di legittimità, avendo rilevato la Corte che «In tema di responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, qualora nei confronti dell’autore del reato presupposto sia stata applicata la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., il giudice deve procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso, che non può prescindere dalla verifica della sussistenza in concreto del fatto di reato, non essendo questa desumibile in via automatica dall’accertamento contenuto nella sentenza di proscioglimento emessa nei confronti della persona fisica».

Per giungere a tale conclusione, la Cassazione ha proceduto all’esame delle due soluzioni astrattamente percorribile nella suddetta materia.

La prima consiste nell’affermare l’esclusione della responsabilità dell’ente valorizzando a contrario il dato letterale dell’art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001, norma che sancisce il principio di autonomia della responsabilità dell’ente, affermandone la perdurante configurabilità sia nel caso in cui l’autore del reato non sia stato identificato, sia qualora il reato «si estingue per una causa diversa dall’amnistia». Poiché la citata norma non menziona le cause di non punibilità tra le ipotesi a fronte delle quali permane la responsabilità dell’ente, se ne vorrebbe far discendere che, in mancanza di una previsione analoga a quella disciplinante i casi di estinzione del reato, l’illecito dell’ente perderebbe il carattere dell’autonomia rispetto al reato e, quindi, dovrebbe seguirne la medesima sorte. In dottrina si è sostenuto che, applicando l’art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001 anche alle cause di non punibilità del reato, si determinerebbe un’estensione analogica in malam partem del principio di autonomia della responsabilità dell’ente.

Seguendo una soluzione alternativa, recepita dalla Cassazione, l’art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001 va interpretato in altro modo e, cioè, nel senso di ritenere che se neppure le ipotesi di estinzione del reato determinano il venir meno dell’illecito dell’ente, a maggior ragione tale conseguenza non potrebbe determinarsi in presenza di una causa di non punibilità che, per definizione, presuppone la ricorrenza di un fatto tipico penalmente illecito.

Tale soluzione trova un adeguato fondamento normativo, tanto più che nella Relazione ministeriale al d.lgs. n. 231 del 2001, si affermava espressamente che «le cause di estinzione della pena (emblematici i casi di grazia o di indulto), al pari delle eventuali cause non punibilità e, in generale, alle vicende che ineriscono a quest’ultima, non reagiscono in alcun modo sulla configurazione della responsabilità in capo all’ente, non escludendo la sussistenza del reato».

Né appare dirimente la circostanza che l’art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001 disciplini le sole cause di estinzione del reato e non anche le cause di non punibilità, atteso che l’omesso riferimento a tali ipotesi ben potrebbe essere inteso come una implicita conseguenza della diversità giuridica tra l’illecito penale e quello dell’ente. Proprio perché si tratta di due forme di responsabilità autonoma, l’esigenza di affermare la perdurante responsabilità dell’ente sarebbe stata avvertita dal legislatore solo in relazione ai due casi disciplinati dall’art. 8, in quanto maggiormente incidenti sulla configurabilità stessa del reato presupposto.

In tal senso andrebbe letta l’osservazione secondo cui l’aver ribadito l’autonomia della responsabilità dell’ente anche nel caso di estinzione del reato presupposto, costituirebbe una clausola generale, idonea a fondare il principio di autonomia anche in presenza di fattispecie – quali le cause di non punibilità e non procedibilità – che non incidono sull’astratta qualificazione del fatto quale reato.

La sentenza in commento, se da un lato ha escluso che la pronuncia ex art. 131-bis cod. pen. possa determinare effetti favorevoli nei confronti dell’ente, dall’altro ha chiarito come la disciplina prevista dall’art. 651-bis cod. proc. pen., in base al quale la sentenza dibattimentale che riconosce la tenuità del fatto ha efficacia di giudicato nel processo civile od amministrativo di danno, non vale anche in relazione alla responsabilità degli enti.

Si tratta di un’affermazione pienamente coerente con il principio di autonomia, posto che se la responsabilità penale e quella amministrativa operano su piani diversi e nei confronti di soggetti giuridici distinti, ne consegue necessariamente che il giudicato concernente la tenuità del fatto non può in alcun modo estendersi, sia pur limitatamente all’accertamento del fatto, nel giudizio a carico dell’ente.

Alla luce di tale affermazione, ne consegue che – nonostante l’intervenuta pronuncia ex art. 131-bis cod. pen. in sede penale – il giudice dovrà procedere ad un autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giudica nel cui interesse e vantaggio il reato è stato commesso.

3. Natura della responsabilità degli enti e conseguenze in tema di legittimazione ad impugnare le ordinanze cautelari.

I rapporti tra il reato presupposto e l’illecito dell’ente, nonché la qualificazione giuridica di quest’ultimo, sono alla base di una pronuncia che, pur intervenuta a dirimere una questione prettamente processuale concernente la legittimazione a ricorrere avverso un decreto di sequestro preventivo, si è dovuta necessariamente confrontare con aspetti di natura sostanziale.

La questione sottoposta all’esame della Corte concerneva la possibilità che l’imputato persona fisica impugnasse, in proprio, il provvedimento di sequestro emesso esclusivamente nei confronti dell’ente.

La decisione è stata nel senso dell’inammissibilità per difetto di legittimazione a proporre il ricorso da parte dell’imputato, si è affermato, infatti, che «In tema di responsabilità da reato degli enti, la persona fisica, indagata del reato presupposto, non è legittimata a proporre riesame avverso il provvedimento di sequestro preventivo disposto esclusivamente nei confronti della persona giuridica, ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. (In motivazione, la Corte ha precisato che l’illecito da reato dell’ente, pur presupponendo l’avvenuta commissione di un reato, mantiene la propria autonomia strutturale, sicchè l’autore del reato non può considerarsi quale coimputato della persona giuridica. Cfr. Corte Cost. n. 218 del 2014)» (Sez. 6, n. 33044 del 25/01/2018, Locuratolo, Rv. 273772).

Al di là del principio di diritto affermato, la citata sentenza si segnala per l’articolato percorso argomentativo seguito per giungere alla richiamata soluzione, essendosi indagata la possibilità o meno che l’imputato persona fisica e l’ente assumano il ruolo di coimputati, con le conseguenze a livello processuale che già sarebbero potute derivare.

Operando una ricognizione delle soluzioni prospettate in dottrina e giurisprudenza circa la natura giuridica della responsabilità da reato degli enti, la Cassazione osserva come secondo un primo orientamento, quella introdotta dal d.lgs. n. 231 del 2001, a dispetto del nomen juris, sarebbe una responsabilità sostanzialmente penale; secondo altra impostazione si tratterrebbe, invece, di una responsabilità amministrativa autentica; secondo il terzo orientamento si trarrebbe di un tertium genus, che si caratterizza per coniugare i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo.

Osserva la Corte come, nell’ambito delle tesi volte a privilegiare la natura sostanzialmente penale della responsabilità ex d.lgs. n. 231 del 2001, si sono prospettate diverse soluzioni. In primo luogo, si è sostenuto che quella della persona giuridica «sarebbe una responsabilità “per” la commissione di un reato, una responsabilità che non discenderebbe da un nuovo ed autonomo illecito amministrativo attribuibile all’ente, espressamente tipizzato dal legislatore del 2001, quanto, piuttosto, dalla commissione, nell’interesse o a vantaggio dell’ente, di uno dei reati-presupposto da parte di una persona fisica, legata ad esso da un rapporto funzionale. Gli argomenti sono molteplici: l’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella dell’autore del reato; la giurisdizione penale; l’impronta penalistica delle severe sanzioni; la rilevanza del tentativo; la possibilità di rinunziare all’amnistia. In particolare, quanto alla struttura dell’illecito dell’ente, la responsabilità delle persone giuridiche deriverebbe non dalla commissione di un comportamento esplicitamente qualificato e strutturato dalla legge come illecito amministrativo, bensì da una nuova “fattispecie plurisoggettiva eventuale” che verrebbe ad originarsi dalla lettura, in combinato disposto, dell’art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2001 con i reati tassativamente richiamati dagli artt. 24 e ss., secondo il meccanismo definito dalla dottrina delle “ipotesi normative di estensione della tipicità”, già utilizzato dal legislatore nella parte generale del codice penale negli artt. 40, comma secondo, 56 e 110 cod. pen., rispettivamente in materia di reati omissivi impropri, delitto tentato e concorso di persone».

Valorizzando la natura sostanzialmente penale della responsabilità dell’ente, ne conseguirebbe che i rapporti con il reato commesso dalla persona fisica andrebbero ricostruiti secondo lo schema della fattispecie a concorso necessario.

Ove si recepisse tale soluzione, ne deriverebbero immediate conseguenze anche sul piano processuale, in quanto la configurabilità di «una responsabilità della persona giuridica fondata sul paradigma della responsabilità penale concorsuale, sostanzialmente per lo stesso unico illecito, unitamente alla persona fisica autrice del reato presupposto, dovrebbe farsi discendere la legittimazione di quest’ultima – sostanzialmente coindagata/coimputata insieme all’ente per lo stesso fatto- ad impugnare il provvedimento di sequestro emesso nei riguardi della sola persona giuridica: un illecito unico, una responsabilità penale concorsuale, una responsabilità patrimoniale solidale sostanzialmente per lo stesso fatto. Dunque, un interesse concreto della persona fisica, compartecipe dell’unico illecito, a rimuovere gli effetti da esso derivanti nell’ambito di un unico sistema di responsabilità che lega ed unisce la condotta dell’ente e della persona fisica e involge l’interesse di entrambi ad impugnare il provvedimento di sequestro preventivo».

Tale soluzione non è stata recepita, avendo la Corte optato per mantener fermo il principio secondo cui l’illecito dell’ente ha natura giuridica propria e distinta dal reato, così che l’illecito dell’ente non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone, tant’è che per la sua sussistenza occorre l’individuazione di elementi ulteriori e diversi rispetto a quelli costitutivi del reato.

Si tratta di una impostazione che ha ricevuto l’avallo di Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhanh, Rv. 261112, secondo cui il sistema normativo introdotto dal d.lgs. n. 231 del 2001, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un tertium genus di responsabilità compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza.

Argomentando sulla base di tali principi, la sentenza in commento ha ribadito, quindi, che «l’ente è chiamato a rispondere per un fatto proprio che ha per presupposto il reato compiuto dalla persona fisica ma che è “attribuito” alla persona giuridica secondo criteri di imputazione oggettivi e soggettivi propri».

Dalla predetta ricostruzione dei rapporti “sostanziali” tra le due forme di illecito, se ne è dedotto che «la persona fisica autrice del reato presupposto è un soggetto terzo rispetto al sequestro preventivo disposto, ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001, esclusivamente nei confronti della persona giuridica; essa non è coindagata o coimputata per lo stesso illecito, non è la persona alla quale le cose sono state sequestrate, dovendo identificarsi questa nella persona giuridica, non è, almeno in astratto, la persona che avrebbe diritto alla restituzione di quanto in sequestro, essendo i beni appartenenti all’ente. Dunque, la persona fisica autrice del reato presupposto, ai sensi degli artt. 53 d.lgs. n. 231 del 2001 e 322 cod. proc. pen., non è legittimata a proporre riesame avverso il provvedimento di sequestro preventivo disposto esclusivamente nei confronti della persona giuridica, ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001».

4. I rapporti tra l’accertamento dell’illecito ed il fallimento dell’ente.

Con la sentenza resa da Sez. 3, n. 15788 del 11/10/2017 – dep. 2018 –, Orceana Costruzioni s.p.a., la Cassazione è tornata ad occuparsi del problematico rapporto intercorrente tra il fallimento dell’ente e la responsabilità amministrativa dello stesso.

Occorre premettere che la scelta di non disciplinare le conseguenze delle procedure fallimentari trova giustificazione nel fatto che, a differenza delle vicende modificative dell’ente, il fallimento non implica modifiche strutturali della società, tanto meno trasferimenti di quote o trasformazioni di sorta.

Ciononostante, è innegabile che la sopravvenienza del fallimento comporti effetti rilevanti sia nel caso in cui sia in corso di accertamento la commissione di un illecito derivante da reato, sia qualora sia stata già irrogata una sanzione, pecuniaria od interdittiva.

Problemi rilevanti si pongono, infatti, in primo luogo per la rappresentanza processuale dell’ente fallito, nonché in tema di dinamiche cautelari e di confisca dei beni; parimenti problematico è l’aspetto sanzionatorio, atteso che il pagamento della pena pecuniaria va inevitabilmente a ridurre l’attivo fallimentare e, quindi, incide negativamente sul diritto al riparto vantato dai creditori.

La tematica è stata sottoposta all’esame di Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014 – dep. 2015, Uniland s.p.a., Rv. 263680, chiamate a pronunciarsi sulla specifica problematica dell’ammissibilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca a carico dell’ente sottoposto a fallimento ed, in tale occasione, si è in primo luogo ribadito che il fallimento non determina in alcun modo l’estinzione dell’ente e, per tale via, l’estinzione dell’illecito amministrativo.

Pur partendo da tale condivisibile impostazione, le Sezioni unite hanno elaborato principi in tema di tutela degli interessi dei creditori, legittimazione del curatore ed individuazione del riparto dei poteri tra autorità giudiziaria penale e civile, che presentano plurimi profili di complessità.

Riassumendo brevemente i termini della questione esaminata, alle Sezioni unite si chiedeva di stabilire se la confisca ex art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001 fosse o meno applicabile anche nei confronti di un ente fallito, verificando l’eventuale possibilità di contemperare le ragioni punitive dello Stato con il legittimo diritto dei creditori a soddisfarsi sul patrimonio del fallito.

La Corte ha affermato che la confisca ex art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001, quale sanzione principale è per definizione obbligatoria, sicchè ha escluso la possibilità di operare un contemperamento di interessi rispetto alle sia pur legittime aspettative dei creditori in sede concorsuale.

All’affermazione della natura obbligatoria della confisca consegue l’esclusione di qualsivoglia discrezionalità nella sua applicazione, nonché l’assoluta irrilevanza delle vicende concernenti l’eventuale fallimento della società, posto che la pretesa punitiva dello Stato non può evidentemente essere recessiva rispetto all’interesse dei creditori, nonostante l’obiettiva rilevanza, anche pubblicistica, della procedura fallimentare. Del resto, discendendo la confisca dall’accertamento della responsabilità della società ed in assenza di un’apposita regolamentazione, risulterebbe del tutto eccentrico rispetto al sistema ipotizzare che il giudice possa ritenere di non applicare, in tutto o in parte, la sanzione, essendo una simile eventualità del tutto avulsa dalla impronta penalistica che pervade il sistema della responsabilità da reato degli enti.

Rispetto a tale soluzione, indubbiamente dotata di una intrinseca razionalità e conformità al precetto normativo, il ragionamento seguito dalle Sezioni unite sembra meno lineare lì dove si sforza di individuare forme di tutela dei terzi creditori.

Partendo dal presupposto in base al quale l’art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001 fa salvi i diritti vantati sul bene confiscato dai terzi in buona fede, le Sezioni unite hanno affermato testualmente che «coloro che si insinuano nel fallimento vantando un diritto di credito non possono essere ritenuti per tale solo fatto titolari di un diritto reale sul bene ai sensi e per gli effetti previsti dall’art. 19 del decreto sulla responsabilità degli enti, perché sarà proprio con la procedura fallimentare che, sulla scorta delle scritture contabili e degli altri elementi conoscitivi propri della procedura, si stabilirà se il credito vantato possa o meno essere ammesso al passivo fallimentare. Il curatore nel contempo individuerà tutti i beni che debbono formare la massa attiva del fallimento, arricchendola degli eventuali esiti favorevoli di azioni revocatorie, e soltanto alla fine della procedura si potrà, previa vendita dei beni ed autorizzazione da parte del giudice delegato del piano di riparto, procedere alla assegnazione dei beni ai creditori. È solo in questo momento che i creditori potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate».

Sembrerebbe di potersi sostenere, dunque, che siano gli stessi creditori, divenuti titolari di un diritto sui beni del fallito, a far valere la pretesa restitutoria dinanzi al giudice penale.

Tale impostazione è stata recepita da Sez. 3, n. 15788 del 11/10/2017 – dep. 2018, Orceana Costruzioni s.p.a., che ha ribadito come, pur a seguito della dichiarazione di fallimento, il soggetto passivo delle sanzioni previste dal d.lgs. n. 231 del 2001 rimane l’ente fallito.

Tale soluzione risponde anche a finalità preventive e sanzionatorie perseguita dal legislatore con la previsione della responsabilità amministrativa; finalità che impone di scoraggiare soluzioni di calcolo preventivo del costo dell’illecito nella valutazione economica delle conseguenze delle condotte da adottare. È di tutta evidenza, infatti, che se il fallimento determinasse l’inapplicabilità delle sanzioni, si consentirebbe all’ente di programmare il proprio dissesto al fine di sottrarsi alle conseguenze derivanti dall’illecito.

I principi elaborati da Sez. U, “Uniland” ed integralmente recepiti da Sez. 3, n. 15788 del 11/10/2017 – dep. 2018, Orceana Costruzioni s.p.a. determinano inevitabili risvolti anche sul piano dell’individuazione della legittimazione processuale a partecipare al giudizio.

4.1. La legittimazione a partecipare al giudizio: curatore o legale rappresentante dell’ente dichiarato fallito?

La problematica in esame è stata espressamente esaminata da Sez. 3, n. 15788 del 11/10/2017 – dep. 2018 –, Orceana Costruzioni s.p.a., sentenza con la quale la Corte si è trovata a confrontarsi con una fattispecie peculiare e tale da far emergere le possibili contraddizioni derivanti dalla scissione tra il soggetto passivo delle sanzioni, individuato nell’ente fallito, e l’individuazione del soggetto cui è deputata la tutela degli interessi nell’ambito della procedura fallimentare.

Al fine di meglio comprendere i termini della questione, è utile riassumere la fattispecie concreta esaminata dalla Corte.

Il procedimento concerneva una società dichiarata fallita nei cui confronti era prima intervenuto un provvedimento cautelare reale, mediante il quale si disponeva il sequestro preventivo della “massa attiva” del fallimento.

Avverso detto sequestro proponeva riesame e poi ricorso in cassazione il curatore fallimentare che, con sentenza resa da Sez. 3, n. 31457 del 31/3/2016, Orceana costruzioni s.p.a., veniva dichiarato non legittimato all’impugnazione, in applicazione dei principi elaborati da Sez. U, “Uniland”.

Nel successivo giudizio di merito, il contraddittorio con la società fallita si instaurava in persona del curatore e, pertanto, nella fase dibattimentale veniva espressamente riconosciuta la legittimazione a partecipare al giudizio nei confronti dell’ente e la rappresentanza nella persona del curatore.

Rispetto a tale evoluzione del giudizio, la società, in persona del liquidatore pro-tempore (peraltro soggetto diverso dall’imputato persona fisica), proponeva ricorso in cassazione deducendo che il fallimento, non realizzando l’estinzione della società ed anzi mantenendo essa, pur dopo il fallimento, la sua soggettività giuridica, non impedirebbe al suo legale rappresentante di conservare la legittimazione processuale nell’ambito sia del procedimento cautelare che di quello di merito, secondo quanto stabilito dall’art. 39 del d.lgs. n. 231 del 2001.

Il presupposto in punto di diritto è stato condiviso dalla Cassazione che, applicando consolidati principi, ha riconosciuto espressamente come la sentenza che dichiara il fallimento priva la società fallita dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti a quella data, assoggettandoli alla procedura esecutiva concorsuale finalizzata al soddisfacimento dei creditori; fermo restando che tale effetto di spossessamento non si traduce in una perdita della proprietà, in quanto la società resta titolare dei beni fino al momento della vendita fallimentare (Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004, C. fall. in proc. Focarelli, Rv. 228164).

Dopo aver riconosciuto che il fallimento non determina immediati effetti estintivi (in senso conforme si veda anche Sez. 5, n. 4335 del 16/11/2012, dep. 2013, Franza, Rv. 254326; Sez. 5, n. 44824 del 26/09/2012, P.M. in proc. Magiste International S.A., Rv. 253482) e non intacca l’autonomia giuridica della società, la Corte ha proseguito nel suo ragionamento enucleando quelli che sono i tipici poteri del curatore fallimentare, il quale cumula la legittimazione ad agire che gli deriva dalla gestione patrimoniale dei beni del fallito e la legittimazione ad agire che gli deriva “dalla rappresentanza degli interessi patrimoniali dei creditori”.

Prosegue la Corte affermando che «se per un verso non può affermarsi che, dopo l’apertura del fallimento, il legale rappresentante del fallimento sia sempre il curatore, atteso che, sia pure in limitati casi, coesiste con quella del curatore la legale rappresentanza del soggetto originariamente investito dei relativi poteri (ad es. per presentare istanza di concordato fallimentare o per impugnare le cartelle esattoriali che il curatore non abbia impugnato o per liquidare beni che il curatore abbia abbandonato etc.), con riferimento all’illecito amministrativo della società deve nondimeno riconoscersi la legittimazione processuale della curatela fallimentare, potendo configurarsi, in conseguenza dell’applicazione della relativa sanzione, il sorgere di un credito privilegiato dell’Erario nei confronti del fallimento, rispetto al quale deve configurarsi la legittimazione in capo all’organo istituzionalmente preposto alla ricostruzione e alla tutela del patrimonio fallimentare».

Dal riconoscimento dell’interesse del curatore ad opporsi al credito derivante dall’irrogazione della sanzione a carico dell’ente, ne consegue che l’unico soggetto legittimato a rappresentare l’ente nel processo a suo carico è stato individuato nel curatore tant’è che, nel caso di specie, la Corte ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso presentato dall’ente in persona del legale rappresentante pro tempore.

4.2. La scissione della legittimazione a rappresentare l’ente tra fase cautelare e fase di merito.

La sentenza in commento ha fatto applicazione dei principi elaborati da Sez. Unite “Uniland” evidenziandone le conseguenze in punto di riconoscimento della legittimazione processuale nei confronti dell’ente.

Emblematico di come l’assetto dato alla materia in questione presenti profili di criticità è desumibile in primo luogo dalla differente regolamentazione della legittimazione processuale a seconda che il processo verta in fase cautelare, piuttosto che di merito.

Nel caso esaminato, infatti, la Corte ha con una prima sentenza (Sez. 3, n. 31457 del 31/3/2016, Orceana costruzioni s.p.a.) escluso la legittimazione processuale del curatore fallimentare relativamente all’impugnazione del provvedimento cautelare, per poi affermare che – in sede di merito – il curatore è l’unico soggetto deputato a rappresentare l’ente, negando una legittimazione, quanto meno concorrente, al legale rappresentante.

Tale soluzione presenta profili di criticità, posto che in via di principio il soggetto legittimato in sede di merito lo è anche in relazione ai procedimenti cautelari incidentali.

Peraltro, l’esclusione della legittimazione ad impugnare in capo al curatore fallimentare potrebbe determinare che il sequestro finalizzato alla confisca disposto a carico della società fallita non sia suscettibile di alcuna forma di impugnazione.

A ben vedere, infatti, i creditori in quanto tali sono sicuramente non legittimati a ricorrere, essendo portatori di un mero interesse di fatto all’accrescimento della massa fallimentare; il curatore che, viceversa, vanterebbe un diritto alla restituzione non è considerato legittimato sulla base delle conclusioni delle Sezioni unite.

In astratto potrebbe ritenersi legittimato ad impugnare il soggetto dichiarato fallito, atteso che il fallimento priva della gestione del patrimonio ma non anche della titolarità.

Tuttavia, in concreto è difficile ritenere che l’ente fallito possa aver interesse a proporre l’impugnazione, il cui positivo effetto sarebbe quello di far rientrare il bene nella massa fallimentare e, quindi, non si tradurrebbe in alcun caso in un vantaggio immediato e diretto per il soggetto fallito.

Ulteriori aspetti problematici derivanti dall’applicazione dei principi elaborati da Sez. Unite “Uniland” concernono il mancato riconoscimento in capo all’ente, sia pur dichiarato fallito, di un interesse personale e giuridicamente rilevante alla partecipazione del processo, proprio perché il fallimento da un lato non determina l’estinzione dell’ente e dall’altro non impedisce che, terminata la fase di riparto dell’attivo, l’ente dichiarato fallito prosegua la sua attività.

Invero, potrebbe sostenersi che l’ente fallito sia portatore di un legittimo interesse a difendersi nel giudizio ex d.lgs. n. 231 del 2001, nella misura in cui, il mancato riconoscimento della responsabilità da reato, escludendo l’applicazione della sanzione – pecuniaria od interdittiva – ben potrebbe consentire all’ente di tornare in bonis.

5. I presupposti per l’accesso al patteggiamento.

La disciplina concernente l’applicazione della pena su richiesta è stata recentemente oggetto di una chiarificatrice sentenza resa da Sez. 6, n. 14736 del 20/12/2017 – dep. 2018 –, Ilva s.p.a., che ha affrontato la tematica relativa ai presupposti per l’accesso al rito alternativo.

La Corte è stata chiamata a pronunciarsi in ordine alla ritenuta abnormità dell’ordinanza con la quale la Corte d’Assise aveva rigettato la richiesta di applicazione pena formulata in relaziona ad una pluralità di illeciti amministrativi; i giudici di merito avevano evidenziato come il procedimento concernesse anche reati che, in virtù del limite edittale della pena, non potevano essere definiti con il patteggiamento, inoltre, gli illeciti amministrativi addebitati all’ente non erano puniti con la sola pecuniaria.

Il giudice di merito, quindi, aveva ritenuto che i presupposti per il patteggiamento dell’ente delineati dall’art. 63 del d.lgs. n. 231 del 2001 dovessero essere cumulativamente sussistenti e non alternativamente presenti aveva, inoltre, attribuito valenza ostativa la punizione degli illeciti amministrativi contestati con le sanzioni interdittive.

La Cassazione ha affrontato la questione partendo dall’esatta interpretazione dell’art. 63 d.lgs. n. 231 del 2001, in base al quale l’applicazione della pena su richiesta richiede che per l’illecito amministrativo sia prevista la sola sanzione pecuniaria, ovvero che il giudizio nei confronti dell’imputato è definito o definibile ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.

Tali requisiti non sono richiesti cumulativamente, essendo sufficiente anche la ricorrenza di una sola delle due ipotesi legittimanti il ricorso al patteggiamento, pertanto, la corte ha affermato che «In tema di responsabilità da reato degli enti, l’applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 63 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, è consentita sia nel caso in cui l’illecito amministrativo preveda la sola sanzione pecuniaria, sia nel caso di illecito punito con la sanzione interdittiva temporanea, a condizione che il reato presupposto sia suscettibile di definizione con il patteggiamento» (Sez. 6, n. 14736 del 20/12/2017 – dep. 2018 –, Ilva s.p.a., Rv. 272771).

Per quanto riguarda il parallelo con il procedimento a carico della persona fisica, in motivazione si è precisato che il requisito della definibilità del procedimento penale con il patteggiamento va valutato con esclusivo riferimento ai reati che costituiscono anche presupposto della responsabilità dell’ente. Ne consegue che, ove all’imputato persona fisica siano contestati una pluralità di reati, solo alcuni dei quali costituenti anche presupposto degli illeciti ex d.lgs. n. 231 del 2001, occorrerà valutare se questi consentirebbero, in astratto, la definizione con il rito alternativo in esame, essendo irrilevante che la complessiva imputazione veda anche la contestazione di reati che, per limite di pena, esulino dall’ambito applicativo dell’art. 444 cod. proc. pen.

È bene sottolineare che l’aver previsto l’accesso al patteggiamento anche sulla base della “definibilità” con tale rito alternativo dell’imputazione penale, assolve ad una funzione estensiva, rendendo ammissibile il rito alternativo in relazione ad illeciti amministrativi puniti con la sanzione interdittiva, purchè questa sia solo temporanea, nel qual caso l’art. 62 co.2, d.lgs. n. 231 del 2001 stabilisce che la riduzione fino ad 1/3 della pena è computata sulla durata della sanzione interdittiva.

Viceversa, qualora sia prevista la sanzione interdittiva perpetua, il comma 3 prevede che il giudice debba necessariamente rigettare la richiesta.

L’altro caso in cui è possibile patteggiare la sanzione amministrativa si ha quando l’illecito è punito con la sola pena pecuniaria, che andrà ridotta fino ad 1/3, prescindendosi in tal caso dal regime applicabile nei confronti dell’imputato persona fisica.

La pronuncia resa da Sez. 6, n. 14736 del 20/12/2017 – dep. 2018 –, Ilva s.p.a., Rv. 272772, ha precisato, altresì, come l’illegittimo rigetto della richiesta di patteggiamento non dà luogo ad un’ipotesi di abnormità, in quanto tale immediatamente ricorribile in cassazione.

Richiamando la consolidata giurisprudenza formatasi in materia, si è affermato che l’abnormità è tale in quanto integra non già un semplice vizio dell’atto in sé, bensì uno sviamento della funzione giurisdizionale, la quale non risponde più al modello previsto dalla legge, ma si colloca al di là del perimetro entro il quale è riconosciuta dall’ordinamento (Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590).

L’abnormità dell’atto processuale può presentarsi sotto due distinte forme, in quanto essa può riguardare tanto il “profilo strutturale”, allorché l’atto, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il “profilo funzionale”, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo (Sez. U, n. 26 del 24/11/1999, Magnani, Rv. 215094).

Applicando tali principi al caso di specie, risulta evidente che il rigetto, per quanto illegittimo, della richiesta di patteggiamento non integra un atto abnorme, atteso che il sistema processuale – delineato dal combinato disposto degli artt. 444 cod. proc. pen. e 63 d.lgs. n. 231 del 2001 – attribuisce al giudice il potere di non accogliere la richiesta di pena concordata, né l’esercizio di tale potere può determinare la stasi del processo.

Ne consegue, pertanto, che l’ordinanza di rigetto non può essere direttamente impugnata in cassazione, difettando la qualifica di atto abnorme, ma dovrà essere oggetto di impugnazione unitamente alla sentenza che definisce la fase processuale nel corso della quale l’atto viziato è stato posto in essere.

6. Ammissibilità del sequestro preventivo “impeditivo” nel procedimento a carico dell’ente.

Con la sentenza della Sez. 2, n. 34293 del 10/07/2018, Sunflower s.r.l., la corte ha affrontato la problematica relativa all’ammissibilità del sequestro preventivo “impeditivo” nel procedimento a carico dell’ente.

Si tratta di un tema che, nonostante i ripetuti pronunciamenti della giurisprudenza in ordine alla misura cautelare ex art. 321 cod. proc. pen., non era ancora stato adeguatamente approfondito, in quanto l’istituto del sequestro preventivo era venuto in rilievo essenzialmente in funzione anticipatoria della confisca e, quindi, nella forma prevista dall’art. 321, comma 2, cod. proc. pen.

Il dubbio circa l’ammissibilità del sequestro impeditivo nasce essenzialmente in conseguenza della previsione normativa contenuta nell’art. 53, d.lgs. n. 231 del 2001, in base al quale «Il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell’art. 19. Si osservano le disposizioni di cui agli articoli 321, commi 3, 3-bis e 3-ter, 322, 322-bis e 323 del codice di procedura penale, in quanto applicabili». Optando per un’interpretazione strettamente letterale, si potrebbe sostenere che il sistema cautelare reale previsto per la responsabilità da reato degli enti, consentirebbe esclusivamente di applicare il sequestro (del prezzo o del profitto del reato) a fini di confisca, non essendo in alcun modo menzionato il sequestro impeditivo di cui all’art. 321, comma 1, cod. proc. pen.

La corte ha risolto il dubbio prendendo spunto dalla Relazione ministeriale al d.lgs. n. 231 del 2001, nella quale espressamente si sottolineava la necessità di evitare che la funzione impeditiva del sequestro preventivo andasse a sovrapporsi all’analoga finalità insita nelle misure cautelari interdittive. Tuttavia, ove il sequestro preventivo possa assumere “un suo autonomo raggio di azione” rispetto alle misure interdittive, verrebbe meno la paventata incompatibilità.

I due istituti, a ben vedere, hanno un’estensione applicativa e determinano conseguenze che non sono necessariamente sovrapponibili, anzi, consentire l’applicazione del sequestro preventivo “impeditivo” nei confronti dell’ente, consente di graduare al meglio l’intervento cautelare, sottraendo la libera disponibilità di una “cosa pertinente al reato” che potrebbe aggravare o protrarre le conseguenze dell’illecito, ovvero agevolare condotte reiterative.

Ragionando in tal senso, la Cassazione rileva come il «campo d’applicazione del sequestro impeditivo non coincide con le misure interdittive per una molteplicità di ragioni. Innanzitutto, per la temporaneità della misura interdittiva laddove il sequestro è tendenzialmente definitivo ove, all’esito del giudizio di cognizione, sia disposta la confisca. In secondo luogo, per l’effetto: mentre la misura interdittiva “paralizza” l’uso del bene “criminogeno” solo in modo indiretto (quale effetto di una delle misure interdittive), al contrario, il sequestro (e la successiva confisca) colpisce il bene direttamente eliminando, quindi, per sempre, il pericolo che possa essere destinato a commettere altri reati. Infatti, il sequestro è diretto contro le “cose” (non a caso, è denominato “reale”) che abbiano una potenzialità lesiva dei diritti costituzionali sicchè è finalizzato a sottrarle a chi ne abbia la disponibilità proprio a tutela della collettività: sul punto, è opportuno rammentare, che – sulla scia dei lavori preparatori – è stato ritenuto che i limiti di disponibilità dei beni si correlano alla funzione preventiva della cautela e, quindi, ad esigenze connesse ad una situazione di pericolo per la collettività che ben possono giustificare l’imposizione del vincolo (Corte cost. n. 48/1994). Al contrario, le misure interdittive sono dirette contro la società, tant’è che i criteri per la loro applicabilità sono stati parametrati su quelli delle misure cautelari personali (artt. 45-46). Il sequestro impeditivo ha, quindi, una selettività che la misura interdittiva non ha».

Peraltro, nulla vieta di disporre il sequestro impeditivo nei confronti della persona fisica indagata o imputata che utilizzi il bene “criminogeno” di proprietà dell’ente che, quindi, sia pure in modo indiretto, ne verrebbe privato: ma si tratta di una possibilità che va ritenuta aggiuntiva o alternativa ma non sostitutiva.

Una volta chiarito che il sequestro “impeditivo” può svolgere una funzione cautelare autonoma e diversa rispetto a quella propria delle misure interdittive, ovvero del commissariamento dell’ente, la Corte ha individuato il presupposto normativo per applicare l’art. 321 cod.proc.pen. nella clausola generale che, ai sensi dell’art. 34 d.lgs. n. 231 del 2001, estende all’ente la disciplina processuale prevista per l’imputato.

L’estensione dell’applicabilità dell’art. 321 cod. proc. pen. anche ai procedimenti a carico degli enti consente anche di «fugare i dubbi di costituzionalità che sorgerebbero laddove si volesse teorizzare per l’ente un regime privilegiato rispetto a quello generale previsto dal codice di rito e, quindi, privare la collettività di un formidabile ed agile strumento di tutela finalizzato ad eliminare dalla circolazione beni criminogeni».

In conclusione, quindi, la sentenza in commento ha affermato il principio secondo cui «in tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, è ammissibile il sequestro impeditivo di cui al comma primo dell’art. 321 cod. proc. pen., non essendovi totale sovrapposizione e, quindi, alcuna incompatibilità di natura logica-giuridica fra il suddetto sequestro e le misure interdittive».

7. I presupposti del sequestro preventivo finalizzato alla confisca.

La sentenza resa da Sez. 2, n. 34293 del 10/07/2018, Sunflower s.r.l., Rv. 273516, è stata nuovamente affrontata anche la problematica concernente la necessità o meno che, ai fini dell’adozione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, il giudice debba procedere alla verifica della sussistenza del fumus commissi delicti.

Occorre premettere che, secondo una precedente pronuncia rimasta isolata, per procedere al sequestro preventivo a fini di confisca del profitto del reato presupposto sarebbe necessario l’accertamento della sussistenza di gravi indizi di responsabilità dell’ente indagato (Sez. 6, n. 34505 del 31/05/2012, Codelfa s.p.a., Rv. 252929).

A tale conclusione la Corte era giunta evidenziando come non sarebbe corretta una automatica trasposizione del regime dei presupposti legittimanti il sequestro preventivo previsto dall’art. 321 cod. proc. pen., in quanto nel caso dell’art. 53 d.lgs. d.lgs. n. 231 del 2001 il sequestro è direttamente funzionale ad anticipare in via cautelare la confisca di cui all’art. 19 d.lgs. cit., che è sanzione principale, obbligatoria ed autonoma e che come tale si differenzia non solo dalle altre ipotesi di confisca disciplinate dal codice penale e dalle leggi speciali, ma anche dalle altre tipologie di confisca previste dagli artt. 6, comma 5 e 15, comma 4, d.lgs. n. 231 del 2001.

Muovendo da questa premessa, la pronuncia concludeva che, proprio perché il sequestro di cui all’art. 53 d.lgs. n. 231 del 2001 «è prodromico ad una sanzione principale, che viene applicata solo a seguito dell’accertamento della responsabilità dell’ente, al pari delle altre sanzioni previste dall’art. 9», è necessaria una più approfondita valutazione del presupposto del “fumus commissi delicti”. 

In tal senso, del resto, militerebbe anche il fatto che la confisca prevista dall’art. 53 cit. non presuppone alcuna valutazione sulla pericolosità dei beni, ma solo l’accertamento della responsabilità dell’ente, al quale consegue obbligatoriamente la “apprensione coattiva”, e che tale diversità dell’oggetto di valutazione rispetto alla confisca penale non potrebbe non refluire sulla disamina da compiere nella fase cautelare: «In sostanza, in questa materia un controllo dei presupposti del sequestro limitato alla sola sussumibilità della fattispecie concreta nell’ipotesi delittuosa individuata dal pubblico ministero appare del tutto inadeguato proprio in quanto la misura cautelare è diretta ad anticipare gli effetti di una sanzione principale».

Tale soluzione non è stata recepita da Sez. 2, n. 34293 del 10/07/2018, Sunflower s.r.l., Rv. 273516, secondo cui «in tema di responsabilità dipendente da reato degli enti e persone giuridiche, per il sequestro preventivo dei beni di cui è obbligatoria la confisca, eventualmente anche per equivalente, e quindi, secondo il disposto dell’art. 19 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, dei beni che costituiscono prezzo e profitto del reato, non occorre la prova della sussistenza degli indizi di colpevolezza, nè la loro gravità, nè il periculum richiesto per il sequestro preventivo di cui all’art. 321 cod. proc. pen., essendo sufficiente accertare la confiscabilità dei beni una volta che sia astrattamente possibile sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato».

Richiamando i precedenti conformi (Sez. 2, n. 9829 del 16/02/2006, P.M. in proc. Miritello, Rv. 233373; Sez. 2, n. 41435 del 16/09/2014, Assoc. Integrazione Immigrati, Rv. 260043; Sez. 4, n. 51806 del 18/11/2014, Calamai, Rv. 261571), la Corte ha ribadito che pur essendo innegabile che la confisca disciplinata dal d.lgs. n. 231 del 2001 costituisce una delle sanzioni a carico degli enti, ciò non esclude che nel disciplinare le misure cautelari a carico degli stessi il Legislatore ha richiesto la verifica dei gravi indizi di responsabilità solo per le misure interdittive cautelari e non per il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, sicchè il dato normativo sarebbe tale da impedire un’interpretazione estensiva volta ad introdurre, anche per l’adozione del sequestro preventivo di cui all’art. 53 d.lgs. n. 231 del 2001, il requisito del fumus commissi delicti.

8. Responsabilità da reato, confisca e rapporti con il risarcimento del danno erariale.

La responsabilità da reato degli enti è, per sua stessa natura, fondata su un fatto storico che ha una matrice unitaria e comune alla commissione del reato presupposto ed al contempo ben può avere una potenzialità lesiva di interessi privatistici, così che a fronte di uno “stesso fatto” le conseguenze giuridiche possono essere plurime.

La questione è stata oggetto di approfondimento da Sez. 1, n. 39874 del 6/6/2018, Sicilfert s.r.l., chiamata a verificare i rapporti tra la sanzione irrogata a carico dell’ente ex d.lgs. n. 231 del 2001 e la contestuale condanna al risarcimento dei danni pronunciata dalla Corte dei Conti per il medesimo fatto.

In particolare, si è posta la questione di stabilire se la confisca disposta ex art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001 desse luogo alla violazione del ne bis in idem a fronte della condanna disposta dalla Corte dei Conti per il medesimo importo. Nel caso esaminato, infatti, i reati presupposto contestati – truffa aggravata ed indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato – avevano comportato la confisca per equivalente dei contributi illecitamente conseguiti e, nel giudizio contabile, la condanna alla restituzione dei medesimi importi.

La società condannata aveva ritenuto che la duplicazione delle “sanzioni” avrebbe determinato la violazione del principio del ne bis in idem, chiedendo in sede di esecuzione la revoca della confisca per equivalente, richiesta che veniva rigettata dal giudice di merito.

Al quesito è stata data risposta, negativa, essendosi ritenuto che «In tema di responsabilità amministrativa degli enti per l’illecito di cui all’art. 24 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non sussiste violazione del principio del “ne bis in idem” nel caso in cui l’ente venga condannato, in sede penale, alle relative sanzioni amministrative con contestuale confisca per equivalente dei suoi beni in misura pari al profitto conseguito e, in sede contabile, al risarcimento del danno erariale, in quanto tali provvedimenti, pur avendo carattere sanzionatorio, perseguono differenti finalità. (In motivazione la Corte ha precisato che mentre la confisca viene imposta nell’interesse collettivo e con funzione socialpreventiva, la condanna al risarcimento del danno persegue l’effetto di reintegrare il patrimonio dell’ente pubblico, depauperato dalla condotta criminosa accertata in sede penale)» (Sez. 1, n. 39874 del 6/6/2018, Sicilfert s.r.l., Rv. 273866).

A tale conclusione la Corte è giunta richiamando in primo luogo la giurisprudenza della Corte EDU (sentenza del 8/06/1976, Engel c. Olanda; 9/1/1995, Weich c,. Regno Unito; 30/8/2007, Sud Fondi c. Italia; 4/3/2014, Grande Stevens c. Italia) in tema di natura “penale” dei trattamenti sanzionatori non espressamente ritenuti tali negli ordinamenti interni, sottolineando come la natura “sostanzialmente penale” di una misura afflittiva va valutata tenendo conto della funzione e del grado afflittività.

Operando un raffronto tra la confisca disposta ai sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001 e la condanna al risarcimento dei danni disposta in sede di giudizio contabile, la Cassazione ha agevolmente evidenziato come «il risarcimento del danno nel sistema giuridico italiano è estraneo alla categoria della sanzione penale, perché sul piano definitorio esso costituisce rimedio riparatorio previsto in favore del danneggiato, appartenente al diritto civile sostanziale ed estraneo all’ordinamento penale, che se ne occupa soltanto se lo stesso venga accessoriamente richiesto nel processo penale mediante la costituzione di parte civile, ha natura compensativa di una diminuzione patrimoniale patita in conseguenza della commissione di un illecito e colpisce la sfera patrimoniale di chi vi è soggetto, non già la libertà personale, come accade per le pene in senso proprio».

Anche in precedenti pronunce, del resto, la Cassazione ha avuto modo di sottolineare come la giurisdizione penale e la giurisdizione contabile sono reciprocamente autonome anche in caso di azione di responsabilità derivante da un medesimo fatto di reato commesso da un pubblico dipendente e l’eventuale interferenza che può determinarsi tra i relativi giudizi incide solo sulla proponibilità dell’azione di responsabilità e sulla eventuale preclusione derivante dal giudicato, ma non sulla giurisdizione, nel senso che l’azione di danno può essere esercitata in sede civile o penale, ovvero davanti alla Corte dei Conti, solo a condizione che l’ente danneggiato non abbia già ottenuto un precedente titolo definitivo per il risarcimento integrale di tutti i danni. (Fattispecie in tema di abuso di ufficio, in cui la Corte, escludendo la sussistenza di una giurisdizione esclusiva del giudice contabile in tale materia, ha ritenuto non violato il principio del ne bis in idem e legittima la liquidazione in favore della P.A. del danno patrimoniale e morale derivante dal reato commesso da un pubblico dipendente, nonostante per il medesimo fatto fosse stata già promossa l’azione dinanzi al giudice contabile) (Sez. 6, n. 35205 del 16/3/2017, Mineo, Rv. 270774).

Partendo da tali presupposti, la Corte ha ritenuto che per quanto attiene più specificamente ai rapporti tra la confisca emessa in sede penale ed eventuali provvedimenti risarcitori, emessi in altro procedimento civile o amministrativo in favore di un ente pubblico che sia stato danneggiato dal reato e dall’illecito commesso dalla persona giuridica giudicata responsabile, la autonomia del corso dei giudizi non si risolve anche in reciproca indifferenza dei rispettivi esiti decisori; al contrario, nel determinare l’ammontare pecuniario sino a concorrenza del quale confiscare in sede penale i beni del condannato e della persona giuridica è necessario tenere conto della già avvenuta totale o parziale restituzione o corresponsione all’ente danneggiato di eventuali somme di denaro, da scomputare dal totale del profitto del reato, che va considerato, non al momento di percezione, ma all’atto della decisione. Siffatta soluzione riceve avvallo normativo per effetto della disposizione dell’art. 19, comma 1, d.lgs. n. 231 del 2001, contenente la clausola per la quale, in caso di responsabilità degli enti, la confisca deve essere disposta soltanto per quella parte del profitto del reato presupposto che non possa essere restituito al danneggiato (Sez. 3, n. 44446 del 15/10/2013, Runco, Rv. 257628; Sez. 2, n. 45054 del 16/11/2011, Benzoni, Rv. 251070).

Analogo principio, del resto, era stato già affermato da altra sezione della Cassazione sempre in relazione al medesimo procedimento, con la pronuncia che aveva definito il giudizio a carico della Sicilfert; in quell’occasione, Sez. 2, n. 29512 del 16/06/2015, Sicilfert s.r.l., Rv. 264231, aveva affermato che l’utilità economica ricavata dalla persona giuridica a seguito della consumazione di una truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, non può essere confiscata come profitto del reato, nemmeno per equivalente, quando la stessa sia stata già restituita al soggetto danneggiato.

In conclusione, pertanto, può affermarsi che il sistema giuridico emergente dalle richiamate pronunce si fonda sul presupposto dell’autonomia della responsabilità penale, da reato ex d.lgs. n. 231 del 2001 e di natura contabile o, più in generale, risarcitoria, con la conseguenza che il “cumulo” della confisca e della condanna al risarcimento del danno non determina la violazione del principio del ne bis in idem.

Al contempo, tuttavia, per evitare che la confisca e la condanna al risarcimento dei danni diano luogo ad una duplicazione di pagamenti a carico del soggetto condannato, occorrerà modulare l’entità della confisca tenendo conto dell’eventuale avvenuto risarcimento del danno, come del resto testualmente precisato dall’art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001, lì dove si precisa che l’importo della confisca deve essere circoscritto alla parte che non è suscettibile di restituzione al danneggiato.

9. Le Sezioni unite sul tema dell’interesse ad impugnare nel caso di revoca della misura cautelare interdittiva.

Le Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi su un particolare profilo processuale inerente alla disciplina applicabile al riesame delle misure cautelari interdittive adottate nell’ambito di un procedimento instaurato nei confronti di un ente ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001. In particolare, si è posto l’interrogativo in ordine alla necessità o meno che il difetto di interesse all’impugnazione possa essere dichiarato de plano senza, quindi, la fissazione di un’apposita udienza in camera di consiglio.

Per comprendere i termini della questione, nonché le peculiarità del caso affrontato dalle Sezioni unite, è imprescindibile un sia pur sintetico richiamo alla specifica vicenda processuale.

Nell’ambito di tale procedimento, veniva disposta a carico dell’ente la misura cautelare interdittiva del divieto di contrarre con la pubblica amministrazione, per la durata di anni uno, ai sensi degli artt. 25 e 45 d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231. Nella fase a contraddittorio anticipato, che precedeva la decisione del g.i.p. in ordine alla richiesta cautelare interdittiva, la società imputata – oltre a contestare la sussistenza dei presupposti applicativi della misura – ne chiedeva, nel caso di sua adozione, la sospensione al fine di consentire la realizzazione delle condotte riparatorie previste dall’art. 17 d.lgs. n. 231 del 2001.

Il g.i.p., nell’applicare la misura cautelare interdittiva per la durata di un anno, ne disponeva la contestuale sospensione ai sensi dell’art. 49 d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, prescrivendo conseguentemente il deposito di una cauzione (ai sensi dall’art. 49, comma 2, d.lgs. n. 231 del 2001), nonché di adeguare il modello di organizzazione e controllo di cui la società era già dotata.

L’ente dava seguito alle prescrizioni conseguenti alla sospensione della misura cautelare, anche versando una congrua somma a titolo di risarcimento del danno derivante dall’illecito, inoltre metteva a disposizione, a titolo di profitto del reato, un’ulteriore somma in favore del fondo unico spese di giustizia.

Contestualmente all’adozione delle “condotte riparatorie”, l’ordinanza cautelare veniva appellata dinanzi al tribunale del riesame ma, nelle more della decisione, il giudice procedente disponeva la revoca della misura cautelare interdittiva e la conseguente restituzione all’ente della somma versata a titolo di cauzione.

Tale decisione, essendo esclusivamente finalizzata a verificare l’effettivo adempimento delle prescrizioni imposte per effetto della sospensione della misura cautelare, si limitava a dar atto del positivo espletamento delle condotte riparatorie, senza entrare nel merito della sussistenza dei gravi indizi dell’illecito amministrativo contestato, né dell’originaria insussistenza del pericolo di recidiva, questioni che rimanevano impregiudicate essendo, peraltro, già sottoposte al vaglio del tribunale del riesame.

Con successiva ordinanza, il tribunale del riesame dichiarava de plano l’inammissibilità dell’appello proposto dall’ente avverso l’ordinanza genetica con la quale il g.i.p. aveva disposto la misura cautelare interdittiva del divieto di contrarre con la pubblica amministrazione, ritenendo che, per effetto della revoca fosse, venuto meno l’interesse all’impugnazione.

Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione l’ente, lamentando che erroneamente era stato dichiarato il difetto di interesse all’impugnazione senza la preventiva fissazione di apposita udienza camerale, il che aveva impedito all’ente di far valere la perdurante utilità di una decisione sull’appello che, determinando la caducazione ab origine del titolo cautelare, avrebbe comportato risultati favorevoli più ampi per l’ente medesimo.

La Sesta Sezione, con ordinanza n. 26032 depositata il 7 giugno 2018, rimetteva la trattazione del ricorso alle Sezioni unite, al fine di stabilire «Se l’appello avverso un’ordinanza applicativa di una misura cautelare – nella specie una misura interdittiva disposta a carico di una società – possa essere dichiarato inammissibile “anche senza formalità”, ex art. 127, comma 9, cod. proc .pen., dal tribunale che ritenga la sopravvenuta mancanza di interesse a seguito della revoca della misura stessa».

10. Sopravvenuta carenza di interesse e decisione de plano.

La sezione rimettente dava atto del contrasto emerso, in generale, in ordine alle modalità processuali da seguire per la dichiarazione di inammissibilità.

È bene sottolineare che la questione rimessa all’esame delle Sezioni unite si caratterizza per una particolare complessità, in quanto il contrasto non concerneva esclusivamente il caso di specie relativo alla disciplina della responsabilità da reato degli enti, avendo un rilievo generale.

Difatti, sia l’art. 309, comma 8, cod. proc. pen. in tema di riesame delle misure cautelari personali, che l’art. 324, comma 6, cod. proc. pen. relativo al riesame delle misure cautelari reali, contemplano il rinvio alle “forme previste dall’art. 127” cod. proc. pen. per il procedimento in camera di consiglio.

A sua volta, l’art. 127, comma 9, cod. proc. pen. stabilisce che l’inammissibilità dell’atto introduttivo del procedimento “è dichiarata dal giudice con ordinanza, anche senza formalità di procedura” il che legittima il ricorso alla declaratoria de plano del difetto di interesse – originario o sopravvenuto – all’impugnazione.

La riprova della portata generale della questione è resa evidente dal fatto che il contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità concerneva pronunce rese con riferimento alle misure cautelari disposte nei confronti dell’imputato persona fisica. Ciò comporta che il problema ha una valenza più ampia della questione rimessa all’esame delle Sezioni unite chiamate a pronunciarsi con specifico riferimento al procedimento riguardante gli enti che presenta ulteriori profili specifici dettati dalla particolarità del sistema cautelare e degli istituti di giustizia riparativa introdotti dal d.lgs. n. 231 del 2001.

11. Il contrasto emerso nella giurisprudenza delle sezioni semplici.

L’ammissibilità o meno della pronuncia de plano dell’inammissibilità del ricorso cautelare per carenza di interesse all’impugnazione ha dato luogo a due soluzioni nettamente contrapposte.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale (al quale si ascrive, da ultimo, Sez. 3, n. 34823 del 30/01/2017, Filardo, Rv. 270955; Sez. 2, n. 18333 del 22/04/2016, Moccardi, Rv. 267083) l’inammissibilità dell’istanza di riesame, a causa di irregolarità relative alla impugnabilità oggettiva e soggettiva del provvedimento, all’interesse ad impugnare, alla legittimazione attiva, nonchè ai tempi ed alle forme dell’atto di impugnazione, andrebbe dichiarata de plano, senza necessità di fissare l’udienza camerale e di avvisare i difensori, trovando applicazione l’art. 127, coma 9, cod. proc. pen. in base al quale l’inammissibilità dell’atto introduttivo del procedimento è dichiarata dal giudice con ordinanza, anche senza formalità di procedura, salvo che sia diversamente stabilito.

I plurimi precedenti intervenuti sul tema, sono tendenzialmente univoci nel ritenere che, ogni qual volta è previsto il rito in camera di consiglio con rinvio al modello delineato dall’art. 127, cod. proc. pen., ne conseguirebbe necessariamente l’applicabilità del comma 9 che consente la declaratoria de plano dell’inammissibilità.

Tale impostazione è contraddetta da altro orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la declaratoria di inammissibilità dell’istanza di riesame proposta avverso una misura cautelare reale deve essere pronunciata non già de plano, ma nel contraddittorio delle parti ex artt. 324, comma 6 e 127, comma 1, cod. proc. pen., ossia all’esito dell’udienza camerale partecipata, poiché l’art. 111 Cost. garantisce il contraddittorio nell’ambito di ogni procedimento penale, principale o incidentale, sia di merito che di legittimità (da ultimo, Sez. 3, n. 50339 del 22/09/2016, P.O. in proc. Britti, Rv. 268387; Sez. 3, n. 11690 del 03/03/2015, Antonov Roman, Rv. 262982).

Delineate tali problematiche di ordine generale, si pone l’ulteriore questione di verificare se ed in che misura le dinamiche cautelari afferenti alla responsabilità da reato degli enti impongono degli adattamenti del modello processuale di riferimento, dovendosi necessariamente considerare la peculiarità delle ipotesi di revoca della misura cautelare interdittiva conseguente all’adozione delle condotte riparatorie.

Quest’ultimo aspetto, invero, va esaminato non solo con riferimento alla necessità o meno del contraddittorio in sede cautelare, ma soprattutto verificando se la revoca della misura interdittiva disposta non già per la carenza originaria dei suoi presupposti, bensì a seguito delle condotte riparatorie, integri o meno un’ipotesi di sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione.

Si tratta, evidentemente, di una questione pregiudiziale rispetto a quella prettamente relativa alla procedura da seguire, atteso che ove si ritenesse che la sospensione e successiva revoca della misura cautelare non integrano il difetto di interesse sopravvenuto, in quanto conseguenti all’adozione di condotte comunque “onerose” per l’ente, si potrebbe giungere all’affermazione secondo cui in tali casi sussisterebbe sempre l’interesse dell’ente alla verifica dell’originaria insussistenza dei presupposti cautelari.

12. La peculiarità del procedimento cautelare a carico degli enti.

Con la sentenza resa da Sez. U, n. 51515 del 27/9/2018, Romeo Gestioni s.p.a., la Corte si è approcciata alla problematica rimessa al suo esame partendo da quelle che sono le specificità del sistema cautelare introdotto dal d.lgs. n. 231 del 2001.

A differenza di quanto previsto per il sistema cautelare personale previsto dal codice di rito, l’art. 49, d.lgs. n. 231 del 2001, le misure cautelari interdittive a carico dell’ente possono essere applicate solo all’esito di un contraddittorio anticipato con l’ente, il quale nell’udienza appositamente fissata per la discussione della richiesta cautelare, potrà non solo difendersi dall’addebito, ma anche avanzare richiesta di sospensione della misura al fine di realizzare le condotte riparatorie previste dall’art. 17, d.lgs. n. 231 del 2001.

Evidenziano le Sezioni unite come «l’intero sistema cautelare di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, afferente alle misure interdittive, si fonda su una tutela rafforzata del contraddittorio, inteso come momento di interlocuzione tra le parti ed il giudice, nei sensi sopra chiariti, tant’è che fin dalla fase genetica dell’adozione della misura cautelare si consente il diritto di intervento dell’ente indagato».

Prosegue la Corte nel suo ragionamento sottolineando come la “funzione dialogica” riconosciuta nella fase cautelare è essenziale in quanto l’interlocuzione tra l’ente e l’organo giudicante garantisce non solo finalità direttamente difensive, ma consente altresì al giudice di graduare la misura interdittiva adottata, nell’ottica di una inedita dinamica cautelare sulla quale incide direttamente la scelta dell’ente di adottare condotte riparatorie, dotandosi di un modello di organizzazione in grado eliminare o ridurre il rischio di reiterazione di illeciti.

La valorizzazione del contraddittorio nell’ambito delle dinamiche cautelari, pertanto, diviene un dato che, in quanto connotante l’intero sistema, assume immediato rilievo al fine di verificare se ed in che misura definizioni del procedimento cautelare con forme semplificate e, quindi, con il ricorso alla decisione de plano siano compatibili con la logica sottesa alla peculiare disciplina introdotta dal d.lgs. n. 231 del 2001.

12.1. Revoca della misura cautelare per condotte riparatorie ed interesse all’impugnazione.

Una volta evidenziata l’importanza del contributo che l’ente è chiamato a fornire nella fase genetica dell’adozione della misura cautelare, le Sezioni unite hanno compiutamente esaminato il profilo più strettamente inerente all’incidenza che la revoca della misura per la proficua adozione delle condotte riparatorie può determinare sull’interesse all’impugnazione dell’ordinanza cautelare.

La Corte, pur passando in rassegna l’ampia giurisprudenza formatasi con riguardo ai rapporti tra la revoca delle misure personali e reali emesse nei confronti dell’imputato ed il perdurante interesse all’impugnazione (Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234268; Sez. U, n. 18253 del 24/04/2008, Tchmil, Rv. 239397; Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011 – dep. 2012 –, Marinaj, Rv.251694; Sez. U, n. 40963 del 20/07/2017, Andreucci, Rv. 270497), ha preso atto di come quei principi possano solo parzialmente valere con riguardo alle misure cautelari disposte a carico dell’ente.

È stato evidenziato, infatti, come «la richiesta di sospensione della misura che viene avanzata dall’ente non implica affatto la rinunzia, da parte della società, a contestare la fondatezza della domanda cautelare. Ciò in quanto la disponibilità a porre in essere condotte riparatorie ben può dipendere dalla primaria esigenza dell’ente di scongiurare l’applicazione di misure interdittive, implicanti la stasi del ciclo produttivo e la paralisi dell’attività economica. Di riflesso, deve rilevarsi che l’intervenuta sospensione del provvedimento interdittivo, ai sensi dell’art. 49, cit., come pure la revoca per effetto dell’adozione delle condotte riparatorie, sono evenienze che risultano del tutto compatibili con la perdurante attualità dell’interesse in capo alla società a coltivare l’appello cautelare, sia per contestare l’originaria legittimità del provvedimento, sia per ottenere la restituzione delle somme versate proprio al fine di ottenere la sospensione della misura, o per la rimozione di altre possibili conseguenze dannose».

Peraltro, ai suddetti profili dimostrativi del perdurante interesse all’impugnazione, si aggiunge anche l’ulteriore aspetto direttamente correlato all’adozione del modello organizzativo.

Al fine di stabilire se la revoca per effetto delle condotte riparatorie lasci inalterato l’interesse all’impugnazione cautelare, appare in primo luogo rilevante valutare la conseguenza dell’eventuale condotta dell’ente che, dopo l’adozione dei modelli organizzativi ex art. 17 e 49 d.lgs. n. 231 del 2001, intenda non più avvalersi di tale strumento di controllo e prevenzione del rischio.

Premesso che il sistema disegnato dal d.lgs. n. 231 del 2001 si fonda sempre sulla volontaria adozione dei modelli organizzativi, è innegabile che nell’ambito delle dinamiche cautelari tale strumento è funzionale a garantire l’adesione dell’ente ad un agire improntato alla logica della prevenzione del rischio di reiterazione degli illeciti.

L’adozione ed efficace attuazione del modello organizzativo costituisce uno dei principali parametri sulla cui base il giudice della cautela potrà valutare positivamente il venir meno del periculum in mora e, conseguentemente, revocare la misura in atto.

Quanto detto comporta che l’ente il quale abbia ottenuto la sospensione della misura e la successiva revoca per effetto dell’adozione delle condotte riparatorie, pur non essendo obbligato a proseguire nell’attuazione della compliance aziendale, si vedrebbe sicuramente esposto al rischio della riproposizione di una richiesta cautelare qualora decidesse di non dar più applicazione al modello organizzativo positivamente valutato in sede di revoca.

In buona sostanza, l’effetto preventivo ed il conseguente giudizio di non “pericolosità” dell’ente presuppongono che l’attuazione del modello organizzativo si protragga anche dopo l’intervenuta revoca della misura cautelare, sicchè ove ciò non avvenga risorge il rischio di recidiva e l’ente sarà nuovamente esposto all’applicazione di misure cautelari interdittive.

Tale aspetto è stato opportunamente sottolineato dalle Sezioni unite, lì dove in motivazione si precisa che «la disponibilità della società ad adottare un determinato modello organizzativo non implica la rinuncia a contestare la legittimità del provvedimento impositivo. Oltre a ciò, deve considerarsi che la società, pure a fronte della intervenuta revoca, ove non perpetuasse i comportamenti ritenuti virtuosi, si vedrebbe esposta al rischio di una nuova richiesta cautelare».

Sulla base delle plurime ragioni dalle quali emerge la permanenza dell’interesse dell’ente all’impugnazione dell’ordinanza cautelare revocata, la Corte conclude sostenendo che va escluso qualsivoglia automatismo tra la revoca della misura interdittiva per fatti sopravvenuti e la carenza di interesse all’impugnazione, proprio perché l’effettiva mancanza sopravvenuta di interesse va necessariamente valutata sulla base di parametri di natura sostanziale, dovendosi in concreto stabilire se in capo all’ente residui o meno una qualche utilità dall’eventuale annullamento dell’ordinanza cautelare in sede di impugnazione.

12.2. L’illegittimità della decisione de plano.

Le conclusioni cui la Corte è giunta in merito al perdurante interesse dell’ente ad ottenere una pronuncia sulla legittimità o meno dell’ordinanza cautelare adottata nei suoi confronti è strettamente funzionale alla risoluzione del quesito specificamente demandato alle Sezioni unite, concernente la legittimità o meno della dichiarazione de plano dell’inammissibilità dell’impugnazione.

Una volta esclusa la sussistenza di un automatismo tra la revoca della misura interdittiva per fatti sopravvenuti e la carenza di interesse all’impugnazione, l’inevitabile conseguenza che la Corte ne ha tratto è che la declaratoria di inammissibilità dell’appello non può essere pronunciata in esito a modelli procedimentali semplificati, in considerazione delle specifiche conseguenze sostanziali derivanti in capo all’ente dalla misura interdittiva.

Pur a seguito della revoca per effetto delle condotte riparatorie, infatti, sussiste un interesse giuridicamente rilevante dell’ente ad ottenere una decisione sul merito dell’ordinanza cautelare.

Le molteplici conseguenze ricollegabili alla misura interdittiva revocata, infatti, non solo fondano la persistenza dell’interesse all’impugnazione, ma determinano anche la necessità dell’effettiva instaurazione di una fase a contraddittorio pieno, anche al fine di offrire al tribunale specifiche indicazione circa l’attualità dell’interesse ad ottenere una decisione sulla originaria legittimità del provvedimento cautelare, nel frattempo caducato o revocato.

A tal fine, la Corte sottolinea come il riconoscimento dell’originaria infondatezza della domanda cautelare incide direttamente sulla restituzione della cauzione o delle somme versate dall’ente al fine di ottenere la sospensione e poi la revoca della misura, ragioni che giustificano di per sé l’interesse dell’ente ad ottenere una decisione sull’appello cautelare proposto avverso l’ordinanza applicativa della misura.

13. Dichiarazione de plano dell’inammissibilità e compatibilità con l’art. 111 Cost.

Nell’introdurre la questione rimessa all’esame delle Sezioni unite, si è avuto modo di sottolineare come il contrasto circa la possibilità di dichiarare de plano la sopravvenuta inammissibilità dell’impugnazione cautelare per difetto di interesse ha valenza generale, atteso che la norma che consente tale forma di definizione – contenuta all’art. 127, comma 9, cod. proc. pen. – è richiamata sia in relazione al riesame che all’appello nel subprocedimento cautelare.

La sentenza in commento, pur essendosi incentrata sulle specifiche problematiche concernenti l’impugnazione delle misure cautelari interdittive emesse a carico degli enti, ha fornito alcune indicazioni di estrema utilità anche con riguardo alla più ampia tematica concernente il ricorso a soluzioni semplificate per la dichiarazione di inammissibilità.

In particolare, la Corte si è premurata di verificare la fondatezza della tesi, sostenuta dall’orientamento minoritario, secondo cui la rilevanza costituzionale del principio del contraddittorio, contenuta all’art. 111 Cost., renderebbe non più praticabili quelle soluzioni volte a dichiarare l’inammissibilità delle impugnazioni ai sensi dell’art. 127, comma 9, cod. proc. pen. Si è sostenuto, infatti, che pur nel procedimento che si svolga secondo le più snelle forme della camera di consiglio, il contraddittorio andrebbe necessariamente attuato, non essendo consentita la declaratoria di inammissibilità adottata in assenza di un confronto effettivo con la parte impugnante.

A fronte di tale affermazione, le Sezioni unite hanno preliminarmente richiamato la giurisprudenza di legittimità che individua i diversi modelli procedimentali che applicano, in toto o con delle varianti, lo schema dell’udienza in camera di consiglio, disciplinata dall’art. 127 cod. proc. pen.

Si è osservato, infatti, come in plurime pronunce, anche a Sezioni unite, sono state individuate le diverse ipotesi disciplinate dal codice di rito alle quali si applica il modello tipico del procedimento in camera di consiglio, ex art. 127 cod. proc. pen. e quelle nelle quali, invece, si seguono forme semplificate o non esattamente sovrapponibili allo schema indicato dall’art. 127 cit. (Sez. U, n. 14991 del 11/04/2006, De Pascalis, Rv. 233418; Sez. U, n. 26156 del 28/05/2003, Di Filippo, Rv. 224612).

Si possono pertanto identificare, dal punto di vista strutturale, le seguenti categorie di procedimenti semplificati, variamente richiamanti lo schema della camera di consiglio, a seconda del differente grado di garanzia del contraddittorio, che deve essere assicurato:

- procedimenti nei quali è fatto espresso riferimento alle «forme dell’art. 127», tra i quali rientrano quelli relativi alle impugnazioni cautelari, che qui interessano, stante il rinvio all’art. 127 cod. proc. pen., contenuto negli artt. 309, comma 8, 310, comma 2, 311, comma 5, 324, comma 6, 322-bis, comma 2, cod. proc. pen;

- procedimenti che, pur facendo riferimento allo schema «in camera di consiglio», prevedono, viceversa, la specifica deroga all’osservanza delle «forme di cui all’art. 127», quale l’art. 624, comma 3, cod. proc. pen.;

- procedimenti che non prescrivono la procedura in camera di consiglio, né richiamano le forme dell’art. 127 cod. proc. pen. e neppure il generico obbligo di sentire le parti (in tema di applicazione e di estinzione delle misure cautelari personali artt. 292, comma 1; 299, comma 3 e 306, comma 1, cod. proc. pen.);

- procedimenti, infine, che realizzano diverse forme di contraddittorio, rispetto a quelle previste dall’art. 127 cod. proc. pen., tra le quali rientra lo stesso procedimento camerale in Corte di cassazione ex art. 611 cod. proc. pen., ovvero che, diversamente dallo schema dell’art. 127, prescrivono la partecipazione necessaria delle parti principali (artt. 391, 420, 469, 666, comma 4, cod. proc. pen.).

A fronte della varietà di schemi processuali che, con diverse modulazioni, prevedono forme semplificate di contraddittorio, la Corte ha ritenuto di ribadire la piena compatibilità di tali previsioni con la garanzia costituzionale dettata dall’art. 111 Cost.

Si è affermato, in particolare, che «la decisione adottata de plano, in materia di inammissibilità dell’impugnazione, non è di per sé lesiva delle garanzie di contraddittorio presidiate dall’art. 111, secondo comma, Cost., ove è stabilito che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale. Il canone costituzionale di cui all’art. 111, secondo comma, Cost., non preclude l’operatività del disposto di cui all’art. 127, comma 9, cod. proc pen., che consente al giudice di provvedere alla dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione “anche senza formalità di procedura”».

Ad ulteriore riprova dell’insussistenza di qualsivoglia profilo di incompatibilità tra le procedure de plano e la previsione dell’art. 111 Cost., le Sezioni unite hanno sottolineato come anche recentemente vi sono stati interventi normativi che hanno espressamente contemplato la possibilità per il giudice dell’impugnazione di decidere “senza formalità” determinate cause di inammissibilità dell’impugnazione.

Il riferimento concerne in particolare l’art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen., novellato dall’art. 1, comma 62, legge 23 giugno 2017, n. 103, norma che consente la dichiarazione di inammissibilità del ricorso in cassazione “senza formalità di procedura” e, quindi, de plano, «nei casi previsti dall’art. 591, comma 1, lettere a), limitatamente al difetto di legittimazione, b), c), esclusa l’inosservanza delle disposizioni dell’art. 581, e d)», cod. proc. pen.

Orbene, le osservazioni svolte dalle Sezioni unite, pur se direttamente finalizzate alla risoluzione della questione riguardante la possibilità di dichiarare de plano una peculiare ipotesi di impugnazione, hanno una valenza obiettivamente generale.

Ne consegue che il principale argomento valorizzato dai sostenitori della tesi della incompatibilità tra l’inammissibilità dichiarata de plano ed il principio del contraddittorio, dovrebbe ritenersi superato per effetto della ricostruzione del sistema operata dalle Sezioni unite.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 26156 del 28/05/2003, Di Filippo, Rv. 224612 Sez. 2, n. 9829 del 16/02/2006, P.M. in proc. Miritello, Rv. 233373 Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234268 Sez. U, n. 14991 del 11/04/2006, De Pascalis, Rv. 233418 Sez. U, n. 18253 del 24/04/2008, Tchmil, Rv. 239397 Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011 – dep. 2012 –, Marinaj, Rv. 251694 Sez. 2, n. 45054 del 16/11/2011, Benzoni, Rv. 251070 Sez. 6, n. 34505 del 31/05/2012, Codelfa s.p.a., Rv. 252929 Sez. 5, n. 44824 del 26/09/2012, P.M. in proc. Magiste International S.A., Rv. 253482 Sez. 5, n. 4335 del 16/11/2012 – dep. 2013 –, Franza, Rv. 254326 Sez. 3, n. 44446 del 15/10/2013, Runco, Rv. 257628 Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhanh, Rv. 261112 Sez. 2, n. 41435 del 16/09/2014, Assoc. Integrazione Immigrati, Rv. 260043 Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014 – dep. 2015 –, Uniland s.p.a., Rv. 263680 Sez. 4, n. 51806 del 18/11/2014, Calamai, Rv. 261571 Sez. 3, n. 11690 del 03/03/2015, Antonov Roman, Rv. 262982 Sez. 2, n. 29512 del 16/06/2015, Sicilfert s.r.l., Rv. 264231 Sez. 3, n. 31457 del 31/3/2016, Orceana costruzioni s.p.a. Sez. 2, n. 18333 del 22/04/2016, Moccardi, Rv. 267083 Sez. 3, n. 50339 del 22/09/2016, P.O. in proc. Britti, Rv. 268387 Sez. 3, n. 34823 del 30/01/2017, Filardo, Rv. 270955 Sez. 6, n. 35205 del 16/3/2017, Mineo, Rv. 270774 Sez. U, n. 40963 del 20/07/2017, Andreucci, Rv. 270497 Sez. 3, n. 15788 del 11/10/2017 – dep. 2018 –, Orceana Costruzioni s.p.a. Sez. 3, n. 9072 del 17/11/2017 – dep. 2018 –, Ficule Lucas & C.sas, Rv. 272447 Sez. 6, n. 14736 del 20/12/2017 – dep. 2018 –, Ilva s.p.a., Rv. 272771 Sez. 6, n. 33044 del 25/01/2018, Locuratolo, Rv. 273772 Sez. 2, n. 34293 del 10/07/2018, Sunflower s.r.l., Rv. 273516 Sez. 1, n. 39874 del 6/6/2018, Sicilfert s.r.l., Rv. 273866

SEZIONE IV IL CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ DEL PROFITTO

  • reato
  • riciclaggio di capitali
  • riciclaggio di denaro
  • diritto penale

CAPITOLO I

RICICLAGGIO E AUTORICICLAGGIO

(di Marzia Minutillo Turtur )

Sommario

1 La prevenzione del riciclaggio, le fonti normative anche sovranazionali, caratteri e finalità della previsione. - 2 Le condotte di riciclaggio: il trasferimento delle somme di denaro nelle sue diverse forme. - 3 L’art. 12 quinquies del d.l. n. 306 del 1992 come autoriciclaggio improprio. Origine e caratteri della disciplina sull’autoriciclaggio. - 4 Il concorso dell’extraneus nell’autoriciclaggio, le innovative prospettive interpretative della Corte. - 5 Il prodotto, il profitto e il prezzo del reato in tema di auto riciclaggio. - 6 Autoriciclaggio e concorso con il trasferimento fraudolento di valori. - Indice delle sentenze citate

1. La prevenzione del riciclaggio, le fonti normative anche sovranazionali, caratteri e finalità della previsione.

La centralità della previsione dell’art. 648-bis cod. pen. deve essere correlata alla particolare rilevanza attribuita dal legislatore all’interesse tutelato, da riferire sia all’amministrazione della giustizia (ed eventualmente ad interessi a carattere patrimoniale), che alla tutela dell’ordine pubblico economico, sebbene in via indiretta. Il riciclaggio è comunemente considerato e identificato in ognuna di quelle attività dirette a far disperdere la riconoscibilità dell’origine illecita di beni o denaro o di altre utilità economiche, anche mediante inserimento di tali beni nel circuito economico finanziario, per il tramite di investimenti leciti che determineranno inevitabilmente un’alterazione dei meccanismi di mercato. La disciplina attuale è il risultato di un progressivo ampliamento della fattispecie a seguito di una serie di interventi normativi, anche a carattere internazionale, e in particolare: – la Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di sostanze stupefacenti, fatta a Vienna n il 19.12.1988, eseguita in Italia con la l. n. 55 del 1990; – la Convenzione sul riciclaggio, ricerca e sequestro e confisca dei proventi di reato, fatta a Strasburgo il 8.11.1990, eseguita in Italia con la l. n. 328 del 1993, con la quale è stata introdotta l’attuale previsione in tema di riciclaggio; – la direttiva n. 2005/60/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26.10.2005, eseguita in Italia con il d.lgs. n. 231 del 2007 quanto all’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo.

Appare opportuno inoltre un richiamo alla previsione dello specifico obbligo a carico di soggetti qualificati di segnalare operazioni a carattere sospetto all’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia. Tale obbligo sorge a carico di soggetti qualificati (ex art. 41 della legge) nel caso in cui si abbia conoscenza o si sospetti il tentativo o il compimento di atti di riciclaggio. La necessità di prevenire in ogni sua dimostrazione la condotta di riciclaggio determina che, nel caso in cui tali avvisi non vengano posti in essere con dolo, si realizzi un vero e proprio concorso nel delitto di riciclaggio.

La previsione introduttiva del reato di riciclaggio è da identificare nell’art. 3 del d. l. n. 59 del 1978, convertito nella l. n. 191 del 1978 (sostituzione di denaro e valori provenienti da rapina aggravata, estorsione aggravata e sequestro di persona a scopo di estorsione). Il riciclaggio viene disciplinato come un delitto a consumazione anticipata. La considerazione di un così limitato numero di reati presupposto aveva provocato diverse critiche nei confronti della nuova disciplina, che veniva in seguito sostituita dall’art. 23 della legge n. 55 del 1990, con introduzione anche dell’art. 648-ter cod. pen.; la nuova previsione sul riciclaggio si caratterizza per l’allargamento dei reati presupposto a quelli concernenti la produzione e il traffico illecito di sostanze stupefacenti, con un abbandono della struttura del reato a condotta anticipata, essendo richiesta dal legislatore una effettiva attività di sostituzione del provento del delitto, o anche una concreta attività di ostacolo all’identificazione della sua provenienza, con determinazione dell’oggetto del reato nella nuova formula “denaro, benio altre utilità”. La definitiva formulazione dell’art. 648-bis cod. pen. è dovuta alla disciplina introdotta con la legge n. 328 del 1993 e si caratterizza per un deciso ampliamento dei reati presupposto, identificati in tutti i delitti non colposi, senza necessità dunque di giungere ad una esatta elencazione della tipologia di delitto presupposto. Le condotte previste si caratterizzano tutte per un comune requisito, da individuare nell’effettiva creazione di un ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa del bene. Il reato viene costruito come reato di mera condotta a forma libera, che si caratterizza per la sua oggettiva pericolosità. La condotta materiale del reato è stata estesa non solo alla sostituzione di beni, ma anche al trasferimento di proventi illeciti e al compimento di altre operazioni in modo da ostacolarne l’identificazione (con estensione dunque della condotta a quelle che sono state ritenute da più interpreti le tre fasi tipiche del riciclaggio, ovvero il collocamento, la stratificazione e l’integrazione).

L’elemento soggettivo è identificato nel dolo generico, ovvero nella consapevolezza piena della provenienza delittuosa dell’oggetto del riciclaggio e dalla volontà di ostacolare con condotta idonea la conoscibilità della provenienza illecita dello stesso.

Nella considerazione delle condotte di riciclaggio si è chiarito come non sia necessario che sia impedito in modo definitivo la possibilità di accertare la provenienza delittuosa dell’oggetto di riciclaggio, potendo essere sufficiente la mera difficoltà nell’accertamento. (Sez. 5, n. 21295 del 17/04/2018, Ratto, Rv. 273183; Sez. 2, n. 43881 del 09/10/2014, Matarrese, Rv. 260694 e Sez. 2, n. 3397 del 16/11/2012, Anemone, Rv. 254314).

2. Le condotte di riciclaggio: il trasferimento delle somme di denaro nelle sue diverse forme.

Quanto alle condotte di riciclaggio la Corte ha dovuto affrontare costantemente, dall’introduzione dell’ultima formulazione dell’art. 648-bis cod. pen., il tema dell’occultamento della provenienza illecita del denaro nella disponibilità dei soggetti attivi del delitto nelle sue più diverse forme. In tal senso deve essere richiamata la recente decisione Sez. 5, n. 21925 del 17/04/2018, Ratto, Rv. 273183 che ha affermato il principio di diritto secondo il quale integra il delitto di riciclaggio il compimento di condotte volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a “rendere difficile” l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, e ciò anche attraverso operazioni che risultino tracciabili, in quanto l’accertamento o l’astratta individuabilità dell’origine delittuosa del bene non costituiscono l’evento del reato. La Corte affronta con una motivazione ampia e articolata il tema generale delle operazioni dissimulatorie in ordine alla provenienza illecita del bene, anche se di secondo o terzo livello, così come la tematica relativa alle differenze tra il reato di riciclaggio e ricettazione e tra riciclaggio e favoreggiamento personale.

Nel caso analizzato dalla Corte alcuni degli imputati risultavano condannati per il reato di bancarotta patrimoniale con riferimento al fallimento di una società casearia a gestione familiare. Nell’ambito della stessa decisione altri imputati venivano condannati per il reato di riciclaggio, perché senza concorrere nel reato di bancarotta, operavano in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza da delitto delle somme sottratte alla procedura concorsuale, loro pervenute mediante operazioni effettuate direttamente dai falliti o da soggetti che a loro volta avevano ricevuto delle somme di denaro da questi.

Il tema che si è di fatto proposto con i motivi di ricorso è legato alla possibilità di limitare o meno la condotta di riciclaggio esclusivamente alla prima operazione di pulitura del denaro o anche alle diverse e sequenziali condotte poste in essere da una serie di soggetti in contatto, per le più diverse ragioni, con gli autori del reato presupposto. Nel caso concreto, secondo le difese degli imputati la sequenzialità delle operazioni poste in essere, e il dato temporale di riferimento, portavano ad escludere la ricorrenza del riciclaggio, poiché il denaro proveniente dalla bancarotta risultava già movimentato in diverse occasioni da altra imputata, potendo essere riscontrata in capo ai diversi imputati esclusivamente la mera disponibilità della cosa proveniente da delitto, tra l’altro pienamente tracciabile nel suo percorso.

La motivazione della Corte chiarisce come le operazioni addebitate agli imputati abbiano avuto oggettiva rilevanza nell’ostacolare l’accertamento della provenienza delittuosa delle somme. In tal senso viene richiamata l’interpretazione costante della giurisprudenza di legittimità secondo la quale integra di per sé un autonomo atto di riciclaggio, e non un post factum non punibile, qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti, compreso il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro diversamente intestato e acceso presso un diverso istituto di credito, proprio in considerazione della natura di reato a forma libera del riciclaggio, attuabile anche con modalità frammentarie e progressive. Tale interpretazione si pone in continuità con altre decisioni della Corte, in senso del tutto conforme, e in particolare: – Sez. 3, n. 3414 del 29/10/2014, Giaccone, Rv. 263718, secondo la quale la consumazione del delitto di riciclaggio, che è un reato a forma libera attuabile anche con modalità frammentarie e progressive, può coincidere con il momento in cui i beni acquistati con capitali di provenienza illecita sono rivenduti dal reo; in questo caso la Corte ha ritenuto che, in relazione alla cessione di immobili acquistati con denaro di provenienza illecita, la successiva acquisizione di denaro “ripulito” non può qualificarsi come un mero “post-factum” non punibile; – Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013, Amato, Rv. 259487, che ha affermato che integra di per sé un autonomo atto di riciclaggio – essendo il delitto in parola, a forma libera e attuabile anche con modalità frammentarie e progressive – qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti, e dunque anche il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro diversamente intestato e acceso presso un diverso istituto di credito, sicché in applicazione del principio, la Corte ha escluso che i trasferimenti e gli investimenti posti in essere dall’imputata dopo un primo deposito bancario di fondi di provenienza illecita potessero essere inquadrati come “post factum” non punibile; – Sez. 2, n. 546 del 07/11/2011, Berruti, Rv. 249447, che ha richiamato i medesimi principi in ordine ai successivi spostamenti del denaro su conto corrente bancario, e ha affermato che il termine di prescrizione, trattandosi di reato continuato decorre dalla data di ogni singolo prelievo o spostamento delle somme di denaro riciclate (principio questo tuttavia contrastato da decisioni di segno difforme in epoca recente, come Sez. 2, n. 29869 del 23/06/2016, Re, Rv. 267856, che ha invece affermato che in tema di riciclaggio, ove più siano le condotte consumative del reato, attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento ad un medesimo oggetto, si configura un unico reato a formazione progressiva e consumazione prolungata, che viene a cessare con l’ultima delle operazioni poste in essere, con conseguente decorrenza del termine di prescrizione proprio da tale ultimo momento e non dalle singole attività realizzate).

La Corte afferma in modo chiaro che, poiché in tema di riciclaggio è penalmente rilevante qualsiasi condotta di manipolazione, trasformazione, trasferimento di denaro quando sia idonea ad ostacolare gli accertamenti sulla provenienza del denaro, “la circostanza che vi siano state operazioni dissimulatorie precedenti non elide la portata criminosa di quelle successive ispirate alla medesima finalità, parimenti idonee ad allontanare sempre più il bene dalla sua origine e a renderne difficoltoso l’accertamento”.

Da ciò consegue anche che, tenuto conto appunto della rilevanza penale di ogni contegno manipolatorio, deve essere considerata rilevante la portata dell’efficacia dissimulatoria dell’azione del soggetto agente rispetto all’origine delle somme anche nel caso in cui questa non sia “assoluta”.

La disciplina normativa prevede infatti un ostacolo all’identificazione, sicché si deve ritenere rilevante non solo un’impossibilità definitiva ad identificare i beni di provenienza delittuosa, ma anche tutto ciò che rende difficile l’accertamento della provenienza del denaro o delle altre utilità. Né si oppone alla configurazione del reato la circostanza della tracciabilità del denaro nelle sue diverse manipolazioni, poiché l’obiettivo illecito può essere realizzato “anche attraverso condotte che non escludono affatto l’accertamento o l’astratta individuabilità dell’origine del bene, dal momento che queste ultime evenienze non costituiscono l’evento del reato”.

La Corte conclude l’analisi delle doglianze dei ricorrenti chiarendo che si deve ritenere irrilevante, al fine della integrazione del reato, anche la mancata restituzione del denaro a chi lo aveva inizialmente movimentato, poiché tale restituzione non è considerata necessaria (in questo senso anche Sez. 2, n. 1857 del 16/11/2016, Ferrari, Rv. 269316). È stato ritenuto sufficiente allo scopo lo svuotamento del patrimonio aggredibile dalla curatela e il successivo deflusso del denaro in conto corrente di persona del tutto estranea alla compagine societaria.

La proliferazione di passaggi di somme provenienti dalla distrazione post fallimentare integra dunque una condotta di riciclaggio a prescindere dalla tracciabilità o meno delle stesse, integrando un reale ostacolo all’identificazione della provenienza illecita del denaro. Piena ricorrenza quindi anche dell’elemento soggettivo del reato, ovvero del dolo generico di trasformazione della cosa per impedirne l’identificazione (nello stesso senso Sez. 2, n. 30265 del 11/05/2017, Giamè, Rv. 270302).

L’impostazione seguita dalla Corte in tema di diverse e successive manipolazioni del denaro, anche mediante operazioni complesse, si incardina su un orientamento articolato e costante della giurisprudenza di legittimità, che aveva trovato un primo e approfondito precedente nella decisione della Sez. 2, n. 3397 del 16/11/2012, Anemone, Rv. 254314, secondo la quale integra il delitto di riciclaggio il compimento di operazioni volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a rendere difficile l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, attraverso un qualsiasi espediente che consista nell’aggirare la libera e normale esecuzione dell’attività posta in essere; ed infatti nel caso concreto la Corte ha ritenuto configurabili i gravi indizi del reato di riciclaggio in relazione ad una condotta consistita nella ricezione di somme di provenienza illecita su conti correnti personali e nella successiva effettuazione di operazioni bancarie comportanti ripetuti passaggi di denaro di importo corrispondente su conti di diverse società, oggettivamente finalizzate alla “schermatura” dell’origine delle disponibilità (nello stesso senso Sez. 2, n. 42881 del 09/10/2014, Matarrese, Rv. 260694 ove è stata ritenuta penalmente rilevante l’operazione di svuotamento della cassa di un gruppo societario e il successivo trasferimento di denaro ad un soggetto, attraverso assegni circolari e bonifici, con l’incarico di reimpiegare le somme per finanziare altra società, Sez. 3, n. 3414 del 29/10/2014, Giaccone, Rv. 263718; Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013, Amato, Rv. 259487; Sez. 2, n. 546 del 07/01/2011, Berruti, Rv. 249446).

Deve essere sottolineato che la soluzione prospettata dalla Corte considera rilevante esclusivamente la movimentazione dissimulatoria intesa in senso strettamente giuridico, con la conseguenza che non possono assumere rilevanza condotte di mera detenzione, a meno che non si abbia prova del pieno concorso del detentore alla condotta di alterazione o manipolazione (in tal senso, in caso diverso, anche Sez. 2, n. 1857 del 16/11/2016, Ferrari, Rv. 269316 che ha affermato che il delitto di riciclaggio si consuma con la realizzazione dell’effetto dissimulatorio conseguente alle condotte tipiche previste dall’art. 648-bis, primo comma, cod. pen. - sostituzione, trasferimento o altre operazioni volte ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa di denaro, beni o altre utilità – non essendo invece necessario che il compendio “ripulito” sia restituito a chi l’aveva movimentato; sicché il mero trasporto in altro luogo del bene riciclato esula dalla condotta tipica di trasferimento, non potendo essere compreso in tale ambito, in caso “clonazione” di autovettura, il successivo trasferimento fisico della stessa, che è stato considerato dalla Corte rilevante solo ai fini della prova del dolo del conducente).

Molteplici tuttavia le ipotesi, considerate dalla Corte in diverse decisioni, relative ad una movimentazione dissimulatoria in senso strettamente giuridico del denaro provento di attività illecita, così l’aver utilizzato carte di credito clonate o rubate o l’aver messo a disposizione la propria carta prepagata per ostacolare l’accertamento della provenienza delittuosa delle somme di denaro ricavate dall’utilizzo non consentito di una carta di credito clonata (Sez. 2, n. 47147 del 24/10/2013, Tumbarello, Rv. 257821, che ha affermato che in tema di riciclaggio di carte di credito rubate o clonate, l’indebita utilizzazione delle carte stesse non costituisce reato presupposto del riciclaggio, ma reato strumentale alla commissione del riciclaggio medesimo, considerato che l’agente aveva sostituito le carte di provenienza illecita con denaro simulatamente proveniente da operazioni commerciali fittizie attuate proprio mediante l’utilizzazione delle carte, sicché la Corte ha ritenuto configurabili, in concorso, i reati di cui all’art. 648-bis cod. pen. e quello di cui all’art. 55, comma 9, del d.lgs. n. 231 del 2007, ed anche Sez. 2, n. 18965 del 21/04/2016, Barrai, Rv. 266947). Sono state ritenute condotte rilevanti: – le operazioni di trasferimento di consistenti somme di denaro mediante versamento di assegni circolari su c/c riferibili ad una società oggettivamente inesistente, con trasferimento successivo a terzi e riconsegna al primo riciclatore sulla base di un rapporto fiduciario; – il già descritto svuotamento di casse societarie con coinvolgimento quali destinatari di soggetti del tutto estranei alla società o la girata di assegni la cui provvista sia originata da delitto e di ciò sia pienamente a conoscenza l’agente, a prescindere dalla tracciabilità dell’operazione (Sez. 2, n. 46319 del 21/09/2016, Cipolla, Rv. 268316); – il mero deposito in banca di denaro di provenienza illecita (Sez. 2, n. 52549 del 17/11/2017, Venuti, Rv. 271530, che ha affermato che integra il delitto di riciclaggio il compimento di operazioni consapevolmente volte ad impedire in modo definitivo, od anche a rendere difficile, l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità: tra di esse rientra la condotta di chi deposita in banca denaro di provenienza illecita poiché, stante la natura fungibile del bene, in tal modo esso viene automaticamente sostituito con denaro pulito, come nel caso di apertura da parte degli imputati di libretti di risparmio o conti correnti intestati a persone di fantasia o inconsapevoli, utilizzando documenti falsi di identità, per ivi depositare somme provento di truffa); – la disponibilità a ricevere sul proprio conto corrente somme provento di appropriazione indebita (Sez. 6, n. 26746 del 06/04/2011, De Pierro, Rv. 250427, relativa alla appropriazione indebita di quote di società rispetto a importi provento di evasione fiscale); – il trasferimento su c/c di somme provenienti da frodi informatiche realizzate mediante il sistema del phishing (Sez. 2, n. 10060 del 09/02/2017, Prili, non mass.); – il deposito e lo spostamento di fondi su c/c, con successivo prelievo di contanti o anche trasferimento di denaro da un conto ad una altro riferibile ad un terzo estraneo; – la sostituzione con denaro di documenti fiscali, nella specie fatture, provento del delitto di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000 (Sez. 2, n. 292452 del 17/05/2013, Marchi, Rv. 256468); – la monetizzazione da parte del terzo degli assegni ricevuti dall’autore del delitto presupposto (Sez. 2, n. 1924 del 18/12/2015, Roberti, non massimata, relativamente ad una serie di somme mutuate in violazione del disposto di cui all’art. 132 del d.lgs. n. 385 del 1993).

Sempre in tema di definizione e precisazione della portata della condotta di riciclaggio appare opportuno segnalare Sez. 2, n. 16819 del 22/03/2018, Mangino, Rv. 272793, che ha evidenziato come il delitto di favoreggiamento personale sia da ritenere una figura criminosa sussidiaria rispetto a quella del riciclaggio di denaro di cui all’art. 648-bis cod. pen., con la conseguenza che ove ricorra il riciclaggio deve essere esclusa la sussistenza del favoreggiamento reale. Nel caso concreto l’imputato aveva accreditato gli assegni provento di usura sul suo c/c in maniera tracciabile e la difesa aveva conseguentemente sostenuto l’assoluta buona fede dello stesso, e dunque l’assenza dell’elemento soggettivo da una parte e dall’altra la mancanza di qualsiasi contatto e rapporto con le persone offese del reato di usura. La Corte ha ritenuto la censura manifestamente infondata poiché era emerso, senza alcun dubbio, che l’imputato riceveva in consegna denaro e titoli provento di usura, li custodiva in un box di cui aveva la disponibilità ed in seguito li versava sui propri c/c per poi restituirli una volta “ripuliti” agli usurai, che lo ricompensavano di conseguenza. La Corte in punto di diritto ha precisato che la caratteristica del riciclaggio deve essere considerata la c.d. “ripulitura” del bene dalla sua provenienza illecita, a differenza della ricettazione, che si caratterizza per la mera ricezione del bene di provenienza illecita, senza alcuna modifica dello stesso. Nell’affrontare il caso concreto la Corte distingue la ripulitura del denaro sporco, che si realizza automaticamente con il deposito in banca dello stesso, dal riciclaggio compiuto mediante monetizzazione di un assegno di provenienza illecita, con operazioni tali da ostacolare l’accertamento della loro provenienza delittuosa. (Sez. 2, n. 19504 del 17/02/2012, Piccirillo, Rv. 252814; Sez. 2, n. 1924 del 18/12/2015, Roberti, Rv. 265988, Sez. 2, 47319 del 21/09/2016, Cipolla, 268316). Questa seconda ipotesi di riciclaggio, realizzato mediante la monetizzazione di assegni provenienza illecita, è esattamente quella accertata ed emergente nel caso concreto affrontato dalla Corte, mediante il compimento di tre diverse azioni, ovvero: – ricezione degli assegni provento di usura; – versamento di tali assegni sul proprio conto corente; – monetizzazione degli assegni con conseguente disponibilità del denaro a favore degli autori del reato, con consegna di denaro pulito, non riconducibile agli assegni rilasciati in loro favore dalle vittime del reato di usura. Tale condotta non può essere ritenuta un caso di favoreggiamento reale, considerata la natura sussidiaria della fattispecie rispetto al riciclaggio (Sez. 2, n. 43295 del 24/11/2010, Lombardo, Rv. 248949). Il tema del rapporto tra i due reati e della prevalenza del riciclaggio risulta affrontato anche dalla Sez. 2, n. 21925 del 17/04/2018, Ratto, Rv. 273183, che in motivazione ha chiarito come la differenza tra riciclaggio e favoreggiamento va rinvenuta nel profilo soggettivo, che nel reato ex art. 379 cod. pen. vede il soggetto animato dall’esclusiva volontà di favorire colui che deve conseguire l’utilità, mentre il riciclatore compie l’operazione nella consapevolezza che essa ostacolerà/impedirà l’accertamento della provenienza delittuosa del bene e agisce a prescindere dalla volontà di favorire alcuno. Questa valutazione da parte del giudice dovrà sempre e comunque essere guidata dalla considerazione della clausola di sussidiarietà tra i due delitti, nel caso in cui appunto siano riscontrabili chiari indici della consapevolezza del soggetto agente circa la provenienza illecita dei beni e circa la capacità dissimulatoria di qualsiasi ulteriore trasferimento delle somme di denaro.

La rilevanza di tale atteggiamento psicologico, e della consapevolezza della provenienza illecita del bene, in aggiunta ad attività oggettivamente idonee ad ostacolare l’accertamento circa l’origine del bene emerge in due ulteriori decisioni recenti. Sez. 2, n. 46754 del 26/09/2018, D., che ha affermato che integra il delitto di riciclaggio la condotta di chi, dopo avere ricevuto beni di provenienza delittuosa (nella specie pannelli fotovoltaici), occulti gli stessi all’interno di un camion e imbarchi l’automezzo su una motonave diretta all’estero. La Corte ha precisato come tale condotta rappresenti non la tipica condotta di sostituzione o trasformazione, ma il caso in cui il soggetto agente ponga in essere “ogni altra operazione” diretta ad ostacolare l’identificazione anche senza incidere direttamente, mediante alterazione dei dati esteriori, sulla cosa in quanto tale. Proprio le modalità della condotta posta in essere sono dunque sintomatiche della piena consapevolezza circa la provenienza del bene, della volontà di sottrarlo a qualsiasi accertamento da parte degli organi deputati alle attività investigative, e dunque integrano del tutto i caratteri del riciclaggio e non della ricettazione come sostenuto dalle difese. Un’ulteriore operazione diretta ad ostacolare l’identificazione della provenienza del bene è stata identificata, in continuità con altre decisioni della Corte, nella condotta di chi, ricevuto un ciclomotore o altro veicolo di provenienza delittuosa, per il quale è necessaria ai fini della circolazione la dotazione della targa ex art. 97 del d.lgs. n. 285 del 1992, vi apponga una targa di sua proprietà facendo apparire legittima la disponibilità del mezzo. (Sez. 2, n. 39702 del 17/05/2018, Gallo, Rv. 273899).

3. L’art. 12 quinquies del d.l. n. 306 del 1992 come autoriciclaggio improprio. Origine e caratteri della disciplina sull’autoriciclaggio.

La disciplina dell’autoriciclaggio trova la propria formalizzazione nel nostro ordinamento con l’art. 3, comma 3, della legge n. 186 del 2014. Prima di tale intervento normativo si era a lungo discusso in ordine al c.d. privilegio di autoriciclaggio, ovvero circa la sostanziale impunità dell’autore del delitto presupposto nel caso in cui sia proprio tale soggetto a reimpiegare, sostituire o trasferire il denaro i beni o le altre utilità provenienti dal delitto dallo stesso commesso. Sebbene sulla base delle convenzioni internazionali (Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, e Convenzione sul riciclaggio, ricerca, sequestro e confisca proventi di reato e sul finanziamento al terrorismo, fatta a Varsavia il 16 maggio 2005) non ricorresse alcun obbligo diretto quanto all’introduzione di questo delitto, tuttavia molte erano le sollecitazioni emergenti a causa di un’evidente lacuna normativa che di fatto indeboliva sia la legislazione anticorruzione, lasciando sostanzialmente impunite una serie di condotte assai incidenti sull’ordine economico nel garantire un’effettiva libertà di concorrenza ( in tal senso il Rapporto sull’Italia del 2011 dell’OCSE e il FMI sempre nel rapporto sull’Italia in epoca precedente, anno 2006). La necessità di un argine da porre all’afflusso di capitali «sporchi » nell’ambito dell’economia legale era dunque fortemente sentita sia a livello internazionale che interno, soprattutto in considerazione della portata endemica del fenomeno corruttivo nel nostro paese, oltre che della diffusività delle associazioni a delinquere di stampo mafioso con le loro più svariate articolazioni, anche economiche.

E d’altra parte la rilevanza per il legislatore italiano delle condotte di reimpiego, sostituzione o trasferimento del denaro realizzate dall’autore del reato presupposto era già emersa nella previsione dell’art. 12 quinquies del d.l. n. 306 del 1992, definito come «autoriciclaggio improprio». Un chiarimento univoco in tale senso emerge dalla decisione delle Sez. U, n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, Rv. 259950, secondo la quale è configurabile il reato di cui all’art. 12 quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in legge 7 agosto 1992, n. 356 in capo all’autore del delitto presupposto, il quale attribuisca fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità di denaro, beni o altre utilità, di cui rimanga effettivamente “dominus”, al fine di agevolare una successiva circolazione nel tessuto finanziario, economico e produttivo, poichè la disposizione di cui all’art. 12 quinquies citato consente di perseguire anche i fatti di “auto” ricettazione, riciclaggio o reimpiego. La giurisprudenza aveva infatti già affermato che la previsione aveva la finalità di sanzionare, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, tutte quelle condotte che realizzano di fatto una situazione di apparenza, nelle modalità più disparate, con la separazione tra colui o coloro che hanno la titolarità effettiva del denaro o di altre utilità e coloro che, in base ad una fittizia attribuzione, ne risultano formalmente titolari o disponenti. (Sez. 6, n. 15140 del 12/04/2012, Magiaracina, Rv. 252610, Sez. 2, n. 39756 del 05/10/2011, Ciancimino, Rv. 251193). Vengono dunque ricomprese nell’ambito di operatività di questa previsione tutte quelle situazioni che determinano un rapporto di signoria e padronanza sul bene da parte dell’autore del reato presupposto, nonostante l’apparente trasferimento ad altri soggetti, al fine ovviamente di eludere le disposizioni in materia di prevenzione a carattere patrimoniale o nell’agevolare la commissione dei reati di cui agli art. 648, 648 –-bis o ter cod. pen.

Il trasferimento fraudolento è stato disciplinato quale reato a forma libera, con l’effetto evidente di limitare l’autonomia privata delle parti nella realizzazione di negozi giuridici altrimenti leciti per arginare scopi illeciti. Tale previsione non contiene alcuna clausola di esclusione della responsabilità per l’autore dei reati presupposto che hanno prodotto proventi illeciti, disciplinando dunque ben prima della legge del 2014 un’ipotesi tipica di autoriciclaggio, considerata la diretta partecipazione dell’autore del reato al trasferimento fraudolento di valori. In senso sostanzialmente analogo, e dunque all’evidente fine di arginare fenomeni di autoriciclaggio, è sempre stata letta anche la previsione di cui all’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 74 del 2000, che punisce l’attività di simulata alienazione di beni o la realizzazione di altri atti fraudolenti allo scopo di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi.

È in questo contesto che viene dunque introdotta la previsione dell’art. 648-ter 1 cod. pen. che richiama nella sua formulazione la medesima terminologia della disciplina in tema di riciclaggio e reimpiego, prevedendo la sanzione penale per chi, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione del delitto presupposto, in modo da ostacolarne concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa.

Anche per l’autoriciclaggio si è riproposta la riflessione in tema di bene giuridico tutelato, che aveva caratterizzato anche il riciclaggio, ed anche in questo caso si tende a ritenere la ricorrenza di plurioffensività della condotta, sia per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia, che per quanto concerne la tutela dell’ordine economico e del risparmio. In sostanza tuttavia ciò che sembra caratterizzare in modo più incisivo questa previsione è la volontà del legislatore di garantire il rapporto fiducia quanto al sistema economico e di risparmio complessivamente considerato. La formulazione chiarisce proprio per i termini utilizzati come tale delitto si configuri come di pericolo in concreto, tanto che l’attività deve risultare idonea “concretamente” ad ostacolare l’identificazione della provenienza illecita di beni, il cui confluire nell’ambito del complessivo ordine economico rappresenta una forma oggettiva di alterazione del mercato e della libera concorrenza. Il reato di caratterizza quale reato “proprio”, considerata l’identificazione del soggetto attivo con colui che ha commesso o concorso a commettere un delitto non colposo. Tale connotazione ha aperto ampi scenari di riflessione in ordine alla tematica della disciplina applicabile al concorrente esterno nella condotta di autoriciclaggio.

Il reato presupposto si deve necessariamente riferire a condotte che possano effettivamente produrre un provento da ripulire, sicché la previsione generalizzata dei reati presupposto può essere in tal senso letta restrittivamente. Le caratteristiche della condotta di autoriciclaggio hanno provocato una serie di riflessioni articolate e complesse in ordine all’eventuale ricorrenza di un-bis in idem nei confronti del soggetto autore del reato presupposto, con conseguente violazione del principio di tassatività e certezza del diritto penale. Quanto alla condotta occorre considerare come ricorra un ampliamento rispetto al riciclaggio, essendo stata aggiunta come attività rilevante anche quella imprenditoriale e speculativa. L’interpretazione maggioritaria circa la portata di tali attività tende a circoscriverne la portata nel senso di riferire l’attività speculativa, volta a realizzare il maggior guadagno possibile dall’impiego del provento del reato presupposto, in un’attività ad alto rischio, ma pur sempre afferente ad attività commerciali o finanziarie. L’ostacolo concreto che deve essere realizzato al fine di poter impedire la ricostruzione della provenienza illecita del bene può caratterizzarsi, a seconda delle opzioni interpretative, in modo più o meno ampio, quale mero allontanamento della somma provento di reato dal patrimonio originario, oppure con una caratterizzazione della condotta in senso più attiva ed incisiva, mediante più articolate attività di occultamento, anche contabile, o con schermature societarie. L’ostacolo all’identificazione dovrebbe essere considerato come un requisito caratteristico della condotta e non come evento del reato, per cui sembra possibile poter ipotizzare per l’autoriciclaggio la non necessità di un effetto dissimulatorio della condotta. Il delitto dunque, per come configurato, presenta due limiti che ne definiscono portata e ambito: da una parte l’effettivo ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa, dall’altra la previsione d’irrilevanza penale della condotta, ai sensi del quarto comma dell’art. 648-ter. 1 cod. pen. nel caso in cui i beni provento del reato presupposto siano determinati al godimento personale. Anche quanto all’elemento soggettivo l’autoriciclaggio si presenta coerente con la previsione in tema di riciclaggio, essendo richiesto il dolo generico, che appunto si caratterizza quale consapevolezza circa la realizzazione del delitto non colposo presupposto e la volontà di impiegarne i proventi nella attività economiche, speculative e imprenditoriali al fine di ostacolarne l’identificazione.

Il tema dunque dell’autoriciclaggio si presenta ricco di implicazioni interpretative ed esegetiche e diversi sono i profili problematici emersi, ad esempio in tema di applicabilità della fattispecie anche rispetto a condotte che hanno prodotto proventi in epoca precedente alla entrata in vigore della relativa disciplina, o con riferimento alla responsabilità degli enti (ex art. 25-octies d.lgs. n. 231 del 2001). In questi casi è emersa la tendenza interpretativa a considerare come mero presupposto fattuale la commissione del reato presupposto in epoca precedente all’introduzione della disciplina in tema di autoriciclaggio, quando la vera e propria condotta di riciclaggio sia però effettivamente posta in essere a seguito dell’entrata in vigore della previsione dell’art. 648-ter.1 cod. pen.

4. Il concorso dell’extraneus nell’autoriciclaggio, le innovative prospettive interpretative della Corte.

Il tema del concorso dell’extra neus nell’autoriciclaggio è stato affrontato dalla Sez. 2, n. 17235 del 10/01/2018, Tucci, Rv. 272652, secondo la quale in tema di autoriciclaggio, il soggetto che non avendo concorso nel delitto presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell’autore del reato presupposto a delle condotte indicate dall’art. 648-ter.1 cod. pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo questo configurabile solo nei confronti dell’intraneus.

La decisione affronta per la prima volta il tema del concorso dell’extraneus e nel fornire la soluzione richiamata ripercorre i diversi orientamenti interpretativi, anche della dottrina, quanto alle manifestazioni plurisoggettive del reato di riciclaggio. Il caso concreto oggetto di giudizio presentava una complessa articolazione, considerato che l’imputata aveva poste in essere plurime operazioni commerciali, finanziarie e societarie mediante le quali faceva rientrare in Italia una notevole quantità di somme di denaro, provento di appropriazione indebita nell’ambito di note vicende giudiziarie che riguardavano la c.d. “provvista Bonifaci”. Le ingenti somme di denaro detenute all’estero venivano fatte rientrare in Italia per il tramite del meccanismo dello scudo fiscale, per acquistare una società (che possedeva anche la proprietà di quattro appartamenti in Via Trionfale a Roma), le cui quote venivano successivamente cedute ad una società belga, per essere poi riacquistate sempre dall’imputata tramite mandato fiduciario ad un trust, e quindi essere riconsegnate, per il loro valore, al coimputato che finalizzava la nuova disponibilità del denaro ormai “pulito” nell’acquisto degli appartamenti di via Trionfale per un valore di circa due miliardi di lire. L’insieme delle attività di accertamento espletate, e l’esito del dibattimento, dimostravano come l’imputata fosse ispiratrice e artefice di tutte le diverse operazioni di schermatura relative al denaro provento di appropriazione indebita, tanto che veniva riscontrata la presenza di un medesimo domicilio a Roma tra la società di servizi gestita dall’imputata e le società intermediarie estere. Dunque, l’attività posta in essere dall’imputata supportava la complessiva attività posta in essere dal coimputato al fine di porre in essere un reimpiego in attività a carattere chiaramente speculativo delle somme di denaro illegittimamente detenute da quest’ultimo, e ripulite dalla imputata, poi consegnate al coimputato in chiaro accordo con lo stesso. La piena vicinanza tra i due soggetti imputati, la correlazione delle attività dagli stessi posti in essere risultava pienamente supportata dalle risultanze dibattimentale acquisite in giudizio.

La difesa dell’imputata contestava l’esito del giudizio in primo e secondo grado e riteneva che la stessa dovesse essere eventualmente condannata per l’ipotesi più lieve di concorso in autoriciclaggio, e non per il delitto di riciclaggio come invece deciso dalla corte di appello.

Il caso concreto analizzato dalla Corte si caratterizza dunque per l’affidamento da parte dell’autore del reato presupposto dei proventi dell’attività dallo stesso posta in essere ad un terzo per l’ulteriore attività di impiego. La Corte nella propria decisione ha escluso che la questione potesse essere rimessa alle Sezioni Unite, in mancanza di qualsiasi contrasto sul punto, ma evidenziando invece la ricorrenza di una questione interpretativa caratterizzata da novità, relativa appunto alla qualificazione giuridica della condotta posta in essere dal soggetto extraneus, che abbia fornito un contributo concorsuale rilevante alla condotta di autoriciclaggio posta in essere dal soggetto intraneus.

La motivazione della Corte richiama i diversi orientamenti interpretativi della dottrina sul punto e chiarisce come la maggior parte delle interpretazioni proposte, sia pure con giustificazioni dogmatiche diverse, abbia sostenuto che l’extraneus che concorre con l’autoriciclatore risponde non di concorso nell’autoriciclaggio, ma bensì di riciclaggio.

Come detto le giustificazioni dogmatiche sono state diverse e vengono richiamate nella loro portata dalla decisione. Per un primo orientamento l’insieme costituito dalle condotte tipizzate dall’art. 648-ter.1 cod. pen. “si iscrive completamente in quello disegnato dal combinato disposto delle due disposizioni finitime (648-bis e ter cod. pen.)” e l’elemento specializzante non attiene alle condotte quanto piuttosto alla qualificazione soggettiva dell’autore del reato, con la conseguenza che gli insiemi in discorso si trovano in una relazione di “alternatività reciproca”, con comprensione della disciplina dell’art. 648-ter.1 nell’insieme più ampio determinato dall’art. 648-bis e ter cod. pen.; da tale impostazione consegue che colui che non avendo concorso alla commissione del reato presupposto fornisce un contributo causale all’autoriciclatore non realizzerà una fattispecie di concorso ex art. 117 cod. pen., ma la vera e propria condotta di riciclaggio sussistendone i presupposti.

Per un secondo orientamento invece nel caso di autoriciclaggio si sarebbe in presenza di c.d. “reato di mano propria”, dove l’individuazione di un soggetto qualificato al fine della commissione del delitto rappresenta un “vettore insostituibile di tipicità” e componente decisiva in relazione al disvalore del fatto, con la conseguenza che la messa a disposizione del provento nelle mani del terzo, perché la reimpieghi, sarà destinata a rimanere penalmente irrilevante, perché sarà solo il terzo estraneo a realizzare compiutamente e materialmente l’illecito del quale risponderà a titolo di riciclaggio o reimpiego. Manca in sostanza, secondo tale prospettazione, una condotta tipica del soggetto imputato di autoriciclaggio, la personale esecuzione da parte dell’intraneus, che appunto rappresenta condizione essenziale per la consumazione dell’offesa al bene giuridico tutelato.

Un terzo orientamento, da ritenere minoritario, afferma invece la natura di “reato proprio” dell’autoriciclaggio, sicchè appare ammissibile il concorso nel reato di autoriciclaggio ai sensi dell’art. 110 o 117 cod. pen. a seconda che il terzo extraneus abbia o meno consapevolezza della qualifica posseduta dall’intraneus.

La decisione nel risolvere la questione sottoposta a giudizio afferma che la premessa dalla quale l’interprete deve necessariamente partire è la ratio dal quale scaturisce la nuova disciplina, da identificare nella volontà del legislatore di colmare la lacuna derivante dalla sostanziale pregressa irrilevanza delle condotte di autoriciclaggio. Ne consegue l’impossibilità di applicare un regime sanzionatorio più favorevole per chi commetta comunque una condotta riciclatoria, pur se in concorso con l’intraneus imputato del reato di autoriciclaggio, così come la necessaria rilevanza da attribuire a comportamenti dell’intraneus (come la messa disposizione del provento del reato presupposto nelle mani del terzo perché lo reimpieghi) che non integrino tuttavia la “condotta tipica di riciclaggio”, non potendosi dunque ritenere l’autoriciclaggio un reato di mano propria.

Le due fattispecie di riciclaggio ed autoriciclaggio devono dunque essere considerate in una relazione di eterogeneità tra loro, poiché l’autoriciclaggio si caratterizza per la presenza di un elemento di specialità per aggiunta, poiché, come osservato da parte della dottrina “il reimpiego del provento non è un tratto costitutivo del riciclaggio, per la cui punizione è sufficiente la ripulitura”. Eterogeneità che deve essere riscontrata anche in relazione all’autore del reato, con carattere addirittura di contrapposizione; infatti il soggetto attivo dell’autoriciclaggio è autore del delitto presupposto, mentre non può essere autore del reato di riciclaggio con impossibilità di riscontrare una relazione di specialità tra le due norme (proprio per la clausola di esclusione che caratterizza la previsione dell’art. 648-bis cod. pen.).

È proprio richiamando la ratio dell’intervento normativo in tema di autoriciclaggio che il collegio ritiene che il soggetto che “non avendo concorso nel delitto presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica dell’autoriciclaggio, o comunque contribuisca alla realizzazione da parte dell’intraneus delle condotte tipizzate dall’art. 648 ter.1 cod. pen. continui a rispondere del reato di riciclaggio” ex art. 648--bis cod. pen., e non di concorso nel meno grave delitto di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen. 

Non ricorre una specialità tra le due ipotesi di reato in questione e dunque deve essere rilevata la diversificazione dei titoli di reato rispetto a condotte latu sensu concorrenti, ricorrendo una realizzazione plurisoggettiva di fattispecie definite a soggettività ristretta (in tal senso previsioni analoghe possono essere riscontrate in tema di evasione e procurata evasione, in tema d’infanticidio, interruzione volontaria di gravidanza).

Secondo la decisione della Corte appare condivisibile la prospettazione secondo la quale in schemi di previsioni a soggettività forte appare giustificabile la previsione di diverse risposte sanzionatorie, per attuare soluzioni che oggettivamente determinano delle differenze nelle posizioni concorsuali, e in questo senso deve essere intesa anche la previsione di una sanzione edittale meno grave per l’intraneus (al fine di mitigare il regime del cumulo materiale nei confronti dello stesso perché responsabile di due delitti non necessariamente in concorso ex art. 81 cod. pen.).

Se dunque in conclusione la ratio della nuova previsione è quella di giungere effettivamente alla mera punibilità dell’intraneus, non sussiste a parere della Corte alcuna ragione per la quale giungere ad una modifica della disciplina sul riciclaggio, sia quanto al titolo di reato, che quanto alla risposta sanzionatoria, perché sono oggettivamente rimaste immutate la dinamica e le caratteristiche di realizzazione delle attività riciclatorie. In conclusione dunque la prospettiva adottata dalla Corte ha chiarito che l’art. 648-ter. 1 punisce come reato “unicamente le condotte poste in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo presupposto, in precedenza non previste e punite come reato mentre le condotte concorsuali poste in essere da terzi extranei, per agevolare la condotta di autoriciclaggio posta in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il reato presupposto, titolare del bene di provenienza delittuosa ripulito, conservano rilevanza penale quale fatto di compartecipazione previsto e punito dall’art. 648-bis cod. pen.”

5. Il prodotto, il profitto e il prezzo del reato in tema di auto riciclaggio.

Anche il tema relativo al prodotto profitto o prezzo del reato di autoriciclaggio è stato argomento di riflessione recente da parte della Corte nella decisione della Sez. 2, n. 30401 del 07/06/2018, Ceoldo, Rv. 272970 che ha affermato che in tema di autoriciclaggio il prodotto, il profitto o il prezzo del reato non coincide con il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dal reato presupposto, consistendo invece nei proventi conseguiti dall’impiego di questi ultimi in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative. La decisione interviene su un caso particolare che ha ad oggetto un duplice sequestro preventivo. Il primo in funzione della confisca per equivalente ai sensi degli artt. 8 e 12 del d.lgs. n. 74 del 2000, il secondo in relazione alla confisca per equivalente ai sensi degli artt. 648-ter.1 e 648-quater cod. pen. In concreto le somme oggetto di sequestro trovavano la loro origine in una serie di movimentazioni su c/c bancari al fine di occultare la provenienza delle somme dal reato di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000 (emissione di fatture e altri documenti per operazioni inesistenti al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi). Di fatto il sequestro aveva interessato tutte le somme provenienti dalla commissione del reato tributario ex art. 8 citato. In particolare, il tribunale del riesame aveva modificato la decisione del giudice per le indagini preliminari quanto al sequestro preventivo per equivalente, rilevando che il sequestro potesse avere ad oggetto esclusivamente l’ammontare della somma evasa, e non anche l’importo delle somme esposte nelle false fatture; escludendo dunque la possibilità di un sequestro complessivo di imponibile oltre IVA. Ciò perché oggetto del sequestro poteva essere ritenuto esclusivamente il profitto, oltre che il prezzo, del reato da identificare, secondo orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, esclusivamente nell’ammontare dell’imposta evasa.

Quanto invece al sequestro relativo alle operazioni dissimulatorie volte a realizzare l’attività di autoriciclaggio da parte dell’indagato il tribunale del riesame ha rigettato le richieste delle difese e considerato legittimo il vincolo sull’insieme dei flussi finanziari transitati sui c/c perché corrispondenti ad operazioni oggettivamente inesistenti.

In sede di ricorso le difese hanno contestato la decisione del Tribunale del riesame sostenendo che, essendo stato già disposto un sequestro ex art. 12-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, si doveva ritenere illegittimo il secondo sequestro ex art. 648-ter 1-648-quater cod. pen. considerato che il provento autoriciclato corrispondeva esattamente al profitto del reato tributario presupposto, con realizzazione di un illegittimo-bis in idem. La Corte ha effettuato una ricostruzione completa ed analitica dei presupposti dei diversi istituti ed ha chiarito che cosa si debba intendere per prodotto, profitto o prezzo del reato di autoriciclaggio, chiarendo che il dato fattuale dal quale occorre partire è che il delitto di autoriciclaggio si alimenta con il provento del delitto presupposto e che di conseguenza non può coincidere con tale provento di cui l’agente ha di fatto già goduto.

Deve dunque essere qualcosa di diverso ed ulteriore rispetto al provento del reato presupposto, conseguito, tenendo conto della formulazione della norma, a seguito dell’impiego, sostituzione, trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative del denaro, dei beni o altreutilità provenienti dalla commissione del reato presupposto. Con la decisione in esame si è chiarito che tale conclusione è coerente: – con la ratio legis del delitto di autoriciclaggio il cui obiettivo è quello di sterilizzare il profitto conseguito con il reato presupposto impedendone l’immissione nel circuito di economia legale, con conseguente inquinamento del libero mercato; – con il principio secondo il quale è impossibile far coincidere il profitto del delitto presupposto con quello di autoriciclaggio, perché non vi sarebbe spazio alcuno per l’applicabilità dell’art. 648-quater cod. pen. se così fosse inteso; – con il costante principio di diritto secondo il quale in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, costituisce profitto del reato non solo il vantaggio costituito dall’incremento positivo della consistenza del patrimonio del reo, ma anche qualsiasi utilità o vantaggio suscettibile di valutazione patrimoniale o economica che determina un aumento della capacità di arricchimento, godimento e utilizzazione del patrimonio del soggetto agente. Ha quindi chiarito la Corte come il prodotto, il profitto o il prezzo del reato di autoriciclaggio, nel caso in cui il reato presupposto sia quello di emissione di fatture per operazioni inesistenti, non possa coincidere con l’ammontare dell’imposta evasa, ma invece con gli eventuali investimenti realizzati mediante l’utilizzazione di tale importo, poiché diversamente si procederebbe al sequestro in due diverse occasioni della stessa somma. Non può dunque essere ritenuta attività sufficiente allo scopo quella meramente dissimulatoria di gestione e movimentazione su c/c mediante diverse carte di credito, come riscontrato nel caso in esame. Tale valutazione si pone in continuità con altre decisioni della Corte, ed in particolare Sez. 2, n. 33074 del 14/07/2016, Babuleac ed altri, Rv. 267459, che ha affermato che non integra il delitto di autoriciclaggio il versamento del profitto di furto su c/c o su carta di credito prepagata, intestati allo stesso autore del reato presupposto, poiché tale attività, considerato il disposto dell’art. 2082 cod. civ. e dell’art. 106 del TU delle leggi in materia bancaria e creditizia non può essere considerata come attività “economica” o “finanziaria”, e non costituisce comunque una attività idonea ad occultare la provenienza delittuosa del denaro oggetto di profitto. La motivazione chiarisce come secondo la stessa dizione della disposizione civilistica può essere ritenuta attività economica soltanto quella finalizzata alla produzione di beni ovvero alla fornitura di servizi, né tanto meno possa essere intesa come attività “finanziaria”, nozione che implica una attività rientrante nella gestione del risparmio con specifica utilizzazione di strumenti adeguati alla realizzazione di tale scopo. In tal senso, mancando una definizione esplicita in sede penale dell’attività a finanziaria, un riferimento esegetico deve essere tratto dalla disposizione dell’art. 106 del TU delle leggi in materia bancaria e creditizia che individua come tipiche attività finanziarie l’assunzione di partecipazioni (acquisizione e cessione di titoli su capitale di imprese), la concessione di finanziamenti in qualsiasi forma, la prestazione di servizi a pagamento (incasso e trasferimento di fondi, esecuzioni di ordini di pagamento, emissione di carte di credito o debito), l’attività di cambiavalute.

6. Autoriciclaggio e concorso con il trasferimento fraudolento di valori.

A fini di completezza sul tema dell’autoriciclaggio, occorre citare anche la decisione della Sez. 2, n. 3935 del 12/01/2017, Di Monaco, Rv. 269078, secondo la quale il delitto di trasferimento fraudolento di valori, di cui all’art. 12-quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (convertito, con modificazioni, in l. 7 agosto 1992, n. 356), concorre con il delitto previsto dall’art. 648-ter 1 cod. pen., in quanto la condotta di autoriciclaggio non presuppone e non implica che l’autore di essa ponga in essere anche un trasferimento fittizio ad un terzo dei cespiti rivenienti dal reato presupposto. La Corte ha osservato che il coinvolgimento necessario di un soggetto “prestanome” impedisce di ricomprendere tale ulteriore condotta in quelle operazioni idonee ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni, indicate nel predetto art. 648-ter. 1 cod. pen. e riferibili al solo soggetto agente del reato di autoriciclaggio o a chi si muova per lui senza aver ricevuto autonoma investitura formale. In concreto due professionisti, nell’esercizio della loro professione di avvocati, incaricati di recuperare un credito assai consistente (circa 16 milioni di euro) da parte di una provincia religiosa nei confronti di una ASL, con la complicità di alcuni appartenenti alla congregazione religiosa e del direttore di un istituto bancario si erano in primo luogo appropriati indebitamente della maggior parte della somma, compiendo su un importo di circa otto milioni di euro diverse operazioni di intestazione fittizia ed in seguito polverizzandone l’importo con diverse operazioni bancarie. La Corte ha escluso la fondatezza dei motivi della difesa volti a contestare l’accertata ricorrenza dell’autoriciclaggio, posto in essere in concorso con l’intestazione fittizia, considerata la tracciabilità informatica delle operazioni poste in essere ed ha chiarito come le condotte poste in essere precedentemente all’introduzione della previsione dell’art. 648-ter. 1 cod. pen. sono da ritenere comunque punibili ai sensi dell’art. 12 quinquies, legge n. 356 del 1992, con conseguente punibilità anche dell’autore del reato presupposto che, come nel caso di specie attribuisca fittiziamente d altri la titolarità o disponibilità di beni, di cui rimanga effettivamente dominus, allo scopo di agevolarne una successiva circolazione nel tessuto finanziario, economico o produttivo.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 2, n. 43295 del 24/11/2010, Lombardo, Rv. 248949 Sez. 6, n. 26746 del 06/04/2011, De Pierro, Rv. 250427 Sez. 2, n. 39756 del 05/10/2011, Ciancimino e altri, Rv. 251193 Sez. 2, n. 546 del 07/11/2011, PG in proc. Berruti, Rv. 249447 Sez. 2, n. 19504 del 17/02/2012, Piccirillo, Rv. 252814 Sez. 6, n. 15140 del 12/04/2012, Magiaracina, Rv. 252610 Sez. 2, n. 3397 del 16/11/2012, Anemone, Rv. 254314 Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013, Amato, Rv. 259487 Sez. 2, n. 47147 del 24/10/2013, Pg contro Tumbarello, Rv. 257821 Sez. U, n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, Rv. 259950 Sez. 2, n. 43881 del 09/10/2014, Matarrese, Rv. 260694 Sez. 3, n. 3414 del 29/10/2014, Giaccone, Rv. 263718 Sez. 2, n. 1924 del 18/12/2015, Roberti Sez. 2, n. 29869 del 23/06/2016, Re e altri, Rv. 267856 Sez. 2, n. 18965 del 21/04/2016, Barrai, Rv. 266947 Sez. 2, n. 33074 del 14/07/2016, P.M. in procedimento Babuleac e altri, Rv. 267459 Sez. 2, n. 46319 del 21/09/2016, Cipolla, Rv. 268316 Sez. 2, n. 1857 del 16/11/2016, Ferrari, Rv. 269316 Sez. 2, n. 3935 del 12/01/2017, Di Monaco e altri, Rv. 269078 Sez. 2, n. 30265 del 11/05/2017, Giamè, Rv. 270302 Sez. 2, n. 52549 del 17/11/2017, Venuti, Rv. 271530 Sez. 2, n. 17235 del 10/01/2018, Tucci, Rv. 272652 Sez. 2, n. 16819 del 22/03/2018, Mangino e altri, Rv. 272793 Sez. 5, n. 21295 del 17/04/2018, Ratto, Rv. 273183 Sez. 2, n. 39702 del 17/05/2018, Gallo. Rv. 273899 Sez. 2, n. 30401 del 07/06/2018, Ceoldo, Rv. 272970 Sez. 2, n. 46754 del 26/09/2018, D.

  • confisca di beni
  • diritto penale

CAPITOLO II

CONFISCA AI SENSI DELL’ART. 12-SEXIES L. N. 356 DEL 1992 IN PRESENZA DI UN REATO TENTATO

(di Andrea Antonio Salemme )

Sommario

1 Introduzione. - 2 Il quadro normativo. - 3 Panoramica generale sui tre indirizzi presenti nella giurisprudenza di legittimità prima della sentenza delle Sezioni Unite. - 4 L’indirizzo maggioritario. - 5 L’indirizzo minoritario. - 6 L’indirizzo intermedio. - 7 La soluzione delle Sezioni Unite. - 8 Conclusioni. - Indice delle sentenze citate

1. Introduzione.

Sez. 2, n. 5378 del 09/01/2018, Di Maro, ritenendo «cristallizzato un contrasto, in merito alla compatibilità del sequestro preventivo finalizzato alla c.d. «confisca allargata” rispetto al delitto tentato, anche se aggravato dalla legge n. 203 del 1991, art. 7, che vede contrapposti due diversi criteri interpretativi[: i]l primo (sostenuto nelle decisioni della Quinta Sezione e, limitatamente al punto in questione, da una sentenza della Seconda Sezione penale) si fonda su un’interpretazione letterale dell’art. 12-sexies cit., mentre il secondo (proprio delle decisioni della Prima Sezione penale) è giustificato in forza di una diversa interpretazione letterale, teleologica e sistematica della citata disposizione», ha rimesso gli atti alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per dirimere il contrasto stesso.

Decidendo sulla questione controversa sintetizzata – in termini più ampi rispetto all’indicazione di contrasto effettuata dalla Sezione remittente – nei seguenti termini: «Se sia possibile disporre il sequestro preventivo finalizzato alla c.d. confisca allargata ex art. 12-sexies d.l. 8.6.1992, n. 306, conv. nella legge n. 356/92 e succ. mod., nel caso di violazione dei reati contemplati da tale norma, anche nella forma del tentativo aggravato dall’art. 7 legge n. 203/91», Sez. U, n. 40985 del 19/04/2018, Rv. 273752, Di Maro, hanno statuito che detto sequestro «può essere disposto per uno dei reati-presupposto anche nella forma del tentativo, purché aggravato dall’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203».

2. Il quadro normativo.

Devesi premettere che tutte le sentenze intervenute sul tema dell’applicabilità o meno della confisca allargata nel caso di condanna (cui è equiparata, per espressa estensione normativa, l’applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen.) per delitto tentato riguardano ipotesi di tentata estorsione: leggendo massime e motivazioni delle stesse, fondamentale appare la distinzione tra i casi in cui esuli e quelli in cui ricorra la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, la quale a sua volta è da sempre ritenuta «configurabile anche nel caso di delitto rimasto allo stadio del tentativo» (Sez. 1, n. 2109 del 12/05/1992, Rv. 191917, Caternicchia).

Storicamente, la ragione di ciò risale alla diversa formulazione del comma 1 e del comma 2 dell’art. 12-sexies cit. vigente prima dell’ondata novellistica più recente, inaugurata dalle radicali modifiche apportate dall’art. 31, comma 1, lettera a), della legge 17 ottobre 2017, n. 161: invero il comma 1 delimitava il proprio ambito applicativo facendo riferimento ai «casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per taluno dei delitti previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis […]. 629 […]», mentre il comma 2 statuiva che «le disposizioni del comma 1 si applicano anche nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo», con conseguente richiamo sostanziale, quindi, dell’aggravante ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991, nonché «a chi è stato condannato per un delitto in materia di contrabbando nei casi di cui all’art. 295, secondo comma, del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43».

L’accenno alla radice storica del profilo problematico che ne occupa è funzionale a ricordare come il quadro normativo sia più volte cambiato nel tempo, tanto che, anche dopo l’ordinanza di rimessione, si è ulteriormente modificato con l’attuazione della c.d. riserva di codice – stabilita dalla c.d. riforma Orlando (art. 1, commi 82 ss., legge 23 giugno 2017, n. 103) – giusta il decreto legislativo 1 marzo 2018, n. 21.

L’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992 è oggi trasfuso nell’art. 240-bis cod. pen., dedicato alla «confisca in casi particolari», così come il ‘vecchio’ art. 7 d.l. n. 152 del 1991 nell’art. 416-bis.1 cod. pen., segnatamente comma 1, dedicato alle «circostanze aggravanti e attenuanti per reati connessi ad attività mafiose». Di fatto i testi oggi vigenti sono quelli risultanti dalle interpolazioni operate nel codice penale dal d.l.gs. n. 21 del 2018, come comprovato dalla constatazione che, ai sensi dell’art. 7, lett. i) ed l) del medesimo, sono abrogati rispettivamente gli «articoli 7 e 8 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152», e l’«art. 12-sexies, commi 1, 2-ter, 4-bis, 4-quinquies, 4-sexies, 4-septies, 4-octies e 4-no[n]ies, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306». Conferma si ha altresì dall’art. 8, il cui comma 1 prevede che, «dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i richiami alle disposizioni abrogate dall’art. 7, ovunque presenti, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del codice penale come indicato dalla tabella A allegata al presente decreto».

Ai fini del tema che ne occupa, comunque, le novità sono formali, perché immutate sono le previsioni anzitutto dell’art. 416-bis.1, comma 1, cod. pen. rispetto all’art. 7 d.l.. n. 152 del 1991 ed altresì dell’art. 240-bis cod. pen. rispetto all’ultima versione (d.lgs. n. 21 del 2018) dell’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992 (risultante dalla legge 4 dicembre 2017, n. 172, recante conv. con mod. del decreto-legge 16 ottobre 2017, n. 148).

In rapporto all’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992, la ripartizione tra comma 1 e comma 2 cui si accennava alla fine del paragrafo precedente, è da tempo venuta meno, perché, a fronte dell’abrogazione espressa del comma 2, è stato riscritto il comma 1 alla stregua di una formula, rimasta successivamente invariata, che àncora l’applicabilità della confisca ai «casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta […], per taluno dei delitti previsti dall’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, [nonché] dagli articoli 314, 316, 316-bis […], 629 […]».

Pertanto, l’aggravante dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, prima ‘sostanzialmente’ evocata nel comma 2 dell’art. 12-sexies, non ha più ragion d’essere autonomamente, atteso che il rinvio mobile all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. già richiama i delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 medesimo. Rammentasi che l’art. 51, comma 3-bis, cod., proc. pen. contempla un previsione ‘tripartita’: «Quando si tratta dei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416[…], 473 e 474, 600, 601, 602, 416-bis, 416-ter, 452-quaterdecies e 630 del codice penale [prima parte], per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso art. [seconda], nonché per i delitti previsti dall’art. 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, dall’art. 291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43 [terza], le funzioni indicate nel comma 1 lettera a) sono attribuite all’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente».

Alla stregua di ciò, la ‘vecchia’ questione dei rapporti tra i commi 1 e 2 dell’art. 12-sexies si ripropone pari pari nell’art. 51, comma 3-bis, cod. pen., perché ai «procedimenti per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416 […]» della prima parte fanno seguito i «[procedimenti] per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo» della seconda parte.

Quel che è cambiato è in realtà il rapporto tra il ‘vecchissimo’ ed il ‘vecchio’ (in rapporto all’attuale art. 240-bis cod. pen.) comma 1 dell’art. 12-sexies: mentre il ‘vecchissimo’ comma 1 esordiva dicendo: «Nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta […] per taluno dei delitti previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis […], 629 […]», il vecchio esordiva (in ciò seguito dall’attuale art. 240-bis cod. pen.) dicendo: «Nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta […] per taluno dei delitti previsti dall’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, dagli articoli 314, 316, 316-bis […], 629 […]»; talché le versioni più recenti del comma 1 dell’art. 12-sexies contemplavano (e l’attuale art. 240-bis cod. pen. contempla) un riferimento solo indiretto ‘anche’ ai delitti tentati e solo a quelli «di cui agli articoli 416, sesto e settimo comma, 416 […]» (seconda parte dell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.).

Quanto alla tentata estorsione, essa non rientra di per se stessa, cioè come ipotesi tentata, nell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.: potrebbe rientrarvi solo in relazione alla seconda parte – come già nella vigenza del comma 2 dell’art. 12-sexies – in relazione ai «delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo», a condizione però che si ritenga di sussumere nei delitti di cui si tratta anche un delitto tentato aggravato.

Il problema evidenziato dall’ordinanza di rimessione, pur “ratione temporis” circoscritto, è dunque ancora attuale. Al riguardo, un intervento novellistico maggiormente oculato avrebbe forse consentito di chiudere ogni questione: se, infatti, l’estorsione fosse stata ricompresa nella prima parte dell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., nessuna questione sarebbe in realtà venuta ad esistenza neppure per il passato, perché, in tema di misure di sicurezza, viepiù patrimoniali, non vige il principio di irretroattività penale (cfr., da ultimo, Sez. 1, n. 44534 del 24/10/2012, Ascone, Rv. 254698).

3. Panoramica generale sui tre indirizzi presenti nella giurisprudenza di legittimità prima della sentenza delle Sezioni Unite.

Gli indirizzi che, nella giurisprudenza della S.C. si contendevano il campo in relazione all’oggetto del contrasto sollevato nell’ordinanza di rimessione sono tre e possono essere per brevità definiti come maggioritario, minoritario ed intermedio. L’orientamento maggioritario affermava che nessuna ipotesi di delitto tentato, non aggravata o anche aggravata ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, può fondare l’applicazione della confisca allargata; quello minoritario affermava, al contrario, che tutte le ipotesi di delitto tentato, a prescindere che non siano ovvero siano aggravate ai sensi dell’art. 7 cit., possono fondare l’applicazione della confisca allargata; quello intermedio affermava che un’ipotesi di delitto tentato, non aggravata ai sensi dell’art. 7 cit., non può fondare l’applicazione della confisca allargata, ma al contempo sosteneva che un’ipotesi di delitto tentato cui acceda l’aggravante speciale può dare ingresso all’ablazione.

4. L’indirizzo maggioritario.

L’indirizzo maggioritario nella giurisprudenza della S.C. sembrava propendere per l’inapplicabilità della confisca all’ipotesi di tentata estorsione, sia semplice che aggravata ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (ora art. 416-bis.1 cod. pen.).

La prima affermazione in tal senso risale a Sez. 2, n. 36001 del 23/09/2010, Fasano, Rv. 248164, che, chiamata a pronunciarsi relativamente ad un’ipotesi di estorsione semplice, affermava il principio secondo cui «non può essere disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca ai sensi dell’art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992 n. 306 […], in relazione al delitto di tentata estorsione, stante l’espressa previsione della sequestrabilità esclusivamente per il reato consumato e l’autonomia, rispetto ad esso, del tentativo che non consente estensioni “in malam partem”». In motivazione la Seconda Sezione si richiamava anzitutto alla necessità di prestare osservanza al principio di legalità, atteso che «il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12-sexies […], fa espresso riferimento, tra gli altri, al delitto di cui all’art. 629 c.p., con riferimento al solo reato consumato e non, invece, al delitto tentato, che non viene menzionato dal citato articolo», in guisa da ricavarne la conseguenza che «le ipotesi criminose che rimangono incluse nell’operatività dell’art. 12-sexies concernono i soli delitti consumati, dai quali necessariamente si distinguono, per la loro autonomia, le rispettive forme tentate». Del resto, il delitto tentato «costituisce, comunque, un’ipotesi più lieve rispetto al delitto consumato e [ciò] giustifica, sotto il profilo logico, la omessa menzione del tentativo nel corpo dell’art. 12-sexies».

Il presupposto della linea di pensiero della Seconda Sezione è che il delitto tentato rappresenta una «fattispecie criminosa autonoma, risultante dalla combinazione di una norma principale – la norma incriminatrice – e di una norma secondaria, prevista dall’art. 56 c.p., con la conseguenza che gli effetti sfavorevoli, previsti con specifico richiamo a determinate norme incriminatrici, debbono intendersi riferite alla sola ipotesi di reato consumato e non anche al tentativo in quanto le norme sfavorevoli devono ritenersi di stretta interpretazione, e non possono estendersi anche, salvo espressa previsione normativa, al delitto tentato». A sostegno delle conclusioni raggiunte, essa evoca tre indirizzi giurisprudenziali intesi parimenti a negare rilevanza al semplice tentativo rispetto a quelle disposizioni che, nell’enumerare i casi di esclusione di una causa di non punibilità ovvero di una causa di estinzione del reato o della pena o ancora nel disciplinare i casi di arresto facoltativo in flagranza, menzionano esclusivamente i delitti previsti da talune norme, senza espressamente richiamare le corrispondenti forme tentate: nel dettaglio, rileva l’affermazione per cui «l’esclusione della causa di non punibilità per l’estorsione prevista dall’art. 649 cod. pen., u.c., per fatti commessi a danno di congiunti [è] applicabile solamente al reato consumato e non al reato tentato, che costituisce figura criminosa autonoma a sé stante e dà luogo ad autonomo titolo di reato (in tal senso cfr. Sez. 2, n. 229 del 20/01/1984 . Infatti l’ultimo comma del citato art. 649 c.p. fa espresso riferimento agli artt. 628, 629 e 630 e ad ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persona e, in forza del principio del “favor rei”, non si ritiene ammissibile una interpretazione in “malam partem” […]»; rileva altresì l’affermazione per cui, «in tema di esclusioni oggettive dall’amnistia e dall’indulto e in tema di arresto in flagranza, che le relative norme operano solo nelle ipotesi di reato consumato, quando solo queste siano indicate. Allorché il legislatore ha voluto ricomprendere il tentativo lo ha espressamente previsto, come nel caso di cui all’art. 380 c.p.p., che consente l’arresto obbligatorio in flagranza per chi è colto in flagranza di un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce una determinata pena».

A seguito della sentenza Fasano, avente ad oggetto, come chiarito, un caso di tentata estorsione semplice, il principio della non applicabilità della confisca allargata in caso di condanna per delitto tentato è entrato bensì nel circuito delle massime, tuttavia con l’aggiunta finale secondo cui esso vale anche quando il delitto tentato è aggravato ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991.

La prima enunciazione di un simile principio ‘arricchito’ si deve alla massima di Sez. 5, n. 38988 del 16/01/2013, Musolino, Rv. 257568: «Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all’art. 12-sexies d.l. 8.06.1992, n. 306 […], non può essere disposto in relazione al reato di estorsione tentata, seppure aggravata ex art. 7 d.l. 13.05.1991, n. 152, convertito nella legge 12.07.1991, n. 203, stante la previsione espressa della sequestrabilità esclusivamente per il reato consumato». Talché la «previsione espressa della sequestrabilità [“recte”, della confiscabilità] esclusivamente per il reato [letteralmente, per il “delitto”] consumato» è idonea a dispiegare effetti per così dire ‘assoluti’, in quanto capace di superare la previsione altrettanto espressa della confiscabilità per tutti i delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991.

Le considerazioni testé esposte con riferimento alla sentenza Musolino valgono anche per Sez. 5, n. 2164 del 12/06/2013, Sannino, Rv. 258821, da cui consta tratta una massima in tutto sovrapponibile a quella “sub” Rv. 257568, con un’(ulteriore) aggiunta finale secondo cui all’ammissibilità della confisca allargata in caso di tentata estorsione ancorché aggravata ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 osta non solo «la previsione espressa della sequestrabilità [“recte”, confiscabilità] esclusivamente per il reato consumato», ma anche «l’inammissibilità della sua estensione “in malam partem”». Deve attendersi qualche tempo affinché Sez. 5, n. 26443 del 17/02/2015, Abbate, Rv. 263988– enunciata una massima ormai ricevuta – affronti “funditus” il tema delle ragioni per cui anche l’aggravante dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 non attrae all’area della confiscabilità il caso della tentata estorsione. In un’articolata motivazione – che rende ragione di un precedente contrario (ossia la sent. Guarnieri, di cui si dirà oltre) – la Quinta Sezione arricchisce i due poli della giustificazione ‘tradizionale’, poggiante l’uno sulla lettera della legge, che fa «riferimento esplicito ai delitti», e l’altro sull’«autonomia, rispetto ad essi, del tentativo, che non consente estensioni “in malam partem”», con una nutrita schiera di considerazioni (par. 140 ss.). In primo luogo, la confiscabilità in assenza di un’espressa previsione di legge violerebbe la «legittima aspettativa di ottenere il godimento effettivo di un diritto di proprietà», che trova fondamento sia nell’«ordinamento comunitario» (“recte”, sovranazionale), in seno al quale «l’art. 1, protocollo addizionale [alla Conv. EDU] n. 1 del 20/03/52, nello statuire che nessuno può essere privato delle sue proprietà se non “nelle condizioni previste dalla legge”, non fa altro che affermare in tale guisa “il principio generale del rispetto della proprietà”, sia nel tessuto costituzionale, in senso al quale, «con le limitazioni previste dall’art. 42 Cost. e ss. e nel rispetto “degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”, la Consulta ha definito la proprietà come un “diritto fondamentale”, avendo il proprietario, ai sensi dell’art. 832 c.c. , il “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”». In secondo luogo, il silenzio dell’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992 è di per sé significativo a fronte di altre disposizioni che, invece, hanno esplicitato l’estensione dei corrispondenti ambiti di operatività anche alle forme tentate (tra esse, oltre all’art. 380 cod. proc. pen., in tema di arresto obbligatorio in flagranza, vengono in linea di conto l’art. 8 cod. proc. pen., in tema di competenza per territorio, e l’art. 280 cod. proc. pen., in tema di custodia cautelare in carcere). Detto argomento fonda tra l’altro la decisione della Suprema corte (Sez. 6, n. 15631 del 20/04/2010, Costantinescu, Rv. 246748), volta ad escludere «la sussumibilità dell’omicidio tentato nelle fattispecie di consegna obbligatoria di cui alla legge 22 aprile 2005 n. 69, art. 8, non essendovi espressa previsione dei reati ivi enunciati anche nella forma del tentativo». In terzo luogo, deve salvaguardarsi la necessità di una «lettura combinata» del comma 1 e del comma 2 dell’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1002, «valorizzando il riferimento contenuto nel comma 1 ai soli delitti» in guisa da «pervenire ad una lettura omogenea del comma 1 e del comma 2 nella parte in cui, quest’ultima disposizione, fa rinvio ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p.»: donde «l’art. 12-sexies, al comma 2, nella parte in cui si riferisce ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare le associazioni ex art. 416-bis c.p., non [può] essere letto ed interpretato diversamente dal comma 1, ai fini di escludere la riferibilità ai delitti tentati e impedire un allargamento del catalogo dei reati che legittimano l’emissione della confisca».

In definitiva, la sentenza Abbate e altri ‘esplicita’ un tassello nell’ermeneusi ‘garantista’ dell’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992, incentrato sul parallelismo tra gli allora vigenti commi 1 e 2, sì da ricavarne che il secondo deve obbedire al medesimo criterio semantico, incentrato sui soli delitti, da intendersi come delitti consumati, che informa il primo.

La medesima massima che contraddistingue, con minime varianti lessicali, le sentenze Musolino, Sannino e altro e Abbate e altri è ripetuta in relazione all’ultima pronuncia che in ordine di tempo si è occupata dei rapporti tra confisca allargata e delitto tentato. Trattasi di Sez. 2, n. 47062 del 21/09/2017, Discetti, Rv. 271049, dalla quale per vero sono state estratte due massime: quella “sub” Rv. 271049, ripetitiva del principio per cui la confisca allargata non si applica nel caso di condanna per tentata estorsione anche aggravata, e quella “sub” Rv. 271048, preordinata a chiarire “a contrario” che detta confisca «può essere disposta a seguito di una condanna per uno dei delitti elencati dal comma 1 della norma, nonché, ai sensi del comma successivo, per il delitto di contrabbando di cui all’ art. 295, comma 2, d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, e per qualsiasi altro delitto, che pur non rientrando nel catalogo di cui all’art. 12-sexies, comma 1, sia però aggravato dall’ art. 7, d.l. 13 maggio 1991, n. 152». L’analisi della motivazione è di spiccato interesse, giacché la Corte era chiamata ad affrontare espressamente la quaestio dell’inclusione o meno della forma tentata di estorsione nella categoria dei delitti assoggettati comunque, in ragione del comma 2 dell’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992, alla confisca allargata siccome aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991. La Seconda Sezione rileva in premessa che non è condivisibile la tesi, propugnata dalla parte pubblica ricorrente, per cui il comma 2 si limiterebbe a ribadire che la confisca allargata deve essere disposta anche nei casi in cui i delitti contemplati nel comma 1 siano aggravati dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, dacché essa voterebbe all’inutilità lo stesso comma 2, prediligendo pertanto l’opzione interpretativa per cui «il rinvio al comma 1 deve intendersi solo alla seconda parte del comma 1 (e cioè quella che stabilisce che “è sempre disposta la confisca del denaro...”) […], in quanto il comma 2 prevede due ipotesi di ulteriore allargamento del catalogo dei reati per i quali dev’essere disposta la confisca: a) delitto espressamente previsto, ossia quello di contrabbando di cui al d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 295, comma 2; b) delitti aggravati dall’art. 7: ossia qualsiasi altro delitto che, pur non rientrante nel catalogo di cui all’art. 12-sexies, comma 1 (in esso dovendosi comprendere anche il d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 295, comma 2), sia aggravato dall’art. 7». Fatta tale puntualizzazione, la Seconda Sezione spiega perché al quesito se «il comma 2, nel rinviare “tout court” ad un “delitto commesso avvalendosi delle condizioni (...)”, ossia aggravato dall’art. 7 legge cit., comprenda anche il tentativo» debba darsi risposta negativa. Per costante giurisprudenza, «quando la legge indica il solo “delitto”, il medesimo deve intendersi come “delitto consumato” e ciò perché, essendo il tentativo un reato del tutto autonomo rispetto a quello consumato, gli effetti sfavorevoli previsti da una determinata norma, devono ritenersi di stretta interpretazione, e non possono estendersi anche, salvo espressa previsione normativa, al delitto tentato. Di conseguenza, se la suddetta interpretazione vale per l’art. 12-sexies, comma 1, non vi è alcuna ragione per cui non dovrebbe valere anche per il comma 2. A ciò aggiungasi che, proprio in relazione all’aggravante di cui all’art. 7 d.l. cit., il legislatore, quando lo ha voluto, ha distinto espressamente fra “delitti consumati o tentati” (art. 51 c.p.p., comma 3-bis): dal che è legittimo desumere che, essendo stato utilizzato il semplice “delitto” senza alcuna specificazione (come nel caso dell’art. 51 c.p.p., comma 3-bis), il medesimo lo si deve intendere come “delitto consumato”».

La sentenza Discetti non era la prima ad affrontare direttamente il dilemma dell’inclusione o meno della tentata confisca aggravata nel novero dei delitti legittimanti la confisca allargata. Poco più di un anno prima, infatti, si annoverano le tre pronunce gemelle Sez. 1, n. 37579 del 03/02/2016, De Vitis P.; Sez. 1, n. 37580 del 03/02/2016, De Vitis S. e Sez. 1, n. 37581 del 03/02/2016, non massimate, le quali tuttavia si sono limitate a richiamare le sentenze Musolino, Sannino e Abbate, senza confrontarsi con l’opposto avviso espresso dalla sentenza Guarnieri (pur evocata dal P.M. ricorrente) e senza soffermarsi sulla sussumibilità della tentata estorsione nella categoria dei delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 151 del 1992 di cui al comma 2 dell’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992.

Per tirare le somme rispetto all’indirizzo maggioritario, esso poggia sul rilievo che il termine “delitto”, ricorrente sia nel primo che nel secondo comma dell’art. 12-sexies cit., per il fatto stesso di non contenere l’aggiunta, presente in altri luoghi dell’ordinamento, inteso a qualificarlo indifferentemente come consumato o tentato, deve essere interpretato come delitto esclusivamente consumato.

5. L’indirizzo minoritario.

Un indirizzo minoritario, seguendo la linea del massimo rigore, enunciava il principio per cui anche la tentata estorsione e, quindi, più in generale, le forme tentate dei delitti-spia legittimano sempre la confisca allargata.

La più risalente manifestazione di tale orientamento, che si sviluppa in seno alla Prima Sezione, risale a Sez. 1, n. 22154 del 10/05/2005, Secchiano, Rv. 231665, la quale sostiene che, «ai fini dell’applicabilità della confisca prevista dall’art. 12-sexies del d.l. 8 giugno 1992 n. 306 […], per il caso di condanna o applicazione della pena su richiesta per taluno dei delitti (nella specie, estorsione) ivi indicati, il chiaro disposto normativo non autorizza alcuna distinzione tra delitto consumato e delitto tentato, in quanto non collega la confisca al provento o al profitto di quel reato, bensì ai beni di cui il condannato non può giustificare la provenienza, indipendentemente dalla loro fonte, che si presume derivante dalla complessiva attività illecita del soggetto». La massima è fedele pressoché alla lettera al testo della motivazione, dovendosi solo specificare che, in concreto, la fattispecie verteva su una confisca allargata conseguente ad un titolo di condanna per tentata estorsione continuata, a sua volta collegata ad un’ipotesi di usura dichiarata estinta per prescrizione.

Il “dictum” della sentenza Secchiano trovasi ribadito, più recentemente, con riferimento ancora una volta ad una confisca allargata disposta per tentata estorsione continuata, da Sez. 1, n. 27189 del 28/05/2013, Guarnieri, Rv. 255633, la cui massima – che parimenti riprende fedelmente il testo della motivazione – ricalca quella estratta dalla sentenza Secchiano.

Per vero, l’indirizzo in disamina non appartiene soltanto alla Prima Sezione, ma consta condiviso anche da tre altre pronunce: Sez. 2, n. 10455 del 12/11/2015, Pucci; Sez. 6, n. 32595 del 04/06/2015, Gullì; Sez. 2, n. 38537 del 30/09/2011, Maida.

Il “proprium” dell’indirizzo in disamina consiste in ciò che è lo stesso tenore letterale dell’allora vigente comma 1 dell’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992, nel richiamare “tout court” i delitti, a riferirsi tanto a quelli consumati quanto a quelli tentati. È curioso rilevare come, in tale ottica, la «mancanza di ulteriori precisazioni» – che per l’indirizzo maggioritario, esposto nel paragrafo precedente, costituisce indice della volontà del legislatore di riferirsi esclusivamente ai delitti consumati – sia ora al contrario funzionale a rimarcare la capacità del termine «delitti» a ‘contenere’ il riferimento anche al tentativo: all’evidenza l’implicito presupposto linguistico è che anche il tentativo di delitto è a sua volta un delitto. Sulla base di tali conclusioni letterali, sia la sentenza Secchiano che la sentenza Guarnieri chiosano quindi con una precisazione impingente sulla ‘dinamica’ della confisca allargata, nel senso che la compatibilità di quest’ultima con il tentativo riposa sulla peculiarità della stessa di non cadere sul provento o sul profitto del singolo reato, bensì sul complesso dei beni di cui il condannato non è in grado di giustificare la provenienza: pertanto la circostanza che il reato non sia portato a consumazione non costituisce un ostacolo, né giuridico né materiale, al vincolo.

6. L’indirizzo intermedio.

Si collocava a metà strada tra l’indirizzo maggioritario e quello minoritario un indirizzo per ciò definibile ‘intermedio’. Viene in linea di conto Sez. 1, n. 45172 del 12/02/2016, Ma-sullo M.R., che costituisce la capofila di un gruppo di altre tre sentenze deliberate alla medesima udienza da Collegi coincidenti in ordine ad un’unitaria fattispecie (Sez. 1, n. 45173 del 12/02/2016, Brito; Sez. 1, n. 45174 del 12/02/2016, Palladino; Sez. 1, n. 45175 del 12/02/2016, Masullo A.). Tali sentenze – che affermano la legittimità della confisca allargata in relazione soltanto alla tentata estorsione aggravata ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 151 del 1992 – assumono spiccato rilievo ai fini della presente trattazione, perché, sebbene in udienza il Procuratore Generale avesse paventato l’evenienza di una rimessione degli atti alle Sezioni Unite, la Prima Sezione ne ha escluso la necessità.

Il percorso motivazionale può essere suddiviso in due fasi.

Nella prima, dedicata alla tentata estorsione semplice, la Prima Sezione si pone nella scia dell’indirizzo maggioritario, rilevando che, «a parte l’isolato, dissonante precedente (la citata sentenza Guarnieri, Rv. 255633), l’orientamento interpretativo di questa Corte è assolutamente costante nell’escludere che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 12-sexies possa essere disposto quando il c.d. reato-spia o reato-sorgente sia costituito dal delitto di tentata estorsione. Invero nella sentenza Guarnieri la questione di diritto è stata solo incidentalmente affrontata (sussistendo – nel caso scrutinato – le condizioni necessarie e sufficienti a giustificare l’ablazione dei beni in base alla disciplina generale di cui all’art. 240 cod. pen.) ed è stata risolta nel senso che il riferimento, contenuto nell’art. 12-sexies, comma 1, al delitto di cui all’art. 629 cod. pen., in mancanza di ulteriori specificazioni, non autorizza alcuna distinzione tra reato consumato e reato tentato […]. Al contrario, secondo il maggioritario orientamento […] la confiscabilità (e prima ancora la sequestrabilità) dei beni ex art. 12-sexies deve intendersi limitata solamente al delitto consumato di estorsione e non anche al relativo delitto tentato, e tanto alla stregua del tenore testuale della norma che, non menzionando espressamente il tentativo, non è suscettibile di interpretazione estensiva […]».

La Prima Sezione, però, fa poi progredire l’analisi osservando che, ad ogni buon conto, l’interpretazione tradizionale, escludente il sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992 in relazione ad un’estorsione soltanto tentata, non rileva nel caso oggetto di giudizio, siccome concernente una tentata estorsione, sì, ma altresì aggravata ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 151 del 1992: «Soccorre […], nel caso che occupa, il tenore testuale dell’art. 12-sexies, comma 2 […], laddove il generico riferimento ai delitti, aggravati ex art. 7 (agevolazione o metodo mafioso), indipendentemente dallo specifico titolo di reato, è chiaramente comprensivo di ogni delitto in tal guisa aggravato, consumato o tentato che sia. Tale opzione ermeneutica non solo si mostra aderente al chiaro ed insuperabile dato testuale; coerente con la finalità dell’istituto, diretto a contrastare le forme di accumulazione patrimoniale illecita in presenza della commissione di un fatto-reato formalizzato come indice rivelatore di una particolare pericolosità soggettiva; ma anche in linea con la lezione interpretativa di questa Corte in tema di inapplicabilità dell’indulto elargito con legge 31 luglio 2006, n. 241, alle pene inflitte per “reati in relazione ai quali ricorre la circostanza aggravante dell’agevolazione o metodo mafioso”, formula che, al pari di quella di cui all’art. 12-sexies, comma 2, non contenendo specificazioni di norme incriminatrici e titoli, include […] fattispecie consumate e tentate (“ex multis”: Sez. 1 n. 41755 del 16/09/2014, Mobilia, Rv. 260525; Sez. 1, n. 35502 del 18/06/2014,-bisogni, Rv. 260286,)».

In conclusione, per l’indirizzo intermedio, mentre la tentata estorsione semplice non legittima la confisca allargata, perché, in aderenza alle prevalenti pronunce sul tema, il richiamo del comma 1 dell’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992 al delitto di cui all’art. 629 cod. pen. deve intendersi circoscritto alla sola forma consumata, sotto pena della violazione del principio di legalità, la tentata estorsione aggravata ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 151 del 1992, invece, la legittima, atteso che il comma 2 del medesimo art. 12-sexies contiene un riferimento soltanto «generico» ai delitti aggravati dall’art. 7 cit. In buona sostanza, è siffatta mancata specificazione del titolo del reato a fare la differenza nel comma 2 in rapporto al comma 1: presente nel comma 1, chiude la categoria dei delitti ai delitti tentati; assente nel comma 2, la apre anche ad essi. La qual cosa, peraltro, comporta una verticale differenza disciplinare tra i due commi, tuttavia giustificata al cospetto delle «finalità» della confisca allargata, siccome strumento di contrasto a «forme di accumulazione patrimoniale illecita in presenza della commissione di un fatto-reato formalizzato come indice rivelatore di una particolare pericolosità [notasi] soggettiva». È appena il caso di ricordare, però, come le finalità della confisca evocate dalla sentenza Masullo M.R. facciano il paio con la «funzione» della stessa che, nell’indirizzo minoritario, le sentenze Secchiano e Guarnieri adducono a parametro di compatibilità dell’estensibilità dell’ablazione anche al tentativo semplice (stante la rottura della pertinenzialità della “res ablata” rispetto al delitto che fa scattare il vincolo).

7. La soluzione delle Sezioni Unite.

La tesi fatta propria dalle Sezioni Unite a composizione del contrasto è dichiaratamente quella propugnata dall’indirizzo intermedio.

Il filo conduttore della pronuncia delle Sezioni Unite è rappresentato dalla premessa dogmatica – generalmente condivisa dalla manualistica – secondo cui il delitto tentato è un delitto autonomo dal corrispondente delitto consumato, che nasce dalla combinazione di una norma di parte generale, l’art. 56 cod. pen., con le norme incriminatrici di parte speciale: per effetto di tale combinazione, quindi, i delitti, previsti dalle norme incriminatrici di parte speciale letteralmente si duplicano in corrispondenti delitti tentati.

Alla stregua della superiore premessa deve essere letta l’affermazione secondo cui, «lungi dall’essere una soluzione estemporanea, la diversa interpretazione dell’indicazione nominativa di uno specifico delitto, come comprendente solo l’ipotesi consumata, rispetto a quella dell’indicazione generale di una categoria di delitti, come comprendente sia i delitti tentati che quelli consumati, è già stata adottata in precedenza e in diversi campi». In particolare, «l’analisi della giurisprudenza di legittimità formatasi sui provvedimenti di concessione di amnistia e indulto dimostra che la differenziazione operata rispetto all’indicazione specifica dei delitti esclusi dal provvedimento di clemenza e all’indicazione generica di categorie di reati era già comparsa in precedenza: se le Sezioni Unite avevano affermato il principio per cui le esclusioni oggettive in tema di amnistia ed indulto, previste per i reati elencati nei provvedimenti di clemenza, devono intendersi riferite alle sole ipotesi di reato consumato quando solo queste siano indicate, essendo vietata la estensione al tentativo che costituisce una figura criminosa autonoma a se stante, caratterizzata da una propria oggettività e da una propria struttura (Sez. U, n. 3 del 23/02/1980, Iovinella, Rv. 145074) una pronuncia successiva precisava che il principio riguardava «i reati indicati nei provvedimenti di clemenza, con specifico riferimento a determinati articoli di legge» (Sez. 1, n. 7389 del 12/06/1985, Rv. 170191); in precedenza, si era ritenuto che l’esclusione del condono previsto dall’art. 7 lettera c) d.P.R. 4 agosto 1978 n. 413 (che prevedeva: «l’indulto non si applica [...] per i delitti concernenti le armi da guerra o tipo guerra») si riferisse anche alle ipotesi di delitto tentato (Sez. 1, n. 7561 del 10/04/1981, Morucci, Rv. 149983), evidentemente perché i delitti non erano indicati specificamente» (par. 4.1, pp. 8 e 9).

Le Sezioni Unite – rammentato che l’’orientamento in esame è stato affermato anche per l’interpretazione dell’art. 649, ultimo comma, cod. pen., dell’art. 4-bis della legge 25 luglio 1975, n. 354, e dell’art. art. 303, comma 1, lett. a), n. 3, e lett. b), n. 3-bis, cod. proc. pen. – osservano che né l’indirizzo maggioritario né quello minoritario appaiono in linea con l’affermata autonomia del delitto tentato: non quest’ultimo, perché «la mancanza di indicazioni specifiche [nella lettera della legge] deve essere affrontata sulla base dei principi generali, in base ai quali “accanto” ad un delitto consumato è sempre ipotizzabile un corrispondente delitto tentato», senza che sia «sufficiente richiamare la finalità e l’oggetto della confisca “allargata”, sottolineando che la misura non colpisce il provento o il profitto del reato, bensì i beni di cui il condannato non può giustificare la provenienza, essendo i delitti menzionati spia di una complessiva attività illecita del condannato, valenza che può essere assunta da un delitto tentato al pari di uno consumato», non potendo l’interpretazione finalistica ribaltare quella letterale (par. 5.1, p. 13); ma neppure il primo, perché, «se il delitto tentato rappresenta “una fattispecie criminosa autonoma, risultante dalla combinazione di una norma principale – la norma incriminatrice – e di una norma secondaria, prevista dall’art. 56 cod. pen.», allora è corretto sostenere che il legislatore, quando menziona, ad esempio, il “delitto previsto dall’art. 314 cod. pen.” intenda riferirsi al solo delitto consumato, ma non è altrettanto corretto ritenere che, quando viene evocato “un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo» il riferimento non sia fatto anche ai delitti tentati» (par. 5.2, pp. 13 e 14).

L’indirizzo intermedio, invece, rispetta i principi di legalità e tassatività; di ragionevolezza, laddove «esclud[e] la possibilità della confisca per i delitti tentati per la loro minore gravità»; e di coerenza storica, in quanto «il riconoscimento della possibilità di disporre la confisca “allargata” anche nel caso di condanna per i delitti tentati aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. 152 del 1991 (ora art. 240-bis cod. pen.) recupera la funzione “originaria” dell’istituto, creato come “risposta” alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 12-quinquies, comma 2, d.l. 306 del 1992 e avente le medesime finalità: permettere, nei processi per reati di criminalità organizzata o a questi collegati, dinanzi ad una situazione di evidente sproporzione tra beni e reddito, di aggredire i patrimoni illecitamente costituiti. Insomma, i delitti così aggravati appartengono al “nucleo forte” e originario dei delitti-spia […]» (par. 6, rispettivamente pp. 14 e 15).

8. Conclusioni.

La soluzione delle Sezioni Unite si lascia apprezzare per un evidente equilibrio della soluzione proposta, che ambisce a rispettare il principio di legalità, applicato per escludere la condivisibilità dell’indirizzo minoritario, ma anche di quello maggioritario.

In chiave meramente speculativa, può qui domandarsi, soltanto, da un lato, se la cd. confisca allargata sia una misura propriamente penale e come tale soggetta, più che al principio di legalità, al principio di stretta legalità e, dall’altro, se sia vera in termini assoluti l’affermazione secondo cui il delitto tentato duplica la corrispondente figura di parte speciale, generando un’ulteriore figura autonoma e distinta da quest’ultima.

Tuttavia, entrambi tali temi richiederebbero elaborazioni di ben più ampia portata.

Ci si limita a rilevare che la più importante ricaduta pratica della sentenza delle Sezioni Unite che si è commentata dovrebbe registrarsi in tema di pene accessorie, con riferimento alle quali, per vero, la giurisprudenza non ha mai avuto esitazioni circa l’applicabilità delle stesse anche ai delitti tentati, pur a fronte di un richiamo della sola norma incriminatrice, sul duplice presupposto che l’autonomia del delitto tentato rispetto a quello consumato è solo tendenziale e che occorre di volta in volta verificare la “ratio” degli istituti “controversi” al fine di stabilire se per natura e disciplina siano compatibili o meno anche con il tentativo (Sez. 3, n. 52637 del 11/07/2017, Z, Rv. 271858; Sez. 6, n. 9204 del 17/01/2005, Mancini, Rv. 230765; Sez. 3, n. 2196 del 14/05/1996, Volpe, Rv. 206268; Sez. 6, n. 8148 del 26/03/1992, Pellegrini, Rv. 191402; Sez. 6, n. 97 del 28/01/1971, Gheis, Rv. 118331).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 6, n. 97 del 28/01/1971, Gheis, Rv. 118331 Sez. U, n. 3 del 23/02/1980, Iovinella, Rv. 145074 Sez. 1, n. 7561 del 10/04/1981, Morucci, Rv. 149983 Sez. 1, n. 7389 del 12/06/1985, Scassellati, Rv. 17019 Sez. 1, n. 2109 del 12/05/1992, Caternicchia, Rv. 191917 Sez. 6, n. 8148 del 26/03/1992, Pellegrini, Rv. 191402 Sez. 3, n. 2196 del 14/05/1996, Volpe, Rv. 206268 Sez. 1, n. 22154 del 10/05/2005, Secchiano, Rv. 231665 Sez. 6, n. 9204 del 17/01/2005, Mancini, Rv. 230765 Sez. 2, n. 36001 del 23/09/2010, Fasano, Rv. 248164 Sez. 6, n. 15631 del 20/04/2010, Costantinescu, Rv. 246748 Sez. 2, n. 38537 del 30/09/2011, Maida Sez. 1, n. 44534 del 24/10/2012, Ascone, Rv. 254698 Sez. 5, n. 2164 del 12/06/2013, Sannino, Rv. 258821 Sez. 1, n. 27189 del 28/05/2013, Guarnieri, Rv. 255633 Sez. 5, n. 38988 del 16/01/2013, Musolino, Rv. 257568 Sez. 1 n. 41755 del 16/09/2014, Mobilia, Rv. 260525 Sez. 1, n. 35502 del 18/06/2014,-bisogni, Rv. 260286 Sez. 5, n. 26443 del 17/02/2015, Abbate, Rv. 263988 Sez. 2, n. 10455 del 12/11/2015, Pucci Sez. 6, n. 32595 del 04/06/2015, Gullì Sez. 1, n. 45175 del 12/02/2016, Masullo A. Sez. 1, n. 45174 del 12/02/2016, Palladino Sez. 1, n. 45173 del 12/02/2016, Brito Sez. 1, n. 45172 del 12/02/2016, Masullo M.R. Sez. 1, n. 37581 del 03/02/2016, Castellaneta Sez. 1, n. 37580 del 03/02/2016, De Vitis S. Sez. 1, n. 37579 del 03/02/2016, De Vitis P. Sez. 2, n. 47062 del 21/09/2017, Discetti, Rv. 271049 Sez. 3, n. 52637 del 11/07/2017, Z., Rv. 271858 Sez. U, n. 40985 del 19/04/2018, Di Maro, Rv. 273752 Sez. 2, n. 5378 del 09/01/2018, Di Maro

  • confisca di beni
  • diritto penale

CAPITOLO III

QUESTIONI VARIE IN TEMA DI CONFISCA

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 Premessa. - 2 Confisca diretta del denaro “futuro”: la fattispecie esaminata. - 2.1 La soluzione recepita dalla Cassazione. - 3 Novità normative ed evoluzione dell’istituto della confisca. - 4 L’incidenza della giurisprudenza CEDU: la sentenza GIEM s.r.l. c. Italia. - 4.1 Compatibilità della confisca con l’art. 1 Prot. Add. CEDU. - 4.2 La confisca nei confronti dei terzi estranei al giudizio. - 5 La giurisprudenza della Cassazione sulla tutela del terzo. - 5.1 Prime pronunce della Cassazione a seguito della sentenza “GIEM”. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nel corso dell’anno oggetto della presente rassegna, la Cassazione ha avuto modo di occuparsi in più occasioni delle diverse forme di confisca previste dall’ordinamento, ribadendo essenzialmente gli orientamenti che si erano già affermati in precedenza anche per effetto delle plurime pronunce delle Sezioni unite che hanno ampiamente vagliato i profili relativi alla confisca, diretta e per equivalente, oltre che alla confisca di prevenzione.

Pur nella sostanziale continuità dell’elaborazione giurisprudenziale, vi sono alcune pronunce che meritano di essere segnalate, essenzialmente perché hanno avuto ad oggetto l’applicazione di principi giurisprudenziali consolidati a fattispecie peculiari ed in precedenza non portate all’attenzione della Suprema Corte.

Al contempo, è utile evidenziare come nel corso del 2018 vi siano state novità normative, con l’introduzione dell’art. 240-bis cod. pen. in tema di confisca allargata, nonché una rilevante pronuncia della Corte EDU -del 28/6/2018, GIEM s.r.l. c. Italia – sicuramente destinate a determinare immediate ricadute nella futura evoluzione della giurisprudenza di legittimità.

2. Confisca diretta del denaro “futuro”: la fattispecie esaminata.

Tra le principali pronunce in tema di confisca si segnala Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, PG in proc. Salvini, che si è occupata della peculiare ipotesi della confisca diretta di denaro eseguita nei confronti di un partito politico, nelle cui casse erano confluite ingenti somme (per oltre € 48.000.000) profitto del reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, posto in essere mediante artifici e raggiri volti a conseguire indebitamente rimborsi per spese elettorali, somme che, invece, venivano destinate a finalità personali di alcuni dei vertici del partito.

Nel giudizio di primo grado, veniva disposto il sequestro preventivo del profitto del reato, confluito nelle casse del partito, ma all’atto dell’esecuzione sui conti correnti risultava disponibile un importo notevolmente inferiore rispetto all’ammontare del sequestro.

A fronte della richiesta del pubblico ministero di estendere la confisca anche alle somme di denaro depositate sui conti correnti del partito dopo la data di notifica del sequestro preventivo, il giudice procedente riteneva di non accogliere l’istanza, sostenendo che ai fini della confisca diretta, anche quando il profitto è costituito da denaro, è comunque necessario stabilire un nesso di pertinenzialità tra i reati e le somme da apprendere e che tale nesso è interrotto dalla intervenuta esecuzione del sequestro.

Tale decisione veniva confermata dal Tribunale del riesame sulla base della duplice osservazione secondo cui, non potendo eseguire la confisca diretta, il pubblico ministero avrebbe dovuto richiedere la confisca per equivalente a carico degli imputati; inoltre, ove si fosse consentita la confisca diretta di somme non presenti sui conti del partito e frutto di future acquisizioni, si sarebbe determinata una «estensione del sequestro cautelare a tempo indeterminato».

Le conclusioni cui è giunto il Tribunale del riesame non venivano condivise dalla pubblica accusa secondo cui, invece, l’indisponibilità, anche temporanea, di denaro da sottoporre a confisca diretta consentirebbe al pubblico ministero di optare per il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, ma si tratterebbe di una mera facoltà e non già di una soluzione necessitata.

Per quanto attiene all’ulteriore profilo concernente la paventata estensione a tempo indeterminato del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta, si è dedotto che se nel caso di confisca avente ad oggetto il denaro non occorre dimostrare il nesso di pertinenzialità tra le somme da sottoporre a sequestro ed il reato, sicchè non potrebbe porsi un limite di carattere temporale all’esecuzione del sequestro, dovendosi esclusivamente rispettare il limite della concorrenza dell’importo complessivamente corrispondente al profitto o al prezzo del reato.

2.1. La soluzione recepita dalla Cassazione.

La fattispecie sottoposta all’esame della Corte, presenta un aspetto di obiettiva innovatività, vertendosi in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del denaro non ancora presente nel patrimonio dell’ente, ma destinato a confluirvi anche in epoca successiva alla data di adozione della misura cautelare.

Nell’affrontare la questione, la Corte ha preso le mosse dai principi elaborati dalle Sezioni unite in materia di confisca del denaro, ribadendo che ove il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258647; nonché Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437).

Proprio la natura fungibile del bene, che si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche del percipiente ed è tale da perdere – per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza – qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica, rende superfluo accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita; ciò che rileva è che le disponibilità monetarie dell’ente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo.

Sottolinea la Corte come «è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerano comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario».

Proseguendo nell’argomentazione, la Seconda Sezione ha affermato che «la fungibilità del denaro e la sua stessa funzione di mezzo di pagamento non impongono che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque venga rinvenuta, una volta accertato, come nel caso in esame, il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale, fra il danaro oggetto del provvedimento di sequestro ed il reato del quale costituisce il profitto illecito. Trattasi infatti di assicurare ciò che proviene dal reato la cui confisca è obbligatoria ai sensi del combinato disposto degli artt. 640-quater e 322-ter co 1 c.p.».

Valorizzando la naturale fungibilità del denaro, pertanto, si è giunti alla conclusione secondo cui è legittimo il sequestro finalizzato alla confisca diretta dell’importo pari al profitto del reato «ovunque e presso chiunque custodito e quindi anche di quello pervenuto sui conti e/o depositi in data successiva all’esecuzione del provvedimento genetico».

In buona sostanza, l’unico limite è costituito dall’indicazione dell’ammontare del profitto confiscabile, fermo restando che il denaro concretamente suscettibile di apprensione ben può essere sia quello rinvenuto nella disponibilità dell’ente in epoca antecedente al sequestro, sia quello che confluisce nelle sue casse in data successiva, essendo in tal caso del tutto irrilevante l’eventuale provenienza lecita.

L’eccezione lata di sequestro finalizzato alla confisca diretta recepita nella decisione in commento, si accompagna all’ulteriore affermazione secondo cui «la confisca per equivalente e prima ancora il sequestro finalizzato a detta confisca ha funzione sussidiaria rispetto a quella tradizionale (confisca diretta) che ha connotati riparatori e finalità non repressive ma ripristinatorie dello status quo ante. Dunque se è indubbio che la misura ablativa finalizzata a privare l’autore del reato dei vantaggi derivati dalla sua attività criminosa è destinata ad operare in tutti quei casi in cui la confisca diretta non sia possibile per i più svariati motivi, anche temporanei, è pur vero che l’avere azionato detta misura, a fronte della sussistenza di tutti i presupposti di legge, non impedisce di sottoporre a provvedimento cautelare ulteriori beni costituenti l’utilità economica tratta dall’attività illecita».

A seguito della pronuncia della Seconda sezione, con la quale veniva disposto l’annullamento con rinvio del procedimento al Tribunale del riesame, quest’ultimo statuiva la legittimità del sequestro preventivo eseguito anche sulle somme che periodicamente affluiscono sui conti dell’ente.

Tale decisione veniva nuovamente impugnata mediante ricorso in Cassazione deciso da Sez. 6, n. 53842 del 9/11/2018, Salvini, con la quale si affermava che il Tribunale del riesame aveva correttamente applicato il principio di diritto statuito in sede di rinvio.

In particolare, con quest’ultima pronuncia la Corte ha ribadito la centralità della questione concernente «la possibilità di assoggettare a sequestro preventivo e poi a confisca, quale profitto del reato, somme di accertata provenienza lecita sotto specie di contributi erogati da soggetti privati in piena conformità alla normativa del finanziamento dei partiti politici, contributi cioè asseritamente mai confusisi con il profitto derivato dal reato contestato, essendo come tali dotati di un’immediata identificabilità fisica rispetto al profitto medesimo».

Nonostante l’accertata provenienza lecita e pur precisando che la questione relativa alla portata ed estensione del provvedimento va necessariamente esaminata in sede di merito, la Corte, richiamando il principio statuito da Sez. U “Gubert”, ha precisato che il principio dell’irrilevanza della provenienza del denaro, quale bene fungibile, dovrebbe deporre a favore della confiscabilità delle somme entrate nel patrimonio dell’ente ed aventi sicura provenienza lecita.

3. Novità normative ed evoluzione dell’istituto della confisca.

La centralità che le diverse forme di confisca “allargata” hanno assunto nell’ambito del sistema penale sono alla base degli interventi normativi più recenti che hanno condotto sia all’introduzione dell’art. 240-bis cod. pen., che ad una maggior attenzione alla tutela in ambito procedurale dei titolari dei beni suscettibili di confisca.

Per quanto concerne il primo aspetto, si evidenzia come con l’introduzione della cosiddetta “riserva di codice” ad opera del d.lgs. n. 21 del 2018, si è ritenuto opportuno ricondurre nell’alveo del codice penale le diverse ipotesi di confisca “allargata”, pur senza alcuna modifica delle stesse sotto il profilo contenutistico.

L’attuale art. 240-bis cod. pen. disciplina la confisca per le ipotesi in cui, a fronte della commissione di determinati reati, il condannato non possa giustificare la provenienza di beni di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica.

Contestualmente all’attrazione delle diverse ipotesi di confisca allargata nel codice penale, si è provveduto all’abrogazione quasi integrale dell’art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (di cui attualmente restano in vigore i soli commi 4-ter e 4-quater).

Se la riforma non ha apportato modifiche sul piano contenutistico, lasciando inalterate le ipotesi in cui è applicabile la confisca allargata, ben più rilevanti sono state le modifiche sul piano procedurale, mediante l’ampliamento delle garanzie dei soggetti destinatari della confisca.

In particolare, è stato rimodulato l’art. 104-bis, disp. att., cod. proc. pen., mediante l’inserimento di apposite disposizioni disciplinanti sia l’amministrazione dei beni sottoposti a sequestro e confisca, sia la tutela dei terzi titolari dei beni.

L’art. 104-bis, disp. att., cod. proc. pen. attualmente in vigore, prevede al comma 1-quater che «Le disposizioni in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati nonchè quelle in materia di tutela dei terzi e di esecuzione del sequestro previste dal codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, si applicano ai casi di sequestro e confisca in casi particolari previsti dall’art. 240-bis del codice penale o dalle altre disposizioni di legge che a questo art. rinviano, nonchè agli altri casi di sequestro e confisca di beni adottati nei procedimenti relativi ai delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, del codice.

In tali casi l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata coadiuva l’autorità giudiziaria nell’amministrazione e nella custodia dei beni sequestrati, fino al provvedimento di confisca emesso dalla corte di appello e, successivamente a tale provvedimento, amministra i beni medesimi secondo le modalità previste dal citato codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Restano comunque salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento del danno».

Il comma 1-quinquies stabilisce che «Nel processo di cognizione devono essere citati i terzi titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni in sequestro, di cui l’imputato risulti avere la disponibilità a qualsiasi titolo»; il successivo comma 1-sexies precisa che «Le disposizioni dei commi 1-quater e 1-quinquies si applicano anche nel caso indicato dall’art. 578-bis del codice», concernente i casi di confisca disposta a seguito di sentenza che riconosca l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione od amnistia.

Alla luce dei suddetti richiami normativi, l’intera problematica concernente la tutela del terzo titolare di beni confiscati deve essere necessariamente rivisitata, al fine di stabilire se ed in quali casi sia applicabile la disciplina più favorevole prevista dall’art. 104 disp. att. cod. pen. che contempla la partecipazione del terzo al giudizio di cognizione nel quale si discute – anche – della confisca

In particolare, si pone la necessità di stabilire qual è l’estensione dei poteri processuali del terzo titolare dei beni suscettibili di confisca, non specificando la norma se questi potrà interloquire sui soli presupposti del sequestro e confisca, ovvero possa intervenire anche sull’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, realizzando una sorta di intervento adesivo ad adiuvandum, al fine di escludere la sussistenza del reato e, quindi, la possibilità stessa di procedere a confisca.

4. L’incidenza della giurisprudenza CEDU: la sentenza GIEM s.r.l. c. Italia.

Accanto agli interventi normativi in materia di confisca, particolarmente significativi per lo sviluppo futuro dell’istituto sono le indicazioni provenienti dalla pronuncia resa dalla Corte EDU, 28 giugno 2018, nella causa G.I.E.M. sr. ed altri c. Italia; tale pronuncia è espressamente intervenuta sulla annosa e controversa tematica concernente la possibilità ed i limiti entro i quali può disporsi la confisca urbanistica nel caso di intervenuta prescrizione del reato.

La sentenza, tuttavia, si segnala anche per l’affermazione di principi più generali – in tema di tutela dei terzi e proporzionalità della confisca rispetto alla tutela del diritto di proprietà – che costituiscono problematiche comuni a tutte le ipotesi di confisca.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione dovrà, pertanto, necessariamente confrontarsi con le sollecitazioni provenienti dalla CEDU e, del resto, già nelle prime pronunce emerse successivamente alla citata sentenza “Giem”, si registrano esplicite prese di posizione rispetto alle problematiche sottolineate dalla CEDU.

Fatta tale premessa, è evidentemente imprescindibile procedere ad un esame delle problematiche sottolineate in ambito convenzionale, prendendo le mosse dall’aspetto concernente la qualificazione stessa della confisca.

La Corte EDU è tornata sulla questione ribadendo la natura di sanzione penale della confisca urbanistica, fornendo dei parametri valutativi utili anche per la qualificazione delle ulteriori forme di confisca previste nell’ordinamento interno.

Gli indici della natura sostanzialmente penale della confisca, infatti, sono stati desunti dal diretto collegamento con la commissione di un reato; dalla finalità punitiva della confisca; dalla gravità della misura, ritenuta una «sanzione particolarmente onerosa e intrusiva»; dalla competenza all’adozione della confisca attribuita al giudice penale.

Sulla scorta di tali elementi, la Corte EDU ha concluso nel senso di ritenere che «le misure di confisca costituiscono delle “pene” ai sensi dell’art. 7 della Convenzione: tale conclusione, che è il risultato dell’interpretazione autonoma della nozione di “pena” ai sensi dell’art. 7, comporta l’applicabilità di questa disposizione, anche in assenza di un procedimento penale ai sensi dell’art. 6».

La Corte EDU, pur partendo dal presupposto secondo cui la confisca urbanistica è qualificabile in termini di sanzione di natura penale, ha ritenuto che possa essere legittimamente disposta anche all’esito della pronuncia di una sentenza di prescrizione, a condizione che vi sia stato ugualmente l’accertamento dell’esistenza del reato e della colpevolezza dell’imputato.

La sentenza in questione, tuttavia, se da un lato ha risolto la questione in merito alla possibilità di disporre la confisca in caso di sentenza dichiarativa della prescrizione, ha sollevato altri interrogativi destinati ad assumere un ruolo centrale nella futura evoluzione della giurisprudenza di legittimità.

4.1. Compatibilità della confisca con l’art. 1 Prot. Add. CEDU.

La disciplina della confisca urbanistica è stata oggetto di valutazione in relazione alla compatibilità o meno di tale misura sanzionatoria rispetto alla tutela della proprietà accordata dall’art. 1 del Protocollo Addizionale della CEDU.

Tale norma, rubricata quale “Protezione della proprietà”, stabilisce che «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende».

Si tratta di una previsione chiaramente volta a contemperare la tutela della proprietà privata con l’attuazione delle finalità di interesse generale, contemplando da un lato la possibilità di limitare se non addirittura privare il titolare del diritto di proprietà, al contempo imponendo un rapporto di stretta proporzionalità tra l’intensità del pregiudizio e le finalità pubbliche perseguite.

I ricorsi proposti avverso la normativa in materia di confisca urbanistica hanno concordemente sottolineato come tale misura sanzionatoria si traduca in una privazione del diritto di proprietà, asseritamente non sorretta da una base giuridica chiara, accessibile e prevedibile, ma soprattutto la misura in esame difetterebbe del profilo della strumentalità e proporzionalità rispetto agli interessi perseguiti.

Con la sentenza “GIEM” la Corte EDU ha richiamato i precedenti specifici in materia, sottolineando che la compatibilità della confisca con il predetto art. 1 Prot. Add. va valutata sotto due aspetti.

In primo luogo, si è affermato che, in astratto, sono legittime le politiche statali finalizzate alla tutela ambientale e della salute delle persone, sicchè la confisca potrebbe ritenersi consentita ove direttamente collegata a salvaguardare tali interessi primari, di rilievo pubblicistico.

Tuttavia, esaminando le fattispecie oggetto dei ricorsi, la Corte EDU sottolinea come non pare sussistente quella necessaria strumentalità tra misura sanzionatoria e tutela dell’ambiente, atteso che in nessun caso si era proceduto alla demolizione dei complessi immobiliari frutto della lottizzazione abusiva ed, anzi, con riferimento ad uno dei beni confiscati vi era stata una delibera dell’ente comunale con la quale veniva espressamente riconosciuto «l’interesse attuale della collettività a mantenere il complesso immobiliare confiscato, tenuto conto della possibilità di utilizzare gli alloggi per far fronte a situazioni di emergenza concedendo, direttamente o indirettamente, l’uso dei beni a titolo oneroso a persone a basso reddito» (§297).

L’ulteriore aspetto di criticità rilevato dalla Corte EDU è quello concernente la proporzionalità della misura rispetto allo scopo perseguito.

Afferma la Corte che «Al fine di valutare la proporzionalità della confisca, possono essere presi in considerazione i seguenti elementi: la possibilità di adottare misure meno restrittive, quali la demolizione di opere non conformi alle disposizioni pertinenti o l’annullamento del progetto di lottizzazione; la natura illimitata della sanzione derivante dal fatto che può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi; il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato in questione» (§301).

Inoltre, si precisa che la legittimità della compressione del diritto di proprietà non può in alcun modo ritenersi lecita in assenza di un contraddittorio nell’ambito del quale la persona interessata sia messa in condizione di interloquire con l’autorità competente ad adottare la confisca.

Sulla base di tali premesse, la Corte EDU conclude nel senso di ritenere che «L’applicazione automatica della confisca in caso di lottizzazione abusiva prevista – salvo che per i terzi in buona fede – dalla legge italiana è in contrasto con questi principi in quanto non consente al giudice di valutare quali siano gli strumenti più adatti alle circostanze specifiche del caso di specie e, più in generale, di bilanciare lo scopo legittimo soggiacente e i diritti degli interessati colpiti dalla sanzione. Inoltre, non essendo state parti nei procedimenti contestati, le società ricorrenti non hanno beneficiato di alcuna delle garanzie procedurali di cui al precedente paragrafo 302» (§ 303).

Sulla scorta di tale premessa, la Corte ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1, in ragione del carattere sproporzionato della misura di confisca.

4.2. La confisca nei confronti dei terzi estranei al giudizio.

Il profilo destinato ad assumere maggior rilievo nelle future applicazioni giurisprudenziali dei principi elaborati dalla sentenza “GIEM” appare essere quello attinente alla tutela dei terzi estranei al giudizio, nei cui confronti la CEDU ha ritenuto sicuramente illegittimità la confisca di beni disposta in assenza dell’accertamento di profili di colpevolezza e senza che fosse stata consentita la loro partecipazione al giudizio conclusosi con la confisca.

Prima di procedere ad esaminare nel dettaglio il contenuto della decisione, appare imprescindibile precisare che la posizione delle società ricorrenti erano diversificate ed infatti, per quanto concerne la GIEM s.r.l. risulta che i legali rappresentanti non avevano rivestito il ruolo di imputati nel procedimento relativo alla lottizzazione abusiva, nel caso delle restanti società ricorrenti, invece, vi era stata quanto meno la partecipazione al procedimento penale dei legali rappresentanti.

Tale diversificazione di posizione è di fondamentale rilievo, in quanto ha consentito alla CEDU di verificare sia l’ipotesi della totale estraneità della società al processo penale, sia il diverso caso in cui, pur a fronte dell’estraneità dell’ente, quanto meno il processo penale si era svolto nei confronti delle persone fisiche che agivano in nome e per conto della persona giuridica.

A fronte della suddetta differenziazione di fattispecie, chiaramente incidenti anche sui concetti di buona e mala fede dell’ente estraneo al processo penale, la CEDU si è espressamente posta il problema di verificare se «le persone fisiche che sono state coinvolte nei procedimenti dinanzi ai tribunali interni abbiano agito e siano state giudicate in quanto tali o come rappresentanti legali delle società» (§265).

La risposta non poteva che essere negativa, atteso che il sistema penale italiano – al di là delle fattispecie per le quali è configurabile la responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 – si fonda sul principio societas delinquere non potest, sicchè il processo penale vede necessariamente quale imputati le sole persone fisiche, evidentemente distinte giuridicamente dall’ente in nome e per conto del quale hanno agito.

Ciò è stato sufficiente per indurre la Corte EDU ad affermare che «le società erano pertanto terze parti in questi procedimenti» (§266), il che fa sorgere il problema di verificare la conformità rispetto ai parametri dell’art. 7 della CEDU dell’applicazione di «una sanzione penale inflitta a persone giuridiche che, per la loro personalità giuridica distinta, non sono state oggetto di alcun procedimento (penale, amministrativo, civile, ecc.)» (§269).

La Corte EDU è partita dal presupposto che l’art. 7 della Convenzione presuppone necessariamente la garanzia del principio di colpevolezza, che impone di vietare che nel diritto penale si possa rispondere per un fatto commesso da altri. Infatti, se è vero che ogni persona deve poter stabilire in ogni momento cosa è permesso e cosa è vietato per mezzo di leggi precise e chiare, non si può concepire un sistema che punisca coloro che non sono responsabili, perché il responsabile è stato un terzo. La Grande Camera, pertanto, ritiene che «Nel caso di specie, le società G.I.E.M. S.r.l., Hotel Promotion Bureau S.r.l., R.I.T.A. Sarda S.r.l. e Falgest S.r.l., non sono state parti in alcun procedimento. Solo il legale rappresentante della Hotel Promotion Bureau S.r.l. e della Falgest S.r.l., nonché due membri della R.I.T.A. Sarda S.r.l., sono stati accusati personalmente. Le autorità hanno pertanto applicato una pena alle società ricorrenti per azioni di terzi, nel caso di specie, tranne che nel caso della G.I.E.M. S.r.l., in quanto i loro rappresentanti legali o associati agivano a titolo personale. 273. Infine, in risposta all’affermazione del Governo secondo cui le società Hotel Promotion Bureau S.r.l., R.I.T.A.Sarda S.r.l. e Falgest erano in malafede (paragrafo 264 supra), la Corte rileva che nulla negli elementi acquisiti alla causa fa pensare che la proprietà dei beni sia stata trasferita alle società ricorrenti dai loro rappresentanti legali (si veda, in tal senso, l’art. 6 della direttiva 2014/42, paragrafo 152, supra). 274. In conclusione, considerato il principio secondo cui una persona non può essere sanzionata per un atto che coinvolge la responsabilità penale altrui, una misura di confisca applicata, come nel presente caso, a persone fisiche o giuridiche che non sono parti in causa è incompatibile con l’art. 7».

5. La giurisprudenza della Cassazione sulla tutela del terzo.

In considerazione del breve lasso temporale intercorso dalla sentenza “GIEM”, la Cassazione non ha ancora avuto modo di confrontarsi con le plurime e rilevanti implicazioni riconnesse alla disciplina della confisca urbanistica e, più in generale, della confisca emessa anche nei confronti di soggetti diversi dagli imputati.

Proprio quest’ultimo profilo, tuttavia, è quello rispetto al quale sono già intervenute le prime pronunce di legittimità che, tendenzialmente, si sono orientate nel senso di valorizzare gli strumenti attualmente previsti a tutela del terzo titolare del bene suscettibile di confisca.

Prima di verificare le soluzioni prospettate è bene premettere che nel nostro ordinamento, oltre che nelle ipotesi disciplinate dal d.lgs. n. 231 del 2001, la confisca può ricadere su beni appartenenti ad un soggetto terzo rispetto all’imputato ed, in particolar modo, anche sui beni di proprietà di un ente, a condizione che quest’ultimo non possa qualificarsi come estraneo al reato e, quindi, ne abbia quanto meno conseguito un vantaggio.

Sul punto va richiamato il principio espresso da Sez. U, n. 10561 del 30/1/2014, Gubert, Rv. 258647, secondo cui «È legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l’ente una persona estranea al detto reato».

Nel solco di tale orientamento, si è consolidato l’indirizzo giurisprudenziale – elaborato principalmente in tema di reati tributari – in base al quale è consentita la confisca diretta del profitto del reato conseguito da una persona giuridica, anche quando quest’ultima non è direttamente perseguibile in quanto il reato presupposto non rientra nel catalogo di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.

In applicazione di tali principi, anche recentemente si è affermato che in tema di reati tributari commessi dall’amministratore di una società, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto, nei confronti dello stesso, solo quando, all’esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nei confronti dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato (Sez. 4, n. 10418 del 24/01/2018, Rubino, Rv. 272238).

Con riguardo al diverso profilo concernente l’individuazione degli ambiti di tutela riconosciuti al soggetto destinatario della confisca in quanto titolare del bene, ma rimasto estraneo rispetto al procedimento penale nel cui ambito il reato è stato accertato, la giurisprudenza di legittimità individua due diversi alternativa, l’una in fase di merito e l’altra in sede esecutiva.

In particolare, secondo Sez. U, n. 48126 del 20/07/2017, Muscari, Rv. 270938, «il terzo rimasto estraneo al processo, formalmente proprietario del bene già in sequestro, di cui sia stata disposta con sentenza la confisca, può chiedere al giudice della cognizione, prima che la pronuncia sia divenuta irrevocabile, la restituzione del bene e, in caso di diniego, proporre appello dinanzi al tribunale del riesame».

In motivazione, la Cassazione ha sottolineato come la necessità di garantire al terzo una forma di intervento immediata e non differita alla fase dell’esecuzione è necessaria in quanto «lo strumento dell’incidente di esecuzione, cui può far ricorso il terzo interessato solo dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, è, per sua natura, inidoneo a garantire la pienezza dei diritti difensivi. Tale strumento, infatti, realizza solo in via mediata il diritto alla prova del soggetto istante e «risulta indubbiamente influenzato dalla esistenza della decisione irrevocabile posta a monte, nel cui ambito ben potrebbero essere state presi in esame – senza contraddittorio effettivo con il titolare formale del diritto di proprietà – profili di ricostruzione probatoria e valutativi rilevanti anche in rapporto alla condizione giuridica del terzo, in potenziale violazione del principio del contraddittorio inteso come garanzia partecipativa del soggetto interessato ai momenti di elaborazione probatoria».

Qualora il terzo non si sia attivato in fase di merito, potrà far valere il proprio diritto in sede esecutiva, essendosi ribadito anche recentemente da Sez. 3, n. 1503 del 15/01/2018, Di Rosa, Rv. 273535, che «Lo svolgimento degli accertamenti nell’ambito del procedimento di esecuzione per verificare la sussistenza delle condizioni per la confisca non si pone in contrasto con alcun principio costituzionale o convenzionale atteso che in tale fase il giudice ha ampi poteri istruttori ai sensi dell’art. 666 comma quinto cod. proc. pen. assicurando il contraddittorio ed il diritto di difesa, anche attraverso la nomina di un difensore di ufficio, che può essere sentito su sua richiesta».

5.1. Prime pronunce della Cassazione a seguito della sentenza “GIEM”.

La giurisprudenza più recente che si è occupata delle problematiche relative alla tutela del terzo titolare del bene sottoposto a confisca si è dovuta necessariamente confrontare con le indicazioni di principio recepite nella sentenza “GEIM” della Corte EDU, nonché con le nuove disposizioni relative alla partecipazione del terzo al giudizio di merito contenute nel novellato art. 104-bis, disp. att., cod. proc. pen.

Meritevole di segnalazione è la decisione assunta da Sez. 2, n. 53384 del 12/10/2018, Bossi, in merito alla legittimità dell’ordinanza con la quale la Corte d’Appello aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta dalla Lega Nord nell’ambito del procedimento per truffa aggravata ed appropriazione indebita instaurato nei confronti di alcuni dei vertici di partito ed avente ad oggetto la presunta indebita percezione di rimborsi elettorali.

Secondo la prospettazione dell’ente impugnante, il terzo titolare del bene sottoposto a confisca (denaro depositato sui conti corrente del partito) sarebbe legittimato a partecipare al giudizio di merito, essendo insufficiente rinviare la tutela delle sue ragioni alla fase esecutiva. A supporto di tale soluzione, la ricorrente evidenziava come la nuova disciplina prevista dall’art. 104-bis, disp. att., cod. proc. pen., pur se limitata alle sole ipotesi di confisca allargata di cui all’art. 240-bis cod. proc. pen., andrebbe estesa per via interpretativa, ovvero sollevando eccezione di incostituzionalità, a tutte le ipotesi di confisca disposte a carico di un soggetto terzo rispetto all’imputato.

Ad ulteriore riprova della correttezza di tale impostazione, veniva dedotta l’inidoneità della tutela in sede cautelare riconosciuta da Sez. U., n. 48126 del 20/07/2017, Muscari, Rv. 270938, tanto più che i principi espressi in tale decisione andrebbero rivisitati alla luce della pronuncia della Corte EDU, GIEM s.r.l. c.Italia, lì dove si indica la necessità di una partecipazione del terzo destinatario della confisca al giudizio di merito e con pienezza di poteri difensivi.

Tali sollecitazioni non sono state condivise da Sez. 2, n. 53384 del 12/10/2018, Bossi, essendosi in primo luogo ritenuto che la tutela del terzo apprestata dall’art. 104-bis, disp. att., cod. proc. pen., deve ritenersi limitata alle sole ipotesi di confisca allargata, non essendo applicabile in via estensiva a fattispecie diverse.

Nel caso dell’ordinaria confisca del profitto del reato, pertanto, il terzo destinatario del provvedimento di sequestro o di confisca di un bene di sua proprietà non ha titolo né per partecipare al giudizio di merito sul fatto di reato che costituisce presupposto della misura ablativa, né può impugnare le sentenze emesse nel corso del procedimento penale che si svolga nei confronti dell’imputato persona fisica.

La Corte giunge a tale conclusione, ritenendo anche di superare l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata sul presupposto della irragionevole disparità di trattamento tra i terzi legittimati a partecipare al giudizio, nei casi previsti dall’art. 104-bis, disp.att., cod.proc. pen. e quelli esclusi.

Si è ritenuto, infatti, che pur se con forme diverse, ai terzi titolari di diritti sui beni suscettibili di confisca è in ogni caso riconosciuta un’adeguata possibilità di difesa.

In motivazione, si afferma che «La questione deve essere affrontata, anzitutto, con la rassegna degli strumenti di tutela offerti in generale al terzo nell’attuale assetto normativo al di fuori delle ipotesi regolate dall’art. 104-bis comma 1 quinquies cit., in pratica i rimedi cautelari e l’incidente di esecuzione, per dar conto della tesi difensiva della loro inadeguatezza, superabile, secondo la difesa, solo con la necessaria partecipazione del terzo al contraddittorio processuale nel giudizio di merito. Importanza centrale assume, in questo ordine di considerazioni, l’arresto di legittimità espresso da Sez. U, del 20/07/2017, n. 48126 che ha affermato principi ritenuti compatibili con i valori costituzionali da Cort. cost. n. 253 dei 6 dicembre 2017. Dopo avere ribadito che il terzo estraneo può ricorrere alla procedura dell’incidente di esecuzione solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza che dispone la confisca, il supremo consesso di legittimità rileva che, al contrario, la natura incidentale del procedimento cautelare consente di ritenere che esso possa essere attivato anche nel corso del processo di cognizione. Il rimedio cautelare, infatti, osserva il collegio, non interferisce con il thema decidendum rimesso al giudice, ma incide su di un aspetto che non vincola e non rischia di contraddire la decisione definitiva del giudicante. Non si vede, quindi, per quale motivo esso non dovrebbe essere esperibile, oltre che – com’è pacifico – per le misure cautelari personali, anche per quel che riguarda le misure cautelari reali, con specifico riferimento al sequestro preventivo, posto che, da un lato, ricorre la eadem ratio del controllo in itinere del vincolo cautelare; e che, dall’altro, proprio per la natura incidentale della “questione cautelare”, al controllo non può essere di ostacolo il dettato dell’art. 586, commi 1 e 2, cod. proc. pen. Ciò, tanto più in considerazione della peculiarità della posizione del terzo intestatario, estraneo rispetto al procedimento di cognizione, ma destinatario dei (e quindi non estraneo ai) provvedimento di sequestro, e come tale legittimato ad assumere la figura di istante-appellante-ricorrente a partire dalla previsione dell’art. 263, comma 2, cod. proc. pen.».

La tutela in fase cautelare, pertanto, viene ritenuta di per sé garanzia sufficiente per il terzo, soprattutto perché la Corte esclude espressamente che l’eventuale partecipazione al giudizio di merito consentirebbe al proprietario del bene facoltà difensive più ampie rispetto a quelle esercitabili in fase cautelare.

A fronte della tesi difensiva volta a sottolineare l’esistenza di un legittimo interesse del terzo a contestare non solo i presupposti tipicamente cautelari del sequestro finalizzato alla confisca, ma anche l’esistenza stessa del reato presupposto del provvedimento ablatorio, la Corte ha nettamente escluso tale possibilità.

Si afferma, infatti, che – ove pure si ammettesse la partecipazione del terzo al giudizio di merito – ciò non implicherebbe affatto l’esercizio di più ampi poteri di interlocuzione anche sul tema della responsabilità penale, in modo da consentire al terzo una sorta di “intervento ad adiuvandum” in favore dell’imputato.

Nell’affermare tale principio, la Corte ha anche precisato come neppure nel caso di intervento del terzo nelle ipotesi previste dall’art. 104-bis, disp. att., cod. proc. pen., la partecipazione al giudizio consente a tale soggetto l’interlocuzione sui profili della responsabilità penale dell’imputato.

Si afferma, infatti, che la necessaria citazione a giudizio del terzo nelle ipotesi previste dagli artt. 104-bis, comma 1, quinquies, disp. att., cod. proc. pen., in relazione all’art. 240bis cod. pen., ha soltanto la funzione di imporre al giudice della cognizione di ascoltare le ragioni del terzo prima di pronunciarsi sulla confisca, pervenendo così ad una decisione più meditata sul punto, attraverso una completa, contestuale ponderazione di tutti gli interessi potenzialmente coinvolti nella misura patrimoniale, senza che la partecipazione del terzo possa tradursi in un intervento adesivo a favore dell’imputato.

Pertanto, nemmeno nei casi in cui sia prevista la sua partecipazione al giudizio, il terzo interessato è legittimato ad interloquire nel processo in relazione a profili diversi da quelli attinenti all’effettiva titolarità o disponibilità del bene sequestrato o confiscato o all’esistenza di relazioni di “collegamento” con l’imputato, dovendo al contrario tale legittimazione ritenersi esclusa in relazione al tema della responsabilità penale dell’imputato.

In conclusione, con la sentenza in commento la Corte di cassazione individua modelli processuali diversificati di tutela del terzo, ritenendo che questi – pur nella loro diversità – sono tutti parimenti idonei a garantire un’adeguata partecipazione al procedimento che conduce al sequestro o alla confisca del bene.

Alla diversità di struttura dei suddetti modelli processuali corrisponde un dato comune, costituito dall’inammissibilità dell’intervento del terzo in merito al merito della responsabilità penale dell’imputato.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258647 Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437 Sez. U, n. 48126 del 20/07/2017, Muscari, Rv. 270938 Sez. 3, n. 1503 del 15/01/2018, Di Rosa, Rv. 273535 Sez. 4, n. 10418 del 24/01/2018, Rubino, Rv. 272238 Sez. 2, n. 29923 del 12/04/2018, PG in proc. Salvini Sez. 6, n. 53842 del 9/11/2018, Salvini Sez. 2, n. 53384 del 12/10/2018, Bossi

Sentenze della Corte Costituzionale

Corte cost., sent. n. 253 del 2017

Sentenze della Corte EDU

Corte EDU - del 28/6/2018, GIEM s.r.l. c. Italia