PARTE QUARTA QUESTIONI DI DIRITTO PROCESSUALE --- SEZIONE I - GIURISDIZIONE E COMPETENZA

  • giurisdizione penale
  • competenza per materia
  • competenza giurisdizionale

CAPITOLO I

INCOMPETENZA PER MATERIA PER ECCESSO DEL GIUDICE SUPERIORE RISPETTO A REATI DEL GIUDICE DI PACE

(di Andrea Antonio Salemme )

Sommario

1 Le ragioni del contrasto, le ordinanze di rimessioni alle Sezioni Unite della Corte di cassazione e le questioni controverse. - 2 Premessa all’analisi della giurisprudenza. - 3 L’indirizzo maggioritario: connessione. - 4 L’indirizzo maggioritario: riqualificazione “in melius”. - 5 (segue) Riqualificazione “in melius” ad opera del primo giudice. - 6 (segue) Riqualificazione “in melius” ad opera del giudice d’appello, in generale. - 7 (segue) … e con riferimento all’art. 24 cod. proc. pen.  - 8 L’orientamento minoritario. - 9 Le decisioni delle Sezioni Unite: tentativo provvisorio di un loro inquadramento prospettico. - Indice delle sentenze citate

1. Le ragioni del contrasto, le ordinanze di rimessioni alle Sezioni Unite della Corte di cassazione e le questioni controverse.

Nell’ambito di due procedimenti chiamati alla medesima udienza del 27 settembre 2018, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state richieste di pronunciarsi sul tema della cd. incompetenza per materia per eccesso del tribunale ed eventualmente della corte d’assise rispetto ad un reato attribuito dalla legge alla competenza del giudice di pace. Sussiste invero un contrasto in ordine alla possibilità che il giudice superiore, maturato il termine dell’art. 491, comma 1, cod. proc. pen., entro cui, stanti gli artt. artt. 21, comma 3, e 23, comma 2, cod. proc. pen., deve essere eccepita sia l’incompetenza per territorio sia l’incompetenza per materia per eccesso pur derivante da connessione, trattenga la competenza anche per il reato di competenza del giudice di pace: l’opinione maggioritaria in seno alla giurisprudenza di legittimità è orientata in tal senso, sostanzialmente sul fondamento del principio della cd. “perpetuatio iurisdictionis”, mentre un gruppo meno numeroso, ma non esiguo, di pronunce ritiene, all’opposto, che il giudice superiore sia obbligato «in ogni stato e grado del processo», secondo quanto prevede l’art. 48 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, a declinare la competenza in favore del giudice di pace. Peraltro, questo secondo gruppo di pronunce è allineato alla costante giurisprudenza della Corte costituzionale, che interpreta la competenza per materia del giudice di pace come tendenzialmente esclusiva anche a motivo delle particolarità del rito (Corte cost., ord. n. 50 del 2016; ord. n. 245 del 2014; sent. n. 47 del 2014), conseguentemente propendendo per la natura derogatoria dell’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000 rispetto agli artt. 21, 23, 491, comma 1, ed anche 521 cod. proc. pen. (Corte cost., ord. n. 144 del 2014; ord. n. 318 del 2010; ord. n. 252 del 2010).

Gli angoli di visuale – necessariamente specifici – dai quali le Sezioni Unite hanno affrontato il tema che ne occupa sono delineati da due articolate ordinanze ‘gemelle’ della Quinta Sezione.

In particolare, - sul fondamento di Sez. 5, n. 35293 del 14/06/2018, Treskine, una prima questione controversa rimessa alle Sezioni Uniti è stata sintetizzata nei seguenti termini: «Se, nel caso di connessione tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti del tribunale, quest’ultimo, con la sentenza con cui assolve l’imputato dal reato di sua competenza, debba dichiarare la propria incompetenza per materia in ordine al residuo reato e disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 48 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274»;

- sul fondamento di Sez. 5, n. 35292 del 14/06/2018, Balais, un’ulteriore questione controversa rimessa alle Sezioni Unite è stata sintetizzata nei seguenti termini: «Se il tribunale, a seguito della riqualificazione del fatto originariamente contestato in un reato di competenza del giudice di pace, debba dichiarare la propria incompetenza per materia in favore del giudice di pace e disporre la la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 48 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274».

Par chiaro, già da un semplice confronto letterale, che le due questioni controverse, sebbene ‘casisticamente’ diverse, sono, in realtà, sovrapponibili sia quanto alla fattispecie sia quanto ai profili giuridici involti:

- quanto alla fattispecie, perché la problematicità della questione controversa sottesa alla prima ordinanza si risolve in ciò che, l’assoluzione dell’imputato dal reato portante fa residuare soltanto il reato del giudice di pace, il quale, per l’effetto, dovrebbe essere astrattamente restituito alla competenza di quest’ultimo, tanto più alla luce dell’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000. La sopravvivenza del solo reato di competenza del giudice di pace determina pertanto una situazione di omogeneità rispetto alla fattispecie oggetto della seconda ordinanza di rimessione, dal momento che anche in questa residua un reato di competenza del giudice di pace, ancorché a seguito di riqualificazione del fatto, siccome originariamente di competenza del giudice superiore ma successivamente rivelatosi di competenza del giudice di pace. In buona sostanza, nell’una come nell’altra fattispecie, il giudice superiore si trova al cospetto di un solo reato di competenza del giudice di pace per evenienze successive al termine di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen. (il forzato scioglimento del vincolo connettivo in conseguenza dell’assoluzione – e più latamente del proscioglimento – per il reato portante, nell’una; la riqualificazione “in melius”, nell’altra);

- quanto ai profili giuridici involti, perché il nodo gordiano consiste, trasversalmente, nel verificare la portata dell’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000, secondo cui – rammentasi – «in ogni stato e grado del processo, se il giudice ritiene che il reato appartiene alla competenza del giudice di pace, lo dichiara con sentenza e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero», fermo tuttavia che «le prove acquisite dal giudice incompetente sono utilizzabili nel processo davanti al giudice di pace». Il problema sta nell’“incipit”, giacché quell’«in ogni stato e grado del processo» (ciò che, sia consentito “incidenter” di far rilevare, esclude, di per sé inopinatamente, la fase delle indagini preliminari, allorquando un «processo» non è ancora pendente) può essere interpretato in due modi:

- in un modo ‘assolutizzante’, tale per cui il giudice superiore deve sempre declinare la competenza in favore del giudice di pace a prescindere dallo stato e dal grado in cui versa il processo;

- oppure in un modo ‘temperato’, tale per cui la regola della rilevabilità (anche) “ex officio” dell’incompetenza per materia per eccesso pur derivante da connessione deve essere coordinata con la disciplina codicistica dell’eccezione e del rilievo dell’incompetenza per materia per eccesso, che segue quella dell’incompetenza per territorio, di guisa che, superato il termine dell’art. 491, comma 1, cod. proc. pen., comunque la competenza del giudice superiore si consolida anche per l’unico reato residuo (“post” assoluzione o proscioglimento per il reato portante ovvero “post” riqualificazione “in melius”).

Approfondendo ulteriormente la seconda prospettiva di analisi, quella dei profili giuridici involti, si potrebbe giungere a sostenere che i due corni del dilemma interpretativo dell’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000 nascondano complicazioni finanche di maggior portata:

- da un lato, sul piano dell’economia processuale, la declinazione della competenza da parte del giudice superiore in favore del giudice di pace produce l’effetto pratico di aggiungere una ‘coda procedimentale’ in certo qual modo superflua, dal momento che il processo è ovviamente già “in toto” istruito dinanzi al giudice superiore, il quale è dunque perfettamente in grado di decidere anche nel merito. Le lungaggini che ne derivano, con le inevitabili conseguenze in punto di spreco di risorse e di aggravio del rischio di inefficienza della giustizia penale, che trova l’acme nell’incapacità di addivenire al giudicato prima dello spirare del termine di prescrizione, sono solo parzialmente mitigate dalla previsione della seconda parte dell’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000, la quale fa eccezionalmente salve le prove acquisite dal giudice superiore, proprio perché superiore e quindi professionalmente per certo idoneo. Né si può eludere la criticità scaricandone la responsabilità sul legislatore, che avrebbe potuto e dunque dovuto prevedere una disciplina “ad hoc”: invero, nella misura in cui l’interpretazione di una disposizione di legge non sia testualmente vincolata, direttiva ermeneutica preminente è quella della sua interpretazione costituzionalmente orientata, che, nella specie, deve tener conto della costituzionalizzazione del canone del giusto processo anche “sub specie” di un processo dalla durata ragionevole (art. 111 Cost.);

- dall’altro lato, sul piano della teoria generale del processo penale, la scelta tra l’opzione ‘assolutizzante’ e l’opzione ‘temperata’ nell’interpretazione dell’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000 dovrebbe confrontarsi anche con il profilo, del tutto interno al processo, della natura permanente o meno del potere del giudice di verificare la sussistenza della propria competenza per materia, con conseguente sensibilità od insensibilità dell’andamento del processo agli eventi che lo attraversano dopo la barriera delle questioni preliminari, in funzione di risultanze, segnatamente istruttorie, destinate ad incidere in senso modificativo sulla qualifica del fatto prospettata dall’organo dell’accusa nell’atto di esercizio dell’azione penale. A questo proposito rammentasi che, in una prospettiva già di per se stessa risolutiva, propende per la valorizzazione del momento contestativo Sez. 5, n. 44995 del 29/09/2016, Randi, intervenuta in un caso in cui la corte di appello, in parziale riforma della sentenza del tribunale, riduceva la pena inflitta all’imputato per il delitto di lesioni (giudicate guaribili in 5 gg. a fronte dei 25 contestati). Tale sentenza si rifà a Sez. 1, n. 36336 del 23/07/2015, Rv. 264539, Novarese, la quale, in tema di distribuzione della competenza tra tribunale e giudice di pace, insegna che, ai fini della determinazione della competenza funzionale, deve aversi riguardo esclusivamente alla contestazione formulata dal pubblico ministero, a nulla rilevando eventuali valutazioni, in via prognostica, anticipatorie del merito della decisione, talché l’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000 «va interpretato alla luce del principio generale che attribuisce la competenza alla luce dell’originaria imputazione, posto che le modifiche del fatto incidono solo sulla risposta sanzionatoria».

2. Premessa all’analisi della giurisprudenza.

Le massime che si occupano dell’incompetenza del giudice superiore, segnatamente il tribunale, a conoscere di reati attribuiti alla competenza del giudice di pace non distinguono tra il caso in cui l’incompetenza sia intrinseca (per essere stata l’azione penale, riferita ad un reato di competenza del giudice di pace correttamente qualificato, esercitata per errore dinanzi al tribunale; oppure per essere stata essa, riferita ad un reato di competenza del giudice di pace per errore qualificato come reato di competenza del tribunale, correttamente, nella forma ma non nella sostanza, esercitata dinanzi al tribunale) da quello in cui l’incompetenza sia eccepita o rilevata per difetto, originario e viepiù sopravvenuto, della connessione forte prevista dall’art. 6 d.lgs. n. 274 del 2000 (il quale, ci si permette di ricordare, al comma 1, statuisce che «tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti di competenza di altro giudice, si ha connessione solo nel caso di persona imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione», soggiungendo, al comma 2, che, «se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla competenza del giudice di pace e altri a quella della corte di assise o del tribunale, è competente per tutti il giudice superiore»).

3. L’indirizzo maggioritario: connessione.

Chiarito quanto precede, la linea di giurisprudenza nettamente prevalente, formatasi tutta in relazione a casi di contestata connessione, è nel senso che l’incompetenza per eccesso in favore del giudice di pace deve essere eccepita o rilevata entro la barriera delle eccezioni preliminari di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen., richiamato dagli artt. 21, comma 3, e 23, comma 2, cod. proc. pen., non rilevando, in senso contrario, il pur apparentemente contrastante tenore letterale dell’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000.

La prima enunciazione della “regula iuris” si deve a Sez. 3, n. 31484 del 12/06/2008, Rv. 240752, Infante. Detta sentenza – a proposito di un procedimento in cui l’imputato aveva riportato condanna per aver commesso un fatto di violenza sessuale e per avere, in diverse circostanze, cagionato lesioni alla p.o., ingiuriandola e minacciandola – spiega, a fronte di un’eccezione di incompetenza deducente l’insussistenza dei presupposti della connessione forte, che «i rilievi del ricorrente in ordine ai limiti in cui opera la connessione tra procedimenti […] sono esatti, ai sensi del puntuale disposto di cui all’art. 6, comma primo, del d.lgs n. 274/2000, che prevede la sola ipotesi del concorso formale di reati (cfr. Sez. 1, n. 33054 del 11/07/2003, Rv. 226118; Sez. 1, n. 21357 del 18/05/2005, Dongiovanni, Rv. 231963). Inoltre, ai sensi dell’art. 48 del medesimo decreto legislativo, il giudice può dichiarare, con sentenza, la competenza del giudice di pace in ogni stato e grado del giudizio, disponendo la trasmissione degli atti al P.M. Tale disposizione, però, non incide sul disposto di cui all’art. 23, comma secondo, c.p.p. […, il cui termine] non è stato rispettato nel caso in esame. Esattamente, pertanto, la sentenza impugnata ha dichiarato l’imputato decaduto dalla relativa eccezione. Peraltro, deve essere anche osservato che le disposizioni citate non comminano alcuna sanzione di nullità per l’ipotesi in cui il giudice avente competenza superiore abbia deciso in ordine ad un reato di competenza del giudice di pace. Pertanto, l’incompetenza del tribunale a conoscere alcuni dei reati ascritti all’imputato, in quanto di competenza del giudice di pace, non può essere rilevata di ufficio in sede di legittimità, non ricorrendo un caso di nullità della pronuncia sul punto, stante la tassatività della previsione normativa in materia».

La non rilevabilità d’ufficio, da parte della Corte di cassazione, dell’incompetenza per eccesso non costituente oggetto di tempestiva eccezione è ribadita anche da Sez. 5, n. 15727 del 22/01/2014, Rv. 260560, P.G. in proc. Bartolo: aveva proposto ricorso per cassazione il P.G. territoriale avverso una sentenza del tribunale di applicazione, su richiesta delle parti, della pena condizionalmente sospesa di mesi due di reclusione ed euro trenta di multa «per i delitti di lesioni aggravate dall’uso di un’arma impropria e minaccia semplice»; la S.C. richiama i passaggi della motivazione della sentenza Infante per dichiarare inammissibile la doglianza relativa all’avere il tribunale giudicato anche del delitto di minaccia semplice.

Una terza sentenza, che porta a consapevole compimento l’orientamento maggioritario, è Sez. 5, n. 25499 del 27/03/2015, Rv. 265144, Spadaro e altro. La massima, incentrata sulla non ostatività dell’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000 all’accoglimento di tale orientamento, recita: «Anche l’incompetenza del tribunale a conoscere di reati appartenenti alla competenza del giudice di pace deve essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dall’art. 491, comma 1, non rilevando, in senso contrario, il disposto di cui all’art. 48 d.lgs. n. 274/2000, il quale non deroga al regime della non rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza per materia del tribunale a favore del giudice di pace, limitandosi a stabilire che il giudice, qualora debba dichiarare l’incompetenza per materia a favore del giudice di pace, la dichiara con sentenza e trasmettendo gli atti al P.M. e non direttamente al giudice di pace».

L’orientamento dominante, con il richiamo in particolare della sentenza Spadaro e altro, trova conferma in svariate pronunce non massimate, una sola delle quali affronta “expressis verbis” la questione dall’angolo di visuale della connessione (riguardata tuttavia in chiave di eccezione statica e non legata agli sviluppi del dibattimento). Trattasi di Sez. 6, n. 43348 del 28/09/2016, Milazzo, la quale respinge «l’eccezione di incompetenza funzionale per il reato di cui all’art. 582 cod. pen. di cui al capo A [contestato – e ritenuto in rapporto di continuazione – con quello di violenza a pubblico ufficiale ex art. 337 cod. pen.] trattandosi di reato di competenza del giudice di pace e non operando, ex art. 6 d.lgs. 274/2000, la regola della connessione se non in caso di persona imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione». «[S]econdo la giurisprudenza di legittimità, infatti, l’eccezione relativa alla affermata violazione della regola di connessione disciplinata nell’art. 6, comma 1 d.lgs. 274/2000 (per cui la connessione stessa opera solo in caso di persona imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione) doveva essere proposta in primo grado entro il termine di cui all’art. 491 cod. proc. pen. come richiamato dall’art. 23, comma 2 cod. proc. pen. e non rileva il tenore dell’art. 48 del medesimo decreto […]».

Negli stessi termini si esprime un’altra sentenza – Sez. 5, n. 46695 del 03/10/2016, Cattabiani – sull’eccezione di incompetenza per materia relativa a reati di competenza del giudice di pace avvinti in continuazione con altri di competenza del tribunale, senza però chiamare in causa la connessione.

Risalendo nel tempo, la stessa linea è seguita da Sez. 5, n. 21697 del 26/05/2009, S.S., in un caso in cui il tribunale aveva assolto l’imputato con riferimento ai reati di sua competenza, mentre, invece, lo aveva dichiarato responsabile con riferimento ai «reati di minaccia semplice in danno di C.G., così derubricata l’originaria imputazione». La corte di appello aveva confermato tale decisione.

Le rimanenti due pronunce, che si rifanno alla sentenza Spadaro e altro, riguardano casi di incompetenza che dianzi si è definita intrinseca: Sez. 7, n. 38195 del 22/05/2018, Aiello e altro, e Sez. 4, n. 1321 del 19/10/2016, Guggiari.

4. L’indirizzo maggioritario: riqualificazione “in melius”.

Costituisce espressione dell’orientamento maggioritario altresì la posizione della giurisprudenza che, in tema di riqualificazione “in melius” di un (unico) reato, originariamente di competenza del tribunale ma divenuto, per effetto di derubricazione, di competenza del giudice di pace, sostiene la tesi della “perpetuatio jurisdictionis”.

In realtà, con riferimento a questo secondo argomento, l’analisi giuridica è più complessa, dovendosi distinguere il caso in cui la derubricazione sia ritenuta dal primo giudice da quello in cui essa sia ritenuta dal giudice d’appello, poiché (solo) per quest’ultimo interviene l’ulteriore fattore di complicazione dell’art. 24, comma 2, cod. proc. pen. (il comma 1 statuisce che «il giudice di appello pronuncia sentenza di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al giudice di primo grado competente quando riconosce che il giudice di primo grado era incompetente per materia a norma dell’art. 23, comma 1, ovvero per territorio o per connessione, purché, in tali ultime ipotesi, l’incompetenza sia stata eccepita a norma dell’art. 21 e l’eccezione sia stata riproposta nei motivi di appello»; a fronte di tale generale previsione – che in buona sostanza coordina il meccanismo preclusivo dell’art. 491, comma 1, cod. proc. pen. con la regola del “devolutum” in appello – il comma 2 chiude il cerchio stabilendo che «negli altri casi il giudice di appello pronuncia nel merito, salvo che si tratti di decisione inappellabile»).

5. (segue) Riqualificazione “in melius” ad opera del primo giudice.

Una triade di sentenze recenti della Quinta Sezione sostiene l’applicabilità del principio della “perpetuatio jurisdictionis” qualora la derubricazione sia ritenuta dal giudice di primo grado in sentenza, difettando una tempestiva (prospettica o “pro futuro”, o semplicemente ormai non più possibile) eccezione di incompetenza: Sez. 5, n. 4673 del 25/11/2016, Tramonti; Id., n. 28651 del 02/05/2016, Seletto; Id., n. 25763 del 13/03/2015, Signorelli.

Dette sentenze, da un lato, presuppongono, con l’orientamento maggioritario, che l’eccezione di incompetenza per materia per eccesso subisca il limite della barriera preclusiva di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen., in tal modo confermando detto orientamento allorquando sostiene che siffatta barriera non è derogata dall’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000; dall’altro lato, sono tutte “concentrate” sul regime di rilevabilità dell’eccezione in parola a termini degli artt. 21, comma 3, e 23, comma 2, cod. proc. pen., senza chiamare in causa (altresì) l’art. 24 cod. proc. pen., nonostante che “medio tempore” sia stato celebrato anche il giudizio di appello con specifica deduzione dell’incompetenza per materia del giudice superiore. La conseguenza pratica è il rigetto del motivo di appello sul punto, nonostante che la derubricazione sia stata ritenuta dal primo giudice “solo” in sentenza (con conseguente concreta impossibilità per le parti di formulare alcuna eccezione se non in appello).

L’unica sentenza che chiama in causa l’art. 24 cod. proc. pen. è Sez. 5, n. 39943 del 24/10/2008, F.F.: la corte d’appello aveva confermato la sentenza del tribunale di condanna dell’imputato per il delitto di lesioni personali, disattendendo la richiesta di costui di trasmissione degli atti, per competenza, al giudice di pace, attesa la determinazione della durata della malattia, all’esito del giudizio di primo grado, non superiore a giorni venti; sull’eccezione di incompetenza riproposta dalla difesa nel ricorso per cassazione, osserva la S.C. che, «quand’anche volesse accedersi alla tesi espressa dalla difesa secondo cui il d.lgs. n. 274 del 2000, art. 48 […], prevarrebbe sulla regola generale dettata dall’art. 23 c.p.p., comma 2 […], ciò non significherebbe comunque che il giudice d’appello potesse e dovesse accogliere la richiesta di annullamento della sentenza di primo grado, ostandovi il disposto di cui all’art. 24 c.p.p., in base al quale, per quanto qui interessa, il giudice d’appello deve pronunciare l’annullamento solo “quando riconosce che il giudice di primo grado era incompetente per materia a norma dell’art. 23 c.p.p., comma 1”; e tale ultima disposizione riguarda soltanto l’incompetenza da dichiararsi quando essa risulti “nel dibattimento”, vale a dire prima che, chiuso il dibattimento, si passi alla fase della deliberazione sul merito dell’imputazione; ragion per cui rimane necessariamente esclusa la diversa ipotesi, verificatasi appunto nel caso in esame, che la teorica competenza del giudice di pace venga a delinearsi soltanto a seguito della derubricazione del reato operata con la sentenza che decide sul merito».

6. (segue) Riqualificazione “in melius” ad opera del giudice d’appello, in generale.

Le due sentenze massimate relative alla riqualificazione di un reato già di competenza del giudice superiore in un reato di competenza del giudice di pace riguardano proprio il caso di una derubricazione ritenuta dal giudice di appello. Esse enunciano, in termini pressoché sovrapponibili, il principio di diritto secondo cui «la corte di appello, quando, riqualificando un fatto giudicato dal tribunale, lo riconduce ad una fattispecie di reato di competenza del giudice di pace, può decidere, anche fuori dai casi previsti dall’art. 6 del d.lgs. n. 74 del 2000, nel merito della impugnazione senza dover trasmettere gli atti al pubblico ministero e dichiarare contestualmente la competenza del giudice di pace». La massima riportata è ricavata da Sez. 5, n. 42827 del 16/07/2014, Rv. 262114 (“breviter”, sentenza Schintu 2014), attinente ad una fattispecie in tema di derubricazione del reato di lesioni da gravi a lievi; pressoché identicamente, salvo una variante di cui subito si dirà, si era espressa, solo qualche mese prima, Sez. 3, n. 21257 del 05/02/2014, C., Rv. 259655.

I precedenti in parola ingenerano tuttavia il dubbio che – rispetto in particolare alla derubricazione – il potere di decidere anche fuori dai casi di connessione forte ex art. 6 d.lgs. n. 274 del 2000 spetti non già “sic et simpliciter” al giudice superiore, ma soltanto al giudice di appello, il quale operi, esso, la derubricazione, in applicazione dell’art. 24 cod. proc. pen., in effetti chiamato esplicitamente in causa dalla massima relativa alla sentenza C. Tale dubbio, sviluppando il ragionamento svolto dalle ordinanze di rimessione alle Sezioni Unite evocate in apertura, ne ingloba un altro, concernente la possibile distinzione tra l’“evenienza tipologica” della derubricazione, che obbedisce alla permanenza del “potestas iudicandi” quantomeno in capo al giudice di appello, da quella dell’incompetenza “tout court”.

Entrambe le sentenze massimate, comunque, pongono in luce le peculiarità disciplinari della derubricazione, che impone (quantomeno) al giudice di appello di giudicare comunque nel merito, ragion per cui è utile, sul tema, una pur breve disamina di dettaglio.

7. (segue) … e con riferimento all’art. 24 cod. proc. pen. 

La sentenza Schintu 2014 si inserisce a pieno titolo, rispetto al dibattito sull’interpretazione dell’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000, nell’orientamento maggioritario, perché, sostanzialmente muovendo dalla valorizzazione del momento contestativo di cui alle sentenze Randi e Novarese, ritiene che detto art. si riferisca al solo caso in cui il reato sia stato originariamente contestato in termini che lo riconducono alla competenza del giudice di pace, con conseguente esclusione, notasi, di quello in cui la competenza del giudice di pace risulti da una diversa qualificazione giuridica del fatto. Peraltro, portando a compimento il ragionamento della sentenza Schintu 2014, sembrerebbe non rilevare, non solo la derubricazione, ma neppure il sopravvenuto scioglimento della connessione per la vicenda proscioglitiva del reato portante, giacché, anche in tal caso, il reato non è stato affatto «originariamente contestato in termini che lo riconducono alla competenza del giudice di pace», ma anzi in termini che, per la connessione, lo attraggono alla competenza del giudice superiore. Sotto altro profilo, la circostanza che la sentenza Schintu 2014 non citi l’art. 24 cod. proc. pen. non rimane priva di significato, perché, in forza dell’esposto ragionamento, che valorizza di per se stesso il momento contestativo, la “perpetuatio jurisdictionis” non è tipica del solo giudice d’appello, ben potendo attagliarsi anche al giudice di primo grado.

A complicare le cose, però, è da notare che, in direzione parzialmente diversa, pare orientata l’interpretazione autentica proposta dalla seconda sentenza della Suprema Corte intervenuta nel procedimento a carico del medesimo imputato: Sez. 5, n. 37207 del 26/04/2017, Schintu (“breviter”, sentenza Schintu 2017). Il GUP aveva condannato l’imputato a pena di giustizia «per i reati di ingiurie e minacce, così derubricata l’originaria imputazione di atti persecutori»; in cassazione, alla difesa che denunciava violazione di legge processuale, in quanto la corte territoriale, nel confermare la sentenza del GUP, «a fronte di espressa eccezione della difesa, non aveva ritenuto di dover disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero per consentire la celebrazione del processo davanti [al]l’unico giudice competente e cioè il giudice di pace», replica la S.C. che «del tutto corretta è la risposta data dalla corte territoriale, che ha fatto riferimento ad un precedente di questa stessa Sezione proprio nei confronti del medesimo ricorrente (v. la citata Sez. 5, n. 42827 del 16 luglio 2014). Occorre soltanto chiarire come nel presente caso ci si trovi di fronte all’originaria contestazione di un reato di competenza del tribunale (art. 612bis cod. pen.) che è stato successivamente riqualificato dallo stesso tribunale in reati di competenza del giudice di pace per cui, come affermato nel precedente dianzi indicato, non può trovare applicazione l’art. 48 del d.lgs. 274/2000 e cioè la dichiarazione d’incompetenza del giudice superiore. Viceversa, la diversa decisione di questa stessa Sezione citata nel ricorso (Sez. 5, n. 43486 del 7 aprile 2014 [ossia la sentenza Quitadamo, su cui si tornerà in sede di disamina delle sentenze afferenti all’orientamento minoritario], secondo la quale andrebbe in ogni caso dichiarata l’incompetenza da parte del giudice superiore a giudicare reati di competenza del giudice di pace, riguarda la diversa ipotesi di reati già in origine di competenza del giudice di pace ma giudicati dal giudice superiore, in considerazione della contestazione, oltre che delle ingiurie e minacce, anche della contravvenzione di cui all’art. 660 cod. pen., con successiva dichiarazione di prescrizione in grado di appello della indicata contravvenzione».

Seguendo, dunque, la “lectio” della sentenza Schintu 2017, il sopravvenuto scioglimento della connessione per la vicenda proscioglitiva del reato portante dovrebbe essere ricompreso nell’ambito di applicazione dell’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000. Ad ogni buon conto, neppure la sentenza Schintu 2017 evoca l’art. 24 d.lgs. n. 274 del 2000.

Riprendendo il filo del discorso, diversa è la motivazione della sentenza C., il cui cardine è rappresentato dalla considerazione che «l’art. 521, comma 1, [cod. proc. pen.] prevede […] che nella sentenza il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza né risulti attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica». Dal coordinamento di tale disposizione – applicabile anche al giudice d’appello ex art. 598 cod. proc. pen. – con gli artt. 21 e 23 cod. proc. pen., «discende, dunque, che l’incompetenza per materia, a favore del giudice inferiore, derivante dalla riqualificazione del reato operata con la sentenza d’appello non può essere dichiarata dal giudice d’appello: sia perché una tale dichiarazione potrebbe avvenire solo in primo grado, previa tempestiva eccezione di parte, ed è perciò comunque preclusa in grado d’appello; sia perché essa è espressamente esclusa dall’art. 521, comma 1. L’esclusione appena delineata trova decisiva conferma nel disposto dell’art. 24 c.p.p. [… che]. Il richiamato art. 24 contrappone, infatti, la fattispecie di cui all’art. 23, comma 1, riferita all’incompetenza per materia per difetto, a quella degli “altri casi”[,] che deve, dunque, ritenersi riferita all’incompetenza per materia per eccesso, di cui dell’art. 23, comma 2. Esso deve essere, dunque, interpretato nel senso che, quando il giudice d’appello attribuisce al fatto una qualificazione giuridica diversa, non esorbitante però dalla competenza per materia del giudice di primo grado, trattiene il procedimento e decide su di esso; viceversa se il giudice d’appello riconosce il fatto come estraneo e superiore alla competenza per materia del primo giudice, non può trattenere il procedimento e decidere, ma deve annullare la sentenza impugnata ed emettere i consequenziali provvedimenti di cui all’art. 24 c.p.p.» […]. Né contro tale conclusione può invocarsi – nel caso di specie – l’applicazione del d.lgs. n. 274 del 2000, art. 48 […]. La disposizione deve essere infatti coordinata con quelle sopra richiamate e, dunque, interpretata nel senso che essa non deroga al regime della non rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza per materia del tribunale a favore del giudice di pace […]».

È bensì vero che la sentenza in esame cita l’art. 24 cod. proc. pen., tuttavia a mera conferma di conclusioni già raggiunte nella prospettiva esegetica dell’art. 521 cod. proc. pen., applicabile, in appello, ex art. 598 cod. proc. pen. Proprio qui, però, sta il punto (che alla fin fine accomuna la sentenza C. alla sentenza Schintu 2014). L’art. 521, che abilita il giudice alla riqualificazione purché essa non lo porti a sforare la sua competenza, è diretto anzitutto al giudice di primo grado, che, dunque, come quello di appello, legittimamente trattiene la competenza sul reato derubricato.

8. L’orientamento minoritario.

All’orientamento dominante si contrappone una sola sentenza massimata – Sez. 3, n. 12636 del 02/03/2010, Rv. 246816, Ding, secondo cui «la violazione della disciplina sulla competenza per materia del giudice di pace (art. 48, d.lgs. 28 agosto 2000, n 274) determina l’annullamento senza rinvio da parte della Corte di cassazione della sentenza del giudice monocratico, con conseguente restituzione degli atti al pubblico ministero procedente». La massima prosegue enunciando la fattispecie come «relativa al reato di cui all’art. 11, d.lgs. n. 313 del 1991 in materia di sicurezza dei giocattoli in cui il giudice, in ulteriore violazione della disciplina dettata dal d.lgs. n. 274 del 2000, aveva erroneamente emesso un decreto penale di condanna». Più precisamente, letta la sentenza, si apprende che il caso riguardava un’opposizione a decreto penale di condanna in conseguenza della quale il tribunale era addivenuto a sentenza di condanna degli imputati per il reato loro ascritto ad una pena pecuniaria condizionalmente sospesa. Su ricorso dei medesimi deducente «l’erronea applicazione della legge penale risultando in motivazione applicata pena di specie diversa da quella prevista dalla legge ed indicata nel dispositivo», osserva la Corte: «Rileva anzitutto il Collegio [dunque d’ufficio] che il reato in oggetto rientra tra quelli per i quali è stabilita la competenza del giudice di pace […. I]n base al successivo art. 48 [d.lgs. n. 274 del 2000 …n]on rimane, pertanto, che annullare la sentenza impugnata senza rinvio disponendo la restituzione degli atti al PM in ossequio alla disposizione testé citata, tanto più che, ai sensi del d.lgs. n. 274 del 2000, art. 2, lett. l), nel procedimento in questione non si applicano le norme contenute nel codice di procedura penale relative al decreto penale di condanna».

La fattispecie condiziona in certo qual modo “pregiudizialmente” la decisione della Corte, che sembra essere giunta alla conclusione della rilevabilità “ex officio”, oltretutto da parte di Essa Corte, dell’incompetenza intrinseca del tribunale in correlazione all’inapplicabilità “tout court”, rispetto ai reati di competenza del giudice di pace, della procedura per decreto. Talché, in una prospettiva simile a quella fatta propria dalla Corte costituzionale, viene in linea di conto, non solo l’incompetenza per materia per eccesso in sé e per sé considerata, ma la peculiarità del rito dinanzi al giudice di pace, incompatibile con il rito ordinario applicabile da un giudice pur superiore.

Non vi sono altre pronunce che aderiscono alla sentenza Ding e altro, ad eccezione di due:

- Sez. 5, n. 43359 del 02/07/2013, Fiorenti, la quale, tuttavia, la cita adesivamente per ritenere la rilevabilità officiosa dell’incompetenza (non per difetto ma) per eccesso;

- Sez. 5, n. 32995 del 17/04/2012, Rossetti, la quale, riprendendola nella dimensione propria dell’incompetenza per difetto, la porta addirittura alle estreme conseguenze, in quanto afferma l’operatività dell’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000 come fondativo di un potere officioso del giudice finanche nel caso in cui l’imputato, formulata tempestiva eccezione, abbia successivamente instato per il rito abbreviato.

Nella scia delle sentenze Ding e altro e Rossetti – per quanto senza menzionarle – si pone infine la già citata sentenza Quitadamo, occupatasi di un caso in cui l’imputato era chiamato a rispondere di ingiurie e minacce [capo a)] e di molestie ex art. 660 cod. pen. [capo b)], molestie che, per quanto integranti un’ipotesi contravvenzionale, costituivano l’unico reato attribuito alla competenza del tribunale. A seguito di condanna da parte del tribunale per tutti tali reati, la corte di appello dichiarava non doversi procedere in ordine al reato di cui al capo b) perché estinto per prescrizione. In accoglimento del ricorso dell’imputato, rileva la S.C. l’erroneità della sentenza gravata «in quanto modulata sul regime processuale ordinario, piuttosto che sul regime speciale della competenza previsto per i reati di competenza del giudice di pace. La prima norma di riferimento è quella di cui al d.lgs. n. 274 del 2000, art. 6, comma 1, […]. Nel caso di specie, non si era, di certo, in presenza di connessione, non trattandosi di reati commessi con una sola azione od omissione, ma di condotte delittuose poste in essere in contesti, anche cronologici, del tutto diversi. A fronte di tale situazione[,] la norma applicabile è quella di cui all’art. 48 della stessa legge istitutiva del giudice di pace […]. Si tratta in tutta evidenza di norma speciale rispetto al regime ordinario dettato dall’art. 23 del codice di rito [ed i] in virtù della norma anzidetta, il giudice “a quo” avrebbe dovuto emettere pronuncia declinatoria di competenza, in quanto i reati residui, dopo la dichiarazione di prescrizione del reato di competenza del giudice superiore, ossia di quello previsto dall’art. 660 c.p., appartenevano entrambi alla competenza del giudice di pace».

9. Le decisioni delle Sezioni Unite: tentativo provvisorio di un loro inquadramento prospettico.

In attesa del deposito delle motivazioni delle sentenze delle Sezioni Unite, che ovviamente illumineranno sul percorso logico seguito nella decisione, in un’ottica di coerenza, di entrambi i casi devoluti alla loro cognizione, rileva la risposta dalle medesime data su entrambe le questioni controverse:

- con riferimento alla prima, relativa al caso di connessione (evidentemente una connessione ‘forte’ ai sensi dell’art. 6 d.lgs. n. 274 del 2000) tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti del tribunale, in cui intervenga sentenza di assoluzione dell’imputato dal reato di competenza del tribunale (o più latamente del giudice superiore), affermano le Sezioni Unite che deve il tribunale declinare la competenza soltanto qualora conosca del reato di competenza del giudice di pace per un’errata individuazione della competenza per connessione (in violazione, dunque, della previsione di cui all’art. 6 cit.). La qual cosa equivale a dire che, in tutti gli altri casi, il tribunale trattiene la competenza e decide nel merito anche sul reato di competenza del giudice di pace, applicando, all’evidenza, in ipotesi di condanna, lo statuto delle pene irrogabili dal giudice di pace;

- con riferimento alla seconda, relativa al caso di riqualificazione del fatto originariamente contestato in un reato di competenza del giudice di pace, affermano le Sezioni Unite che deve il tribunale declinare la competenza, salvo che la riqualificazione sia effettuata nel corso del processo a seguito di acquisizioni sopravvenute. La qual cosa equivale a dire che la regola è quella della declinatoria della competenza, mentre l’eccezione è quella di una riqualificazione conseguente ad acquisizioni “in itinere”.

Nell’evidente delicatezza della situazione di tentare un pur minimo cenno di commento a sentenze con motivazioni non ancora depositate, ci si permette, di primo acchito, soltanto di rilevare che le Sezioni Unite, attente ad ossequiare la lettera dell’art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000, nell’interpretazione datane dalla Corte Costituzionale, parrebbero aver tratto spunto alla linea di attribuire decisività, ai fini del radicamento della competenza del tribunale, alla contestazione, pur con il contemperamento di attualizzarla in funzione dell’evoluzione del processo, la cui celebrazione non può all’evidenza essere pretermessa.

Parrebbe che ciò si evinca dalla risoluzione della seconda questione controversa, a termini della quale, nelle ipotesi di riqualificazione “in melius”, la regola è bensì quella, come detto, della declinatoria della competenza, ove tuttavia non siano occorse acquisizioni “in itinere”: combinate regola ed eccezione, emerge che il trattenimento della competenza è legittimo qualora, correttamente contestato in origine il reato come di competenza del tribunale, solo per effetto di tali acquisizioni “in itinere” si sono palesati i presupposti per la derubricazione; viceversa la declinatoria della competenza trova spazio in tutti i casi in cui il reato avrebbe dovuto già in origine essere devoluto alla cognizione del giudice di pace.

La riprova, poi, dell’enucleazione di una sorta di ‘terza via’ tra orientamento maggioritario ed orientamento minoritario sembrerebbe trarsi dalla risoluzione della prima questione controversa, in quanto, in sede di “simultaneus processus”, la declinatoria di competenza è legittima unicamente se il tribunale conosce del reato di competenza del giudice di pace per effetto di un errore compiuto dal pubblico ministero, al momento dell’esercizio dell’azione penale, nel ritenere sussistente la connessione forte dell’art. 6 d.lgs. n. 274 del 2000. In tale ipotesi, infatti, il reato di competenza del giudice di pace non avrebbe di per se stesso dovuto essere devoluto alla cognizione del tribunale.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 5, n. 39943 del 24/10/2008, F.F. Sez. 3, n. 31484 del 12/06/2008, Infante, Rv. 240752 Sez. 5, n. 21697 del 26/05/2009, S.S. Sez. 3, n. 12636 del 02/03/2010, Ding, Rv. 246816 Sez. 5, n. 32995 del 17/04/2012, Rossetti Sez. 5, n. 43359 del 02/07/2013, Fiorenti Sez. 5, n. 42827 del 16/07/2014, Rv. 262114 Sez. 3, n. 21257 del 05/02/2014, C., Rv. 259655 Sez. 5, n. 15727 del 22/01/2014, Bartolo, Rv. 260560 Sez. 1, n. 36336 del 23/07/2015, Novarese, Rv. 264539 Sez. 5, n. 25499 del 27/03/2015, Spadaro e altro, Rv. 265144 Sez. 5, n. 25763 del 13/03/2015, Signorelli Sez. 5, n. 46695 del 03/10/2016, Cattabiani Sez. 4, n. 1321 del 19/10/2016, Guggiari Sez. 5, n. 44995 del 29/09/2016, Randi Sez. 6, n. 43348 del 28/09/2016, Milazzo Sez. 5, n. 28651 del 02/05/2016, Seletto Sez. 5, n. 4673 del 25/11/2016, Tramonti Sez. 5, n. 37207 del 26/04/2017, Schintu Sez. 5, n. 35293 del 14/06/2018, Treskine Sez. 5, n. 35292 del 14/06/2018, Balais Sez. 7, n. 38195 del 22/05/2018, Aiello

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., ord. n. 50 del 2016 Corte cost., ord. n. 245 del 2014 Corte cost., sent. n. 47 del 2014 Corte cost., ord. n. 144 del 2011 Corte cost., ord. n. 318 del 2010 Corte cost., ord. n. 252 del 2010

SEZIONE II LE PARTI

  • avvocato
  • azione dinanzi a giurisdizione penale

CAPITOLO I

LA COSTITUZIONE IN GIUDIZIO DELLA PARTE CIVILE A MEZZO DI SOSTITUTO PROCESSUALE DEL DIFENSORE

(di Andrea Nocera )

Sommario

1 La decisione. - 2 Il fondamento normativo. - 3 Le dissonanti prassi giurisprudenziali. - 4 La soluzione del contrasto: i poteri di rappresentanza processuale del sostituto. - 5 I princìpi corollario sui requisiti di forma e le condizioni legittimanti il difensore alla nomina del sostituto. - 6 Il termine di decorrenza per la proposizione della querela nel delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice. - 7 Le ricadute sulla giurisprudenza della Corte. - Indice delle sentenze citate

1. La decisione.

Con la sentenza Sez. U, n. 12213 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Zucchi, Rv. 272169272170-272171), le Sezioni Unite hanno fornito una risposta netta e definitiva sulla questione, mai sopita nella giurisprudenza di legittimità, in tema di legittimazione alla costituzione in giudizio della parte civile, relativa alla possibilità che questa avvenga a mezzo di un sostituto processuale del difensore che sia anche procuratore speciale della persona offesa.

Nella specie, il quesito rimesso alle Sezioni unite, come emergente dagli orientamenti giurisprudenziali in contrasto, investe l’ambito di operatività della delega processuale al sostituto del difensore della parte civile nominato procuratore speciale: se con la delega al sostituto questi conferisca solo l’esercizio di poteri di rappresentanza processuale, tipici del difensore, ovvero se il sostituto processuale abbia la possibilità di esercitare poteri di legittimazione sostanziale, potendo costituirsi parte civile in luogo del suo dominus, a ciò previamente autorizzato, in virtù di espressa previsione della procura speciale, anche nel medesimo atto con cui è rilasciato il mandato alle liti (cfr. ordinanza, Sez. 6, n. 49527 del 17/10/2017). Il quesito implica non solo l’esame delle formalità di costituzione di parte civile – e l’estensione del potere di nomina del sostituto processuale a tal fine – ma anche l’eventuale possibilità per la parte rappresentata di sanare la carenza di legittimazione del sostituto processuale costituitosi in giudizio.

Nel caso in esame, il Collegio rimettente aveva rilevato che la costituzione in giudizio di due delle tre parti civili era stata formalizzata a mezzo di un sostituto processuale del difensore, cui era stata conferita procura speciale che contemplava espressamente anche «la facoltà di nominare sostituti processuali». Il ricorrente aveva contestato la legittimazione del sostituto processuale, eccependo che l’azione civile può essere esercitata soltanto da un procuratore speciale abilitato a costituirsi in nome e per conto del rappresentato, secondo le prescrizioni modali degli artt. 76, 78 e 122 cod. proc. pen., e non anche dal sostituto processuale, privo di procura speciale, il quale, operando in funzione vicaria del difensore e non del procuratore speciale, può esercitare solo poteri di rappresentanza processuale e non è legittimato a costituirsi parte civile in luogo del suo dominus.

Gli orientamenti maturati sul tema, pur condividendo la comune premessa della necessaria distinzione concettuale tra legitimatio ad causam e legitimatio ad processum, divergono sull’ambito applicativo del potere di sostituzione processuale, ora confinato alla sola veste del difensore, quale rappresentante processuale, secondo quanto disposto dall’art. 100 cod. proc. pen., ora ritenuto operante anche con riguardo al potere sostanziale conferito per il tramite della procura speciale di cui all’art. 76 del medesimo codice di rito, con possibilità di costituirsi parte civile in luogo del suo dominus, ove tale facoltà sia espressamente prevista dalla procura speciale rilasciata.

Il contrasto interpretativo ruota intorno alla estensione, in caso di costituzione di parte civile esercitata a mezzo di procuratore speciale che sia anche difensore, del potere di delegare ad un sostituto all’uopo nominato la rappresentanza processuale, perché ne eserciti i diritti ed assuma i doveri, ai sensi dell’art. 102 cod. proc. pen., disposizione applicabile anche al difensore della parte civile.

Le Sezioni Unite, nel fornire una risposta negativa al quesito, hanno espresso il seguente principio di diritto: “Il sostituto processuale del difensore al quale soltanto il danneggiato abbia rilasciato procura speciale al fine di esercitare l’azione civile nel processo penale non ha la facoltà di costituirsi parte civile, salvo che detta facoltà sia stata espressamente conferita nella procura, ovvero che la costituzione in udienza avvenga in presenza del danneggiato, situazione questa che consente di ritenere che al costituzione stessa come avvenuta personalmente”.

2. Il fondamento normativo.

Le Sezioni Unite partono dalla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, delimitando la latitudine applicativa degli artt. art. 76 e 122 cod. proc. pen. 

L’art. 76 cod. proc. pen. («l’azione civile nel processo penale è esercitata, anche a mezzo di procuratore speciale, mediante la costituzione di parte civile») consente, infatti, al danneggiato di esercitare l’azione di restituzione e risarcimento dei danni nel giudizio penale sia personalmente sia per il tramite di un procuratore speciale.

L’art. 122 cod. proc. pen. stabilisce, inoltre, che «quando la legge consente che un atto sia compiuto per mezzo di un procuratore speciale», come è il caso prima ricordato dell’art. 76, «la procura deve, a pena di inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata». Il carattere “speciale” della procura richiede che l’atto contenga la determinazione dell’oggetto per cui è conferita e dei fatti causativi di danno ai quali si riferisce l’azione, oltre che l’indicazione delle persone contro le quali si intende agire.

Si tratta di una ipotesi di rappresentanza volontaria della parte civile, che trova la propria fonte in un atto negoziale con cui il danneggiato, che non intenda agire personalmente in sede penale, può conferire ad un procuratore speciale il mandato di rappresentarlo nell’esercizio dell’azione civile.

L’art. 78 cod. proc. pen., in coerenza con il carattere civilistico dell’instaurando rapporto processuale, detta le formalità della (dichiarazione scritta di) costituzione di parte civile. Sono previste due distinte modalità, potendo la costituzione di parte civile avvenire nel corso dell’udienza (preliminare o dibattimentale), con la presentazione della dichiarazione all’ausiliario del giudice, ovvero fuori udienza, mediante deposito dell’atto nella cancelleria del giudice, seguito dalla notifica alle altre parti.

L’art. 100, comma 1, cod. proc. pen., infine, prescrive che la parte civile stia in giudizio col ministero di un difensore, munito di procura speciale, conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata dal difensore o da altra persona abilitata.

Si tratta di ipotesi di rappresentanza tecnica necessaria, con cui il legislatore ha inteso armonizzare la disciplina dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale con quella del processo civile.

Il successivo comma quarto del citato art. 100 cod. proc. pen., ricalcando il disposto dell’art. 84 cod. proc. civ., prevede che il difensore della parte civile possa compiere e ricevere, nell’interesse della parte rappresentata, tutti gli atti del procedimento che dalla legge non siano ad essa espressamente riservati (tra questi, ad esempio, la revoca dell’atto con il quale la parte civile si è costituita ai sensi dell’art. 82 cod. proc. pen. e la rinuncia all’impugnazione ex art. 589 cod. proc. pen.), essendogli negati gli atti dispositivi del diritto conteso, come ad esempio il transigere la controversia, salvo il rilascio di procura speciale in tal senso.

L’assetto normativo delineato evidenzia la necessità di salvaguardare i tratti distintivi di un’azione squisitamente civile all’interno del processo penale, e compatibilmente con la sua struttura.

A tal fine, devono essere tenuti distinti, all’interno della costituzione di parte civile, il profilo della legitimatio ad causam, ovvero la titolarità del diritto sostanziale in capo al danneggiato come tratteggiata dall’art. 74 cod. proc. pen, quale indispensabile presupposto per la costituzione di parte civile con le modalità previste dai successivi artt. 76 e 78, e quello della legitimatio ad processum, ovvero la rappresentanza processuale secondo la regola esemplificata dal citato art. 100, in virtù della quale il danneggiato, per potere stare in giudizio, sia esso costituito personalmente o a mezzo di procuratore speciale, deve conferire ad un difensore la “procura alle liti”.

Il medesimo termine («procura speciale») assume un significato nettamente divergente nei due casi.

La procura speciale prevista dall’art. 76 cod. proc. pen. si sostanzia nella manifestazione di volontà della parte di conferire mandato a costituirsi nel giudizio in nome e per conto proprio, costituendo in capo al procuratore uno specifico potere di rappresentanza, inteso come capacità di disporre delle posizioni giuridico-soggettive del rappresentato, ancorché nei limiti della procura speciale.

Di contro, la procura speciale di cui all’art. 100 cod. proc. pen. conferisce il solo mandato processuale di rappresentanza in giudizio. Con tale atto, infatti, è conferita «la rappresentanza tecnica in giudizio, ossia esclusivamente lo jus postulandi, attribuendo il potere di “compiere e ricevere [...] tutti gli atti del procedimento (art. 100, comma 4), necessari allo svolgimento dell’azione civile: si tratta di una “capacità di schietto diritto processuale”, che risponde ad un’esigenza prevalentemente pubblicistica. Appare così evidente che l’intenzione del legislatore è stata quella di modellare la procura alle liti con riferimento all’omologo istituto processual-civilistico (art. 83 cod. proc. civ.), giacché la parte civile, come gli altri soggetti indicati nell’art. 100, si muove nel processo penale nell’ambito, diretto o indiretto, di un contenzioso di natura civilistica» (Sez. U, n. 44712 del 27/10/2004, Mazzarella, Rv. 229179).

Quando il soggetto titolare di legittimazione ad causam si costituisce a mezzo del procuratore speciale occorrono, dunque, due procure, una speciale che conferisce il potere di esercitare il diritto alle restituzioni o al risarcimento (rappresentanza sostanziale), l’altra che attribuisce lo jus postulandi (rappresentanza processuale). Le due procure, come avviene di frequente, possono essere conferite anche al medesimo soggetto, attribuendo al difensore nominato procuratore speciale sia la rappresentanza sostanziale sia quella tecnica necessaria.

L’art. 102 cod. proc. pen. contempla, infine, la possibilità per il difensore (anche della parte civile) di delegare la rappresentanza processuale, nominando un sostituto che ne «esercita i diritti e (ne) assume i doveri».

La norma prelude ad una ordinaria designazione in sostituzione in via generale per ogni attività difensiva, pur se non esclude che possa essere nominato il sostituto per il compimento di singoli atti (nomina del sostituto ad acta). Configurandosi come prerogativa esclusiva del difensore, deve ritenersi che la parte assistita non abbia un potere concorrente o di controllo nella scelta del sostituto.

3. Le dissonanti prassi giurisprudenziali.

Dalla ricostruzione del quadro normativo le Sezioni Unite colgono la divaricazione esegetica formatasi nella giurisprudenza della Corte, segnalata dal Collegio rimettente, riassumendo i due indirizzi di segno opposto, mediati da un terzo orientamento di carattere intermedio.

Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale l’azione civile può essere esercitata soltanto da un procuratore speciale abilitato a costituirsi in nome e per conto del rappresentato, nelle forme e nei modi previsti dagli artt. 76, 78 e 122 cod. proc. pen., e non anche dal sostituto processuale privo di procura speciale, figura legittimata a svolgere funzioni vicarie del difensore, ma non del procuratore speciale.

Si sottolinea, in particolare, che l’attribuzione al difensore del potere di costituirsi parte civile (legitimatio ad causam, ovvero il diritto sostanziale ad ottenere giudizialmente il risarcimento) costituisce istituto diverso dal rilascio del mandato alle liti (rappresentanza processuale). Si esclude, quindi, in via generale – e senza prendere in considerazione la eventuale possibilità di una espressa previsione in procura speciale della relativa facoltà – che il conferimento della legitimatio ad processum attribuisca al difensore anche la facoltà di farsi sostituire per la costituzione di parte civile in udienza.

L’indirizzo, condiviso da più Sezioni della Corte, è stato da ultimo espresso da Sez. 5, n. 38763 del 28/06/2017, Santarelli, non massimata, in cui si precisa che la nomina di un sostituto processuale attribuisce allo stesso unicamente i poteri di rappresentanza processuale derivanti dal mandato alle liti, ma non anche i poteri di natura sostanziale e processuale che solo la parte può conferire al difensore con la procura speciale, quale è senz’altro quello di costituirsi in giudizio (in senso conforme, tra le altre, Sez. 3, n. 22601 del 13/05/2005, Fiorenzano, Rv. 231793; Sez. 5, n. 6680 del 23/10/2009 – dep. 2010 –, Capuana, Rv. 246147; Sez. 5, n. 19548 del 03/02/2010, Schirru, Rv. 247497; Sez. 3, n. 6184 del 05/11/2014 – dep. 2015 –, Dami, non mass.; Sez. 2, n. 22473 del 12/05/2016, Rando, non mass.; Sez. 2, n. 15812 del 08/03/2017, Baraghoui Kalid, non mass.).

L’azione civile può essere esercitata nel processo penale – oltre che personalmente dalla parte danneggiata – soltanto da un procuratore speciale abilitato a costituirsi in nome e per conto del rappresentato, secondo le prescrizioni modali degli artt. 76, 78 e 122 cod. proc. pen., e non anche dal suo sostituto processuale (privo di procura speciale), il quale opera in maniera vicaria del difensore e non del procuratore speciale, essendo delegabili le sole attività defensionali e non i poteri di natura sostanziale.

Né si ritiene possibile che il sostituto del difensore (procuratore speciale del danneggiato del reato), privo di procura speciale, possa formalizzare in udienza la costituzione di parte civile (sia pur depositando un atto a firma del procuratore speciale) per il compimento della attività di natura sostanziale e non processuale, in assenza della stessa parte delegante.

Un secondo indirizzo, di segno opposto, ritiene legittima la possibilità per il difensore di nominare un sostituto ai fini del deposito dell’atto di costituzione, ove anche non sia prevista la relativa facoltà nell’atto di conferimento della procura speciale, senza possibili delimitazioni di sorta tratte dalla natura della procura ad litem (Sez. 5, n. 3769 del 07/03/1995, Prati, Rv. 201061; Sez. 5, n. 51161 del 24/10/2013, Morozova, non mass.; Sez. 5, n. 10396 del 14/12/2012 – dep. 2013 –, Malfagia, non mass.; Sez. F, n. 35486 del 06/08/2013, Amato, non mass.).

La disposizione di cui all’art. 102 cod. proc. pen., che disciplina la sostituzione processuale, non esaurisce la propria funzione nell’ambito della mera rappresentanza processuale ma si estende al piano della vera e propria titolarità del diritto a richiedere le restituzioni ed il risarcimento dei danni, conferendo, tra gli altri, il potere di nominare un sostituto ai fini del deposito dell’atto di costituzione.

Resta ferma, in ogni caso, la distinzione tra l’attività di costituzione di parte civile, espressione della legittimatio ad causam, non delegabile perché riservata dalla legge esclusivamente al titolare della posizione soggettiva (il danneggiato ovvero il procuratore speciale all’uopo nominato ex art. 76), e quella di presentazione o deposito della relativa dichiarazione adempimento al quale può essere delegato – ove l’atto contempli espressamente tale facoltà – il sostituto processuale del difensore e procuratore speciale, che opera in funzione vicaria del difensore e, dunque, nell’esercizio dei poteri di rappresentanza processuale.

All’interno di tale indirizzo si colloca il peculiare orientamento espresso da Sez. 5, n. 18508 del 16/02/2017, Fulco, Rv. 270208, che, pur ritenendo legittimamente esercitabile la facoltà del difensore di sostituzione anche con riguardo al profilo della legitimatio ad causam, fonda il proprio convincimento sul dato che ciò che viene in gioco non è certo la spendita, da parte del sostituto, del potere di costituzione di parte civile, comunque preclusagli perché effettivamente non delegabile, ma l’attività di mero deposito dell’atto di costituzione in giudizio.

In altri termini, seppur al sostituto processuale del procuratore speciale non può essere riconosciuto il potere di costituirsi parte civile, perché privo di legitimatio ad causam, non si ravvisa ostacolo alla possibilità che a questi sia delegato il deposito dell’atto di costituzione di parte civile dal difensore al quale il danneggiato dal reato abbia conferito procura speciale, a condizione che la procura preveda espressamente una simile facoltà. Ciò per la portata generale della previsione di cui all’art. 102 cod. proc. pen. A tale adempimento il difensore può provvedere, infatti, «anche a mezzo del proprio sostituto eventualmente nominato ai sensi dell’art. 102 cod. proc. pen., il quale non si costituisce in sua vece, ma si limita per l’appunto al deposito dell’atto di costituzione».

Un terzo indirizzo, in posizione mediana tra i primi due, pur ribadendo il principio per il quale il sostituto processuale del procuratore speciale e difensore nominato dalla persona offesa non ha il potere di costituirsi parte civile in ragione dello spettro applicativo dell’art. 102 cod. proc. pen., osserva che l’espresso conferimento al difensore, all’interno della “procura speciale”, della facoltà di nominare sostituti processuali e di presentare personalmente a mezzo degli stessi l’atto di costituzione di parte civile, costituisce una esplicita manifestazione di volontà della persona offesa di consentire l’esercizio dei diritti a lei facenti capo in giudizio anche a sostituti processuali del difensore nominato (Sez. 5, n. 18258 del 07/01/2016, Luciotti, non mass.). In tale ipotesi «il sostituto designato è in realtà soggetto espressamente designato dal procuratore speciale a svolgere la sua medesima attività: non, quindi, mero sostituto processuale ex art. 102 cod. proc. pen. sfornito di poteri speciali, ma soggetto che deriva la propria legittimazione da uno specifico conferimento di incarico in tutto analogo a quello affidato al difensore originario che, per effetto della procura speciale rilasciatagli, è nelle condizioni di nominare altro soggetto in sua vece dotato dei medesimi poteri ed investito dei medesimi compiti» (Sez. 3, n. 50329 del 29/10/2015 – dep. 2016 –, Vitali, non mass.).

L’orientamento tende ad individuare elementi di coerenza ed armonizzazione con la giurisprudenza civile, secondo cui, qualora la procura notarile alle liti contenga un autonomo mandato ad negotia, conferente al difensore anche il potere di nominare altri difensori, questi, in forza della rappresentanza sostanziale attribuitagli, può validamente rilasciare in nome del dominus altre procure speciali (in tal senso, Sez. 5, n. 11954 del 08/02/2005, Marino, Rv. 231713).

Il potere in base al quale il procuratore speciale attribuisce la facoltà di costituzione di parte civile ad un delegato è da intendersi conferito direttamente dal rappresentato persona offesa, come osservato da Sez. 5, n. 30793 del 27/05/2014, Rizzo, non mass., risolvendosi in un «esercizio di puro formalismo» la necessità di conferimento da parte della persona offesa di una specifica ed ulteriore procura speciale al sostituto al fine della costituzione di parte civile (Sez. 5, n. 14718 del 04/02/2014, Scaravilli, non mass.).

4. La soluzione del contrasto: i poteri di rappresentanza processuale del sostituto.

Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite sgombrano il campo dalla possibilità di riconoscere in via generale la facoltà del sostituto del difensore della parte civile di effettuare la costituzione in applicazione dell’art. 102 cod. proc. pen., come sostenuto dall’orientamento più estensivo.

Ciò in ragione della necessità, nella disciplina dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale, di mantenere rigorosamente distinti i suindicati profili della legitimatio ad causam, che investe l’esercizio del diritto sostanziale, e della legitimatio ad processum, che attiene alla rappresentanza e difesa tecnica nel processo.

L’utilizzo da parte del legislatore del medesimo termine “procura speciale” non ingenera equivoci in ordine al fatto che la procura speciale rilasciata al difensore dalla parte civile ex art. 100 cod. proc. pen. sia unicamente ed esclusivamente finalizzata al conferimento dei poteri di rappresentanza in giudizio, non potendo conferirsi con la stessa anche il potere di spendita del diritto sostanziale alle restituzioni e al risarcimento del danno prodotti dal reato. Tale potere sostanziale può essere, infatti, trasferito dal danneggiato al terzo solo in virtù di apposita (distinta) procura speciale rilasciata ai sensi degli artt. 122 e 76 cod. proc. pen.

La delineata differenza tra le due procure speciali resta tale anche nell’ipotesi in cui il danneggiato con il medesimo atto conferisca, unitamente alla procura di cui agli artt. 76 e 122 cod. proc. pen., anche il patrocinio tecnico nel processo, non sussistendo nell’ordinamento alcuna disposizione normativa che vieti il cumulo, in unico atto, di tali distinte scritture (in tal senso il citato arresto di Sez. U, n. 44712 del 27/10/2004, Mazzarella, Rv. 229179).

Il cumulo delle due distinte procure in un unico atto non ne elide l’autonomia contenutistica. La previsione generale della facoltà di nomina di un sostituto processuale ex art. 102 cod. proc. pen. non può che riguardare esclusivamente il conferimento del potere di rappresentanza tecnica al sostituto, volto a consentire alla parte rappresentata di stare in giudizio, e non è suscettibile di estendere la propria efficacia al diverso piano della legittimazione all’esercizio dell’azione civile del difensore, che necessita del conferimento della procura di cui agli artt. 76 e 122 cod. proc. pen. 

La distinzione netta tra i due profili di legittimazione, disciplinati in modo separato, non consente di affermare che ai sensi dell’art. 102 cod. proc. pen. il difensore possa conferire al sostituto il potere del potere di costituirsi parte civile.

Per le medesime ragioni le Sezioni Unite ritengono non condivisibile – ed in contrasto con l’assetto normativo delineato – anche l’orientamento peculiare espresso dalla richiamata Sez. 5, n. 18508 del 16/02/2017, Fulco, Rv. 270208, che ammette la possibilità di delegare al sostituto il mero deposito dell’atto di costituzione in giudizio, quale compito materiale-esecutivo estraneo all’esercizio dei poteri connessi alla legittimazione sostanziale, presupponendo necessariamente questa evenienza una costituzione già avvenuta.

Del resto, le Sezioni Unite osservano che la presentazione in udienza della dichiarazione di costituzione, lungi dall’essere un mero adempimento esecutivo, costituisce modalità intrinseca di perfezionamento stesso della costituzione, in alternativa rispetto al deposito in cancelleria, come si evince dal disposto dell’art. 78 cod. proc. pen.

Le Sezioni Unite sposano, quindi, la linea esegetica “restrittiva”, valorizzando le ragioni espresse dall’indirizzo tradizionale (par. 3, punto n. 1) per il quale la legitimatio ad processum non conferisce al procuratore e difensore la facoltà di farsi sostituire ex art. 102 cod. proc. pen. da altro difensore per la costituzione di parte civile in udienza.

Il potere di costituzione di parte civile, anche a mezzo di sostituto del difensore, deve derivare dalla volontà espressa dal danneggiato all’atto del conferimento dei poteri di esercizio del diritto sostanziale ad agire.

Tuttavia, non si esclude che il danneggiato possa, al contempo, attribuire al difensore, all’atto del rilascio della procura speciale, la facoltà di farsi sostituire da altro difensore ai fini della costituzione. Siffatta facoltà attribuita al sostituto, per l’ambito formale nel quale avviene il conferimento della stessa, attiene pur sempre all’esercizio del potere di costituzione di parte civile e non alla rappresentanza tecnica. Una siffatta previsione aggiuntiva contenuta nella procura rilasciata ex art. 76 cod. proc. pen. attribuisce il potere di costituzione di parte civile anche in capo al “sostituto”, derivando i poteri di questi dalla espressa volontà del titolare del diritto.

La necessità di un esplicito atto di conferimento di poteri di rappresentanza sostanziale da parte del danneggiato al sostituto del difensore porta ad escludere, a contrario, che il mero rilascio della “procura speciale difensionale” sia idoneo a legittimare il sostituto nominato ex art. 102 cod. proc. pen. alla costituzione di parte civile, restando questi titolare del rapporto processuale e l’istanza risarcitoria circoscritta alle sole disposizioni di cui agli artt. 76 e 122 cod. proc. pen.

In tal modo trova giustificazione il diverso requisito di forma richiesto per la procura all’esercizio dei poteri del difensore, per la quale, a differenza di quella dettata per la procura speciale ex art. 122 cod. proc., non è richiesto la determinazione dell’oggetto per cui è conferita e dei fatti ai quali essa si riferisce.

Del resto, quanto alla prospettata possibilità di legittimazione del sostituto al deposito dell’atto di costituzione in giudizio, sul piano della corretta sequenza processuale la costituzione di parte civile si perfeziona solo con la presentazione dell’atto in udienza, salvo che l’atto non sia stato precedentemente depositato in cancelleria, ciò che rende logicamente non sostenibile un potere di sostituzione conferito con il solo mandato difensivo.

Il conferimento del potere di sostituzione sostanziale mediante procura difensionale non potrebbe efficacemente operare, atteso che questa, attribuendo il compito di stare in giudizio per conto del danneggiato, presuppone logicamente una parte civile già costituita. La parte civile sta, infatti, in giudizio col ministero di un difensore solo successivamente alla presentazione dell’atto di costituzione o al deposito in precedenza effettuato in cancelleria.

In definitiva, il carattere speciale delle disposizioni processuali penali e le evidenziate ragioni logico-sistematiche costituiscono ostacolo insormontabile all’automatica trasposizione nel processo penale delle linee interpretative sul mandato ad litem di elaborazione processual-civilistica, laddove si afferma che «qualora la procura alle liti conferisca al difensore il potere di nominare altro difensore, deve ritenersi che essa contenga un autonomo mandato ad negotia – non vietato dalla legge professionale né dal codice di rito – che abilita il difensore a nominare altri difensori, i quali non hanno veste di sostituti del legale che li ha nominati, bensì, al pari di questo, di rappresentanti processuali della parte» (da ultimo, Sez. 3 civ., n. 1756 del 08/02/2012, Sestili c. Capitalia Spa, Rv. 621422; Sez. 3 civ., n. 12598 del 16/10/2001, Pagnoni c. Levante Assic. Spa, Rv. 549663; Sez. 1 civ., n. 9493 del 28/06/2002, Sherwood Producers & Exporters Limited c. Conceria Tre Emme, Rv. 555456, quest’ultima con riferimento alla possibilità per il difensore di rilasciare ad altri difensori procura speciale a proporre ricorso per cassazione).

5. I princìpi corollario sui requisiti di forma e le condizioni legittimanti il difensore alla nomina del sostituto.

Le Sezioni Unite esprimono, inoltre, due principi corollario in tema di requisiti formali e condizioni legittimanti il difensore al conferimento del potere di rappresentanza sostanziale al sostituto.

Si afferma in proposito che la facoltà di costituirsi parte civile non possa essere ordinariamente esercitata dal sostituto processuale del difensore, al quale soltanto il danneggiato abbia rilasciato procura speciale al fine di esercitare l’azione civile nel processo penale, perché tale facoltà non è connaturata all’esercizio del mandato difensivo. La facoltà di nominare un sostituto per la costituzione di parte civile deve essere espressamente prevista nella procura speciale ovvero, in assenza di tale previsione, è necessario che il danneggiato sia presente all’udienza di costituzione.

La previsione espressa nell’atto di procura speciale del potere di nominare un sostituto in capo al difensore-procuratore della costituenda parte civile, ai sensi degli artt. 76 e 122 cod. proc. pen., è requisito “necessario e sufficiente” per la legittimazione sostanziale del sostituto: “necessario”, perché solo una previsione formale garantisce il conferimento al sostituto del diritto sostanziale di cui il mandante è titolare; “sufficiente” perché non può pretendersi che il danneggiato conferisca una ulteriore apposita procura speciale direttamente in capo al sostituto. Una simile previsione, come osservato da Sez. 3, n. 6184 del 2015, Dami, cit., si risolverebbe nella pretesa di un adempimento meramente formale pur a fronte di una volontà chiaramente espressa dal titolare del rapporto.

Del resto, il potere di sostituzione ben può operare anche ove la relativa previsione sia contenuta in unico atto con il quale, come nella specie, siano conferite sia la procura di cui agli artt. 76 e 122 sia la procura di cui all’art. 100, essendo tale potere comunque “coperto” dal conferimento della prima.

La necessità e sufficienza di una chiara espressione di volontà del titolare del diritto esercitato e del rapporto sostanziale consente, inoltre, di ritenere corretta la tesi giurisprudenziale secondo la quale la presenza in udienza della persona offesa, in assenza di procura speciale rilasciata al difensore o al sostituto da questi designato, è da considerarsi alla stessa stregua dell’esercizio personale della facoltà di costituirsi parte civile, modalità espressamente prevista dall’art. 76 cod. proc. pen. (in tal senso, Sez. 4, n. 41790 del 11/06/2009, Valerio, Rv. 245534; Sez. 4, n. 24455 del 22/04/2015, Plataroti, Rv. 263730).

Infine, giustifica l’affermazione secondo cui «l’assenza di legittimazione all’esercizio dell’azione civile da parte del difensore, per difetto di procura speciale, ovvero da parte del sostituto processuale, per difetto dei relativi poteri sostanziali, è sanata mediante la presenza in udienza della persona offesa, che consente di ritenere la costituzione di parte civile come avvenuta personalmente» (Sez. 4, n. 49158 del 26/10/2017, Sanapo, non mass.).

La tesi è in linea con l’orientamento giurisprudenziale che ritiene irrilevante il conferimento della procura speciale laddove il difensore ponga in essere delle attività in presenza della parte interessata (ad esempio, in tema di richiesta di rito abbreviato, cfr. Sez. U, n. 9977 del 31/01/2008, Morini, Rv. 238680; da ultimo, Sez. 3, n. 1946 del 27/04/2016 – dep. 2017 –, Salerno, Rv. 268922).

6. Il termine di decorrenza per la proposizione della querela nel delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice.

Le Sezioni Unite, decidendo sull’eccezione di tardività della querela proposta, formulata dal ricorrente, affrontano anche la questione della decorrenza del termine per la proposizione della querela nell’ipotesi delittuosa di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice (art. 388 cod. pen.).

In particolare, pur escludendo la rilevanza in concreto della questione in quanto nel caso di specie la condotta delittuosa si è realizzata solo in data successiva a quella indicata dal ricorrente, ossia all’atto della stipula del contratto di compravendita del bene immobile sottratto alla garanzia dei creditori, la Corte ha inteso ribadire l’orientamento, già espresso da Sez. 6, n. 37962 del 15/10/2010, Severino, Rv. 248604 (in senso conforme, Sez. 5, n. 2486 del 10/11/1998 – dep. 1999 –, Poli e altri, Rv. 212720), secondo cui il termine per la querela per il delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice decorre dalla data in cui l’inottemperanza pervenga a conoscenza del creditore, restando a carico di chi deduca la tardività della querela la prova della tempestività della stessa.

7. Le ricadute sulla giurisprudenza della Corte.

Con sentenza Sez. 5, n. 55925 del 17/10/2018, p.o. in proc. La Pietra, allo stato non massimata, la Corte ha preso atto che, in un processo per il delitto di cui all’art. 582 cod. pen., il giudice di pace, in applicazione del principio di diritto enunciato da Sez. U, n. 12213 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Zucchi, dichiarava inammissibile la costituzione di parte civile della parte offesa sul rilievo che la relativa dichiarazione era stata effettuata dal sostituto processuale del difensore e procuratore speciale della parte civile, in assenza di espresso conferimento della facoltà nella procura ovvero della presenza del danneggiato in udienza.

Nel dichiarare inammissibile il ricorso proposto dalla parte civile avverso l’ordinanza dibattimentale di esclusione della parte civile dal processo, non ravvisandone l’abnormità, la Suprema Corte ha rilevato come non fosse di «solare evidenza» la legittimazione processuale del sostituto processuale, nominato procuratore speciale, in proprio, affinché provvedesse alla costituzione nel procedimento penale con dichiarazione in calce all’atto di costituzione di parte civile.

Le ricadute della pronuncia Sez. U, n. 12213 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Zucchi, hanno riguardato anche il principio in tema di decorrenza del termine per la querela (massimato in Rv. 272170 con riferimento al delitto di cui all’art. 388 cod. pen.).

Il principio è stato espressamente richiamato nelle due decisioni Sez. 2, n. 49103 del 21/09/2018, Antoniotti, e Sez. 7, n. 50596 del 23/10/2018, Pasquini, entrambe non massimate.

Con le citate pronunce, la Corte, decidendo sulla eccezione di intempestività della querela proposta, ha osservato che il termine per proporre querela comincia a decorrere dalla data di piena cognizione dei fatti di rilievo penale da parte dell’interessato – il creditore, nel caso del delitto di cui all’art. 388 cod. pen. - restando a carico di chi deduce la tardività della querela la prova del difetto di tempestività della stessa.

In ogni caso l’istanza punitiva deve ritenersi tempestiva quando vi sia incertezza se la conoscenza precisa, certa e diretta del fatto, in tutti i suoi elementi costitutivi, da parte della persona offesa sia avvenuta entro oppure oltre il termine previsto per esercitare utilmente il relativo diritto. La decadenza, infatti, ai sensi dell’art. 124 cod. pen. deve essere accertata secondo criteri rigorosi e non sulla base di supposizioni prive di adeguato supporto probatorio (in tale senso, Sez. 6, n. 24380 del 12/03/2015, P., Rv. 264165).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 5, n. 3769 del 07/03/1995, Prati, Rv. 201061 Sez. 5, n. 2486 del 10/11/1998 – dep. 1999-, Poli, Rv. 212720 Sez. U, n. 44712 del 27/10/2004, Mazzarella, Rv. 229179 Sez. 5, n. 11954 del 08/02/2005, Marino, Rv. 231713 Sez. 3, n. 22601 del 13/05/2005, Fiorenzano, Rv. 231793 Sez. U, n. 9977 del 31/01/2008, Morini, Rv. 238680 Sez. 4, n. 41790 del 11/06/2009, Valerio, Rv. 245534 Sez. 5, n. 6680 del 23/10/2009 – dep. 2010 –, Capuana, Rv. 246147 Sez. 5, n. 19548 del 03/02/2010, Schirru, Rv. 247497 Sez. 6, n. 37962 del 15/10/2010, Severino, Rv. 248604 Sez. 5, n. 10396 del 14/12/2012 – dep. 2013 –, Malfagia Sez. F, n. 35486 del 06/08/2013, Amato Sez. 5, n. 51161 del 24/10/2013, Morozova Sez. 5, n. 14718 del 04/02/2014, Scaravilli Sez. 5, n. 30793 del 27/05/2014, Rizzo Sez. 3, n. 6184 del 05/11/2014 – dep. 2015 –, Dami Sez. 6, n. 24380 del 12/03/2015, P., Rv. 264165 Sez. 4, n. 24455 del 22/04/2015, Plataroti, Rv. 263730 Sez. 3, n. 50329 del 29/10/2015 – dep. 2016 –, Vitali Sez. 5, n. 18258 del 07/01/2016, Luciotti Sez. 3, n. 1946 del 27/04/2016 – dep. 2017 –, Salerno, Rv. 268922 Sez. 2, n. 22473 del 12/05/2016, Rando Sez. U, n. 12213 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Zucchi, Rv. 272169-170-171 Sez. 2, n. 15812 del 08/03/2017, Baraghoui Kalid, Sez. 5, n. 38763 del 28/06/2017, Santarelli Sez. 5, n. 18508 del 16/02/2017, Fulco, Rv. 270208 Sez. 4, n. 49158 del 26/10/2017, Sanapo Sez. 2, n. 49103 del 21/09/2018, Antoniotti Sez. 7, n. 50596 del 23/10/ 2018, Pasquini Sez. 5, n. 55925 del 17/10/2018, La Pietra

SEZIONE III PROVE

  • reato
  • sequestro di beni
  • prova

CAPITOLO I

LA MOTIVAZIONE DEL SEQUESTRO PROBATORIO DI COSE COSTITUENTI CORPO DI REATO

(di Giuseppe Marra )

Sommario

1 Il contrasto giurisprudenziale. - 2 I principi espressi in precedenza dalle Sezioni Unite. - 3 La sentenza delle Sezioni unite n. 36072 del 2018, Botticelli. - Indice delle sentenze citate

1. Il contrasto giurisprudenziale.

Con ordinanza Sez. 3, n. 3677/2018 del 1/12/2017 – dep. 2018 –, è stata rimessa alle Sezioni unite la questione controversa individuata nei seguenti termini: “Se, per le cose che costituiscono corpo di reato, il decreto di sequestro probatorio possa essere motivato con formula sintetica ove la funzione probatoria del medesimo costituisca connotato ontologico ed immanente del compendio sequestrato, di immediata evidenza, desumibile dalla peculiare natura delle cose che lo compongono o debba, invece, a pena di nullità, essere comunque sorretto da idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita, in concreto, per l’accertamento dei fatti”, avendo ravvisato la Terza sezione la permanenza di un contrasto giurisprudenziale malgrado le precedenti decisioni del massimo consesso (come si vedrà di seguito) sul tema della motivazione del sequestro probatorio del corpo del reato. Va subito sottolineato che il tema oggetto della rimessione alle Sezioni Unite ha riguardato un ambito piuttosto circoscritto, in quanto non si discuteva se il sequestro probatorio del corpo del reato avesse natura obbligatoria oppure fosse facoltativo, sembrando implicita la seconda opzione, e neppure si questionava se la finalità probatoria del sequestro del corpo del reato fosse in “re ipsa” e quindi si potesse prescindere dal motivare sul punto, ritenendo invece necessario e sufficiente motivare in ordine alla configurabilità del bene da apprendere come corpo del reato. Il quesito formulato dalla Terza sezione ha riguardato invece il quantum dell’onere motivazionale nel caso in cui la funzione probatoria del sequestro del corpo del reato costituisse connotato ontologico ed immanente del compendio sottoposto al vincolo, di immediata evidenza, desumibile dalla peculiare natura delle cose; se, quindi, in questi casi che sono certamente molto frequenti nella pratica giudiziaria (basti pensare ai procedimenti per violazione del d.P.R. n. 309 del 1990), le forze dell’ordine ed il pubblico ministero potessero utilizzare formule sintetiche per evidenti ragioni di semplificazione ed economia degli atti processuali, oppure fosse sempre necessario, a pena di nullità del provvedimento, esplicitare una motivazione adeguata circa la necessità del sequestro per l’accertamento dei fatti.

In questi ultimi termini si segnalano tra le tante le seguenti sentenze: Sez. 5, n. 1769 del 7/10/2010 – dep. 2011 –, Cavone, Rv. 249740, che ha ribadito il principio in base al quale è nullo il decreto di convalida del sequestro probatorio operato dalla polizia giudiziaria su cose costituenti corpo di reato, in difetto di idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita, in concreto, per l’accertamento dei fatti e poi Sez. 2, n. 32941 del 13/07/2012, Albanese, Rv. 253658, secondo cui anche per le cose che costituiscono corpo di reato il decreto di sequestro probatorio deve essere sorretto, a pena di nullità, da idonea motivazione in ordine alla finalità perseguita.

Altre sentenze dello stesso filone interpretativo hanno valorizzato l’argomento della necessità del giusto equilibrio tra i motivi di interesse generale e il sacrificio del diritto del singolo al rispetto dei suoi beni, come ad esempio: Sez. 3, n. 13044 del 6/03/2013, Borri, Rv. 255116 e Sez. 5, n. 46788 del/03/2013, Scriva, Rv. 257537 nonché, più di recente, da Sez. 3, n. 45034 del 24/09/2015, Zarrillo, Rv. 265391 e Sez. 3, n. 11935 del 10/10/2016 – dep. 2017 –, Zamfir, Rv.270698, la cui massima afferma: “Il decreto di sequestro probatorio di cose costituenti corpo di reato deve essere necessariamente sorretto, a pena di nullità, da idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita per l’accertamento dei fatti, allo scopo di garantire, in conformità agli artt. 42 Cost. e 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che la misura sia soggetta ad un permanente controllo di legalità, anche sotto il profilo procedimentale, e di concreta idoneità in ordine all’”an” ed alla durata della stessa, in modo da assicurare un ragionevole rapporto di proporzionalità fra mezzo impiegato (spossessamento del bene) e fine endoprocessuale perseguito (accertamento del fatto reato)”.

Di particolare interesse sono alcune sentenze che sembrano invece optare per un’attenuazione motivazionale o comunque una necessaria modulazione della motivazione stessa con riguardo all’oggetto in concreto da sottoporre al sequestro probatorio; ad esempio sono da segnalare le sentenze Sez. 5, n. 13594 del 27/02/2015, Gattuso, Rv. 262898 e Sez. 2, n. 11325 del 11/02/2015, Caruso, Rv. 263130, la cui massima afferma: “In tema di sequestro probatorio del corpo di reato, la motivazione del provvedimento impositivo del vincolo reale deve essere modulata in relazione al caso concreto e dovrà, in particolare, essere rafforzata ogni qual volta il nesso tra il bene e il reato per cui si procede sia indiretto, mentre potrà farsi ricorso ad una formula sintetica nei casi in cui la funzione probatoria del sequestro sia di immediata evidenza. (Fattispecie in materia di ricettazione, nella quale la Corte ha ritenuto adeguatamente motivato il sequestro probatorio di tre sacchetti di coppella di argento e un lingotto di metallo giallo giustificato dalla necessità di verificare se fossero di provenienza furtiva)”. Anche la sentenza Sez. 2, n. 44416 del 16/09/2016, Di Vito, Rv. 268724, mostra un’attenzione particolare al caso concreto; infatti pur ribadendo la necessità della motivazione specifica del sequestro probatorio del corpo del reato, ha tuttavia precisato che “È evidente altresì che tale onere motivazionale deve essere modulato in ragione della progressione processuale e della particolarità del bene sequestrato, con riferimento al suo collegamento con il reato (nella fase iniziale delle indagini è stato ad esempio ritenuto legittimo il decreto di convalida apposto in calce al verbale della polizia giudiziaria che si limiti ad indicare gli articoli di legge per cui si intende procedere, richiamandone “per relationem” il contenuto, sempre che i fatti per cui si procede risultino compiutamente decritti nel verbale di sequestro; circa l’esigenza probatoria del corpo di reato si è sostenuto che è sufficiente motivare in ordine alla sussistenza delle relazione di immediatezza tra la res sequestrata ed il reato oggetto d’indagine)”. Meritevole di segnalazione è poi la sentenza Sez. 3, n. 1145 del 27/04/2016 – dep. 2017 –, Bernardi, Rv. 268736, che distingue la consistenza della motivazione a secondo del bene individuato come corpo del reato. La massima infatti afferma che “Il decreto di sequestro probatorio del corpo di reato deve essere necessariamente sorretto, a pena di nullità, da idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita, in concreto, per l’accertamento dei fatti, potendo farsi ricorso ad una formula sintetica nel solo caso in cui la funzione probatoria del corpo del reato sia connotato ontologico ed immanente del compendio sequestrato, di immediata evidenza, desumibile dalla peculiare natura delle cose che lo compongono”.

Un orientamento minoritario, espresso però da un numero di pronunce non certo esiguo, ha invece continuato ad affermare che nel caso di sequestro probatorio del corpo di reato, non è necessaria specifica motivazione sulla funzionalità ai fini dell’accertamento dei fatti. In questi termini, più di recente, si sono espresse le sentenze, Sez. 2, n. 6149 del 9/02/2016, Ciurlino, Rv. 266072 e Sez. 2, n. 46357 del 20/07/2016, Mastellone, Rv. 268510, che hanno sostenuto in maniera netta il principio che il decreto di sequestro probatorio delle cose che costituiscono corpo del reato deve essere sorretto, a pena di nullità, da idonea motivazione in ordine alla sussistenza della relazione di immediatezza tra la “res” sequestrata ed il reato oggetto di indagine, non anche in ordine alla necessità di esso in funzione dell’accertamento dei fatti, poiché l’esigenza probatoria del corpo del reato è in “re ipsa”, precisando altresì in motivazione che “....in tema di misure cautelari reali, costituisce sequestro penale obbligatorio quello del corpo del reato che mira a sottrarre all’indagato tutte le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso, nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto e il prezzo. Sotto tale aspetto, il sequestro del corpo di reato non ha nulla a che vedere con il sequestro delle cose pertinenti al reato, che è, invece, facoltativo e presuppone la tutela delle esigenze probatorie”. In questo filone per ultimo si richiama anche la sentenza Sez. 2, n. 52259 del 28/10/2016, Esposito, Rv. 268734 che in motivazione, ha, tra l’altro, precisato che l’art. 253, comma 1, cod. proc. pen., ricollega teleologicamente la necessità di accertamento dei fatti solo all’apprensione delle cose pertinenti al reato, non anche al corpo di reato che si pone in collegamento diretto ed immediato con la fattispecie incriminatrice evocata, tanto da giustificare in via generale la previsione della confisca ex art. 240 cod. pen.

2. I principi espressi in precedenza dalle Sezioni Unite.

La prima sentenza delle Sezioni Unite, che ha affrontato il tema, seppur incidentalmente, è Sez. U, n. 10 del 18 giugno 1991, Raccah, Rv. 187861, che sostenendo l’obbligo di specifica motivazione del sequestro probatorio del corpo di reato ha espresso le seguenti considerazioni: “La formula dell’art. 253 comma 1 c.p.p. (“L’autorità giudiziaria dispone con decreto motivato il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie per l’accertamento dei fatti”) per la sola considerazione che è stato usato l’aggettivo “necessarie”, di genere femminile, non giustifica la conclusione che quando il sequestro concerne il corpo del reato non occorre che le esigenze probatorie siano indicate nel provvedimento e siano controllate in sede di riesame. L’argomento letterale non è decisivo dato che per ragioni di immediata contiguità sintattica è possibile la concordanza dell’aggettivo con l’ultimo nome femminile, quando questo è plurale, anche se viene preceduto da nomi maschili, mentre resta decisiva la considerazione che in ogni caso il decreto deve essere motivato e che, potendo il sequestro (anche quello del corpo del reato) avvenire sia per finalità probatorie, sia per finalità preventive, soggette a regole diverse, l’autorità che lo dispone non può non indicare le finalità che con il provvedimento intende perseguire, così come il giudice del riesame non può non controllare queste finalità per verificare, anche sotto l’aspetto procedimentale, la legittimità del decreto”. La motivazione ha poi evidenziato che non può ritenersi che il corpo del reato sia sempre necessario per l’accertamento dei fatti, e che quindi debba in ogni caso formare oggetto di un sequestro probatorio, sia perché certamente nella realtà ciò non sussiste, sia perché lo stesso legi

slatore mostra di ritenere imprescindibile il nesso tra la misura e le esigenze probatorie imponendo, ai sensi dell’art. 262, comma 1, cod. proc. pen., la restituzione delle cose “quando non è necessario mantenere il sequestro ai fini di prova”, senza distinzioni di sorta, quindi anche di quelle che costituiscono corpo del reato.

La questione è stata nuovamente esaminata pochi anni dopo dalla sentenza Sez. U, n. 2 del 11 febbraio 1994, P.M. in proc. Carella ed altri, Rv. 196261, giustificando l’opportunità del nuovo intervento in considerazione del fatto che sul tema specifico le Sezioni unite si erano espresse incidenter tantum, vertendo il contrasto da risolvere nel 1991 principalmente su altra questione giuridica. La sentenza, mutando l’orientamento precedente, ha affermato in massima il seguente principio: “In tema di sequestro probatorio, in relazione alle cose che assumono la qualifica di “corpo di reato” non è necessario offrire la dimostrazione della necessità del sequestro in funzione dell’accertamento dei fatti, atteso che l’esigenza probatoria del “corpus delicti” è “in re ipsa”. Ne consegue che i provvedimenti dell’autorità giudiziaria di sequestro o di convalida del sequestro sono sempre legittimi quando abbiano ad oggetto cose qualificabili come “corpo di reato”, essendo necessario e sufficiente, a tal fine, che risulti giustificata tale qualificazione, senza che occorra specifica motivazione sulla sussistenza nel concreto delle finalità proprie del sequestro probatorio. (La Cassazione ha altresì evidenziato, da un lato, che comunque i provvedimenti in questione devono avere una motivazione, seppur limitata alla sola configurabilità delle cose come “corpo di reato”, e, dall’altro, che anche per ciò che attiene al “corpo del reato” è applicabile il disposto dell’art. 262 cod. proc. pen., secondo il quale tutte le cose sequestrate vanno restituire “a chi ne abbia diritto”, quando non è più necessario mantenere il sequestro ai fini di prova).”

A sostegno delle suddette conclusioni le Sezioni unite hanno svolto diverse considerazioni. In motivazione, in primo luogo, si trova l’argomento formale tratto dalla lettera della norma, con cui si è evidenziato che l’indicazione nell’art. 253 cod. proc. pen. dell’aggettivo “necessario” declinato al plurale femminile, sembrerebbe riferito solo alle cose pertinenti al reato e non anche al corpo di reato. In secondo luogo l’argomento di tipo sostanziale che fa perno sul concetto di “corpo di reato” che in linea di principio, implicherebbe un vincolo necessario con la prova del reato e postulerebbe l’esistenza di un rapporto di immediatezza tra la cosa e l’illecito penale, con conseguente necessaria efficacia probatoria diretta, in ordine all’avvenuta commissione di un reato ed alla sua attribuibilità ad un soggetto determinato: nel “corpo di reato”, dovrebbero perciò sempre considerarsi intrinseche una destinazione ed un’efficacia probatoria.

Permanendo i contrasti tra le sezioni semplici la questione è stata nuovamente portata al vaglio delle Sezioni Unite, che hanno pronunciato la sentenza Sez. U, n. 5876 del 28 gennaio 2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226711, così massimata sul punto: “Anche per le cose che costituiscono corpo di reato il decreto di sequestro a fini di prova deve essere sorretto, a pena di nullità, da idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita, in concreto, per l’accertamento dei fatti.” Questa decisione innanzi tutto ha sottolineato che il vigente codice di rito non prevede affatto, accanto alle tre forme tipiche di sequestro – probatorio, preventivo e conservativo –, la figura autonoma del sequestro del corpo di reato come ‘quartum genus’ suscettibile di automatica e obbligatoria applicazione in virtù della sola qualità della cosa, essendo invece necessario che ogni provvedimento diretto all’apprensione della res ed alla conseguente imposizione del vincolo temporaneo di indisponibilità su di essa rientri, per le specifiche finalità di volta in volta perseguite, in uno dei tre menzionati modelli legali. In particolare hanno poi affermato che: …l’apprensione del corpo di reato non sia sempre necessaria per l’accertamento dei fatti, oltre che dalla comune esperienza dettata dalla varietà delle vicende processuali, emerge inequivocamente dalla lettura coordinata della norma del primo comma dell’art. 253 con quella del primo comma dell’art. 262, la quale, senza operare alcuna differenziazione tra corpo di reato e cose pertinenti al reato, prevede la restituzione delle “cose sequestrate” a chi ne abbia diritto, anche prima della sentenza, “quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova”. Ma al di là dell’esegesi codicistica la sentenza delle Sezioni unite n. 5876 del 2004, Ferazzi, ha svolto delle considerazioni sistemiche sul rapporto tra provvedimenti coercitivi e diritti individuali, e, richiamando anche i principi di ragionevolezza e di proporzionalità di matrice sovranazionale (in particolare della CEDU), affermando che l’interpretazione secondo cui è necessaria un’idonea motivazione che sorregga il sequestro probatorio anche del corpo di reato è “…l’unica compatibile con i limiti dettati all’intervento penale sul terreno delle libertà fondamentali e dei diritti costituzionalmente garantiti dell’individuo, qual’è certamente il diritto alla “protezione della proprietà” riconosciuto dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il giusto equilibrio tra i motivi di interesse generale e il sacrificio del diritto del singolo al rispetto dei suoi beni, che il canone costituzionale e quello convenzionale pretendono, sarebbe altrimenti messo in irrimediabile crisi dall’opposta regola……E la lesione del principio di ragionevolezza e proporzionalità del vincolo reale sarebbe tanto più grave laddove si tratti di cose configurabili come corpo del reato, ma di proprietà della vittima o di terzi estranei alla condotta criminosa…”.

3. La sentenza delle Sezioni unite n. 36072 del 2018, Botticelli.

Malgrado i plurimi interventi del massimo Collegio, la permanenza del contrasto con numerose sentenze delle sezioni semplici ha indotto la Terza sezione a rimettere la questione alle Sezioni Unite, ai sensi del novellato art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen., ritenuto applicabile anche con riferimento alle decisioni intervenute prima dell’entrata in vigore della nuova disposizione.

Il contrasto è stato quindi composto con la sentenza Sez. U, n. 36072 del 19 aprile 2018, Botticelli, Rv. 273548, massimata nei seguenti termini: “Il decreto di sequestro probatorio – così come il decreto di convalida – anche qualora abbia ad oggetto cose costituenti corpo di reato, deve contenere una motivazione che, per quanto concisa, dia conto specificatamente della finalità perseguita per l’accertamento dei fatti.”

La decisione, dopo aver ripercorso le diverse interpretazioni fornite dalle Sezioni Unite, ha optato per dare continuità alla sentenza n. 5876 del 2004, Ferazzi in forza di molteplici argomentazioni, partendo dall’assunto che il sequestro del corpo di reato (come anche delle cose ad esso pertinenti) è in ogni caso facoltativo, non potendo condividersi le interpretazioni giurisprudenziali che attribuiscono natura obbligatoria a tale strumento.

In primo luogo è stato poi evidenziato che una corretta lettura dell’art. 253, comma 1, cod. proc. pen., non possa consentire nell’ambito dell’onere motivazionale chiaramente espresso dalla norma, differenziazioni di sorta tra corpo del reato da una parte e cose pertinenti al reato dall’altra. Né può trascurarsi, in senso convergente rispetto a questa prima osservazione, la mancanza, all’interno del codice di rito, di una regolamentazione autonoma del sequestro del corpo del reato accanto agli istituti generali del sequestro preventivo, del sequestro probatorio e del sequestro conservativo, con conseguente impossibilità di trattamenti differenziati (in dottrina tale tesi è stata sostenuta tra gli altri da: G. Fiorelli, Automatismi legati al corpus delicti. un nodo “immotivatamente” insoluto, in Cass. pen., 2014, n. 5, pagg. 1743 nonché A. Macchia, I mille significati del “corpo di reato” ai fini del sequestro probatorio. Definizioni conformi ma esiti decisionali contrastanti, in D&G, 2003, n. 39, pag. 25 ss.).

In secondo luogo, è stata molto valorizzata la previsione contenuta nell’art. 262, comma 1, cod. proc. pen., secondo cui “…quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova, le cose sequestrate sono restituite a chi ne abbia diritto prima della sentenza”, ritenuta dalla Corte norma di “valenza generale”. Infatti, è stato osservato, che se la non necessità di mantenimento in sequestro della cosa a fini di prova vale a sequestro già operato, a maggior ragione la stessa non necessità deve essere apprezzata al momento di iniziale imposizione del vincolo reale, se non altro per ragioni logica giuridica e di economia processuale. Tale assunto trova poi conferma anche nell’art. 354, comma 2, cod. proc. pen., che proprio facendo riferimento al momento genetico, attribuisce alla polizia giudiziaria il potere di procedere “se del caso”, al sequestro del corpo del reato e delle cose a questo pertinenti, locuzione che dimostra l’assenza di ogni automatismo tra l’individuazione del corpo del reato e il suo sequestro probatorio (in dottrina in questi termini: L. Filippi, Sull’obbligo di motivare il sequestro del corpo del reato, in Cass. pen., 1999, pag. 1221).

La terza argomentazione di rilievo espressa dalle Sezioni unite ha messo al centro dell’interpretazione i requisiti di ragionevolezza e proporzionalità della misura adottata rispetto all’esigenza perseguita; del resto la Cassazione, in più pronunce, ha ritenuto applicabili anche alle misure cautelari reali i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, dettati dall’art. 275 cod. proc. pen. per le misure cautelari personali, i quali devono costituire oggetto di valutazione preventiva e non eludibile da parte del giudice nell’applicazione delle cautele reali, al fine di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata.

È stato inoltre osservato che tale conclusione rappresenta un corretto bilanciamento dei diversi interessi coinvolti, nell’ottica di dare necessaria e concreta osservanza ai principi ricavabili dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le Sezioni Unite sul punto hanno quindi affermato che: “ ….solo valorizzando l’onere motivazionale è possibile, come sottolineato dalla più attenta dottrina, tenere “sotto controllo” l’intervento penale quanto al rapporto con le libertà fondamentali ed i beni costituzionalmente protetti quali la proprietà e la libera iniziativa economica privata, riconosciuti dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1 del Primo protocollo addizionale alla Convenzione Edu, come interpretato dalla Corte Edu; in tale ottica, la motivazione in ordine alla strumentalità della res rispetto all’accertamento penale diventa, allora, requisito indispensabile affinché il decreto di sequestro, per sua vocazione inteso a comprimere il diritto della persona a disporre liberamente dei propri beni, si mantenga appunto nei limiti costituzionalmente e convenzionalmente prefissati e resti assoggettato al controllo di legalità”.

Un’ultima annotazione va fatta con riferimento al quantum motivazionale richiesto ai magistrati. La Corte, pur premettendo che ovviamente non possibile in astratto stabilire il grado di idoneità del compendio argomentativo del provvedimento, ha però ricordato che già per le sentenze, per le quali è certamente richiesta una maggior diffusività, è lo stesso legislatore ad aver stabilito l’idoneità di una “concisa” esposizione dei motivi della decisione. Questa appare un’importante precisazione, utile anche per rispondere alle evidenziate esigenze di semplificazione processuale, soprattutto nei casi in cui è evidente che il sequestro del corpo di reato ha un’innegabile finalità probatoria (si pensi ad esempio al sequestro delle sostanze che si presumono essere stupefacenti).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 10 del 18/06/1991, Raccah, Rv. 187861 Sez. U, n. 2 del 11/02/1994, P.M. in proc. Carella e altri, Rv. 196261 Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226711 Sez. 5, n. 1769 del 7/10/2010 – dep. 2011 –, Cavone, Rv. 249740 Sez. 2, n. 32941 del 13/07/2012, Albanese, Rv. 253658 Sez. 5, n. 46788 del 15/03/2013, Scriva, Rv. 257537 Sez. 3, n. 13044 del 6/03/2013, Borri, Rv. 255116 Sez. 5, n. 13594 del 27/02/2015, Gattuso, Rv. 262898 Sez. 2, n. 11325 del 11/02/2015, Caruso, Rv. 263130 Sez. 3, n. 45034 del 24/09/2015, Zarrillo, Rv. 265391 Sez. 2, n. 6149 del 9/02/2016, Ciurlino, Rv. 266072 Sez. 3, n. 1145 del 27/04/2016 – dep. 2017 –, Bernardi, Rv. 268736 Sez. 2, n. 46357 del 20/07/2016, Mastellone, Rv. 268510 Sez. 2, n. 44416 del 16/09/2016, Di Vito, Rv. 268724 Sez. 2, n. 52259 del 28/10/2016, Esposito, Rv. 268734 Sez. 3, n. 11935 del 10/10/2016 – dep. 2017 –, Zamfir, Rv. 270698 Sez. 3, n. 3677 del 1/12/2017 – dep. 2018 –, Botticelli Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273548

SEZIONE IV MISURE CAUTELARI

  • sequestro di beni
  • udienza giudiziaria

CAPITOLO I

SULLA COMUNICAZIONE ALLA PARTE CIVILE DELL’AVVISO DI PARTECIPAZIONE ALL’UDIENZA CAMERALE DI RIESAME DELL’ORDINANZA DI SEQUESTRO CONSERVATIVO

(di Elena Carusillo )

Sommario

1 La questione. - 2 Precedente giurisprudenza. - 3 L’ordinanza di rimessione. - 4 Le soluzioni possibili. - 5 La decisione delle Sezioni Unite. - Indice delle sentenze citate

1. La questione.

La vicenda si incardina in un procedimento per reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale e trae origine da una istanza presentata, ex art 316 cod. proc. pen., dalla curatela fallimentare in qualità di parte civile, cui conseguiva il sequestro conservativo di alcuni immobili di proprietà di taluni degli imputati disposto dal gip.

A seguito di istanza di riesame, presentata dagli imputati colpiti dal provvedimento, il tribunale, con ordinanza non notificata alla curatela fallimentare, annullava la predetta misura cautelare reale, disponendo la restituzione dei beni agli aventi diritto sul presupposto che non si era evidenziata una sproporzione tra il patrimonio dei debitori e l’ammontare del debito tale da far presumere che le garanzie del credito potessero andare disperse.

Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione il fallimento, in persona del curatore, evidenziando, con un primo motivo, come il requisito del periculum fosse in re ipsa per aver i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, contestati dal pubblico ministero nella forma aggravata, procurato ad esso fallimento un danno di rilevante entità.

Con un secondo motivo il ricorrente eccepiva l’illegittimità del provvedimento impugnato per omessa notifica dell’avviso di fissazione della camera di consiglio per la trattazione dell’istanza di riesame proposta dagli imputati, richiamando, a sostegno delle sue ragioni, l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in tema di sequestro conservativo, la parte civile che ha chiesto ed ottenuto la misura, ha diritto all’avviso a pena di nullità del provvedimento ex art. 178 lett. c) cod. proc. pen., in base ad una lettura coordinata di tale norma con gli artt. 127 e 324 cod. proc. pen.

2. Precedente giurisprudenza.

La Corte sin dagli anni novanta aveva riconosciuto il diritto della parte civile a proporre ricorso per cassazione avverso l’ordinanza emessa dal tribunale del riesame sul rilievo dell’esistenza di un collegamento normativo tra l’art. 325 cod. proc. pen. e l’indicazione “chiunque” contenuta nell’art. 318 cod. proc. pen. e sul presupposto che l’omessa indicazione nell’art. 324, comma 6, cod. proc. pen. della parte civile tra i soggetti a cui deve essere diretto l’avviso, nasce dalla circostanza che tali norme fanno riferimento al procedimento incidentale incardinato nella fase delle indagini preliminari nel quale, dunque, non può ancora esservi costituzione di parte civile (Sez. 4, n. 2394 del 21/06/1995, Tirelli, Rv. 202021).

A tale interpretazione sistematica dei due articoli induceva la circostanza del loro inserimento nel contesto normativo delle misure cautelari reali.

La giurisprudenza di legittimità, dunque, era attestata sul convincimento che l’esclusione del diritto per la parte civile a ricevere l’avviso dell’udienza di riesame avrebbe comportato la violazione del diritto al contraddittorio e che il vulnus arrecato da tale omissione potesse essere riparato proprio dallo strumento del ricorso per cassazione per violazione della legge processuale (Sez. 6, n. 2394 del 02/06/1995, Tirelli, Rv. 202021; Sez. 2, n. 512 del 31/01/1996, Antonelli, Rv. 204763; Sez. 1, n. 4695 del 07/07/1997, Avaltroni, Rv. 208341), con conseguente possibilità di ricorso per cassazione per violazione dell’art. 178 cod. proc. pen., lett. c) e 127 comma 5 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 11887 del 09/03/2006, Mauri, Rv. 233812; Sez. 2, n. 40831 del 10/10/2007, Capogna, Rv. 237964; Sez. 6, n. 25610 del 17/03/2008, Figini, Rv. 240366; Sez. 5, n. 28082 del 05/04/2013, Fall. Soc. DKW S.r.l., Rv. 256320; Sez. 6, n. 25449 del 03/05/2013, Polichetti, Rv. 255472).

Si sviluppava, contestualmente agli ultimi arresti, un orientamento parallelo della giurisprudenza di legittimità che negava la suddetta legittimazione fondandosi sul dato letterale dell’art. 325, comma primo, cod. proc. pen., che non annovera la parte civile tra i soggetti legittimati a proporre ricorso per cassazione avverso le ordinanze emesse ex art. 322-bis e art. 324 cod. proc. pen., con la precisazione che la previsione di cui al secondo comma dell’art. 324 cod. proc. pen., sia da intendersi quale mera specificazione di quella contenuta nel primo comma e, comunque, riferibile ai ricorsi per cassazione contro i decreti e non contro le ordinanze di sequestro conservativo.

Inoltre, secondo tale orientamento, l’art. 318 cod. proc. pen., nel prevedere la legittimazione a proporre l’istanza di riesame in capo a “chiunque abbia interesse”, origina una discrasia solo apparente a fronte della natura meramente accessoria, nel processo penale, dell’azione civile, conformemente all’interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 424 del 1998 (Sez. 6, n. 20820 del 9/04/2013, Galati, Rv. 256231; Sez. 6, n. 5928 del 31/01/2012, Cipriani, Rv. 252076).

Il contrasto induceva alla rimessione alle Sezioni Unite per la risoluzione, che interveniva con la decisione di cui alla sentenza n. 47999 del 25/09/2014, Alizzi, Rv. 260895.

Il Supremo consesso, precisato che il quesito del quale era stato investito, in realtà, concerneva esclusivamente la legittimazione della parte civile a ricorrere per cassazione contro il provvedimento di revoca del sequestro conservativo, affermava il principio di diritto per cui “la parte civile non è legittimata a ricorrere per cassazione contro il provvedimento che annulli in tutto o in parte il provvedimento di sequestro conservativo, non essendo indicata tra i soggetti aventi titolo all’impugnazione dall’art. 325, comma primo, cod. proc. pen.”.

Nell’occasione, la Corte sottolineava come, con riferimento a violazioni di ordine processuale determinate dall’omesso avviso dell’udienza di riesame alla parte civile, non era mai sorto contrasto giurisprudenziale neanche all’interno di quella linea interpretativa che nega alla parte civile il diritto a proporre ricorso per cassazione contro l’ordinanza che ha revocato il sequestro conservativo “probabilmente proprio perché il contraddittorio era stato, nei casi di specie, osservato”.

Lo sforzo della Corte rispondeva alla esigenza derivante dalla circostanza che la non esaustività delle risposte fornite dagli arresti giurisprudenziali in tema di diritto di difesa della parte civile, avrebbe potuto porre in discussione (nonostante quello che può ormai definirsi “diritto vivente”) la legittimità dell’art. 324, comma 6, nella parte in cui non enumera la parte civile fra i soggetti destinatari degli avvisi della data stabilita per il procedimento di riesame, a fronte della necessità, anche nel procedimento incidentale, dell’osservanza del principio del contraddittorio.

Ad avviso delle Sezioni Unite, esclusa la legittimazione della parte civile a proporre riesame sul presupposto che l’art. 318 cod. proc. pen. non contiene alcuna previsione legittimante la parte civile ad utilizzare un mezzo di impugnazione predisposto a favore di soggetto diverso da quello che ha attivato la richiesta, non può neanche riconoscersi, alla stessa, il diritto a ricevere l’avviso dell’udienza di riesame in camera di consiglio.

Inoltre, la natura di gravame di tale giudizio appare inconciliabile con le ragioni della parte istante ex art 316 cod. proc. pen., così dovendosi escludere qualsiasi legame tra gli artt. 318 e 325 cod. proc. pen. 

Le Sezioni Unite, nella sentenza in commento, sottolineavano come, a norma dell’art. 324, comma 6, cod. proc. pen., il procedimento di riesame delle misure cautelari reali, “nelle forme previste dall’art. 127”, prevedendo l’avviso di fissazione dell’udienza per il pubblico ministero, il difensore, il proponente e non anche per la parte civile, ha valenza solo per il caso del procedimento incidentale che si svolge nella fase delle indagini preliminari, in cui, dunque, non vi è costituzione di parte civile (implicitamente riconoscendosi che il modello così congegnato può riguardare il solo sequestro preventivo) ed evidenziavano che, diversamente, laddove il procedimento cautelare si svolge dopo la detta costituzione (come nel caso di ricorso avverso il provvedimento dispositivo del sequestro conservativo), escluderla dall’udienza camerale determinerebbe indubbiamente la lesione del diritto al contraddittorio.

Risolutiva era la considerazione che l’art. 325 cod. proc. pen. non indica la parte civile tra i soggetti legittimati a proporre ricorso per cassazione.

Il solco tracciato dalla decisione delle Sezioni Unite con la sentenza innanzi citata non si rivelava dirimente.

Invero negli arresti successivi alla pronuncia delle Sezioni Unite, che pure ribadivano l’insussistenza della legittimazione della parte civile a proporre ricorso avverso il provvedimento assunto in sede di riesame contro l’ordinanza applicativa del sequestro conservativo, la parte civile risultava essere sempre stata destinataria dell’avviso (Sez. 2, n. 23086 del 14/05/2015, Consorzio di Casalpalocco, Rv. 263999; Sez. 3, n. 42230 del 19/02/2015, Ministero Dell’Economia Delle Finanze, Rv. 264962).

3. L’ordinanza di rimessione.

L’opportunità di un approfondimento del problema, auspicato dalla Corte nella sentenza “Alizzi”, veniva offerta dalla quinta sezione della Corte di Cassazione, investita del ricorso di cui in premessa che, con ordinanza n. 463 del 7 luglio 2017, rimetteva alle Sezioni Unite la soluzione di due quesiti: il primo in tema di legittimazione della parte civile a ricorrere per cassazione avverso il provvedimento, emesso in sede di riesame, di annullamento del sequestro conservativo disposto dal giudice di prime cure; il secondo in tema di legittimazione della parte civile a ricorrere per cassazione per mancato avviso della udienza di trattazione del provvedimento in sede di riesame.

I giudici, nella ordinanza di rimessione, sostanzialmente argomentavano che:

- una tutela della parte civile limitata alla sola fase della proposizione della richiesta di sequestro conservativo e poi interrotta nella sua evoluzione processuale, non può coincidere con la reale voluntas legis, la cui interpretazione necessita di coerenza con la tutela della suddetta posizione;

- l’art. 318 cod. proc. pen., attribuendo la facoltà di proporre il riesame a «chiunque vi abbia interesse» non può non comprendere anche la parte civile titolare dell’interesse sostanziale a non vedere dispersa la garanzia per il soddisfacimento delle pretese risarcitorie, da ciò derivando il riconoscimento della legittimazione non solo a proporre impugnazione avverso le ordinanze comunque rese in materia di sequestro conservativo ma anche a partecipare ai relativi giudizi da altri eventualmente promossi nel corso della fase sub-procedimentale;

- la distinzione tra gli istituti del sequestro preventivo e del sequestro conservativo trova una spiegazione “verosimilmente connessa all’avanzamento delle varie fasi processuali e all’ingresso nel processo della parte privata, coincidente con il soggetto danneggiato, con conseguente esigenza di ricomprendere, in un ambito soggettivo più ampio, anche i soggetti pregiudicati dall’applicazione della misura, oltre le parti già presenti nel processo”.

I giudici rimettenti sollecitavano una lettura sistematica e non strettamente letterale degli artt. 316, 318, 324, 325 cod. proc. pen. tale da indurre ad una soluzione in forza della quale alla parte civile sia consentito non solo chiedere la misura del sequestro conservativo (art. 316 cod. proc. pen.) ma anche proporre richiesta di riesame avverso una decisione contraria ai suoi interessi (art. 318 cod. proc. pen.) ed ancora partecipare all’udienza camerale del riesame (art. 324 cod. proc. pen.), proponendo ricorso per cassazione ex art. 325 cod. proc. pen. contro una decisione sfavorevole.

Non poteva non riconoscersi al terzo portatore di un interesse sostanziale, legato al prevedibile pregiudizio di una dispersione delle garanzie patrimoniali, un interesse processuale legato alla proposizione di un ricorso da altri avanzata al tribunale del riesame.

Alle Sezioni Unite, questa volta con un quesito diretto, si chiedeva una pronuncia che tenesse conto del ruolo centrale rivestito dalla parte civile nell’ambito del processo penale.

4. Le soluzioni possibili.

A fronte del quadro offerto dalle decisioni di legittimità, al Supremo consesso si prospettavano differenti orizzonti.

Da un lato dare continuità al decisum assunto dalle Sezioni Unite con la sentenza “Alizzi”, e, dunque, negare alla parte civile la possibilità di proporre riesame e il diritto a ricevere l’avviso della relativa camera di consiglio.

Dall’altro confermare l’assenza in capo alla parte civile del diritto di proporre riesame in via autonoma avverso il provvedimento emesso dal giudice di primo grado ma attribuirle il diritto di ricevere l’avviso della camera di consiglio di trattazione del ricorso da altri proposto e, in caso di omissione, la possibilità di proporre ricorso per cassazione, così da scongiurare la prospettiva, adombrata dalla stessa Corte nella sentenza “Alizzi”, di una possibile violazione dei parametri costituzionali.

Si trattava di una soluzione che appariva come un “ritorno” ad autorevoli soluzioni adottate dal giudice delle leggi (Sez. 6, n. 25610 del 17/03/2008, Figini, Rv. 240366; Sez. 2, n. 40831 del 10/10/2007, Capogna, Rv. 237964; Sez. 2, n. 11887 del 09/03/2006, Mauri, Rv. 233812; Sez. 1, n. 4695 del 07/07/1997, Avaltroni, Rv. 208341; Sez. 2, n. 512 del 31/01/1996, Antonelli, Rv. 204763), rispondente ad una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 324, comma 6, 318 e 127 cod. proc. pen. secondo la quale non avrebbe potuto non riconoscersi, “anche in difetto di una espressa previsione”, alla parte civile il diritto all’avviso dell’udienza camerale, in quanto “soggetto interessato al mantenimento della misura cautelare reale” (cfr. Sez. 6, n. 25449 del 03/05/2013, Polichetti, Rv. 255472).

Ripercorrere il solco così tracciato dal “diritto vivente”, comportava tuttavia il rischio di evidenziare l’irragionevolezza del sistema che da un lato riconosce alla parte civile il diritto di richiedere il sequestro conservativo, riconoscendole un interesse meritevole di tutela, e dall’altro le nega la possibilità di far valere lo stesso interesse in sede di riesame a seguito di ricorso da altri proposto.

Ancora vi era una terza via percorribile dalla Corte: riconoscere alla parte civile la possibilità di ricorrere in cassazione sia per contestare il merito del provvedimento adottato in sede di riesame, sia per lamentare l’omessa notifica dell’avviso della relativa camera di consiglio.

Si sarebbe così riconosciuta la legittimazione della stessa a proporre istanza di riesame almeno nei casi in cui l’iniziale provvedimento non fosse risultato pienamente satisfattivo, in ossequio al principio del generale interesse ad impugnare, ricalcandosi il percorso argomentativo proposto da quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, seppure l’art. 325 cod. proc. pen., comma 1 non indichi la parte civile tra i soggetti aventi titolo all’impugnazione, tuttavia il suo inserimento deve ritenersi alla luce della collocazione di tale norma all’interno del sistema delle cautele reali e della stretta relazione tra gli artt. 318, 324 e 325, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 25449 del 03/05/2013, Polichetti, Rv. 255472)

Una soluzione di tal portata avrebbe, almeno in parte, confutato le conclusioni cui era giunta la Corte con la sentenza “Alizzi”.

5. La decisione delle Sezioni Unite.

In definitiva, le Sezioni Unite erano chiamate a pronunciarsi su due distinti quesiti, fra loro parzialmente connessi e già affrontati (Sez. U, n. 47999 del 25/09/2014, Alizzi, Rv. 260895) con una decisione che tuttavia non aveva sgombrato il campo dal dubbio di una potenziale violazione di norme costituzionali, adombrata dal medesimo consesso e ripresa dal collegio rimettente.

Il primo quesito, si è detto, aveva ad oggetto, pena la violazione del diritto al contraddittorio, il riconoscimento alla parte civile del diritto a ricevere l’avviso dell’udienza fissata avanti al tribunale del riesame a seguito di impugnativa avverso l’ordinanza applicativa del sequestro conservativo.

Il secondo quesito riguardava il riconoscimento della legittimazione della parte civile a proporre ricorso per cassazione, ex art. 325 cod. proc. pen., avverso l’ordinanza di annullamento o revoca del sequestro conservativo, concesso dal giudice di prime cure, del tribunale del riesame.

Decidendo in merito al primo dei quesiti, con la sentenza n. 15290 del 28 settembre 2017, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno enunciato il seguente principio: “il difensore della parte civile ha diritto di ricevere l’avviso dell’udienza fissata dal tribunale sulla richiesta di riesame proposta dall’imputato avverso una ordinanza di sequestro conservativo e di partecipare all’udienza. In mancanza di tale partecipazione, la parte civile è legittimata a proporre ricorso per cassazione contro l’ordinanza che abbia annullato o revocato, in tutto o in parte, il sequestro, al solo scopo di fare accertare la nullità ex art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.”.

I giudici di legittimità hanno optato per una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 324, comma 6, cod. proc. pen., norma che contiene sia il richiamo alle “forme” previste dall’art. 127 cod. proc. pen., che l’elencazione puntuale dei soggetti legittimati a partecipare al giudizio del riesame (pubblico ministero, difensore, soggetto proponente), argomentando che se alcuna censura può muoversi al provvedimento del tribunale del riesame pronunciato a seguito di udienza ritualmente comunicata a pubblico ministero, difensore ed imputato ricorrente (e, dunque, non anche la parte civile) avverso l’ordinanza, richiesta dalla parte civile, di sequestro conservativo del giudice delle indagini preliminari, tuttavia il superamento dei sospetti di incostituzionalità dell’art. 324, comma 6, cod. proc. pen. per violazione del principio del contraddittorio consegue, per un verso, al richiamo, contenuto nella detta norma, alla disposizione generale di cui all’art. 127 cod. proc. pen. che prevede la partecipazione di tutti i soggetti “interessati” alla decisione, tra cui, indubbiamente, anche la parte civile, destinataria, in prima battuta, del riconoscimento delle sue ragioni cautelari, e, per altro verso, dalla sua collocazione sistematica, pensata dal Legislatore per il procedimento di riesame di ogni tipo di sequestro, nell’ottica del riconoscimento di una garanzia capace di assicurare, in tutte le fasi, le pretese creditorie del soggetto danneggiato dal reato, costituitosi parte civile.

Ciò detto, per completezza espositiva, giova evidenziare che, risolto il primo quesito, la Corte, “per ragioni di opportunità e di economia processuale”, pur ritenendo assorbito il secondo tema (ovvero se “la stessa parte civile sia legittimata a proporre ricorso per cassazione, nel merito, ex art. 325 cod. proc. pen., avverso l’ordinanza con la quale il tribunale del riesame abbia annullato o revocato il sequestro conservativo”), lo ha affrontato confermando la soluzione già indicata dalle Sezioni Unite nella sentenza “Alizzi”.

Il Supremo consesso non ha ritenuto condivisibile l’interpretazione “larga” del collegio rimettente che, ripercorso il solco tracciato da precedenti pronunce di legittimità (Sez. 6, n. 25449 del 03/05/2013, Polichetti, Rv. 255473) suggeriva una lettura coordinata dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen. con l’art. 318, comma 1, cod. proc. pen., tale da consentire di riconoscere la legittimazione a proporre la richiesta di riesame contro l’ordinanza di sequestro conservativo anche alla parte civile, da ricomprendersi tra i “chiunque” interessati.

L’assunto, ad avviso della Corte, contrasta con il dato letterale dell’art. 318, comma 1, cod. proc. pen. che circoscrive il giudizio di riesame alle sole ordinanze con le quali è stato disposto il sequestro conservativo, escludendo quelle che lo hanno negato anche solo parzialmente (mancando la previsione normativa), cosicché, non avendo la parte civile – al pari del pubblico ministero – alcun interesse ad impugnare le ordinanze di accoglimento del sequestro conservativo, la assenza di legittimazione a proporre ricorso per cassazione ex art. 325 cod. proc. pen., non induce a pericoli di contrasto con il diritto di difesa, costituzionalmente garantito.

Dirimente, ad avviso delle Sezioni Unite, era la decisione assunta dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 424 del 1998 che, nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 318, 322-bis e 325 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede alcun mezzo di impugnazione avverso il provvedimento di diniego del sequestro conservativo, in riferimento all’art. 24, primo comma, Cost., nell’affermare che la scelta del Legislatore, da leggere all’interno del quadro dei rapporti fra azione civile e azione penale, era ispirata al principio del favor separationis tra processo civile e processo penale, sottolineava il carattere accessorio (o subordinato) dell’azione civile nel processo penale e la prevalenza in quest’ultimo di interessi pubblicistici rispetto a quelli esclusivamente privatistici della parte civile, con la logica conseguenza che questa, in caso di diniego del sequestro conservativo, non rimaneva priva di tutela, potendo far valere le sue ragioni in altra sede.

Le Sezioni Unite, con la sentenza in esame, hanno dunque ribadito che, fermo il diritto della parte civile a partecipare al giudizio di gravame “in quanto da altri promosso e in quanto siano in discussione diritti processuali o sostanziali che le competono siccome riconosciuti nell’ordinanza impugnata”, non sussiste, per la stessa, la legittimazione a proporre la richiesta di riesame non potendo neanche ritenersi frutto di una svista legislativa il dettato di cui al comma 2 dello stesso art. 325 cod. proc. pen., riguardante il ricorso per saltum, perché relativo ai soli “decreti” applicativi di sequestro preventivo e probatorio e non anche all’ordinanza di sequestro conservativo.

Con la predetta decisione la Corte ha dato risposta ad entrambi i quesiti posti al suo vaglio, affermando il diritto, costituzionalmente garantito, della parte civile a partecipare all’udienza di trattazione, dinanzi al tribunale del riesame, del provvedimento di annullamento o di revoca del sequestro conservativo del giudice di prime cure.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 4, n. 2394 del 21/06/1995, Tirelli, Rv. 202021 Sez. 2, n. 512 del 31/01/1996, Antonelli, Rv. 204763 Sez. 1, n. 4695 del 07/07/1997, Avaltroni, Rv. 208341 Sez. 2, n. 11887 del 09/03/2006, Mauri, Rv. 233812 Sez. 2, n. 40831 del 10/10/2007, Capogna, Rv. 237964 Sez. 6, n. 25610 del 17/03/2008, Figini, Rv. 240366 Sez. 6, n. 5928 del 31/01/2012, Cipriani, Rv. 252076 Sez. 5, n. 28082 del 05/04/2013, Fall. Soc. DKW S.r.l., Rv. 256320 Sez. 6, n. 25449 del 03/05/2013, Polichetti, Rv. 255472 Sez. 6, n. 20820 del 9/04/2013, Galati, Rv. 256231 Sez. 6, n. 25449 del 03/05/2013, Polichetti, Rv. 255473 Sez. U, n. 47999 del 25/09/2014, Alizzi, Rv. 260895

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., ord. n. 424 del 1998

  • procedura penale

CAPITOLO II

OMESSO RIESAME CAUTELARE REALE E AMMISSIBILITÀ DELL’APPELLO

(di Debora Tripiccione )

Sommario

1 Premessa. - 2 I principi di diritto affermati dalle Sezioni unite Buffa e Romagnoli. - 3 Il successivo contrasto giurisprudenziale. - 4 La soluzione adottata dalle Sezioni unite Edilnoemi. - 5 Le preclusioni processuali operanti nel procedimento cautelare. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nell’anno in corso le Sezioni unite sono nuovamente intervenute sul tema dei rapporti tra omessa presentazione della richiesta di riesame avverso una misura cautelare reale e la richiesta di revoca della misura, con particolare riferimento all’ammissibilità dell’appello avverso il provvedimento di rigetto di tale istanza. In linea di continuità con i principi di diritto affermati da Sez. U, n. 11 del 08/07/1994, Buffa in tema di misure cautelari personali, e da Sez. U, n. 29952 del 24/05/2004, Romagnoli, con riferimento alle misure cautelari reali, il Supremo Consesso, con la sentenza n. 46201 del 31/05/2018, Edilnoemi, ha affermato il seguente principio di diritto: “La mancata tempestiva proposizione, da parte dell’interessato, della richiesta di riesame avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare reale non ne preclude la revoca per la mancanza delle condizioni di applicabilità, neanche in assenza di fatti sopravvenuti”.

2. I principi di diritto affermati dalle Sezioni unite Buffa e Romagnoli.

Il tema dei rapporti tra riesame e revoca e, più in generale, delle eventuali preclusioni processuali conseguenti all’omessa presentazione della richiesta di riesame di un’ordinanza cautelare è stato già affrontato dalle Sezioni unite Buffa e Romagnoli con riferimento alle misure cautelari sia personali che reali.

In particolare, Sez. U, n. 11 del 08/07/1994, Buffa, investita della questione relativa ai rapporti tra istanze di riesame e di revoca delle misure cautelari personali nel caso in cui sia stata proposta prima quest’ultima, ha escluso che la precedente proposizione di un’istanza di revoca determini una preclusione rispetto all’istanza di riesame che, dunque, non può essere ritenuta inammissibile solo perchè proposta successivamente alla richiesta di revoca (Rv. 198211).

La Corte è giunta a tale conclusione analizzando la diversa natura giuridica dei due istituti: il riesame, infatti, è un mezzo di impugnazione (sia pure con taluni peculiari profili quali, principalmente, la non necessità della formulazione dei motivi e la deroga al principio devolutivo). Eguale natura non può, invece, riconoscersi alla revoca e, a tal fine, ad avviso del Supremo consesso, rilevano sia la diversa collocazione topografica dell’istituto tra le cause di estinzione delle misure cautelari personali, che la possibilità di un’iniziativa d’ufficio, nelle ipotesi previste dal terzo comma dell’art. 299 cod. proc. pen., di per sé incompatibile con la disciplina dei mezzi di impugnazione, che sono sempre rimessi all’iniziativa di parte. Sulla base di tali considerazioni, l’istanza di revoca viene, dunque, qualificata come «una sollecitazione all’esercizio di un potere di verificare la legittima compressione dello “status “libertatis”, riservata dall’art. 299 cod. proc. pen. al giudice competente, piuttosto che come mezzo di impugnazione».

Inoltre, ad avviso delle Sezioni unite i due istituti assolvono differenti funzioni in quanto:

1) il tribunale del riesame ha, innanzitutto, una competenza esclusiva in ordine al controllo sulla validità dell’ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti di cui all’art. 292 cod. proc. pen., la cui carenza può essere dedotta solo con la richiesta di riesame. Al medesimo tribunale compete, inoltre, il controllo della legittimità della misura cautelare alla stregua degli artt. 273, 274, 275 e 280 cod. proc. pen., avendo riguardo alla situazione processuale coeva al provvedimento impugnato nonché agli elementi sopravvenuti, dedotti nell’udienza camerale.

2) Nel procedimento di revoca, attivabile in qualsiasi fase del procedimento in cui se ne ravvisi la necessità, al giudice compete, invece, la verifica della sussistenza attuale delle condizioni di applicabilità della misura prescritte dagli artt. 273 e 274 cod. proc. pen. o di quelle relative alle singole misure, avendo riguardo sia ai fatti sopravvenuti, sia a quelli originari e coevi all’ordinanza impositiva, facendoli oggetto di una valutazione eventualmente diversa da quella prescelta dal primo giudice (Rv. 198212). Tale ultima conclusione poggia sia sul dato letterale dell’art. 299, comma 1, cod. proc. pen. (avuto riguardo alla locuzione «anche per fatti sopravvenuti»), sia sulla Relazione al progetto preliminare del codice che qualifica la revoca come «quel fenomeno estintivo che presuppone una valutazione sulla sussistenza ex ante e sulla persistenza ex post delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari».

Pertanto, ad avviso delle Sezioni unite, la differenza sia ontologica che di funzione dei due istituti impedisce di aderire alla tesi che ricollega alla preventiva scelta del rimedio della revoca la consumazione del potere di esperire il riesame.

Logico corollario del ragionamento seguito dalla Corte è che neanche la mancata proposizione della richiesta di riesame o del ricorso per saltum, ai sensi degli artt. 309 e 311, comma 2, cod. proc. pen., determina un effetto preclusivo rispetto all’accertamento da parte del giudice, investito dell’istanza di revoca, della carenza originaria, oltre che della persistenza, delle condizioni di applicabilità della misura cautelare. Ciò in quanto, precisa la Corte, siffatto effetto preclusivo è connaturato al sistema delle impugnazioni ed ha, comunque, una portata più modesta rispetto a quella determinata dalla cosa giudicata, sia perché è limitato allo stato degli atti sia perché copre solo le questioni dedotte in forma esplicita o implicita (tali dovendosi intendere quelle che, sebbene non enunciate in modo specifico, integrano il presupposto logico di quelle dedotte), ma non le questioni deducibili (Rv. 198213).

A conferma del percorso logico seguito, il Supremo consesso ha, inoltre, escluso che l’acquiescenza (quale accettazione della legittimità originaria dell’ordinanza cautelare conseguente, secondo alcuni arresti, alla proposizione dell’istanza di revoca fondata sulla sopravvenienza di fatti nuovi) possa rilevare quale causa di improponibilità dell’impugnazione penale. Osserva, infatti, la Corte che nel vigente codice di rito manca una disposizione analoga a quella prevista dall’art. 329 cod. proc. civ. che contempla quale causa di improponibilità dell’impugnazione l’acquiescenza del soccombente (risultante da una dichiarazione espressa ed irrevocabile di accettazione della sentenza o desumibile da atti incompatibili con l’intento di avvalersi dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge). L’acquiescenza, inoltre, non figura tra le cause di inammissibilità dell’impugnazione previste dall’art. 591 cod. proc. pen. (che contempla solo il diverso istituto della rinuncia). Né, infine, conclude la Corte, la sussistenza di un principio generale che configura l’acquiescenza quale causa di inammissibilità dell’impugnazione può desumersi dall’analisi degli artt. 183 cod. proc pen. (laddove configura l’accettazione degli effetti dell’atto quale causa di sanatoria della nullità), 570, comma 1, cod. proc. pen. (che attribuisce al procuratore generale la facoltà di impugnare malgrado l’acquiescenza del p.m. presso il giudice che ha emesso il provvedimento), e 597 cod. proc. pen. (che, disciplinando l’effetto parzialmente devolutivo dell’appello, secondo alcune pronunzie, configurerebbe una situazione di acquiescenza rispetto ai punti non impugnati).

I principi affermati dalle Sezioni unite Buffa sono stati successivamente ribaditi e sviluppati con riferimento anche alle misure cautelari reali da Sez. U, n. 29952 del 24/5/2004, Romagnoli, Rv. 228117 che ha escluso che la mancata tempestiva proposizione da parte dell’interessato della richiesta di riesame avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare reale precluda la revoca per la mancanza delle condizioni di applicabilità, anche in assenza di fatti sopravvenuti.

Chiamate a pronunciarsi sulla configurabilità di una sorta di “giudicato cautelare implicito” sui presupposti legittimanti l’adozione della misura cautelare reale conseguente al mancato esperimento del riesame, le Sezioni unite, riprendendo le argomentazioni svolte nella sentenza Buffa, hanno ribadito sia il principio relativo al limitato perimetro applicativo del c.d. “giudicato cautelare” (conseguente esclusivamente alle pronunzie emesse all’esito del procedimento incidentale di impugnazione e in relazione alle questioni trattate, in forma esplicita o implicita) che alla differenza ontologica tra riesame e rievoca, applicabile anche con riferimento alle misure cautelari reali (ciò sulla scia dell’interpretazione parallela fra tali misure e quelle personali già adottata da Sez. 2, n. 4043 del 28/09/1999, Cieri, Rv. 214578).

Ad avviso delle Sezioni unite, infatti, non vi è alcuna ragione per distinguere tra la revoca di una misura cautelare personale e la revoca di una misura cautelare reale sulla base delle seguenti argomentazioni:

- la definizione della revoca delle misure cautelari personali contenuta nella Relazione al progetto preliminare al codice di procedura penale;

- l’analoga e simmetrica formulazione dell’art. 321, comma 3, cod. proc. pen. con riferimento alla revoca del sequestro preventivo;

- l’identità di ratio dei due istituti (esigenza di una verifica costante in ordine alla correlazione delle misure cautelari ai principi generali di adeguatezza e proporzionalità). Pertanto, prosegue la Corte, la sussistenza ex ante delle condizioni di applicabilità della misura può essere verificata anche alla stregua di «fatti non sopravvenuti, intesi come fatti che, pur già storicamente avveratisi al momento dell’emissione del provvedimento cautelare, non furono, tuttavia, per qualsiasi motivo, compiutamente e correttamente esaminati in quel momento».

Sulla base di tale premessa ermeneutica, le Sezioni unite hanno poi affrontato la questione specifica della cognizione del giudice dell’appello avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca. In primo luogo, la Corte ha analizzato le argomentazioni della tesi favorevole all’effetto preclusivo conseguente alla mancata presentazione del riesame, ovvero: 1) l’elusione dei termini perentori previsti per l’impugnazione della misura, ove si ammettesse l’appello sulla base di motivi che avrebbero dovuto essere proposti con il riesame; 2) il possibile conseguente assorbimento del riesame nella revoca, qualora con quest’ultima fosse consentito esaminare le medesime questioni rivedibili in sede di riesame.

Ad avviso delle Sezioni unite, tali obiezioni non sono concludenti in quanto il rapporto tra revoca e riesame non può essere configurato come un sistema di due cerchi concentrici nel quale il primo (la revoca) contiene ed assorbe interamente il secondo (il riesame). Proprio la differenza ontologica e di funzioni dei due istituti consente di escluderne la completa sovrapponibilità in quanto:

a) il riesame ha la funzione di consentire al giudice dell’impugnazione (entro termini perentori a pena di decadenza) una verifica dell’atto nei suoi aspetti sia formali che sostanziali, riferiti alla genesi della misura;

b) la revoca, invece, attiene al riscontro, senza limiti temporali, dei soli profili sostanziali della restrizione in essere ed ha la funzione di adeguare la situazione cautelare in seguito sia alla verifica di eventuali carenze di valutazione circa la sussistenza originaria dei presupposi sia all’oggettivo accadimento di fatti storici successivi all’emissione della misura cautelare.

L’unica preclusione conseguente alla mancata proposizione del riesame, attiene, dunque, alla verifica dei soli requisiti formali del provvedimento impositivo della misura, ai sensi dell’art. 99, disp. att. cod. proc. pen., ma non anche ai requisiti sostanziali.

3. Il successivo contrasto giurisprudenziale.

Successivamente alla sentenza Romagnoli, numerosi arresti della Corte hanno dato continuità al principio di diritto che nega alla mancata proposizione della richiesta di riesame avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare reale un’efficacia preclusiva rispetto alla richiesta di revoca della misura fondata sull’insussistenza originaria dei suoi presupposti (Sez. 4, n. 32929 del 04/06/2009, Mariani, Rv. 244976; Sez. 2, n. 17201 del 20/04/2012, Scognamiglio, Rv. 252817; Sez. 3, n. 23641 del 20/12/2012, La Voglia, Rv. 256155; Sez. 1, n. 19504 del 05/02/2014, Costantino, Rv. 263402; Sez. 5, n. 3838 del 20/10/2016, Gambini, Rv. 269086).

Nel riprendere le argomentazioni della sentenza Romagnoli sul tema del c.d. “giudicato cautelare”, la sentenza Gambini ha affermato che il giudice adito con la richiesta di revoca o con la successiva impugnazione del diniego della revoca può limitarsi a richiamare le eventuali decisioni conclusive di procedure de libertate, qualora rilevi la riproposizione di questioni già valutate in precedenza, ma non può dichiarare inammissibili, in forza del giudicato cautelare, la richiesta di revoca o l’impugnazione, «essendo sempre tenuto ad accertare d’ufficio la sussistenza di ragioni, pur diverse da quelle prospettate dall’interessato, indicative dell’insussistenza dei presupposti della misura». Pertanto, prosegue la Corte, qualora l’interessato non abbia proposto richiesta di riesame, il giudice non può dichiarare l’inammissibilità dell’istanza di revoca che eccepisca la carenza originaria dei presupposti per l’applicazione della misura cautelare reale.

In particolare, Sez. 2, n. 23641 del 2013, ha ritenuto coerente con le caratteristiche ontologiche dei due istituti del riesame e della revoca, nonché più rispettosa del diritto di difesa e delle garanzie che devono essere riconosciute al destinatario di una misura cautelare (reale o personale), la soluzione ermeneutica che esclude la sussistenza di un “percorso obbligato” per la contestazione della legittimità della misura cautelare, rimettendo all’interessato la libera scelta tra i due rimedi. Ne consegue che la mancata proposizione del riesame non determina alcun giudicato cautelare implicito, cosicché la revoca è possibile sia in presenza di fatti sopravvenuti rispetto all’adozione del provvedimento cautelare che per la mancanza ab origine dei presupposti necessari per l’applicazione della misura.

Unitamente a tale argomentazione di carattere sistematico la Corte ha anche analizzato il dato letterale dell’art. 321, comma 3, cod. proc. pen. che prevede l’immediata revoca del sequestro preventivo, su richiesta del pubblico ministero o dell’interessato, se risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dal comma 1. Ad avviso della Corte, infatti, la congiunzione “anche” è sintomatica della volontà del legislatore di non limitare la revoca alla sola ipotesi di fatti sopravvenuti. Ciò trova conferma nella successiva espressione “quando risultano mancanti” riferibile sia a un elemento che non sussiste ab origine sia a un elemento presente al momento dell’adozione del provvedimento e poi venuto a mancare.

Ad avviso della Corte, tale soluzione ermeneutica non contrasta con l’istituto di creazione giurisprudenziale del c.d. giudicato cautelare (o, più correttamente, della preclusione endoprocessuale) la cui portata è più ristretta del giudicato che si forma sulle decisioni definitive, in quanto involge solo le questioni dedotte, esplicitamente o implicitamente, e non anche quelle deducibili, ed opera allo stato degli atti (nel senso che dipende dal permanere della situazione di fatto presente al momento della decisione). Inoltre, tale effetto preclusivo si verifica solo nel caso in cui siano stati esperiti tutti i mezzi di impugnazione messi a disposizione dall’ordinamento (e non in caso di mancata attivazione degli stessi), rendendo inammissibili, in assenza di una modifica della situazione di riferimento, istanze fondate su motivi già valutati.

Con riferimento, infine, all’ammissibilità dell’appello avverso il rigetto della revoca del sequestro, la Corte ha escluso la decisività delle argomentazioni del contrario orientamento in merito all’elusione dei termini di impugnazione e all’assorbimento del riesame nella revoca. Come già affermato dalla sentenza Romagnoli, la Corte ha, infatti, sottolineato la differente funzione dei due istituti: il riesame, infatti, consente al giudice di effettuare, entro i termini perentori previsti dalla legge, una verifica della correttezza, sia formale che contenutistica della misura con riferimento al suo momento genetico. La revoca, invece, è sempre possibile al fine di consentire una costante verifica di aspetti sostanziali del provvedimento cautelare, adeguando la misura alle concrete connotazioni della vicenda con riferimento sia a possibili carenze nella valutazione della sussistenza originaria dei presupposti applicativi della misura cautelare sia al sopraggiungere di fatti nuovi modificativi della situazione presente al momento genetico. Pertanto, conclude la Corte, in sede di appello contro l’ordinanza di diniego della revoca è possibile far valere i medesimi motivi che avrebbero potuto essere proposti con il riesame.

A soluzioni opposte è, invece, giunto, altro orientamento giurisprudenziale che, senza confrontarsi direttamente con le argomentazioni svolte dalle Sezioni unite Buffa e Romagnoli, ha affrontato il tema del diverso ambito di cognizione del giudice dell’appello ex art. 322-bis cod. proc. pen. rispetto al giudice del riesame. Si afferma, infatti, che il riscontro del “fumus delicti” e, più in generale, della legittimità genetica del provvedimento applicativo del vincolo reale, è riservato alla fase del riesame, da esperire nel rispetto dei termini di decadenza previsti dalla legge. In sede di appello, ai sensi dell’art. 322-bis cod. proc. pen. possono, invece, essere dedotte solo questioni diverse da quelle relative alla legittimità dell’imposizione del vincolo, attinenti alla permanenza delle ragioni giustificanti il mantenimento della misura, sulla base di circostanze sopravvenute oppure di circostanze preesistenti, ma emerse successivamente all’imposizione del vincolo. Da ciò consegue, pertanto, l’inammissibilità dell’appello avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca del sequestro preventivo con il quale si deducano per la prima volta motivi attinenti alla carenza nel momento genetico della misura delle condizioni di cui all’art. 321 cod. proc. pen., la cui cognizione è riservata alla fase del riesame (Sez. 3, n. 29234 del 11/06/2003, Carella, Rv. 226353; Sez. 3, n. 17634 del 08/03/2007, Iannotta, Rv. 236602; Sez. 6, n. 5016 del 26710/2011, Grillo, v. 251783; Sez. 5, n. 31725 del 22/04/2015, Capelli, Rv. 265303).

4. La soluzione adottata dalle Sezioni unite Edilnoemi.

Con la sentenza n. 46201 del 31/05/2018 – dep. 2018 –, Edilnoemi, le Sezioni unite hanno risolto il contrasto affermando il principio di diritto così massimato: “La mancata tempestiva proposizione, da parte dell’interessato, della richiesta di riesame avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare reale non ne preclude la revoca per la mancanza delle condizioni di applicabilità, neanche in assenza di fatti sopravvenuti; ne consegue che è ammissibile l’appello cautelare avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca, non potendosi attribuire alla mancata attivazione del riesame la valenza di una rinuncia all’impugnazione.” (Rv. 274092)

Nel riprendere le argomentazioni già svolte dalle Sezioni unite Buffa e Romagnoli, entrambe saldamente fondate sulle disposizioni testuali degli artt. 299, comma 1, e 321, comma 3, cod. proc. pen., il Supremo consesso ha, dunque, ritenuto ammissibile l’appello cautelare avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca fondata su elementi di fatto non sopravvenuti, ma preesistenti e non proposti in sede di riesame.

Tale conclusione muove dall’analisi della differenza strutturale tra il riesame – attivabile entro termini temporali ristretti anche senza esporre specifiche censure ed al fine di sollecitare la mera verifica del percorso valutativo svolto dal primo giudice – e l’appello cautelare, retto, invece, dal principio strettamente devolutivo. Ad avviso della Corte, la diversità strutturale delle due impugnazioni non consente di attribuire valenza sostanziale alla mancata proposizione del riesame. Inoltre, la pronuncia di inammissibilità dell’appello cautelare reale, epilogo non espressamente previsto dall’art. 322-bis cod. proc. pen., deve essere necessariamente inquadrata nell’ambito della più generale disciplina prevista dall’art. 591 cod. proc. pen. Ragionando nell’ambito di tale cornice normativa e delle ipotesi tassative previste dall’art. 591 cod. proc. pen., le Sezioni unite hanno escluso che la mancata attivazione del riesame possa essere considerata alla stregua di una rinuncia all’impugnazione (stante le diverse caratteristiche del negozio processuale abdicativo, di carattere sopravvenuto ed esplicito e, dunque, né antecedente né tacito).

Ad avviso della Corte, dunque, la mancata proposizione del riesame può essere letta quale rinuncia alla sollecitazione del controllo d’ufficio del provvedimento cautelare, sostanziale e formale, da parte del tribunale preposto. Tale effetto, tuttavia, anche alla luce della lettura del principio di stabilità delle decisioni cautelari adottata dalla giurisprudenza di legittimità nella sua più autorevole composizione (Sez. U, n. 11, del 01/07/1992, Grazioso, Rv. 191183 e, successivamente, Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, Librato, Rv. 235908), non involge le questioni astrattamente deducibili ed inerenti ai presupposti giustificativi del provvedimento.

In continuità con le Sezioni unite Buffa, il Supremo consesso ha nuovamente escluso la configurabilità nel processo penale dell’istituto dell’acquiescenza, nel caso di specie legata alla mancata proposizione del riesame, che, peraltro, renderebbe asimmetrico il diritto di intervento, impedito alle parti direttamente interessate e consentito al pubblico ministero, in capo al quale permane l’obbligo di valutare costantemente l’esigenza di persistenza della misura imposta, anche diversamente valutando quanto emergente già prima della sua applicazione.

In conclusione, alla luce di tale ricostruzione normativa e dell’esigenza di assicurare effettiva tutela ai diritti di rango costituzionale incisi dal provvedimento cautelare, la soluzione adottata rimette alla parte la scelta delle modalità e dei tempi di esercizio del diritto di fornire una lettura alternativa dei fatti, sollecitando una diversa determinazione al medesimo giudice che ha emesso la misura ovvero attivando il controllo da parte di un giudice terzo, da richiedere entro termini ristretti e tassativi. L’esercizio della prima opzione rende, pertanto, intangibile il diritto di appello, la cui azionabilità generale avverso le ordinanze in materia di sequestro preventivo è riconosciuta, senza alcuna preclusione, dall’art. 322-bis cod. proc. pen. 

5. Le preclusioni processuali operanti nel procedimento cautelare.

La soluzione adottata dalle Sezioni unite Edilnoemi costituisce un ulteriore tassello dell’elaborazione giurisprudenziale sul più ampio tema delle preclusioni operanti nell’ambito del procedimento cautelare.

Nonostante il concetto di irrevocabilità sia, infatti, ontologicamente e logicamente inconciliabile con il carattere di giudizio allo stato degli atti che connota dinamicamente le decisioni cautelari, sia in dottrina che in giurisprudenza si è avvertita l’esigenza di assicurare una certa stabilità dei provvedimenti cautelari al fine di impedire l’indefinita riproposizione di istanze fondate sui medesimi presupposti di altre già vagliate e respinte.

Si è così fatto riferimento, ora, all’applicazione analogica degli artt. 648 e 649 cod. proc. pen., ora, invece, all’art. 666, comma 2, cod. proc. pen. in quanto ritenuto espressione di un principio di carattere generale.

La prevalente giurisprudenza di legittimità ha optato per la prima soluzione attraverso la peculiare figura del cosiddetto “giudicato cautelare”. Inizialmente il problema è stato affrontato con riferimento alle misure cautelari personali. Si è così, riconosciuta alle ordinanze non impugnate emesse dal tribunale ai sensi degli artt. 309 e 310 cod. proc. pen. e alle pronunzie della Corte di cassazione, a seguito di ricorso avverso dette ordinanze o in sede di ricorso per saltum, una limitata efficacia preclusiva di natura endoprocessuale fondata sul principio del “ne bis in idem” di cui all’art. 649 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 20 del 12/10/1993, Durante, Rv. 195354; Sez. U, n. 11 del 01/07/1992, Grazioso, Rv. 191183). Si è, pertanto, affermato che solo un apprezzabile mutamento del fatto consente: a) la reiterazione di un’ordinanza applicativa di una misura cautelare, annullata dal tribunale del riesame per ragioni di merito, con pronunzia non più soggetta a gravame; b) la revoca, per inidoneità degli indizi, dell’ordinanza cautelare confermata in sede di gravame; c) la riproposizione di una richiesta di revoca, qualora l’ordinanza di rigetto di una precedente richiesta sia stata confermata in sede di impugnazione (Sez. U, Durante).

Successivamente, Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, Librato, Rv. 235908 ha ulteriormente circoscritto la portata della efficacia preclusiva conseguente all’esaurimento del procedimento di impugnazione, limitandola allo stato degli atti e alle questioni già dedotte esplicitamente o implicitamente (in senso conforme, da ultimo, Sez. 6, n. 8900 del 16/01/2018, Persano, Rv. 272338 e Sez. 5, n. 27710 del 04/05/2018, Bertocchi, Rv. 273648).

Sez. 3, n. 535 del 01/12/2010, Trincas, Rv. 249128 ha, inoltre, escluso che l’inammissibilità del gravame conseguente a rinuncia all’impugnazione, determini le preclusioni endoprocessuali da c.d. giudicato cautelare. Ad avviso della Corte, vi è un’identità di effetti tra la mancata impugnazione, frutto di inerzia volontaria o accidentale, e la rinuncia all’impugnazione che si manifesta con un atto negoziale processuale abdicativo e recettizio. In entrambi i casi, infatti, manca una verifica della situazione cautelare e, pertanto, non possono ritenersi prodotti gli effetti preclusivi che sarebbero, invece, determinati da una decisione di merito.

L’operatività di siffatta preclusione endoprocessuale è stata estesa anche alle misure cautelari reali da Sez. U, n. 26 del 27/01/1994, Galluccio, Rv. 195806 con riferimento al sequestro preventivo e da Sez. 3, n. 42529 del 18/12/2002, Raso, Rv. 223353 con riferimento al sequestro conservativo.

Quanto ai rapporti tra il c.d. giudicato cautelare e l’istituto della revoca, Sez. U, n. 14 del 31/05/2000, Piscopo, Rv. 216261, ha affermato che la preclusione che deriva dal cosiddetto giudicato cautelare attiene alle singole questioni già discusse e valutate nel corso di precedenti incidenti de libertate, ma non involge anche il procedimento di revoca previsto dall’art. 299 cod. proc. pen. che può sempre essere attivato dall’interessato. Pertanto, il giudice adito con la richiesta di revoca o con l’impugnazione di una decisione di rigetto della revoca non può dichiararne l’inammissibilità in nome del giudicato cautelare, ma, solo qualora vengano riproposte questioni già discusse e valutate nel corso di precedenti procedimenti incidentali de libertate, può limitarsi a richiamare le decisioni conclusive di quei procedimenti. In altre parole, ad avviso del Supremo Consesso, la teoria del giudicato cautelare si giustifica in quanto tende ad assicurare un più agevole ricorso alla motivazione per relationem al fine di disattendere richieste ripetitive e defatiganti, mentre non si giustificherebbe se tendesse ad eludere i doveri incombenti sul giudice ai sensi dell’art. 299 cod. proc. pen., la cui ratio, avuto riguardo alle previsioni contenute ai commi 1 e 3-ter, è quella di consentire una permanente e costante verifica dei presupposti della custodia cautelare. Alla luce di tale impostazione ermeneutica, le Sezioni unite hanno, dunque, ribadito che il giudice della revoca è sempre tenuto ad accertare d’ufficio se vi siano ragioni, anche diverse da quelle prospettate dall’interessato, che dimostrino l’insussistenza dei presupposti della misura e, pertanto la decisione che disattende la richiesta di revoca è sempre di rigetto, non di inammissibilità.

In applicazione del principio generale del “ne bis in idem”, è stata, inoltre, individuata un’altra preclusione che prescinde dalla formazione del giudicato cautelare ed opera nel caso in cui il procedimento incidentale di impugnazione sia stato promosso ma non ancora esaurito. Alla luce del principio di diritto elaborato da Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231800 con riferimento all’esercizio dell’azione penale, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che, in pendenza del ricorso per cassazione proposto contro l’ordinanza del tribunale del riesame di conferma del provvedimento applicativo di una misura cautelare personale, si determina la preclusione da litispendenza, anch’essa derivante dal generale divieto del bis in idem, che prescinde dalla formazione del c.d. giudicato cautelare e rende inammissibile, in assenza di nuovi elementi, la richiesta di revoca della misura cautelare (Sez. 1, n. 20297 del 13/05/2010, De Simone, Rv. 247659; Sez. 5, n. 29627 del 18/06/2014,

P. Rv. 262522 e, da ultimo, con riferimento all’istanza di scarcerazione presentata dall’imputato in pendenza di appello cautelare, non ancora definito, proposto avverso il rigetto di altra richiesta di scarcerazione avente ad oggetto il medesimo “thema decidendum”, Sez. 3, n. 23371 del 02/02/2016, Sacco, Rv. 266823).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 11, del 01/07/1992, Grazioso, Rv. 191183 Sez. U, n. 20 del 12/10/1993, Durante, Rv. 195354 Sez. U, n. 26 del 27/01/1994, Galluccio, Rv. 195806 Sez. U, n. 11 del 08/07/1994, Buffa, Rv. 198211 Sez. U, n. 14 del 31/05/2000, Piscopo, Rv. 216261 Sez. 3, n. 42529 del 18/12/2002, Raso, Rv. 223353 Sez. 3, n. 29234 del 11/06/2003, Carella, Rv. 226353 Sez. U, n. 29952 del 24/05/2004, Romagnoli, Rv. 228117 Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231800 Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, Librato, Rv. 235908 Sez. 3, n. 17364 del 08/03/2007, Iannotta, Rv. 236602 Sez. 4, n. 32929 del 04/06/2009, Mariani, Rv. 244976 Sez. 1, n. 20297 del 13/05/2010, De Simone, Rv. 247659 Sez. 3, n. 535 del 01/12/2010, Trincas, Rv. 249128 Sez. 6, n. 5016 del 26/10/2011, Grillo, Rv. 251783 Sez. 2, n. 17201 del 20/04/2012, Scognamiglio, Rv. 252817 Sez. 3, n. 23641 del 20/12/2012, La voglia soc. Ltd., Rv. 256155 Sez. 1, n. 19504 del 05/02/2014, Costantino, Rv. 263402 Sez. 5, n. 29627 del 18/06/2014, P., Rv. 262522 Sez. 3, n. 32707 del 07/04/2015, Mandrillo, Rv. 264730 Sez. 5, n. 31725 del 22/04/2015, Capelli, Rv. 265303 Sez. 3, n. 23371 del 02/02/2016, Sacco, Rv. 266823 Sez. 5, n. 3838 del 20/10/2016, Gambini, Rv. 269086 Sez. 6, n. 8900 del 16/01/2018, Persano, Rv. 272338 Sez. 5, n. 27710 del 04/05/2018, Bertocchi, Rv. 273648 Sez. U, n. 46201 del 31/05/2018, Edilnoemi, Rv. 274092

SEZIONE V PROCEDIMENTI SPECIALI

  • reato

CAPITOLO I

RICHIESTA DI DECRETO PENALE E RESTITUZIONE DEGLI ATTI AL FINE DI VALUTARE L’ ARCHIVIAZIONE PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO

(di Marzia Minutillo Turtur )

Sommario

1 La questione controversa. - 2 L’indirizzo giurisprudenziale maggioritario che esclude l’abnormità del provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero. - 3 L’indirizzo giurisprudenziale minoritario che ritiene l’abnormità della restituzione degli atti. - 4 La particolare tenuità del fatto, il contraddittorio tra le parti, la qualificazione del fatto che giustifica la restituzione degli atti. - 5 La giurisprudenza relativa alla consumazione del potere di azione del pubblico ministero a seguito dell’emissione di decreto penale di condanna. - 6 L’irretrattabilità della azione penale e la regressione del procedimento anche con riferimento alla struttura del decreto penale di condanna e ai poteri di controllo del - 7 La sentenza delle Sezioni Unite “Ksouri Mohamed” e il superamento del contrasto. - Indice delle sentenze citate

1. La questione controversa.

La decisione delle Sezioni Unite trae origine da un singolare percorso giudiziario e trova il proprio punto centrale di riflessione nella considerazione dei rapporti tra g.i.p. e pubblico ministero a seguito della emissione di decreto penale di condanna. Un argomento complesso affrontato nella sua articolata problematicità e nei suoi molteplici aspetti sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina. Nel caso concreto affrontato il pubblico ministero presso il Tribunale ordinario di Bologna chiedeva, in data 15/02/2017, l’emissione di decreto penale di condanna nei confronti di soggetto imputato «del reato previsto e punito dall’art. 624 cod. pen. perché, al fine di trarne un ingiusto profitto, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco ad impossessarsi della somma di euro 4,60 e due pacchetti di sigarette marca “MS”, introducendosi nel furgone in sosta lasciato aperto, marca Fiat, modello Doblò, targato DS355-FV, senza tuttavia riuscire nel proprio intento e portare a compimento l’azione, in quanto veniva immediatamente fermato da una pattuglia in servizio di controllo del territorio.». Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bologna in data 20/06/2017 restituiva gli atti al pubblico ministero affinché lo stesso potesse valutare, previa acquisizione del certificato penale del quale il fascicolo non risultava corredato, se «chiedere l’archiviazione ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. Contro tale provvedimento il pubblico ministero ha proposto ricorso per cassazione, censurando la determinazione del giudice per le indagini preliminari in quanto “abnorme”. In considerazione dell’elaborazione giurisprudenziale in tema di abnormità, il ricorrente ha richiamato la dinamica procedimentale e processuale tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari, affermando che con tale provvedimento sono stati superati i compiti di controllo propri del g.i.p. sull’attività del pubblico ministero, con un’inammissibile invasione della sfera di autonomia in tema di esercizio dell’azione penale e dell’irretrattabile esercizio della stessa. Si è quindi sostenuto che le possibilità di restituzione degli atti ex art. 459, comma 3, cod. proc. pen. riguardano solo i profili di legittimità del rito, di qualificazione giuridica del fatto o di idoneità ed adeguatezza della pena con riferimento al caso concreto, in assenza di qualsiasi spazio per ulteriori motivi basati su profili di mera opportunità, nel caso in cui il giudice non ritenga di emettere sentenza ex art. 129 cod. proc. pen. Ne deriverebbe dunque in caso diverso e contrario da quelli elencati, l’obbligo per il g.i.p.di emettere decreto penale di condanna, sicché il provvedimento, emanato sulla base dell’ipotetica valutazione di applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., dovrebbe essere considerato abnorme e il giudice non potrebbe neanche in un caso simile pronunziare sentenza di proscioglimento immediato ex art. 129 cod. proc. pen. in considerazione della particolarità del procedimento per decreto, privo di contraddittorio, e in quanto tale incompatibile con la specificità della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen., che implica l’instaurazione del contraddittorio e comporta eventualmente l’emissione di un provvedimento non pienamente liberatorio, ad effetti pregiudizievoli limitati, quale l’iscrizione nel casellario giudiziale del provvedimento dichiarativo della causa di non punibilità.

In questo ambito la questione è stata dunque rimessa alla Sezioni unite e il quesito è stato così formulato: “Se sia qualificabile come abnorme e, pertanto, ricorribile per cassazione, il provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, non accogliendo la richiesta di emissione di decreto penale di condanna, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero affinché questi valuti la possibilità di chiedere l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis cod. pen.”. Il quesito così come proposto ha comportato la necessaria riflessione su diversi e rilevanti temi che sono stati oggetto della ordinanza di rimessione ed in particolare: – la rilevanza della qualificazione quale atto abnorme, in quanto il provvedimento emesso dal giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell’art. 459, comma 3, cod. proc. pen., è qualificato pacificamente come “inoppugnabile”, così che l’eventuale abnormità del provvedimento di restituzione a seguito di richiesta di emissione di decreto penale di condanna renderebbe ammissibile il ricorso per cassazione avverso lo stesso; – la presenza nell’ambito della giurisprudenza di legittimità di due divergenti indirizzi interpretativi su questo tema quanto all’abnormità o meno del provvedimento in questione, quanto alla assenza di contraddittorio tra le parti quale elemento coessenziale all’istituto della particolare tenuità del fatto, quanto alla ricorrenza di un vero e proprio rigetto della richiesta di emissione del decreto penale di condanna conseguente alla valutazione o meno di mere ragioni di opportunità, considerando invece tale attività quale tipica funzione di controllo, espressamente attribuita dalla legge al giudice per le indagini preliminari, in applicazione di un preciso dettato legislativo, anche nel caso di invito a valutare l’applicabilità della previsione di cui all’art. 131-bis cod. pen.

2. L’indirizzo giurisprudenziale maggioritario che esclude l’abnormità del provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero.

Occorre segnalare come sulla questione si siano formati nel tempo diversi e contrapposti orientamenti interpretativi. La tesi che esclude l’abnormità del provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero viene sostenuta da diverse decisioni della Corte di cassazione, sia in relazione a casi analoghi a quello oggetto della questione rimessa alle Sezioni Unite, che quanto a fattispecie diverse, che tuttavia si concentrano pur sempre sulla dinamica del rapporto di controllo tra giudice delle indagini preliminari e pubblico ministero. Il contrasto interpretativo in merito si concentra sulla effettiva possibilità di qualificare quale atto abnorme, quindi ricorribile per cassazione, il provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, non accogliendo la richiesta di emissione di decreto penale di condanna, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero affinché valuti la possibilità di chiedere l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. È necessario dunque considerare la nozione di abnormità dell’atto, ed in particolare degli atti del giudice, nelle sue varie declinazioni, tenendo conto della assenza di una definizione legislativa di abnormità, nozione che si deve ritenere frutto dell’elaborazione giurisprudenziale nell’intento di offrire un correttivo al principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, al fine di consentire il ricorso per cassazione contro quei provvedimenti del giudice, che “pur risultando affetti da anomalie genetiche o funzionali così radicali da non poter essere inquadrate in alcun schema legale, non sono tuttavia impugnabili” (Sez. 6, n. 48760 del 06/12/2011, Mannino, Rv. 251568). In tal senso appare necessario tener conto dell’elaborazione giurisprudenziale su questo tema, al fine di poter giungere ad un corretto inquadramento e considerazione della soluzione proposta dalle Sezioni Unite sulla questione sollevata.

Sez. U, n. 17 del 10/12/1997, Di Battista, Rv. 209603, secondo la quale è affetto da abnormità non solo il provvedimento che per la singolarità e stranezza del contenuto risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite, sicché l’abnormità può riguardare tanto il profilo “strutturale” (quando l’atto si ponga al di fuori dell’ordinamento processuale), quanto il profilo “funzionale” (quando pur non estraneo al sistema normativo determini una stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo); Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590, secondo la quale, in un’ottica tesa a restringere il perimetro del concetto di atto abnorme, si è specificato che l’abnormità più che rappresentare un vizio dell’atto in sé, integra sempre e comunque uno “sviamento dalla funzione giurisdizionale”, che non risponde dunque al modello previsto dalla legge, sicché abnormità funzionale e strutturale si saldano in un fenomeno unitario, caratterizzato dalla carenza o assenza di potere del giudice che ha adottato il provvedimento; la decisione in questione, sottolineando il carattere derogatorio dell’istituto dell’abnormità, ne ha evidenziato la natura eccezionale, proprio in considerazione della deroga al principio di tassatività sia delle nullità, che dei mezzi di impugnazione; ed ancora ha chiarito, in un passaggio ritenuto di fondamentale importanza dal collegio remittente, che con riguardo alla abnormità funzionale, riscontrabile nel caso di stasi del processo, è possibile parlare di abnormità del provvedimento solo nel caso in cui il provvedimento giudiziario “imponga al pubblico ministero un adempimento che concretizzi un atto nullo rilevabile nel corso del futuro del procedimento o del processo”, mentre negli altri casi il pubblico ministero è tenuto ad osservare i provvedimenti emessi dal giudice.

Ciò posto, occorre considerare che alcune decisioni risolvono in epoca recente casi simili, ed in particolare: Sez. 4, n. 48888 del 25/10/2016, Bouraya; Sez. 4, n. 48886 del 25/10/2016, Gagliardi; Sez. 4, n. 10209 del 04/02/2016, Parola, tutte non massimate, che richiamano in modo sintetico la vigenza del principio di tassatività dei mezzi d’impugnazione, con la conseguente previsione d’inoppugnabilità del decreto di restituzione degli atti al pubblico ministero, considerato il disposto di cui all’art. 568 cod. proc. pen. Dunque, rilevata la presenza di una decisione del giudice delle indagini preliminari centrata sulla considerazione dei criteri di congruità della pena, richiesta con il decreto penale di condanna (Sez. 4, n. 48886 del 25/10/2016, Gagliardi), anche in relazione alla posizione dell’imputato (Sez. 4, n. 48888 del 25/10/2016, Bouraya), o perché ritenuta ricorrente un’ipotesi di particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. (Sez. 4, n. 10209 del 04/02/2016, Parola), escludono qualsiasi forma di abnormità del provvedimento. Un principio analogo viene affermato dalla Sez. 6, n. 663 del 01/12/2015, R., Rv. 266111, secondo la quale deve essere esclusa l’abnormità dell’ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari rigetta la richiesta di emissione di decreto penale di condanna disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero, salvo che il provvedimento sia fondato su ragioni di mera opportunità. L’arresto in esame richiama gli orientamenti consolidati che tendono a restringere fortemente l’area dell’abnormità in casi del genere e chiarisce come non si possa ritenere abnorme un provvedimento caratterizzato da valutazioni sulla pena, seppure nel caso di palese erroneità della relativa valutazione. In particolare, il giudice per le indagini preliminari riteneva inadeguata la scelta di sostituzione della pena pecuniaria per il reato contestato all’imputato ex art. 570 cod. pen., considerata la continua omissione da parte dello stesso ai propri obblighi di mantenimento. Il collegio in questo caso ha sottolineato come competano effettivamente al giudice per le indagini preliminari tutti gli ordinari poteri di valutazione della correttezza formale e sostanziale della proposta, ivi compresa la valutazione della richiesta di sostituzione della pena detentiva in quella pecuniaria, così che qualsiasi rigetto per ragioni che rientrino nell’esercizio delle valutazioni sulla pena non può essere oggetto d’impugnazione. Nel caso oggetto di decisione, richiamato il disposto dell’art. 58 della legge 24 novembre 1981, n. 689, è stato evidenziato come il giudice sia investito del potere discrezionale di verificare, secondo la previsione dell’art. 133 cod. pen., la ricorrenza o meno delle condizioni per sostituire la pena detentiva con quella pecuniaria. Deve dunque essere considerato legittimo esercizio del potere discrezionale del giudice per le indagini preliminari la valutazione in termini d’incongruità della pena, basata anche sulla prevedibile inadempienza dell’imputato, purché si manifesti pur sempre come esplicazione di tale potere di valutazione di congruità. Sez. 6, n. 23829 del 12/05/2016, C., Rv. 267272, affronta un caso sostanzialmente analogo a quello oggetto di rimessione ed esclude a sua volta l’abnormità, definendo legittima l’attività da parte del giudice consistente in un apprezzamento di adeguatezza e congruità della pena, attività che appunto costituisce una valutazione di merito che spetta al giudice nella sua funzione di controllo (non potendo il controllo essere limitato ai soli requisiti formali di ammissibilità). Chiarisce la decisione come l’affermazione del ricorrente secondo la quale la scelta della modalità di esercizio dell’azione penale compete solo al pubblico ministero “coglie un aspetto sistematico certamente condivisibile, ma ne fa derivare una conseguenza del tutto impropria”, poiché effettivamente il sistema consente al pubblico ministero di scegliere la via per l’esercizio dell’azione penale, ma per alcune di queste vie ha previsto un controllo del giudice proprio sulle modalità di esercizio dell’azione penale. In tal senso viene richiamata a supporto anche la disciplina relativa al giudizio immediato, che presenta una struttura del tutto analoga al rito per decreto. Infatti, anche nel caso di giudizio immediato, il pubblico ministero formula una propria valutazione di evidenza della prova, ma l’apprezzamento in fatto dell’effettiva evidenza della prova compete al giudice e non al pubblico ministero, giudice che può appunto rigettare la richiesta e restituire gli atti alla parte pubblica, senza che tale decisione possa essere oggetto d’impugnazione. Anche in questo caso si sottolinea come la possibilità per il pubblico ministero di perseguire il proprio obiettivo mediante l’ordinario esercizio dell’azione penale non provoca alcuno stallo del procedimento, ed esclude qualsiasi considerazione di abnormità del procedimento, che invece rientra nella normale dialettica tra le parti. Sez. 4, n. 40513 del 06/10/2010, D’Isa, Rv. 248857, esclude l’abnormità del provvedimento di restituzione degli atti e sottolinea in modo esplicito rispetto alle altre decisioni, che non affrontano direttamente questo tema, come non si sia realizzata in nessun modo una indebita regressione del procedimento, sia in considerazione del fondamento normativo del provvedimento di restituzione ex art. 459, comma 3, cod. proc. pen., che in relazione alla piena possibilità per il pubblico ministero di perseguire, senza alcun limite, le proprie determinazioni, potendo esercitare l’azione penale nelle forme ordinarie. Una motivazione maggiormente articolata a sostegno della piena legittimità del provvedimento di restituzione si rinviene nella decisione della Sez. 6, n. 36216 del 27/06/2013, Galati, Rv. 256331, che esclude qualsiasi profilo di abnormità, nel caso in cui la restituzione degli atti sia stata giustificata dalla necessità di approfondimenti istruttori. Si sottolinea l’assenza di qualsiasi forma di stallo processuale, considerata la possibilità del pubblico ministero di rinnovare la propria richiesta o eventualmente promuovere l’azione penale mediante emissione di un decreto di citazione; in tal senso si afferma che proprio la caratterizzazione del potere di controllo del giudice per le indagini preliminari rende possibile una valutazione di merito sulla consistenza degli elementi di prova addotti a sostegno del decreto di condanna ex art. 460, comma 1, lett. c) del cod. proc. pen. L’attività di controllo del giudice per le indagini preliminari non può essere quindi considerata circoscritta alla verifica della ricorrenza delle condizioni di ammissibilità del procedimento stesso, né alla mera rilevazione dell’incongruità della pena, potendo spaziare “nell’utilizzazione di ogni risultanza processuale”, senza peraltro poter incidere sulla libertà del pubblico ministero di scegliere il rito e formulare l’imputazione. Principi del tutto conformi a tale ultima decisione risultano espressi anche dalla Sez. 4, n. 45683 del 18/09/2014, Mirra, Rv. 261063 che ha ritenuto non abnorme un provvedimento di restituzione motivato in considerazione dell’incongruità della pena se rapportata alla gravità della violazione contestata, riconoscendo quindi ancora una volta il legittimo esercizio di una valutazione di merito sulla adeguatezza della pena correlata alla qualificazione giuridica del fatto in contestazione (nello stesso senso già in epoca precedente Sez. 6, n. 45290 del 11/11/2008, Esposito, Rv. 242377).

In tale ambito interpretativo occorre poi segnalare alcune decisioni che, seppure non esattamente in termini, tendono a far emergere un concetto senz’altro rilevante anche nella valutazione della questione rimessa, ovvero l’esclusione di qualsiasi profilo di abnormità per provvedimenti, interlocutori e anche informali, nei rapporti tra giudice delle indagini preliminari e pubblico ministero, poiché ritenuti appartenenti alla “fisiologia del rapporto di collaborazione tra uffici”, senza determinare alcuna stasi del procedimento potendo il pubblico ministero confermare la propria originaria determinazione o accogliere le sollecitazioni del giudice o eventualmente delle parti (Sez. 4, n. 27581 del 11/05/2017, Cappello, Rv. 271125, relativa ad un caso in cui era già stata richiesta archiviazione ex art. 131-bis cod. pen. e l’indagato si era opposto chiedendo di definire il procedimento ex art. 444 cod. proc. pen.). Tale orientamento evidenzia come il principio della leale collaborazione tra uffici giudiziari si trova ad essere affermato in diverse decisioni precedenti che hanno chiarito che, quale che sia la forma prescelta dall’organo dell’accusa nell’esercizio dell’azione penale, sino a quando il giudice non si sia pronunciato è sempre possibile la revoca della richiesta da parte del P.M., “anche a seguito di una interlocuzione informale tra i due uffici” (Sez. 1, n. 11222 del 14/02/2007, Cavalca, Rv. 236549, nello stesso senso a favore di una proficua interlocuzione tra uffici, a prescindere da un rigetto espresso, anche Sez. 5, n. 24141 del 24/04/2002, Sangregorio, Rv. 222047). Ciò che dunque sembra emergere in modo univoco dall’orientamento in questione, analizzato nelle sue diverse declinazioni, è certamente l’ambito ristretto che va attribuito alla locuzione “ragioni di opportunità”.

3. L’indirizzo giurisprudenziale minoritario che ritiene l’abnormità della restituzione degli atti.

In una diversa prospettiva, Sez. 1, n. 15272 del 21/12/2016, Allocco, Rv. 269464, ha affermato che è abnorme il provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero, sulla base di un’ipotetica valutazione circa l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. Richiamando l’orientamento secondo il quale la restituzione può avvenire solo per profili che riguardano la legittimità del rito, la qualificazione giuridica del fatto e l’adeguatezza della pena, la decisione esclude che sia possibile riconoscere uno spazio di discrezionalità ulteriore, seppure correlato alle più diverse ragioni di opportunità; ciò perché il giudice si trova dinnanzi ad un’azione penale già esercitata nelle forme dell’art. 459, comma 1, cod. proc. pen., e dunque ove non ritenga di emettere sentenza ex art. 129 cod. proc. pen., è tenuto ad emettere il decreto penale di condanna. Secondo la decisione citata una restituzione basata su di una “ipotetica” valutazione di applicabilità della causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. concretizza effettivamente un’ipotesi di abnormità, con sviamento dalla funzione giurisdizionale, non più rispondente al modello previsto per legge. Si ritiene l’effettiva ricorrenza di carenza di potere in concreto, perché, pur esistendo il potere in questione ex art. 459, comma 3, cod. proc. pen., questo è previsto per casi e situazioni diverse da quelle della restituzione per valutare la possibilità di archiviare ex art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. Si sottolinea il principale profilo di criticità, rappresentato dal confronto tra il rito monitorio (premiale e in assenza di contraddittorio) rispetto alla previsione dell’art. 131-bis cod. pen., dove la scarsa offensività della condotta di reato, pur esistente, è stata costruita dal legislatore come causa di esclusione della punibilità e non come causa di improcedibilità dell’azione. L’istituto presuppone dunque un accertamento del fatto ed ha come sua conseguenza l’epilogo del giudizio (se pronunziata sentenza) o comunque effetti penali rilevanti (come l’iscrizione nel casellario giudiziale del decreto di archiviazione ai sensi degli art. 3 e 4 del d.lgs. n. 28 del 2015). L’argomento relativo agli effetti penali negativi derivanti dal riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131bis cod. pen. non può tuttavia considerarsi orientamento consolidato, quanto all’asserita ricorrenza di un obbligo di iscrizione nel casellario giudiziale ex art. 3 TU n. 313 del 2002 del provvedimento di archiviazione adottato per tenuità del fatto. In particolare, Sez. 3, n. 30685 del 26/01/2017, Vanzo, Rv. 2700247, ha affermato il principio secondo il quale il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto non è ricorribile per cassazione, se non per far valere una nullità ex art. 127 cod. proc. pen., in quanto non essendo iscrivibile nel casellario giudiziale, trattandosi di provvedimento non definitivo, e non essendo pertanto lesivo della posizione dell’indagato, non ricorre un interesse di quest’ultimo ad impugnare. La sentenza richiamata esclude dunque in modo motivato l’iscrivibilità nel certificato del casellario giudiziale del provvedimento di archiviazione ex art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., in ragione della sua natura non definitiva (nello stesso senso Sez. 3, n. 45601 del 27/06/2017, Benetti; Sez. 1, n. 53618 del 27/09/2017, Di Lauro; Sez. 3, n. 46379 del 26/01/2017, Gobbo; Sez. 3, n. 47832 del 03/11/2016, Rinaldi). La decisione nel fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 3, comma 1, lett. f) del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313 richiama la necessaria “definitività” del provvedimento al fine dell’iscrizione nel casellario giudiziale e precisa come il decreto di archiviazione, in quanto non impugnabile, è per sua natura sempre provvisorio, per la possibilità di riapertura delle indagini (art. 414 cod. proc. pen.), e quindi non può essere ritenuto definitivo; sostiene tale interpretazione ritenendola conforme a Costituzione perché evita che a carico dell’indagato si producano effetti pregiudizievoli, senza che gli sia riconosciuto il diritto di impugnazione. In senso contrario, Sez. 5, n. 40293 del 15/06/2017, Serra, non massimata sul punto, che ha ritenuto necessaria l’iscrizione in relazione alle caratteristiche dell’art. 131-bis cod. pen. che presuppone un accertamento del fatto, con epilogo non completamente liberatorio per il destinatario.

La mancanza del contraddittorio nel rito monitorio viene ritenuta elemento preclusivo circa la possibilità di un passaggio, grazie alla sollecitazione del giudice per le indagini preliminari, ad un diverso tipo di giudizio che dovrebbe rendere possibile la partecipazione effettiva delle parti interessate. Si afferma dunque che l’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. nell’ambito del procedimento monitorio potrebbe venire in rilievo “esclusivamente” in sede di formulazione dell’opposizione al decreto penale già emesso, e dunque dopo l’instaurazione del contraddittorio, nell’ambito delle opzioni processuali spettanti all’opponente. La decisione in esame afferma la ricorrenza di un’incompatibilità della scelta del rito monitorio con le garanzie di contraddittorio che sono immanenti anche al procedimento di archiviazione ex art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., ma non affronta, proprio rispetto a tale affermazione, i caratteri e le possibilità circa l’esercizio della azione penale da parte del pubblico ministero (anche nel senso di una sua inazione, mediante richiesta di archiviazione) a seguito della restituzione degli atti.

Emerge dunque in questa soluzione un evidente contrasto con quanto affermato nell’ordinanza interlocutoria e nel primo orientamento sopra richiamato. A sostegno della propria argomentazione viene citata la Sez. 3, n. 8288 del 25/11/2009, Russo, Rv. 246333, che tuttavia richiama in generale il principio, pienamente condiviso anche dal primo orientamento citato, secondo il quale è abnorme l’atto di restituzione basato esclusivamente su ragioni di mera opportunità e la Sez. 6 n. 23829 del 2016, Rv. 267272 (già riportata nel suo percorso motivazionale diversamente strutturato da quello della decisione 15272, come emerge anche dal raffronto sistematico con la struttura del giudizio immediato).

4. La particolare tenuità del fatto, il contraddittorio tra le parti, la qualificazione del fatto che giustifica la restituzione degli atti.

Quanto alle caratteristiche della previsione ex art. 131-bis cod. pen. appare opportuno richiamare in modo sintetico alcune decisioni della Corte significative – tenuto conto delle osservazioni articolate nell’orientamento da ultimo richiamato, che ha centrato la propria riflessione in tema di abnormità proprio in considerazione del carattere della particolare tenuità del fatto e delle garanzie previste dal legislatore – quanto alla possibilità di giungere all’affermazione della ricorrenza della causa di non punibilità in questione. In tal senso Sez. 5, n. 40293 del 15/06/2017, Serra, Rv. 271010, che richiama la essenzialità del principio del contradditorio nel procedimento di archiviazione ex art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. In particolare, tale decisione ha chiarito come nel caso di richiesta di archiviazione proposta dal pubblico ministero per insussistenza del fatto, a seguito dell’opposizione della parte offesa, il giudice non abbia in alcun modo la possibilità di archiviare direttamente, ritenendo la sussistenza del fatto, ma la sua scarsa offensività ex art. 131-bis del cod. pen. Premessa l’evidente violazione del diritto di difesa, sia per la parte offesa che per l’imputato, in mancanza del procedimento previsto e disciplinato dall’art. 411, comma 1-bis, del cod. proc. pen., il collegio sottolinea in modo reciso come si possa arrivare ad una tale forma di archiviazione solo ed esclusivamente sulla base di una specifica richiesta del pubblico ministero. Viene in concreto rilevato come l’esiguità del disvalore del fatto, pur corrispondente alla figura tipica di reato, è stata costruita dal legislatore come causa di non punibilità e non come causa d’improcedibilità dell’azione, sicché il giudice dovrà in questo caso seguire il procedimento ordinario, poiché il legislatore non ha considerato la possibilità che sia il giudice direttamente a ritenere applicabile la causa di non punibilità, restituendo gli atti al pubblico ministero e disponendo con ordinanza che questi formuli l’imputazione, a meno che non ritenga di presentare una nuova richiesta di archiviazione ex art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. (dunque in sostanza giungendo ad una eventuale diversa qualificazione giuridica del fatto proprio in considerazione del profilo di offensività). La valutata ricorrenza del fatto, una sua diversa qualificazione giuridica – scarsa offensività piuttosto che insussistenza – impone dunque la restituzione degli atti al pubblico ministero, come atto procedimentale tipico e necessario nel rapporto dinamico e di controllo tra giudice per le indagini preliminari e accusa.

La stessa argomentazione emerge anche da Sez. 5, n. 36857 del 07/07/2016, Ruggiero, Rv. 268323 e Sez. 4, n. 25539 del 18/01/2016, Andrei, Rv. 270090, che confermano la imprescindibilità del contradditorio per giungere ad una decisione che riconosca la causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen., non potendosi ritenere ricorrente una possibilità per il giudice di archiviare anche per motivi diversi da quelli individuati nella richiesta della pubblica accusa. Nel caso in cui dunque il giudice opti per la qualificazione giuridica del fatto in termini diversi dal pubblico ministero richiedente l’archiviazione, nel senso di ritenere ricorrente un fatto di particolare tenuità non punibile ex art. 131-bis cod. pen., dovrà essere disposta necessariamente la restituzione degli atti al pubblico ministero.

La restituzione degli atti si appalesa dunque secondo queste decisioni come l’epilogo necessario in considerazione di una diversa considerazione e conseguente valutazione del fatto oggetto di contestazione. Particolarmente analitica sull’istituto in questione e sulle sue connotazioni Sez. 5, n. 5800 del 02/07/2015, Markikou, Rv. 267989, che ha affermato che l’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., pur avendo natura sostanziale, è disciplinato in rito come causa di improcedibilità ed è applicabile nei procedimenti pendenti in sede di legittimità alla data di entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, per i quali la Suprema Corte può rilevare d’ufficio la sussistenza delle condizioni di applicabilità del nuovo istituto e disporre, ai sensi dell’art. 620 lett. a) cod. proc. pen., l’annullamento senza rinvio perché l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita. Il caso concreto in questa decisione era relativo ad una contestazione per furto tentato (per beni di modico valore) per la quale il pubblico ministero aveva esercitato l’azione penale mediante emissione di decreto penale di condanna. Il giudice non accoglieva la prospettazione del fatto e ne rilevava invece l’insussistenza, dichiarando non doversi procedere, osservando come la condotta oggetto di esame si doveva ritenere inidonea a ledere o esporre in pericolo il bene tutelato dalla norma incriminatrice. La decisione è stata contestata dalla Procura Generale che ha evidenziato come le argomentazioni spese dal giudice per affermare l’insussistenza del fatto al massimo potevano essere considerate relativamente alla concedibilità della attenuante del danno di speciale tenuità, senza poter investire la rilevanza penale del fatto. Il collegio ha ritenuto nella sua decisione che nel caso in esame debba trovare applicazione l’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. ed allo scopo di giustificare la propria decisione ricostruisce in modo analitico caratteri e presupposti dell’istituto in questione per giungere a ritenere possibile proprio per questi caratteri e presupposti una riqualificazione del fatto, nella decisione impugnata ritenuto insussistente, in realtà ritenuto sussistente, corrispondente ad una tipologia astratta di reato e caratterizzato da particolare tenuità. L’analisi della condotta oggetto di contestazione, secondo una diversa qualificazione giuridica del fatto, rende dunque possibile una valutazione dello stesso anche in sede di legittimità in presenza delle condizioni di applicabilità del nuovo istituto. Si chiarisce infatti come, nell’applicare la disposizione di cui all’art. 131-bis cod. pen., il fatto offensivo, di beni giuridici di rango costituzionale, è comunque un fatto tipico, anche nell’ipotesi in cui l’offesa si riveli particolarmente tenue, e come mentre la dimensione quantitativa del danno può individuarsi soltanto all’esito di una indagine di merito, l’individuazione del minimum di offesa attenga alla ricerca degli elementi necessari per sussumere la fattispecie concreta nel disegno astratto contemplato dalla norma incriminatrice, attività alla quale è certamente chiamato il giudice di legittimità. Così che la rilevanza del fatto, pur nella sua scarsa offensività, da inquadrare nell’ambito della particolare tenuità, può essere ritenuta anche dal giudice di legittimità direttamente, proprio grazie al diverso inquadramento giuridico della condotta. Richiamata dunque la differenza tra irrilevanza ed inoffensività del fatto con una motivazione molto ampia, la decisione in questione evidenzia come, alla base della scelta di non punire un comportamento ritenuto e qualificato come particolarmente tenue, debba ritenersi il principio di proporzione e di economia processuale ormai immanente nel nostro ordinamento in presenza di un grado di offensività minimo, ma comunque apprezzabile. Si richiama quindi la concezione gradualistica del reato non solo in senso quantitativo, ma altresì in senso qualitativo, con valutazione complessiva del disvalore da ricollegare alla condotta e all’evento cagionato. L’art. 131-bis cod. pen. viene ritenuto norma a portata speculare agli art. 56 o 110 del cod. pen., precisando che, mentre in base a queste ultime previsioni si realizza una funzione estensiva con possibilità di sanzione penale per condotte atipiche, l’art. 131-bis cod. pen. realizza una funzione che sul piano sostanziale potrebbe dirsi riduttiva, non consentendo che la sanzione penale operi in ordine a condotte che rimangono tipiche, identificando una linea di confine inferiore circa l’applicazione delle sanzioni edittali. Dopo un’analisi approfondita della dimensione processuale e sostanziale delle diverse disposizioni che coinvolgono la possibilità di una decisione ex art. 131-bis cod. pen. (anche in sede di archiviazione con tipica portata e funzione di sbarramento in senso processuale), il collegio afferma come la tenuità del fatto è causa di non punibilità che tuttavia, a scopo deflattivo, viene disciplinata nelle sue implicazioni in rito come causa di non procedibilità, salva la necessità in ipotesi peculiari del non dissenso dell’imputato.

Rileva anche, con affermazione che si presenta particolarmente interessante che: “il giudizio di tenuità in concreto dell’offesa ascrive una qualificazione giuridica al fatto contestato e può pertanto essere compiuto anche d’ufficio dalla Corte di cassazione, sulla base dell’accertamento in fatto compiuto dal giudice di merito” ed anche che: “ove il fatto sia particolarmente tenue, deve essere disposta l’archiviazione del procedimento a prescindere da un accertamento di responsabilità (come prescrive l’art. 411 cod. proc. pen.), e poiché la tenuità non sopravviene, ma certamente preesiste, in qualsiasi momento la si accerti, occorre dichiarare che l’azione penale non poteva essere esercitata, come impone l’art. 469 cod. proc. pen. nel richiamare una sentenza di non doversi procedere e l’art. 651-bis nell’evocare il proscioglimento dell’imputato”. Conclude infine la Corte affermando che: “l’accertamento della responsabilità, non previsto per la fase delle indagini preliminari, è espressamente previsto dall’art. 651-bis cod. proc. pen. solo per la dichiarazione di improcedibilità nella fase del giudizio, per ragioni di economia processuale”. La particolare tenuità del fatto viene dunque ritenuta rilevabile anche d’ufficio dalla Corte di cassazione, con annullamento senza rinvio della sentenza impugnata ove sia possibile riscontrare immediatamente e senza ulteriori accertamenti la sussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 131-bis cod. pen. perché l’attività richiesta al giudice di legittimità non può intendersi come verifica di merito, ma piuttosto come semplice valutazione di corrispondenza del fatto, nel suo minimo di tipicità, al modello legale di una fattispecie incriminatrice (nello stesso senso Sez. 6, n. 7606 del 16/12/2016, Curia, Rv. 269164; Sez. 1, n. 27752 del 09/05/2017, Menegotti, Rv. 270271).

La decisione in questione presenta dunque profili di oggettivo interesse sia in relazione all’approccio al tema interpretativo circa la portata dell’art. 131-bis cod. pen., da considerare come ipotesi di qualificazione giuridica del fatto a disposizione anche del giudizio di legittimità, che in considerazione dell’asserita necessità di un accertamento necessario o meno della responsabilità in sede di indagini preliminari quanto alla possibilità di accedere ad una richiesta di archiviazione ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.

La considerazione della tematica relativa all’art. 131-bis cod. pen. in relazione alla qualificazione giuridica del fatto porta quindi ad un rilevante collegamento con la questione rimessa, quanto alla ampiezza e consistenza dei poteri restitutori del giudice per le indagini preliminari.

I temi affrontati da questa decisione hanno poi trovato un riscontro interpretativo fondamentale nella successiva decisione delle Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266594 che ha affermato, sul punto in particolare che coinvolge la questione rimessa, che in tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., quando la sentenza impugnata è anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimità va ritenuta o esclusa senza rinvio del processo nella sede di merito e se la Corte di cassazione, sulla base del fatto accertato e valutato nella decisione, riconosce la sussistenza della causa di non punibilità, la dichiara d’ufficio, ex art. 129 cod. proc. pen., annullando senza rinvio la sentenza impugnata, a norma dell’art. 620, comma 1 lett. l), cod. proc. pen. Le Sezioni unite, premessa la ricorrenza nel caso dell’art. 131-bis cod. pen., di innovazione di diritto penale sostanziale che disciplina l’esclusione della punibilità e che reca senza dubbio una disciplina più favorevole, ha precisato come sia da ritenere possibile una applicazione d’ufficio di tale disciplina, anche in caso di ricorso inammissibile. Precisa a sua volta la decisione come l’art. 620, comma 1, lett. l) cod. proc. pen. consenta alla Corte di adottare una pronunzia di annullamento senza rinvio quando la restituzione nella sede di merito si appalesi superflua, ovvero quando non è richiesta una valutazione sul fatto estranea al sindacato di legittimità, con conseguente possibile pronunzia ex art. 129 cod. proc. pen. L’attività che viene dunque in concreto svolta dalla Corte in sede di legittimità, sulla base del fatto accertato e valutato dalla sentenza impugnata, è fondamentalmente volta all’applicazione della legge, mediante l’accertamento del “se la fattispecie concreta è collocata entro il modello legale espresso dal nuovo istituto”. Ecco che dunque, anche nell’analisi delle Sezioni Unite, la considerazione dell’eventuale ricorrenza della causa di non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. rappresenta una legittima valutazione, al fine della qualificazione giuridica, della corrispondenza della fattispecie concreta al modello legale introdotto con il nuovo istituto.

In tal senso appare opportuno anche richiamare un orientamento non recente, ma costante, secondo il quale il disposto di cui all’art. 459, comma 3, cod. proc. pen., secondo cui, in caso di mancato accoglimento della richiesta di decreto penale, il giudice, salvo che non debba pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., restituisce gli atti al pubblico ministero, importa che, nel caso in cui il mancato accoglimento dipenda da una diversa qualificazione giuridica del fatto, il giudice deve limitarsi a disporre la restituzione degli atti, senza poter pronunciare sentenza di proscioglimento in ordine al diverso reato ritenuto rispetto a quello originariamente contestato, giacché altrimenti tale sentenza, se non impugnata, darebbe luogo all’effetto preclusivo di cui all’art. 649 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 47515 del 20/10/2003, Cerasa, Rv. 226468, Sez. 4, n. 108 del 02/12/2011, Barillà, Rv. 251747, Sez. 5, n. 2982 del 15/12/2011, Jjiansheng Rv. 251940). Emerge dunque anche in queste decisioni, anche indirettamente nell’applicazione di principi generali, la particolare rilevanza e ruolo del potere di restituzione atti del giudice delle indagini preliminari, quale diretta e legittima conseguenza prevista dall’art. 459, comma 3, cod. proc. pen. nel caso di diversa qualificazione giuridica del fatto.

5. La giurisprudenza relativa alla consumazione del potere di azione del pubblico ministero a seguito dell’emissione di decreto penale di condanna.

Considerato il contrasto richiamato dall’ordinanza di rimessione, appare opportuno soffermarsi anche su altre tematiche collegate alla soluzione della questione. Occorre infatti approfondire il profilo relativo alle caratteristiche della azione penale, ai sensi dell’art. 50 cod. proc. pen., alla sua c.d. irretrattabilità e alle conseguenze che derivano in questo ambito dalla scelta del pubblico ministero di chiedere al giudice per le indagini preliminari di emettere un decreto penale di condanna. Nell’ambito delle decisioni sinora considerate non risulta affrontato il tema collegato alla decisione del giudice delle indagini preliminari di restituire gli atti al pubblico ministero al fine di valutare se effettivamente possa essere richiesta l’archiviazione ex art. 131-bis cod. pen., ovvero se con la richiesta di emissione del decreto penale di condanna l’azione penale sia da ritenere definitivamente esercitata, e come tale dunque irretrattabile, o in alternativa se dalla restituzione al pubblico ministero derivi la piena riespansione dei suoi poteri, con completa possibilità di scelta nelle modalità di esercizio della azione penale (anche eventualmente giungendo ad una inazione mediante richiesta di archiviazione). Se effettivamente si dovesse propendere per un’oggettiva irretrattabilità dell’azione penale, a seguito della formalizzazione della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, il controllo del giudice delle indagini preliminari sarebbe oggettivamente limitato, non potendo spingere l’azione del pubblico ministero ad un esito incompatibile con l’esercizio, e conseguente irretrattabilità, dell’azione penale, per giungere ad una richiesta di archiviazione, con evidenti riflessi sulla problematica sollevata relativa all’abnormità o meno del provvedimento di restituzione degli atti per valutare la possibilità di archiviare ex art. 131-bis cod. pen. Diversamente, ove si propendesse per una piena riespansione del potere di azione del pubblico ministero, la restituzione degli atti rappresenterebbe un esito non incompatibile con la dinamica dei rapporti e della funzione di controllo del giudice delle indagini preliminari nei confronti del pubblico ministero. La giurisprudenza della Corte di cassazione si è espressa esplicitamente su questo tema, sebbene non recentemente, con due diversi orientamenti, uno dei quali minoritario e non seguito nelle successive decisioni, orientamenti relativi a fattispecie nelle quali si è ampiamente analizzata la possibilità di regressione del procedimento in correlazione all’irretrattabilità o meno della azione penale. L’orientamento minoritario, sostenuto dalla Sez. 1, n. 35185 del 23/06/2009, Gontar, Rv. 245373 sostiene che la restituzione degli atti al pubblico ministero in seguito al rigetto della richiesta di decreto penale non giustifica la proposizione della richiesta di archiviazione, perché presuppone l’avvenuto esercizio della azione penale. Nel caso concreto il pubblico ministero aveva richiesto l’emissione di decreto penale di condanna, il giudice per le indagini preliminari aveva restituito gli atti e, a seguito della restituzione, il pubblico ministero aveva formulato richiesta di archiviazione. Il giudice per le indagini preliminari aveva quindi dichiarato non luogo a provvedere nei confronti dell’imputato affermando che, una volta esercitata l’azione penale, non era più possibile accogliere la successiva richiesta di archiviazione, ma andava necessariamente pronunziata una sentenza. La Corte nella propria motivazione condivide il ragionamento del giudice per le indagini preliminari ed afferma che l’azione penale è irretrattabile, tanto che alla richiesta di decreto penale di condanna non poteva seguire richiesta di archiviazione, con conseguente corretta decisione nel non pronunciarsi su tale richiesta, seppure erroneamente si era giunti ad una pronuncia di non luogo a provvedere. Unico esito possibile, anche a seguito della richiesta di archiviazione, era da ritenere la restituzione degli atti al pubblico ministero per l’ulteriore corso. Sinteticamente in motivazione si richiama la giurisprudenza di segno opposto secondo la quale la soluzione prescelta in nome di una presunta irretrattabilità dell’azione penale sarebbe abnorme, ma il Collegio giustifica la propria decisione a sostegno dell’irretrattabilità dell’azione penale ritenendola corollario imprescindibile dell’obbligatorietà della stessa ai sensi dell’art. 112 Cost., come valore fondante del sistema processuale, con la conseguenza che il pubblico ministero non può recedere o attenuare la pretesa punitiva già manifestata con la richiesta di decreto penale di condanna, sicché in caso di restituzione degli atti è necessario procedere con rito ordinario per giungere a quella decisione che è inevitabile corollario dell’esercizio dell’azione penale. A tale isolato orientamento si contrappone un’interpretazione consolidata in plurime decisioni della Corte. Le decisioni si sono occupate, nell’analisi di diverse fattispecie, della dinamica processuale tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari, con particolare riferimento al potere di controllo di quest’ultimo. Tale seconda opzione interpretativa ha infatti affermato, con una delle sue prime decisioni sul punto (Sez. 5, n. 4883 del 27/11/2002, D’Elia, Rv. 224700), che è abnorme il provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, dopo avere rigettato la richiesta di emissione del decreto penale di condanna e avere disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero, dichiari inammissibile la subordinata richiesta di archiviazione sul rilievo che l’azione penale era stata già esercitata ed è per sua natura irretrattabile. In questo caso la sentenza citata ha sostenuto che l’art. 459, comma 3, cod. proc. pen., prevedendo la restituzione degli atti al pubblico ministero, ha coerentemente sancito, a causa dell’inoperatività della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, la legittimità della regressione alla fase delle indagini preliminari, con conseguente piena espansione dei poteri del pubblico ministero quanto all’azione penale e alle sue modalità di esercizio. Rileva la decisione come il giudice delle indagini preliminari abbia erroneamente invocato il principio dell’irretrattabilità dell’azione penale, poiché il mancato accoglimento della richiesta di decreto penale di condanna paralizza l’operatività della stessa, impedendone la funzione «propulsiva (di atto necessario alla progressione del procedimento)». Si sottolinea quindi come il fondamento della decisione debba essere rinvenuto nella stessa disciplina legislativa e nell’intento del legislatore che prevedendo con l’art. 459, comma 3, cod. proc. pen. la restituzione degli atti al pubblico ministero, ha coerentemente sancito la legittimità della regressione alla fase delle indagini preliminari, proprio a causa dell’inoperatività della richiesta di decreto penale di condanna. La naturale conseguenza di tale regressione deve dunque essere identificata in una piena espansione dei poteri del pubblico ministero quanto all’azione penale e alle sue modalità di esercizio, con piena legittimità della richiesta di archiviazione. Il rigetto della richiesta di archiviazione viene dunque ritenuto, in questo caso, un atto abnorme «siccome non rispondente ai parametri normativi concernenti le attribuzioni dei soggetti processuali e indebitamente limitativo dei poteri del pubblico ministero». Emerge in sostanza nella pronuncia in esame, mediante il richiamo al fondamento normativo dell’art. 459, comma 3, cod. proc. pen., la necessità di un pieno rispetto delle prerogative del pubblico ministero, senza possibilità da parte del giudice per le indagini preliminari di sostituirsi con il proprio canone di giudizio alle diverse modalità di esercizio della azione penale, che possono anche portare ad una scelta di inazione, una volta che sia legittimamente regredito il procedimento alla fase delle indagini preliminari. In modo ancora più esplicito la Corte ha quindi affermato che qualora il giudice per le indagini preliminari non accolga la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, e non ritenga di pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., deve restituire gli atti al pubblico ministero il quale può procedere con rito ordinario ovvero chiedere l’archiviazione del procedimento (Sez. 5, n. 26480 del 25/03/2003, Taronna, Rv. 226119). Anche in questo caso si è dunque ritenuta l’abnormità del provvedimento del giudice delle indagini preliminari che ometta di provvedere sulla richiesta di archiviazione richiamando il principio d’irretrattabilità dell’azione penale. Nel caso concreto il giudice per le indagini preliminari aveva restituito gli atti evidenziando la carenza e mancanza di elementi di prova, da qui la richiesta di archiviazione e la nuova restituzione degli atti. In questa decisione si è ancora una volta sottolineata la legittimità della regressione del procedimento a seguito della restituzione degli atti al pubblico ministero in esecuzione di un potere attribuito dalla legge al giudice, sicché non risulta più proponibile la questione relativa alla obbligatorietà e irretrattabilità dell’azione penale che risulta oggettivamente “caducata” dal provvedimento di restituzione. Ne consegue che il pubblico ministero viene investito nuovamente dagli originari poteri di iniziativa e di propulsione processuale, non risultando più vincolato, nella piena possibilità di esercitare liberamente i poteri-doveri attribuiti dalla legge proprio per quella fase procedimentale. Può dunque procedere con il rito ordinario, ma melius re perpensa può richiedere l’archiviazione del procedimento, «che non è preclusa dal pregresso esercizio dell’azione penale, ormai caducata dalla legittima restituzione degli atti e dalla facultizzata regressione nella fase delle indagini preliminari». Emerge come momento centrale di riflessione il fatto che è ben vero che secondo l’art. 50 cod. proc. pen. il pubblico ministero esercita l’azione penale quando non sussistono i presupposti per l’archiviazione, ma la valutazione della fondatezza di tale richiesta deve necessariamente essere apprezzata dal giudice che ha il legittimo potere di restituzione degli atti. Un’attività necessaria di controllo, che tuttavia non sconfina in una sostituzione del proprio criterio di valutazione alle libere determinazioni del pubblico ministero. Il giudice ha dunque il dovere di esercitare un controllo giurisdizionale di verifica anche nella fase procedimentale circa la correttezza giuridica e la fondatezza nel merito delle richieste del pubblico ministero e, qualora questo sindacato sia negativo, la regressione, disposta in attuazione della norma giuridica, determina il ritorno del processo alla fase degli atti preliminari e restituisce al pubblico ministero tutti i poteri di fase previsti dagli art. 405 e seguenti del cod. proc. pen. Ancora si sottolinea, quale elemento a sostegno della piena riespansione dei poteri del pubblico ministero, che la disciplina del provvedimento monitorio, quanto alla restituzione degli atti, si caratterizza per l’enunciazione dei poteri del giudice per le indagini preliminari, ma non di quelli del pubblico ministero, proprio perché questi sono ricavabili dalle norme che disciplinano la chiusura delle indagini preliminari, ovvero in relazione alla fase alla quale il procedimento legittimamente regredisce.

Questi principi risultano ribaditi costantemente anche in seguito (Sez. 5, n. 5659 del 14/02/2005, Pellegrin, Rv. 231208, in caso assolutamente analogo di restituzione degli atti per incertezza del quadro probatorio, Sez. 2, n. 13680 del 20/03/2009, Siddi, Rv. 244052, che a sua volta applica principi analoghi già affermati da Sez. 6, n. 19128 del 14/02/2001, Zekri, Rv. 219873), con richiamo alla piena riespansione dei poteri del pubblico ministero quanto all’azione penale e alle sue modalità a causa della legittima regressione del procedimento conseguente all’inoperatività del decreto penale di condanna.

6. L’irretrattabilità della azione penale e la regressione del procedimento anche con riferimento alla struttura del decreto penale di condanna e ai poteri di controllo del

G.i.p.nell’ambito dei rapporti tra funzione requirente e giudicante.

L’orientamento giurisprudenziale appena citato ha poi trovato riscontro in una serie di decisioni più recenti della Corte, che hanno valutato la portata della legittima regressione del procedimento, con riespansione dei poteri del pubblico ministero, in diverse fattispecie. È stata così ritenuta legittima in sede di regressione del procedimento (a causa della dichiarazione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio solo per alcuni imputati) la scelta del pubblico ministero di procedere solo per questi imputati, ad esito della restituzione degli atti e separazione dei procedimenti, con rito diverso (giudizio immediato rispetto al rito ordinario, Sez. 6, n. 3022 del 19/11/2010, Parente, non mass.). Anche in questo caso si è evidenziato come la trasmissione degli atti al pubblico ministero, a seguito della declaratoria di nullità dell’atto con cui era stata esercitata l’azione penale, attribuisce allo stesso una piena libertà di determinazione, svincolandolo dal precedente atto di esercizio dell’azione penale. Tra l’altro si è sottolineato come non ricorra neanche un profilo di irretrattabilità della azione penale, considerato che la stessa è stata effettivamente esercitata seppure con rito diverso. Ancora si è affermata la legittimità della regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, mediante restituzione degli atti al pubblico ministero, nel caso di contestazione in dibattimento di fatto diverso da quello descritto nell’imputazione, con conseguente piena facoltà di richiedere ed ottenere dal giudice per le indagini preliminari, nella ricorrenza dei presupposti di legge, l’archiviazione per il fatto diverso oggetto di contestazione (Sez. 3, ordinanza n. 45708 del 26/10/2011, F., Rv. 251596). Anche in questa decisione si è chiarito come la legittimità della regressione del procedimento esclude l’abnormità del provvedimento di archiviazione, senza alcuna incidenza sull’azione penale e sul principio di irretrattabilità della stessa. Nel caso concreto la Corte ha chiarito come la regressione del procedimento trovi il proprio fondamento normativo nella previsione di cui all’art. 521 cod. proc. pen., che espressamente la consente quando il giudice accerti che il fatto è diverso da quello descritto nel decreto che dispone il giudizio. Sez. 5, n. 37302 del 12/06/2012, Scipioni, ha affermato la legittimità del provvedimento di non luogo a provvedere del giudice per le indagini preliminari nel caso in cui il pubblico ministero, pur avendo articolato richiesta di archiviazione, ne avesse disposto la revoca prima della pronunzia sul punto del giudice. Il collegio ha sottolineato come anche in questo caso non si possa ritenere l’intervenuta violazione del principio di irretrattabilità dell’azione penale, poiché sino a che non interviene una decisione sulla scelta del pubblico ministero (seppure nel senso della inazione), questi è libero di revocare la propria decisione e rientrare nel pieno dei poteri che caratterizza la fase delle indagini preliminari (così come già affermato dalla Sez. 2, n. 18774 del 18/04/2007, Battisti, Rv. 236405). Si attesta in senso assolutamente conforme all’orientamento maggioritario in tema di azione penale e irretrattabilità Sez. 3, 42446 del 26/03/2015, Cuoco, in caso simile a quello oggetto dell’ordinanza rimessione. In concreto la richiesta di decreto penale di condanna era stata rigettata per errato calcolo della pena con restituzione degli atti al pubblico ministero, che in seguito aveva avanzato richiesta di archiviazione, richiesta rigettata dal giudice proprio in considerazione del principio d’irretrattabilità. Tale conclusione è tuttavia ritenuta dalla Corte in contrasto con la giurisprudenza prevalente in base alla quale con la restituzione degli atti il procedimento “retrocede fisiologicamente alla fase delle indagini preliminari e nessuno degli esiti propri di tale fase può ritenersi precluso”. L’inoperatività della richiesta di emissione di decreto penale determina quindi la piena espansione dei poteri del pubblico ministero, con abnormità dunque del provvedimento del giudice di rigetto della richiesta di archiviazione. Ancora si è ritenuto che non ricorra abnormità dell’atto nel caso in cui il giudice, rilevato che il reato concorrente oggetto di contestazione suppletiva ex art. 517 cod. proc. pen. appartiene alla competenza del tribunale piuttosto che del giudice di pace, disponga la trasmissione degli atti al pubblico ministero in applicazione dell’art. 521 cod. proc. pen. Anche in questo caso la Corte evidenzia come, una volta che gli atti siano stati ritualmente restituiti al pubblico ministero, questi può legittimamente svolgere ulteriori indagini o comunque richiedere l’archiviazione del procedimento, non operando il principio dell’irretrattabilità dell’azione penale in presenza di una piena riespansione dei poteri dell’accusa (Sez. 6, n. 8063 del 25/11/2015, Renda). Recentemente Sez. 2, n. 36186 del 06/07/2017, Landi, Rv. 270649, ha ribadito un principio più volte affermato in passato secondo il quale dopo la sentenza dichiarativa di incompetenza da parte del tribunale e la conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice ritenuto competente, questi può liberamente determinarsi in ordine all’esercizio dell’azione penale, potendo formulare una richiesta di archiviazione del procedimento. Nella motivazione il collegio chiarisce come sulla base delle sentenze n. 70 e n. 76 della Corte costituzionale, che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 23 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedeva la trasmissione degli atti al pubblico ministero, piuttosto che presso il giudice competente, hanno comportato una deroga al principio di irretrattabilità dell’azione penale, con apertura di una nuova e diversa fase procedimentale. La regressione del procedimento pone all’evidenza nel nulla la precedente fase di giudizio e le nuove eventuali indagini preliminari non vengono affatto condizionate da quanto avvenuto nel primo giudizio (nel senso di una piena riespansione e assenza di condizionamento, nel caso di revoca di decreto penale che non si era potuto notificare, anche Sez. 4, n. 55129 del 09/11/2017, Doriani, non massi.). Queste decisioni dunque analizzano il principio di obbligatorietà dell’azione penale e la sua conseguente irretrattabilità alla luce delle diverse disposizioni normative che rendono possibile una retrocessione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, disposizioni che legittimano una deroga al principio in questione con conseguente espansione piena dei poteri del pubblico ministero, proprio per evitare una sovrapposizione del criterio di giudizio del giudice delle indagini preliminari rispetto alle libere determinazioni dello stesso.

7. La sentenza delle Sezioni Unite “Ksouri Mohamed” e il superamento del contrasto.

La decisione Ksouri ricostruisce il complesso contesto interpretativo nell’ambito del quale è maturato il contrasto ed afferma il seguente principio di diritto: “Non è abnorme, e quindi non ricorribile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, restituisca gli atti al pubblico ministero perché valuti la possibilità di chiedere l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. “

Nel formulare il sopraindicato principio di diritto le Sezioni Unite hanno aderito all’orientamento maggioritario e, dopo aver richiamato l’interpretazione in tema di abnormità dell’atto sia strutturale che funzionale (Sez. U, Toni, n. 25957 del 26/03/2009, Rv. 243590) precisandone la natura eccezionale e residuale tra le forme di tutela apprestate dall’ordinamento, hanno chiarito come la mera trasmissione degli atti al pubblico ministero senza alcun esplicito rigetto della richiesta emissione di decreto penale di condanna, per una valutazione sulla possibile archiviazione del procedimento ex art. 131-bis cod. pen., non rappresenta in alcun modo una ipotesi di abnormità nella sua diverse manifestazioni così come evidenziate ed enucleate dalla giurisprudenza.

Afferma la Suprema Corte come quanto a struttura l’ordinanza in questione costituisca espressione “del legittimo esercizio del potere cognitivo conferito al giudice per le indagini preliminari dall’art. 459, comma 3, del cod. proc. pen., che al di fuori di qualsiasi automatismo decisorio e in coerenza col ruolo funzionale di quel giudice gli riconosce la possibilità di un ampio sindacato sul merito dell’istanza”. Dunque, la stessa previsione normativa consente di escludere che la presentazione della richiesta operi con effetti vincolanti per il giudice a cui sia rivolta, tanto che sono ammessi diversi esiti decisori a carattere alternativo, rimessi alla discrezionalità del giudicante (accoglimento, rigetto con contestuale pronuncia ex art. 129 cod. proc. pen., rigetto sostanziale per il tramite dalla restituzione degli atti). In motivazione si chiarisce come anche nella impostazione della dottrina, oltre che della giurisprudenza, si tenda a non circoscrivere l’area delle verifiche giudiziali sulla domanda di emissione di decreto penale ai soli profili attinenti alla legalità della sanzione in concreto irrogabile rispetto ai limiti edittali ed alla diminuzione prevista in relazione alla natura speciale del rito, mentre deve essere considerata ammissibile una valutazione estesa ai presupposti legittimanti l’ammissibilità del rito stesso, nonché alla qualificazione giuridica del fatto e congruità della pena. Il limite alla valutazione discrezionale del giudice è rappresentato dall’impossibilità di giungere ad un rigetto della richiesta emissione di decreto penale basata esclusivamente su ragioni di opportunità. Tale limite è stato normalmente inteso dalla giurisprudenza nel senso della non interferenza con le attribuzioni istituzionali della pubblica accusa circa le modalità di esercizio della azione penale. L’indebita usurpazione delle competenze è stata tuttavia esclusa da molte decisioni della giurisprudenza nel caso in cui il disaccordo verta sulla qualificazione giuridica da assegnare al reato, sull’insufficienza delle acquisizioni probatorie, sulla necessità di imporre la confisca di beni, non adottabile con decreto penale di condanna, sull’insussistenza dei presupposti per la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria, sulla non congruità della pena da irrogare in concreto rispetto alla gravità della violazione accertata, sull’inidoneità dell’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio da parte di cittadino extracomunitario privo di fissa dimora.

A supporto della propria decisione la Corte evidenzia come le specifiche competenze e il sindacato del giudice delle indagini preliminari trovino un supporto nelle indicazioni esegetiche fornite dalla sentenza n. 447 del 1990 della Corte costituzionale, che ha chiarito come al giudice competa in applicazione del disposto di cui all’art. 459, comma 3, cod. proc. pen. un potere di controllo completo, nel rito e nel merito, senza che la restituzione degli atti comporti “effetti vincolanti e limitativi dei poteri spettanti al pubblico ministero, cui resta consentito di reiterare una richiesta di contenuto adeguato ai rilievi critici del giudice, instaurare riti semplificati o procedere nelle forme ordinarie”. E tali conclusioni non mutano, a parere della Corte, nel caso in cui il provvedimento di restituzione sia motivato dalla necessità di verificare se sussista o meno la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, che non si esaurisce in una valutazione di mera inopportunità dell’introduzione del rito monitorio. Proprio la necessaria valutazione circa la portata lesiva dell’illecito contestato nell’imputazione, al fine di un’eventuale archiviazione del procedimento, rimessa ad una successiva delibazione, non implica alcuna invasione delle attribuzioni dell’organo requirente, ma rientra nella “attività di qualificazione giuridica del fatto nel senso che una volta condotta la ricognizione degli elementi costitutivi della fattispecie tipica, nel caso concreto perfettamente integrata e riferibile al comportamento dell’imputato, il giudice procede alla considerazione dell’effettivo disvalore del comportamento antigiuridico presupposto di applicabilità della causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen.”. Una valutazione dunque incentrata sul grado di maggiore o minore aggressione del bene giuridico protetto e della complessiva manifestazione dell’attività criminosa al fine di riscontrare se l’incidenza lesiva insita nel tipo legale di illecito sia talmente esigua da non meritare punizione (Sez. U, “Tushai”).

L’apprezzamento dell’effettivo reale disvalore del fatto rientra nel modello legale di attività del giudice per le indagini preliminari ex art. 459, comma 3, cod. proc. pen., la qualificazione giuridica del fatto, la considerazione della sua reale portata offensiva è dunque prerogativa che compete al giudice in tutte le fasi e gradi del giudizio, quale controllo di legalità sull’esito delle indagini e deve essere inteso non solo in relazione al nomen iuris da attribuire al fatto, ma anche in considerazione degli elementi accidentali dello stesso compresa la concreta punibilità del soggetto imputato.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 17 del 10/12/1997, Di Battista, Rv. 209603 Sez. 6, n. 19128 del 14/02/2001, Zekri, Rv. 219873 Sez. 5, n. 24141 del 24/04/2002, Sangregorio, Rv. 222047 Sez. 5, n. 4883 del 27/11/2002, D’Elia, Rv. 224700 Sez. 5, n. 26480 del 25/03/2003, Taronna, Rv. 226119 Sez. 1, n. 47515 del 20/10/2003, Cerasa, Rv. 226468 Sez. 5, n. 5659 del 14/02/2005, Pellegrin, Rv. 231208 Sez. 1, n. 11222 del 14/02/2007, Cavalca, Rv. 236549 Sez. 2, n. 18774 del 18/04/2007, Battisti, Rv. 236405 Sez. 6, n. 45290 del 11/11/2008, Esposito, Rv. 242377 Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590 Sez. 2, n. 13680 del 20/03/2009, Siddi, Rv. 244052 Sez. 1, n. 35185 del 23/06/2009, Gontar, Rv. 245373 Sez. 3, n. 8288 del 25/11/2009, Russo, Rv. 246333 Sez. 4, n. 40513 del 06/10/2010, D’Isa, Rv. 248857 Sez. 6, n. 3022 del 19/11/2010, Parente Sez. 3, n. 45708 del 26/10/2011, F., Rv. 251596 Sez. 4, n. 108 del 02/12/2011, Barillà, Rv. 251747 Sez. 6, n. 48760 del 06/12/2011, Mannino, Rv. 251568 Sez. 5, n. 2982 del 15/12/2011, Jiansheng, Rv. 251940 Sez. 5, n. 37302 del 12/06/2012, Scipioni Sez. 6, n. 36216 del 27/06/2013, Galati, Rv. 256331 Sez. 4, n. 45683 del 18/09/2014, Mirra, Rv. 261063 Sez. 5, n. 5800 del 02/07/2015, Markikou, Rv. 267989 Sez. 3, n. 42446 del 26/03/2015, Cuoco Sez. 6, n. 8063 del 25/11/2015, Renda Sez. 6, n. 663 del 01/12/2015, R., Rv. 266111 Sez. 4, n. 25539 del 18/01/2016, Andrei, Rv. 270090 Sez. 4, n. 10209 del 04/02/2016, Parola Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266594 Sez. 6, n. 23829 del 12/05/2016, C., Rv. 267272 Sez. 5, n. 36857 del 07/07/2016, Ruggiero, Rv. 268323 Sez. 4, n. 48888 del 25/10/2016, Bouraya Sez. 4, n. 48886 del 25/10/2016, Gagliardi Sez. 3, n. 47832 del 03/11/2016, Rinaldi Sez. 6, n. 7606 del 16/12/2016, Curia, Rv. 269164 Sez. 1, n. 15272 del 21/12/2016, Allocco, Rv. 269464 Sez. 3, n. 30685 del 26/01/2017, Vanzo, Rv. 2700247 Sez. 3, n. 46379 del 26/01/2017, Gobbo Sez. 1, n. 27752 del 09/05/2017, Menegotti, Rv. 270271 Sez. 4, n. 27581 del 11/05/2017, Cappello, Rv. 271125 Sez. 5, n. 40293 del 15/06/2017, Serra Sez. 3, n. 45601 del 27/06/2017, Benetti Sez. 2, n. 36186 del 06/07/2017, Landi, Rv. 270649 Sez. 1, n. 53618 del 27/09/2017, Di Lauro Sez. 4, n. 55129 del 09/11/2017, Doriani

SEZIONE VI IMPUGNAZIONI

  • sospensione di pena

CAPITOLO I

ART. 597 COD. PROC. PEN. E OBBLIGO DI MOTIVAZIONE IN CASO DI MANCATA APPLICAZIONE DELLA SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA NON RICHIESTA

(di Giuseppe Marra )

Sommario

1 Il contrasto giurisprudenziale. - 2 La sentenza delle Sezioni unite del 25/10/2018, Salerno. - Indice delle sentenze citate

1. Il contrasto giurisprudenziale.

Come è noto l’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., attribuisce alla Corte di appello il potere-dovere di applicare d’ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena e quello della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, oltre alla possibilità di riconoscere una o più circostanze attenuanti, effettuando, ove occorra, il giudizio di comparazione a norma dell’art. 69 cod. pen.

La sezione Terza con ordinanza n. 38398 del 17/04/2018, Salerno, rilevando sussistere un contrasto giurisprudenziale, ha rimesso alle Sezioni unite la questione: “Se il giudice dell’appello deve rendere conto del concreto esercizio, positivo o negativo, del dovere attribuitogli dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., di applicare d’ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena in assenza di specifica richiesta”.

La Terza sezione ha rilevato infatti che un primo indirizzo giurisprudenziale ha affermato che il giudice di appello non è tenuto a concedere d’ufficio la sospensione condizionale della pena, né a motivare specificatamente sul punto, diversamente invece dal caso in cui eserciti il potere discrezionale riconosciuto dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen. A questa interpretazione consegue che il mancato riconoscimento del beneficio non costituisce violazione di legge e non configura mancanza di motivazione suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen. Tra le tante sentenze di questo filone interpretativo si segnalano le più recenti: Sez. 2, n. 15930 del 19/02/2016, Moudi, Rv. 266563; Sez. 4, n. 1513 del 03/12/2013, Shehi, Rv. 258487; Sez. 4, n. 43113 del 18/09/2012, Siekierska, Rv. 253641; Sez. 6, n. 30201 del 27/06/2011, Ferrante, Rv. 256560; Sez. 3, n. 21273 del 18/03/2003, Gueli, Rv. 224850 e Sez. 5, n. 41126 del 24/09/2001, Casa-massima, Rv. 220254; Sez.1, n. 8558 del 02/05/1997, Chiavaroli, Rv. 208572.

Le argomentazioni più pregnanti utilizzate a sostegno della tesi di cui sopra sono state sostanzialmente due: da un lato la considerazione della discrezionalità del potere-dovere previsto dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., a cui consegue la non obbligatorietà di motivare il perché non è stato esercitata siffatta discrezionalità; dall’altro lato si è fatta presente l’inopportunità di concedere d’ufficio un beneficio come la sospensione condizionale, nel caso non sia stato richiesto dal destinatario, il quale potrebbe avere nessun interesse o addirittura un interesse contrario, ad esempio nel caso di sanzione pecuniaria ovvero di una sanzione che consente un’espiazione secondo le diverse soluzioni previste dall’ordinamento penitenziario.

Un diverso indirizzo, che appare minoritario, ha sostenuto, invece, che il giudice d’appello deve, sia pure sinteticamente, dare ragione, in ogni caso, del concreto esercizio, positivo o negativo, del potere-dovere attribuitogli dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., qualora ricorrano le condizioni previste dalla legge per l’applicazione della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, tanto più quando una delle parti ne abbia fatto esplicita richiesta, anche solo nel corso della discussione. In questi termini si segnalano in particolare le sentenze: Sez. 5, n. 5581/2015 del 8/10/2014 (dep. 5/02/2015), Ciodaro, Rv. 264215; Sez. 6, n. 14758 del 27/03/ 2013, V., Rv. 254690; Sez. 5, n. 2094 del 23/10/2009, Coluccio, Rv. 245924; Sez. 6, n. 3917 del 08/01/2009, Chiacchierini, Rv. 242527; Sez. 5, n. 40865 del 25/09/2007, Catalano e altro, Rv. 238187; Sez. 5, n. 37461 del 20/09/2005, Zoffoli, Rv. 232323; Sez. 6, n. 32966 del 13/07/2001, Colbertardo, Rv. 220729. In alcune pronunce sono state svolte argomentazioni che attingono al dovere di motivare come fondamento del controllo di legalità sull’esercizio del potere giudiziario, superando la diffusa presunzione che vi sia un nesso tra discrezionalità del potere e mancanza dell’obbligo di motivare. In altre si è sostenuto che il dovere di motivare da parte del giudice di appello circa la mancata concessione dei benefici ex art. 164 e 175 cod. pen. o il riconoscimento di circostanze attenuanti, si configurerebbe a condizione che sussistano e che siano state almeno allegate le condizioni di fatto che avrebbero consentito, ragionevolmente, al giudice di secondo grado di esercitare positivamente il potere d’ufficio attribuitogli dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., così percorrendo una strada interpretativa per così dire intermedia tra le posizioni estreme.

Peraltro, un pronunciamento delle Sezioni Unite riguardante l’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., vi era già stato, anche se riferito alla concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziario, ex art. 175 cod. pen., ipotesi del tutto analoga a quella oggetto della questione rimessa dalla Terza sezione. La sentenza delle Sez. U, n. 10495 del 09/10/1996, Nastasi, Rv. 206175, che erano state però state investite di un contrasto relativo ad altra tematica, ha affermato in massima il seguente principio: “In tema di non menzione della condanna sul certificato del casellario giudiziale, il giudice di secondo grado, in assenza di richiesta dell’impugnante, non ha alcun dovere di motivare il mancato esercizio del potere discrezionale, conferitogli dall’art. 597, quinto comma cod. proc. pen., di applicare d’ufficio il beneficio, né tale mancato esercizio può costituire motivo di ricorso per cassazione” (conf., Sez. 3, n. 28690 del 09/02/2017, Rochira, Rv.270587; Sez. 4, n. 43125 del 29/10/2008, Marci, Rv. 241370). La motivazione piuttosto sintetica ed assertiva sul punto ha sostenuto: “In ordine, infine, alla censura, peraltro enunciata in termini privi di specificità, relativa al mancato esercizio di ufficio del potere del giudice di appello di applicare il beneficio della non menzione della condanna sul certificato del casellario giudiziale, ai sensi dell’art. 597 comma 5 c.p.p., osserva questo Collegio che, in assenza di richiesta dell’impugnante, la Corte di Appello non aveva alcun dovere di motivare detto mancato esercizio, trattandosi di potere discrezionale, né, proprio per tale natura, il mancato esercizio può costituire motivo di ricorso per cassazione. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato”.

Infine, va evidenziato che il tema oggetto del contrasto non è stato particolarmente approfondito dalla dottrina. Comunque si può affermare che secondo la maggioranza degli autori, il potere del giudice d’appello di concedere d’ufficio la sospensione condizionale della pena appare eccezionale e discrezionale rispetto alla regola dell’art. 597, comma 1, cod. proc. pen., ma il mancato esercizio di esso non è censurabile in sede di legittimità, né può configurarsi al riguardo un obbligo di motivazione, in assenza di una richiesta, esplicitata oltre che nei motivi di appello anche eventualmente solo nel corso del giudizio di secondo grado. Il giudice deve invece fornire adeguata motivazione nella sentenza soltanto qualora eserciti tale potere, oppure nel caso che non lo eserciti benché sia stato motivatamente sollecitato a farlo dall’imputato nell’impugnazione o durante la discussione da una delle parti, compreso il pubblico ministero (cfr. F. Nuzzo, L’appello nel processo penale, Milano, 2008, III ed., pag. 197; U. Massafra, L’appello penale, Torino, 2002, pag.169; G. Della Monica, in Procedura penale – Teoria e pratica del processo (diretto da Spangher), Torino, Vol. IV a cura di L. Kalb, pag. 119). Decisamente minoritaria invece la posizione di chi, in una prospettiva più ampia rispetto alla mera interpretazione dell’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., si è spinto ad affermare che il potere-dovere del giudice di provvedere alla sospensione condizionale della pena “..sussisterebbe anche alla sola condizione che siano indicati dal ricorrente gli elementi di fatto in base ai quali il giudice avrebbe potuto ragionevolmente e fondatamente esercitarlo”, quindi prescindendo anche dalla richiesta esplicita dell’appellante, nell’ottica di superare “..una concezione fortemente potestativa e riduttivamente formale, anziché garantistica e conforme al principio costituzionalizzato dall’art. 111, comma 6, Cost., che nella motivazione della decisione giudiziaria individua il valore e il connotato specifico del potere giurisdizionale “ (vedasi P. Gaeta- A. Macchia, in Trattato di procedura penale, diretto da Spangher, Milano, 2009, vol. V, pagg. 329-330).

2. La sentenza delle Sezioni unite del 25/10/2018, Salerno.

Le Sezioni Unite hanno deciso la questione con la sentenza del 25/10/2018, Salerno, non ancora depositata nel momento in cui si scrive. Secondo l’informazione provvisoria fornita dalla Corte: “Fermo il dovere di motivazione da parte del giudice, l’imputato non può dolersi della mancata applicazione della sospensione condizionale della pena, qualora non l’abbia richiesta nel giudizio di appello”.

Da quanto può intendersi le Sezioni unite hanno, da un lato, riaffermato che il potere/ dovere giurisdizionale trova fondamento e legittimazione nell’obbligo di motivazione in capo al giudice, anche laddove si tratti di decisioni discrezionali come quella relativa alla concessione della sospensione condizionale della pena ex art. 597, ultimo comma, cod. proc. pen., a maggior ragione, ovviamente, nel caso in cui l’interessato abbia formulato, anche nel corso delle conclusioni in udienza, specifica richiesta di ottenere il suddetto beneficio. Al contempo, il massimo Collegio sembra aver tenuto in conto del fatto che la sospensione condizionale della pena non sempre realizza un effettivo vantaggio in capo all’imputato, ragion per cui l’assenza di una sua richiesta di ottenimento del beneficio rappresenta, seppure in via di fatto, una sorta di rinuncia implicita.

Ne consegue che l’imputato, il quale in sede di giudizio di appello non abbia formulato alcuna richiesta in tal senso, non potrà successivamente dolersi della mancata concessione della sospensione condizionale da parte dei giudici di appello, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione della sentenza impugnata, anche nell’ipotesi di totale assenza di motivazione sul punto della mancata concessione, sempre qualora in astratto vi fossero state le condizioni per concedere il beneficio (ad esempio in ragione di una riduzione di pena stabilita dalla Corte di appello).

In altri termini si può ritenere che la sentenza delle Sezioni Unite abbia fatto proprie argomentazioni espresse da entrambi i filoni giurisprudenziali sopra riassunti, raggiungendo un punto di equilibrio tra diverse esigenze giudiziarie, solo in parte contrapposte.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 10495 del 09/10/1996, Nastasi, Rv. 206175 Sez. 1, n. 8558 del 02/05/1997, Chiavaroli, Rv. 208572 Sez. 6, n. 32966 del 13/07/2001, Colbertardo, Rv. 220729 Sez. 5, n. 41126 del 24/09/2001, Casamassima, Rv. 220254 Sez. 3, n. 21273 del 18/03/2003, Gueli, Rv. 224850 Sez. 5, n. 37461 del 20/09/2005, Zoffoli, Rv. 232323 Sez. 5, n. 40865 del 25/09/2007, Catalano e altro, Rv. 238187 Sez. 4, n. 43125 del 29/10/2008, Marci, Rv. 241370 Sez. 6, n. 3917 del 08/01/2009, Chiacchierini, Rv. 242527 Sez. 5, n. 2094 del 23/10/2009, Coluccio, Rv. 245924 Sez. 6, n. 30201 del 27/06/2011, Ferrante, Rv. 256560 Sez. 4, n. 43113 del 18/09/2012, Siekierska, Rv. 253641 Sez. 4, n. 1513 del 03/12/2013, Shehi, Rv. 258487 Sez. 6, n. 14758 del 27/03/2013, V., Rv. 254690 Sez. 5, n. 5581 del 8/10/2014 – dep. 2015 –, Ciodaro, Rv. 264215 Sez. 2, n. 15930 del 19/02/2016, Moudi, Rv. 266563 Sez. 3, n. 28690 del 09/02/2017, Rochira, Rv. 270587 Sez. 3, ord. n. 38398 del 17/04/2018, Salerno

  • prova
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO II

LA RINNOVAZIONE IN APPELLO DELLA PROVA DICHIARATIVA IN CASO DI RIFORMA DELLA SENTENZA DI CONDANNA

(di Matilde Brancaccio )

Sommario

1 Overturning in appello e obbligo di rinnovazione istruttoria: alcuni punti fermi in un tessuto ancora instabile. - 2 Obbligo di rinnovazione e riforma assolutoria: la questione risolta dalle Sezioni unite n. 14800 del 2018, Troise. - 3 Le ragioni per le quali la riforma assolutoria non richiede l’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa. - 4 La sentenza Troise e l’interpretazione dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. “conforme” alle pronunce Dasgupta e Patalano. - 5 Alla ricerca del filo di Arianna: la concreta applicazione dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in appello. - Indice delle sentenze citate

1. Overturning in appello e obbligo di rinnovazione istruttoria: alcuni punti fermi in un tessuto ancora instabile.

La riforma in appello della sentenza di primo grado è oramai tema controverso, da alcuni anni ricorrente nella giurisprudenza delle Sezioni unite, le quali, dal 2016, hanno dovuto periodicamente intervenire su diverse questioni problematiche attinenti alla necessità di rinnovare la prova dichiarativa in caso di overturning da parte dei giudici d’appello.

È noto il percorso interpretativo tracciato dalla prima, importante sentenza in materia – Sez. U, n. 27620 del 28/4/2016, Dasgupta, Rv. 267486-267492 – la quale, prima dell’entrata in vigore della legge n. 103 del 2017, con cui si è introdotto l’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. (che prevede, nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, l’obbligo del giudice di disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale), in un’ottica convenzionalmente orientata, ha stabilito che la previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d), CEDU implica che il giudice di appello, in caso di ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado (anche se emessa all’esito del giudizio abbreviato), a seguito dell’impugnazione del pubblico ministero con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare nel senso di condanna la sentenza impugnata, senza avere proceduto, anche d’ufficio, a rinnovare l’istruzione dibattimentale ed a risentire i testi le cui dichiarazioni sui fatti del processo siano state ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado (cfr. Rv. 267487).

L’approdo ermeneutico si fonda, secondo la linea tracciata dalle stesse Sezioni unite Dasgupta, sul consolidato orientamento della giurisprudenza europea secondo cui, nel giudizio d’appello, è consentita l’affermazione di responsabilità dell’imputato prosciolto in primo grado sulla base di prove dichiarative solo se vengano nuovamente, direttamente, assunti i testimoni nel giudizio di impugnazione, in caso contrario incorrendosi nella violazione dell’art. 6 CEDU e, in particolare del par. 3, lett. d), che assicura il diritto dell’imputato di «esaminare o fare esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico» (in tal senso, si richiamano la nota sentenza della Corte EDU Dan c. Moldavia del 05/11/2011, sino alle più recenti Manolachi c. Romania del 05/03/2013 e Flueras c. Romania del 09/04/2013, Lorefice c. Italia del 29.6.2017).

L’overturning di condanna impone, dunque, la rinnovazione istruttoria in appello, quando si verta della valutazione della prova dichiarativa, pena, altrimenti, il vizio di motivazione della sentenza di riforma (Rv. 267492), e, tuttavia, secondo le Sezioni unite, tale obbligo sussiste solo nell’ipotesi in cui la prova dichiarativa, della cui diversa valutazione si verta in chiave di riforma, sia considerata decisiva secondo i criteri pure dettati dalle Sezioni unite (l’obbligo non sussiste, secondo le Sezioni unite, anche qualora della prova dichiarativa non si discuta il contenuto probatorio, ma la sua disciplina giuridica, come nel caso di dichiarazioni ritenute dal primo giudice bisognose di riscontri ex art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen. e inquadrabili, invece, secondo l’appellante in una ipotesi di testimonianza pura).

Vedremo successivamente quanto questo canone interpretativo manifesti la sua “tenuta” nell’attuale sistema normativo in cui il citato, nuovo, comma 3-bis dell’art. 603 cod. proc. pen. non fa cenno ad un tale carattere di decisività della prova dichiarativa, limitandosi laconicamente a disporre la necessità della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel caso di appello del pubblico ministero e, dunque, prima ed a prescindere dall’esito del giudizio d’appello.

È altrettanto noto che le Sezioni unite Dasgupta hanno traslato l’affermazione di principio sull’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa, in caso di overturning di condanna, anche nel giudizio svoltosi con rito abbreviato, con una contestata presa di posizione pronunciata obiter, alla quale ha dovuto far seguito (per la non condivisione manifestatasi subito dopo nella stessa giurisprudenza di legittimità) un ulteriore pronunciamento delle stesse Sezioni unite (Sez. U, n. 18620 del 18/1/2017, Patalano, Rv. 269785-786-787), che, occupandosi questa volta del tema ex professo, hanno chiarito come il giudice di appello che riformi, anche ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado emessa all’esito di giudizio abbreviato, sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio: è, infatti, affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni, poiché la decisione liberatoria di primo grado travalica ogni pretesa esigenza di automatica “simmetria” tra primo e secondo grado di giudizio, imponendo in appello il ricorso al metodo di assunzione della prova caratterizzato da oralità e immediatezza, in quanto incontestabilmente più affidabile per l’apprezzamento degli apporti dichiarativi.

Infine, un’ultima affermazione di rilievo era stata svolta dalle Sezioni unite Dasgupta, nello snodarsi motivazionale: la regola dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa vale nel caso di riforma nel senso di condanna, ma non nell’ipotesi inversa di assoluzione in appello, non assistita dal principio costituzionale di non colpevolezza né, di conseguenza, dal canone di giudizio del dover dichiarare la responsabilità penale al di là di ogni ragionevole dubbio.

Anche su questa opzione, tuttavia, si è registrato dissenso e la decisione oggetto centrale di approfondimento del presente contributo – Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Troise, Rv. 272430/272431 – è intervenuta nuovamente proprio a tentare di fissare alcuni punti fermi su questo tema specifico e in generale, in quello che si presenta, in ogni caso, come un tessuto interpretativo increspato, nelle cui pieghe si innestano letture dei casi concreti, spesso, in un modo o nell’altro, più o meno inconsapevolmente lontane dalla traccia della sentenza Dasgupta.

Anticipando, pertanto, il perno della decisione della sentenza Troise, può dettarsi un principio fermo anche nel caso di overturning assolutorio, in relazione al quale le Sezioni unite hanno stabilito che il giudice d’appello non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive; tuttavia, benché non sussista tale obbligo, ve ne è uno motivazionale: il giudice della riforma assolutoria deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, valutando la possibilità anche di riassumere, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (Rv. 272430).

Come è evidente dall’enunciazione di principi soprascritta, il concetto di prova decisiva, sul quale poco prima si è puntata l’attenzione, sembra tutt’altro che tramontato, pur dopo l’ingresso della nuova formulazione dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., e le Sezioni unite, nell’ampia motivazione della sentenza Troise, ne danno ragione.

Prima di procedere, tuttavia, all’analisi nel dettaglio della complessa sentenza del 2018 del massimo collegio nomofilattico, ed a riprova del continuo divenire a cui ormai ci ha abituato la materia, deve segnalarsi come si registra da poco un nuovo fronte di divisione interpretativa, che ha chiamato ancora una volta in causa le Sezioni unite, sulla questione relativa a se la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico possa costituire prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale il giudice di appello dovrebbe, qualora la ritenga decisiva, procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa.

Sul tema, si rimanda all’approfondimento specificamente dedicato in Rassegna, non senza precisare che all’udienza fissata per la trattazione (il 21 dicembre 2018) le Sezioni unite hanno rinviato, solo per la deliberazione, all’udienza immediatamente successiva del 28 gennaio 2019.

2. Obbligo di rinnovazione e riforma assolutoria: la questione risolta dalle Sezioni unite n. 14800 del 2018, Troise.

Le Sezioni unite, partendo dal caso concreto sottoposto alla loro attenzione (si trattava di una condanna in primo grado per il delitto di omicidio, ribaltata in assoluzione in sede di appello senza rinnovare la prova dichiarativa, dopo aver disposto una perizia tecnica il cui esito aveva escluso la possibilità di giungere alla identificazione della persona ripresa in un filmato utilizzato per i riconoscimenti precedentemente operati da due agenti di polizia giudiziaria e da un collaboratore di giustizia), ricostruiscono anzitutto il percorso giurisprudenziale sul tema, focalizzando la loro analisi sulla linea interpretativa fondamentale tracciata da detti arresti (in particolare le sentenze Dasgupta e Patalano già citate): il ribaltamento in senso assolutorio del giudizio di condanna, operato dal giudice di appello pur senza procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, è consentito perché perfettamente in linea con il principio della presunzione di innocenza, presidiata dai criteri di giudizio di cui all’art. 533 cod. proc. pen. (da applicarsi, invece, nell’ipotesi inversa di overturning di condanna).

Il canone “al di là di ogni ragionevole dubbio”, inserito nell’art. 533, comma 1, cod. proc. pen. ad opera della legge 20 febbraio 2006, n. 46 – e già individuato quale inderogabile regola di giudizio da Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222139 e da Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231679 – costituisce il criterio guida che ha condotto la giurisprudenza ad affermare che, per la riforma di una sentenza assolutoria nel giudizio di appello, non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, ma occorre invece una “forza persuasiva superiore”, tale da far venire meno “ogni ragionevole dubbio”, poichè la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, a differenza dell’assoluzione che non presuppone la certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza (a tale affermazione, svolta dalla sentenza Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, Rv. 251066, le Sezioni unite mostrano convintamente di aderire).

Partendo dalla pronuncia che ha dato l’avvio al (nuovo) contrasto sul tema “riforma in appello e rinnovazione della prova dichiarativa” ed alla rimessione alle Sezioni unite – e cioè la sentenza della Seconda Sezione Penale n. 41571 del 20/6/2017, Marchetta, Rv. 270750 –, la motivazione del massimo collegio nomofilattico, in linea con il proprio precedente “Dasgupta”, ritiene di non poter condividere l’orientamento (proposto in precedenza, peraltro, anche da Sez. 2, n. 32619 del 24/04/2014, Pipino, Rv. 260071; Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327; Sez. 2, n. 36434 del 21/07/2015, Migliore s.p.a.; Sez. 5, n. 36208 del 13/02/2015, Nascimbene; Sez. 5, n. 42389 del 11/05/2015, De Ligio) che rinviene un obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa anche nel caso di overturning assolutorio.

Le Sezioni unite, quasi con una motivazione “a confutazione” degli argomenti della sentenza Marchetta, forniscono alcune importanti precisazioni sulla operatività del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio e sulla portata del principio di immediatezza.

La sentenza Marchetta, infatti, richiamando l’elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU e traendo spunto da talune affermazioni delle Sezioni unite contenute proprio nella sentenza Dasgupta (secondo cui «la percezione diretta è il presupposto tendenzialmente indefettibile di una valutazione logica, razionale e completa»), estende il metodo orale nell’apprezzamento della prova dichiarativa ad ogni ipotesi di overturning decisorio nel giudizio di appello. Entro tale prospettiva, essa attribuisce un ruolo centrale al principio di immediatezza, ritenendo iniqua una decisione di riforma assunta in appello senza che il giudice abbia avuto diretta percezione dei contributi cognitivi forniti dalle fonti orali. Ciò, a maggior ragione, a fronte della presenza di una parte civile costituita in giudizio, «rispetto alla quale si assiste ad una sempre maggior tutela nell’ambito delle decisioni della Corte Europea», richiamandosi le recenti innovazioni legislative che hanno definito la centralità del ruolo della persona offesa nel processo penale (v. il d.lgs. n. 212 del 2015 che ha attuato la direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012).

Il principio di immediatezza – secondo l’impostazione della sentenza Marchetta – viene dunque ad assorbire, unitamente a quello della motivazione rafforzata, il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, perché qualunque «overturning che sia basato su compendi probatori “deprivati” rispetto a quelli utilizzati dal primo giudice» sarebbe censurabile, indipendentemente dagli esiti decisori dell’appello e sempre che sia basato su una diversa valutazione della prova orale decisiva (a meno che tale prova non risulti travisata per omissione, invenzione o falsificazione, secondo le indicazioni che possono ritrovarsi chiaramente nella sentenza Sez. U Patalano, cit.).

3. Le ragioni per le quali la riforma assolutoria non richiede l’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa.

Alle argomentazioni della pronuncia Marchetta le Sezioni unite oppongono forti argomenti contrari, tesi a ricostruire il meccanismo processuale della riforma in appello in chiave costituzionalmente orientata, iscrivendolo, altresì, in un’ottica di coerenza con i principi della CEDU.

Possono essere enucleate diverse ragioni che costituiscono l’ossatura portante della motivazione delle Sezioni unite:

a) Il principio di immediatezza non possiede un ruolo assorbente e prevalente, bensì, poichè privo di garanzia costituzionale autonoma, costituisce fondamentale, ma non indispensabile, carattere del contraddittorio, modulabile dal legislatore sulla base dell’incidenza dell’oltre ogni ragionevole dubbio sulla decisione da assumere, sicchè esso diviene recessivo là dove – come nel caso di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna – detto canone non venga in questione.

Tale conclusione viene riportata anche alla elaborazione della Corte costituzionale (si citano le ordinanze n. 205 del 2010, n. 318 del 2008 e n. 67 del 2007), che non individua nel principio di immediatezza un diritto assoluto della parte, ma ne ammette regolamentazioni volte ad impedirne usi strumentali e dilatori, ed agli stessi approdi della Corte EDU, la quale non lo declina come diritto potestativo delle parti, bensì ritiene che la possibilità di ottenere una nuova audizione davanti al giudice che dovrà poi decidere sul merito delle accuse sia un elemento “importante” ai fini della valutazione riguardo alla complessiva equità del processo, ma non decisivo e suscettibile, invece, di subire eccezioni in presenza di una pluralità di circostanze, fra le quali vi è quella inerente alla utilità degli eventuali apporti cognitivi connessi alla nuova audizione (Corte EDU, 10/02/2005, Graviano c. Italia; 09/07/2002, P.K. c. Finlandia; 04/12/2003, Milan c. Italia; 27/09/2007, Reiner c. Romania).

Le Sezioni unite, inoltre, fanno notare come il forte richiamo al metodo dell’oralità della Corte di Strasburgo in caso di riforma della sentenza del primo giudice non è mai stato in concreto riferito alla ipotesi della reformatio in melius (assoluzione), ma è stato sempre declinato nella diversa prospettiva del ribaltamento dell’esito assolutorio in condanna (a tal proposito si richiamano: Corte EDU, 24/11/1986, Unterpertinger c. Austria; 07/07/1989, Bricmont c. Belgio; 18/05/2004, Destrehem c. Francia; 21/09/2010, Marcos Barrios c. Spagna; 05/07/2011, Dan c. Moldavia; 05/03/2013, Manolachi c. Romania; 04/06/2013, Hanu c. Romania; 04/06/2013, Kostecki c. Polonia; 28/02/2017, Manoli c. Moldavia; 29/06/2017, Lorefice c. Italia). Ed a proposito della Corte EDU, le Sezioni unite fanno notare come neppure per l’ipotesi di overturning di condanna possa darsi per univoco ed indiscusso il richiamo al metodo dell’oralità, se è vero che in alcune, più recenti, decisioni è stata esclusa la necessità della rinnovazione probatoria in appello, ritenendosi sufficiente, per integrare la soglia della garanzia convenzionale, anche solo una motivazione particolarmente approfondita sulle ragioni del mutato apprezzamento delle risultanze processuali, che evidenzi gli errori compiuti dal giudice di primo grado, e la previsione di un controllo sul rispetto di tale obbligo motivazionale (Corte EDU, 26/04/2016, Kashlev c. Estonia; 27/06/2017, Chiper c. Romania); né la Corte EDU ritiene configurabile, in capo alle giurisdizioni nazionali, un obbligo perentorio di nuova escussione di tutti i testimoni la cui credibilità sia stata rivalutata nel contesto del giudizio d’impugnazione: secondo tale linea interpretativa della giurisprudenza convenzionale, infatti, la violazione dell’equità processuale non consegue automaticamente dall’interazione degli effetti dell’omessa rinnovazione probatoria e della reformatio in peius nel giudizio d’appello, ma va valutata caso per caso tenendo conto delle ragioni argomentative proposte dal giudice dell’impugnazione e della loro ragionevolezza e non arbitrarietà (del resto, di recente la Corte EDU ha rimodulato le proprie affermazioni in tema di diritto al contraddittorio, affermando anche la compatibilità convenzionale della condanna basata su prova, unica o determinante, costituita da testimonianze acquisite unilateralmente, là dove sia riconosciuto all’imputato un quadro di garanzie concretamente idoneo ad assicurare l’equità complessiva del procedimento, cfr. Corte EDU, Grande camera, 15 dicembre 2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito; Corte EDU, GC, 15/12/2015, Schatschaschwili c. Germania).

b) Le garanzie poste dall’art. 6 CEDU sono state delineate in favore del destinatario di un’accusa in materia penale e in funzione della tutela del principio fondamentale della presunzione di innocenza della persona sottoposta al processo penale (cui sono strumentali le specifiche prescrizioni procedurali previste dal par. 3 di tale norma convenzionale), secondo una formulazione la cui area semantica deve ritenersi sostanzialmente equivalente, ai sensi dell’art. 52, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, al contenuto normativo dell’art. 48 della Carta medesima, ove si stabilisce che «ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata».

È in questa prospettiva, anche inscritta nel sistema convenzionale dei diritti, che la sentenza Troise individua una asimmetrica incidenza del principio del ragionevole dubbio, operante in favore del solo imputato, asimmetria che rende necessitato il ricorso al metodo orale di assunzione della prova dichiarativa, ed operativa l’applicazione della regola dell’immediatezza (che costituisce, come stabilito dalle Sezioni unite nella condivisa affermazione della sentenza Patalano, un percorso epistemologicamente più affidabile), unicamente per il sovvertimento in appello della decisione assolutoria di primo grado.

c) Costituisce approdo razionale, alla stregua delle regole costituzionali del giusto processo, il diverso e meno rigoroso protocollo di assunzione cartolare della prova dichiarativa nell’ipotesi della riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna.

È, infatti, la garanzia costituzionale del principio della presunzione di innocenza (o di non colpevolezza) a costituire il sostrato valoriale del canone di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio (mutuato dal criterio anglosassone della cosiddetta regola b.a.r.d., acronimo che sta per l’inglese beyond any reasonable doubt), cui sono strettamente funzionali sia la percezione diretta della prova dichiarativa nel contraddittorio delle parti, sia il principio d’immediatezza nella sua acquisizione.

Per tale motivo, il canone b.a.r.d. è stato abbinato dal legislatore solo alla disposizione di cui all’art. 533 cod. proc. pen. e non a quella di cui all’art. 530 cod. proc. pen., dando seguito alla linea interpretativa maggioritaria successiva alla sentenza Dasgupta (le Sezioni unite citano Sez. 5, n. 42443 del 07/06/2016, G., Rv. 267931; Sez. 5, n. 35261 del 06/04/2017, Lento, Rv. 270721; Sez. 5, n. 2499 del 15/11/2016, dep. 2017, Vizza, Rv. 269073; Sez. 3, n. 46455 del 17/02/2017, M., Rv. 271110; Sez. 6, n. 55748 del 14/09/2017, Macrì), sul rilievo che l’assoluzione dopo una condanna non deve superare alcun dubbio, perché è la condanna che deve intervenire al di là di ogni ragionevole dubbio, non l’assoluzione, possibile anche ex art. 530, comma 2, cod. proc. pen. 

La pronuncia Troise afferma in proposito che “presunzione di innocenza e ragionevole dubbio impongono soglie probatorie asimmetriche in relazione alla diversa tipologia dell’epilogo decisorio: la certezza della colpevolezza per la condanna, il dubbio processualmente plausibile per l’assoluzione”.

Anche il principio costituzionale del contraddittorio non rappresenta, secondo la pronuncia Troise, una “risorsa” dispensata alle parti allo stesso modo e con la stessa intensità, come dimostra la formulazione del comma 5 dell’art. 111 Cost., che prevede il consenso dell’imputato, e non di altri, per la “perdita” di contraddittorio nei casi consentiti dalla legge, con ciò lasciando intendere che la garanzia del contraddittorio nasce e si sviluppa come garanzia in favore dell’imputato (in tal senso, cfr. anche un’autorevole opzione dottrinaria:

T. Padovani, Il doppio grado di giurisdizione. Appello dell’imputato, appello del p.m., principio del contraddittorio, in Cass. pen., 2003, p. 1179 e ss.).

Le Sezioni unite richiamano, nella stessa ottica, alcune affermazioni della giurisprudenza costituzionale contenute nella sentenza n. 26 del 2007 (che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui, modificando l’art. 593 cod. proc. pen., escludeva che il pubblico ministero potesse appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, cod. proc. pen. se la nuova prova è decisiva), con la quale i giudici delle leggi, pur rilevando, nel caso loro sottoposto, la presenza di dissimmetrie radicali e irragionevoli, tanto da emettere una pronunciare di incostituzionalità, hanno ammesso la possibilità, in linea teorica e generale, di una distribuzione asimmetrica delle facoltà e dei poteri processuali delle parti (nel caso di specie, quella pubblica e quella privata), purché compatibili, entro limiti di complessiva ragionevolezza rispetto agli altri valori costituzionali in gioco, con il principio di parità delle parti e con l’ottica del giusto processo.

d) Il principio di immediatezza non può essere usato per modificare la natura del giudizio di appello, sostanzialmente cartolare, e renderlo un “novum iudicium” (con il rischio di una “irragionevole diluizione dei tempi processuali”), estendendo al caso della riforma in senso assolutorio gli obblighi di rinnovazione che lo stesso legislatore del 2017 ha inteso riferire alla sola ipotesi di overturning di condanna, aggiungendo il comma 3-bis all’art. 603 cod. proc. pen. che, inequivocabilmente, secondo le Sezioni unite, limita l’obbligo di rinnovazione alla sola ipotesi dell’appello proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento, senza imporla quando l’epilogo decisorio oggetto del giudizio di appello sia invece una decisione di condanna e senza trasformare tale giudizio, dunque, in una “innaturale replica” di quello di primo grado.

Resta ferma ovviamente la facoltà del giudice d’appello di disporre la rinnovazione istruttoria qualora ne rilevi l’opportunità o la necessità, secondo il principio del libero convincimento.

e) Il nuovo “volto” processuale della vittima, come emerge dalla legislazione più moderna interna e sovranazionale (cfr., per tutte, la direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012 recepita nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212; il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 24; il decreto legislativo 11 febbraio 2015, n. 9¸ la legge 27 giugno 2013, n. 77, di ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata ad Istanbul nel maggio 2011) non contrasta – secondo le Sezioni unite – con la possibilità di “asimmetrie e differenze di trattamento nella previsione di facoltà e prerogative processuali…, a condizione di una loro ragionevole base di riferimento all’interno del sistema processuale”. In assenza di disposizioni volte ad imporre agli Stati membri la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello nei casi in cui dalla rivalutazione dell’attendibilità delle sue dichiarazioni possa derivare una riforma in melius della sentenza, non si impone alcuna simmetria di ruoli fra la vittima e l’imputato, ma, semmai, l’esigenza di affidare alla saggia ponderazione del giudice la decisione di rinnovarne, se del caso, la deposizione nelle ipotesi di reformatio in melius (valutando in tal senso, senza alcun automatismo probatorio, tutte le circostanze rilevanti nel caso concreto: dalla decisività della fonte di prova al tasso di vulnerabilità del soggetto debole, sino al contesto di riferimento ed alla vicinanza o meno della sua audizione rispetto al precedente apporto dichiarativo), sospingendo l’interprete verso una maggiore e più attenta considerazione delle esigenze di tutela e degli interessi di cui si fanno portatrici le persone offese all’interno del processo penale.

Da tali ragioni sono stati tratti i principi di diritto massimati che, per comodità di lettura, si enunciano:

Il giudice d’appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva – Rv. 272430.

Il principio di immediatezza, privo di garanzia costituzionale autonoma, costituisce fondamentale ma non indispensabile carattere del contraddittorio, modulabile dal legislatore sulla base dell’incidenza dell’oltre ogni ragionevole dubbio sulla decisione da assumere, sicchè esso diviene recessivo là dove – come nel caso di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna – detto canone non venga in questione. (In motivazione, si è precisato che il principio di immediatezza non può essere usato per modificare la natura del giudizio di appello, sostanzialmente cartolare, e renderlo un “novum iudicium”) – Rv. 272431.

4. La sentenza Troise e l’interpretazione dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. “conforme” alle pronunce Dasgupta e Patalano.

Le Sezioni unite, nella sentenza Troise, si sono spinte ad offrire una lettura interpretativa della nuova previsione del comma 3-bis dell’art. 603 cod. proc. pen., in parte sicuramente per necessità argomentativa, con riferimento alla conclusione di insussistenza dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in caso di overturning assolutorio, resa più forte dal rilievo che anche il legislatore, nella riflessione compiuta sul tema, ha voluto un simile obbligo solo nel caso di overturning di condanna.

La parte finale della motivazione, tuttavia, probabilmente per uno sforzo di sistematicità del ragionamento (rispondendo all’esigenza di collocare la decisione nel quadro normativo mutato a seguito della novella del 2017), ha ripercorso le questioni sulle quali si erano già espresse le Sezioni unite nelle sentenze Dasgupta e Patalano, calandole nel dettato normativo di nuovo conio, riempiendolo di contenuto quanto all’ambito di operatività dell’obbligo di rinnovazione istruttoria ivi disposto.

La valenza di questo sforzo interpretativo – si badi – non assurge al rango di principio di diritto, rivelandosi un obiter (e per questo, in ossequio anche alla miglior dottrina riferita al valore di precedente relativamente vincolante dei principi di diritto enunciati dalle Sezioni unite, ai sensi del nuovo art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen., non si sono né massimate le affermazioni in proposito, né la stessa sentenza ha inteso formulare principi ad esse riconducibili: cfr. sulla disposizione citata, G. Fidelbo, La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, a cura di M. Bargis-H. Belluta, Giappichelli, 2018).

Tuttavia, è molto interessante segnalare come le Sezioni unite intendano, da un lato, l’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa di posizione normativa esteso sia al caso in cui l’impugnazione del pubblico ministero si riferisca ad un giudizio ordinario, sia all’ipotesi in cui essa si innesti su un rito abbreviato, poiché tale rito alternativo costituisce un giudizio solo tendenzialmente impostato su prova “contratta”, ma in cui non sussistono preclusioni all’esercizio dei poteri officiosi assegnati al giudice d’appello dall’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995 – dep. 1996 –, Clarke, Rv. 203427) ed il cui scopo, nel caso di overturning di condanna, rimane pur sempre quello del superamento di ogni ragionevole dubbio nella prospettiva dell’avvenuta costituzionalizzazione del principio del giusto processo (in linea con l’impostazione ideologica già presente in Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano).

D’altro canto, secondo le Sezioni unite Troise, il nuovo quadro normativo voluto dalla legge n. 103 del 2017 non impone modifiche interpretative neppure quanto all’ambito di operatività dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in appello, limitato ad una nuova, mirata, assunzione delle sole prove dichiarative ritenute dal giudice d’appello “decisive” ai fini dell’accertamento della responsabilità, secondo i presupposti già indicati nella sentenza Dasgupta, e fatta salva la possibilità, successiva all’assunzione “obbligata”, di esercitare ulteriori poteri istruttori qualora ciò dovesse apparire “assolutamente necessario” ai sensi del più generale art. 603, comma 3, cod. proc. pen. 

Ciò perché non è stato introdotto, a giudizio delle Sezioni unite, un obbligo di rinnovazione generale ed incondizionata dell’attività istruttoria svolta in primo grado, che sarebbe stato palesemente in contrasto con l’esigenza di evitare un’automatica ed irragionevole dilatazione dei tempi processuali.

5. Alla ricerca del filo di Arianna: la concreta applicazione dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in appello.

La galassia interpretativa che ruota intorno al problema della necessità di rinnovazione della prova dichiarativa in appello, pur con alcuni punti (che allo stato sembrano) fermi, appare tutt’altro che statica ed è invece in continuo divenire.

Si è già detto della nuova questione posta alle Sezioni unite nell’udienza del 21 dicembre 2018, rinviata per la deliberazione all’udienza del 28 gennaio 2019, avente ad oggetto la natura di prova dichiarativa “classica” della perizia e della consulenza tecnica e la necessità di una loro sottoposizione allo “statuto” della rinnovazione probatoria indicato dall’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. e dalla giurisprudenza del massimo collegio di nomofilachia negli ultimi tre anni (sul punto cfr. le principali pronunce coinvolte nel contrasto: Sez. 4, n. 6366 del 6/12/2016 – dep. 2017 –, Maggi, Rv. 269035 che ritiene necessario procedere alla rinnovazione anche per tale tipologia di testi; per la tesi opposta, Sez. 5, n. 1691 del 14/9/2016 – dep. 2017 –, Abbruzzo, Rv. 269529

Tuttavia, tale questione, pur nella sua complessità, appare circoscritta entro confini interpretativi e formali ben definiti legati anche alla natura stessa della prova dichiarativa “tecnica”, mentre invece è opportuno ricordare come rimanga tuttora privo di risposte univoche l’interrogativo – già posto nella Rassegna 2017 di quest’ufficio – riferito a quando, nella concreta applicazione, ci si trovi effettivamente dinanzi ad un obbligo di rinnovazione secondo i criteri Dasgupta, e ad un vizio di motivazione da rilevare nel giudizio di cassazione, e quando non. 

Seguendo le tracce della giurisprudenza di legittimità, piuttosto che una strada maestra da applicare con chiarezza in ciascuna ipotesi, è possibile invece ritrovare un fragile filo d’Arianna che approda spesso a “vie d’uscita” e non a vere e proprie soluzioni appaganti nei casi più problematici.

Nella passata edizione della Rassegna Penale del Massimario si erano tracciati alcuni itinerari interpretativi aventi ad oggetto, oltre al tema della testimonianza del perito o consulente tecnico (di cui si è già detto):

1. La necessità o meno di rinnovazione della prova dichiarativa in caso di riqualificazione giuridica in peius e non di ribaltamento della sentenza di assoluzione in pronuncia di condanna. Il contrasto tra l’opzione che estende l’obbligo nell’ipotesi di riqualificazione giuridica operata dal giudice d’appello con effetti in malam partem (Sez. 1, n. 29165 del 18/5/2017, H., Rv. 270280; nella specie si era avuta una riqualificazione in appello del reato di omicidio colposo, con violazione di norme del codice della strada, in omicidio volontario; conforme Sez. 2, n. 24478 del 8/5/2017, Salute, Rv. 269967) e quella che, invece, ritiene insussistente detto obbligo ha visto un maggior numero di pronunce nell’anno 2018, da parte di più sezioni della Suprema Corte, a favore di questa seconda opzione (Sez. 2, n. 28957 del 3/4/2017, D’Urso, Rv. 270109; Sez. 5, n. 54296 del 28/6/2017, Pesce, Rv. 272088; Sez. 5, n. 47833 del 21/6/2017, Terry, Rv. 273553 e, nel 2018, Sez. 5, n. 32351 del 27/3/2018, K., Rv. 273574; Sez. 6, n. 12397 del 27/2/2018, Gagliano, Rv. 272545, in un caso peculiare in cui in primo grado la qualificazione giuridica della fattispecie come reato di ingiuria aveva portato ad una pronuncia assolutoria, ribaltata in appello per la diversa qualificazione del fatto nel reato di oltraggio a pubblico ufficiale previsto dall’art. 341-bis cod. pen.).

Del resto, non può sottacersi che l’attuale previsione dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. limita l’ambito di applicazione dell’obbligo di rinnovazione istruttoria al solo caso di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, escludendo, pertanto, quelle di condanna nelle quali si discuta della riqualificazione giuridica del fatto, per le quali, seguendo il ragionamento di Sezioni unite Troise, si potrà procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa liberamente da parte del giudice secondo le regole usuali dettate dall’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. 

2. La necessità o meno di rinnovazione della prova dichiarativa cartolare acquisita ai sensi dell’art. 500, comma 4, cod. proc. pen. a seguito dell’accertamento della subornazione del testimone, quando non sussistono elementi indicativi di una successiva modifica di tale condizione. Alla pronuncia Sez. 2, n. 55068 del 26/9/2017, P., Rv. 271552 ha fatto seguito la sentenza sempre della Seconda Sezione, non ancora massimata, Sez. 2, n. 50035 del 19/9/2018, Gentiluomo ed altri, che ha ribadito le affermazioni della sentenza n. 55068 del 2017, richiamandosi alla motivazione di tale sentenza e sottolineando come la fattispecie presa in considerazione dall’art. 500, comma 4, cod. proc. pen. può essere fatta rientrare nell’ambito di quelle eccezioni al principio di oralità ipotizzate dalla stessa Corte EDU e previste dall’art. 111, comma 5, Cost. a norma del quale «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita». Sicchè, se il primo giudice – dopo avere accertato che la reticenza del teste è dovuta alle minacce ricevute, quindi, ad una “provata condotta illecita” – ritenga di dover acquisire le dichiarazioni rese dal teste nel corso delle indagini preliminari, e, su quelle dichiarazioni fondi il proprio giudizio, non vi è alcuna ragione, né logica né giuridica, perché il giudice di appello non possa rivalutare quelle stesse dichiarazioni cartolari e decidere, quindi, diversamente, ma debba, invece – come sostiene la difesa dei ricorrenti – procedere alla rinnovazione del dibattimento e sentire, comunque, il teste minacciato.

La rinnovazione del dibattimento in appello, infatti, secondo l’orientamento in esame, è dovuta solo ove la testimonianza sia “assumibile”, ma, ove si accerti (come nel caso di specie anche della sentenza del 2018), che il teste sia stato minacciato, non sussiste alcun obbligo di assumere ugualmente quella testimonianza, laddove il giudice di appello abbia la certezza che quel teste deporrebbe il falso o sarebbe comunque reticente.

Il diritto dell’imputato a sentire il teste, invece, si riespande, ove la difesa fornisca la prova che il teste – non sentendosi più minacciato – sia in grado di testimoniare in modo sereno, ovvero, ove la Corte di Appello, su specifico motivo, ritenga che non sussistevano i requisiti per acquisire la prova ex art. 500, comma 4, cod. proc. pen.

3. La declinazione concreta di quelli che potremmo definire, per brevità, mutuando un lessico proprio delle Corti europee, i criteri Dasgupta nella casistica di volta in volta prospettatasi al giudizio della Suprema Corte. A ben guardare, il volto reale dell’obbligo di rinnovazione nel caso di overturning di condanna appare spesso configurare un ambito ben più circoscritto di applicazione, rispetto a quello ipotizzabile in astratto.

È quest’ultimo il tema sicuramente più ampio e che determina risultati molto diversi secondo le differenti sensibilità interpretative ed i casi concreti oggetto di giudizio.

Non c’è dubbio, infatti, che l’orientamento maggioritario presente nella giurisprudenza di legittimità, che esclude l’applicabilità dei criteri Dasgupta nell’ipotesi in cui il giudice abbia riformato la sentenza assolutoria di primo grado non già in base al diverso apprezzamento di una prova dichiarativa, bensì all’esito della differente interpretazione della fattispecie concreta, fondata su una complessiva valutazione dell’intero compendio probatorio (Sez. 5, n. 42746 del 9/5/2017, Fazzini, Rv. 271012; Sez. 5, n. 33272 del 28/3/2017, Carosella, Rv. 270471; Sez. 5, n. 12783 del 24/1/2017, Caterino, Rv. 269596, in riferimento al caso di motivazione generica in primo grado; Sez. 3, n. 19958 del 21/9/2016 – dep. 2017 –, Chiri, Rv. 269782; Sez. 2, n. 54717 del 1/12/2016, Ciardo, Rv. 268826), lascia una certa quota di indeterminatezza nella individuazione della reale portata della regula iuris che imporrebbe la rinnovazione.

E tuttavia, è innegabile che tale “difetto” di determinatezza si rivela indispensabile strumento per calibrare nei casi concreti i principi in tema di obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa, altrimenti destinati a sfociare in una lettura “snaturante” del giudizio d’appello, che neppure il legislatore del 2017 ha inteso costruire come una nuova, automatica, edizione del processo di primo grado (che porrebbe problemi sul piano anche della necessità di assicurare un doppio livello di impugnazione della decisione di merito).

In ogni caso, l’opzione sembra oramai essere entrata a far parte di un patrimonio condiviso della giurisprudenza di legittimità, che anche nel 2018 ha più volte aderito alla tesi in parola; tra le molte sentenze, si segnalano: Sez. 5, n. 57093 del 15/11/2018, Spreafico; Sez. 5, n. 57070 del 31/10/2018, Serra; Sez. 2, n. 55158 del 18/9/2018, Miccichè; Sez. 5, n. 53415 del 18/6/2018, Boggi, che ha efficacemente chiarito come alla rinnovazione dovrà darsi corso non già quando si pongano questioni di valutazione tout court di una prova dichiarativa, bensì nelle sole ipotesi in cui vi sia stata, della prova predetta, una valutazione difforme rispetto a quella che si ritenga doverosa; Sez. 3, n. 46225 del 9/7/2018, Vertua; Sez. 4, n. 38363 del 23/5/2018, Consorzio Melinda s.c.a.; Sez. 1, n. 20186 del 16/1/2018, Barranca).

Sulla stessa scia, si è affermato, anche nel 2018, che il giudice d’appello che intenda procedere alla reformatio in peius di una sentenza assolutoria di primo grado, emessa all’esito di giudizio ordinario o abbreviato, non ha l’obbligo di rinnovare la prova dichiarativa decisiva qualora emerga che la lettura della prova compiuta dal primo giudice sia stata travisata per omissione, invenzione o falsificazione (Sez. 6, n. 16501 del 15/02/2018, Portaro, Rv. 272886; Sez. 3, n. 54190 del 12/9/2018, Damanti; cfr. altresì Sez. 4, n. 49159 del 18/07/2017, Ferrara, Rv. 271518, anche in ipotesi di errore di diritto; l’orientamento, del resto, è conforme all’affermazione espressa di Sez. U, Patalano, cit.: cfr. Rv. 269786).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 930 del 13/12/1995 – dep. 1996 –, Clarke, Rv. 203427 Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222139 Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231679 Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, Rv. 251066 Sez. 2, n. 32619 del 24/04/2014, Pipino, Rv. 260071 Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327 Sez. 2, n. 36434 del 21/07/2015, Migliore s.p.a. Sez. 5, n. 36208 del 13/02/2015, Nascimbene Sez. 5, n. 42389 del 11/05/2015, De Ligio Sez. U, n. 27620 del 28/4/2016, Dasgupta, Rv. 267486-267492 Sez. 5, n. 42443 del 07/06/2016, G., Rv. 267931 Sez. 5, n. 2499 del 15/11/2016 – dep. 2017 –, Vizza, Rv. 269073 Sez. 4, n. 6366 del 6/12/2016 – dep. 2017 –, Maggi, Rv. 269035 Sez. 5, n. 1691 del 14/09/2016 – dep. 2017 –, Abbruzzo, Rv. 269529 Sez. 3, n. 19958 del 21/09/2016 – dep. 2017 –, Chiri, Rv. 269782 Sez. 2, n. 54717 del 1/12/2016, Ciardo, Rv. 268826 Sez. U, n. 18620 del 18/01/2017, Patalano, Rv. 269785-786-787 Sez. 2, n. 41571 del 20/06/2017, Marchetta, Rv. 270750 Sez. 5, n. 35261 del 06/04/2017, Lento, Rv. 270721 Sez. 1, n. 29165 del 18/5/2017, H., Rv. 270280 Sez. 3, n. 46455 del 17/02/2017, M., Rv. 271110 Sez. 6, n. 55748 del 14/09/2017, Macrì Sez. 2, n. 24478 del 8/05/2017, Salute, Rv. 269967 Sez. 2, n. 28957 del 3/04/2017, D’Urso, Rv. 270109 Sez. 5, n. 54296 del 28/06/2017, Pesce, Rv. 272088 Sez. 5, n. 47833 del 21/06/2017, Terry, Rv. 273553 Sez. 2, n. 55068 del 26/09/2017, P., Rv. 271552 Sez. 5, n. 42746 del 9/05/2017, Fazzini, Rv. 271012 Sez. 5, n. 33272 del 28/03/2017, Carosella, Rv. 270471 Sez. 5, n. 12783 del 24/01/2017, Caterino, Rv. 269596 Sez. 4, n. 49159 del 18/07/2017, Ferrara, Rv. 271518 Sez. 5, n. 32351 del 27/03/2018, K., Rv. 273574 Sez. 6, n. 12397 del 27/02/2018, Gagliano, Rv. 272545 Sez. 2, n. 50035 del 19/09/2018, Gentiluomo ed altri Sez. 5, n. 57093 del 15/11/2018, Spreafico Sez. 5, n. 57070 del 31/10/2018, Serra Sez. 2, n. 55158 del 18/09/2018, Miccichè Sez. 5, n. 53415 del 18/06/2018, Boggi Sez. 3, n. 46225 del 9/07/2018, Vertua Sez. 4, n. 38363 del 23/05/2018, Consorzio Melinda s.c.a. Sez. 1, n. 20186 del 16/01/2018, Barranca Sez. 6, n. 16501 del 15/02/2018, Portaro, Rv. 272886 Sez. 3, n. 54190 del 12/9/2018, Damanti Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Troise, Rv. 272430-431

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., ord. n. 67 del 2007 Corte cost., sent. n. 26 del 2007 Corte cost., ord. n. 318 del 2008 Corte cost., ord. n. 205 del 2010

Sentenze della Corte EDU

Unterpertinger c. Austria del 24/11/1986 Bricmont c. Belgio del 7/07/1989

P.K. c. Finlandia del 9/07/2002 Milan c. Italia del 4/12/2003 Destrehem c. Francia del 18/05/2004 Graviano c. Italia del 10/02/005 Reiner c. Romania del 27/09/2007 Marcos Barrios c. Spagna del 21/09/2010 Dan c. Moldavia del 05/11/2011 Grande Camera, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito del 15/12/2011 Manolachi c. Romania del 05/03/2013 Hanu c. Romania del 4/06/2013 Kostecki c. Polonia del 4/06/2013 Manolachi c. Romania del 05/03/2013 Flueras c. Romania del 09/04/2013 Grande Camera, Schatschaschwili c. Germania del 15/12/2015 Kashlev c. Estonia del 6/4/2016 Lorefice c. Italia del 29/6/2017 Manoli c. Moldavia del 28/02/2017 Lorefice c. Italia del 29/06/2017 Chiper c. Romania del 27/06/2017

  • consulenza e perizia
  • prova
  • esecuzione della sentenza

CAPITOLO III

OBBLIGO DI RINNOVAZIONE IN APPELLO DELLE DICHIARAZIONI DI PERITI E CONSULENTI IN CASO DI RIBALTAMENTO DELLA SENTENZA ASSOLUTORIA DI PRIMO GRADO

(di Raffaele Piccirillo )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il caso. - 3 La questione controversa. - 4 Analisi dell’orientamento maggioritario. - 5 Analisi dell’orientamento minoritario. - 6 I nodi problematici. - 6.1 Il rilievo del momento orale nel procedimento di formazione della prova per esperti. - 6.2 La polivalenza del contributo di periti e consulenti e la natura delle loro valutazioni. - 6.3 Peculiarità del caso sottoposto alle Sezioni unite. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nella precedente edizione di questa Rassegna (pagg. 388 ss.) si sono analizzati gli sviluppi della giurisprudenza di legittimità in tema di obbligo del giudice d’appello di procedere, anche d’ufficio, alla rinnovazione della prova dichiarativa quando intenda ribaltare l’esito assolutorio del giudizio di primo grado.

Sono stati riproposti i principi enunciati nelle decisioni Sez. U, n. 27620 del 28.4.2016, Dasgupta; Sez. U, n. 18620 del 19/1/2017, Patalano e Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 – dep. 3/4/2018 –, Troise e i seguiti che quelle indicazioni hanno avuto nella giurisprudenza delle sezioni semplici, delineando: un’area casistica di pacifica applicazione dell’obbligo di rinnovazione; un ambito di pacifica esclusione dell’obbligo; un’area problematica, nella quale andavano già delineandosi contrasti interpretativi ulteriori rispetto a quelli già risolti dalle Sezioni unite.

Con ordinanza n. 41737 del 23/05/2018, depositata il successivo 26/09, la Seconda sezione penale ha rimesso alle Sezioni unite la soluzione del contrasto interpretativo rilevato sul se le dichiarazioni del perito e dei consulenti tecnici debbano intendersi ricomprese nel perimetro della prova dichiarativa necessitante di rinnovazione, da disporsi anche d’ufficio, nel caso di decisiva rivalutazione in peius da parte del giudice d’appello.

2. Il caso.

Il caso che ha dato origine alla questione può essere così sintetizzato.

Il Tribunale aveva assolto l’imputato, per non aver commesso il fatto, dai reati di rapina pluriaggravata presso un istituto bancario, ricettazione di autovettura e porto di oggetti atti ad offendere.

Il giudice riteneva che gli elementi idonei in astratto a collegare l’imputato alla rapina – le immagini estrapolate dal sistema di videosorveglianza della banca e la localizzazione, mediante tracciamento, di un’utenza telefonica mobile a lui intestata in prossimità dei luoghi in cui si svolsero i fatti – non fossero sufficienti a dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio la sua responsabilità.

In particolare, secondo il tribunale, l’indizio ritratto dalla circostanza che la scheda telefonica intestata all’imputato avesse agganciato, nelle ore di interesse, celle contigue ai luoghi di consumazione dei reati doveva misurarsi con la possibilità che l’utenza fosse in possesso di altra persona, non potendo attribuirsi valore universale alla massima di esperienza secondo la quale “è solo l’intestatario ad avere, in ogni momento, la disponibilità dell’utenza”. Quanto al filmato, il tribunale rilevava che, mentre il consulente del pubblico ministero, sentito in udienza, “aveva creduto di vedervi ritratto proprio l’imputato”, il perito nominato nel corso del dibattimento (la cui relazione era stata letta in udienza, sull’accordo delle parti, senza procedere al previo esame prescritto dall’art. 511, comma 3, cod. proc. pen.), era giunto alla conclusione che gli elementi di somiglianza, pur esistenti tra il soggetto effigiato e l’imputato, “attengono a caratteri generali che non consentono di pervenire ad un giudizio di identificazione, in quanto gli stessi possono essere riscontrati anche in più soggetti”.

Decidendo sull’impugnazione proposta dal pubblico ministero, la corte d’appello riformava la sentenza di primo grado, dichiarando l’imputato colpevole del delitto di rapina pluriaggravata e dichiarando non doversi procedere in ordine ai reati di ricettazione e porto ingiustificato di oggetto atto ad offendere, perché estinti per prescrizione.

A fondamento dell’affermazione di responsabilità venivano posti i seguenti indizi, ritenuti gravi precisi e concordanti: la presenza del cellulare dell’imputato, in ora notturna, a pochi chilometri dal luogo in cui avvenne il furto dell’autovettura poi utilizzata per la rapina; la presenza dell’utenza mobile intestata all’imputato nei pressi del luogo della rapina, in perfetta coincidenza temporale con essa; il tracciamento degli spostamenti della medesima utenza, sia dopo l’esecuzione del furto dell’autovettura che dopo la rapina, in Padova, dove l’imputato risultava residente da un verbale di perquisizione redatto alcuni mesi dopo i fatti di causa; la circostanza che in nessun momento dell’iter processuale l’imputato aveva indicato la disponibilità in capo ad altri dell’utenza a lui intestata; la rilevantissima somiglianza dell’imputato con uno dei tre rapinatori.

A tale ultimo riguardo veniva in rilievo il tema della rivalutazione della prova per esperti.

La Corte territoriale valorizzava:

- il giudizio di elevata probabilità dell’identificazione espresso dal consulente tecnico del pubblico ministero sulla base dell’esame del profilo facciale, del profilo fronto-nasale, della morfologia del mento, della forma e delle dimensioni della bocca, dell’altezza del viso, del mento, della bocca e del naso del soggetto effigiato nelle foto segnaletiche dell’imputato e nei fotogrammi estratti della videoregistrazione eseguita dagli impianti di videosorveglianza dell’istituto di credito;

- la sostanziale sovrapponibilità delle misurazioni e dei rilievi morfologici eseguiti dal perito nominato dal tribunale, che, nella relazione letta in udienza, si era espresso in termini di compatibilità e non di “perfetta uguaglianza”, soltanto per l’assenza di “contrassegni identificativi individualizzanti”, in un contesto nel quale peraltro l’accertamento del consulente tecnico del pubblico ministero si palesava metodologicamente più completo, avendo questi proceduto a un esame comparativo trascurato, invece, dal perito;

- l’esame diretto delle immagini compiuto dalla Corte che aveva ravvisato “fortissima ed evidentissima” somiglianza tra uno dei rapinatori e l’imputato.

Con il ricorso per cassazione, il difensore del ricorrente si doleva, tra l’altro, della mancata rinnovazione delle dichiarazioni del perito e del consulente tecnico del pubblico ministero, da lui ritenute assimilabili alla testimonianza e quindi rientranti nel perimetro concettuale delle prove dichiarative necessitanti di rinnovazione.

3. La questione controversa.

L’ordinanza di rimessione, seguendo e sviluppando la traccia delineata dalla Relazione di contrasto n. 38/18 dell’Ufficio del Massimario, ha preso le mosse da alcuni dei principi di diritto e delle rationes decidendi enunciate dalle Sezioni unite, nelle decisioni citate all’inizio di questo capitolo.

Si è richiamata la sentenza n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, con la quale le Sezioni unite – chiamate a risolvere la questione della rilevabilità d’ufficio, in sede di giudizio di cassazione, della violazione dell’art. 6 CEDU, per avere il giudice d’appello riformato la sentenza assolutoria di primo grado, affermando la responsabilità penale dell’imputato sulla base della diversa valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni dei testimoni, senza procedere a nuova escussione degli stessi – hanno chiarito che la previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d) della CEDU implica che il giudice d’appello, investito dell’impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, con cui si adduca un’erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado (Rv. 267487).

La sentenza Dasgupta ha ravvisato nella violazione della regola anzidetta un vizio di motivazione rilevante ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, di cui all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen. (Rv. 267492).

Il presupposto dell’assoluta necessità indicato dall’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. – che in maniera esclusiva regolava la materia della rinnovazione istruttoria in appello al tempo della decisione – è stato declinato dalle Sezioni unite in termini tali da rispondere non più soltanto al bisogno (per così dire tradizionale) di ovviare all’incompletezza del quadro probatorio, ma “più generalmente all’esigenza che il convincimento del giudice di appello, nei casi in cui sia in questione il principio del ragionevole dubbio, replichi l’andamento del giudizio di primo grado, fondandosi su prove dichiarative direttamente assunte”.

Sono quindi richiamate nell’ordinanza devolutiva le sentenze Sez. U, n. 18620 del 19/1/2017, Patalano e Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Troise, nelle parti in cui, muovendosi nel solco tracciato dal precedente arresto, escludono l’obbligo di rinnovazione istruttoria nel caso in cui il giudice d’appello riformi in senso assolutorio una decisione di condanna del giudice di primo grado, ma affermano anche in questo caso la necessità di offrire una motivazione puntuale e adeguata della difforme decisione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (Rv. 272430).

I principi appena richiamati costituiscono – secondo la sezione remittente – la cornice della nuova questione sottoposta allo scrutinio delle sezioni unite, posto che, ratione temporis, il caso in esame è ancora regolato dall’art. 603, comma 3 cod. proc. pen. In assenza di norma transitoria, non può infatti trovare applicazione il nuovo art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen. introdotto dall’art. 1, comma 58 della legge 23 giugno 2017, n. 103 che recita «Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale».

Al riguardo, l’ordinanza richiama Sez. U, n. 27614 del 20/03/2007, Lista, Rv. 236537 per la quale “ai fini dell’individuazione del regime applicabile in materia di impugnazioni, allorché si succedano nel tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall’una all’altra, l’applicazione del principio “tempus regit actum” impone di far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione”.

Si dipana a questo punto l’illustrazione dei due orientamenti in contrasto e la selezione di alcuni temi rilevanti per la soluzione del quesito, che qui ripercorreremo sulla base di un’autonoma analisi delle decisioni richiamate.

4. Analisi dell’orientamento maggioritario.

Il primo orientamento, quantitativamente prevalente, propende per l’obbligatoria riassunzione della dichiarazione dell’esperto o per il necessario conferimento di un nuovo incarico peritale nel caso di riforma della sentenza assolutoria di primo grado fondata sul diverso apprezzamento della prova scientifica decisiva.

Si iscrivono in questo filone una decisione della Seconda sezione (Sez. 2, n. 34843 del 01/07/2015, Sagone, Rv. 264542) e cinque decisioni, anche recentissime, della Quarta sezione (Sez. 4, n. 6366 del 06/12/2016, Maggi e altro, Rv. 269035; Sez. 4, n. 9400 del 25/1/2017, Gashi, non mass.; Sez. 4, n. 14649 del 21/2/2018, Lumaca, Rv. 273907; Sez. 4, n. 14654 del 28/2/2018, D’Angelo, Rv. 273908; Sez. 4, n. 36736 del 27/4/2018, Anello, Rv. 273872).

L’orientamento è inaugurato, in epoca anteriore alla sentenza Dasgupta, da Sez. 2, n. 34843 del 01/07/2015, Sagone, Rv. 264542 che riguarda un caso di overturning della sentenza assolutoria di primo grado, pronunciata per un addebito di circonvenzione di incapace (art. 643 cod. pen.).

Il tribunale aveva ritenuto “insuperabilmente contraddittoria” la prova dello stato di deficienza psichica della vittima ultranovantenne, al momento dell’atto di disposizione patrimoniale che aveva avvantaggiato l’imputato. La corte d’appello aveva rivalutato gli accertamenti e le perizie medico-legali, veicolati nel dibattimento di primo grado anche attraverso l’esame orale del perito e dei diversi medici che avevano valutato la condizione della vittima, senza procedere al loro riascolto.

La Seconda sezione della Corte di cassazione ha annullato la decisione, richiamando uno dei numerosi precedenti relativi alla riforma in peius per rivalutazione della prova dichiarativa classica (Sez. 2, n. 45971 del 15/10/2013, Rv. 257502, concernente la rivalutazione da parte della corte d’appello dell’attendibilità delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia ritenute inattendibili dal giudice di primo grado) e ha affermato che anche nel caso di perizie e consulenze il giudice d’appello deve procedere al riascolto degli autori degli elaborati, altrimenti determinandosi una violazione del principio del giusto processo ai sensi dell’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza Dan c. Moldavia del 5 luglio 2011 della Corte EDU.

La decisione pone in risalto la previsione dell’art. 501 cod. proc. pen., desumendone l’essenzialità dell’esame dibattimentale al fine dell’acquisizione del contributo conoscitivo dell’esperto e dell’espletamento della funzione affidatagli nel processo.

Il convincimento manifestato dalla Corte territoriale “di poter rivalutare le prove integrate da consulenze e perizie prescindendo dal riascolto degli autori delle stesse” ha integrato “un chiaro errore sulla natura stessa della prova esaminata”, che si traduce in “errore metodologico sulla valutazione della stessa”.

Si allinea al predetto insegnamento Sez. 4, n. 6366 del 6/12/2016 (dep. 2017), Maggi e altro, Rv. 269035, con riferimento a un caso di omicidio colposo commesso in violazione delle norme del Codice della strada.

Il tribunale aveva fondato il suo giudizio assolutorio sull’ininfluenza causale della violazione cautelare specifica addebitata all’imputato (superamento del limite di velocità), giacché anche ove l’agente avesse tenuto una condotta di guida conforme al dettato normativo, non avrebbe comunque evitato l’impatto, né scongiurato l’evento letale, tenuto conto della imprevedibilità della manovra approntata dal conducente, rimasto vittima dell’incidente.

La corte d’appello, senza procedere al riascolto dell’autore della perizia cinematica, aveva fornito una diversa lettura del suo elaborato, valorizzando altresì elementi ulteriori di colpa oggettiva che, pur essendo emersi dall’esame di un testimone, erano stati trascurati dal giudice di primo grado.

Nella decisione di annullamento con rinvio assunta dalla Quarta sezione, il tema della mancata rinnovazione delle prove dichiarative rilevanti (quella testimoniale e quella peritale, da riassumere mediante il riascolto dello stesso perito nominato in primo grado o mediante il conferimento di un nuovo incarico) è illustrato con puntuali riferimenti ai principi enunciati nella decisione Dasgupta, con particolare enfasi per la definizione di “prova decisiva” ivi contenuta e dando per scontata l’assimilazione dell’esame peritale all’esame testimoniale.

A tale ultimo riguardo, la sentenza Maggi richiama anzi il passaggio della decisione Dasgupta secondo il quale la necessità per il giudice dell’appello di procedere, anche d’ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della “qualità soggettiva del dichiarante” (Rv. 267488).

Il tema non assume rilevanza esclusiva nella decisione, avendo la Corte rilevato ulteriori profili di difformità della decisione d’appello: sia rispetto al consolidato assetto giurisprudenziale che, anche a prescindere dalla rinnovazione istruttoria, impone nel caso di overturning l’esaustiva disarticolazione del ragionamento probatorio sviluppato dal giudice di primo grado e la sua sostituzione con una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni raggiunte; sia rispetto all’omessa valutazione dell’affidamento che l’imputato poteva avere legittimamente riposto nell’osservanza da parte della vittima delle regole della circolazione stradale, da riguardarsi alla stregua dei canoni di prevedibilità dell’evento stabiliti, nello specifico settore della colpa stradale, da Sez. 4, n. 8090 del 15/11/2013 e Sez. 4, n. 46741 del 08/10/2009, Rv. 245663.

La decisione Sez. 4, n. 9400 del 25/1/2017, Gashi, non mass.., relativa a un altro caso di colpa stradale (investimento di un pedone), sembra fondata più che sul mancato riascolto dell’autore della perizia cinematica, sulla mancata rinnovazione dell’esame di un testimone oculare, le cui dichiarazioni avevano influito sulle valutazioni del perito ed erano state rilette dalla corte d’appello in chiave di conferma dell’ipotesi accusatoria.

Rilevando la violazione dei principi enunciati nella sentenza Dasgupta, la decisione Gashi ha osservato che “la Corte territoriale ha disatteso la citata regola espressa dal diritto vivente, riformando in peius la sentenza di assoluzione, sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di prove dichiarative considerate decisive, omettendo di procedere al rinnovo della istruttoria dibattimentale, ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen. e posto che nel caso di specie, il contenuto della deposizione del teste veniva in rilievo anche nell’apprezzamento delle indicazioni fornite dal perito (…) e che la Corte di Appello, nel ribaltare l’apprezzamento che il Tribunale aveva effettuato della espletata perizia, ha pure richiamato le valutazioni che erano state espresse dal tecnico proprio sulla base della deposizione dibattimentale, resa avanti al Tribunale, dal teste ora citato”.

L’inclusione dell’apporto conoscitivo decisivo del consulente tecnico di parte e del perito nel perimetro dell’obbligo di rinnovazione è più netta nelle più recenti decisioni citate dall’ordinanza di remissione: Sez. 4, n. 14654 del 28/2/2018, D’Angelo, Rv. 273908, relativa ad un’ipotesi di un infortunio sul lavoro; Sez. 4, n. 14649 del 21/2/2018, Lumaca, Rv. 273907, relativa a un caso di colpa stradale.

Nella decisione D’Angelo veniva in gioco la violazione dell’art. 590, commi secondo e terzo, cod. pen. contestata al delegato per la sicurezza di un’impresa per l’incompleta redazione del documento di valutazione dei rischi e l’omessa formazione e informazione di un lavoratore che, nel contesto dell’operazione di taglio di un pannello al banco della sega circolare squadratrice, si era avvicinato alla lama e si era procurato una lesione complessa alla mano destra.

Il tribunale aveva assolto l’imputato, avendo escluso il nesso di causalità tra le accertate mancanze datoriali e l’infortunio occorso al lavoratore.

La corte territoriale era, invece, pervenuta alla condanna sulla base della rilettura della testimonianza della persona offesa e della consulenza tecnica del pubblico ministero, acquisite in primo grado. Da queste erano emerse informazioni relative al materiale del pannello affidato al lavoratore per il taglio, da cui discendevano, da un lato, la necessità di specifico addestramento del lavoratore sulla tecnologia da applicare, dall’altro la difformità del macchinario predisposto allo scopo.

La Quarta sezione ha ritenuto la decisività dell’elaborato tecnico che aveva formato oggetto di rilettura, secondo il criterio definitorio enunciato nella sentenza Dasgupta, per il quale:

“Costituiscono prove decisive al fine della valutazione della necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado fondata su una diversa concludenza delle dichiarazioni rese, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l’assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull’esito del giudizio, nonché quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell’appellante, rilevanti – da sole o insieme ad altri elementi di prova – ai fini dell’esito della condanna” (Rv. 267491).

Ha quindi ribadito il principio enunciato nelle citate decisioni Sagone e Maggi, per il quale: “Il giudice di appello, per riformare “in peius” una sentenza assolutoria, non può basarsi sulla mera rivalutazione delle perizie e delle consulenze in atti, ma deve procedere al riascolto degli autori dei predetti elaborati già sentiti nel dibattimento di primo grado, altrimenti determinandosi una violazione del principio del giusto processo ai sensi dell’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza Dan c. Moldavia del 5 luglio 2011 della Corte europea dei diritti dell’uomo”.

Altrettanto univoca è la posizione espressa nella sentenza Lumaca.

Si trattava, ancora una volta, di un addebito per colpa stradale dal quale il giudice di primo grado, all’esito di giudizio abbreviato, aveva mandato assolto l’imputato sulla base dell’accertamento compiuto da un esperto (qualificato in sentenza ora come perito, ora come consulente tecnico), acquisito sia in forma scritta che in forma orale (non è dato comprendere se le dichiarazioni dell’esperto fossero state rese nel contesto del giudizio abbreviato ai sensi degli artt. 438, comma 5 o 441, comma 5 cod. proc. pen.; ovvero se esse fossero state rese in precedenza e trasmesse al giudice con la richiesta di rinvio a giudizio ai sensi dell’art. 416, comma 2, cod. proc. pen.).

La valutazione dell’esperto, secondo il quale la collisione dell’autovettura dell’imputato con il motoveicolo condotto dalla vittima si sarebbe verificata ugualmente, e con identiche conseguenze, anche se l’imputato avesse tenuto una condotta di guida conforme alla prescrizione del Codice della strada che aveva violato (non aver tenuto la destra), era stata sovvertita dalla corte d’appello, senza riascoltare la fonte né conferire un nuovo incarico peritale.

Evidenziata la decisività della prova rivalutata dalla corte d’appello, la Quarta sezione ha affermato che “i principi che impongono la rinnovazione della istruzione dibattimentale, fin qui richiamati, riguardano anche la testimonianza di consulenti tecnici e periti”.

Sebbene non menzionata nell’ordinanza devolutiva, la sentenza Sez. 4, n. 36736 del 27/4/2018, Anello, Rv. 273872, relativa ad un altro caso di lesioni colpose aggravante sul luogo di lavoro, deve anch’essa senz’altro ascriversi all’orientamento maggioritario:

“Il giudice di appello non può procedere alla reformatio in peius di una sentenza assolutoria basandosi sulla mera rivalutazione delle perizie e delle consulenze in atti, ma deve procedere al riascolto degli autori degli elaborati, già sentiti nel dibattimento di primo grado, incorrendo, in assenza di tale adempimento, nella violazione del principio del giusto processo ai sensi dell’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza Dan c. Moldavia del 5 luglio 2011 della Corte europea dei diritti dell’uomo”.

Il dipendente di un’impresa di gestione di una cabinovia, trovandosi nell’area di passaggio delle vetture, in corrispondenza dell’avanstazione situata a monte dell’impianto, era stato investito alle spalle da una delle vetture ed era precipitato su una rete di protezione che, non reggendone il peso, si era aperta determinando la caduta del lavoratore da un’altezza di 5/6 metri. Dall’incidente erano derivate al lavoratore lesioni multiple con indebolimento permanente della deambulazione e dell’organo della respirazione, nonché l’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore a quaranta giorni.

Erano stati tratti a giudizio il datore di lavoro, il responsabile del servizio di protezione e prevenzione e il direttore di esercizio dell’impianto, nessuno dei quali rivestiva dette qualifiche al momento dell’installazione della rete.

La decisione assolutoria del giudice di primo grado e quella di condanna della corte d’appello convergevano, oltre che nella ricostruzione della dinamica del sinistro, nella descrizione delle caratteristiche della rete che non aveva retto all’urto dell’imputato: formata da due parti legate a mezzo di un filo di nylon, la rete non era definibile come rete anticaduta, nonostante fosse accompagnata, al momento dell’acquisto, da una certificazione che falsamente attestava il superamento di prove statiche di tenuta; la cucitura delle due parti, realizzata verosimilmente a mano, aveva determinato la rottura.

La frattura valutativa si concentrava su due aspetti: la sussistenza di un obbligo periodico di sostituzione della rete in capo alla società che gestiva l’impianto; la visibilità del vizio, il cui rilievo in sede di regolari controlli avrebbe consentito di evitare il sinistro.

Il tribunale aveva ricostruito le norme di settore vigenti all’epoca dei fatti, configurando un obbligo di controllo, incluso nel dovere di diligenza imposto dalla natura dell’impianto e dalla funzione della rete ma non scandito da “una vera e propria periodicità, normativamente non imposta”.

Avendo accertato che detti controlli non furono effettuati nei cinque anni trascorsi dall’apertura dell’impianto alla data del sinistro, il tribunale aveva poi ritenuto che sulla rottura non aveva inciso l’usura e che decisivo era invece stato il vizio originario della rete (la sua scomposizione in due parti), occultato dal produttore con la falsa certificazione di accompagnamento e il mascheramento delle cuciture.

Tanto considerato, il tribunale aveva concluso che “l’eventuale periodico controllo non avrebbe consentito ad alcuno degli imputati di avvedersi del vizio occulto, posto che nessuno dei medesimi aveva all’epoca dell’installazione la qualifica rivestita al momento del sinistro”.

Avevano giocato un ruolo decisivo nel ragionamento probatorio del tribunale le dichiarazioni del qualificato consulente di parte privata, in tema di obblighi precauzionali vigenti all’epoca del sinistro, causa della rottura e visibilità del vizio della rete; ma anche quelle del perito del tribunale e dello stesso consulente del pubblico ministero, negative o perplesse sia per quanto atteneva alla visibilità del vizio dopo l’installazione della rete (la cucitura delle due parti non era stata rilevata neppure dal consulente del pubblico ministero nel corso delle indagini ed era emersa soltanto dopo l’esame accurato del reperto svolto dal perito del tribunale), sia per quanto atteneva alla sussistenza e all’eventuale incidenza di un problema di usura della protezione.

La corte d’appello aveva, al contrario, ritenuto che la manutenzione periodica e i controlli di routine (pacificamente mancati) avrebbero consentito di smascherare il presunto vizio occulto ed evitare il sinistro, stante la chiara visibilità dei fili di congiungimento dei due spezzoni.

Ricostruendo la theory of the case, la Quarta sezione ha riscontrato “una profonda discrasia (…) una difformità di valutazione su un tessuto probatorio invariato, che conduce ad una valutazione antitetica circa l’idoneità del controllo tecnico omesso a svelare il grave difetto materiale della rete, in assenza del riascolto degli autori degli elaborati tecnici, su un punto decisivo della controversia, dai medesimi espressamente esaminato e rispetto al quale il giudice della riforma della sentenza assolutoria dissente dal primo”.

In detta situazione la regola di derivazione convenzionale della rinnovazione istruttoria si impone, posto che: “il sapere tecnico contenuto nelle perizie e nelle consulenze va a confluire nelle dichiarazioni formulate dagli esperti in sede di esame. Sicché, per utilizzarne il narrato scientifico, il giudice, che voglia attribuirvi un significato differente da quello già ritenuto dalla sentenza impugnata, deve risentire i tecnici, onde formulare un giudizio che ponga a confronto fra loro i contenuti delle risposte al fine, eventualmente, di trarne conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal primo giudice, ma senza omettere la loro comparazione”.

A fortiori, tanto deve ritenersi in considerazione della natura ibrida delle dichiarazioni del consulente degli imputati che “portando all’interno dell’esame anche un elemento di natura più squisitamente testimoniale, ha chiarito che la cucitura – per come egli stesso ha potuto verificarla – non era visibile ad occhio nudo e che egli stesso non sarebbe stato capace di rendersene conto, se non ne avesse avuto conoscenza”.

Aderendo alla ricostruzione della decisione Dasgupta, la Quarta sezione ha individuato la radice del principio di rinnovazione, anche nel caso di prova scientifica, “nel diritto di contraddire alle valutazioni dissonanti sulla narrazione dei dichiaranti, senza consentire che il giudice della riforma in senso peggiorativo si limiti ad introdurre note di dissenso della valutazione ad esse attribuita, in assenza di un nuovo momento processuale di confronto ed analisi, indispensabile nel rovesciamento del giudizio, anche al fine di assicurare che il superamento del ragionevole dubbio trovi una sua concreta giustificazione nell’imprescindibile principio dell’immediatezza del contraddittorio”.

Significativo è il passaggio finale della motivazione Anello che collega il principio della rinnovazione istruttoria al problema della verifica della causalità omissiva, così come tematizzato dalla sentenza Sez. U, n. 30328 del 10/7/2002, Franzese.

Il mancato riascolto degli esperti – dice la Quarta sezione – ha pregiudicato “la tenuta del cd. giudizio controfattuale, cioè di quell’operazione logica che eliminando dalla realtà la condizione costituita da una determinata condotta umana, verifica se il fatto oggetto del giudizio sarebbe egualmente accaduto”.

5. Analisi dell’orientamento minoritario.

L’orientamento secondo il quale “in caso di riforma in appello della sentenza di assoluzione, non sussiste l’obbligo per il giudice di procedere alla rinnovazione dibattimentale della dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico, non trattandosi di una prova dichiarativa decisiva assimilabile a quella del testimone” è suffragato da due decisioni della Quinta e della Terza sezione della Corte di cassazione, successive alla sentenza Dasgupta e pienamente consapevoli dei principi ivi affermati.

Si tratta delle sentenze Sez. 5, n. 1691 del 14/09/2016 – dep. 2017 –, Abbruzzo, Rv. 269529; Sez. 3, n. 57863 del 18/10/2017, Colleoni, Rv. 271812.

Le pronunce si riferiscono a casi di colpa medica nei quali la corte d’appello aveva rivalutato in peius le risultanze degli accertamenti medico-legali svolti nel corso del giudizio ordinario di primo grado.

Ad accomunare le due decisioni è lo sforzo di adattare i principi enunciati nelle sentenze Dasgupta e Patalano (quest’ultima espressamente considerata nella sola decisione Colleoni) all’ambito della prova scientifica assunta mediante periti e consulenti tecnici, muovendo dalla constatazione che le Sezioni unite, quando sanciscono l’indifferenza della qualità soggettiva del dichiarante ai fini dell’obbligo di rinnovazione dibattimentale della prova nel caso di riforma della sentenza di assoluzione, compilano un elenco che non include né il perito né il consulente: “La necessità per il giudice dell’appello di procedere, anche d’ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante e vale: a) per il testimone “puro”; b) per quello c.d. assistito; c) per il coimputato in procedimento connesso; d) per il coimputato nello stesso procedimento (fermo restando che, in questi ultimi due casi, l’eventuale rifiuto di sottoporsi all’esame non potrà comportare conseguenze pregiudizievoli per l’imputato); e) per il soggetto “vulnerabile” (salva la valutazione del giudice sulla indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le dovute cautele, ad un ulteriore stress); f) per l’imputato che abbia reso dichiarazioni “in causa propria” (dal cui rifiuto non potrebbe, tuttavia, conseguire alcuna preclusione all’accoglimento della impugnazione)” (Rv. 267488).

Ecco allora che la sentenza Abbruzzo elenca i principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità in tema di valutazione giurisdizionale della prova scientifica e di limiti del sindacato di legittimità, dai quali si desumerebbe la peculiarità del contributo veicolato da periti e consulenti rispetto a quello fornito dai dichiaranti espressamente considerati nella massima sopra riportata.

- Il principio di libera valutazione della prova concerne anche la prova tecnica e, pertanto, il giudice, quale “peritus peritorum”, può esprimere il proprio giudizio in motivato contrario avviso rispetto a quello del perito. (Sez. 2, n. 12991 del 19/2/2013, Rv. 255196).

- In tema di prova, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito, pur in assenza di una perizia d’ufficio, può scegliere tra le diverse tesi prospettate dai consulenti delle parti, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni della scelta nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti e, ove tale valutazione sia effettuata in modo congruo, è inibito al giudice di legittimità procedere ad una differente valutazione, trattandosi di accertamento di fatto, come tale insindacabile in sede di legittimità (Sez. 4 n. 8527 del 13/02/2015, Rv. 263435).

- Nel dibattimento del giudizio di appello, la rinnovazione di una perizia può essere disposta soltanto se il giudice ritenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti. (La S.C. ha precisato che, in caso di rigetto della relativa richiesta, la valutazione del giudice di appello, se logicamente e congruamente motivata, è incensurabile in cassazione, in quanto costituente giudizio di fatto) (Sez. 2, n. 36630 del 06/09/2013, Rv. 257062).

- In tema di prova scientifica, la Cassazione non deve stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica; essa, infatti, non è giudice del sapere scientifico ed è solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto. Ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti di una consulenza, trattandosi di un accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha motivato l’accoglimento delle risultanze di una consulenza medica concernente la sindrome del bambino maltrattato) (Sez. 5, n. 6754 del 7/10/2014, Rv. 262722).

Il repertorio serve alla sezione giudicante per supportare la seguente affermazione: «Pur se il perito ed i consulenti tecnici sentiti in dibattimento hanno la veste di testimoni (Sez. 1, n. 26845 del 16/05/2002, Rv. 221737), la loro relazione forma parte integrante della deposizione ed inoltre essi sono chiamati a formulare un parere tecnico rispetto al quale il giudice può discostarsi purché argomenti congruamente la propria diversa opinione».

L’affermazione è integralmente ripresa dalla Terza sezione nella sentenza Colleoni, ove ulteriormente si sottolinea l’ontologica estraneità della prova tecnica e scientifica rispetto al tema in esame, osservando come nel caso di prova tecnica o scientifica “non si tratta di stabilire l’attendibilità del dichiarante e la credibilità del racconto sotto il profilo della congruenza, linearità e assenza di elementi perturbatori dell’attendibilità, ma di valutare la deposizione del perito alla luce dell’indirizzo ermeneutico in tema di valutazione della prova scientifica secondo cui, in virtù dei principi del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, il giudice ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi scientifiche prospettate da differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicché, ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, non è sindacabile dal giudice di legittimità”.

Una volta escluso l’obbligo di disporre, anche d’ufficio, la riassunzione della prova peritale nei termini delineati dalle sentenze Dasgupta, Patalano e Troise, resta impregiudicata, secondo le pronunce dell’indirizzo minoritario, la necessità di conformarsi alla regola di giudizio secondo cui “il giudice d’appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato” (Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231679). Regola che, come noto, assume rilievo particolare quando il ribaltamento abbia ad oggetto una decisione assolutoria: “Nel giudizio di appello, in assenza di mutamenti del materiale probatorio acquisito al processo, la riforma della sentenza assolutoria di primo grado, una volta compiuto il confronto puntuale con la motivazione della decisione di assoluzione, impone al giudice di argomentare circa la configurabilità del diverso apprezzamento come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano minato la permanente sostenibilità del primo giudizio” (Sez. 6, n. 8705 del 24/01/2013, Farre, Rv. 254113).

6. I nodi problematici.

Dall’analisi dell’apparato argomentativo dei contrapposti orientamenti e dalla più generale considerazione del sistema delle prove, la sezione remittente enuclea alcuni nodi problematici con i quali dovrà confrontarsi la soluzione del quesito. Altri nodi emergono dall’approfondimento della questione.

6.1. Il rilievo del momento orale nel procedimento di formazione della prova per esperti.

Il primo nodo attiene alla coesistenza, nello statuto della prova tecnico-scientifica, di norme che sembrano rimarcare la diversità di ruolo del perito e del consulente rispetto al testimone comune (artt. 391-bis, 391-sexies, 468 cod. proc. pen., 501 cod. proc. pen., 149 disp. att. cod. porc. pen.) con altre che, invece, segnalano non irrilevanti punti di contatto sul piano del rilievo dell’esame orale dell’esperto (art. 511, comma 3, cod. proc. pen.).

In tale contesto, sembra decisivo stabilire quale sia il rilievo dell’oralità nell’assunzione del contributo di periti ed esperti, tenendo conto delle previsioni dell’art. 227, 508 e 511, comma 3 cod. proc. pen. e dell’orientamento giurisprudenziale che, in tema di perizia assunta in incidente probatorio, considera l’esposizione orale del parere da parte del perito e il suo successivo esame ad opera delle parti come “momenti indefettibili del procedimento di formazione della prova” (Sez. 4, n. 36613 del 03/10/2006, De Rossi, Rv. 235374; Sez. 1, n. 44847, del 5/11/2008, Valenti, Rv. 242192).

6.2. La polivalenza del contributo di periti e consulenti e la natura delle loro valutazioni.

Il secondo tema investe la caratterizzazione non esclusivamente o non sempre valutativa del contributo del perito o del consulente.

L’ordinanza di rimessione richiama la giurisprudenza civile di legittimità che solitamente distingue una funzione deducente della consulenza tecnica d’ufficio, quando l’incarico conferito dal giudice attiene unicamente alla valutazione di fatti già altrimenti accertati o di dati preesistenti alle operazioni peritali; da una funzione percipiente che emerge quando, invece, al consulente è conferito l’incarico di accertare fatti non altrimenti accertabili che con l’impiego di tecniche particolari: caso quest’ultimo nel quale, diversamente dal primo, la consulenza può costituire fonte diretta di prova utilizzabile al pari di ogni altra prova ritualmente acquisita nel processo (Sez. L, n. 1149 del 19/1/2011, Rv. 616225, che assegna funzione percipiente alla consulenza grafica; conformi, ex plurimis: Sez. 2, n. 12695 del 30/5/2007, Rv. 597279, che considera la possibile coesistenza nel medesimo elaborato di una funzione valutativa e di una puramente probatoria; Cass. civ., Sez. 3, n. 13401 del 22/6/2005, Rv. 582060; Sez. L, n. 16256 del 19/8/2004, Rv. 575977; Sez. 3, n. 4993 dell’11/3/2004, Rv. 571001, in tema di consulenza cinematica in sinistro stradale).

La polivalenza del contributo degli esperti riguarda anche l’ambito penale, sol che si consideri il disposto dell’art. 220 cod. proc. pen. che definisce l’oggetto dell’incarico conferito al perito, includendovi lo svolgimento di indagini e l’acquisizione di dati o valutazioni, che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche. È dunque certamente considerata la possibilità che la perizia non sia basata su elementi conoscitivi già acquisiti nel processo e che le due funzioni sopra denominate percipiente e deducente, coesistano nel medesimo incarico.

Ma potrebbe assumere rilievo, ai fini di una più generalizzata estensione dell’obbligo di rinnovazione, il consolidato indirizzo della giurisprudenza penale di legittimità che qualifica come valutazioni informative, quelle che sono ancorate a parametri determinati o tecnicamente affidabili, se non indiscussi.

È lo stesso legislatore, proprio nella fattispecie dedicata alla falsa perizia (art. 373 cod. proc. pen.), a configurare un’ipotesi di mendacio nelle valutazioni tecnico-scientifiche.

Su questa base concettuale riposa l’indirizzo che ammette la configurabilità del delitto di falsità ideologica in atto pubblico, in relazione ai giudizi di valore contenuti in diagnosi e valutazioni mediche (Sez. 5, n. 3552 del 9/2/1999, Andronico, Rv. 213366):

“In tema di falso ideologico in atto pubblico, con riferimento alle diagnosi ed alle valutazioni compiute dal medico, va ritenuto che anche tali giudizi di valore, al pari degli enunciati in fatto, possono essere falsi. Sicché, nell’ambito di contesti che implichino l’accettazione di parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, le valutazioni formulate da soggetti cui la legge riconosce una determinata perizia possono non solo configurarsi come errate, ma possono rientrare altresì nella categoria della falsità: ciò in quanto, laddove il giudizio faccia riferimento a criteri predeterminati, esso è un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione (enunciati pacificamente falsificabili, quantunque, rispetto a tali categorie della conoscenza logica, esso dipende in maggior misura dal grado di specificità dei criteri di relazione). Ne consegue, pertanto, che può dirsi falso l’enunciato valutativo che contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e sia fondato su premesse contenenti false attestazioni (conf. Sez. 5, n. 15773 del 24/1/2007, Marigliano, Rv. 236550; Sez. 6, n. 8588 del 6/12/2000, Ciarletta, Rv. 219036)

In questo filone si è inserita Sez. 1, n. 45373 del 10/6/2013, Capogrosso, Rv. 257895, che configura il delitto di falsità ideologica in atto pubblico in relazione a una valutazione compiuta dal consulente tecnico del pubblico ministero, nel contesto della nota vicenda ILVA.

I principi e l’argomentazione della sentenza Andronico sono stati ripresi anche da Sez. U, n. 51824 del 25/9/2014, Guidi, Rv. 261187, nella soluzione del contrasto relativo ai termini di configurabilità del delitto di intralcio alla giustizia in relazione al tentativo di corruzione di un consulente tecnico del pubblico ministero.

In quel contesto la Corte ha ritenuto configurabile il delitto sub specie di induzione del consulente ai delitti di false informazioni al pubblico ministero o falsa testimonianza non soltanto in relazione all’esposizione di dati storici, ma “anche quando l’incarico affidato implica la formulazione di giudizi di natura tecnico-scientifica”.

Tutto questo per dire che la riduzione del contributo tecnico-scientifico alla dimensione del parere, enfatizzata dall’indirizzo minoritario, quand’anche riflettesse esaustivamente i suoi possibili contenuti, non implica che rispetto ad esso non possa porsi una questione di verità/falsità, attendibilità/inattendibilità, da verificare attraverso il contraddittorio.

6.3. Peculiarità del caso sottoposto alle Sezioni unite.

Con riferimento al caso specifico che ha dato luogo alla rimessione della questione, occorre poi svolgere alcune considerazioni ulteriori.

La prima attiene alla motivazione dell’overturning, che da un lato ridimensiona il contrasto tra i due elaborati tecnici in tema di identificazione dell’imputato e la valenza assolutoria di quello del perito; dall’altro, valorizza un dato trascurato dal giudice di primo grado: il tracciamento degli spostamenti del telefono del rapinatore, nelle ore immediatamente successive ai due delitti, in una città distante dalla scena del delitto e corrispondente al domicilio dell’imputato successivamente accertato.

Detti elementi potrebbero indurre la Corte a ritenere che, nella fattispecie concreta, non sia stata decisiva ai fini dell’overturnig la rivalutazione su base cartolare dei contributi degli esperti, quanto piuttosto la valutazione integrale di un compendio probatorio che il giudice di primo grado ha, invece, considerato in maniera lacunosa, ipotesi nella quale non opera l’obbligo di rinnovazione istruttoria (Sez. 5, n. 42746 del 9/5/2017, Fazzini, Rv. 271012; Sez. 5, n. 3372 del 28/3/2017, Carosella, Rv. 270471; Sez. 3, n. 19958 del 21/9/2016 – dep. 2017 –, Chiri, Rv. 269782; Sez. 2, n. 54717 del 1/12/2016, Ciardo, Rv. 268826).

La seconda peculiarità consiste nel fatto che, già in primo grado, uno dei due contributi (quello del perito) fu acquisito in forma cartolare, avendo le parti rinunciato all’esame prescritto dall’art. 511, comma 3, cod. proc. pen.

La Seconda sezione non annette a questa circostanza rilievo escludente dell’applicazione del sistema della rinnovazione istruttoria. Afferma, anzi, che l’esigenza di ripristino dei canoni di oralità, immediatezza e del contraddittorio è “tanto più avvertita quando, come nel caso in esame, il perito e il consulente siano pervenuti a conclusioni diverse sulla base di indagini non condotte con lo stesso metodo o quando, soprattutto, in primo grado, il perito non sia stato ascoltato, ma l’istruttoria sia stata compiuta attraverso la lettura della perizia su accordo delle parti”.

Analogamente si esprime il difensore dell’imputato opportunamente richiamando il dictum di Sez. U, n. 18620 del 19/1/2017, Patalano che, intervenendo specificamente sul contrasto insorto in relazione all’applicabilità dei principi affermati nella sentenza Dasgupta al giudizio abbreviato non condizionato né connotato da integrazioni istruttorie ex officio, ha chiaramente affermato l’operatività di quel metodo, con la medesima estensione e i medesimi limiti che valgono nel contesto del giudizio ordinario:

“È affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni” (Rv. 269785).

“Il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado emessa all’esito di giudizio abbreviato, sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio” (Rv. 269787).

“Il giudice d’appello che intenda procedere alla reformatio in peius di una sentenza assolutoria di primo grado, emessa all’esito di giudizio ordinario o abbreviato, non ha l’obbligo di rinnovare la prova dichiarativa decisiva qualora emerga che la lettura della prova compiuta dal primo giudice sia stata travisata per omissione, invenzione o falsificazione” (Rv. 269786).

Per come affermato e motivato dalle Sezioni unite, il principio in parola è ritenuto valido in ogni caso di rinuncia dell’imputato al contraddittorio per la prova, come quella verificatasi nel caso di specie.

E infatti Sez. 6, n. 53336 del 24/10/2017, Garbin, Rv. 271716 ha esteso il principio al caso delle dichiarazioni rese in fase di indagini e acquisite al fascicolo del dibattimento con l’accordo delle parti:

“È affetta da vizio di motivazione la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero ed in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio ordinario durante il quale l’imputato ha prestato il consenso all’acquisizione degli atti delle indagini preliminari al fascicolo per il dibattimento, ai sensi dell’art. 493, comma 3, cod. proc. pen., affermi la responsabilità dell’imputato operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni”.

Sennonché, l’estensione dell’obbligo di rinnovazione all’overturning della sentenza resa all’esito del giudizio abbreviato ha riscosso le critiche di una parte della dottrina e ha dato luogo di recente ad una questione di legittimità costituzionale, promossa dalla Corte d’appello di Trento (ord. n. 45 del 20/12/2017, pubblicata in G.U. n. 11 del 14/03/2018).

In particolare, il giudice remittente, nell’ambito di un giudizio regolato dal nuovo art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., ipotizza che la nuova disposizione possa essere interpretata secondo i principi indicati nella decisione Patalano e solleva dubbi di compatibilità con gli artt. 111 e 117 Cost.

In relazione all’art. 111 Cost., viene in particolare evidenziato il contrasto con il canone di ragionevole durata del processo che imporrebbe il “mantenimento del sinallagma” tra rinuncia alla formazione della prova nel contraddittorio e riduzione della pena per tutta la durata del procedimento, in un contesto nel quale il comma quinto dello stesso art. ha peraltro costituzionalizzato il giudizio abbreviato. L’alterazione del sinallagma pregiudicherebbe inoltre irragionevolmente la parità delle parti in quanto, mentre l’imputato conserva il diritto alla riduzione premiale anche nel caso di condanna sopravvenuta in appello, il pubblico ministero si vedrebbe preclusa la facoltà di “utilizzare le prove assunte e cartolarizzate nelle indagini preliminari”.

Sul versante dell’art. 117 Cost., il giudice remittente, che tratta un caso di violenza sessuale e lesioni, segnala il contrasto della “illogica rinnovazione della deposizione della persona offesa nel giudizio abbreviato d’appello” con l’art. 20 della Direttiva 2012/29/UE, recepita con d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 che impone che “il numero delle audizioni della vittima sia limitato al minimo”. Né ad escludere la frizione potrebbe valere l’incipit della disposizione comunitaria, che fa “salvi i diritti della difesa”, giacché proprio la consapevole rinuncia dell’imputato al diritto di esaminare e contro-esaminare il testimone a carico (diritto che, secondo la corte trentina, le Sezioni unite Patalano avrebbero trasformato in un obbligo), esclude la necessità di bilanciare la protezione della vittima dal rischio di traumatizzazione secondaria con un’effettiva prerogativa della difesa.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 5, n. 3552 del 9/2/1999, Andronico, Rv. 213366 Sez. 6, n. 8588 del 6/12/2000, Ciarletta, Rv. 219036 Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138-139 Sez. 1, n. 26845 del 16/05/2002, Comandè, Rv. 221737 Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231679 Sez. 4, n. 36613 del 3/10/2006, De Rossi, Rv. 235374 Sez. 5, n. 15773 del 24/01/2007, Marigliano, Rv. 236550 Sez. U, n. 27614 del 20/03/2007, Lista, Rv. 236537 Sez. 1, n. 44847 del 5/11/2008, Valenti, Rv. 242192 Sez. 6, n. 8705 del 24/01/2013, Farre, Rv. 254113 Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso, Rv. 257895 Sez. U, n. 51824 del 25/09/2014, Guidi, Rv. 261187 Sez. 2, n. 34843 del 01/07/2015, Sagone, Rv. 264542 Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267486-267492 Sez. 5, n. 1691 del 14/09/2016 – dep. 2017 –, Abbruzzo, Rv. 269529 Sez. 3, n. 19958 del 21/09/2016 – dep. 2017 –, Chiri, Rv. 269782 Sez. 4, n. 6366 del 6/12/2016, Maggi, Rv. 269035 Sez. 2, n. 54717 del 1/12/2016, Ciardo, Rv. 268826 Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, 269785-269787 Sez. 4, n. 9400 del 25/01/2017, Gashi, n.m. Sez. 5, n. 3372 del 28/03/2017, Carosella, Rv. 270471 Sez. 5, n. 42746 del 9/05/2017, Fazzini, Rv. 271012 Sez. 3, n. 57863 del 18/10/2017, Colleoni, Rv. 271812 Sez. 6, n. 53336 del 24/10/2017, Garbin, Rv. 271716 Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Troise, Rv. 272430-431 Sez. 4, n. 14649 del 21/02/2018, Lumaca, Rv. 273907 Sez. 4, n. 14654 del 28/02/2018, D’Angelo, Rv. 273908 Sez. 4, n. 36736 del 27/04/2018, Anello, Rv. 273872

Sentenze della Corte di cassazione civile

Sez. L, n. 16256 del 19/8/2004, Rv. 575977 Sez. 3, n. 4993 dell’11/3/2004, Rv. 571001 Sez. 3, n. 13401 del 22/6/2005, Rv. 582060 Sez. 2, n. 12695 del 30/5/2007, Rv. 597279 Sez. L, n. 1149 del 19/01/2011, Rv. 616225

  • procedura penale
  • ricorso di privati

CAPITOLO IV

L’INAMMISSIBILITÀ DEL RICORSO PER CASSAZIONE SOTTOSCRITTO PERSONALMENTE DALL’IMPUTATO A SEGUITO DELLA RIFORMULAZIONE DELL’ART. 613 COD. PROC. PEN.

(di Paolo Di Geronimo )

Sommario

1 Le modifiche in tema di ricorso personale dell’imputato. - 2 Il contrasto insorto a seguito della novella. - 3 La soluzione recepita da Sezioni unite “Aiello”. - 4 Legittimazione ad impugnare e modalità di presentazione del ricorso. - 5 Esclusione del ricorso personale: compatibilità con i principi costituzionali e della CEDU. - 6 La giurisprudenza successiva. - 7 I profili di diritto intertemporale. - Indice delle sentenze citate

1. Le modifiche in tema di ricorso personale dell’imputato.

La riforma “Orlando” è intervenuta con plurime modifiche concernenti la disciplina del ricorso in cassazione e del relativo procedimento, tutte finalizzate a conseguire una semplificazione ed una maggiore selezione, in ottica dichiaratamente deflattiva, dei procedimenti destinati ad essere trattai dalla Suprema corte.

Uno dei profili di maggior criticità della disciplina previgente era concordemente individuato nella possibilità che il ricorso in cassazione venisse sottoscritto personalmente dall’imputato. Si sottolineava, infatti, l’incompatibilità tra una difesa personale e, quindi, necessariamente non filtrata dall’intervento del difensore, con un procedimento connotato da profili di elevata complessità procedurale e dalla conseguente necessità che il ricorso introduttivo venga predisposto secondo le specificità proprie del giudizio di legittimità.

Dalla lettura della relazione illustrativa al disegno di legge e degli atti del dibattito parlamentare emerge come l’intervento volto a limitare la proposizione personale del ricorso in cassazione si fondava sulla constatazione che tali ricorsi frequentemente erano destinati alla declaratoria di inammissibilità per carenza dei necessari requisiti di forma e di contenuto, in ragione della obiettiva incapacità del ricorrente di individuare i vizi di legittimità del provvedimento impugnato in un giudizio connotato da spiccato tecnicismo.

Concorrente finalità perseguita nella riforma era, inoltre, quella di evitare che la previsione che consentiva il ricorso personale in cassazione potesse essere strumentalizzata per eludere il contenuto precettivo dell’art. 613, comma 1, cod. proc. pen., mediante la predisposizione da parte di difensore non abilitato al patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori del ricorso e la sottoscrizione del medesimo da parte dell’imputato.

Eliminando la possibilità della proposizione del ricorso personale in cassazione, quindi, il legislatore della riforma ha perseguito un maggiore efficacia ed efficienza al controllo di legittimità, anche al fine di valorizzare la funzione nomofilattica attribuita alla Corte di cassazione, riducendo il numero delle sopravvenienze sovente prive dei prescritti requisiti di ammissibilità e che, tuttavia, rappresentano un impegno numericamente rilevante per la Corte.

Sulla base di tali premesse, l’art. 1, commi 54 e 63, della l. 23 giugno 2017, n. 103, ha introdotto rilevanti modifiche agli artt. 571 e 613 cod. proc. pen.; in particolare, all’art. 571, comma 1, cod. proc. pen., prima delle parole «l’imputato può proporre impugnazione personalmente o per mezzo di un procuratore speciale» è stato inserito l’inciso «salvo quanto previsto per il ricorso per cassazione dall’art. 613, comma 1». Dall’art. 613 comma 1 cod. proc. pen. è stato espunto l’inciso iniziale «Salvo che la parte non vi provveda personalmente», pertanto la norma, nella attuale formulazione, recita: «L’atto di ricorso, le memorie e i motivi nuovi devono essere sottoscritti, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale della Corte di cassazione».

Il Legislatore, pertanto, è intervenuto a modificare le norme generali che disciplinano il ricorso in cassazione, mentre le norme speciali che contemplano le plurime e diversificate ipotesi in cui è proponibile tale ricorso sono rimaste inalterate.

Emblematico in tal senso è proprio l’art. 311 cod. proc. pen. che, pur a seguito della riforma, continua a prevedere la possibilità per «l’imputato e il suo difensore» di proporre ricorso per cassazione avverso le ordinanze in materia di misure cautelari personali.

Si tratta di una apparente discrasia tra la disciplina generale del ricorso in cassazione e quella dettata per le singole ipotesi in cui è contemplata tale forma di impugnazione, che non è limitata ai soli procedimenti de libertate, bensì rappresenta una costante per tutte le svariate ipotesi in cui nel codice di rito ed ancor più nella normativa speciale si prevede la possibilità di ricorrere in cassazione.

2. Il contrasto insorto a seguito della novella.

Sulla base del mutato quadro normativo, la giurisprudenza di legittimità si è interrogata in ordine alla possibilità di dare un’interpretazione estensiva del divieto di proposizione del ricorso in cassazione personalmente da parte dell’imputato, ovvero se la nuova disposizione contenuta all’art. 613 cod. proc. pen. andasse riferita al solo ricorso avverso le sentenze di merito.

Si è formato un orientamento volto a riconoscere la natura generale della disciplina prevista dall’art. 613 cod. proc. pen., con la conseguente applicabilità a qualsivoglia ipotesi di ricorso per cassazione, anche se previsto per procedure incidentali ovvero da normative speciali.

In tal senso si è espressa Sez. 6, n. 42062 del 15/09/2017, Lissandrello, Rv. 271333, intervenuta in merito al ricorso per cassazione proposto personalmente dal destinatario di un mandato di arresto europeo, ipotesi disciplinata dall’art. 22, l. 22 aprile 2006, n. 69, in base al quale «contro i provvedimenti che decidono sulla consegna la persona interessa, il suo difensore» possono proporre ricorso per cassazione.

La richiamata sentenza ha ritenuto che il novellato art. 613 cod. proc. pen. deve essere interpretato come norma di carattere generale, applicabile a qualsivoglia ipotesi di ricorso per cassazione, con la conseguenza di ritenere implicitamente abrogata qualsivoglia disposizione che preveda la facoltà per il soggetto interessato di presentare personalmente il ricorso.

Seguendo tale impostazione, l’art. 613 cod. proc. pen., con previsione totalmente innovativa rispetto all’assetto previgente, escluderebbe qualsiasi deroga alla regola generale che richiede la rappresentanza tecnica da parte di un difensore abilitato.

La valenza generale del divieto della proponibilità del ricorso personale dell’imputato è stata recepita anche da Sez. 5, n. 53203 del 7/11/2017, Simut, Rv. 271780; in motivazione la corte ha affermato che il legislatore della riforma si sarebbe astenuto dall’intervenire sul testo degli artt. 311 e 325 cod. proc. pen. non già per preservare un’isola di legittimazione personale dell’imputato e dell’indagato alla presentazione del ricorso in sede di legittimità, ma semplicemente perché non lo riteneva necessario in relazione alla disciplina generale del giudizio di legittimità le cui regole sono destinate ad operare anche con riferimento alle impugnazioni cautelari, salvo specifica deroga.

Argomenti similari sono stati recepiti anche da Sez. 1, n. 53330 del 4/10/2017, Villa, n.m., che ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione proposto personalmente dal condannato, anche se detenuto, avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema di ammissione alla detenzione domiciliare; nonché da Sez. 6, n. 51292 del 06/11/2017, Mihaila, n.m., secondo la quale l’art. 613 cod. proc. pen. si applica anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza che dispone la consegna in esecuzione di MAE.

Tale impostazione è stata contrastata nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite, adottata da Sez. 5, ord. n. 51068 del 08/11/2017, Aiello, con la quale si dubitava dell’applicabilità del combinato disposto dei novellati artt. 571 e 613 cod. proc. pen. anche alle ipotesi di ricorso per cassazione proposto ai sensi dell’art. 311 cod. proc. pen. 

A favore della perdurante possibilità della proposizione personale del ricorso in cassazione ex art. 311 cod. proc. pen., si evidenziava come quest’ultima norma fosse rimasta inalterata, sicchè, valorizzando l’interpretazione letterale e considerando che, con la novella, il legislatore è intervenuto anche in materia cautelare senza tuttavia modificare espressamente l’art. 311 cod. proc. pen., si è sostenuto che l’esclusione della proponibilità del ricorso per cassazione da parte dell’imputato non riguarderebbe anche la materia cautelare, rispetto alla quale sarebbe rimasta inalterata l’originaria disciplina contemplante l’impugnazione personale.

Peraltro, in tal senso dovrebbe condurre anche il fatto che, a seguito della novella, è stato mantenuto il principio generale, contemplato all’art. 571 cod. proc. pen., in ordine alla facoltà per l’imputato di impugnare personalmente i provvedimenti, essendosi introdotta per il solo ricorso per cassazione, regolato dall’art. 613, comma 1 cod. proc. pen., la necessaria assistenza tecnica.

Quest’ultima norma, tuttavia, dovrebbe ritenersi riferita, in ragione della sua collocazione, al solo ricorso per cassazione avverso le sentenze o, se si vuole, più in generale, avverso provvedimenti con efficacia definitoria di procedimenti principali ed autonomi.

3. La soluzione recepita da Sezioni unite “Aiello”.

Il contrasto è stato risolto da Sez. U, n. 8914, 23/02/2018, Aiello, Rv. 272010, affermando che «Il ricorso per cassazione avverso qualsiasi tipo di provvedimento, compresi quelli in materia cautelare, non può essere proposto dalla parte personalmente, ma, a seguito della modifica apportata agli artt. 571 e 613 cod. proc. pen. dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale della Corte di cassazione. (In motivazione, la Corte ha precisato che va tenuta distinta la legittimazione a proporre il ricorso dalle modalità di proposizione, attenendo la prima alla titolarità sostanziale del diritto all’impugnazione e la seconda al suo concreto esercizio, per il quale si richiede la necessaria rappresentanza tecnica del difensore)».

La Corte è giunta a tale conclusione dopo aver effettuato una compiuta ricostruzione dei rapporti tra la disciplina generale del ricorso in cassazione e le previsioni speciali che consentono tale mezzo di impugnazione, anche con riferimento a provvedimenti cautelari, personali o reali, ovvero in relazione a procedimenti disciplinati dalla legislazione speciale.

Applicando tale principio al caso di specie, ne consegue che le disposizioni relative ai procedimenti di cui agli artt. 311 e 325 cod. proc. pen. soggiacciono alla disciplina generale in tema di ricorso per cassazione per quanto riguarda: i limiti di ammissibilità dei motivi di ricorso; gli epiloghi decisori; l’esclusione della partecipazione personale dell’indagato; la necessaria assistenza da parte di un difensore iscritto all’albo speciale ed, a seguito della modifica degli artt. 571 e 613 cod. proc. pen., anche l’esclusione della possibilità per l’indagato di proporre personalmente l’impugnazione.

Osservano le Sezioni unite come sia la stessa formulazione letterale della disposizione contenuta nell’art. 571, comma 1, cod. proc. pen. ad attribuire valenza generale al nuovo regime normativo previsto per la proponibilità del ricorso per cassazione dall’art. 613, comma 1, cod. proc. pen., quale norma di riferimento volta ad esplicitare la diversità di disciplina che il legislatore ha inteso rimarcare a fronte dell’immutata facoltà dell’imputato di proporre tutti gli altri mezzi di impugnazione personalmente o servendosi di un procuratore speciale. La clausola di esclusione fondata sul richiamo all’art. 613, comma 1, cod. proc. pen., letta in maniera coordinata con l’attuale previsione dell’intero primo comma dell’art. 571, che vi richiama un solo mezzo di impugnazione (il ricorso per cassazione) per differenziarne le peculiarità di regolamentazione da tutti gli altri che l’imputato ha facoltà di proporre, diviene essa stessa norma generale, come tale applicabile a qualsivoglia ipotesi di ricorso per cassazione.

Sulla base di tale argomentazione, le Sezioni unite hanno ritenuto non condivisibile il contrario assunto secondo cui la sola previsione contenuta nell’art. 571 cod. proc. pen. – nella parte in cui ammette l’impugnazione personale – avrebbe natura di norma generale, ritenendo che la disciplina del ricorso per cassazione vada desunta dalla congiunta applicazione degli artt. 571 e 613 cod. proc. pen., attribuendo a quest’ultima norma valenza generale e non limitata alle sole impugnazioni proposte nel giudizio di merito.

Le Sezioni unite non si sono limitate ad affermare l’applicabilità dell’art. 613 cod. proc. pen. ai ricorsi proposti in materia cautelare ex art. 311 cod. proc. pen., avendo anche precisato che le disposizioni contenute nel titolo III del libro IX del codice di rito fissano le regole generali idonee a disciplinare qualsivoglia ipotesi di ricorso per cassazione e sono applicabili, in quanto tali, non solo alle impugnazioni avverso le sentenze di merito, ma anche a tutte le diverse ed eterogenee previsioni speciali che, in relazione a specifici modelli procedimentali (siano essi di natura cautelare, esecutiva, estradizionale o di prevenzione), consentono di proporre ricorso per cassazione avverso i relativi provvedimenti.

Le Sezioni unite hanno compiuto una rassegna, pur senza pretesa di completezza, dei casi in cui opera l’esclusione dell’ammissibilità del ricorso personale dell’imputato, individuando nel codice di rito i seguenti casi in cui è prevista la possibilità di proporre il ricorso per cassazione: a) art. 127, commi 7 ed 8 (relativamente ai provvedimenti assunti in camera di consiglio); b) artt. 311 e 325 (in materia cautelare, personale e reale); c) art. 391, comma 4 (avverso l’ordinanza di convalida dell’arresto o del fermo); d) art. 428, anteriormente alla modifica apportata dall’art. 1, comma 40, della legge n. 103 del 2017 (contro la sentenza di non luogo a procedere); e) art. 437 (contro l’ordinanza che rigetta la richiesta di revoca della sentenza di non luogo a procedere); f) art. 448, comma 2-bis (in tema di patteggiamento); g) art. 464-quater, comma 7 (relativamente all’ordinanza di messa alla prova);

h) art. 666, comma 6 (contro le ordinanze del giudice dell’esecuzione); i) art. 696-novies (introdotto dall’art. 3, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 3 ottobre 2017, n. 149, relativamente alle decisioni in tema di riconoscimento ed esecuzione di provvedimenti emessi dalle autorità giudiziarie di altri Stati membri dell’Unione europea); l) artt. 706 e 719 (contro sentenze e provvedimenti cautelari in materia di estradizione); m) art. 734, comma 3 (relativamente alle decisioni in tema di riconoscimento degli effetti delle sentenze penali straniere); n) art. 743, comma 2 (in materia di esecuzione all’estero di sentenze penali italiane).

Altrettanto numerose sono le ipotesi di ricorso per cassazione previste dalla legislazione speciale, poiché, oltre all’art. 22 della legge n. 69 del 2005 in tema di mandato di arresto europeo, il ricorso è previsto in tema di: a) riconoscimento ed esecuzione di una sentenza di condanna definitiva emessa dalle autorità giudiziarie di uno Stato membro dell’Unione europea (art. 12, comma 10, del decreto legislativo 7 settembre 2010, n. 161); b) riconoscimento dell’ordine europeo di indagine avente ad oggetto il sequestro a fini di prova (art. 13, comma 7, del decreto legislativo 21 giugno 2017, n. 108); c) misure di prevenzione (art. 10, comma 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, come modificato dall’art. 3, comma 1, lett. d), della legge 17 ottobre 2017, n. 161); d) reati di competenza del giudice di pace (art. 37 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274); e) reclamo in materia di ordinamento penitenziario (artt. 35-bis, comma 4-bis, e 69 della legge 26 giugno 1975, n. 354).

Si è ritenuto che, nonostante la eterogeneità delle diverse previsioni normative, sussiste la necessità di prevedere un regime unitario e, quindi, anche l’esclusione del ricorso personale dell’imputato, derivante dalla peculiarità del giudizio dinanzi alla Cassazione e dall’elevato tasso di complessità tecnico-giuridica che lo contraddistingue.

4. Legittimazione ad impugnare e modalità di presentazione del ricorso.

L’affermazione della portata generale della previsione contenuta nel novellato art. 613 cod. proc. pen. ha inevitabilmente comportato la necessità di individuare quale sia l’autonoma valenza precettiva di tutte quelle disposizioni speciali che attribuiscono, in modo disgiuntivo, la possibilità di proporre ricorso in campo all’imputato ed al suo difensore.

Tale apparente antinomia era stata risolta da Sez. 6, n. 42062 del 15/09/2017, Lissandrello, Rv. 271333, nel senso di ritenere che il regime delle ipotesi speciali di ricorso per cassazione andrebbe integrato mediante il rinvio alla disciplina generale del giudizio di legittimità, come risultante a seguito delle modifiche apportate agli artt. 571 e 613 cod. proc. pen., ritenendosi che la novella avrebbe determinato un’abrogazione tacita delle norme previgenti, nella parte in cui, contemplando il ricorso personale dell’interessato, risulterebbero incompatibili con la nuova formulazione dell’art. 613 cod. proc. pen.

Le Sezioni unite hanno ritenuto che, per addivenire alla conclusione dell’applicabilità generale dell’art. 613 cod. proc. pen., non occorre ipotizzare l’abrogazione tacita delle norme apparentemente incompatibili, dovendosi piuttosto valorizzare la tradizionale distinzione tra la legittimazione a proporre il ricorso e le sue effettive modalità di proposizione, attenendo il primo concetto alla titolarità sostanziale del diritto all’impugnazione, il secondo al profilo dinamico del suo concreto esercizio.

La titolarità del diritto ad impugnare individua la qualifica soggettiva ricoperta dall’interessato e l’attività processuale da porre in essere, traducendosi nell’attribuzione della legittimazione ad esercitare l’impugnazione.

La modalità di esercizio in concreto dell’impugnazione, invece, riguarda il profilo della rappresentanza tecnica, intesa come capacità di far valere in giudizio una pretesa (ius postulandi), attività che nel caso del giudizio di legittimità è stata riconosciuta esclusivamente al difensore abilitato.

In quest’ottica, le norme che indicano la legittimazione ad impugnare in capo all’imputato (di cui sono tipici esempi gli artt.311 e 607 cod. proc. pen.) conservano una loro portata precettiva proprio perché individuano la titolarità del diritto di ricorrere in cassazione, in via del tutto autonoma dall’analoga facoltà riconosciuta al difensore.

L’art. 613 cod. proc. pen., invece, non interviene affatto sulla legittimazione all’impugnazione, ma si limita a regolamentare unicamente le forme e le modalità di proposizione del ricorso.

Le Sezioni unite, pertanto, hanno ricostruito il sistema indicando che «: a) per un verso, l’art. 571 cod. proc. pen. esclude espressamente, attraverso il formale richiamo all’art. 613 cod. proc. pen., che l’imputato possa proporre personalmente il ricorso per cassazione; b) per altro verso, è quest’ultima norma a disciplinare le modalità ed i requisiti soggettivi per la redazione e la sottoscrizione del ricorso, ferma restando l’autonoma legittimazione alla proposizione dell’impugnazione da parte del difensore, che continua a trovare la propria fonte nell’art. 571, comma 3, cod. proc. pen.».

Ne consegue che la modifica dell’art. 613 cod. proc. pen. non ha determinato la tacita abrogazione di tutte le previsioni normative che contemplano il ricorso per cassazione dell’imputato, dovendo tali disposizioni essere correttamente inquadrate quali specifiche fonti di attribuzione della mera legittimazione soggettiva all’impugnazione, con la conseguenza che tali norme operano su un piano separato e distinto rispetto all’individuazione delle modalità di proposizione del ricorso.

5. Esclusione del ricorso personale: compatibilità con i principi costituzionali e della CEDU.

Nell’ordinanza di rimessione della questione alle Sezioni unite si era espressamente ipotizzato che l’esclusione dell’ammissibilità del ricorso personale in materia cautelare avrebbe posto problemi di compatibilità costituzionale dell’impianto normativo. Secondo la Quinta sezione, infatti, l’eliminazione della possibilità di autodifesa, specie nei confronti dei soggetti sottoposti alla massima limitazione della libertà personale, potrebbe compromettere l’effettività del diritto di difesa, configurandosi non solo una possibile violazione degli artt. 13, 24 e 111, comma 7, Cost., ma anche dell’art. 6, § 3 lett.b) e c), CEDU, nella parte in cui stabilisce che ogni accusato ha il diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa, nonché di difendersi personalmente.

I prospettati dubbi di costituzionalità e compatibilità con la CEDU sono stati espressamente esclusi da Sez. U, n. 8914, 23/02/2018, Aiello, Rv. 272011, essendosi ritenuto che «È manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 613 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1, comma 55, legge n. 103 del 2017, per asserita violazione degli artt. 24, 111, comma 7, Cost. e 6 CEDU, nella parte in cui non consente più la proposizione del ricorso in cassazione all’imputato personalmente, in quanto rientra nella discrezionalità del legislatore richiedere la rappresentanza tecnica per l’esercizio delle impugnazioni in cassazione, senza che ciò determini alcuna limitazione delle facoltà difensive. (In motivazione, la Corte ha precisato che l’elevato livello di qualificazione professionale richiesto dall’esercizio del diritto di difesa in cassazione rende ragionevole l’esclusione della difesa personale, tanto più in un sistema che ammette il patrocinio a spese dello Stato)».

6. La giurisprudenza successiva.

La sentenza “Aiello” si è fatta carico di specificare che la nuova regola contenuta all’art. 613 cod. proc. pen. ha valenza generale, escludendo che vi possano essere ricorsi in cassazione aventi una disciplina derogatoria e tale da consentire un residuale potere per la parte personalmente di proporre il mezzo di impugnazione.

Occorre segnalare, tuttavia, come nell’intervallo tra la pronuncia delle Sezioni unite in commento ed il deposito delle motivazioni sia intervenuta una sentenza che, sia pur con riguardo al solo ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen., confermava la possibilità che ad agire fosse il condannato senza l’assistenza del difensore.

Secondo Sez. 4, n. 24120 del 09/02/2018, C., Rv. 273064, «Il ricorso straordinario per la correzione dell’errore di fatto proposto personalmente dal condannato è ammissibile anche a seguito delle modifiche apportate agli artt. 571 e 613 cod. proc. pen. dalla legge 23 giugno 2017 n. 103. (In motivazione la Corte ha precisato, altresì, che anche a seguito delle predette modifiche resta inammissibile il medesimo ricorso proposto dal difensore non munito di procura speciale, trattandosi di impugnazione di carattere straordinario riservata esclusivamente al condannato)».

Si tratta di un principio che, tuttavia, non ha trovato l’avallo delle Sezioni unite che, in motivazione, hanno espressamente esaminato la problematica concernente l’estensione al ricorso straordinario di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen. del principio generale che esclude la proposizione personale del ricorso in cassazione.

Pur dando atto della peculiarità della disciplina in tema di legittimazione ad impugnare prevista dall’art. 625-bis cod. proc. pen., le Sezioni unite hanno escluso che il “condannato” possa proporre personalmente il ricorso straordinario, ritenendo che anche in tal caso valga la regola generale dettata dall’art. 613 cod. proc. pen. che, peraltro, fornisce un’ulteriore garanzia per l’effettività della difesa, imponendo l’apporto tecnico del difensore iscritto nell’albo speciale.

Tale interpretazione ha trovato conferma nella successiva giurisprudenza delle sezioni semplici, sicchè può dirsi assodato che neppure il ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen. può essere proposto personalmente dal condannato (sul punto si veda Sez. 6, ord. n. 22549 del 17/05/2018, Papale, Rv. 273063; Sez. 4, n. 31662 del 04/04/2018, P., Rv. 273177).

Infine, va segnalata anche un’altra pronuncia che si inserisce nel solco delineato da Sezioni unite “Aiello”, confermando l’applicabilità dell’art. 613 cod. proc. pen. a qualsivoglia ricorso per cassazione.

Secondo Sez. 5, n. 36161, 16/03/2018, S., Rv. 273765 «Il ricorso per cassazione avverso qualsiasi tipo di provvedimento, compresi quelli emessi nel processo penale minorile, non può essere proposto dalla parte personalmente, ma, a seguito della modifica apportata agli artt. 571 e 613 cod. proc. pen. dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale della Corte di cassazione. (In motivazione, la Corte ha precisato che l’art. 613 cod. proc. pen. ha applicazione generale quanto alle forme e modalità di presentazione del ricorso, nè l’art. 34 d.P.R. n. 448 del 1988 – che prevede per gli esercenti la potestà genitoriale il diritto di impugnare i provvedimenti relativi al minore – costituisce una deroga a tale principio generale)».

7. I profili di diritto intertemporale.

La fattispecie concreta oggetto del ricorso esaminato dalle Sezioni unite concerneva un provvedimento cautelare emesso prima dell’entrata in vigore della l. n. 103 del 2017 (3 agosto 2017), mentre il ricorso proposto personalmente dall’indagato era stato depositato dopo tale data, sicchè si poneva necessariamente il problema di verificare l’applicabilità dell’art. 613 cod. proc. pen. nella versione ante o postriforma.

Tale problematica era stata espressamente evidenziata nell’ordinanza di rimessione, nella quale si sosteneva l’immediata applicabilità del nuovo regime delle impugnazioni, ritenendosi che non dovesse trovare applicazione il principio enucleato da Sez. U, n. 27614 del 29/3/2007, Lista, Rv. 236537, in base al quale, nel caso di successione di leggi nel tempo, si deve tener presente il momento dell’emanazione dell’atto impugnato e non quello della impugnazione dello stesso, sempre che il legislatore non abbia dettato una specifica disciplina transitoria.

Si era ritenuto che il suddetto principio non fosse funzionale all’individuazione del regime dell’impugnazione, posto che con riferimento alla riforma dell’art. 613 cod. proc. pen., non viene in rilievo la problematica relativa all’individuazione dell’actus cui si riferisce il tempus della novella, quanto la corretta individuazione del soggetto legittimato ad impugnare il provvedimento e tale legittimazione deve permanere nel momento in cui si propone l’impugnazione stessa (in senso conforme si era espressa anche Sez. 5, n. 53203 del 7/11/2017, Simut, Rv. 271780).

In senso difforme, invece, si era espressa Sez. 5, n. 51106 del 26/09/2017, Cante, n.m., ritenendo che la previsione del novellato art. 613 cod. proc. pen. dovesse trovare applicazione con riferimento ai soli ricorsi proposti avverso sentenze ed ordinanze emesse successivamente all’entrata in vigore della l. n. 103 del 2017, in quanto il profilo concernente la legittimazione a ricorrere è un aspetto costitutivo della disciplina del mezzo di impugnazione.

Le Sezioni unite, dichiarando l’inammissibilità del ricorso in quanto presentato personalmente dall’indagato, hanno implicitamente recepito la tesi secondo cui il regime introdotto con la novella dell’art. 613 cod. proc. pen. trova applicazione con riferimento al momento in cui l’impugnazione è stata depositata, anziché con riferimento all’epoca di deposito del provvedimento impugnato.

L’insegnamento delle Sezioni unite ha trovato conferma nella giurisprudenza successiva; in particolare, secondo Sez. 5, n. 23631 del 19/03/2018, Maisano, Rv. 273282, «È inammissibile il ricorso per cassazione proposto personalmente dall’imputato o dall’indagato dopo l’entrata in vigore della legge 23 giugno 2017 n. 103, a prescindere dalla data di emissione del provvedimento impugnato, incidendo la novella normativa relativa all’art. 613, comma 1, cod. proc. pen., non già sul diritto ad impugnare, bensì soltanto sulla disciplina delle modalità del suo esercizio. (Conf. Sez. 5, n. 23632/2018; Sez. 5, n. 23634/2018)».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 27714 del 29/3/2007, Lista, Rv. 236537 Sez. 6, n. 42062 del 15/09/2017, Lissandrello, Rv. 271333 Sez. 5, n. 51106 del 26/09/2017, Cante, Sez. 1, n. 53330 del 4/10/2017, Villa, n.m. Sez. 5, n. 53203 del 7/11/2017, Simut, Rv. 271780 Sez. 6, n. 51292 del 06/11/2017, Mihaila Sez. 5, ord. n. 51068 del 08/11/2017, Aiello Sez. U, n. 8914, 23/02/2018, Aiello, Rv. 272010 Sez. 4, n. 24120 del 09/02/2018, C., Rv. 273064 Sez. 5, n. 36161, 16/03/2018, S., Rv. 273765 Sez. 5, n. 23631 del 19/03/2018, Maisano, Rv. 273282 Sez. 4, n. 31662 del 04/04/2018, P., Rv. 273177 Sez. 6, ord. n. 22549 del 17/05/2018, Papale, Rv. 273063

  • procedura penale

CAPITOLO V

AVVISO ALLA PERSONA OFFESA EX ART. 12 D.LGS. N. 36 DEL 2018, DISCIPLINA TRANSITORIA E LIMITI DI APPLICAZIONE NEL PROCESSO DI CASSAZIONE

(di Luigi Barone )

Sommario

1 Il decreto legislativo n. 36 del 10 aprile del 2018. - 2 La disciplina transitoria nei procedimenti pendenti in Cassazione. - 3 La disciplina transitoria nei casi di inammissibilità del ricorso (prima questione). - 3.1 Cause di non punibilità ed inammissibilità dell’impugnazione (elaborazione giurisprudenziale). - 3.2 Inammissibilità del ricorso e remissione di querela (Sez. U, “Chiasserini”). - 3.3 Possibili soluzioni esegetiche. - 3.3.1 Prima soluzione. L’operatività della norma transitoria prescindendo dai profili di ammissibilità del ricorso. - 3.3.2 Seconda soluzione: esclusione dell’operatività della norma transitoria nei casi di inammissibilità del ricorso (Sezioni Unite “Salatino”). - 4 Normativa transitoria e prescrizione del reato (seconda questione). - 4.1 La soluzione offerta dalle Sezioni Unite “Salatino”. - Indice delle sentenze citate

1. Il decreto legislativo n. 36 del 10 aprile del 2018.

Il decreto legislativo n. 36 del 10 aprile del 2018, approvato dal Consiglio dei Ministri il 21 marzo 2018 (e nuovamente deliberato in data 6 aprile), dà attuazione alla delega contenuta all’art. 1, comma 16, lettere a) e b) della legge 23 giugno 2017, n. 103, modificando il regime di procedibilità di taluni reati.

Il legislatore delegato ha modificato il regime di procedibilità di soltanto parte dei reati indicati nella lettera a dell’art. 16, cit., lasciando immutati i restanti in ragione dalla rilevanza pubblicistica (o anche pubblicistica) degli interessi lesi (come per gli artt. 631, 632, 633, co. 1, 635, 636 e 639-bis, 635-quinquies, 639, co. 2, cod. pen.), dell’impossibilità o maggiore difficoltà di individuare la persona offesa del reato (art. 588, 648 ter, 640-quinquies, 617-bis cod. pen.) o della particolare situazione soggettiva in cui versa la vittima (art. 608 cod. pen.; art. 590, co. 5, 590-bis, commi 1, 4, 5 e 6 e 593 cod. pen.).

Pienamente corrispondente alle direttive ricevute è invece la disciplina in ambito di diritto intertemporale, contenuta all’art. 12, d.lgs. cit.

In forza di questa norma, per i reati commessi prima del giorno di entrata in vigore del d.lgs. n. 36/18 e divenuti perseguibili a querela per effetto dello stesso, il termine di presentazione della querela decorre: a) se non è pendente il procedimento, dal giorno della «predetta data» qualora la persona offesa abbia avuto in precedenza notizia del fatto (comma 1); b) se è pendente il procedimento, il predetto termine decorre dal giorno in cui la persona offesa, anche se abbia già avuto notizia del fatto costituente reato, è stata informata dall’Autorità giudiziaria della facoltà di esercitare il diritto di querela (comma 2).

In realtà, il testo originario del provvedimento governativo, dopo avere riprodotto correttamente la disciplina prevista in sede di delega – per la quale il p. m. o il giudice, dopo l’esercizio dell’azione penale, devono informare la persona offesa della facoltà di esercitare il diritto di querela – introduceva una vistosa eccezione, stabilendo che “le disposizioni del presente decreto non si applicano ai processi che, alla data di entrata in vigore del decreto medesimo, sono pendenti avanti alla Corte di Cassazione”.

La Commissione Giustizia del Senato aveva segnalato, ponendola quale condizione, la necessità di sopprimere tale disposizione, ritenuta “al di fuori dei limiti posti dalla delega” e in difformità dai due precedenti normativi intervenuti nella stessa materia (l’art. 19 della l. 205 del 1999 e l’art. 99 della l. 689 del 1981). Il Governo, fino alla versione approvata il 21 marzo 2018, non ha accolto tale invito, interpretando l’obbligo di informare la persona offesa come gravante sul “giudice del merito”, sul presupposto che “solo il giudice di merito, e non anche il giudice di legittimità, dispone del fascicolo processuale.”

Si riteneva, altresì, che l’inapplicabilità della disciplina transitoria in Cassazione mirasse “a preservare, in termini di ragionevolezza, l’efficienza del sistema processuale”. A sostegno della legittimità di tale soluzione differenziata si invocava la giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui il legislatore godrebbe di ampia discrezionalità nel regolare gli effetti temporali di nuovi istituti processuali nei processi in corso e le relative scelte “si sottraggono a censure di costituzionalità, ove non siano manifestamente irragionevoli”.

È stato osservato come l’interpretazione proposta, secondo cui il riferimento al “giudice” contenuto nella delega riguarderebbe soltanto le fasi di merito, era assai fragile, non potendosi in alcun modo evincere detta limitazione dal tenore della norma. Anzi, l’uso della locuzione “se è pendente il procedimento” indirizza chiaramente verso la conclusione opposta, giacché nella nozione di “procedimento” è da includere sia la fase delle indagini, sia le diverse fasi processuali, in ogni loro grado (sino al passaggio in giudicato della sentenza). Né era sostenibile, come adombrato dalla Relazione, che il giudice di legittimità sarebbe stato impossibilitato ad individuare la persona offesa non costituita parte civile: quale giudice dell’impugnazione egli infatti dispone degli atti processuali in ossequio alla previsione dell’art. 590 cod. proc. pen., a tenore della quale gli “sono trasmessi senza ritardo il provvedimento impugnato, l’atto di impugnazione e gli atti del procedimento” (ferma restando la discrezionalità del legislatore delegato di individuare, ove lo avesse ritenuto opportuno, modalità ad hoc tali da non pregiudicare la celerità del giudizio di legittimità).

Melius re perpensa il Consiglio dei Ministri, nel licenziare il testo definitivo del provvedimento delegato, ha abbandonato la soluzione originariamente prescelta, sopprimendo la disposizione derogatoria contenuta al terzo comma dell’art. 12 che “avrebbe esposto la disposizione a dubbi di violazione del principio del favor rei e di incostituzionalità”.

La disciplina transitoria nella sua definitiva stesura ricalca precedenti interventi legislativi di analogo tenore.

Il riferimento è all’art. 99 della legge 24 novembre 1981 n. 689 (Modifiche al sistema penale) e all’art. 19 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario) che hanno fissato regole di diritto intertemporale identiche a quelle contenute nell’art. 12 del d.lgs. ora in commento.

In particolare, per quel che qui interessa, in entrambe le norme è stabilito che nel caso di pendenza del procedimento, il giudice informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata.

In merito alla ratio giustificatrice della norma, Sez. U, n. 5540 del 17/04/1982, Corapi, Rv. 154076, hanno affermato che «l’art. 99 della legge 24 novembre 1981, n. 689, è da interpretare nel senso che per i reati commessi prima del giorno di entrata in vigore dell’anzidetta legge e divenuti perseguibili a querela, il termine di proponibilità della querela stessa decorre, ove il procedimento non sia pendente, da detto giorno allorché la persona offesa abbia avuto in precedenza notizia del fatto mentre, in caso di pendenza del procedimento, dal giorno in cui quella persona sia stata informata dall’autorità giudiziaria, ancorché abbia già avuto notizia del fatto costituente reato; e ciò perché la circostanza che discrimina la previsione del secondo comma rispetto a quella del primo comma della citata disposizione dell’art. 99 l. n. 689 del 1981 è costituita dalla pendenza del procedimento e non dalla conoscenza del fatto costituente reato da parte della persona offesa. (nella specie si è chiarito che il correttivo del secondo comma dell’art. 99 legge 689 del 1981 alla regola posta nel primo comma della stessa norma è da spiegare con l’intento di impedire che i procedimenti promossi per reati originariamente perseguibili di ufficio possano chiudersi con una sentenza di proscioglimento per mancanza di querela sulla base della “fictio legis” e non già a seguito di una formale informativa rivolta dal giudice alla persona offesa in ordine alla facoltà di esercizio della privata doglianza)».

2. La disciplina transitoria nei procedimenti pendenti in Cassazione.

La modifica apportata in extremis al testo di legge sembra risolvere ogni dubbio in merito alla applicabilità delle regole transitorie anche nei processi pendenti in sede di legittimità.

Osserva uno dei primi commentatori della norma (Maria Novello Masullo, Ampliati gli spazi della procedibilità a querela per i reati che offendono la persona e il patrimonio: valorizzato (adeguatamente) l’interesse privato alla punizione del colpevole? in Diritto penale contemporaneo-online, 26 aprile 2018), richiamando il parere espresso dalla Commissione Giustizia del Senato, che il mantenimento della originaria eccezione per i giudizi pendenti in Cassazione avrebbe pertanto potuto far sorgere seri dubbi di costituzionalità in ordine al rispetto della legge delega, tenuto conto che le violazioni dei criteri di delega, vulnerando i presupposti della legislazione delegata di cui all’art. 76 Cost., sono sempre sindacabili dalla Corte “in quanto la verifica sull’esercizio da parte del Governo della funzione legislativa delegata è essa stessa strumento di garanzia del rispetto di detto principio sancito dall’art. 25, comma 2, Cost., e non può essere limitata in considerazione degli eventuali effetti che una sentenza di accoglimento potrebbe produrre nel giudizio a quo, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali”.

Peraltro, nel caso in esame, la violazione della delega si sarebbe altresì risolta nella creazione di una norma sfavorevole all’imputato, non potendo quest’ultimo beneficiare del mutato regime di procedibilità (e dunque della declaratoria di non doversi procedere per mancanza della sopravvenuta – necessaria – condizione di procedibilità), laddove il suo procedimento fosse stato pendente in Cassazione, con evidente disparità di trattamento – non giustificabile alla luce dell’art. 3 Cost. – tra soggetti imputati di uno stesso reato.

Del resto, si osserva ancora da parte del medesimo autore, «la natura mista, sostanziale e processuale, della querela, ancora di recente sostenuta nella giurisprudenza di legittimità[cit.], non avrebbe consentito di sottrarre l’istituto al principio generale della retroattività della lex mitior sancito all’art. 2, comma 4, cod. pen., le cui uniche deroghe ammesse, come chiarito dal giudice delle leggi, sono quelle che superano un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole».

Alla stregua di quanto evidenziato sembra possa serenamente concludersi a favore della applicabilità della disciplina transitoria anche nei processi attualmente pendenti in sede di legittimità.

Ciò non ha esaurito, tuttavia, le problematiche interpretative della norma, come dimostrano le due questioni sottoposte e risolte, nell’anno in commento, dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino).

3. La disciplina transitoria nei casi di inammissibilità del ricorso (prima questione).

Il primo profilo di incertezza ha riguardato l’applicabilità della disciplina intertemporale nei procedimenti i cui ricorsi siano affetti da inammissibilità.

La questione investe il tema riguardante il rapporto che intercorre, nell’ambito del giudizio di cassazione, tra il ricorso inammissibile e le cause di non punibilità previste dall’art. 129 cod. proc. pen.

3.1. Cause di non punibilità ed inammissibilità dell’impugnazione (elaborazione giurisprudenziale).

La giurisprudenza di questa Corte è ormai stabilmente orientata lungo le linee interpretative fissate nel tempo dalle Sezioni Unite che si sono occupate del tema principalmente con riferimento alla rilevabilità d’ufficio della prescrizione del reato da parte del giudice ad quem investito da un ricorso inammissibile (per tutte Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266; Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531; Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164; e da ultimo: Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818).

I punti fondanti l’ormai consolidato indirizzo ermeneutico possono essere così schematizzati:

a. Superamento della distinzione tra cause d’inammissibilità “originarie” e “sopravvenute” (elaborata nella vigenza del codice di procedura penale del 1930 stante il regime delle impugnazioni, che prevedeva, in base ad una precisa scansione temporale, prima la dichiarazione di impugnazione, artt. 197 e 199, poi la presentazione dei motivi, art. 201) in favore di una categoria unitaria di inammissibilità dell’impugnazione, aderente all’attuale assetto processuale, nel quale l’impugnazione deve essere proposta, a norma dell’art. 581 cod. proc. pen., con un unico atto scritto contenente i due elementi di cui consta, ossia la dichiarazione e i motivi, i quali integrano rispettivamente la volontà di non prestare acquiescenza al provvedimento impugnato e il sostrato argomentativo che esplicita le ragioni per le quali si ritiene ingiusta o contra legem la decisione impugnata (Sez. U, De Luca).

b. Tutte le ipotesi di inammissibilità previste, in via generale, dall’art. 591, comma 1, lett. a), b), c), cod. proc. pen., e, con riguardo specifico al ricorso per cassazione, dall’art. 606, comma 3, cod. proc. pen. viziano geneticamente l’atto ponendolo al di fuori della cornice normativa di riferimento e provocando la reazione dell’ordinamento con la corrispondente sanzione, quale risposta ad un potere di parte non correttamente esercitato.

In questi casi, a prescindere dalle modalità più o meno agevoli di rilevazione, l’atto di gravame è inidoneo ad investire il giudice del grado successivo della piena cognizione del processo.

Il riscontro da parte del giudice del vizio che rende inammissibile l’atto ha natura meramente dichiarativa e, quindi, efficacia ex tunc (Sez. U, De Luca, richiamata tra le altre da Sez. U, Ricci).

c. La diagnosi di ammissibilità dell’impugnazione – al pari di quanto accade in materia di giurisdizione, di competenza, di improcedibilità per mancanza di querela – deve precedere logicamente e cronologicamente lo scrutinio circa la fondatezza dei motivi proposti e l’eventuale decisione di merito ex art. 129 cod. proc. pen.

Soltanto l’accertata ammissibilità dell’impugnazione, per l’effetto propulsivo che la connota, investe il giudice del potere decisorio sul merito del processo.

Al contrario, la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione preclude una qualsiasi pronuncia sul merito. La porzione di processo che si svolge tra il momento in cui si sollecita l’instaurazione del grado superiore di giudizio e quello in cui tale sollecitazione è dichiarata inammissibile rimane circoscritta al solo accertamento della questione processuale relativa alla sussistenza del presupposto di ammissibilità e, in difetto di questo, non riserva spazio ad altre decisioni.

Il ricorso inammissibile determina, dunque, soltanto il simulacro di un procedimento giurisdizionale e la declaratoria d’inammissibilità non sta a significare altro che questo: poiché l’atto che la legge definisce impugnazione non è stato posto in essere in conformità alla sua fattispecie normativa, il giudice ad quem non può interloquire sul tema del procedimento, concluso con l’esaurimento del precedente grado, ed anzi deve declinare la questione» (Sez. U, Ricci).

d. La sentenza invalidamente impugnata diventa intangibile sin dal momento in cui si concretizza la causa di inammissibilità (giudicato sostanziale), mentre la successiva declaratoria da parte del giudice ad quem ha carattere meramente ricognitivo di una situazione già esistente e vale a determinare l’irrevocabilità della sentenza (giudicato formale).

In altri termini, l’irrevocabilità della sentenza (giudicato formale) consegue alla irrevocabilità del provvedimento dichiarativo dell’inammissibilità, senza che ciò vada ad incidere sugli effetti del giudicato in senso sostanziale, categoria sganciata dalla disposizione di cui all’art. 648 cod. proc. pen. (Sez. U, Ricci).

e. Esistono all’interno dell’ordinamento fondamentali esigenze di funzionalità e di efficienza del processo, che devono garantire – nel rispetto delle regole normativamente previste e in tempi ragionevoli – l’effettivo esercizio della giurisdizione e che non possono soccombere di fronte ad un uso non corretto, spesso strumentale e pretestuoso, dell’impugnazione.

Ne consegue che se, da un lato, l’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., pur ampliando lo spazio di cognizione del giudizio di cassazione, al di là dei motivi proposti, consentendo l’esame delle questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, quali certamente sono le cause di non punibilità di cui all’art. 129 cod. proc. pen., dall’altro, il momento di operatività dell’effetto devolutivo ope legis non può che coincidere con la proposizione di una valida impugnazione, che investa l’organo giudicante della cognizione della res iudicanda, con riferimento sia ai motivi di doglianza articolati dalle parti sia a quelli che, inerendo a questioni rilevabili d’ufficio, si affiancano per legge ai primi.

Laddove l’impugnazione sia inammissibile, non può il giudice ex officio dichiarare l’esistenza di una causa di non punibilità, posto che la verifica negativa di ammissibilità dell’impugnazione, come si è detto, ha valore assorbente e preclusivo rispetto a qualsiasi altra indagine di merito (Sez. U, Ricci).

3.2. Inammissibilità del ricorso e remissione di querela (Sez. U, “Chiasserini”).

La giurisprudenza di legittimità ritiene che, rispetto a questi principi di portata generale regolatori del rapporto tra cause di non punibilità ed inammissibilità dell’impugnazione, si ponga in termini di eccezione il caso della remissione di querela, ritualmente accettata, intervenuta in pendenza di un ricorso per cassazione affetto da una qualsiasi causa di inammissibilità. Il tema è stato affrontato nel 2004 dalle Sezioni Unite (n. 24246 del 25/2/2004, Chiasserini, Rv. 227681) e risolto con l’affermazione del principio secondo cui «la remissione di querela, intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione e ritualmente accettata, determina l’estinzione del reato che prevale su eventuali cause di inammissibilità e va rilevata e dichiarata dal giudice di legittimità, purché il ricorso sia stato tempestivamente proposto».

Il Supremo Collegio, pur collocandosi nel solco delle precedenti Sezioni Unite “De Luca” e “Cavalera” e superando, quindi, la dicotomia tra inammissibilità originaria e sopravvenuta, ha ritenuto che in relazione al caso di specie (remissione di querela) la norma transitoria dovesse trovare applicazione nonostante l’inammissibilità dell’impugnazione.

I giudici hanno, però, tenuto a precisare che le ragioni poste a fondamento della conclusione raggiunta «prescindono da modelli interpretativi di diritto processuale – che giustificano, invece, il ricorso ad una disciplina uniforme tra inammissibilità dell’impugnazione e ciascuna delle cause di estinzione del reato – risultando, invece, coordinate con i precetti di diritto sostanziale che consentono di ritenere che solo la scadenza del termine per impugnare precluda l’applicazione di tale causa estintiva […] Quel che differenzia la remissione della querela dalle altre cause estintive è la disciplina dettata dall’art. 152, comma 3, cod. pen., a norma del quale essa “può intervenire solo prima della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti».

Il termine “condanna” deve essere inteso «nel senso comunemente riconosciuto nel codice penale, vale a dire di condanna irrevocabile coincidente con la formazione del giudicato formale: così nel caso di abolitio criminis (art. 2, comma 2, cod. pen.), a proposito della recidiva e della dichiarazione di abitualità e professionalità anche in caso estinzione del reato, salva l’ipotesi di estinzione degli affetti penali (artt. 99 e 106 cod. pen.), della morte dell’imputato (art. 150 cod. pen.), dell’amnistia (con l’importante precisazione, problematicamente sopra enunciata, che dovrebbe condurre, pure qui, alla conclusione che, in caso di impugnazione inammissibile per causa diversa dal decorso del termine per impugnare l’inammissibilità del ricorso non precluda l’applicazione della causa estintiva del reato) e della remissione della querela (art. 152, comma 3, cod. pen.)».

«Del resto, anche sul piano logico sistematico, la peculiarità sostanziale della causa estintiva in esame e l’accostamento con le vicende «di favore» adesso rammentate pare emergere, non soltanto dall’ipotesi eccezionale, dell’incidenza (ora solo teorica) della remissione della querela sul post-giudicato (secondo un modello soltanto prossimo alla revisione), ma dalle stesse peculiarità della causa di estinzione del reato quale risultante dalla elaborazione dogmatica sul punto».

Coerenti a questa impostazione i giudici hanno ritenuto che soltanto l’inammissibilità causata dalla tardività dell’impugnazione sia preclusiva all’operatività della disciplina transitoria, costituendo, questo, l’unico caso in cui il giudicato sostanziale coincide con quello formale.

3.3. Possibili soluzioni esegetiche.

Quanto enunciato nei due paragrafi che precedono ha costituito la premessa per comprendere il nodo nevralgico alla base della questione esaminata dalle Sezioni Unite: applicabilità dell’art. 12 d.lgs. cit. nel caso di ricorso inammissibile.

Si è trattato, in particolare, di stabilire se l’ancoraggio della remissione di querela al giudicato formale (secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite “Chiasserini”) fosse da estendere anche al caso in esame in cui è in gioco non la remissione ma l’esercizio del diritto di querela.

3.3.1. Prima soluzione. L’operatività della norma transitoria prescindendo dai profili di ammissibilità del ricorso.

Un passaggio della sentenza “Chiasserini” sembrava suggerire la soluzione esegetica più estesa della norma in commento. Si afferma, invero, che il fondamento politico-criminale della remissione è omogeneo e speculare a quello della querela, rappresentando l’espressione di un diritto potestativo, esercitabile, ovviamente, dopo l’esercizio del diritto di querela, volto ad estinguere gli effetti della condizione di procedibilità già azionata. La sua natura di istituto di diritto sostanziale, affermata dalla prevalente dottrina, derivante dalla scelta del legislatore di conferire ad essa effetti condizionati dalla mancata ricusazione da parte del querelato (art. 155, 1 comma, cod. pen.), pare dunque assegnare ad essa, nonostante la già rilevata possibilità di incidenza, anche per tale causa di estinzione del reato, del disposto dell’art. 129, 2 comma, cod. proc. pen., un momento di specificità da ricollegare direttamente all’effetto estintivo che essa è in grado di produrre. L’affermazione è stata ripresa dalle Sezioni Unite “Ricci” che evidenziano come la natura indubbiamente sostanziale della remissione non possa essere enfatizzata – nella prospettiva di omologarla tout-court alle altre cause di estinzione del reato – sino al punto da marginalizzarne la valenza processuale e, più specificamente, la sua incidenza sull’oggetto del rapporto processuale. Non può negarsi, invero, che il fondamento politico-criminale della remissione è speculare a quello della querela, nel senso che entrambe sono espressione di un diritto potestativo di parte; la prima, in particolare, è volta ad estinguere gli effetti della condizione di procedibilità già azionata e si designa come condizione di “non proseguibilità” del processo. Tale causa estintiva ha una sua specifica peculiarità, stante il diretto collegamento di essa con l’esercizio dell’azione penale. La sua valorizzazione oltre la soglia del giudicato sostanziale è giustificata dalla prevalenza che deve accordarsi, nei procedimenti per reati perseguibili a querela, alla voluntas del remittente, che, ponendo nel nulla la condizione per l’inizio dell’azione penale, incide sulla progressione del procedimento, il cui epilogo non può che essere la declaratoria di estinzione del reato.

Dalle affermazioni che precedono avrebbe potuto, dunque, trarsi la conclusione che le stesse ragioni che consentono alla persona offesa di rimettere la querela sino alla irrevocabilità formale della condanna, consentono ora, entro lo stesso limite, l’operatività della normativa transitoria in questione, imponendo così al giudice di rimettere la persona offesa nel termine per proporre la querela anche in pendenza di un ricorso per cassazione affetto da inammissibilità, purché non generata dalla tardività dell’impugnazione.

3.3.2. Seconda soluzione: esclusione dell’operatività della norma transitoria nei casi di inammissibilità del ricorso (Sezioni Unite “Salatino”).

Le Sezioni unite, investite della questione, hanno optato nella sentenza in commento per la soluzione opposta rispetto a quella prospettata nel paragrafo che precede, affermando il principio per cui: «con riferimento ai reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36 ed ai giudizi pendenti in sede di legittimità, l’inammissibilità del ricorso esclude che debba darsi alla persona offesa l’avviso previsto dall’art. 12, comma 2, del predetto decreto per l’eventuale esercizio del diritto di querela» (Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273551).

Secondo i giudici del Supremo Collegio, la inammissibilità del ricorso deve ritenersi ostativa alla attivazione della procedura di informazione della persona offesa, a prescindere dalla ragione dell’inammissibilità.

In tale prospettiva, una tradizione assolutamente coerente e lineare della giurisprudenza delle Sezioni Unite, utile a costruire una nuova dogmatica del rapporto tra presentazione di ricorso inammissibile e obbligo di immediata rilevazione delle cause di non punibilità, si è consolidata nella vigenza dell’attuale codice di rito, facendo leva sulla nuova ed istantanea modalità di presentazione del ricorso regolata dall’art. 581 cod. proc. pen., con la soppressione cioè dello iato possibile tra presentazione dell’atto e illustrazione dei motivi a sostegno.

A partire da Sez. U, n. 21 del 11/11/1994 – dep. 1995 –, Cresci, Rv. 199903, per poi proseguire con Sez. U, n. 11493 del 26/06/1998, Verga, Rv. 211469, e Sez. U, n. 30 del 30 giugno 1999, Piepoli, Rv. 213981, nonché Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 e Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531; concludendo da ultimo con Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164 e Sez. U, n. 12602, 17/11/2015, Ricci, Rv. 266818, la giurisprudenza di legittimità si è mossa nel solco di una ricostruzione della categoria della inammissibilità del ricorso – nell’ottica dei rapporti di questa con l’obbligo del giudice di rilevare in ogni stato e grado del processo le cause di non punibilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. - svincolata dallo schema delineato dall’art. 648 cod. proc. pen.: uno schema, quest’ultimo, reputato idoneo soltanto a regolamentare il giudicato formale per dare avvio alla fase esecutiva.

La giurisprudenza cui ci si richiama fa leva sulle norme che regolano le impugnazioni ed in particolare sugli artt. 581, 591, 606, comma 3, cod. proc. pen. - nei quali sono elencate le diverse tipologie di cause di inammissibilità, da considerarsi unitariamente – ritenendole capaci di supportare, tutte allo stesso modo, una pronuncia soltanto dichiarativa, con effetti esclusivamente processuali: quelle cause, in ragione della loro essenza che attiene sempre geneticamente all’atto, impediscono il passaggio alla fase successiva dell’impugnazione.

La rigorosa tipizzazione delle modalità di ingresso nel giudizio di legittimità ha indotto a ritenere – nelle prime sentenze distinguendo fra le cause originarie e quelle sopravvenute di inammissibilità e poi progressivamente superando tale distinzione, fatta eccezione per la “rinuncia” che rimane da ascriversi alla seconda delle dette categorie ed è direttamente finalizzata alla formazione del giudicato formale – che la pronuncia di inammissibilità ha sempre natura dichiarativa ed è meramente ricognitiva della mancata instaurazione del giudizio di cassazione poiché rileva un vizio che affligge geneticamente l’atto.

Tale constatazione si compendia nella rilevazione che la proposizione di un atto di impugnazione non consentito dà luogo alla formazione di un giudicato che attende di essere formalizzato con le modalità previste dall’art. 648 cod. proc. pen. e, per distinguersi da questo, viene definito “sostanziale” ma che, ciò nondimeno, produce l’effetto di rendere giuridicamente indifferenti fatti processuali come l’integrazione di cause di non punibilità precedentemente non rilevate perché non dedotte oppure integrate successivamente al giudicato stesso.

È fatta eccezione per cause di non punibilità rigorosamente individuate quali l’abolito criminis o la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, che producono effetto ex tunc, travolgendo anche il giudicato formale (v. Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca e n. 23428 del 22/03/2005, Bracale; più di recente Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera), alle quali vanno aggiunte l’ipotesi dell’estinzione del reato per morte dell’imputato, quella delle modifiche normative sopravvenute in termini di attenuazione della pena – Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia, Rv. 265111, che ha inquadrato il motivo come “costituzionalmente imposto” ex artt. 1 cod. pen., 25, secondo comma e 117, primo comma, Cost. nonché 7 § 1, CEDU, essendo stata anche preceduta dalla sentenza Sez. U, 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697, che aveva ammesso la superabilità del giudicato quando interviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio – e, come si vedrà, quella ulteriore della estinzione per remissione di querela, perfezionatasi in pendenza del ricorso per cassazione.

Va da ultimo annoverata, nella medesima prospettiva, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen., che le Sezioni Unite (n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266593) hanno ritenuto rilevabile anche in presenza di ricorso inammissibile rimarcandone la capacità di operare come una depenalizzazione in concreto (Sez. U, n. 53683 del 22/06/2017, Pmp, Rv. 271587), pure dovendosi sottolineare la dissimetria, rispetto alle decisioni precedenti, della interpretazione che ha disancorato tale eccezionale attitudine, dalla capacità di determinare la revoca del giudicato.

Altrimenti detto, come bene chiarito dalla sentenza delle Sezioni Unite Ricci, non è l’art. 648 cod. proc. pen. la norma che disciplina le impugnazioni inammissibili e tantomeno i poteri che il giudice può esercitare nella fase di cognizione a fronte di un ricorso inammissibile.

Sicché, si riesce a contestualizzare, in riferimento a tale valutazione, il disposto dell’art. 129 cod. proc. pen. che, nel rendere doveroso per il giudice rilevare in ogni stato e grado del processo una eventuale causa di non punibilità, pure coordinato con l’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. sui poteri di ufficio della Corte di cassazione, non pone una regola in contrasto con quanto qui affermato bensì un precetto che in tanto si rende operativo, in quanto abbia avuto esito positivo il previo scrutinio sulla ammissibilità dell’impugnazione: uno scrutinio che deve coniugarsi col principio dispositivo delle impugnazioni. Cioè quello che consente l’introduzione del giudizio di impugnazione esclusivamente nei limiti concretamente individuati dalle parti e nel necessario rispetto delle regole poste dal codice.

Tanto più, il ricorso inammissibile preclude di procedere all’iter complesso previsto dal legislatore del 2018 per la eventuale realizzazione delle condizioni di procedibilità del reato, a querela di parte.

La sentenza Ricci, ponendosi nel solco di Sez. U, n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa, Rv. 230529, efficacemente ribadisce che l’art. 129 cod. proc. pen. non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore ed autonomo rispetto a quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l’epilogo del processo, ma enuncia una regola di condotta rivolta al giudice che presuppone il pieno esercizio della giurisdizione. Non riveste, cioè, per quanto qui interessa, una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, attribuendo al giudice dell’impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015 – dep. 2016 –, Ricci, Rv. 266818).

È, in definitiva, da escludersi che, in presenza di ricorso inammissibile – e senza che si apprezzi alcuna novità normativa o sistematica atta a riaprire il dibattito sulla eventuale possibilità di distinguere fra cause di ontologica invalidità del ricorso (come nel caso di atto non sottoscritto o presentato da soggetto non legittimato) e cause che richiedano un meno evidente apprezzamento da parte del giudice (come nel caso di manifesta infondatezza dei motivi) – possa affermarsi, nell’ottica dell’attivazione della disciplina transitoria posta dal citato art. 12, che, alle condizioni suddette, il procedimento sia “pendente”.

E tale affermazione non è neppure in contrasto con i diritti fondamentali sul giusto processo garantiti dalla CEDU, se si considera che, come sottolineato anche dalla sentenza Ricci, è la parte interessata ad essere onerata di attivare correttamente il rapporto processuale di impugnazione con la conseguenza che il mancato rispetto delle regole processuali paralizza i poteri cognitivi del giudice e non vengono perciò in considerazione l’equità o la razionalità del processo.

È anche da escludere che la sopravvenienza della procedibilità a querela e, ancor prima, la procedura finalizzata all’eventuale accertamento della improcedibilità per mancanza di querela a seguito dell’esito negativo della informativa data alla persona offesa, possano essere ritenute idonee ad operare come una ipotesi di abolitio criminis (e finalizzazione all’accertamento di abolitio criminis), capace di prevalere sulla inammissibilità del ricorso.

La sopravvenuta eventualità della improcedibilità, dovuta all’abbandono del regime di perseguimento di ufficio del reato, non opera infatti come la richiamata ipotesi abrogativa la quale è destinata ad essere rilevata anche in sede esecutiva mediante la revoca della sentenza ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen. e per tale ragione – essenzialmente di economia processuale – è stata ritenuta dalla giurisprudenza apprezzabile anche in fase di cognizione ed in presenza di ricorso inammissibile.

È invero da escludere che il giudice dell’esecuzione possa revocare la condanna rilevando la mancata integrazione del presupposto di procedibilità. Ed anche nel giudizio di legittimità, la mancanza di tale condizione viene comunemente trattata come una questione di fatto, soggetta alle regole della autosufficienza del ricorso (Sez. 6, n. 44774 del 08/10/2015, Raggi, Rv. 265343) ed ai limiti dei poteri di accertamento della Cassazione (Sez. 3, n. 39188 del 14/10/2010, S., Rv. 248568), sicché non può dirsi che la declaratoria di inammissibilità del ricorso sia destinata ad essere messa in crisi da una ipotetica, incondizionata necessità di verifica dello stato della condizione di procedibilità come richiesta dalla normativa subentrata.

Va sottolineato che la querela, per come disciplinata nel vigente codice di rito, che le ha riservato una collocazione sistematica di univoca significatività nel Titolo III del Libro V, tra le condizioni di procedibilità, presenta una vocazione essenzialmente processuale, vocazione che risulta più accentuata che in passato.

I tratti che sul piano dogmatico la caratterizzano non sono però univoci, come messo in evidenza dalla giurisprudenza penale, che non ne sottovaluta anche la attitudine a condizionare la concreta punibilità del reato; infatti, a differenza della giurisprudenza civile (cfr., Sez. U, n. 27337 del 18 novembre 2008, Rv. 605537, che nega alla querela la idoneità a definire il tipo di illecito) e della prevalente dottrina, la giurisprudenza penale ne sottolinea, in continuità col passato, anche un profilo sostanziale, così aderendo alla c.d. teoria “mista”.

In virtù di tale polimorfismo, le questioni sulla verifica della querela di cui è sopraggiunta la necessità per effetto di successione di leggi nel tempo, ed in assenza di disciplina transitoria, non vengono trattate in base al principio del tempus regit actum.

Non vengono neppure trattate, per converso – non richiedendolo neppure i sostenitori della natura prevalentemente sostanziale dell’istituto – come riguardanti un elemento essenziale del reato, un elemento, cioè, che concorra all’esistenza stessa del reato, in mancanza del quale, stante la sopravvenuta sostituzione del precedente regime giuridico di procedibilità di ufficio, possa venire in considerazione la previsione dell’art. 2, secondo comma, cod. pen., tale da comportare il travolgimento anche del giudicato formale e, a maggior ragione, la inammissibilità del ricorso.

La giurisprudenza, piuttosto, non dissimilmente, in questo, dalla dottrina, ha accreditato la querela come istituto da assimilare a quelli che entrano a comporre il quadro per la determinazione dell’an e del quomodo di applicazione del precetto, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen. (v., in tema di procedibilità d’ufficio per i reati di violenza sessuale, Sez. 5, n. 44390 del 08/06/2015, R., Rv. 265999 e Sez. 3, n. 2733 del 08/07/1997, Frualdo, Rv. 209188; in tema di procedibilità a querela introdotta per il reato di cui all’art. 642 cod. pen., Sez. 2, n. 40399 del 24/09/2008, Calabrò, Rv. 241862), giungendo per via interpretativa, quando non vi ha provveduto il legislatore con una specifica norma transitoria, alla conclusione della applicazione retroattiva dei soli mutamenti favorevoli (sostituzione del regime della procedibilità di ufficio con quello della procedibilità a querela), senza che possa valere la regola della cedevolezza del giudicato.

Nel caso che ci occupa, la disciplina transitoria dell’art. 12 d.lgs. n. 36/2018 ha regolato positivamente la retroattività del nuovo regime di procedibilità e le condizioni alle quali esso opera, senza peraltro che dalla norma stessa o dalla disciplina codicistica dei mutamenti normativi favorevoli diversi dalla abolitio criminis possano trarsi argomenti per sostenere che le innovazioni che introducono la procedibilità a querela, nel rapporto con il ricorso inammissibile, non sarebbero da uniformare al trattamento riservato, in base alla giurisprudenza assolutamente prevalente, ai mutamenti favorevoli in tema, in generale, di cause di non punibilità ed in particolare di cause estintive del reato, aventi natura più marcatamente sostanziale: retroattività, col limite della presentazione di ricorso inammissibile.

Non osta a tale conclusione neppure il principio enunciato dalla sentenza Sez. U, n. 24246 del 25/02/2004, Chiasserini, Rv. 227681, incentrata sulla “remissione di querela” che sia intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione e sia stata ritualmente accettata: in relazione ad essa ha affermato che, nel determinare l’estinzione del reato, prevale su eventuali cause di inammissibilità e va rilevata e dichiarata dal giudice di legittimità, sempre che il ricorso sia stato tempestivamente proposto.

La affermazione prende le mosse da un inquadramento della remissione della querela non tanto come istituto sostanziale e per questo assimilabile alle altre cause di estinzione del reato, quanto piuttosto in ragione della sua capacità di differenziarsi dalle dette altre cause di estinzione per la caratteristica che essa presenta non solo di estinguere il diritto punitivo dello Stato, ma di paralizzare la perseguibilità stessa del reato: con la conseguenza della massima estensione da attribuire al termine ultimo per la sua rilevazione, secondo il disposto dell’art. 152, terzo comma, cod. pen., e cioè fino alla condanna irrevocabile in senso formale, che è evenienza processuale sicuramente posteriore e indipendente dal fatto in sè della presentazione di un ricorso inammissibile e utile ai fini in esame, salvo il caso della inammissibilità per tardività.

La stessa sentenza Chiasserini non manca però di rilevare, in primo luogo, che in caso non di remissione, ma di “mancanza” di una condizione di procedibilità, la problematica appare “davvero non coincidente” non fosse altro, si aggiunge qui, perché il tempo per la relativa rilevazione, sia secondo il disposto dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen. sia secondo quello dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen. per l’esercizio dei poteri officiosi, sia, soprattutto, secondo la norma transitoria dell’art. 12 cit., è, per la rilevazione tanto della mancanza originaria quanto di quella sopravvenuta, quello della pendenza di un “processo”, preclusa, per quanto sopra osservato, dalla presentazione di ricorso inammissibile, che deve ritenersi quindi idonea a determinare il giudicato sostanziale.

Ma soprattutto perché il confine ampliato per la rilevazione della remissione di querela, su un terreno che privilegia il dato cronologico (fino alla condanna irrevocabile e cioè al giudicato formale) su quello dei rapporti processuali validi, in linea generale, per le altre cause di non punibilità (pendenza del processo in ragione della presentazione di un ricorso ammissibile, e quindi mancata formazione del giudicato sostanziale) può valere per registrare gli effetti dell’esercizio (extra-processuale) del diritto potestativo della persona offesa a far cadere la già espressa manifestazione di volontà negoziale; viceversa, non trattandosi qui della constatazione diretta della mancanza di querela, ma dell’espletamento di un procedimento incidentale a effetto eventuale, quale quello a tutela della persona offesa, volto a verificarne la volontà nell’ottica della presentazione della querela ai sensi dell’art. 12 d.lgs. n. 36 del 2018, non può non rilevarsene la inidoneità ad essere assimilato al caso precedente e a beneficiare degli stessi ambiti di operatività. Infatti, – fermo il fatto che una volontà espressa in senso affermativo dalla persona offesa nulla apporterebbe all’interesse dell’imputato al proscioglimento – in caso invece di esito negativo, a fronte pure di un prolungamento sine die dei tempi processuali, si consentirebbe il consolidarsi di una condizione di improcedibilità con impropri effetti sananti delle inammissibilità che affliggevano il ricorso proposto.

4. Normativa transitoria e prescrizione del reato (seconda questione).

Nella sentenza in commento, il Supremo Collegio ha ritenuto che il ricorso avesse superato la soglia di ammissibilità. Ciò ha determinato la necessità di affrontare l’ulteriore problematica riguardante l’eventuale preclusione all’operatività della norma transitoria in commento della maturazione del termine di prescrizione o se invece dovesse ritenersi che durante i novanta giorni decorrenti dall’avviso dato alla persona offesa, ai sensi dell’art. 12 d.lgs., cit., operasse la sospensione del termine di prescrizione, da estendere, in ipotesi, anche ai tempi necessari per l’adempimento della notifica che potrebbero non essere brevi, considerate le eventuali ricerche anagrafiche da compiere, secondo quanto espressamente disposto dalla norma.

La questione ha richiesto di prendere le mosse dal dato normativo di riferimento.

L’art. 159 cod. pen. contempla una causa generale ed un elenco tassativo di cause speciali di sospensione del corso della prescrizione.

La previsione di portata generale, sulla quale deve concentrarsi l’attenzione della presente disamina, è costituita dalla sospensione del procedimento o del processo «imposta da una particolare disposizione di legge». L’effetto della sospensione è di arrestare la decorrenza del termine prescrizionale fintantoché la ragione giustificativa non venga meno: durante l’intervallo sospensivo, il tempo è come se non decorresse, sicché la prescrizione riprenderà la sua maturazione allorquando sarà spirato il termine legalmente previsto, assemblandosi così i periodi precedenti e quelli successivi alla parentesi giuridicamente frammessa.

La ratio che sottostà alla previsione normativa in commento è individuata dalla dottrina nell’esigenza di non ascrivere stasi processuali «costrette» all’incapacità del giudiziario di pervenire ad un accertamento sul fatto nel tempo imposto dal sistema penale.

L’eccezionalità della previsione induce la dottrina a ritenere che le cause di sospensione previste dall’art. 159 cit. siano tassative e che le stesse non lascino spazio ad integrazioni analogiche ovvero additive.

L’affermazione sembra suggerire, in prima battuta, di escludere l’operatività della norma in commento in tutti quei casi in cui eventuali slittamenti dei tempi processuali, pur imposti dalla legge penale, non siano correlati a provvedimenti di sospensione del processo.

Ne consegue che, in assenza nel testo dell’art. 12 d.lgs. cit., di un espresso riferimento alla sospensione del processo, dovrebbe escludersi la possibilità di ritenere sospeso il termine di prescrizione per il tempo necessario a consentire gli avvisi alla persona offesa e/o per quello in cui quest’ultima è rimessa nel termine, previsto dall’art. 124 cod. pen., per l’eventuale esercizio del diritto di querela.

4.1. La soluzione offerta dalle Sezioni Unite “Salatino”.

La soluzione appena prospettata ha trovato credito nella sentenza in commento, che ha ne ha evidenziato il fondamento richiamando il brocardo “ubi lex voluit, dixit”.

I giudici hanno escluso l’eventualità che il legislatore abbia sottinteso una sospensione di fatto del procedimento o del processo ai fini della operatività della disposizione transitoria, se si considera che nella stragrande maggioranza dei casi e cioè in quelli relativi alla operatività durante le indagini preliminari e il processo di merito, l’avvio delle attività per la identificazione e la informazione della persona offesa è compatibile con le altre ordinarie scansioni del procedimento o del processo, delle quali non può dirsi, dunque che “devono” essere sospese.

Deve anche evidenziarsi, nella medesima prospettiva, che gli avvisi e le interlocuzioni con le parti e i protagonisti del rito rientrano nella ordinaria dinamica processuale e non sono causa di aggravi a carico dell’imputato, come ad esempio dimostra la costante giurisprudenza in tema di citazione del responsabile civile, la quale esclude la possibilità di sospendere la prescrizione (ex multis, Sez. 4, Sentenza n. 47287 del 09/10/2014, Brandoli, Rv. 261070; Sez. 4, Sentenza n. 9224 del 29/01/2002, Bianco, Rv. 220986).

L’imputato, oltretutto, in relazione all’avviso di cui alla disciplina transitoria in esame, è soggetto beneficiario solo in via secondaria ed eventuale rispetto alla persona offesa. Il legislatore del 2018 non si è infatti limitato ad introdurre la causa di procedibilità anteriormente non prevista, con l’effetto di avviare tutti i processi pendenti al proscioglimento per mancanza sopravvenuta della querela e della conseguente procedibilità. Al contrario, volendo tutelare in primo luogo la persona offesa, ha disegnato un meccanismo di restituzione nel termine senza finzioni legali, con l’avviso ad ogni singolo interessato.

Ne consegue che l’impiego di un termine per l’informativa alla persona offesa e per consentirle di esprimersi nel trimestre successivo, con la possibilità di far proseguire il processo pendente, non può gravare sull’imputato, sterilizzando sine die il corso della prescrizione, con una interpretazione analogica in malam partem dell’art. 159 cod. pen.

Cionondimeno, esaminata la questione anche dal punto di vista della tutela dell’interesse dell’imputato, l’esercizio della detta facoltà, con esito invece favorevole ad esso, sarebbe rapportabile alle attività di interesse per il diritto di difesa e per tale ragione per essa opererebbe il consolidato principio per cui il differimento dell’udienza determinato dalla necessità di consentire il concreto esercizio di una facoltà riconducibile al diritto di difesa non comporta sospensione della prescrizione (Sez. 4, n. 9224 del 29/01/2002, Bianco, Rv. 220986).

Alla stregua di queste considerazioni, le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo cui: «in relazione ai reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36, durante il tempo necessario all’espletamento della procedura di informativa alla persona offesa della facoltà di proporre querela, prevista dalla disciplina transitoria di cui all’art. 12, comma 2, del predetto decreto, non opera la sospensione del corso della prescrizione del reato, non potendo gravare sull’imputato l’impiego di un termine per consentire alla persona offesa di esprimersi, con la possibilità di far proseguire il processo pendente» (Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273552).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 5540 del 17/04/1982, Corapi, Rv. 154076-077 Sez. U, n. 3 del 17/04/1982, Agus, Rv. 154383 Sez. 3, n. 2733 del 08/07/1997, Frualdo, Rv. 209188 Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266 Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531 Sez. 6, n. 2506 del 13/11/2003 – dep. 2004 –, Piccino Sez. U, n. 24246 del 25/2/2004, Chiasserini, Rv. 227681 Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164 Sez. 2, n. 40399 del 24/09/2008, Calabrò, Rv. 241862 Sez. 2, n. 44806 del 06/11/2012, Ndiaye, Rv. 253649 Sez. 5, n. 15691 del 06/12/2013 – dep. 2014 –, Anzalone, Rv. 260557 Sez. 5, n. 44390 del 08/06/2015, R., Rv. 265999 Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015 – dep. 2016 –, Ricci, Rv. 266818 Sez. 5, n. 21359 del 16/10/2015 – dep. 2016 –, Giammatteo, Rv. 267138 Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv 273551-552

  • reato
  • procedura penale

CAPITOLO VI

IMPUTAZIONE COATTA PER REATI DIVERSI DA QUELLI PER CUI È RICHIESTA L’ARCHIVIAZIONE E RICORSO PER CASSAZIONE DELL’INDAGATO

(di Luigi Barone )

Sommario

1 Introduzione. - 2 Il potere di controllo del gip nel procedimento di archiviazione. - 3 Abnormità dell’atto ed interesse ad impugnare. - 4 Imputazione coatta e diritto di difesa. - 5 Prime valutazioni di sintesi. - 6 La soluzione delle Sezioni Unite. - 6.1 Le criticità dell’orientamento maggioritario. - 6.2 L’orientamento minoritario seguito dalle Sezioni Unite. - 7 L’applicazione dei principi affermati nella fattispecie al vaglio delle Sezioni unite. - Indice delle sentenze citate

1. Introduzione.

Nell’anno in commento le Sezioni Unite sono intervenute, in tema di imputazione coatta, affrontando con la sentenza n. 40984 del 22/03/2018, Gianforte, Rv. 273581 il profilo della legittimazione della persona sottoposta ad indagine a ricorrere per cassazione avverso il provvedimento del giudice per le indagini preliminari che, non accogliendo la richiesta di archiviazione, ordini, ai sensi dell’art. 409, comma 5, cod. proc. pen., al pubblico ministero di formulare l’imputazione per un reato diverso da quello oggetto della richiesta stessa.

La fattispecie riguardava l’ordinanza con la quale il gip aveva rigettato la richiesta di archiviazione nei confronti della persona, indagata per il delitto di tentata concussione e disposto, ai sensi dell’art. 409, comma 5, cod. proc. pen., che il pubblico ministero formulasse nei confronti dell’indagato l’imputazione per i diversi reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di violenza privata.

La questione di diritto si poneva essenzialmente in ragione dell’abnormità dell’atto, in quanto nell’ipotesi di provvedimento di imputazione coatta che si mantenga nei canoni della sua fisiologia (quando cioè esso risulti essere stato emesso nei confronti dell’indagato e per il reato indicati nella richiesta di archiviazione) la giurisprudenza di legittimità è costante nell’escludere la legittimazione dell’indagato a ricorrere per cassazione, ritenendo che unico soggetto legittimato ad impugnare sia il pubblico ministero atteso che «nel procedimento di archiviazione il rapporto che si instaura riguarda direttamente il gip ed il p.m., titolare esclusivo dell’esercizio dell’azione penale» (in questi termini, Sez. 4, n. 10877 del 20/01/2012, Rossi, Rv. 251986; Sez. 5, n. 6807 del 21/01/2015, DR, Rv. 262688, sulle quali v. anche sub § 10.1).

Diversa e maggiormente problematica è, invece, l’ipotesi in cui il provvedimento del gip presenti contenuti talmente atipici, da renderlo estraneo all’ordinamento processuale o l’ipotesi in cui esso, pur espressione di una legittima potestà processuale, sia adottato al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, tanto da determinare una stasi del processo, la impossibilità di proseguirlo ovvero la sua inammissibile regressione ad una fase processuale ormai esaurita (così, Sez. U, n. 17 del 10/12/1997, Di Battista, Rv. 209603; Sez. U, n. 26 del 24/11/1999, Magnani, Rv. 215094; Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590).

Sul tema Sez. U, n. 22909 del 31/05/2005, Minervini, si sono occupate della precipua ipotesi in cui il giudice per le indagini preliminari, non accogliendo la richiesta di archiviazione del p.m., ordini l’iscrizione nel registro delle notizie di reato di altri soggetti – mai prima indagati e non destinatari della richiesta del pubblico ministero – disponendo nuove indagini e fissando contestualmente una nuova udienza di rinvio. La Corte ha ritenuto l’abnormità della decisione impugnata, limitatamente alla fissazione da parte del gip di una nuova udienza di rinvio, ritenendo che, in tal modo, il giudice aveva determinato un vincolo per le valutazioni conclusive del pm circa l’idoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio (Rv. 231163).

2. Il potere di controllo del gip nel procedimento di archiviazione.

Alla base della decisione in commento si pongono gli equilibri che il legislatore del codice vigente ha inteso affermare tra titolarità esclusiva del pubblico ministero all’esercizio dell’azione penale, poteri di controllo del giudice e diritto di difesa.

Al riguardo le Sezioni Unite “Minervini”, richiamandosi alla giurisprudenza costituzionale, hanno affermato che i confini tracciati dal legislatore sui poteri dei due organi (p.m. e gip) che si occupano delle indagini preliminari sono ben definiti e conformi ai principi costituzionali dell’obbligatorietà dell’azione penale e della sua titolarità in capo all’organo requirente (art. 112 Cost.), riservando al giudice delle indagini la funzione di controllo e di impulso (v. Corte cost. n. 88 del 1991, n. 478 del 1993, n. 263 del 1991, n. 417 del 1991, n. 34 del 1994, n. 176 del 1999, n. 349 del 2002).

Il dato saliente, emergente dall’arresto in parola, attiene alla sfera di valutazione del gip, non limitata ad un semplice esame della richiesta finale del pm, ma estesa al complesso degli atti procedimentali rimessi al giudice dall’organo requirente, nel rispetto, però, sempre delle prerogative del pm nell’esercizio dell’azione penale.

Il travalicamento di questo limite determina, sulla base di quanto sopra esposto, l’abnormità della decisione.

Nel solco di questa impostazione, si inseriscono le Sez. U, n. 4319 del 28/11/2013, – dep. 2014 –, L., Rv. 257786, le quali hanno ritenuto che, in materia di procedimento di archiviazione, sono affetti da abnormità, in quanto esorbitano dai poteri del giudice per le indagini preliminari, sia l’ordine d’imputazione coatta emesso nei confronti di persona non indagata, sia quello emesso nei confronti dell’indagato per reati diversi da quelli per i quali il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione, dovendo, in queste ipotesi, il giudice per le indagini preliminari limitarsi ad ordinare le relative iscrizioni nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen.

Sulla base di tali premesse, le Sezioni unite hanno ritenuto che l’ordinanza oggetto di ricorso dovesse senz’altro essere qualificata come abnorme, in quanto caratterizzata da anomalia incidente sulla delimitazione dei poteri del giudice per le indagini preliminari rispetto alle potestà proprie dell’organo inquirente ed alla sua autonomia, organo inquirente destinatario di un ordine per il compimento di atti al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dalla legge.

3. Abnormità dell’atto ed interesse ad impugnare.

Siffatta affermazione non è, tuttavia, da sola sufficiente per risolvere la questione portata all’esame delle Sezioni unite, e cioè se sussista o meno un interesse dell’indagato ad impugnare per cassazione un provvedimento giudiziale abnorme secondo i profili appena evidenziati.

Si consideri, invero, che, anche nei casi di abnormità, ai fini della legittimazione a ricorrere non basta dedurre un vizio del provvedimento impugnato, ma occorre anche che il ricorrente abbia un interesse pratico e attuale all’annullamento dell’atto del quale deduce l’abnormità e affinché detto interesse sussista è necessario che l’impugnazione sia idonea a rimuovere un pregiudizio, considerato come conseguenza concreta derivante dagli effetti primari e diretti della pronuncia impugnata (Sez. 6, n. 25683 del 02/04/2003, Donzelli, Rv. 228307; in termini v. anche Sez. 6, n. 42542 del 06/10/2004, Marino, Rv. 231186).

Al riguardo, le Sezioni unite di questa Corte hanno avuto modo di affermare che la facoltà di attivare i procedimenti di gravame non è assoluta e indiscriminata, ma è subordinata alla esistenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulti idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e la eliminazione o la riforma della decisione gravata renda possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso (Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, Timpani, Rv. 203093).

Nell’occasione, la Corte ha, altresì, specificato che la legge processuale non ammette l’esercizio del diritto di impugnazione avente di mira la sola esattezza teorica della decisione o la correttezza formale del procedimento, senza che alla posizione giuridica del soggetto derivi alcun risultato pratico favorevole, nel senso che miri a soddisfare una posizione oggettiva giuridicamente rilevante e non un mero interesse di fatto.

In termini ancor più conducenti rispetto alla questione ora in esame, le già menzionate Sez. U, “L.” hanno operato un netto distinguo tra le ragioni dell’abnormità dell’atto (attinenti al rapporto pm/gip) e gli effetti pregiudizievoli dell’atto medesimo, concernenti non soltanto l’alterazione del riparto di attribuzioni tra l’organo deputato in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale ed il suo “controllore”, ma anche il diritto di difesa della persona, imputata per effetto del provvedimento, senza mai avere potuto interloquire, da indagata, sul fatto contestatole.

Coniugando tali affermazioni alla tematica che qui interessa, occorre verificare l’an ed il quantum del pregiudizio arrecato dall’imputazione coatta “abnorme” al diritto di difesa dell’indagato e di conseguenza l’eventuale interesse del predetto alla rimozione dell’atto.

4. Imputazione coatta e diritto di difesa.

Si tratta di un tema ripetutamente affrontato dalla Corte costituzionale che, pur dichiarando sempre infondate le specifiche questioni sottoposte al suo esame, non ha tralasciato di rimarcare l’ineludibile garanzia da accordare al diritto di difesa dell’indagato nella fase camerale del procedimento di archiviazione.

Solo attraverso questa puntualizzazione il giudice costituzionale è pervenuto alla conclusione di escludere che la mancata previsione normativa dell’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen., nell’ipotesi di imputazione coatta, determini lesione di alcuna delle prerogative difensive, trovando queste «assicurazione nella piena ostensione della documentazione relativa alle indagini espletate (ai sensi dell’art. 408, comma 1, cod. proc. pen., il pubblico ministero deve infatti trasmettere il fascicolo contenente la notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate e i verbali degli atti compiuti davanti al giudice per le indagini preliminari) e nel diritto di intervento dell’imputato nell’udienza camerale ex art. 409 cod. proc. pen.» (ordinanza n. 348 del 2005).

La questione successivamente riproposta è stata nuovamente dichiarata manifestamente infondata con ordinanza n. 286 del 2012.

In questa seconda occasione la Corte, richiamando la propria giurisprudenza e nello specifico l’ordinanza n. 460 del 2002, ha affermato che «la funzione dell’avviso di cui al richiamato art. 415-bis appare essere chiaramente quella di assicurare una fase di “contraddittorio” tra indagato e pubblico ministero, in ordine alla completezza delle indagini», e che, pertanto, l’espletamento di quella fase e la garanzia di uno specifico ius ad loquendum dell’indagato in tanto si giustificano, in quanto il pubblico ministero intenda coltivare una prospettiva di esercizio dell’azione penale»; pertanto «quando ricorre una ipotesi di esercizio dell’azione penale conseguente all’ordine di formulare l’imputazione a seguito di richiesta di archiviazione non accolta, il contraddittorio sulla eventuale incompletezza delle indagini trova necessariamente sede nella udienza in camera di consiglio che il giudice è tenuto a fissare ove la domanda di “inazione” del pubblico ministero non possa trovare accoglimento», sicché, tra l’altro, «nessuna lesione al diritto di difesa può prospettarsi in tale situazione, in quanto tale diritto è, nella specie, congruamente assicurato nella sede camerale che precede l’ordine di formulare l’imputazione».

In precedenza, anche le ordinanze n. 491 del 2002 e n. 441 del 2004 avevano avuto modo di affermare che «ove l’esercizio dell’azione penale consegua all’ordine del giudice di formulare l’imputazione, previsto dall’art. 409, comma 5, cod. proc. pen., il contraddittorio sulla eventuale incompletezza delle indagini si esplica necessariamente nell’udienza in camera di consiglio che, ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, il giudice è tenuto a fissare ove non accolga la richiesta di archiviazione del pubblico ministero; (...) tale circostanza esclude dunque la configurabilità della violazione degli artt. 3 e 24 Cost., ventilata dal rimettente».

La Corte esclude che la presentazione della richiesta di archiviazione, sulla quale può innestarsi la vicenda procedimentale destinata a sfociare nell’imputazione coatta, sia accompagnata da una discovery di minore portata rispetto a quella che caratterizza la notificazione dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari. Osserva, inoltre, che anche l’assunto secondo cui nell’ipotesi prevista dalla disciplina censurata non vi sarebbe alcun obbligo di procedere all’interrogatorio dell’indagato che ne faccia richiesta non è fondato, in quanto la disciplina generale del procedimento in camera di consiglio, richiamata dall’art. 409, comma 2, cod. proc. pen., assicura all’indagato, prima dell’”imputazione coatta”, uno ius ad loquendum idoneo ad escludere la violazione dei parametri costituzionali invocati dal rimettente. Infatti, proprio con specifico riferimento all’udienza camerale ex art. 409 cod. proc. pen. la giurisprudenza di legittimità ritiene che integri l’ipotesi di nullità di cui all’art. 127, comma 3, cod. proc. pen. la mancata audizione della parte comparsa, che abbia chiesto di essere sentita.

Nei medesimi arresti, i giudici hanno, infine, reputato priva di fondamento la censura secondo cui nel rito camerale «archiviativo» mancherebbe una contestazione «delineata e cristallizzata», che sarebbe invece assicurata dalla notificazione dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari. Si legge al riguardo che «la mancanza di una contestazione del fatto di reato analoga a quella prevista dall’art. 415-bis cod. proc. pen. non può considerarsi lesiva dei parametri evocati dal rimettente e, segnatamente, del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, adeguatamente salvaguardati dall’accesso completo agli atti di indagine e dallo ius ad loquendum, riconosciuti all’indagato, l’uno e l’altro strumentali al contraddittorio garantito dinanzi al giudice nella «sede camerale che precede l’ordine di formulare l’imputazione» (ord. n. 460 del 2002).

5. Prime valutazioni di sintesi.

L’esposizione che precede consente di svolgere una serie di prime considerazioni valutative, dirimenti ai fini della soluzione della questione:

- lo schema del rito camerale «archiviativo» non si esaurisce nella dinamica pubblico ministero/giudice (cui si correla la problematica della limitazione delle prerogative del pubblico ministero a garanzia dell’effettività del principio di obbligatorietà dell’azione penale), ma investe anche l’indagato ed il suo diritto di difesa;

- analogamente a quanto previsto in merito all’esercizio dell’azione penale che deve essere preceduto dall’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen., l’imputazione coatta presuppone che l’indagato sia stato posto nelle condizioni di partecipare all’udienza camerale ed ivi interloquire sui fatti oggetto della richiesta di archiviazione;

- l’assenza di tali previsioni avrebbe esposto la norma ad inevitabile censura di illegittimità costituzionale e in questo senso il riferimento all’art. 6 della Convenzione EDU, pur non costituendo disposizione da potere invocare come parametro al fine di affermare l’incostituzionalità delle norme denunciate, dal momento che la stessa costituisce solo norma interposta al fine di accertare la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., non invocato dal giudice a quo (ordinanza n. 163 del 2010), rafforzerebbe la censura di illegittimità costituzionale con riguardo all’art. 111 Cost. (ordinanza n. 286 del 2012);

- il mancato riconoscimento, nel caso concreto, delle predette garanzie all’indagato determina una lesione del diritto di difesa e di conseguenza un interesse del predetto alla rimozione del provvedimento a sé sfavorevole.

Tutto ciò induce a concordare con quella dottrina orientata a ritenere che «sulla scena dell’art. 409, comma 5, cod. proc. pen., si profila un terzo principio costituzionale: il diritto di difesa. In questo terreno di incontro/scontro tra principi costituzionali, l’unico potere di intervento modificativo dell’imputazione che la giurisprudenza sembra lasciare in capo al giudice è costituito dalla possibilità di riqualificazione del fatto, che del resto, costituendo corretta applicazione della legge, ius dicere e, pertanto, attuazione del principio di legalità, si deve estendere a tutte le fasi del processo».

6. La soluzione delle Sezioni Unite.

Sulla base di queste coordinate le Sezioni Unite sono pervenute alla conclusione che «costituisce atto abnorme ricorribile per cassazione anche dalla persona sottoposta ad indagine il provvedimento del giudice per le indagini preliminari che, non accogliendo la richiesta di archiviazione, ordini, ai sensi dell’art. 409, comma 5, cod. proc. pen., che il pubblico ministero formuli l’imputazione per un reato diverso da quello oggetto della richiesta».

6.1. Le criticità dell’orientamento maggioritario.

La tesi dell’inammissibilità del ricorso dell’imputato, disattesa dalle Sezioni Unite, pur seguita da un maggior numero di pronunzie, risulta in realtà applicata in fattispecie, tra loro non omogenee.

Ciò impone di procedere separatamente alla disamina degli arresti in questione.

a) Un primo gruppo di sentenze (peraltro ripetutamente richiamate in successivi arresti come caposaldi dell’orientamento in parola) si riferiscono, in realtà, ad ipotesi in cui il provvedimento di imputazione coatta, oggetto di ricorso, non recava alcuna divergenza rispetto al nominativo ed al reato indicati nella richiesta di archiviazione non accolta, per cui esulava dalle ipotesi di abnormità che caratterizzano, invece, la fattispecie in esame.

Il riferimento è alla sentenza emessa da Sez. 4, n. 10877 del 20/01/2012, Rossi, Rv. 251986 (in termini anche Sez. 5, n. 6807 del 21/01/2015, DR., Rv. 262688).

In quel caso, invero, l’indagato aveva impugnato l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari deducendone la nullità per carenza della motivazione e per un vizio attinente alla opposizione della persona offesa.

La Corte aveva dichiarato inammissibile il ricorso, enunciando il principio secondo cui l’unico soggetto legittimato ad impugnare è il pubblico ministero e ritenendo che l’ordinanza adottata dal giudice non potesse essere qualificata come abnorme, perché era stata «in ogni modo assunta nell’ambito del potere ordinatorio riconosciuto al giudice ai sensi dell’art. 409, comma 5, cod. proc. pen. Essa poteva eventualmente ritenersi illegittima, ma il suo contenuto non è sicuramente avulso dal sistema e gli effetti non sono tali da pregiudicare in concreto lo sviluppo del processo».

I giudici precisavano, altresì, che «solo» qualora il provvedimento impugnato fosse affetto da abnormità ne sarebbe consentita l’impugnazione al di fuori del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione.

Nel caso di specie, l’atto poteva eventualmente essere ritenuto illegittimo, ma non abnorme in quanto assunto nell’ambito dei poteri riconosciuti al giudice dall’ordinamento, (anche se i presupposti che ne legittimano l’emanazione sono stati ritenuti sussistenti in modo errato) e il pubblico ministero poteva sempre compiere il successivo atto senza incorrere in alcuna nullità.

Queste affermazioni conferiscono, dunque, al principio di diritto enunciato dalla Corte una portata più limitata, circoscritta alle ipotesi di patologie dei provvedimenti non trasbordanti nell’abnormità.

In questi casi, è agevole ritenere che la conformità del provvedimento adottato allo schema disciplinato dall’art. 409 cod. proc. pen. escluda ogni lesione del diritto di difesa dell’indagato (posto nelle condizioni di interloquire all’udienza camerale sulla sussistenza della contestazione nei suoi confronti) e, per l’effetto, la legittimazione del predetto ad impugnare il provvedimento avente natura ordinatoria.

b) Confacente, invece, alla fattispecie in esame è un secondo gruppo di arresti che, pur in presenza dell’abnormità dell’atto, ne ha escluso l’impugnabilità da parte dell’indagato/ imputato.

Tra questi, Sez. 3, n. 15251 del 14/12/2016 – dep. 2017 –, De Bosini, Rv. 269649, senza operare alcun distinguo tra atto abnorme e atto puramente illegittimo (tanto da richiamare le suindicate Sez. 5, n. 6807/15 e Sez. 4, n. 10877/12), ha ritenuto «inammissibile l’impugnazione proposta con ricorso per cassazione dall’indagato, avverso il provvedimento del giudice per le indagini preliminari che non accolga la richiesta di archiviazione e disponga la formulazione dell’imputazione, ex art. 409, comma 5, cod. proc. pen., in quanto unico soggetto legittimato ad impugnare è, in tal caso, il pubblico ministero».

Nell’arresto in commento, i giudici hanno rilevato che nell’ordinamento giuridico non è previsto un diritto dell’indagato (o dell’indagando) ad impugnare l’ordine del giudice per le indagini preliminari che disponga l’imputazione coatta, ancorché il pubblico ministero non abbia ancora proceduto all’iscrizione del nominativo nel registro degli indagati, perché, in questa fase, l’interlocuzione è esclusivamente tra il giudice per le indagini preliminari ed il pubblico ministero il quale, nella specie, si riteneva aver prestato «implicitamente acquiescenza all’ordine del giudice per le indagini preliminari, procedendo alla preventiva iscrizione del ricorrente a modello 21, ed esercitando conseguentemente l’azione penale.

La Corte, nel corpo della motivazione, dimostra, tuttavia, di non trascurare le affermazioni delle Sezioni Unite nella sentenza “L” in tema di lesione del diritto di difesa, dalle quali ritiene di non discostarsi in ragione della peculiarità del caso concreto.

Nella fattispecie, invero, era accaduto che il pubblico ministero, in ottemperanza a quanto disposto dal giudice per le indagini preliminari, aveva proceduto all’iscrizione del nominativo, indicato nel provvedimento, nel registro degli indagati ed aveva esercitato nei confronti del “neo indagato” l’azione penale attraverso la richiesta di decreto penale di condanna. Soltanto a seguito dell’emissione di questo da parte del gip il ricorrente era venuto a conoscenza dell’imputazione coatta disposta nei suoi confronti.

Secondo la Corte di cassazione «nella specifica ipotesi in esame, sicuramente il ricorrente non aveva la legittimazione ad impugnare perché non aveva neanche un interesse pretensivo al controllo sulla regolarità dell’interlocuzione interna tra il giudice per le indagini preliminari ed il pubblico ministero, potendo formulare la richiesta relativa solo nell’ipotesi in cui il pubblico ministero non abbia esercitato l’azione penale, nell’alveo del meccanismo disegnato dall’art. 413 cod. proc. pen.».

Al di là di tale ultima notazione, deve rilevarsi che, nel caso in esame, l’imputato era privo di interesse ad impugnare il provvedimento di imputazione coatta per l’assenza, in concreto, di alcun pregiudizio subito.

L’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero attraverso la richiesta del decreto penale di condanna avrebbe, invero, comunque esonerato l’organo dell’accusa (ove anche il giudice si fosse correttamente limitato ad ordinare l’iscrizione del nominativo dell’indagando nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen.) dal compiere l’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen.

Come è agevole cogliere, si tratta di un caso del tutto peculiare, in ragione anche del momento in cui l’indagato ebbe ad avere notizia del provvedimento del gip a lui sfavorevole, nel quale non si registra in danno del predetto alcuna menomazione del diritto di interlocuzione per impedire l’esercizio dell’azione penale nei suoi confronti. Da qui il difetto di un interesse concreto ad impugnare la decisione emessa dal gip.

c) Un terzo gruppo di arresti affronta la questione oggi dibattuta sotto un diverso angolo prospettico e perviene all’inammissibilità del ricorso proposto dal soggetto sfavorevolmente colpito dal provvedimento di imputazione coatta abnorme, in ragione della non irreversibilità del pregiudizio subito dal predetto.

Così, Sez. 5, n. 32753 del 19/05/2014, Fasanella, in una fattispecie in cui l’imputazione coatta era stata disposta nei confronti di un soggetto diverso da quelli iscritti nel registro delle notizie di reato, ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’indagato sulla base del seguente ragionamento: «la abnormità del provvedimento garantisce l’ammissibilità del ricorso, solo a fronte di atti caratterizzati da assoluta peculiarità rispetto al sistema legale del processo ovvero tali da determinare l’impossibilità di prosecuzione del processo (Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590). La categoria presenta, invero, indubbi caratteri di eccezionalità, in relazione alla deroga che viene attuata al principio di tassatività delle nullità (art. 177 cod. proc. pen.) e dei mezzi di impugnazione (art. 568 cod. proc. pen.), talché essa, come precisato dalla sentenza n. 25957 del 2009 appena menzionata, è ravvisabile solo in mancanza di ulteriori strumenti di gravame lato sensu, ovvero in assenza di possibilità offerte dal sistema per rimediare con prontezza all’anomalia della pronuncia giudiziale nell’ambito dello sviluppo processuale e delle sue fasi».

La Corte non precisa, tuttavia, in che termini il pregiudizio subito dall’imputato sarebbe nel caso specifico ovviabile, in quanto dalla premessa in diritto passa direttamente alla conclusione per cui «l’abnormità non consente di estendere la platea dei legittimati attivi a proporre ricorso per cassazione, rispetto al novero dei soggetti già individuati dal vigente ordinamento processuale».

La lacuna non si riscontra, invece, in Sez. 2, n. 47613 del 18/10/2016, Bongiorno, la quale ha ritenuto che «il diritto al contraddittorio dell’indagato nella fase delle indagini preliminari non può essere assicurato anche nella fase della richiesta di archiviazione e della conseguente imputazione coatta poiché a seguito di tale ordine non si verifica il diretto rinvio a giudizio bensì il procedimento trova successivi snodi nei quali l’indagato può esercitare conformemente a quanto previsto dalla legge il proprio diritto di difesa. Si pensi, infatti, che a seguito dell’ordine di imputazione formulato dal giudice e diretto al pubblico ministero questi dovrà procedere alla chiusura delle indagini e quindi ad inviare l’avviso di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen., in occasione del quale l’indagato potrà formulare mediante memorie le proprie richieste ed anche chiedere di essere sentito. Ancor dopo segue l’udienza preliminare nel quale l’indagato ha piena possibilità nel contraddittorio con il pubblico ministero e di fronte al giudice terzo di far valere le proprie ragioni con specifico riferimento all’esito delle indagini preliminari ed al materiale probatorio sin lì raccolto, deducendo anche la non adeguatezza dello stesso per sostenere l’accusa in giudizio. A fronte di un così vasto quadro di possibilità deve quindi essere escluso che il diritto al contraddittorio nella fase delle indagini, che pure deve ritenersi limitato in ragione della strumentalità delle stesse alla raccolta delle prove, possa esser anticipato sin dalla fase dell’imputazione coatta di cui all’art. 409, comma 5, cod. proc. pen. e consenta all’indagato di impugnare per abnormità detto provvedimento che attiene esclusivamente ai rapporti tra giudice per le indagini preliminari e pubblico ministero e non prevede alcun autonomo mezzo di gravame. Unico legittimato ad impugnare detto provvedimento anche per abnormità rimane pertanto sempre il pubblico ministero al quale l’ordine del giudice si rivolge. In ogni caso, nella specie (provvedimento che aveva disposto la formulazione dell’imputazione in relazione a titoli di reato diversi da quelli oggetto di iscrizione), l’ordinanza adottata dal giudice non può qualificarsi come abnorme, perché è stata in ogni modo assunta nell’ambito del potere ordinatorio riconosciutogli ai sensi dell’art. 409 comma 5, cod. proc. pen. Essa può eventualmente ritenersi illegittima, ma il suo contenuto non è sicuramente avulso dal sistema e gli effetti non sono tali da pregiudicare in concreto lo sviluppo del processo».

L’arresto in commento contiene una serie di affermazioni che il Collegio ha ritenuto di non condividere:

- il diritto al contraddittorio dell’indagato nella fase delle indagini preliminari non può essere assicurato anche nella fase della richiesta di archiviazione; principio, questo, in apparente contrasto, oltre che con il dato normativo, con quanto ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale secondo cui la disciplina generale del procedimento in camera di consiglio, richiamata dall’art. 409, comma 2, cod. proc. pen., assicura all’indagato, prima dell’”imputazione coatta”, uno ius ad loquendum idoneo ad escludere la violazione dei parametri costituzionali;

- a seguito dell’ordine di imputazione formulato dal giudice e diretto al pubblico ministero questi dovrà procedere alla chiusura delle indagini e quindi ad inviare l’avviso di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen., in occasione del quale l’indagato potrà formulare mediante memorie le proprie richieste ed anche chiedere di essere sentito; affermazione, questa, difforme rispetto alla giurisprudenza consolidata (ex multis, Sez. 6, n. 45126 del 22/10/2014, Grimaldi, Rv. 260824; Sez. 4, n. 48033 del 19/11/2009, Caldarar, Rv. 245795; Sez. 6, n. 5369 del 08/10/2002, dep. 2003, Taormina, Rv. 223690) e che sembra non tener conto della richiamata giurisprudenza costituzionale (cfr., Corte cost., ord. n. 460 del 2002 e ord. n. 491 del 2002);

- l’ordinanza che dispone la formulazione dell’imputazione in relazione a titoli di reato diversi da quelli oggetto di iscrizione non può qualificarsi come abnorme, in quanto assunta nell’ambito del potere ordinatorio riconosciuto al giudice ai sensi dell’art. 409, comma 5, cod. proc. pen.; affermazione, questa, che pone la decisione in questione in contrasto con quanto ritenuto dalle Sezioni unite “L” ed oggi ribadito dal Collegio.

Sulla scia della pronunzia da ultimo esaminata, Sez. 6, n. 49093 dell’11/10/2017, Russo, Rv. 271499, non trascurando, anch’essa, il profilo delle garanzie del diritto di difesa, ha affermato che il soggetto, nei cui confronti è stata formulata l’imputazione, pur non legittimato a ricorrere per cassazione, non resta privo di tutela: «ed invero, secondo il fisiologico sviluppo del procedimento, l’imputazione coatta deve essere preceduta dal contraddittorio in camera di consiglio, che solo giustifica sul piano delle garanzie il venir meno dell’obbligo per il pubblico ministero di inviare l’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen. Correlativamente, la circostanza che l’epilogo della fase delle indagini preliminari sia stato contrassegnato dall’anomalia rappresentata dall’emissione dell’ordine di formulare l’imputazione, non preceduto dall’udienza nella quale deve essere assicurato il contraddittorio tra le parti interessate, implica che venga ad assumere rilievo la mancata comunicazione dell’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen., ciò che l’imputato può utilmente dedurre in sede di udienza preliminare o, in mancanza di questa, dinanzi al giudice del dibattimento».

Il ragionamento non pare poter essere condiviso.

I giudici, pur riconoscendo il pregiudizio subito dall’imputato per la mancata interlocuzione all’udienza camerale innanzi al gip, lo ritengono ovviabile attraverso lo strumento dell’art. 415-bis cod. proc. pen., omettendo di considerare la non operatività di questa norma nel caso di imputazione coatta.

Al riguardo, a quanto già esposto nei paragrafi che precedono deve, ora, aggiungersi, mutuando le affermazioni della Corte cost., n. 286 del 2012, che «il meccanismo procedimentale basato sull’avviso previsto dall’art. 415-bis cod. proc. pen. è diverso da quello relativo all’imputazione coatta, perché l’avviso in questione è diretto a consentire all’indagato l’esplicazione di un’ulteriore attività difensiva, che potrebbe incidere sulle determinazioni del pubblico ministero, inducendolo a richiedere l’archiviazione, mentre dopo l’ordine del giudice per le indagini preliminari di formulare l’imputazione viene meno qualunque ulteriore spazio per l’attività difensiva; infatti, se il giudice delle indagini preliminari, all’esito della udienza camerale avente ad oggetto la decisione sulla richiesta di archiviazione del pubblico ministero, ritiene che la notizia di reato non sia infondata e che debba dunque farsi luogo all’esercizio dell’azione penale, né il pubblico ministero né l’indagato sono in grado di contrastare tale valutazione (Sez. 6, n. 5369 del 08/10/2002, dep. 2003, Taormina, Rv. 223690)».

In definitiva, contrariamente a quanto sostenuto in sentenza, l’avviso ex art. 415-bis, cod. proc. pen., non può sanare la violazione del diritto di difesa patita dall’indagato all’udienza camerale ex art. 409 cod. proc. pen., per la semplice ragione che, una volta definito il procedimento archiviativo con l’emissione dell’ordinanza di imputazione coatta, la norma di garanzia anzidetta non trova alcuno spazio di operatività.

6.2. L’orientamento minoritario seguito dalle Sezioni Unite.

A differenza dell’indirizzo maggioritario appena esaminato, quello c.d. minoritario è apparso al Supremo collegio maggiormente coerente rispetto ai principi di diritto suesposti.

Sez. 6, n. 34881 del 20/07/2016, Sparaciari, Rv. 267988, muovendo dalle affermazioni contenute nella sentenza delle Sez. U, “L” (v. supra) avevano ritenuto che «l’anomalia strutturale realizzatasi nel procedimento attraverso l’esercizio da parte del gip di poteri di surroga delle attribuzioni del pubblico ministero integrasse la figura dell’atto abnorme, che deve essere annullato per ripristinare il corretto svolgimento del procedimento, attraverso le determinazioni che il pubblico ministero vorrà formulare rispetto alle segnalazioni provenienti dal Giudice per le indagini preliminari». Ne consegue la «non dubitabile» legittimazione dell’indagato ad impugnare il provvedimento affetto da siffatta patologia, stante l’interesse del predetto che, nel caso di inerzia del p.m., subirebbe l’esercizio dell’azione penale, privato della necessaria interlocuzione in contraddittorio prevista a garanzia dei diritti delle parti dall’art. 409, comma 2, cod. proc. pen., così come efficacemente ribadito dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 286 del 2012 a conferma di precedenti decisioni della medesima autorità sul punto (ordinanze nn. 460 e 491 del 2002 e n. 441 del 2004)».

Dando seguito a questo percorso argomentativo, le Sezioni Unite hanno concluso ritenendo che l’imputazione coatta per fatti non contemplati dal pubblico ministero nella richiesta di archiviazione incida pesantemente sulla possibilità per l’indagato di interloquire sull’accusa e sulla sua legittimità e, in ultima analisi, sulla possibilità di difendersi per impedire di essere sottoposto a processo; interesse questo per nulla soddisfatto dalle possibilità difensive offerte dall’ordinamento nel prosieguo procedimentale.

Tanto è stato, dunque, ritenuto più che sufficiente per legittimare l’indagato ad impugnare il provvedimento a lui sfavorevole per ottenerne la rimozione.

7. L’applicazione dei principi affermati nella fattispecie al vaglio delle Sezioni unite.

La declinazione dei principi enunciati nella fattispecie esaminata ha portato il Collegio ad una decisione diversificata che merita di essere qui richiamata.

Come anticipato nel paragrafo introduttivo, l’ordinanza impugnata, a fronte di una richiesta di archiviazione riferita alla ipotesi di indagine di cui al reato di tentata corruzione, aveva disposto l’imputazione coatta per i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di violenza privata.

Le Sezioni unite hanno ritenuto che, per quanto riguardava il reato di violenza privata, si trattava di una fattispecie non delibata da parte del pubblico ministero, del tutto estranea alle condotte per le quali il rappresentante della pubblica accusa aveva chiesto l’archiviazione della notizia di reato. Pertanto, in applicazione delle enunciate regole di diritto, il provvedimento è stato qualificato, in questa sua porzione, abnorme, all’indagato è stata riconosciuta la legittimazione ad impugnarlo, ottenendone la rimozione.

Con riferimento, invece, alla parte dell’ordinanza concernente l’imputazione coatta per il delitto di cui all’art. 393 cod. pen., la Corte ha escluso che ricorresse una ipotesi di mera riqualificazione della condotta per la quale il pubblico ministero aveva comunque promosso l’azione penale, di guisa che il giudizio espresso risulta coerente con la disciplina procedi-mentale vigente e rispettosa del riparto di poteri (Sez. 1, n. 47919 del 29/9/2016, Guarnieri, Rv. 268138; Sez. 2, n. 31912 del 07/07/2015, Giovinazzo, Rv. 264509; Sez. 5, n. 24030 del 4/6/2015, Richetto; Sez. 6, n. 34284 del 22/06/2011, Polese, Rv. 250836).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, Timpani, Rv. 203093 Sez. U, n. 26 del 24/11/1999, Magnani, Rv. 215094 Sez. U, n. 28807 del 29/05/2002, Manca, Rv. 221999 Sez. 6, n. 5369 del 08/10/2002 – dep. 2003 –, Taormina, Rv. 223690 Sez. 6, n. 25683 del 02/04/2003, Donzelli, Rv. 228307 Sez. 6, n. 42542 del 06/10/2004, Marino, Rv. 231186 Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590 Sez. 4, n. 48033 del 19/11/2009, Caldarar, Rv. 245795 Sez. 4, n. 10877 del 20/01/2012, Rossi, Rv. 251986 Sez. U, n. 4319 del 28/11/2013 – dep. 2014 –, “L”, Rv. 257786 Sez. 5, n. 32753 del 19/05/2014, Fasanella Sez. 6, n. 45126 del 22/10/2014, Grimaldi, Rv. 260824 Sez. 5, n. 6807 del 21/01/2015, DR, Rv. 262688 Sez. 6, n. 34881 del 20/07/2016, Sparaciari, Rv. 267988 Sez. 2, n. 46380 del 21/09/2016, Mazzocco, Rv. 268436 Sez. 2, n. 47613 del 18/10/2016, Bongiorno Sez. 3, n. 15251 del 14/12/2016, De Bosini, Rv. 269649 Sez. 6, n. 49093 del11/10/2017, Russo, Rv. 271499 Sez. U, n. 40984 del 22/03/2018, Gianforte, Rv. 273581

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 491 del 2002 Corte cost., sent. n. 460 del 2002 Corte cost., sent. n. 441 del 2004 Corte cost., sent. n. 348 del 2005 Corte cost., sent. n. 286 del 2012 Corte cost., sent. n. 96 del 2014

  • procedura penale
  • responsabilità civile

CAPITOLO VII

AMMISSIBILITÀ DELLA REVISIONE DELLA SENTENZA RELATIVAMENTE ALLE SOLE STATUIZIONI CIVILI

Sommario

1 Premessa: la questione controversa e l’informazione provvisoria della decisione delle Sezioni unite Milanesi. - 2 Il contrasto risolto dalle Sezioni Unite Milanesi: l’orientamento maggioritario che nega la legittimazione del condannato ai soli effetti civili. - 3 (segue). L’orientamento minoritario che afferma la legittimazione del condannato ai soli effetti civili. - 4 I profili di costituzionalità coinvolti dal contrasto. - 5 Le Sezioni Unite Milanesi nell’ambito della progressiva estensione dei rimedi revocatori ad opera della giurisprudenza delle Sezioni Unite penali. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa: la questione controversa e l’informazione provvisoria della decisione delle Sezioni unite Milanesi.

Nel corso dell’ultimo anno è stata decisa dalle Sezioni unite (Sez. U, del 25/10/2018, Milanesi – sentenza non depositata) la questione dell’ammissibilità dell’istanza di revisione proposta dall’imputato avverso la sentenza di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione che conferma la condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile contenuta nella sentenza di primo grado.

La questione attiene all’applicabilità del mezzo di impugnazione straordinaria alle sentenze irrevocabili pronunciate ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., che prevede la decisione dell’impugnazione agli effetti civili nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione, stabilendo che: «Quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.».

Come è noto, nel sistema del codice di rito vigente, il giudice di primo grado si pronuncia sull’azione civile esercitata nel processo penale solo «quando pronuncia sentenza di condanna» (art. 538 cod. proc. pen.). Non sono di conseguenza configurabili sentenze di primo grado di non doversi procedere per estinzione del reato contenenti statuizioni civili.

Tuttavia, una volta che sia stata pronunciata in primo grado sentenza di condanna dell’imputato tanto agli effetti penali quanto agli effetti civili, allorquando sopravvenga, in sede di appello o di giudizio di cassazione, l’estinzione del reato per amnistia o per prescrizione, il giudice dell’impugnazione deve comunque procedere all’esame dei motivi di impugnazione al fine di decidere il gravame in ordine al capo civile della sentenza impugnata. In tal caso è possibile che l’impugnazione venga definita con una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato che confermi le statuizioni civili contenute nella sentenza impugnata.

Con riferimento alle sentenze con cui in sede d’appello venga dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione con conferma delle statuizioni civili della sentenza impugnata deve rilevarsi, inoltre, che le stesse contengono, o comunque presuppongono, un pieno accertamento della responsabilità penale del prosciolto.

Infatti, come ritenuto dalle Sezioni Unite Tettamanti (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273), in presenza di amnistia o di prescrizione, ove la valutazione approfondita dell’appello a fini civilistici porti all’accertamento della mancanza di responsabilità penale, anche per l’insufficienza o la contraddittorietà delle prove, il giudice deve non soltanto revocare le statuizioni civili della sentenza di primo grado, ma anche pronunciare la formula assolutoria nel merito. Ciò in quanto, in tal caso, la regola di cui all’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. – che, in ossequio a esigenze di economia processuale prevede la prevalenza dell’assoluzione nel merito solo in caso di prova positiva dell’innocenza o di mancanza totale di prova della colpevolezza (Sez. U, n. 18 del 09/06/1995, Cardoni, Rv. 202374), e non anche in caso di insufficienza o contraddittorietà della prova – subisce un’eccezione, con conseguente prevalenza dell’assoluzione nel merito anche ai sensi del secondo comma dell’art. 530 cod. proc. pen. sulla declaratoria di estinzione del reato, non essendo concretamente ravvisabili esigenze di economia processuale che possano impedire la piena attuazione del principio del favor rei.

Il caso che ha dato luogo al ricorso per cassazione rimesso alle Sezioni Unite Milanesi riguarda proprio un’istanza di revisione proposta avverso una sentenza irrevocabile d’appello che, dichiarando non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato, ha confermato le statuizioni civili contenute nella sentenza di primo grado.

La questione attiene all’interpretazione degli artt. 629 e 632 cod. proc. pen., che prevedono, rispettivamente, che «è ammessa in ogni tempo a favore dei condannati, … la revisione delle sentenze di condanna …», e che legittimato attivo è «il condannato».

Si tratta di stabilire se per “sentenze di condanna” debbano intendersi soltanto le sentenze di condanna agli effetti penali (cioè quelle di cui alla sezione II, titolo III, libro VII, intitolata “sentenza di condanna”), oppure se tale espressione comprenda anche le sentenze di condanna ai soli effetti civili (cioè anche quelle di cui alla sezione III, titolo III, libro VII, intitolata “decisione sulle statuizioni civili”), e se per “condannato”, quale soggetto legittimato a proporre la richiesta di revisione ai sensi dell’art. 632 cod. proc. pen., debba intendersi il solo condannato agli effetti penali, o anche il condannato ai soli effetti civili.

Le Sezioni Unite, con sentenza del 25 ottobre 2018, ric. Milanesi – di cui è ad oggi nota soltanto l’informazione provvisoria – hanno risolto il contrasto optando per l’ammissibilità della revisione nel caso considerato.

2. Il contrasto risolto dalle Sezioni Unite Milanesi: l’orientamento maggioritario che nega la legittimazione del condannato ai soli effetti civili.

Secondo una prima interpretazione, ampiamente maggioritaria nella giurisprudenza delle sezioni semplici della Corte, ma che non sembra essere stata accolta dalle Sezioni Unite, la revisione è ammissibile soltanto nei confronti di sentenze penali di condanna, intese come sentenze di condanna agli effetti penali (Sez. 5, n. 2393 del 2/12/2010, Pavesi, Rv. 249781; Sez. 3, n. 24155 del 3/3/2011, Bernardelli, Rv. 250631, Sez. 2, n. 8864 del 23/02/2016, Martelli, non mass.; Sez. 2, n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati, Rv. 271367; Sez. 2, n. 2656 del 9/11/2016, Calabrò, Rv. 269528).

Tale interpretazione si fonda:

- sul “chiaro dettato normativo” di cui all’art. 629 cod. proc. pen., che riguarda le sole sentenze di condanna, e non anche quelle di proscioglimento;

- sul principio di tassatività delle impugnazioni, applicabile anche alla revisione, in quanto mezzo (sia pure straordinario) di impugnazione, con conseguente impossibilità di applicazione analogica della revisione al caso della condanna ai soli effetti civili;

- sul fatto che la revisione è configurata dal codice di rito quale mezzo di impugnazione straordinario «preordinato al “proscioglimento” della persona già condannata in via definitiva», come desumibile non soltanto dalla Relazione al progetto preliminare ed al testo definitivo del codice di procedura penale vigente (nella quale si legge che l’utilizzo del termine “prosciolto” in luogo del riferimento all’assoluzione si spiega perché vi è un rinvio unitario alle disposizioni di legge che si riferiscono ad ogni forma di proscioglimento), ma anche dal complessivo quadro normativo dell’istituto (l’art. 631 cod. proc. pen. stabilisce che gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono «essere tali da dimostrare, se riscontrati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli artt. 529, 530 e 531»; l’art. 630, lett. c), cod. proc. pen, richiede che le “nuove prove” siano tali da dimostrare che «il condannato deve essere prosciolto a norma dell’art. 631»; l’art. 637, comma 2, cod. proc. pen., prevede che, ove la revisione sia accolta, «il giudice revoca la sentenza di condanna o il decreto penale e “pronuncia il proscioglimento”, indicandone la causa nel dispositivo»; l’art. 643 cod. proc. pen. prevede il diritto ad una riparazione dell’errore giudiziario in favore di «chi è stato “prosciolto”, in sede di revisione») (Sez. 2, n. 2656 del 9/11/2016, Calabrò, Rv. 269528);

- sulla considerazione che la complessiva disciplina della revisione – a differenza di quella del ricorso straordinario per errore di fatto, in relazione al quale le Sezioni Unite Marani hanno esteso la legittimazione anche al condannato ai soli effetti civili – è incompatibile con l’estensione della legittimazione attiva al condannato ai soli effetti civili (Sez. 2, n. 2656 del 9/11/2016, Calabrò, Rv. 269528);

- sulla nozione sostanzialistica di “sentenza di condanna” elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e recepita dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 85 del 2008; Corte cost., sent. n. 239 del 2009; Corte cost., sent. n. 49 del 2015), nel cui ambito non sarebbe riconducibile la sentenza di proscioglimento per prescrizione con conferma delle statuizioni civili, perché da essa non consegue alcun effetto di natura sanzionatoria o latamente penalistica (Sez. 2, n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati, Rv. 271367);

- sul fatto che la tesi avversata comporta la “paradossale conseguenza” che il prosciolto potrebbe ottenere la revisione del processo per una ipotesi (nuove prove) non prevista e, quindi, inammissibile in ambito civilistico, ove il processo per la responsabilità civile si fosse svolto in quella sede, atteso che la revocazione della sentenza civile è ammessa solo per fattispecie molto più restrittive di quelle previste per la revisione della sentenza penale («la revisione, quindi, sarebbe strumentalizzata non per conseguire un beneficio di natura penalistica (ossia l’eliminazione di una sanzione sia pure latamente penalistica) ma un semplice beneficio di natura civilistica»). Laddove, invece, il fatto che il prosciolto per prescrizione non abbia altro rimedio avverso una sentenza “ingiusta” che lo pregiudichi, sia pure sotto il solo profilo civilistico, in conseguenza della scelta della persona offesa di esercitare l’azione civile nel processo penale, è la conseguenza di una precisa scelta processuale dell’imputato che, pur avendo interesse ad ottenere una sentenza di merito, non ritenga di rinunciare alla prescrizione (Sez. 2, n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati, Rv. 271367).

A conferma dell’assunto dell’inammissibilità della revisione vengono, altresì, richiamate:

- la sentenza n. 129 del 2008 della Corte Costituzionale in cui sarebbe stato confermato che la sentenza di proscioglimento per estinzione del reato per prescrizione con conferma delle statuizioni civili non costituisce sentenza penale di condanna suscettibile di essere impugnata per revisione (Sez. 5, n. 2393 del 2/12/2010, Pavesi, Rv. 249781);

- la sentenza n. 113 del 2011 della Corte Costituzionale in cui la Consulta ha rilevato che «la revisione risulta strutturata in funzione del solo proscioglimento della persona già condannata» (Sez. 2, n. 2656 del 9/11/ 2016, Calabrò, Rv. 269528); la medesima sentenza viene richiamata da altre pronunce riconducibili all’orientamento maggioritario, che ritengono che essa non induce ad alcun revirement con riferimento alla questione dell’inammissibilità della revisione della sentenza di proscioglimento per prescrizione con conferma delle statuizioni civili, dovendo trattarsi pur sempre di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna e non già di proscioglimento (Sez. 3, n. 24155 del 3/3/2011, Bernardelli, Rv. 250631; Sez. 2, n. 8864 del 23/02/2016, n. 8864, Martelli, non mass);

- la sentenza delle Sezioni Unite Nunziata (Sez. U, n. 13199 del 21/07/2016 – dep. 2017 –, Nunziata, Rv. 269788-269789-269790-269791) che confermerebbe che il prosciolto per prescrizione, anche se le statuizioni civili nei suoi confronti sono state confermate, non può essere considerato, agli effetti “penali”, un “condannato”, in quanto l’estensione della nozione di “condannato”, di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen., anche al soggetto titolare della facoltà di chiedere la revisione della condanna, viene motivata sulla base della considerazione che il rigetto o la dichiarazione di inammissibilità del ricorso per revisione contribuisce alla “stabilizzazione” del giudicato, rendendo “incontrovertibile l’accertamento del dovere di punire” (Sez. 2, n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati, Rv. 271367);

- la sentenza delle Sezioni Unite Marani (Sez. U, n. 28719 del 21/06/2012, Marani, Rv. 252695), la cui ratio decidendi – ravvisata nell’esigenza di colmare una lacuna al fine di evitare la disparità di trattamento fra quanto previsto in sede civile e quanto stabilito in sede penale – non viene ritenuta estensibile alla revisione, in ragione sia dell’insussistenza di un’analoga esigenza, avendo la revisione «in sede civile, il suo pendant, nella revocazione», sia della profonda diversità tra i due rimedi straordinari, quanto all’oggetto (il ricorso straordinario si può proporre solo contro le sentenze di cassazione, nel mentre la revisione ha ad oggetto la sentenza di merito) e quanto alle finalità (l’uno è limitato esclusivamente alla mera correzione di un errore materiale o di fatto; l’altra, invece, è tesa a sovvertire la condanna passata in giudicato al fine di ottenere, all’esito di un nuovo processo, l’assoluzione) (Sez. 2, n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati, Rv. 271367);

D’altra parte il fatto che l’art. art. 629 preveda la revisione «...anche se la pena è già eseguita o estinta» rafforza, secondo la Corte (Sez. 2, n. 2656 del 9/11/2016, Calabrò, Rv. 269528), la tesi contraria all’ammissibilità della revisione rispetto a una sentenza di proscioglimento, «in quanto il concetto di “pena” implica una condanna e il rifermento all’estinzione riguarda appunto la pena irrogata e non già il reato atteso che la dichiarazione di estinzione esclude, ovviamente, ogni pena».

3. (segue). L’orientamento minoritario che afferma la legittimazione del condannato ai soli effetti civili.

Secondo l’orientamento minoritario, espresso in un’unica sentenza delle sezioni semplici (Sez. 5, n. 46707 del 3/10/2016 Panizzi, Rv. 269939), e a cui sembrano avere aderito le Sezioni Unite, invece, sulla base dell’interpretazione letterale degli artt. 629 e 632 cod. proc. pen., deve ritenersi ammissibile la revisione delle sentenze con cui il giudice d’appello, nel dichiarare estinto il reato per prescrizione, confermi le statuizioni civili di primo grado, trattandosi di “sentenze di condanna”, sia pure soltanto agli effetti civili, ed essendo in tal caso l’imputato “condannato”, sia pure soltanto al risarcimento del danno.

In tale sentenza, pur non mettendo in dubbio la natura di mezzo (sia pure straordinario) di impugnazione della revisione e la sua conseguente soggezione al principio di tassatività, e pur riconoscendo che le sentenze di proscioglimento non sono suscettibili di revisione (riguardando l’art. 629 cod. proc. pen. soltanto le sentenze di condanna e di patteggiamento), la Corte rileva che il difetto di legittimazione dell’interessato ad ottenere la rivisitazione degli effetti penali della sentenza di proscioglimento non implica il difetto di legittimazione riguardo alle statuizioni civili, pregiudizievoli per l’imputato, contenute nella sentenza di proscioglimento, perché ciò non risulta dalla lettera della legge, né è imposto da una interpretazione logica o sistematica della stessa.

La Corte osserva, infatti, che:

- l’art. 629 cod. proc. pen. indica tra i provvedimenti soggetti a revisione “le sentenze di condanna”, «senza precisare ulteriormente l’oggetto delle stesse», così come, simmetricamente, il successivo art. 632, nell’individuare i soggetti legittimati a proporre la richiesta di revisione, evoca «in maniera altrettanto generica la figura del “condannato”»;

- la decisione che accoglie l’azione civile esercitata nel processo penale costituisce una «pronunzia di condanna che presuppone l’accertamento della colpevolezza dell’imputato per il fatto di reato, come espressamente stabilito dagli artt. 538 e 539 c.p.p.» e che, dunque, l’imputato è «condannato» alle restituzioni ed al risarcimento del danno;

- «le locuzioni che delimitano soggettivamente ed oggettivamente la sfera di applicabilità del rimedio straordinario di cui si tratta, non possono allora essere arbitrariamente scandite in ragione del tipo di condanna subita dall’imputato, giacché l’essere stato costui convenuto in giudizio tanto sulla base della azione penale quanto in forza della azione civile esercitata nel processo penale, non può che comportare una ontologica identità di diritti processuali, a meno che la legge espressamente non distingua i due profili. Ma di tale distinzione non v’è traccia nel testo dell’art. 629 c.p.p., né può dirsi ricavabile una qualsiasi incompatibilità logica o strutturale della norma a consentire la revisione al condannato solo per gli interessi civili»;

- il prosciolto ingiustamente condannato agli effetti civili sarebbe privo di tutela, non potendo ricorrere all’istituto della revocazione civile, impraticabile in difetto di una espressa previsione normativa e stante il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione;

- viceversa, i diversi e più ristretti limiti che caratterizzano la revocazione civile non implicano un’irragionevole disparità di trattamento del danneggiato a seconda che l’azione risarcitoria venga esercitata nella sede propria o in quella penale, in quanto il codice del 1988 ha attribuito al danneggiato il monopolio sulla scelta della sede in cui vedere accertate le proprie pretese, scelta che implica l’accettazione delle regole proprie del rito opzionato.

Ad “ulteriore conforto” dell’interpretazione adottata, la Corte ritiene significativo che le Sezioni Unite Marani (Sez. U, n. 28719 del 21/06/2012, Marani, Rv. 252695), per affermare la legittimazione del prosciolto condannato agli effetti civili ad esperire il ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen., pur sconfessando l’orientamento che negava tale legittimazione facendo leva proprio sulla soluzione adottata con riguardo all’ipotesi della revisione e sull’analogia tra i due istituti nel limitare l’accesso all’impugnazione straordinaria, abbiano comunque ritenuto effettivamente “percepibile” tale analogia.

Inoltre, la Corte nella sentenza Panizzi ritiene che argomenti contrari alla tesi dell’ammissibilità non si possano desumere:

- né dalla legge delega del nuovo codice di rito (legge 16 febbraio 1987, n. 81), posto che la direttiva n. 99 dell’art. 2 nulla prevedeva in tal senso;

- né dal fatto che lo stesso art. 629 cod. proc. pen. consenta la revisione della condanna «anche se la pena è già stata eseguita o estinta», poiché tramite tale indicazione il legislatore non ha voluto delimitare l’ambito oggettivo dell’impugnazione straordinaria, bensì rimarcare la sussistenza di un interesse “morale” del condannato a rimuovere il giudicato anche in tali casi;

- né dal testo dell’art. 631 cod. proc. pen.: «Se è vero infatti che agli effetti penali l’imputato è già stato prosciolto, è altrettanto vero che ciò è avvenuto per una causa diversa da quelle elencate negli artt. 529 e 530 c.p.p., che altrimenti non sarebbe stato possibile affermare la sua responsabilità ai fini civili. E se l’assenza delle condizioni previste dai due articoli menzionati è il presupposto per la condanna agli effetti civili, la dimostrazione che l’imputato doveva essere prosciolto per una causa diversa da quella invece riconosciuta è logico presupposto per la rimozione del giudicato, anche agli effetti civili».

4. I profili di costituzionalità coinvolti dal contrasto.

La questione interpretativa risolta dalle Sezioni Unite Milanesi involge profili di possibile rilevanza costituzionale, avuto riguardo agli artt. 3 e 24 Cost.

Si pone, infatti, la questione se, con riferimento alla revisione, vi siano disposizioni che espressamente distinguano o, comunque, ragioni che giustifichino una diversità di diritti processuali dell’imputato nei cui confronti sia esercitata l’azione civile nel processo penale, con riferimento alle statuizioni penali e alle statuizioni civili contenute nella sentenza penale, e che facciano ritenere ragionevole una diversità di trattamento delle due tipologie di statuizioni, come ritenuto dalla sentenza Calabrò, e, invece, negato dalla sentenza Panizzi.

Al riguardo si rileva che in caso di revisione della sentenza irrevocabile di condanna che contenga anche statuizioni civili l’art. 639 cod. proc. pen. prevede che la Corte d’appello, «quando pronuncia sentenza di proscioglimento in accoglimento della richiesta di revisione ordina la restituzione delle somme pagate … per il risarcimento dei danni in favore della parte civile citata per il giudizio di revisione». In base a tale disposizione sembrerebbe, pertanto, pacifico che la revisione della sentenza irrevocabile di condanna che contenga anche statuizioni civili coinvolga anche queste ultime. Con la conseguenza che, essendo di regola le statuizioni civili contenute in una sentenza di condanna, di regola la revisione si estende anche alle statuizioni civili.

Si pone, inoltre, la questione se se sia ragionevole e conforme agli artt. 3 e 24, commi 1 e 2 Cost., una diversità di trattamento:

a) del convenuto in azione di risarcimento danni a seconda che l’azione sia esercitata in sede civile (caso in cui egli ha a disposizione l’istituto della revocazione) o in sede penale (caso in cui o gli si riconosce accesso alla revisione, o resta privo di rimedi contro il giudicato, anche a fronte di prove nuove); ed in particolare se tale diversità di trattamento, ritenuta irragionevole dalla sentenza Panizzi, possa ragionevolmente fondarsi, come ritenuto dalla sentenza Ricupati, sulla scelta processuale dell’imputato, che, pur avendo interesse ad ottenere una sentenza di merito, non ritenga di rinunciare alla prescrizione.

b) dell’attore in azione di risarcimento danni a seconda che l’azione sia esercitata in sede civile (caso in cui egli ha a disposizione la revocazione, per l’ipotesi di rigetto della domanda, ed è soggetto all’istituto della revocazione, proponibile dalla controparte, in ipotesi di accoglimento della domanda) o in sede penale (caso in cui per l’ipotesi di proscioglimento dell’imputato pregiudizievole per il processo civile nei casi previsti dall’art. 652 cod. proc. pen., egli non ha a disposizione né l’istituto della revocazione né quello della revisione; mentre per l’ipotesi di accoglimento della domanda: a) ove la condanna agli effetti civili acceda a una condanna irrevocabile agli effetti penali, egli è soggetto alla revocazione; b) ove la condanna agli effetti civili acceda a una sentenza irrevocabile di non doversi procedere, se si nega la legittimazione alla revisione al condannato ai soli effetti civili, egli è al riparo sia dalla revisione sia dal più limitato rimedio della revocazione, mentre se si ammette tale legittimazione, egli è esposto alla revisione, esperibile sulla base di presupposti più ampi di quelli previsti per la revocazione civile); ed in particolare se tale diversità di trattamento può giustificarsi in base alla sua scelta processuale di esercitare in sede penale l’azione civile, con conseguente accettazione delle relative regole processuali, come ritenuto dalla sentenza Panizzi;

c) delle posizioni dell’imputato convenuto nell’azione civile esercitata in sede penale (che, se si ammette la sua legittimazione alla revisione anche in caso di condanna ai soli effetti civili, ha anche in tal caso a disposizione l’istituto della revisione) e della parte civile (che, se si ammette la legittimazione alla revisione del condannato ai soli effetti civili, si trova esposta alla revisione della sentenza, e quindi a un rimedio di rimozione del giudicato con presupposti ben più ampi di quelli della revocazione civile, e, per contro, non dispone nell’ipotesi di proscioglimento in uno dei casi previsti dall’art. 652 cod. proc. pen., di rimedi demolitori del giudicato pregiudizievole in caso di “nuove prove”).

Avuto riguardo all’argomentazione della sentenza Panizzi, secondo cui la tesi contraria all’ammissibilità della revisione implica che il prosciolto ingiustamente condannato agli effetti civili sarebbe privo di tutela, appare opportuno segnalare le posizioni assunte dalla Corte costituzionale in casi in cui si sia posta la questione delle minori garanzie assicurate nel processo penale all’imputato nei cui confronti sia stata esercitata l’azione civile, rispetto a quelle assicurate al convenuto in sede civile.

Dall’esame delle pronunce emerge che la Corte costituzionale non ritiene irragionevole qualsiasi disparità di trattamento derivante dall’esercizio in sede penale dell’azione civile che privi l’imputato-convenuto di poteri che la disciplina del processo civile gli riconosce, ravvisando casi in cui esse possono essere giustificate dalle “finalità tipiche del processo penale”. Viceversa, ove non sia rinvenibile una ragione attinente alla struttura e alla funzione del processo penale che la giustifichi, la differenza di disciplina dell’azione civile esercitata nel processo penale che privi l’imputato-convenuto di poteri che il rito civile gli riconosce viene ritenuta irragionevole.

Quanto appena esposto trova esplicito riconoscimento in Corte costituzionale sent. n. 353 del 1994, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 600, comma 3, del codice di procedura penale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui prevede che il giudice d’appello può disporre la sospensione dell’esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale “quando possa derivarne grave e irreparabile danno”, anziché “quando ricorrono gravi motivi”, così come previsto dall’art. 283 del codice di procedura civile. In tale occasione la Consulta ha affermato: «Ora, è certamente esatto che l’inserimento dell’azione civile nel processo penale pone in essere una situazione in linea di principio differente rispetto a quella determinata dall’esercizio dell’azione civile nel processo civile, anche ove si tratti di azione di restituzione o di risarcimento dei danni derivanti da reato (cfr. sent. n. 108 del 1970), e ciò in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi (v. sentt. nn. 171 del 1982, 443 del 1990; ordd. nn. 115 del 1992, 185 del 1994)».

Con la sentenza n. 112 del 1998 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 83 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, nel caso di responsabilità civile derivante dalla assicurazione obbligatoria prevista dalla legge 24 dicembre 1969, n. 990, l’assicuratore possa essere citato nel processo penale – oltre che a richiesta della parte civile – a richiesta dell’imputato, in ragione della disparità di trattamento dell’imputato assoggettato alla azione di risarcimento del danno nel processo penale rispetto al convenuto per la stessa azione in sede civile, al quale è riconosciuto il diritto di chiamare in garanzia il responsabile civile.

La Corte in tale sentenza ha rilevato che la posizione del convenuto chiamato a rispondere del proprio fatto illecito in autonomo giudizio civile e quella dell’imputato per il quale, in relazione allo stesso tipo di illecito, vi sia stata costituzione di parte civile del danneggiato nel processo penale, sono assolutamente identiche: «con la conseguenza che il principio costituzionale di eguaglianza è violato da un sistema come quello degli artt. 83 e seguenti del codice di procedura penale, per effetto del quale l’assicuratore, quando sia responsabile civile ai sensi di legge può entrare nel processo solo in forza di citazione della parte civile (o del pubblico ministero nel caso previsto dall’art. 77, n. 4) o in forza del proprio intervento volontario».

La ratio di tale decisione non è esclusivamente legata alla disparità di trattamento del danneggiante, riguardo alla possibilità o meno di chiamare nel processo il proprio assicuratore, a seconda della sede (civile o penale) in cui la controparte decida di esercitare l’azione di risarcimento danni, ma anche (e soprattutto) alla disparità di trattamento tra la parte civile (che può citare nel processo penale la compagnia assicuratrice dell’imputato per la responsabilità civile da circolazione dei veicoli, in quanto responsabile civile, e quindi, nella sostanza, esercitare anche nel processo penale l’azione diretta riconosciutale dalla legge) e l’imputato (che ha diritto a essere manlevato dalla compagnia assicuratrice), ove gli si negasse analogo potere.

Ciò emerge chiaramente dalle successive pronunce (Corte cost. sent. n. 75 del 2001; Corte cost., ord. n. 300 del 2004; Corte cost., sent. n. 34 del 2018) con cui la Consulta, chiarendo e delimitando la ratio della precedente decisione, ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di citare in giudizio il responsabile civile ex lege (non legato al danneggiante – imputato da un rapporto interno di garanzia) o il proprio assicuratore per la responsabilità civile (in casi diversi da quello dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile da circolazione dei veicoli, nei quali il terzo danneggiato non ha azione diretta nei confronti dell’assicuratore), in ragione del particolare rigore con il quale – nel sistema delineato dal nuovo codice di rito del 1988 – «devono essere misurate le disposizioni che regolano l’ingresso, in sede penale, di parti diverse da quelle necessarie» (Corte cost. sent. n. 75 del 2001).

Sul tema si segnala, infine, la sentenza n. 168 del 2006 per il rilievo attribuito dalla Consulta, quale giustificazione della scelta del legislatore di consentire soltanto alle parti necessarie del processo penale di formulare la richiesta di rimessione del processo, alle peculiarità che caratterizzano l’istituto della rimessione, fondate sulle specificità del processo penale, e al fatto che – ove fosse riconosciuta alla parte civile la legittimazione a presentare la richiesta di rimessione – l’imputato, nei cui confronti sia esercitata l’azione civile in sede penale, sarebbe privato della garanzia del suo giudice civile “naturale”, assicuratagli nel processo civile in conseguenza della scelta unilaterale del danneggiato, che ben può tenersi indenne rispetto alla gravità della situazione locale, sviluppando la propria azione in sede civile.

Avuto riguardo all’argomentazione posta dalla sentenza Panizzi a favore dell’ammissibilità della revisione nel caso considerato, secondo cui i diversi e più ristretti limiti che caratterizzano la revocazione civile non implicano un’irragionevole disparità di trattamento del danneggiato a seconda che l’azione risarcitoria venga esercitata nella sede propria o in quella penale, si richiama la sentenza n. 94 del 1996 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 540, primo comma, e 600, secondo comma, del codice di procedura penale, sollevate in riferimento all’art. 3 della Costituzione nella parte in cui, rispettivamente, non prevedono l’esecutività ex lege delle disposizioni civili della sentenza penale e consentono la revoca e non solo la sospensione della provvisoria esecuzione.

In tale pronuncia la Consulta dà rilievo, per escludere la violazione dell’art. 3 Cost., proprio alla possibilità per il danneggiato di scegliere in quale sede esercitare l’azione civile, rilevando che tale scelta può essere compiuta «previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli. Tuttavia, una volta compiuta la scelta di esercitare l’azione civile nel processo penale, non è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono, per via della struttura e della funzione del giudizio penale, cui la stessa azione civile deve necessariamente adattarsi, considerate le esigenze di pubblico interesse sottese all’accertamento dei reati (cfr., da ultimo, sentenze n. 353 del 1994 e n. 443 del 1990).».

Sotto il profilo costituzionale potrebbe, inoltre, apparire altresì irragionevole e in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. distinguere l’accesso al rimedio della revisione a seconda del contenuto della sentenza (di condanna o di proscioglimento) agli effetti penali, in quanto alcune sentenze di proscioglimento comportano un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato o, comunque, l’attribuzione del fatto all’imputato medesimo, e quindi sono lesive degli interessi morali del prosciolto.

In ordine all’equiparazione alle sentenze di condanna delle sentenze di proscioglimento pregiudizievoli per l’interesse morale del prosciolto, ai fini del riconoscimento della possibilità per l’imputato di proporre appello, si ricorda che la Corte costituzionale con la sentenza n. 85 del 2008 ha dichiarato, tra l’atro, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva.

La norma censurata è stata ritenuta dalla Corte costituzionale, tra l’altro, lesiva dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, stante l’equiparazione di esiti decisori tra loro ampiamente diversificati – quali quelli ricompresi nel genus delle sentenze di proscioglimento – nel medesimo regime di inappellabilità da parte dell’imputato, «anche quando le stesse comportino una sostanziale affermazione di responsabilità o attribuiscano, comunque, il fatto al prosciolto, così da rendere configurabile un suo interesse all’impugnazione».

La Consulta rileva, infatti, che la categoria delle sentenze di proscioglimento non costituisce un genus unitario, ma abbraccia ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all’attitudine lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto. A fianco di decisioni ampiamente liberatorie – quelle pronunciate con le formule «il fatto non sussiste» e l’«imputato non lo ha commesso» – detta categoria comprende, difatti, sentenze che, pur non applicando una pena, comportano – in diverse forme e gradazioni – un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato o, comunque, l’attribuzione del fatto all’imputato medesimo. Tra le fattispecie paradigmatiche di proscioglimento lesivo di interessi morali, la Corte richiama proprio la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione.

Risolutiva, nel giudizio della Consulta, è la considerazione dei pregiudizi “sia di ordine morale che di ordine giuridico” che talune sentenze di proscioglimento possono arrecare all’imputato, rilevando che il pregiudizio di ordine morale può risultare, in taluni casi, persino superiore a quello derivante da una sentenza di condanna, e che i pregiudizi di ordine giuridico conseguono all’accertamento di responsabilità o comunque di attribuibilità del fatto all’imputato, contenuto nelle sentenze in questione che – ancorché privo di effetti vincolanti – pesa comunque in senso negativo su giudizi civili, amministrativi o disciplinari connessi al medesimo fatto.

Riguardo alla possibile irragionevolezza dell’inammissibilità delle revisione (di alcune) delle sentenze di proscioglimento pregiudizievoli agli “interessi morali” del prosciolto, si richiamano, inoltre, le sentenze n. 1 del 1969 e n. 28 del 1969 della Corte Costituzionale che sia pure con riferimento al codice di rito abrogato, hanno valorizzato la funzione della revisione di tutela “dell’onorabilità e della dignità morale del soggetto”, mettendo in luce il nesso sussistente tra l’istituto della revisione e l’esigenza di riparazione dell’errore giudiziario espressa dal principio enunciato dall’ultimo comma dell’art. 24 della Costituzione, quale coerente sviluppo del più generale principio di tutela dei “diritti inviolabili dell’uomo” (Corte cost. sent. n. 1 del 1969); qualificando la revisione, nell’ambito del sistema delle impugnazioni penali, quale «mezzo straordinario di difesa del condannato» ingiustamente, preordinato alla riparazione degli errori giudiziari, che «risponde all’esigenza, di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità» (Corte cost. sent. n. 1 del 1969).

In particolare la Consulta nella sentenza n. 28 del 1969 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per la lesione del principio di uguaglianza, dell’art. 553, n. 2, del codice di procedura penale previgente, nella parte in cui limitava il diritto di chiedere la revisione di condanna per contravvenzione al solo caso che, in conseguenza di essa, il condannato sia stato dichiarato contravventore abituale o professionale) ha ritenuto in evidente violazione del principio di eguaglianza l’esclusione dal diritto all’accertamento dell’errore giudiziario di coloro che siano stati condannati per contravvenzione e non siano stati dichiarati, in conseguenza, contravventori abituali o professionali, in quanto le possibili conseguenze della condanna per contravvenzione dimostrano come in molti casi, diversi da quelli contemplati dal legislatore nell’art. 553, n. 2, del codice di procedura penale abrogato, «la condanna per contravvenzione possa causare serio pregiudizio non solo alla libertà e al patrimonio, ma anche alla onorabilità e alla dignità morale e sociale dei soggetti. Beni morali che devono essere tutelati di fronte alla riprovazione sociale, la quale, anche indipendentemente dalla specie e dalla misura della pena inflitta, accompagna la dichiarazione giudiziale di colpevolezza in ordine a taluni reati contravvenzionali».

Anche nella sentenza n. 236 del 1976 (che ha dichiarato costituzionalmente illegittima, per violazione dell’art. 3 Cost., la disciplina risultante dagli artt. 203, 553 e 554 codice procedura penale abrogato, nella parte in cui non consentiva che la sentenza emessa in sede di revisione in favore di un condannato potesse spiegare l’effetto estensivo nei confronti di chi, imputato di concorso nello stesso reato, ne fosse stato assolto per insufficienza di prove) la valutazione della Corte si incentra sulle conseguenze della sentenza di proscioglimento per insufficienza di prove, pregiudizievoli per l’imputato non solo sul piano strettamente giuridico, ma anche sul piano dei suoi “interessi morali”, comportando per l’imputato – quantunque assolto – una serie di conseguenze sfavorevoli sia sul piano etico sia sul piano strettamente giuridico, che possono determinare un serio ostacolo al pieno reinserimento dell’imputato nella vita sociale.

Laddove si ravvisasse a fondamento della revisione un’esigenza di tutela non solo della libertà personale ma altresì degli interessi morali del soggetto sottoposto a procedimento penale definito con sentenza irrevocabile, potrebbe ritenersi, in linea con la tesi esposta da autorevole dottrina (Jannelli, Art. 629 c.p.p., in Commentario al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, VI, Torino, 1991; Jannelli, La revisione, in Le impugnazioni, Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da Chiavario e Marza-duri, Torino 2005; Rombi, Riflessioni in tema di revisione del giudicato penale, in Riv. dir. proc. 2011, 1167; Scalfati, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, Padova 1995; Spangher, voce Revisione, in Dig. pen., 1997, vol XII) irragionevole la limitazione dell’istituto alle sole sentenze di condanna agli effetti penali, e l’esclusione del rimedio straordinario per le sentenze di proscioglimento che presuppongano un accertamento della penale responsabilità dell’imputato, come quella con cui il giudice d’appello dichiari non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato e confermi, ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., le statuizioni civili contenute nella sentenza di primo grado, previa valutazione della sussistenza dei presupposti necessari all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, secondo i principi espressi dalle Sezioni Unite Tettamanti (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273).

5. Le Sezioni Unite Milanesi nell’ambito della progressiva estensione dei rimedi revocatori ad opera della giurisprudenza delle Sezioni Unite penali.

Le Sezioni Unite con la sentenza Milanesi si collocano nell’ambito di una progressiva tendenza ad estendere i rimedi revocatori del giudicato oltre i limiti imposti dall’interpretazione tradizionale, strettamente letterale, delle disposizioni che li disciplinano: è stato, infatti, ampliato l’ambito di applicazione dei rimedi revocatori, tanto sotto il profilo oggettivo, attinente ai provvedimenti che ne possono costituire oggetto o ai casi in cui tali rimedi possono essere attivati, quanto sotto quello soggettivo, attinente ai soggetti che sono legittimati ad esperirli.

In particolare, le Sezioni Unite, nella sentenza “Pisano” (Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, Pisano, Rv. 220443), chiamate a risolvere il contrasto in ordine all’interpretazione dell’art. 630, lett. c), cod. proc. pen., hanno ritenuto che per “prove nuove” devono intendersi non quelle sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna o scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite, ma non valutate neanche implicitamente, indipendentemente dalla circostanza che l’omessa conoscenza da parte del giudice sia imputabile a un comportamento processuale negligente o addirittura doloso del condannato, rilevante solo ai fini del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario.

Tale sentenza, intervenuta proprio in tema di revisione, contiene importanti affermazioni in ordine al fondamento dell’istituto della revisione e ai suoi rapporti con il giudicato.

Il fondamento della revisione viene ricondotto alla disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 24 della Costituzione, ricordando come secondo la Corte costituzionale (pronunciatasi con riferimento all’assetto normativo disciplinato dal codice abrogato) esso «riflette il principio di giustizia sostanziale rispondente alla “esigenza di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità” (sentenza n. 28 del 1969)», e ritenendo, quindi, che l’istituto della revisione ha una valenza costituzionale, avendo il Costituente avuto di mira l’esigenza primaria che l’errore giudiziario sia riparato, prima ancora che attraverso il pagamento di una somma di danaro (art. 643, comma 2, cod. proc. pen.), consentendo al condannato di introdurre strumenti costituzionalmente adeguati perché, all’esito della procedura di revisione, possa essere affermata la sua innocenza.

La base giustificativa del giudicato viene, invece, ravvisata nell’«esigenza di certezza e di stabilità delle decisioni giurisdizionali quali fonti regolatrici di relazioni giuridiche e sociali», di natura eminentemente pratica, con la conseguenza che l’ordinamento, con precise scelte di politica legislativa, ben può sacrificare il valore del giudicato in nome di esigenze che rappresentano l’espressione di valori superiori, quale quello costituito proprio dalla necessità dell’eliminazione dell’errore giudiziario.

I precisi limiti posti alla revisione dalla legge processuale hanno, secondo le Sezioni Unite Pisano, come ratio quella di realizzare un equilibrato bilanciamento tra l’interesse pubblico alla riparazione degli errori giudiziari e «l’interesse fondamentale in ogni ordinamento alla certezza e stabilità delle situazioni giuridiche ed all’intangibilità delle pronunzie giurisdizionali di condanna, che siano passate in giudicato” (sentenza costituzionale n. 28 del 1969)». E il compito essenziale dell’interprete consiste, perciò, nel porre in luce i termini di tale bilanciamento e nel ricostruire le linee portanti della normativa vigente, che sottendono precise scelte di valore tra gli interessi in conflitto.

Le Sezioni Unite Marani e Nunziata si sono invece pronunciate sull’ambito applicativo del ricorso straordinario per errore di fatto avverso le sentenze della Corte di cassazione di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen. 

In particolare, le Sezioni Unite Marani (Sez. U, n. 28719 del 21/06/2012, Marani, Rv. 252695) – intervenendo sull’interpretazione della nozione di “condannato” di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen. - hanno ritenuto sussistente la legittimazione anche del condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativamente al capo concernente le statuizioni civili.

Il richiamo di tale arresto – sebbene relativo a un diverso rimedio, sia pure anch’esso straordinario – si rende quanto mai opportuno trattandosi di una sentenza che, attenendo all’interpretazione della locuzione “condannato” quale legittimato alla proposizione del ricorso straordinario per errore di fatto, è richiamata da entrambi i contrastanti orientamenti della Corte in rassegna.

Gli argomenti offerti a sostegno delle contrapposte interpretazioni nel contrasto sottoposto e risolto dalle Sezioni Unite Marani, in ordine al significato da attribuire al termine “condannato” di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen., presentano, infatti, notevoli affinità con (e sono quasi sovrapponibili a) quelli addotti a fondamento dei contrapposti orientamenti nel contrasto sottoposto e risolto dalle Sezioni Unite Milanesi.

Di conseguenza la sentenza Marani affronta temi di rilievo ai fini della questione risolta dalle Sezioni Unite Milanesi, tra i quali si evidenziano, quelli:

a) dell’identità delle garanzie processuali a prescindere dalla sede, civile o penale, in cui viene proposta l’azione civile;

b) dell’ontologica identità di diritti processuali dell’imputato in quanto tale e in quanto evocato in giudizio sulla base dell’azione civile esercitata in sede penale.

Le Sezioni Unite Marani hanno aderito all’orientamento che ritiene che anche il condannato ai soli effetti civili sia legittimato alla proposizione del ricorso straordinario per errore di fatto – nonostante l’indicazione emergente dai lavori parlamentari di «una sicura scelta del legislatore tesa a circoscrivere la platea dei soggetti legittimati ad avvalersi del ricorso straordinario, secondo una linea di inespressa – ma percepibile – tendenza assimilativa all’istituto della revisione» – trattandosi di orientamento “meglio rispondente ai principi affermati al riguardo dalla giurisprudenza costituzionale”, cioè alla ratio di fondo che ha ispirato la novella, e che ne deve orientare la lettura, in aderenza ai valori costituzionali cui la stessa ha dichiaratamente inteso ispirarsi.

Il richiamo è in primo luogo alla pronuncia n. 395 del 2000 della Corte costituzionale con cui fu sottolineato come l’impossibilità di far valere l’errore di tipo percettivo in cui sia incorsa la Corte di cassazione si porrebbe in palese contrasto non soltanto con l’art. 3 Cost., ma anche con l’art. 24 Cost., per di più sotto uno specifico e significativo aspetto quale è quello di assicurare l’effettività del giudizio di cassazione, cioè del diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema (“diritto al processo in cassazione”), costituzionalmente tutelato dall’art. 111 Cost.

In secondo luogo, il richiamo involge la sentenza n. 207 del 2009 che ha rilevato come la precedente pronuncia n. 395 del 2000 aveva determinato il riallineamento dei rimedi contro gli errori di fatto della Corte di cassazione, nei settori del processo civile e di quello penale.

Quindi, secondo le Sezioni Unite, i principi affermati dalla Corte costituzionale non soltanto denotano «il primario risalto dei valori che quei principi chiamavano in causa», ma dimostrano anche «la sostanziale identità delle garanzie processuali che ne devono presidiare la effettività, a prescindere dalla sede – penale o civile – in cui l’eventuale errore di tipo percettivo della Corte di cassazione si sia trovato ad incidere».

In sostanza le Sezioni Unite Marani ritengono che, in base ai principi affermati dalla Corte costituzionale, il rimedio di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen. sia “costituzionalmente imposto”, dagli artt. 24 e 111 cost., ( «nel quadro di un fascio di diritti che coinvolge, ad un tempo, il principio di uguaglianza, quello di effettività della difesa in ogni stato e grado del processo, il diritto alla riparazione degli errori giudiziari, nonché quello al controllo effettivo in sede di legittimità di tutte le sentenze) che danno rilievo costituzionale al diritto a fruire di un giudizio di legittimità non compromesso dall’errore di fatto, e che il rilievo costituzionale di tale “diritto al processo in cassazione” valga tanto con riferimento al processo penale quanto con riferimento al processo civile.

Con la conseguenza che un’interpretazione che privasse la parte del processo penale condannata ai soli effetti civili del rimedio contro gli errori di fatto della Corte di cassazione lederebbe un suo diritto di rilevanza costituzionale, oltre a determinarne una irragionevole disparità di trattamento a seconda della sede, civile o penale, in cui la controparte decidesse di esercitare l’azione civile, lasciandola sprovvista di un rimedio (giova ripeterlo: costituzionalmente imposto) in ragione esclusivamente della scelta della sede processuale operata dalla controparte, la quale diventerebbe arbitra rispetto all’operatività o meno di una garanzia costituzionale.

Gli argomenti usati dalle Sezioni Unite Marani, relativi alla “ontologica identità di diritti processuali” che devono assistere l’imputato, sia quale soggetto nei cui confronti è esercitata l’azione penale sia quale soggetto nei cui confronti è esercitata l’azione civile, e alla sua “irragionevole disparità di trattamento” ove l’operatività della garanzia contro gli errori di fatto della Corte di cassazione dipendesse dalla scelta, operata dalla controparte, della sede (civile o penale) in cui esercitare l’azione di risarcimento danni, appaiono, nel ragionamento del Supremo consesso, intimamente connessi al rilievo attribuito alla garanzia in questione dalla Costituzione, tanto nel processo penale quanto nel processo civile. Con la conseguenza che non sembrano automaticamente trasponibili nella soluzione del contrasto in rassegna.

Peraltro, a conferma della non automatica trasponibilità degli argomenti relativi alla “ontologica identità di diritti” e alla “irragionevole disparità di trattamento”, appare opportuno richiamare la già citata giurisprudenza costituzionale, che non ritiene irragionevole qualsiasi disparità di trattamento derivante dall’esercizio in sede penale dell’azione civile che privi l’imputato-convenuto di poteri che la disciplina del processo civile gli riconosce, ravvisando casi in cui esse possono essere giustificate ragioni attinenti alla struttura e alla funzione del processo penale.

Sempre in tema di ricorso straordinario per errore di fatto le Sezioni Unite Nunziata (Sez. un., n. 13199 del 21/07/2016 – dep. 2017 –, Nunziata, Rv. 269788-269789-269790269791) – pure intervenendo sull’interpretazione della nozione di “condannato” di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen. – hanno esteso l’ambito oggettivo del rimedio chiarendo che lo stesso è esperibile non soltanto avverso le sentenze della Corte di cassazione che determinino l’irrevocabilità di una sentenza di una condanna, ma altresì avverso la sentenza con cui la Corte di cassazione dichiara inammissibile o rigetta il ricorso contro la decisione della Corte d’appello che, a sua volta, abbia dichiarato inammissibile ovvero rigettato la richiesta di revisione dello stesso condannato; ciò in quanto quel che rileva, ai fini della proponibilità del ricorso straordinario per errore di fatto, è che la decisione della Corte di cassazione contribuisca alla “stabilizzazione” del giudicato, a prescindere dal momento in cui si sia formato: «Deve trattarsi di un provvedimento che, collocandosi nel cono d’ombra dell’accertamento della responsabilità penale (o anche civile) della persona interessata, riaffermi comunque l’ambito del giudicato stesso. È in questo senso che deve essere inteso lo status di condannato cui si riferisce l’art. 625-bis cod. proc. pen.».

Anche nel caso sottoposto alle Sezioni Unite Nunziata il contrasto verteva sull’interpretazione del termine “condannato” con cui l’art. 625-bis cod. proc. pen. individua il soggetto legittimato a proporre il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso le pronunce della Corte di cassazione.

Secondo un primo orientamento, infatti, stante la natura eccezionale della norma di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen., oggetto dell’impugnazione straordinaria potevano essere esclusivamente quei provvedimenti della Corte di cassazione che rendessero definitiva una sentenza di condanna, con la conseguenza che il ricorso straordinario non veniva ritenuto ammissibile contro la sentenza della Corte di cassazione che disattendesse il ricorso proposto contro un’ordinanza dichiarativa d’inammissibilità di una richiesta di revisione.

Secondo un’altra interpretazione, invece, il ricorso straordinario per errore di fatto era da ritenersi ammissibile anche avverso le decisioni della Corte conclusive di un giudizio di revisione, dovendosi ritenere che la nozione di “condannato” comprendesse non solo chi “diventa” per la prima volta (irrevocabilmente) condannato per effetto di una decisione della Corte, ma anche colui che è già condannato irrevocabilmente e lo “rimane” per effetto di una decisione negativa della Cassazione che produca l’effetto di confermare tale condizione giuridica.

Tale pronuncia è espressamente richiamata dall’orientamento maggioritario che esclude la legittimazione alla revisione del condannato ai soli effetti civili, per quanto espresso in tema di revisione.

Nella motivazione della sentenza delle Sezioni Unite Nunziata, tuttavia, sembra assumere rilievo centrale, come in quella delle Sezioni Unite Marani, la considerazione della tutela costituzionale dell’effettività del diritto al processo in Cassazione, sebbene la sentenza sia incentrata anche sul tema della revisione, in ragione del fatto che la questione controversa atteneva proprio all’esperibilità del rimedio straordinario avverso le sentenze della Corte di cassazione intervenute nel procedimento di revisione.

La sentenza invero, recependo i principi espressi dalle Sezioni Unite Pisano e dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 28 del 1969 (questi ultimi già recepiti dalle Sezioni Unite Pisano) non sembra contenere principi innovativi in tema di revisione, da cui trarre argomenti in favore dell’una o dell’altra tesi.

I passaggi della motivazione della sentenza delle Sezioni Unite Nunziata che sembrano riferire il giudizio di revisione alle sole sentenze di condanna agli effetti penali, non sembrano, quindi, suscettibili di una particolare valutazione ai fini della soluzione del contrasto in rassegna, in quanto le Sezioni Unite Nunziata, nell’affrontare la questione, sembrano limitarsi a fare riferimento a quello che è il caso “tradizionale” di revisione (cioè la revisione della condanna penale), e a recepire i principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità in tema di revisione, senza affrontare in alcun modo la questione, oggi risolta dalle Sezioni Unite, in relazione alla quale, peraltro, il contrasto era emerso in data successiva alla pronuncia della sentenza Nunziata.

Le ragioni che giustificano l’ammissibilità a favore del condannato della richiesta ex art. 625-bis cod. proc. pen. per la correzione dell’errore di fatto contenuto nella sentenza con cui la Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile o rigettato il suo ricorso contro la decisione negativa della corte di appello pronunciata in sede di revisione, vengono, infatti, individuate dalle sezioni Unite Nunziata:

- nelle “esigenze che rappresentano l’espressione di valori superiori” da ritenersi prioritarie rispetto alla regola dell’intangibilità del giudicato, e cioè nell’esigenza, «di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità» (Corte cost., sent. n. 28 del 1969), a cui risponde l’istituto della revisione, che ha portato alla crisi dell’intangibilità del giudicato anche con riferimento a situazioni diverse dalla revisione (Sez. U, Ercolano; Sez. U, Gatto; Sez. U, Marcon) e che ha giustificato il tendenziale allargamento degli spazi riconosciuti al ricorso straordinario per errore di fatto;

- nell’esigenza di assicurare l’effettività del giudizio di legittimità, che la Corte costituzionale ha indicato come obiettivo da raggiungere attraverso la previsione di meccanismi in grado di rimediare agli errori della Cassazione (Corte cost., sent. n. 395 del 2000).

Proprio in considerazione dell’esigenza di tutela dell’innocente, posta a tutela di diritti inviolabili della persona, e a fondamento dell’istituto della revisione, le Sezioni Unite evidenziano l’effetto paradossale prodotto dall’interpretazione espressa dall’orientamento maggioritario: «lo status di condannato legittima la richiesta di revisione, ma la stessa condizione non legittimerebbe il ricorso ex art. 625-bis nell’ambito della medesima procedura, con la conseguenza che nel giudizio di legittimità, comunque funzionale a stabilizzare e a ribadire il giudicato di condanna, non sarebbe azionabile alcun rimedio contro l’errore di fatto».

Peraltro, con riferimento all’effettività del giudizio di legittimità, indicata dalla Consulta come esigenza imposta dagli articoli 3, 24 e 111 Cost., le Sezioni Unite rilevano che siccome il giudizio di revisione, a differenza delle procedure incidentali o di quelle esecutive, si caratterizza come lo strumento generale, ancorché straordinario, di rimozione degli effetti di una decisione irrevocabile erronea, la decisione della Corte di cassazione che definisce la procedura, si pone in una condizione assai simile a quelle terminative del giudizio di cognizione, per le quali il ricorso straordinario ex art. 625-bis è pacificamente ammesso, con la conseguenza che «negare il rimedio straordinario per errore di fatto equivale a non assicurare la effettività del giudizio di legittimità, quell’effettività che la Corte costituzionale indicò come obiettivo da raggiungere attraverso la previsione di meccanismi in grado di rimediare agli errori della Cassazione (Corte cost., sent. n. 395 del 2000)».

Nell’ambito di tale tendenza alla progressiva erosione del dogma dell’intangibilità del giudicato si collocano, anche, ulteriori recenti arresti delle Sezioni Unite della Corte, che hanno individuato rimedi all’irrevocabilità delle decisioni penali per garantire la legalità della pena.

Così, le Sezioni Unite Ercolano (Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013 – dep. 2014 –, Ercolano Rv. 258649-258650-258651) hanno ritenuto che non può essere ulteriormente eseguita, ma deve essere sostituita con quella di anni trenta di reclusione, la pena dell’ergastolo inflitta all’esito di giudizio abbreviato, in base all’art. 7 del d.l. 24 novembre 2000, n. 341 (convertito con modificazioni dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4) anche se la condanna è divenuta irrevocabile prima della dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale norma, in quanto il divieto di dare esecuzione a una pena contemplata da una norma, anche diversa da quella incriminatrice, dichiarata incostituzionale prevale sul giudicato in base all’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87.

Le Sezioni Unite Gatto (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto Rv. 260695-260696-260697260698-260699-260700) proseguono sulla stessa linea di consentire la rideterminazione, da parte del giudice dell’esecuzione, della pena inflitta in base a una norma penale – diversa da quella incriminatrice ma incidente sul trattamento sanzionatorio – dichiarata incostituzionale in epoca successiva a quella in cui la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile, aprendo tale possibilità anche al caso in cui il provvedimento “correttivo” da adottare non sia a contenuto predeterminato, come nel caso in cui si debba effettuare il giudizio di bilanciamento tra circostanze, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma quinto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Infine, le Sezioni Unite Marcon (Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, 264857 – 264858 – 264859) hanno ritenuto sussistente il potere del giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena nel caso di dichiarazione di incostituzionalità, successiva al giudicato, della norma penale diversa da quella incriminatrice, anche in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti, individuando le modalità attraverso le quali il giudice dell’esecuzione debba procedere in tal caso.

Dall’esame di tali sentenze emerge, in primo luogo, che le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno ritenuto che la revisione abbia il suo fondamento costituzionale nell’art. 24, quarto comma Cost. (Sezioni Unite Pisano e Sezioni Unite Nunziata).

In secondo luogo che le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno ritenuto centrale il significato di garanzia individuale del giudicato penale, cioè l’esigenza sottesa al giudicato penale di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera individuale, che si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem, impedendo la celebrazione di un nuovo processo per il medesimo fatto e imponendo al giudice di pronunciare in ogni stato e grado del processo sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, se, nonostante tale divieto, viene di nuovo iniziato procedimento penale (Sezioni Unite Gatto).

Secondo le Sezioni Unite la (tendenziale) intangibilità del giudicato penale sull’accertamento del fatto ha un fondamento costituzionale soltanto nella sua dimensione di garanzia, con la conseguenza che laddove venga in questione l’esigenza di tutela di certezza dei rapporti giuridici, pure sottesa al giudicato, quest’ultimo è recessivo nel bilanciamento con altri principi costituzionali posti a tutela dell’individuo (Sezioni Unite Marcon).

Conseguentemente le Sezioni Unite hanno dato rilievo a valori costituzionali preminenti rispetto a quelli a fondamento del giudicato penale, quali la tutela dell’innocente nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità (Sezioni Unite “Pisano” e “Nunziata”), i diritti della persona, preminenti rispetto all’autorità formale del giudicato, fondata sull’esigenza pratica di assicurare stabilità e certezza agli esiti dei procedimenti penali (Sezioni Unite Pisano e Gatto), la garanzia dell’effettività del diritto alla processo in Cassazione (Sezioni Unite Marani e Nunziata), la tutela della libertà personale (Sezioni Unite Ercolano).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, Pisano, Rv. 220443 Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273 Sez. 5, n. 2393 del 2/12/2010, Pavesi, Rv. 249781 Sez. 3, n. 24155 del 3/03/2011, Bernardelli, Rv. 250631 Sez. U, n. 28719 del 21/06/2012, Marani, Rv. 252695 Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013 – dep. 2014 –, Ercolano Rv. 258649-650-651 Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto Rv. 260695-696-697-698-699-700 Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, 264857-758-759 Sez. 2, n. 8864 del 23/02/2016, Martelli Sez. U, n. 13199 del 21/07/2016 – dep. 2017 –, Nunziata, Rv. 269788-789-790-791 Sez. 5, n. 46707 del 3/10/2016 Panizzi, Rv. 269939 Sez. 2, n. 2656 del 9/11/2016, Calabrò, Rv. 269528 Sez. 2, n. 53678 del 25/10/2017, Ricupati, Rv. 271367

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 28 del 1969 Corte cost., sent. n. 236 del 1976 Corte cost., sent. n. 353 del 1994 Corte cost., sent. n. 94 del 1996 Corte cost., sent. n. 112 del 1998 Corte cost., sent. n. 75 del 2001 Corte cost., ord. n. 300 del 2004 Corte cost., sent. n. 168 del 2006 Corte cost., sent. n. 85 del 2008 Corte cost., sent. n. 129 del 2008 Corte cost., sent. n. 239 del 2009 Corte cost., sent. n. 113 del 2011 Corte cost., sent. n. 49 del 2015 Corte cost., sent. n. 34 del 2018

SEZIONE VII ESECUZIONE

  • detenuto
  • esecuzione della pena

CAPITOLO I

GIUDIZIO ESECUTIVO E PRECLUSIONE PROCESSUALE

(di Francesca Costantini )

Sommario

1 La questione rimessa alle Sezioni Unite. - 2 La natura del contrasto. - 3 La giurisprudenza sulla applicazione estensiva dell’art. 184 cod. pen.  - 4 Le pronunce che hanno escluso l’applicazione estensiva del parametro di cui all’art. 184 cod. pen. in ipotesi di commutazione dell’ergastolo in pena temporanea. - 5 Le pronunce che hanno ammesso l’applicazione estensiva del parametro di cui all’art. 184 cod. pen. in tema di concessione di benefici penitenziari. - 6 Il riconoscimento della preclusione processuale. - Indice delle sentenze citate

1. La questione rimessa alle Sezioni Unite.

La Prima Sezione penale della Corte di cassazione, con ordinanza n. 991 del 11/12/2017, ha rimesso alle Sezioni unite la questione volta a stabilire se, quando la pena dell’ergastolo è revocata in sede esecutiva e sostituita con la pena di anni trenta di reclusione, ai fini dell’eventuale scissione del cumulo giuridico, la pena detentiva temporanea inflitta per reati concorrenti, in relazione alla quale sia stato applicato l’isolamento diurno già interamente subito, debba considerarsi espiata per intero ovvero – in applicazione analogica dell’art. 184 cod. pen. - nella misura della metà.

In particolare, nel caso all’esame, l’istante aveva riportato più condanne a pene temporanee nonché una condanna alla pena dell’ergastolo.

Il giudice dell’esecuzione aveva disposto la conversione delle pene temporanee in isolamento diurno, interamente espiato, e in virtù delle note ricadute della decisione della Corte EDU relativa al caso Scoppola contro Italia, la condanna alla pena dell’ergastolo (relativa al giudizio celebrato in rito abbreviato), era stata convertita in condanna alla pena di anni trenta di reclusione.

Il condannato, pertanto, chiedeva che gli venisse applicato l’indulto, non sulle pene concorrenti con l’ergastolo, convertite in isolamento diurno e già espiate, bensì sulla pena di anni trenta di reclusione, sostenendo che l’unica condizione cui poteva dirsi subordinata la condonabilità dell’isolamento diurno, era che le pene concorrenti ex art. 72, secondo comma, cod. pen. – che ne avevano determinato l’applicazione – non fossero state inflitte per reati ostativi, come era da escludere nel caso di specie.

2. La natura del contrasto.

La Sezione rimettente, con l’ordinanza indicata, ha preliminarmente evidenziato di condividere il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale, in caso d’incidenza dell’indulto su pene detentive concorrenti, assoggettate a cumulo giuridico, quest’ultimo deve essere sciolto e sul cumulo materiale per l’effetto ripristinato, previa individuazione delle pene condonabili, deve essere scorporata la quota/parte estinta per effetto dell’indulto (e quindi non più concretamente eseguibile); e sulla pena residuata devono essere nuovamente applicati, se del caso, i criteri moderatori previsti dalla legge penale (in tal senso, Sez. 1, n. 4893 del 04/05/2016, dep. 2017, Gianfreda, Rv. 269410; Sez. 1, n. 32017 del 17/05/2013, Giuliano, Rv. 256296; Sez. 1, n. 8552 del 23/01/2013, Piccolo, Rv. 254929; Sez. F, n. 32955 del 29/07/2008, Marra, Rv. 240610; Sez. 1, n. 12709 del 06/03/2008, Di Giovanni, Rv. 239377). Ha tuttavia evidenziato che, nel caso esaminato, essendo già intervenuta l’espiazione dell’isolamento diurno e dunque delle pene temporanee in esso convertite, qualora si fosse consentito il pieno ed incondizionato recupero delle pene già assorbite nella sanzione ormai scontata si sarebbe realizzata un’inaccettabile duplicazione del trattamento sanzionatorio, in violazione del diritto di non essere giudicato o punito due volte, sancito dall’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione EDU, in armonia con la quale il nostro ordinamento giuridico deve essere sistematicamente interpretato.

Ai fini della risoluzione della questione, la Sezione rimettente ha dunque ritenuto di poter valutare la estensibilità al caso concreto, dell’opzione interpretativa elaborata dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla diversa questione della verifica della eventuale intervenuta espiazione della pena temporanea inflitta per reato ostativo e tradottasi in isolamento diurno, ai fini della concessione dei benefici penitenziari.

Sul punto, infatti, la Corte regolatrice, ha escluso la soluzione dell’addizione dell’intera durata della pena inflitta per il reato ostativo prima della commutazione in isolamento diurno, ma ha anche escluso che il calcolo della pena espiata per il reato ostativo possa essere effettuato in base alla sola durata dell’isolamento diurno, giungendo ad una soluzione intermedia implicante l’applicazione del parametro di calcolo previsto dall’art. 184 cod. pen. per l’ipotesi in cui la pena dell’ergastolo si sia estinta in forza di provvedimenti clemenziali, sul presupposto per cui la pena per il reato concorrente si debba considerare ridotta alla metà.

Secondo tale avviso giurisprudenziale, infatti, pur riferendosi l’art. 184 cod. pen. ad uno scioglimento del cumulo imputabile a situazioni diverse, sarebbe ravvisabile tra le fattispecie un’identità di ratio da individuarsi nell’esigenza di realizzare l’equo contemperamento tra la necessità, da un lato, di evitare trattamenti di favore per chi sia stato condannato all’ergastolo e a pene temporanee, rispetto a chi sia stato condannato soltanto a queste ultime; e, dall’altro, di considerare adeguatamente il peso afflittivo di una sanzione tanto dura e considerevolmente più gravosa della normale detenzione, da essere prevista con un massimo assoluto di soli tre anni, la decima parte del massimo previsto per la reclusione (Sez. 1, n. 18119 del 02/03/2010, Cuccuru, Rv. 24706; Sez. 1, n. 38462 del 19/09/2012, Mele, Rv. 253453; Sez. 1, n. 22090 del 07/05/2013, Pischedda, Rv. 256541).

La Prima sezione ha però escluso di poter condividere tale linea interpretativa evidenziando la diversità di ratio che caratterizza le due fattispecie esaminate nonché gli esiti in malam partem che conseguirebbero all’applicazione analogica della norma in quanto in tutte le situazioni di cumulo giuridico delle pene, il trattamento sanzionatorio mitigato, effetto del cumulo, costituisce la sola pena congrua e legale per tutti i reati oggetto del cumulo stesso mentre in tal caso si consentirebbe il recupero, seppure in parte, di pene da ritenersi prive di fondamento ontologico e legale.

Conclusivamente, il collegio, affermando di prediligere la diversa soluzione ermeneutica dell’estinzione totale delle pene riferite ai reati concorrenti di cui all’art. 72, secondo comma, cod. pen., a seguito dell’intervenuta espiazione dell’isolamento diurno nel quale esse si erano tradotte, con effetto reso da quell’espiazione irreversibile e, prospettando quindi un potenziale contrasto interpretativo, ha ritenuto di dover rimettere la questione alle Sezioni unite.

3. La giurisprudenza sulla applicazione estensiva dell’art. 184 cod. pen. 

Circa la possibilità di addivenire ad una applicazione estensiva del parametro di ragguaglio delineato dal legislatore all’art. 184 cod. pen. non si registra univocità di orientamenti in giurisprudenza.

Sul tema si deve rilevare che le pronunce che si sono espresse in termini favorevoli attengono tutte alla tematica dello scioglimento del cumulo ai fini della concessione di benefici penitenziari in presenza di pena perpetua e pena detentiva temporanea inflitta per reato ostativo e sul punto non si rinvengono arresti difformi. Le sentenze, invero assai ridotte, che hanno invece escluso l’estensibilità della richiamata disposizione si riferiscono alla diversa ipotesi di intervenuta commutazione dell’ergastolo in pena temporanea.

4. Le pronunce che hanno escluso l’applicazione estensiva del parametro di cui all’art. 184 cod. pen. in ipotesi di commutazione dell’ergastolo in pena temporanea.

Nel senso di escludere la portata estensiva dell’art. 184 cod. pen., si sono espresse:

- Sez. 1, n. 24454 del 2016, Guzzetta, non mass., relativa ad un caso in cui il condannato, essendo stato l’ergastolo commutato in pena detentiva temporanea, deduceva di avere espiato ingiustamente il periodo di isolamento diurno rimasto privo di titolo giustificativo e richiedeva che questo si computasse in fungibilità nella pena ancora espianda. In tale arresto si è precisato che l’isolamento diurno pur essendo una sanzione penale vera e propria, non costituisce una autonoma detenzione, ma una punizione per reati concorrenti con quello punito con l’ergastolo che implica la espiazione di una pena inasprita, legittima al tempo della sua applicazione e non certo una pena ulteriore che si è aggiunta a quella dell’ergastolo. E ciò proprio perché quell’isolamento diurno era patito in luogo di altre pene che concorrevano con quella dell’ergastolo. Con riferimento poi al problema relativo alla possibilità di applicare estensivamente la disposizione di cui all’art. 184 cod. pen., in tale pronuncia si è osservato che tale ipotesi riguarda l’estinzione dell’ergastolo esclusivamente in caso di amnistia, indulto o grazia, non ricorrenti affatto nella fattispecie esaminata;

- Sez. 1, n. 5784 del 2016, Ficara, non mass. sul punto, concernente un caso analogo a quello considerato, in cui la conversione dell’ergastolo in pena temporanea era conseguita quale effetto della decisione della Corte EDU relativa al caso Scoppola contro Italia, ha sottolineato la totale distonia tra il caso esaminato e il contenuto della disposizione di cui all’art. 184 cod. pen., da ritenersi applicabile esclusivamente allorquando non sia più in esecuzione alcuna pena per il delitto già sanzionato con l’ergastolo (oggetto di estinzione per amnistia, indulto o grazia) e dunque non estensibile al caso esaminato diverso anche da quello concernente il superamento della condizione ostativa all’accesso ai permessi premio in cui la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile una dilatazione interpretativa della norma.

5. Le pronunce che hanno ammesso l’applicazione estensiva del parametro di cui all’art. 184 cod. pen. in tema di concessione di benefici penitenziari.

Come sopra rilevato, si rinviene in giurisprudenza un orientamento, affermatosi in tema di benefici penitenziari richiesti da condannato in espiazione dell’ergastolo e di pena detentiva temporanea inflitta per reato ostativo, incline ad ammettere, allorché si debba procedere allo scioglimento del cumulo per la verifica della intervenuta espiazione di quest’ultima, un’interpretazione estensiva della disciplina dettata dall’art. 184 cod. pen. 

Si è infatti affermato il principio secondo il quale “in tema di benefici penitenziari, richiesti da condannato in espiazione dell’ergastolo e di pena detentiva temporanea inflitta per reato ostativo, allorché si debba procedere allo scioglimento del cumulo per la verifica della già intervenuta espiazione di quest’ultima, tradottasi, per la concorrenza con la pena perpetua, in applicazione dell’isolamento diurno che sia stato interamente eseguito, si deve avere riferimento alla pena temporanea originariamente inflitta, ridotta della metà (Sez. 1, n. 18119 del 02/03/2010, Cuccuru, Rv. 247068).

In tale arresto si è evidenziato che “quando occorre trasporre al concorso ex art. 72 cod. pen. l’elaborazione in tema di cumulo ex artt. 73 e 78 cod. pen., al fine di verificare, previa necessaria scissione del cumulo, se risultano già espiate le pene per i reati in radice ostativi ai benefici penitenziari, non può non considerarsi la diversità del concorso ex art. 72 cod. pen. e sarebbe intrinsecamente irragionevole non tenere conto in alcun modo dell’intensità afflittiva della sanzione dell’isolamento diurno patito, in luogo delle pene temporanee confluite nel cumulo”.

Si è però al contempo aggiunto che “nell’ipotesi di concorso ex art. 72 cod. pen., in cui il cumulo va idealmente scisso, dovendosi scomputare anche dalla pena dell’ergastolo, la porzione di pena figurativamente riferibile al reato ostativo, sarebbe discriminatorio e asistematico considerare allo stesso modo reclusione e isolamento diurno, non soltanto per la loro diversa afflittività in termini fattuali, ma perché (...) è appunto sulla loro differenza qualitativa che riposa il sistema istituito dall’art. 72 c.p. della commutazione delle pene detentive temporanee di lunga durata in periodi estremamente più brevi di isolamento diurno. Proprio sull’esigenza di sciogliere tale nodo poggia dunque l’affermazione del richiamato principio e la scelta di ricorrere ad una soluzione di sistema, mutuando la disciplina dell’art. 184 cod. pen. e considerando espiata la pena detentiva temporanea per il reato ostativo allorché il condannato all’ergastolo abbia interamente subito l’isolamento diurno ed abbia trascorso complessivamente in detenzione un periodo corrispondente alla metà della pena per esso inflitta in sede di cognizione”. La Corte, infatti, pur considerando la diversità delle situazioni poste a raffronto ne ha ravvisato una identità di ratio da individuarsi in un equo contemperamento tra la necessità di evitare trattamenti di favore per chi sia stato condannato all’ergastolo e a pene temporanee rispetto a chi sia stato condannato soltanto a pene temporanee, e l’esigenza di considerare adeguatamente il peso afflittivo di una sanzione tanto dura e considerevolmente più gravosa della normale detenzione da essere prevista con un massimo assoluto di soli tre anni. Il fatto che non esistessero nel codice altri criteri di ragguaglio o conversione riferibili all’isolamento diurno e che il caso in esame non fosse in alcun modo legislativamente disciplinato, unitamente alla considerazione che le regole applicabili per i benefici penitenziari in caso di cumulo sono tutte frutto di elaborazione giurisprudenziale, è stata così ritenuta tale da avvalorare la necessità di ricorrere alla prospettata soluzione avente base normativa “in una valutazione di corrispondenza dei pesi punitivi che proviene dallo stesso legislatore ed offre il miglior bilanciamento possibile tra le esigenze appena ricordate, di adeguatezza, proporzione e ragionevole parità del trattamento punitivo”.

Il principio affermato è stato poi successivamente ribadito in termini adesivi da Sez. 1, n. 38462 del 19/09/2012, Mele, Rv. 253453, nonché da Sez. 1, n. 22090 del 07/05/2013, Pischedda, Rv. 256541, secondo la quale la richiamata sentenza “Cuccuru” ha realizzato una opportuna ricognizione dei dati normativi di diritto sostanziale allo scopo di individuare un criterio legale di calcolo dell’incidenza dell’isolamento diurno già scontato, rappresentando un prezioso punto di equilibrio nella ricostruzione della complessa disciplina esecutiva. Più di recente si devono poi segnalare Sez. 1, n. 18206 del 04/03/2014, Grassonelli, non mass., che pur condividendo il principio ne ha però escluso l’applicabilità nel caso concreto, nonché Sez. 1, n. 988 del 27/09/2017 – dep. 2018 –, Durante, Rv. 271983.

6. Il riconoscimento della preclusione processuale.

Così delineati i contorni della questione controversa, occorre evidenziare che il Supremo consesso non ha avuto la possibilità di risolvere il contrasto formatosi sul punto nella giurisprudenza di legittimità dovendo dichiarare in via preliminare la inammissibilità del ricorso.

Invero, come segnalato nella pronuncia in esame, già in epoca antecedente alla ordinanza di rimessione, la Prima sezione della Corte di cassazione aveva avuto modo di pronunciarsi su altro ricorso proposto dal ricorrente in ordine alla medesima questione. In particolare, il giudice dell’esecuzione, decidendo su identica istanza, aveva applicato il beneficio dell’indulto, di cui alla legge n. 241 del 2006, sulla pena risultante dalla unificazione delle pene concorrenti, confermando in anni trenta di reclusione la pena da espiare.

Tale decisione era stata confermata dalla corte di assise di appello con ordinanza avverso la quale il condannato aveva proposto ricorso articolando le medesime doglianze, riassumibili sostanzialmente nell’assunto per cui l’isolamento diurno già espiato avrebbe integralmente cancellato la reclusione inserita nel cumulo da eseguire per i titoli reclusivi eccedenti l’ergastolo, che sarebbero pertanto inidonei ad agire sul cumulo materiale delle pene in esecuzione se non determinando una duplicazione della sanzione avuto riguardo al maggior peso e alla speciale afflittività del quantum di pena subito in isolamento diurno.

Il ricorso era stato respinto dalla Prima sezione in considerazione della diversità strutturale tra reclusione e isolamento diurno per cui il ricorrente, scontando l’isolamento diurno avrebbe espiato una pena inasprita ma non ulteriore rispetto all’ergastolo nonché in considerazione della rilevata impossibilità di dare applicazione al criterio di calcolo di cui all’art. 184 cod. pen., evidenziandosi la preclusione di qualsiasi dilatazione interpretativa attesa la evidente divergenza tra le fattispecie in questione.

Poste tali premesse, le Sezioni unite hanno rilevato che il raffronto tra le istanze introduttive dei due incidenti di esecuzione proposti e tra i provvedimenti decisori ponesse chiaramente in evidenza la identità dei temi dedotti e delibati con conseguente operatività nel caso di specie della preclusione derivante dalla precedente decisione della corte di assise di appello resa definitiva dalla pronuncia della Corte di cassazione.

Sul tema, il Supremo collegio ha richiamato gli insegnamenti espressi da Sez. U, n. 18228 del 21/01/2010, Beschi, Rv. 246651, che ha individuato i presupposti applicativi della preclusione in sede di esecuzione penale. In tale pronuncia si è infatti chiarito che, seppure non può espressamente parlarsi di giudicato in relazione ai provvedimenti del giudice dell’esecuzione, di per sé suscettibili di revoca, ragioni di economia ed efficienza processuale impongono la stabilizzazione di siffatto accertamento sicché deve ritenersi inammissibile la richiesta che sia meramente reiterativa delle medesime doglianze e basata sugli stessi elementi di altra già valutata. Tali principi hanno poi trovato ulteriore specificazione nella successiva giurisprudenza delle sezioni semplici in cui risulta ormai consolidato il principio secondo cui “il provvedimento del giudice dell’esecuzione divenuto formalmente irrevocabile preclude, ai sensi dell’art. 666, comma 2, cod. proc. pen., una nuova pronuncia sul medesimo petitum finché non si prospettino elementi che, riguardati per il loro significato sostanziale e non per l’apparente novità della veste formale, possono essere effettivamente qualificati come nuove questioni giuridiche o nuovi elementi di fatto, sopravvenuti ovvero preesistenti, che non abbiano già formato oggetto di valutazione ai fini della precedente decisione” (cfr. tra le altre, Sez. 1, n. 29983 del 31/05/2013, Bellin, Rv. 256406; Sez. 3, n. 50005 del 01/07/2014, Iacomino, Rv. 261394; Sez. 3, n. 6051 del 27/09/2016 – dep. 2017 –, Barone, Rv. 268834).

Sulla medesima linea, ma con specifico riguardo al tema dell’indulto, si è anche affermato che “è inammissibile la richiesta di applicazione dell’indulto proposta dal condannato dopo che analoga richiesta, formulata dal pubblico ministero, sia stata rigettata dal giudice dell’esecuzione, a nulla rilevando che la stessa provenga da soggetto diverso, laddove si tratti della riproposizione di identiche questioni in assenza di nuovi elementi” (Sez. 1 n. 32401 del 21/03/2014, Bruno, Rv. 263213).

Alla luce di tali orientamenti, le Sezioni unite, con la sentenza in esame, n. 40151 del 19/04/2018, Avignone, Rv. 273650, hanno dunque affermato il principio secondo il quale “in tema di esecuzione, è rilevabile anche di ufficio dalla Corte di cassazione la preclusione processuale che, ai sensi dell’art. 606, comma secondo, cod. pen., determina la inammissibilità dell’istanza meramente reiterativa di una domanda già esaminata e che si limiti a riproporre identiche questioni in assenza di nuovi elementi, conseguendone anche la inammissibilità del ricorso per cassazione proposto avverso la decisione esecutiva che l’abbia rigettata nel merito invece di dichiararla inammissibile”.

Applicando tale principio al caso oggetto del procedimento il Supremo collegio ha pertanto dichiarato la inammissibilità del ricorso proposto avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che, omettendo erroneamente di rilevare la preclusione processuale, aveva rigettato nel merito la richiesta di applicazione dell’indulto meramente reiterativa della precedente istanza già respinta con ordinanza avverso la quale il condannato aveva proposto analogo ricorso in cassazione.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. F, n. 32955 del 29/07/2008, Marra, Rv. 240610 Sez. 1, n. 12709 del 06/03/2008, Di Giovanni, Rv. 239377 Sez. 1, n. 18119 del 02/03/2010, Cuccuru, Rv. 247068 Sez. U, n. 18228 del 21/01/2010, Beschi, Rv. 246651 Sez. 1, n. 18119 del 02/03/2010, Cuccuru, Rv. 24706 Sez. 1, n. 38462 del 19/09/2012, Mele, Rv. 253453 Sez. 1, n. 29983 del 31/05/2013, Bellin, Rv. 256406 Sez. 1, n. 22090 del 07/05/2013, Pischedda, Rv. 256541 Sez. 1, n. 32017 del 17/05/2013, Giuliano, Rv. 256296 Sez. 1, n. 8552 del 23/01/2013, Piccolo, Rv. 254929 Sez. 1, n. 32401 del 21/03/2014, Bruno, Rv. 263213 Sez. 3, n. 50005 del 01/07/2014, Iacomino, Rv. 261394 Sez. 1, n. 5784 del 2016, Ficara Sez. 1, n. 24454 del 2016, Guzzetta Sez. 3, n. 6051 del 27/09/2016 – dep. 2017 –, Barone, Rv. 268834 Sez. 1, n. 4893 del 04/05/2016 – dep. 2017 –, Gianfreda, Rv. 269410 Sez. 1, n. 988 del 27/09/2017 – dep. 2018 –, Durante, Rv. 271983 Sez. U, n. 40151 del 19/04/2018, Avignone, Rv. 273650

  • procedura penale
  • responsabilità penale

CAPITOLO II

NE BIS IN IDEM. NUOVE PROSPETTIVE GIURISPRUDENZIALI NEL CONTINUO DIALOGO TRA LE CORTI

(di Matilde Brancaccio )

Sommario

1 Un necessario riepilogo. - 2 Lo spartiacque della sentenza Grande Chambre, A e B contro Norvegia del 2016. - 3 Gli effetti della sentenza A e B contro Norvegia nell’anno 2018: la pronuncia n. 43 del 2018 della Corte costituzionale e le tre sentenze della Corte di Giustizia Europea. - 4 (segue). Le due pronunce più recenti e rilevanti della Corte di cassazione. - 5 Ulteriori scenari prospettici. - Indice delle sentenze citate

1. Un necessario riepilogo.

L’Ufficio del Massimario, con la Relazione di orientamento n. 26 del 21 marzo 2017, aveva tracciato un quadro di sintesi e di approfondimento della questione del ne bis in idem – nel necessario dialogo tra Corti europee, Corte costituzionale e Corte di cassazione – da ultimo all’indomani della sentenza della Corte EDU, Grande Chambre, A e B contro Norvegia del 15 novembre 2016.

Come si ricorderà, si era evidenziato che, se da un lato era indubbio che tale pronuncia della Corte EDU aprisse nuovi orizzonti interpretativi, nonostante le molte critiche formulate nei suoi confronti, soprattutto per la vaghezza dei criteri guida indicati al giudice nazionale, dall’altro, rimaneva aperto nel nostro sistema penale interno, anche dopo l’irrompere nel panorama interpretativo della citata sentenza, la questione sull’individuazione dell’ambito di espansione della matière pénale nel nostro diritto interno, in cui la combinazione tra l’art. 25 della Costituzione e l’art. 1 del codice penale àncora la nozione di illecito penale ad un criterio di stretta legalità formale, in un sistema che stabilisce la riferibilità della qualificazione di una norma come penale al fatto che essa sia formalmente ed espressamente prevista come reato da una legge ed accompagnata da una sanzione catalogabile nel novero delle “pene”.

Tentando una sintesi, certamente non facile, di quel che è accaduto in questi anni più recenti, in una materia con tante implicazioni comparatistiche almeno quanti sono i principali attori giurisprudenziali chiamati alla sua trattazione, deve rammentarsi, perciò, anzitutto, che la discrasia evidenziatasi tra interpretazione convenzionale di ciò che deve ritenersi illecito penale e ciò che, invece, non rientra in tale categoria, secondo il diritto interno del nostro Stato, abbia prodotto una serie di “corti circuiti” nella giurisprudenza interna di merito e di legittimità negli ultimi anni.

Da tale situazione sono scaturiti provvedimenti di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, oltre che questioni di legittimità costituzionale per violazione del parametro interposto di cui all’art. 117 Cost., che nell’anno 2018 hanno ricevuto alcune risposte.

Ne sono derivate, altresì, decisioni che propongono nuove e inaspettate aperture della Corte di cassazione al criterio guida del ne bis in idem declinato secondo i paradigmi delle Corti europee (vedi quanto si dirà di qui a poco al par. 3), ma anche, in passato, pronunce di robusta contrarietà a qualsiasi “inquinamento” del paradigma legale di illecito penale con i criteri sostanzialistici dettati in campo europeo dalle Corti di Lussemburgo e, soprattutto, di Strasburgo (cfr. Sez. 1, n. 19915 del 17/12/2013 – dep. 2014 –, Gabetti, Rv. 260686; Sez. 3, n. 25815 del 22/6/2016, Scagnetti, Rv. 267301; Sez. 4, n. 9168 del 6/2/2015, Meligeni, Rv. 262445; Sez. 3, n. 31378 del 14/1/2015, Ghidini, Rv. 264332); non sono mancate, peraltro, aperture, oramai già più datate nel tempo, di una minima parte della giurisprudenza di merito verso un’accezione di matrice “europeista” della sanzione penale, con adesione ai cd. “criteri di Engel” ed applicazione diretta della giurisprudenza europea, dichiarando la sussistenza del ne bis in idem tra ipotesi di illecito penale ed illecito amministrativo di natura “sostanzialmente penale” dal punto di vista dell’afflittività sanzionatoria.

Si ricorderà che tutto è cominciato, per così dire, dalle sentenze della Corte di Giustizia europea Aklagaren c. Hans Akerberg Fransson del 26 febbraio 2013, C-617/10 e della Corte EDU del 4 marzo 2014 Grande Stevens c. Italia (cui hanno fatto seguito altre pronunce della Corte di Strasburgo di analogo contenuto e tenore, tra queste Nykanen contro Finlandia del 20 Maggio 2014, Lucki Dev contro Svezia del 27 Novembre 2014, Kiivari contro Finlandia del 10 febbraio 2015), le quali, pur con alcune non irrilevanti differenze, hanno posto con forza sulla scena europea e nazionale canoni di applicazione del principio del ne bis in idem – stabilito dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), all’art. 50, e dal Protocollo aggiuntivo alla CEDU n. 7, all’art. 4 – che sembrano proiettarlo verso la massima espansione della sua accezione di “divieto di doppio giudizio” quale regola di garanzia del diritto a non essere puniti o giudicati due volte per lo stesso fatto.

In verità, prima di tali pronunce, la giurisprudenza europea aveva dettato non dissimili criteri interpretativi per la declinazione del principio, a partire dalla famosa sentenza della Corte EDU Engel contro Paesi Bassi del 8 giugno 1976, che ha dato il nome agli stessi criteri di Engel, i quali, da allora, definiscono il concetto di illecito di natura “convenzionalmente penale”, riferendone il carattere alla qualificazione giuridica della misura sanzionatoria nell’ordinamento nazionale; alla natura effettiva dell’illecito; alla natura ed al grado di severità della sanzione (chiarezza di affermazioni in proposito proviene da lontano anche per quanto riguarda la Corte di Giustizia Europea, anche prima della pronuncia Aklagaren-Fransson: cfr. CGUE, Grande Sezione, 5 giugno 2012, C-489/10, Bonda che ha ricostruito la giurisprudenza della Corte di Giustizia sul tema).

Tuttavia, con la pronuncia Grande Stevens, la Corte EDU investe direttamente l’ordinamento interno italiano e un delicatissimo universo normativo quale è quello in materia di abusi di mercato, sicché la questione del ne bis in idem, letto nel prisma delle CEDU e della CDFUE, deflagra nella nostra giurisprudenza, soprattutto per la concezione “ampia” di materia penale che i giudici di Strasburgo ribadiscono con rinnovata forza, condannando, secondo alcuni, la stessa struttura del sistema normativo italiano affidato al d.lgs. n. 58 del 1998.

Ebbene, il principale problema interpretativo che si indicava ancora nella citata Relazione del 2017 – e che, si consenta di dire in premessa, tuttora, in parte, permane, pur nel significativo mutamento di prospettiva interpretativa – era quello non già della individuazione delle ragioni che motivano la scelta normativa per il divieto di bis in idem (le quali attengono a condivise esigenze di certezza del diritto, volte ad assicurare stabilità alle statuizioni definitive degli organi giurisdizionali; di garanzia dei diritti dell’individuo sottoposto a procedimento penale, che non deve trovarsi illimitatamente esposto per lo stesso fatto alla pretesa punitiva dello Stato; di economia processuale, tese ad evitare un inutile spreco di risorse per l’accertamento di vicende già definite), ovvero delle motivazioni che conducono il legislatore interno ad arginare l’ipertrofia del diritto penale attraverso il ricorso a strumenti sanzionatori di diversa natura (gli illeciti amministrativi), secondo uno schema di sussidiarietà dell’intervento penale che sottende la scelta di extrema ratio della criminalizzazione degli illeciti, mai sconfessato dallo stesso legislatore europeo, che anzi, per certi aspetti, avalla sistemi sanzionatori di doppio binario di intervento (penale ed amministrativo), volti ad attuare una miglior tutela dei diritti garantiti dall’Unione Europea (cfr. la Direttiva 2014/57/UE).

La stessa Corte costituzionale, in verità, in proposito, ha evidenziato, nella importante sentenza n. 49 del 2015 (con cui si è declinato anche, per la prima volta espressamente, il concetto di diritto vivente europeo, come l’unico idoneo a costituire vincolo per il giudice interno), che la giurisprudenza della Corte EDU ha elaborato i suoi peculiari indici per qualificare una sanzione come “pena” ai sensi dell’art. 7 CEDU con la finalità di scongiurare che vasti processi di decriminalizzazione possano avere l’effetto di sottrarre gli illeciti, così depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dagli artt. 6 e 7 della CEDU, mentre non ha inteso, con ciò, porre in discussione la discrezionalità dei legislatori nazionali attraverso il ricorso a strumenti sanzionatori diversificati, ritenuti più adeguati.

Il problema essenziale, invece, ha riguardato due profili, sinora fondamentali, tra loro strettamente collegati: anzitutto, l’ambito di applicazione del divieto di bis in idem ed i confini della “materia penale”, ai quali il nostro ordinamento interno ancora oggi si rivolge secondo una prospettiva legale e formale di separatezza tra gli illeciti sanzionati con una “pena” e quelli che invece non prevedono tale tipologia di epilogo afflittivo; quindi, parallelamente, il contenuto della nozione di idem factum sul quale valgono tuttora gli approdi delle Sezioni Unite, nella sentenza n. 34655 del 28/6/2005, Donati, Rv. 231799-231800, e quelli proposti dalla Corte costituzionale, da ultimo nella importante sentenza n. 200 del 2016, secondo cui l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, anche nelle ipotesi di concorso formale di reati.

Si rammenterà, infatti, che la Corte costituzionale, preso atto dello stato del “diritto vivente”, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen., per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU, nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale (per un più approfondito esame del tema, si rimanda, da un lato, alla citata Relazione di orientamento n. 26 del 2017 dell’Ufficio del Massimario Penale, e, soprattutto, alle sentenze che lo analizzano nel prisma del principio di specialità e nel raffronto tra diverse fattispecie legali: ad esempio, Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, Di Lorenzo, Rv. 248722; Sez. U, n. 37425 del 28/3/2013, Favellato, Rv. 255759; da ultimo, Sez. 5, n. 47683 del 4/10/2016, Robusti, Rv. 268502; Sez. 6, n. 19486 del 1/2/2018, Bumbaca, Rv. 273077 e, con riferimento a questione analoga a quella trattata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 200 del 2016, Sez. 4, n. 12175 del 3/11/2016 – dep. 2017 –, Bordogna, Rv. 270387; per una recente sentenza che ha posto l’accento sulla diversità di elemento soggettivo come parametro rilevante ai fini dell’esclusione della violazione del ne bis in idem cfr. Sez. 5, n. 42599 del 18/7/2018, C, Rv. 274010, mentre, per una specifica ipotesi di rapporto tra giudicato per il delitto di appropriazione indebita e quello di bancarotta per distrazione, cfr. Sez. 5, n. 25651 del 15/2/2018, Pessotto, Rv. 273468, in cui la natura di condizione obiettiva di punibilità riconosciuta alla sentenza di fallimento ha giocato a favore del riconoscimento della sussistenza delle condizioni di operatività del principio di ne bis in idem).

Successivamente alla pronuncia della Corte costituzionale, peraltro, la giurisprudenza di legittimità si è espressamente ad essa ispirata per (ri)affermare il principio, in linea con i richiami sinora svolti, secondo cui l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, anche nelle ipotesi di concorso formale di reati (cfr., tra quelle massimate, Sez. 4, n. 54986 del 24/10/2017, Montagna, Rv. 271717; Sez. 3, n. 21994 del 1/2/2018, Pigozzi, Rv. 273220 e Sez. 6, n. 16846 del 1/3/2018, C., Rv. 273010).

Idem factum e matière pénale, dunque, sono stati sinora i due poli di ragionamento intorno ai quali si è giocata la partita della maggiore o minore espansione dell’operatività del principio del ne bis in idem e della sua stessa definizione.

Tuttavia, accanto ad essi, prepotentemente si è imposto un nuovo parametro valutativo, grazie alla già citata sentenza Grande Chambre, A e B contro Norvegia del 2016: quello della connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta tra i procedimenti nei quali si discute di bis in idem.

2. Lo spartiacque della sentenza Grande Chambre, A e B contro Norvegia del 2016.

Non vi è dubbio che la sentenza della Grande Camera A e B del novembre 2016 abbia rappresentato un punto di novità nel panorama interpretativo che ha, in parte, creato disorientamento tra coloro che si erano oramai già abituati a leggere a senso unico le “magnifiche sorti progressive” del concetto di ne bis in idem “convenzionale” (per usare una definizione che si ritrova anche in recente pronuncia della Corte costituzionale), probabilmente sottovalutando le innumerevoli implicazioni e contraddizioni che esso determinava non soltanto nell’ordinamento interno italiano, ma in quello di molti Stati dell’Unione, colpiti dalla condanna della Corte EDU.

In estrema sintesi, la pronuncia A e B, pur non sconfessando la giurisprudenza consolidata dei giudici di Strasburgo sulle nozioni di materia penale e di idem factum, utilizza una nuova chiave di valutazione per la verifica della sussistenza di una violazione del divieto di doppio giudizio nell’ordinamento interno di uno Stato membro, nel caso in cui ad una sanzione amministrativa definitiva si affianchi un procedimento penale per lo stesso fatto, nei confronti della stessa persona.

I procedimenti sanzionatori, penale ed amministrativo, possono coesistere – si dice infatti – qualora si ritenga tra loro una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” che li renda, sostanzialmente, quasi parte di unico sistema sanzionatorio “integrato”.

Non cambiano, dunque, le accezioni dei concetti consolidati di “materia penale” e idem factum, ma si indica quella che potremmo definire una “terza via” per dirimere la questione sulla violazione del principio di ne bis in idem, che affronta il tema da un punto di vista prettamente processuale e procedimentale, individuando alcuni parametri di riferimento concreto per valutare la sussistenza del nesso temporale e del nesso sostanziale che, se sussistenti, legittimano il duplice procedimento.

Sotto il primo profilo, si ammette sia la conduzione parallela sia quella non coeva dei due procedimenti sullo stesso fatto, purché il soggetto sottoposto al doppio binario sanzionatorio non subisca un pregiudizio sproporzionato derivante da un perdurante stato di incertezza processuale; sotto il profilo di quello che viene definito il “nesso sostanziale” tra i procedimenti, invece, i giudici europei individuano una serie di indicatori sintomatici della connessione richiesta per evitare il bis in idem: la diversa ma complementare finalità dei procedimenti, la prevedibilità della duplicazione di procedimenti e sanzioni da parte dell’autore della condotta, la conduzione “integrata” dei procedimenti, in modo da evitare, “per quanto possibile”, la duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove, la considerazione nel secondo procedimento dell’entità della sanzione inflitta nel primo, in modo che venga in ogni caso rispettata l’esigenza di una proporzionalità complessiva della pena.

Proprio l’ultima tra le esigenze citate, ampiamente presente nella motivazione della sentenza A e B, dimostra, tuttavia, che il criterio di connessione procedimentale indicato dalla Corte EDU non si esaurisce in una mera prospettiva processuale ma, tenendo mente al risultato di proporzionalità complessiva della sanzione integrata inflitta, evoca chiaramente valutazioni di ordine sostanziale.

Ed è proprio questo, come vedremo, il terreno decisionale di maggior novità che viene proposto dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità più recente, anche alla luce delle ultime decisioni della CGUE (cfr. par. 3 e 4).

La Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 43 del 2018, ha sottolineato la portata significativamente innovativa della sentenza dei giudici di Strasburgo del 2016, mettendo in luce come, nel passato, scarsa eco avevano avuto alcune pronunce della Corte EDU con cui si era ritenuto convenzionalmente legittima la conclusione di un secondo procedimento, nonostante il primo fosse già stato definito, in virtù dell’esistenza tra i due un legame materiale e temporale sufficientemente stretto: prima della sentenza A e B – afferma la Corte costituzionale – il criterio era stato così sporadicamente applicato da non poter in alcun modo contribuire a scolpire con univocità il significato della normativa convenzionale.

In tale quadro, noto agli interpreti (sia in dottrina che in giurisprudenza: cfr. la già citata Relazione di orientamento dell’Ufficio del Massimario del 2017), si è avanzata l’ipotesi che la forza motivazionale della pronuncia A e B sia stata (anche) il frutto della rivalutazione di un’esigenza di maggior tutela degli interessi (soprattutto finanziari) dell’Unione, “protetti” negli Stati membri da sistemi di doppio binario sanzionatorio, sensibilmente messi in discussione nelle loro modalità operative dalle ultime pronunce della Corte EDU.

Quel che è certo, anche in ragione di quelli che vedremo essere stati gli effetti della citata sentenza sull’interpretazione della Corte di cassazione e della stessa Corte di Giustizia Europea, è che, nonostante i timori, pure da molti manifestati, che la sentenza A e B rappresentasse un passo indietro rispetto agli approdi raggiunti sul tema del ne bis in idem interno dalla Corte di Strasburgo, essa, invece, può dirsi che abbia determinato una significativa svolta nella ridefinizione di tale garanzia convenzionale e – come si ebbe a dire nella Relazione del 2017 – un’evoluzione della sua fenomenologia (in dottrina si è parlato di “trasfigurazione” del ne bis in idem europeo).

Dopo la pronuncia A e B, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha preso immediatamente atto che qualcosa era cambiato e che, d’ora innanzi, quel criterio “nuovo” – apparentemente operativo su di un piano prevalentemente procedimentale, ma carico di valenza sostanziale nel momento in cui propone quale criterio di giudizio la complessiva proporzionalità della sanzione integrata, frutto dei procedimenti in close connection – poteva valere a rendere più semplice la motivazione sulla insussistenza della violazione del principio di ne bis in idem bypassando la questione dogmatica riferita anzitutto alla possibilità di estendere il concetto di “materia penale” sino a ricomprendervi quello di natura sostanzialistica e non formale propugnato dalle Corti europee.

Sono espressione di tale linea interpretativa Sez. 3, n. 6993 del 22/9/2017 – dep. 2018 –, Servello, Rv. 272588 con cui si è affermato – in relazione ad una fattispecie riferita ad avvisi di accertamento di violazioni tributarie e relative sanzioni, notificati all’imputato pochi mesi prima dell’inizio del procedimento penale per reati tributari relativi ai medesimi fatti – che non sussiste la violazione del principio di ne bis in idem, letto nell’accezione delle Corti europee, nel caso della irrogazione definitiva di una sanzione formalmente amministrativa, della quale venga riconosciuta la natura sostanzialmente penale, ai sensi dell’art. 4 Protocollo n. 7 CEDU (come interpretato dalla Corte EDU nelle cause Grande Stevens e altri contro Italia del 4 marzo 2014, e Nykanen contro Finlandia del 20 maggio 2014), per il medesimo fatto per il quale vi sia stata condanna a sanzione penale, qualora tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, tale che le due sanzioni siano parte di un unico sistema, secondo il criterio dettato dalla suddetta Corte nella decisione A e B contro Norvegia del 15 novembre 2016.

Ancora, di rilievo si evidenzia la sentenza Sez. 4, n. 12267 del 13/2/2018, Palmieri, Rv. 272533 con cui si è sottolineato che, per la insussistenza della violazione del principio di ne bis in idem, i criteri della pronuncia A e B richiedono che le due procedure risultino complementari, in quanto dirette al soddisfacimento di finalità sociali differenti, e determinino l’inflizione di una sanzione penale “integrata”, che sia prevedibile e, in concreto, complessivamente proporzionata al disvalore del fatto: in questo caso la Suprema Corte ha posto l’accento sul criterio poc’anzi sottolineato, e cioè che il sistema sanzionatorio “integrato” confluisca in una sanzione complessivamente idonea a rappresentare il reale disvalore dell’illecito commesso (nella specie, si è escluso che la sospensione della patente di guida abbia natura di sanzione “sostanzialmente penale”, ritenendola, piuttosto, parte del legittimo “sistema integrato” ammesso dalla Corte EDU).

La pronuncia si inscrive in senso conforme nell’orientamento per primo enunciato da Sez. 2, n. 9184 del 15/12/2016, dep. 2017, Pagano, Rv. 269237 in termini identici, quanto all’attenzione da rivolgere al sistema sanzionatorio “integrato” rappresentato dal doppio binario di risposta all’illecito (penale ed amministrativo) e, soprattutto, al criterio di proporzionalità della sanzione complessivamente inflitta al reale disvalore del fatto (la fattispecie sulla quale si pronuncia la Suprema Corte è proprio uno dei casi di decisioni di merito che maggiormente aveva destato scalpore, essendosi dichiarato non doversi procedere da parte del giudice per il reato di danneggiamento, preso atto della sanzione amministrativa definitivamente già inflitta all’imputato detenuto per l’illecito di natura disciplinare riferito allo stesso fatto naturalisticamente inteso: la Corte di cassazione ha annullato con rinvio la sentenza, rilevando l’inapplicabilità della preclusione di cui all’art. 649 cod. proc. pen.).

In tema, si evidenziano, altresì, Sez. 3, n. 35156 del 1/3/2017, Palumbo, Rv. 270913; Sez. 3, n. 56264 del 18/5/2017, Elan, Rv. 272329.

In questo quadro di attenta e tempestiva elaborazione della giurisprudenza della Corte EDU da parte dei giudici di legittimità, intervengono, nel 2018, tre successive pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in verità molto attese poiché derivanti da altrettanti rinvii pregiudiziali della nostra Suprema Corte, seguiti, in parte, alla pronuncia di inammissibilità della Corte costituzionale n. 102 del 2016, con la quale i giudici delle leggi hanno dichiarato inammissibili le questioni di costituzionalità proposte, in riferimento anche all’art. 649 cod. proc. pen., dalle ordinanze di due Sezioni della Cassazione, la Quinta Sezione Penale e la Sezione Tributaria civile (le ordinanze sono: Sez. 5, n. 1782 del 10/11/2014 – dep. 2015 –, Chiarion e Cass. civ. Sez. trib. N. 950 del 21/1/2015, Rv. 634956 che avevano ad oggetto la vigente disciplina sanzionatoria prevista dal T.U.F. (il d.lgs. n. 58 del 1998) e ne avevano ravvisato possibili violazioni del principio sovranazionale del ne bis in idem, declinato secondo l’interpretazione della Corte EDU più recente.

Le sentenze, tutte rese dai giudici di Lussemburgo nell’udienza del 20 marzo 2018, introducono ulteriori argomenti di riflessione, pur se sostanzialmente aderiscono alla nuova tendenza interpretativa dettata dalla pronuncia A e B contro Norvegia, argomenti prontamente raccolti, come vedremo, dalla giurisprudenza di legittimità più recente.

Poco prima, inoltre, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 43 del 2018 (depositata il 2 marzo 2018), era nuovamente intervenuta sul tema, ancora una volta con riferimento alla questione di legittimità costituzionale proposta in relazione all’art. 649 cod. proc. pen., in questo caso dal Tribunale di Monza (il procedimento penale aveva ad oggetto il reato previsto dall’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74: omessa presentazione di dichiarazione dei redditi).

Nel paragrafo seguente si analizzeranno più nel dettaglio tali arresti giurisprudenziali, con la premessa indispensabile che il ruolo di vero e proprio spartiacque di orientamento interpretativo svolto della sentenza A e B contro Norvegia si evidenzia proprio nell’analisi dei suoi effetti sulla giurisprudenza europea della Corte di Giustizia, su quella costituzionale del nostro giudice delle leggi e su quella di legittimità (che molto la valorizzano), imponendo nuovi termini di confronto tra i sistemi sanzionatori al fine della valutazione sul ne bis in idem.

Vi è da aggiungere, tuttavia, in coda a tale considerazione, che il paradigma interpretativo dettato dalla Corte EDU nel 2016 si pone in linea con gli orientamenti della Corte di Giustizia declinati soprattutto dalla citata sentenza del 26/02/2013 Aklagaren c. Akeberg Fransson – C-617/10, che aveva già da tempo indicato, sebbene con minor chiarezza, nella regola della verifica della complessiva afflittività della sanzione integrata il parametro ideale migliore per la valutazione circa la sussistenza o meno di una violazione del ne bis in idem (cfr. sul punto la Relazione n. 26 del 2017 del Massimario, p. 5, nonché le precedenti elaborazioni dell’Ufficio del Massimario in tema; autorevolmente si è espressa in tal senso la Corte costituzionale nella sentenza n. 43 del 2018, sulla quale cfr. par. 3).

Secondo la stessa sentenza Fransson, quando debba verificarsi la conformità ai diritti fondamentali di una disposizione o di un provvedimento nazionale, le autorità e i giudici nazionali possono «applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione»; con particolare riferimento al principio del ne bis in idem, spetta al giudice nazionale «valutare, alla luce di tali criteri, se occorra procedere ad un esame del cumulo di sanzioni tributarie e penali previsto dalla legislazione nazionale sotto il profilo degli standard nazionali», circostanza, questa, che «potrebbe eventualmente indurlo a considerare tale cumulo contrario a detti standard, a condizione che le rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive».

È evidente da tali enunciazioni che le valutazioni cui è chiamato il giudice nazionale ai fini indicati dalla Corte di Giustizia non presentano profili di incompatibilità rispetto a quelle delineate dalla Grande Camera della Corte EDU nella sentenza A e B: venuto meno, a seguito del revirement sancito della Grande Camera, l’automatismo che faceva discendere la violazione del divieto di bis in idem dal riconoscimento della natura “convenzionalmente” penale della sanzione qualificata come amministrativa, applicata cumulativamente ad altra sanzione penale, il divieto di cui all’art. 4 del Prot. n. 7 CEDU non opera se i due procedimenti siano sufficientemente connessi nella sostanza e nel tempo e siano assicurate sanzioni complessivamente proporzionate e prevedibili, dovendosi verificare la complementarietà degli scopi e l’incidenza su profili diversi del fatto illecito, la prevedibilità dei due procedimenti e la loro configurazione in modo da escludere duplicazioni nell’acquisizione e nella valutazione degli elementi posti a base dell’irrogazione della sanzione “amministrativa” e di quella (anche formalmente) penale, nonché, la previsione di meccanismi compensativi idonei ad assicurare la proporzionalità complessiva del trattamento sanzionatorio.

Verifiche, queste, analoghe a quelle che in prospettiva si propongono al giudice da parte della Corte di Giustizia sin dal 2013 e alle quali vanno, al più, associate – accanto, dunque, a quella principale di proporzionalità complessiva – quelle riferite all’effettività e alla dissuasività dell’apparato sanzionatorio di cui alla sentenza Fransson.

3. Gli effetti della sentenza A e B contro Norvegia nell’anno 2018: la pronuncia n. 43 del 2018 della Corte costituzionale e le tre sentenze della Corte di Giustizia Europea.

L’improvviso cambiamento prospettico generato dall’irrompere, nel panorama interpretativo sedimentatosi intorno alla questione del ne bis in idem, dei criteri enunciati dalla Corte EDU nella sentenza A e B contro Norvegia ha generato effetti imponenti non soltanto – come si è in parte già visto e come successivamente si approfondirà ulteriormente – nella giurisprudenza di legittimità, bensì anche in quella della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia europea.

Cominciando dal nostro giudice delle leggi, si evidenzia la sentenza n. 43 del 2018 citata, con cui la Corte costituzionale, prendendo atto del significativo mutamento giurisprudenziale della Corte EDU nella sentenza A e B contro Norvegia, che determina una diversa interpretazione della normativa convenzionale e, in quanto emessa dalla Grande Camera, rappresenta una pronuncia idonea a costituire diritto vivente europeo (secondo l’impostazione della sentenza n. 49 del 2015 Corte cost.), ha disposto la restituzione degli atti al giudice rimettente ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale.

Se, infatti, il giudice a quo ritenesse che il giudizio penale è “legato temporalmente e materialmente” al procedimento tributario al punto da non costituire un-bis in idem, non vi sarebbe necessità, ai fini del giudizio principale, di introdurre nell’ordinamento, attraverso la “chiave” dell’art. 649 cod. proc. pen., alcuna regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto.

Più specificamente, deve evidenziarsi che la Corte costituzionale ha osservato come «la rigidità del divieto convenzionale di bis in idem, nella parte in cui trova applicazione anche per sanzioni che gli ordinamenti nazionali qualificano come amministrative, aveva ingenerato gravi difficoltà presso gli Stati che hanno ratificato il Protocollo n. 7 alla CEDU, perché la discrezionalità del legislatore nazionale di punire lo stesso fatto a duplice titolo, pur non negata dalla Corte di Strasburgo, finiva per essere frustrata di fatto dal divieto di bis in idem», sicché, allo scopo di alleviare tale inconveniente, la Corte EDU ha enunciato «il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto (“sufficiently closely connected in substance and in time”), attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza», precisando che: «legame temporale e materiale sono requisiti congiunti; [...] il legame temporale non esige la pendenza contemporanea dei procedimenti, ma ne consente la consecutività, a condizione che essa sia tanto più stringente, quanto più si protrae la durata dell’accertamento; [...] il legame materiale dipende dal perseguimento di finalità complementari connesse ad aspetti differenti della condotta, dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi, e soprattutto dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima al fine di evitare l’imposizione di un eccessivo fardello per lo stesso fatto illecito».

Inoltre, secondo la Corte costituzionale, alla luce dei nuovi criteri, si dovrà anche valutare «se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perché in caso affermativo si sarà più severi nello scrutinare la sussistenza del legame e più riluttanti a riconoscerlo in concreto». Pertanto, sottolinea ancora la sentenza n. 43 del 2018, «il ne bis in idem convenzionale cessa di agire quale regola inderogabile conseguente alla sola presa d’atto circa la definitività del primo procedimento ma viene subordinato a un apprezzamento proprio della discrezionalità giudiziaria in ordine al nesso che lega i procedimenti, perché in presenza di una “close connection” è permesso proseguire nel nuovo giudizio ad onta della definizione dell’altro».

Naturalmente, sottolinea la Corte costituzionale, la decisione non può che passare da un giudizio casistico, affidato all’autorità che procede: il giudice interno acquista, in tale prospettiva, la veste fondamentale di garante dell’applicazione corretta dei criteri dettati dalla Corte EDU.

Infatti, sebbene possa affermarsi in termini astratti che la configurazione normativa dei procedimenti è in grado per alcuni aspetti di integrare una “close connection”, vi sono altri aspetti – sottolineano i giudici costituzionali – che restano necessariamente consegnati alla peculiare dinamica con cui le vicende procedimentali si sono atteggiate nel caso concreto.

Infine, neppure si può continuare a sostenere – secondo la Corte – che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata. Se pertanto la prima sanzione fosse modesta, sarebbe in linea di massima consentito, in presenza del legame temporale, procedere nuovamente, al fine di giungere all’applicazione di una sanzione che, nella sua totalità, non risultasse sproporzionata, mentre nel caso opposto il legame materiale dovrebbe ritenersi spezzato e il divieto di bis in idem pienamente operante.

In conclusione, la Corte costituzionale rileva il carattere innovativo che la regola della sentenza A e B contro Norvegia ha impresso in ambito convenzionale al divieto di bis in idem: «si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata», sicché «ciò che il divieto di bis in idem ha perso in termini di garanzia individuale, a causa dell’attenuazione del suo carattere inderogabile, viene compensato impedendo risposte punitive nel complesso sproporzionate».

È proprio in questa considerazione, sapientemente strutturata dalla Corte costituzionale, che si concentra la centralità delle affermazioni contenute nella pronuncia A e B contro Norvegia.

Centralità che si evidenzia prepotentemente anche dall’analisi delle sentenze della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 20 marzo 2018 nelle cause Menci (C-524/15), Garlsson Real Estate SA e altri contro Consob (C-537/16) e Di Puma contro Consob e Consob contro Zecca (nelle cause riunite C-596/16 e C-597/16).

Ed infatti, esaminando le tre pronunce, ed in particolare la sentenza Menci, dotata del più ampio percorso argomentativo, e la sentenza Garlsson Real Estate, specificamente riferita al fondamentale tema del ne bis in idem in rapporto alla disciplina degli abusi di mercato (da cui tutto il fervore interpretativo di questo recente passato ha preso le mosse, con la sentenza Grande Stevens), si possono estrarre ed evidenziare alcuni punti interpretativi di rilievo:

- il richiamo ai consolidati criteri funzionali all’identificazione della natura sostanzialmente penale di una sanzione formalmente amministrativa (criteri assimilabili ai cd. Engel criteria elaborati dalla Corte EDU) e all’accertamento dell’idem factum, ossia dell’esistenza di uno stesso reato sulla base dell’identità dei fatti materiali (sentenza Menci, rispettivamente, §§ 26 ss. e §§ 34 ss.; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, §§ 28 ss. e 36 ss.);

- la ricostruzione della portata della tutela accordata dall’art. 50 CDFUE, che deve essere messa in relazione con l’art. 52, comma 1, della Carta, in forza del quale, da una parte, eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla stessa Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà, mentre, dall’altra, nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo qualora siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.

Dalla lettura coordinata delle norme indicate, la Corte di giustizia trae una serie di indicazioni (ulteriori) volte ad individuare le condizioni in presenza delle quali il cumulo di sanzioni sostanzialmente penali (seppur formalmente eterogenee) non integra una violazione del principio del ne bis in idem secondo il diritto dell’Unione europea:

a) necessaria base legale della disciplina del cumulo sanzionatorio, con la collegata necessità che la previsione sia posta attraverso «norme chiare e precise che consentano al soggetto dell’ordinamento di prevedere quali atti e omissioni possano costituire oggetto di un siffatto cumulo di procedimenti e di sanzioni» (sentenza Menci, §§ 42 e 49; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, §§ 44 e 52);

b) necessaria complementarietà finalistica del cumulo sanzionatorio: un cumulo di procedimenti e di sanzioni di natura penale può essere giustificato allorché detti procedimenti e dette sanzioni riguardino, in vista della realizzazione di un «obiettivo di interesse generale», «scopi complementari vertenti, eventualmente, su aspetti differenti della medesima condotta di reato interessata, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare» (sentenza Menci, § 44; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, § 46);

c) necessario coordinamento tra i procedimenti, mediante una previsione normativa tale da far sì che «gli oneri derivanti, a carico degli interessati, da un cumulo del genere siano limitati a quanto strettamente necessario al fine di realizzare l’obiettivo» di interesse generale richiamato (sentenza Menci, § 52; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, § 54).

d) necessità che sussista un canone di proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio, canone che – quasi a riprova della dimensione prevalentemente sostanziale riconosciuta al ne bis in idem nell’ambito del diritto dell’Unione europea – rinviene il proprio fondamento anche nell’art. 49, comma 3, della Carta, in forza del quale le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato. In questa prospettiva, la Grande Sezione rileva che «al cumulo di sanzioni di natura penale devono accompagnarsi norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte corrisponda alla gravità del reato di cui si tratti, considerato che un’esigenza siffatta discende non soltanto dall’art. 52, paragrafo 1, della Carta, ma altresì dal principio di proporzionalità delle pene di cui all’art. 49, paragrafo 3, della medesima», norme che «devono prevedere l’obbligo per le autorità competenti, qualora venga inflitta una seconda sanzione, di far sì che la severità del complesso delle sanzioni imposte non sia superiore alla gravità del reato constatato» (sentenza Menci, § 55; conforme la sentenza Garlsson Real Estate, § 56).

Tali enunciazioni presuppongono, a monte, e individuano – al tempo stesso – a valle, un “garante” del rispetto delle esigenze di verifica indicate: il giudice interno.

Il ruolo decisivo del giudice interno assurge, nella costruzione della Corte di Giustizia – si badi, sin dalla sentenza Fransson, che, proprio su questo punto, aveva “spaventato” gli interpreti, per la forte discrezionalità valutativa comunque lasciata al giudice – a canone preliminare del rispetto dei criteri interpretativi dettati e in presenza dei quali, eventualmente, si potrebbe rilevare l’insussistenza della violazione del principio di ne bis in idem.

Tale ruolo decisivo si evidenzia con riferimento anche alla considerazione – altrettanto indispensabile alla verifica – della fattispecie concreta che viene in giudizio (sia sotto il profilo della gravità dell’illecito, sia sotto quello della proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio), posto che «spetta, in definitiva, al giudice del rinvio valutare la proporzionalità dell’applicazione concreta della summenzionata normativa nell’ambito del procedimento principale, ponderando, da un lato, la gravità del reato (tributario) in discussione e, dall’altro, l’onere risultante concretamente per l’interessato dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni di cui al procedimento principale» (sentenza Menci, § 59; anche la sentenza Garlsson Real Estate richiama, ai §§ 59 e 61, la necessaria verifica, sul punto, da parte del giudice del rinvio).

Dall’analisi svolta, si comprende perfettamente che oramai Corte di Giustizia e Corte EDU viaggiano su identici binari interpretativi quanto alla lettura del ne bis in idem; ma, qualora taluno avesse avuto residui dubbi, il richiamo espresso della sentenza Menci ai più recenti approdi della giurisprudenza della Corte EDU racchiusi nella sentenza A e B vale a fugarli.

Tanto più che la pronuncia Menci non si limita ad un mero richiamo, ma ne evidenzia le ragioni, rilevato che «nella misura in cui la Carta contiene diritti corrispondenti a diritti garantiti dalla CEDU, l’art. 52, paragrafo 3, della Carta prevede che il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione», sicché occorre «tenere conto dell’art. 4 del protocollo n. 7 della CEDU ai fini dell’interpretazione dell’art. 50 della Carta» e dunque delle pronunce della Corte EDU.

Quanto allo specifico ambito della disciplina degli abusi di mercato, la pronuncia Garlsson Real Estate – intervenuta in un caso in cui la sanzione (anche formalmente) penale era divenuta definitiva e il giudizio a quo riguardava la sanzione formalmente amministrativa irrogata da CONSOB – ha riconosciuto come sussistenti alcune delle condizioni sopra richiamate.

Per la necessaria “base legale” della doppia sanzione, la Corte di giustizia ha fatto riferimento alla disciplina prevista in materia dal TUF di cui al d.lgs. n. 58 del 1998 (senz’altro estensibile anche all’abuso di informazioni privilegiate che viene in rilievo nel caso della pronuncia n. 49869 del 21/9/2018, Chiarion, come si dirà nell’analisi specifica); nonchè alla necessaria complementarietà finalistica del cumulo sanzionatorio, identificato nel caso di specie, alla luce dell’obiettivo di interesse generale sotteso alla normativa statale in tema di abusi di mercato, nella tutela dell’integrità dei mercati finanziari dell’Unione e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari.

Invero, vista l’importanza attribuita dalla giurisprudenza della stessa Corte di giustizia al fine di realizzare tale obiettivo, «un cumulo di procedimenti e di sanzioni di natura penale può essere giustificato qualora tali procedimenti e tali sanzioni perseguano, ai fini del conseguimento di un simile obiettivo, scopi complementari riguardanti, eventualmente, aspetti diversi del medesimo comportamento illecito interessato, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare» (§ 46).

In altre parole, la Grande Sezione, nella sentenza Garlsson, ha individuato l’obiettivo perseguito dalla normativa istitutiva del doppio binario sanzionatorio (d.lgs. n. 58 del 1998, TUF) nella tutela dei mercati finanziari dell’Unione e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari, ritenendo tale obiettivo adeguato a fondare la limitazione dell’art. 50 CDFUE, nonché sufficientemente proporzionato a tale scopo.

Con riguardo alla proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio, la sentenza Garlsson Real Estate ha osservato che il cumulo di procedimenti e di sanzioni previsto da una normativa nazionale non deve superare i limiti di quanto idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi (fermo restando che, qualora sia possibile una scelta fra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva).

La Corte ha, altresì, affermato che in assenza di armonizzazione del diritto dell’Unione in materia, gli Stati possono discrezionalmente stabilire se prevedere un unico procedimento di natura penale o amministrativa ovvero un doppio binario sanzionatorio. La scelta dello Stato membro interessato di prevedere la possibilità di un cumulo di procedimenti non è in sé significativa della lesione del criterio di proporzionalità, salvo altrimenti privare detto Stato della stessa libertà di scelta in proposito.

Precisamente, richiamando la direttiva 2003/6, si è detto che «la proporzionalità di una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, non può essere messa in dubbio per il solo fatto che lo Stato membro di cui trattasi abbia optato per la possibilità di un cumulo siffatto, a pena di privare detto Stato membro di tale libertà di scelta» (§ 49), sicché «una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che prevede una tale possibilità di cumulo è idonea a realizzare l’obiettivo di cui al punto 46 della presente sentenza» (§ 50).

Ancora specificamente, sotto il profilo della proporzionalità, deve evidenziarsi come la disciplina interna, secondo la sentenza Garlsson, deve «prevedere l’obbligo per le autorità competenti, in caso di irrogazione di una seconda sanzione, di assicurarsi che la severità dell’insieme delle sanzioni inflitte non ecceda la gravità del reato accertato» (§ 56).

Ed infatti, anche per la sentenza Garlsson, il cumulo delle sanzioni deve essere accompagnato da norme che garantiscano che la severità dell’insieme delle sanzioni inflitte corrisponda alla gravità del reato, derivando tale obbligo dall’art. 52 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali e dal principio di proporzionalità delle pene sancito dall’art. 49, par. 3 della stessa Carta.

Tali norme devono contemplare per le autorità procedenti, in caso di irrogazione di una seconda sanzione, il dovere di verificare che la severità del trattamento sanzionatorio complessivo non ecceda la gravità del reato.

Con specifico riferimento alla fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo, la Grande Sezione ha osservato che, se è vero che l’obbligo di cooperazione e di coordinamento tra il pubblico ministero e la CONSOB, previsto all’art. 187-decies TUF, può ridurre l’onere derivante, per l’interessato, dal cumulo di un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale e di un procedimento penale per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, tuttavia «nel caso in cui sia stata pronunciata una condanna penale in forza dell’art. 185 del TUF al termine di un procedimento penale, la celebrazione del procedimento riguardante la sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale eccede quanto è strettamente necessario per il conseguimento dell’obiettivo di cui al punto 46 della presente sentenza, qualora tale condanna penale sia idonea a reprimere l’infrazione commessa in modo efficace, proporzionato e dissuasivo».

Nella fattispecie concreta la Corte ha rilevato che i fatti di manipolazione del mercato previsti dall’ art. 185 TUF devono essere caratterizzati da una certa gravità e sono puniti congiuntamente con la pena della reclusione e della multa, il cui spazio edittale corrisponde a quello previsto per la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 187 ter TUF; la presenza della pena della reclusione, peraltro, ha indotto i Giudici di Lussemburgo a ritenere che il meccanismo di riequilibrio sanzionatorio dell’art. 187-terdecies TUF, che prevede che, quando per lo stesso fatto sono state applicate una multa e una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale, l’esazione della multa è limitata alla parte eccedente l’importo della sanzione amministrativa, “non garantisce che (in astratto, n. d.r.) la severità dell’insieme delle sanzioni inflitte sia limitata a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato in questione, dal momento che detto articolo sembra avere ad oggetto solamente il cumulo di pene pecuniarie, e non il cumulo di una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale e di una pena della reclusione”; tuttavia, tale incapacità astratta, non determina automaticamente incompatibilità tra la disciplina e il divieto di bis in idem, poiché sarà comunque il giudice nazionale ad avere il compito di verificare “in concreto” la corrispondenza del principio affermato al caso sottoposto, alla luce di tutte le circostanze del fatto al suo esame.

Un’ultima considerazione si impone: l’analogia, o meglio la convergenza, tra le sentenze della Grande Sezione del 20/03/2018 e la sentenza A e B della Grande Camera del 2016 determina l’emersione di una declinazione del principio del ne bis in idem sostanzialmente unitaria, sicchè correttamente si è affermato che anche agli approdi della Corte di Giustizia possono estendersi i rilievi svolti dalla Corte costituzionale nella già analizzata sentenza n. 43 del 2018 (cfr. in tal senso la sentenza Sez. 5, n. 49869 del 21/9/2018, Chiarion, di cui si dirà ampiamente al paragrafo successivo), e cioè: da un lato, è evidente che il principio del ne bis in idem, nella nuova costruzione interpretativa delle Corti europee, opera attraverso un apprezzamento proprio della discrezionalità giudiziaria in ordine al nesso che lega il procedimento penale e quello solo formalmente amministrativo (l’approccio casistico già prima evidenziato); dall’altro, appare evidente, altresì, la preponderante rilevanza del criterio della complessiva proporzionalità della sanzione complessivamente irrogata nella valutazione del rispetto del principio di ne bis in idem.

4. (segue). Le due pronunce più recenti e rilevanti della Corte di cassazione.

Alla luce dell’analisi sin qui condotta si possono leggere le ultime affermazioni rese dalla giurisprudenza di legittimità sul tema della verifica di violazioni del principio di ne bis in idem convenzionale.

Il riferimento è a due sentenze della Quinta Sezione Penale della Corte, l’una (Sez. 5, n. 49869 del 21/9/2018, Chiarion) che chiude la vicenda del processo (relativo a reati di abuso di informazioni privilegiate previsto dall’art. 184, comma 1, lett. b, TUF), dal quale era sorta anche la questione di legittimità costituzionale, poi dichiarata inammissibile con sentenza n. 102 del 2016, Corte cost.; l’altra, riferita ad un’ipotesi di aggiotaggio manipolativo, prevista dall’art. 185 TUF (Sez. 5, n. 45829 del 16/7/2018, Franconi).

Sia la prima che la seconda pronuncia, richiamata ampiamente la multiforme evoluzione giurisprudenziale che ha caratterizzato il principio del ne bis in idem nel prisma della giurisprudenza delle Corti europee e dei giudici nazionali (in particolare, della Corte costituzionale e della Corte di cassazione), giungono agli approdi delle sentenze Grande Chambre, A e B contro Norvegia del 15/11/2016 e della Corte di Giustizia di Lussemburgo del marzo 2018 (in particolare si analizzano le pronunce Menci e Garlsson Real Estate).

Entrambe le pronunce della Corte di cassazione concordano nel ritenere che, nei casi loro sottoposti, non sussistano incompatibilità procedimentali ovvero attinenti al piano della comparazione astratta dei procedimenti sanzionatori “duplicati”, di ordine amministrativo e penale, che afferiscano a taluno dei parametri indicati dalle Corti europee in modo sostanzialmente omogeneo e racchiusi nella formula sintetica della sufficiently close connection in substance and time, coniata dalla sentenza A e B contro Norvegia.

L’unico piano di verifica sul quale si pronunciano concretamente, pertanto, è quello della valutazione della proporzionalità della sanzione complessivamente irrogata, profilo di natura, come si è detto, eminentemente sostanziale, attenendo all’aspetto punitivo, e che postula l’esercizio di penetranti poteri del giudice chiamato a leggere la fattispecie concreta.

Tuttavia, è opportuno ed utile dare atto con maggior precisione dei percorsi argomentativi sviluppati da entrambe le citate sentenze di legittimità, perché hanno valore paradigmatico in relazione alle ipotesi di reato in esse analizzate, mentre, solo per completezza, si rammenta che il d.lgs. n. 107 del 2018, nell’apportare modifiche al d.lgs. 58/1998 (TUF), ha fra l’altro sostituito integralmente il testo degli artt. 187-bis e 187-ter, che descrivevano le figure dell’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, rendendolo omogeneo con quello previsto dagli artt. 14 e 15 del Regolamento 2014/596/UE (MAR), lasciando invariati, peraltro i corrispondenti illeciti penali previsti dagli artt. 184 e 185 TUF.

Cominciando dalla sentenza n. 45829 del 2018, deve evidenziarsi che essa dà atto delle risposte ai quesiti pregiudiziali formulati dalla Cassazione civile (e precisamente, quanto al primo, che “l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva”; quanto al secondo dei quesiti, concernente la diretta applicabilità del diritto in questione, la Corte ha chiarito che “il principio del ne bis in idem garantito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea conferisce ai soggetti dell’ordinamento un diritto direttamente applicabile nell’ambito di una controversia come quella oggetto del procedimento principale”).

La sentenza, inoltre, segnala che il quadro giurisprudenziale emerso negli orientamenti di legittimità successivi alla pronuncia A e B volge all’obiettivo di trovare un giusto contemperamento di interessi tra le esigenze repressive dello Stato nazionale verso fatti illeciti di notevole disvalore sociale e le garanzie individuali, con il probabile scopo di mitigare gli effetti dell’applicazione del divieto di bis in idem processuale, come sancito dalla sentenza Grande Stevens, ritenuto troppo rigido e che aveva provocato difficoltà applicative negli Stati membri.

In tale ottica, si individua un percorso interpretativo che ha condotto, a giudizio della Quinta Sezione, la Suprema Corte ad elaborare (nelle richiamate pronunce n. 12267 del 2018, n. 9184 del 2016, n. 6993 del 2018, già citate) il principio dello stretto nesso materiale e temporale già ampiamente illustrato in modo sostanzialmente analogo rispetto alla Corte EDU, con la precisazione che, tra le sue condizioni di verifica, i giudici di legittimità individuano anzitutto, come sub-criterio prevalente per valutare la presenza della stretta connessione quello della “proporzionalità” tra il cumulo di sanzioni irrogate (di cui quella amministrativa pecuniaria è ormai considerata di natura penale) e la gravità dell’illecito.

In definitiva – nel ricorrere degli altri indici rivelatori dello stretto nesso materiale e temporale – è considerata legittima la parallela instaurazione, prosecuzione e decisione sanzionatoria tramite il doppio binario di procedure, purché esse formino un insieme integrato di procedimenti e di relative sanzioni, caratterizzato dalla prevedibilità: al Giudice nazionale, in base ai suindicati sub-criteri, è affidato il compito di accertare la ricorrenza di tali caratteri di proporzionalità e prevedibilità nel caso concreto, compito arduo, la cui complessità viene sottolineata dalla motivazione della sentenza n. 45829 del 2018.

Condividendo tali approdi (attraverso l’esplicito ribadirsi del principio secondo cui l’irrogazione per il medesimo fatto sia di una sanzione penale che di una sanzione amministrativa definitiva, previste rispettivamente dagli artt. 185 e 187-ter, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, non determina la violazione del principio del ne bis in idem, a condizione che il cumulo delle sanzioni risulti proporzionale alla gravità del fatto commesso, in conformità ai principi espressi nelle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-524/15, Menci; C-537/26, Garlsson Real Estate, nonché nella sentenza della Corte EDU A e B c. Novergia del 15.11.2016) e rapportandoli al caso concreto da decidere, la Quinta

Sezione rileva anzitutto, analizzando il nuovo art. 620, comma 1, lett. l) cod. proc. pen., la possibilità di sindacato da parte della Corte di cassazione, anche d’ufficio in assenza di specifico motivo sul punto, della proporzionalità della sanzione complessiva integrata.

Si afferma, pertanto, che, in tema di abusi di mercato, il giudice di legittimità può valutare la proporzionalità del cumulo sanzionatorio in applicazione dell’art. 620, comma 1, lett. l), cod. proc. pen., qualora non sia necessario procedere ad ulteriori accertamenti di fatto e facendo riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., eventualità che ricorre nel caso di specie.

All’esito dell’analisi degli elementi risultanti dalle pronunce di merito, pertanto, la Corte ritiene che sia stato rispettato il criterio di proporzionalità del peso derivante dal cumulo delle sanzioni inflitte agli interessati rispetto alla gravità dei fatti addebitati, nonché della limitazione della sua severità allo strettamente necessario, in modo da non risultare eccessivamente oneroso per i soggetti sanzionati.

Ed infatti, le sanzioni penali inflitte agli imputati si erano attestate nel minimo edittale per quanto riguarda la pena detentiva della reclusione; anche la multa è stata commisurata in termini di poco superiori al minimo edittale; infine, le sanzioni amministrative (di natura penale) pecuniarie applicate dalla CONSOB, pur essendo superiori al minimo, appaiono molto lontane dalla fascia sanzionatoria più elevata prevista dall’art. 187-ter ed altrettanto vale per le sanzioni amministrative accessorie inflitte ai sensi dell’art. 187-quater (peraltro, nel caso di specie, la Corte dichiara non eseguibili le sanzioni penali di natura pecuniaria, poiché inferiori nell’importo a quelle CONSOB già esatte).

Si conclude, quindi, che, se è vero che l’art. 187-terdecies non garantisce che la severità dell’insieme delle sanzioni inflitte sia limitata a quanto strettamente necessario e proporzionato rispetto alla gravità del reato (secondo il principio affermato dalla sentenza Garlsson), tuttavia, esso non appare aderente alla peculiarità del caso in esame, caratterizzato da una significativa incidenza delle attività degli imputati sul prezzo del titolo anche a causa del protrarsi della condotta nel tempo, sicché, rispetto al disvalore del fatto, la sola sanzione penale inflitta – stabilita in sostanza nel minimo sia per la pena della reclusione che della multa – non appare idonea a reprimere il delitto in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva; viceversa, il trattamento sanzionatorio derivante dall’insieme delle pene in concreto applicate non risulta eccessivamente oneroso per i soggetti interessati.

La pronuncia n. 49869 del 2018, Chiarion, estremamente ricercata nell’approfondimento motivazionale, soprattutto con riguardo alla ricostruzione dei percorsi giurisprudenziali delle Corti europee e dei giudici nazionali, propone anch’essa una verifica preliminare: quella relativa a se la disciplina sanzionatoria del TUF di cui al d.lgs. n. 58 del 1998, che viene in rilievo anche nel caso di specie, sia conforme alla disciplina della CEDU e al diritto dell’Unione europea, alla luce dei dicta delle due Corti europee già richiamati.

A tal riguardo si esclude, anzitutto, che le sanzioni amministrative comminate per l’abuso di informazioni privilegiate siano riconducibili al “nucleo duro” del diritto penale (ossia si presentino come connotate da particolare attitudine stigmatizzante), secondo quanto indicato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 43 del 2018.

Si sottolinea in proposito che i più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale hanno messo in luce come la riconducibilità di una sanzione formalmente amministrativa alla materia penale secondo i canoni convenzionali non comporti la riferibilità tout court a detta sanzione dell’apparato di garanzie proprio della sanzione penale in senso stretto: infatti, «ciò che per la giurisprudenza europea ha natura “penale” deve essere assistito dalle garanzie che la stessa ha elaborato per la “materia penale”; mentre solo ciò che è penale per l’ordinamento nazionale beneficia degli ulteriori presidi rinvenibili nella legislazione interna», non essendo precluso al legislatore interno il riconoscimento di determinate garanzie al (solo) «nucleo più incisivo del diritto sanzionatorio, rappresentato dal diritto penale, qualificato come tale dall’ordinamento interno» (così la sent. n. 43 del 2017 Corte cost., che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale proposte in relazione all’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1958, n. 87 ed alla limitazione della sua portata normativa alle sole sentenze irrevocabili di condanna con le quali sia stata inflitta una sanzione penale nel significato proprio dell’ordinamento giuridico italiano, e non anche nel significato, più ampio, proprio del sistema convenzionale).

Viene così delineata dalla Corte costituzionale una modulazione delle tutele accordate alle sanzioni riconducibili alla “materia penale”, nel senso della non equiparabilità in toto di quelle penali in senso stretto (e, dunque, espressione del nucleo più incisivo del sistema sanzionatorio) a quelle amministrative: per queste ultime, anche in ossequio al principio di sussidiarietà (cfr. le sentenze n. 49 del 2015 e n. 68 del 2017 Corte cost.), il legislatore conserva la discrezionalità – purché non trasmodi nella manifesta irragionevolezza – di configurare un trattamento sanzionatorio per l’illecito amministrativo non sorretto dall’identico corpus di garanzie della sanzione penale in senso stretto (cfr. sent. n. 193 del 2016 Corte cost.).

Si conferma, in tal modo, in una prospettiva di ricostruzione della nozione di “materia penale” definita, in dottrina, “a geometria variabile”, la non riconducibilità delle sanzioni amministrative comminate per l’abuso di informazioni privilegiate al nucleo più incisivo del diritto sanzionatorio, rappresentato dal diritto penale.

L’estremo interesse di questo approccio sistematico, ispirato alle pronunce della Corte costituzionale è evidente: da esso traspare lo sforzo di non eludere il problema della definizione di materia penale, che rimane, invece, confinato sullo sfondo della sentenza A e B contro Norvegia e di tutta l’evoluzione giurisprudenziale successiva che ad essa si ispira.

La sentenza Chiarion, quindi, analizza anch’essa le condizioni di compatibilità della disciplina sanzionatoria del testo unico finanziario con la regola di giudizio della sentenza CEDU del 2016, enunciandole una per una: dalla complementarietà della finalizzazione della disciplina sanzionatoria amministrativa e di quella penale – che dà vita a quel “sistema integrato” voluto dalla sentenza A e B – alla prevedibilità dell’irrogabilità di due sanzioni, alla tendenziale univocità degli elementi conoscitivi alla base dei due procedimenti.

Si arriva, così, alla medesima affermazione della prima sentenza già commentata di compatibilità tra il procedimento penale e quello amministrativo previsti dalla disciplina nazionale in tema di abusi di mercato, rilevata quella connessione sostanziale e temporale che, secondo l’insegnamento della sentenza della Grande Camera della Corte EDU, esclude la violazione del principio del ne bis in idem.

Eguale analisi viene svolta con riferimento alle recenti sentenze della Corte di Giustizia, in relazione a quella che la pronuncia Chiarion denomina come base legale della disciplina del cumulo sanzionatorio (e cioè l’insieme delle condizioni già esaminate costituenti la regola della sufficiently close connection in substance and time), analoga e oramai convergente rispetto alla giurisprudenza della Corte EDU ed alla sentenza A e B.

All’esito anche di tale ulteriore verifica, la Corte di cassazione passa a valutare il peculiare profilo della proporzionalità complessiva della sanzione irrogata, che costituisce aspetto particolarmente rimarcato dai giudici di Lussemburgo, come detto, sin dalla sentenza Fransson del 2013, e che spetta al giudice nazionale, il quale, per tale ragione, diviene artefice essenziale della tutela delle garanzie individuali, tanto nella prospettiva CEDU, quanto in quella dell’Unione Europea.

La regula iuris che si enuncia per dar luogo a tale controllo di proporzionalità è la seguente: nella verifica della compatibilità con il principio del ne bis in idem del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato all’autore dell’abuso di mercato, il giudice comune deve valutare la proporzionalità del cumulo sanzionatorio rispetto al disvalore del fatto, da apprezzarsi con riferimento agli aspetti propri di entrambi gli illeciti (quello penale e quello “formalmente” amministrativo) e, in particolare, agli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato (anche sotto il profilo dell’incidenza del fatto sull’integrità dei mercati finanziari e sulla fiducia del pubblico negli strumenti finanziari), tenendo conto, con riguardo alla pena della multa, del meccanismo “compensativo” di cui all’art. 187-terdecies TUF; qualora detta valutazione dovesse condurre a ritenere il complessivo trattamento sanzionatorio lesivo della garanzia del ne bis in idem, nei termini sopra diffusamente richiamati, il giudice nazionale dovrà dare applicazione diretta al principio garantito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, disapplicando, se necessario e, naturalmente, solo in mitius, le norme che definiscono il trattamento sanzionatorio.

La disapplicazione, secondo la motivazione della sentenza, potrà investire in toto la norma relativa alla sanzione non ancora divenuta irrevocabile solo quando la “prima” sanzione sia, da sola, proporzionata al disvalore del fatto, avuto riguardo anche agli aspetti propri della “seconda” sanzione e agli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato: infatti, solo in presenza di una sanzione irrevocabile idonea, da sola, ad “assorbire” il complessivo disvalore del fatto, il giudice comune dovrà disapplicare in toto la norma che commina la sanzione non ancora irrevocabile, così escludendone l’applicazione.

La Cassazione avverte che quest’ultima costituisce senza dubbio un’ ipotesi, che, considerata la già evidenziata estraneità della sanzione irrogata dall’autorità amministrativa al nucleo più incisivo del diritto sanzionatorio, rappresentato dal diritto penale, è potenzialmente suscettibile di venire in rilievo nel caso in cui la valutazione circa la violazione del ne bis in idem riguardi la sanzione amministrativa, essendo già divenuta irrevocabile quella penale (e cioè proprio l’ipotesi presa in considerazione dalla sentenza Garlsson Real Estate). Mentre, nel caso opposto in cui (come nella fattispecie trattata dalla Corte di cassazione) la sanzione divenuta irrevocabile sia quella irrogata da CONSOB, la disapplicazione in toto della norma sanzionatoria penale può venire in rilievo in ipotesi del tutto eccezionali, in cui la sanzione amministrativa – evidentemente attestata sui massimi edittali in rapporto ad un fatto di consistente gravità sotto il profilo penale – risponda, da sola, al canone della proporzionalità nelle diverse componenti riconducibili ai due illeciti.

Fuori dall’ipotesi del tutto eccezionale appena richiamata, l’accertamento dell’incompatibilità del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato rispetto alla garanzia del ne bis in idem comporta, nel caso di sanzione amministrativa già divenuta irrevocabile, esclusivamente la rideterminazione delle sanzioni penali attraverso la disapplicazione in mitius della norma che commina dette sanzioni non già in toto, ma solo nel minimo edittale e con i limiti che saranno subito di seguito messi in luce.

E difatti, anche nel caso sottoposto alla Corte non si verte in un’ipotesi estrema in cui si renda necessario intervenire con la disapplicazione in toto della sanzione irroganda.

Decisivi in tal senso risultano, nell’ottica della pronuncia in commento, le peculiarità della fattispecie concreta, l’irrogazione di una sanzione amministrativa più prossima al minimo edittale e le stesse valutazioni della sentenza di merito impugnata.

In conclusione, viene enunciato il principio secondo cui, in tema di abusi di mercato, nel caso in cui la sanzione irrogata da CONSOB sia già divenuta irrevocabile, la verifica del giudice penale circa la legittimità, rispetto al principio del ne bis in idem, del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato all’autore degli illeciti – fuori dall’ipotesi del tutto eccezionale (e non ricorrente nel caso di specie) in cui la sanzione amministrativa sia, da sola, proporzionata al disvalore del fatto, valutato alla luce degli aspetti propri di entrambi gli illeciti e, in particolare, degli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato – può comportare esclusivamente la rideterminazione delle sanzioni penali attraverso la disapplicazione in mitius della norma che commina dette sanzioni solo nel minimo edittale, con esclusione della multa, in virtù del meccanismo “compensativo” di cui all’art. 187-terdecies TUF, e, con riguardo alla reclusione, fermo restando il limite minimo insuperabile dettato dall’art. 23 cod. pen. 

A tale apprezzamento di “non necessità della disapplicazione totale” e di “necessità”, invece, “di una eventuale rimodulazione in melius della sanzione penale inflitta” può provvedere – secondo la sentenza in commento e in base all’analoga prospettiva seguita anche dalla pronuncia n. 45829 del 2018 – lo stesso giudice di legittimità, sulla base degli elementi di fatto già accertati (cfr. l’interpretazione dell’art. 620, comma 1, lett. l, cod. proc. pen., da ultimo autorevolmente data da Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017, dep. 2018, Matrone, Rv. 271831).

Tuttavia, nel caso di specie, la Quinta Sezione rileva che non sussistano le condizioni per procedere essa stessa alla rideterminazione della pena inflitta nel giudizio d’appello, essendo impossibile procedere ad un diretto apprezzamento della complessiva proporzionalità del trattamento sanzionatorio alla luce degli atti; la Corte pronuncia, dunque, un annullamento con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d’Appello di Milano, che dovrà provvedervi, secondo le indicazioni della stessa sentenza, alla luce dei parametri commisurativi enunciati dalle Corti europee e sussumibili nella valutazione di cui all’art. 133 cod. pen.

5. Ulteriori scenari prospettici.

Non vi è dubbio che il panorama interpretativo con riferimento al principio di ne bis in idem convenzionale ed alla sua declinazione nella giurisprudenza di legittimità degli ultimi due anni, grazie alla sentenza A e B contro Norvegia del 2016, ha subito una brusca accelerazione nel senso, profeticamente indicato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 43 del 2018, della minor probabilità, d’ora innanzi, dell’applicazione del divieto convenzionale di bis in idem alle ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per il medesimo fatto.

Tuttavia, per usare ancora le parole del giudice delle leggi, non è affatto da escludere che tale applicazione si imponga di nuovo, sia nell’ambito degli illeciti tributari, sia in altri settori dell’ordinamento, ogni qual volta sia venuto a mancare l’adeguato legame temporale e materiale, a causa di un ostacolo normativo o del modo in cui si sono svolte le vicende procedimentali.

È per questo che, in coda alla sentenza n. 43 del 2018, la Corte costituzionale non ha mancato di formulare un (ennesimo) monito al legislatore interno che dovrebbe finalmente stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che il sistema del cosiddetto doppio binario genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU (l’invito si ritrova, identico, nella sentenza n. 102 del 2016 Corte cost. cit., ma non sembra essere stato compreso appieno dal legislatore italiano, il quale, nel modificare – con il citato d.lgs. n. 107 del 10 agosto 2018 – le figure di illecito amministrativo di abuso informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, non ha modificato le corrispondenti ipotesi di reato previste dal TUF, determinando difficoltà interpretative per stabilire se (ed eventualmente in quale misura) le nuove figure d’illecito amministrativo corrispondano (più esattamente: descrivano comportamenti che siano riconducibili) alle fattispecie astratte dei delitti di cui agli artt. 184 e 185 TUF).

Deve, altresì, evidenziarsi come, nonostante lo sforzo della giurisprudenza – ed in particolare, da ultimo, quello della sentenza della Quinta Sezione Penale n. 49869 del 2018, di cui si dirà di qui a poco – un problema dogmatico di ordine generale rimane tuttora aperto e solo accantonato dalla forza persuasiva (e capace di “distrarre” l’interprete) della regola valutativa – innegabilmente accattivante nella sua duttilità applicativa – enunciata dalla sentenza A e B prima e dalle sentenze del marzo 2018 della Corte di Giustizia europea poi: e cioè quello della compatibilità di fondo tra i sistemi a legalità penale formale, quale è il sistema italiano, e la nozione sostanzialistica ed aperta di matière pénale adottata dalle Corti europee.

Se oggi il piano di intervento per la verifica della violazione del principio di ne bis in idem si è spostato verso un doppio livello di controllo – la stretta connessione procedimentale “in substance and time” e la proporzionalità della sanzione complessivamente inflitta rispetto al disvalore del fatto concreto – ciò non significa che la questione della categorizzazione degli illeciti convenzionalmente rilevanti per il giudizio di bis in idem sia del tutto superata.

Piuttosto, potremmo dire che essa appare sopita, smussata nella sua portata dirompente (evidente dalla lettura di alcune delle pronunce, volutamente anodine sul punto, della Corte costituzionale, prima dell’intervento della Corte EDU nel 2016 – cfr. ad esempio, proprio la sentenza di inammissibilità n. 102 del 2016 più volte citata – ma anche successive ad esso: cfr. la già citata sentenza n. 43 del 2017, la quale pure, come si è visto, svolge affermazioni di rilievo nel ricostruire il concetto di “materia penale”).

Tale risultato è stato indotto non soltanto dalla diversa prospettiva di verifica alla quale oggi ci siamo in poco tempo, tutto sommato, abituati – non più il piano della comparazione tra gli illeciti, bensì quello della complementarità procedimentale e del cumulo sanzionatorio finale – ma anche, come si diceva, da alcuni sforzi interpretativi che leggono il nostro sistema penale in un’ottica convenzionalmente orientata.

Il riferimento è, ancora una volta, alle sentenze della Quinta Sezione Penale, n. 45829 del 2018 e n. 49869 del 2018.

Nella prima pronuncia, addirittura, si dà per scontato che la nozione di “illecito amministrativo di natura sostanzialmente penale”, senza dubbio “diritto vivente” convenzionale, sia stata recepita anche dal “diritto vivente interno”, esattamente negli stessi termini di accezione della giurisprudenza delle Corti Europee.

Tale affermazione (salutata con favore da una parte della dottrina più attenta al tema: cfr. F. Mucciarelli, Illecito penale, illecito amministrativo e ne bis in idem: la Corte di cassazione e i criteri di stretta connessione e di proporzionalità, in Penale Contemporaneo, online, 17.10.2018) appare quanto meno ottimistica, essendo, invece, senz’altro vero che la giurisprudenza di legittimità, dopo la sentenza A e B, ha, con maggior tranquillità, adottato indici di analisi della fattispecie più aderenti al concetto di “materia penale convenzionale”, consapevole del fatto che la verifica della violazione del ne bis in idem si era spostata, a partire da detta pronuncia, su un altro piano logico, molto più facilmente gestibile dal punto di vista interpretativo: la stretta connessione procedimentale e la proporzionalità della sanzione complessivamente inflitta dagli illeciti complementari facenti parte di un sistema “integrato”.

Nella sentenza n. 49869 del 2018 si propone, invece, una innovativa lettura del principio di legalità, in risposta alle eccezioni al riguardo proposte dalla CONSOB nel processo.

Tale principio, si dice, non può essere invocato per giustificare una indiscriminata preclusione alla conformazione del diritto interno al diritto dell’Unione europea in materia penale.

Il rilievo troverebbe conferma sia nelle tante pronunce della giurisprudenza di legittimità in tema, ad esempio, di disciplina dell’immigrazione, alla luce della direttiva 2008/115/ CE e della sentenza della Corte di Giustizia, 28 aprile 2011, El Dridi (ex plurimis, Sez. 1, n. 20130 del 29/04/2011, Sall, Rv. 250041), ovvero di disciplina delle scommesse, alla luce degli artt. 49 e 56 TFUE e di varie decisioni della Corte di Lussemburgo (ex plurimis, Sez. 3, n. 43955 del 15/09/2016, Tornassi, Rv. 267936); sia anche nella stessa giurisprudenza costituzionale.

Ed infatti, investita delle questioni di legittimità della disciplina sanzionatoria penale in materia di giochi e scommesse, sollevate anche in riferimento ad alcune norme dei Trattati, la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 48 del 2017, ha ribadito il consolidato orientamento secondo cui: «per giurisprudenza di questa Corte, fondata sull’art. 11 della Costituzione e costante a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, il giudice nazionale deve dare piena e immediata attuazione alle norme dell’Unione europea provviste di efficacia diretta e non applicare, in tutto o anche solo in parte, le norme interne ritenute con esse inconciliabili»; la «non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite – sindacabile unicamente da questa Corte – del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona».

Princìpi e diritti fondamentali della persona che risultano salvaguardati – secondo la sentenza della Corte di cassazione – dall’assetto del ne bis in idem e dei compiti di accertamento riconosciuti al giudice penale, anzitutto perché l’apprezzamento cui è chiamato il giudice interno, in riferimento alla compatibilità del complessivo trattamento sanzionatorio irrogato all’interessato con la garanzia del ne bis in idem, è sostanzialmente affine alle valutazioni sottese ai parametri commisurativi di cui all’art. 133 cod. pen., determinando, rispetto ad essi, un “allargamento” dell’oggetto di tali valutazioni, che, per un verso, devono essere estese al trattamento sanzionatorio inteso come comprensivo anche della sanzione formalmente amministrativa e, per altro verso, devono investire il fatto commesso nei diversi aspetti propri dei due illeciti (quello penale e quello “formalmente” amministrativo).

Come è evidente anche da quest’ultimo passaggio motivazionale, lo sforzo di interpretare in senso convenzionale il principio di legalità in materia penale confluisce nuovamente nell’ambito di verifica “sanzionatorio”, non esattamente sovrapponibile a quello di verifica della “natura dell’illecito”, sebbene omogeneo ad un piano sostanziale di ragionamento e certamente rilevante perché finalizzato a parametrare la risposta punitiva al disvalore penale del fatto.

Vedremo in futuro come e se le Corti europee e nazionali intenderanno ritornare sull’argomento; per ora è evidente il successo della regola interpretativa dettata dalla Corte EDU nella sentenza A e B contro Norvegia del 2016.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799-800 Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, Di Lorenzo, Rv. 248722 Sez. 1, n. 20130 del 29/04/2011, Sall, Rv. 250041 Sez. U, n. 37425 del 28/03/2013, Favellato, Rv. 255759 Sez. 1, n. 19915 del 17/12/2013 – dep. 2014 –, Gabetti, Rv. 260686 Sez. 5, ord. n. 1782 del 10/11/2014 – dep. 2015 –, Chiarion Sez. 3, n. 31378 del 14/01/2015, Ghidini, Rv. 264332 Sez. 4, n. 9168 del 6/02/2015, Meligeni, Rv. 262445 Cass. civ. Sez. trib. n. 950 del 21/01/2015, Rv. 634956-01 Sez. 3, n. 25815 del 22/06/2016, Scagnetti, Rv. 267301 Sez. 5, n. 47683 del 4/10/2016, Robusti, Rv. 268502 Sez. 2, n. 9184 del 15/12/2016, – dep. 2017 –, Pagano, Rv. 269237 Sez. 4, n. 12175 del 3/11/2016 – dep. 2017 –, Bordogna, Rv. 270387 Sez. 3, n. 43955 del 15/09/2016, Tornassi, Rv. 267936 Sez. 4, n. 54986 del 24/10/2017, Montagna, Rv. 271717 Sez. 3, n. 6993 del 22/09/2017 – dep. 2018 –, Servello, Rv. 272588 Sez. 3, n. 35156 del 1/03/2017, Palumbo, Rv. 270913 Sez. 3, n. 56264 del 18/05/2017, Elan, Rv. 272329 Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017 – dep. 2018 –, Matrone, Rv. 271831 Sez. 6, n. 19486 del 1/02/2018, Bumbaca, Rv. 273077 Sez. 5, n. 42599 del 18/07/2018, C, Rv. 274010 Sez. 5, n. 25651 del 15/02/2018, Pessotto, Rv. 273468 Sez. 3, n. 21994 del 1/02/2018, Pigozzi, Rv. 273220 Sez. 6, n. 16846 del 1/03/2018, C., Rv. 273010 Sez. 4, n. 12267 del 13/02/2018, Palmieri, Rv. 272533 Sez. 5, n. 49869 del 21/09/2018, Chiarion Sez. 5, n. 45829 del 16/07/2018, Franconi

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 170 del 1984 Corte cost., sent. n. 49 del 2015 Corte cost., sent. n. 102 del 2016 Corte cost., sent. n. 193 del 2016 Corte cost., sent. n. 43 del 2017 Corte cost., ord. n. 48 del 2017 Corte cost., sent. n. 68 del 2017 Corte cost., sent. n. 43 del 2018

Sentenze della Corte di Giustizia europea

El Dridi del 28 aprile 2011 Aklagaren c. Hans Akerberg Fransson del 26 febbraio 2013, C-617/10 Grande Sezione, 5 giugno 2012, C-489/10, Bonda Grande Sezione, 20 marzo 2018, Menci (C-524/15) Grande Sezione, Garlsson Real Estate SA e altri contro Consob (C-537/16) Grande Sezione, Di Puma contro Consob e Consob contro Zecca (cause riunite C-596/16 e C-597/16).

Sentenze della Corte EDU

Engel contro Paesi Bassi del 8 giugno 1976 Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014 Nykanen contro Finlandia del 20 Maggio 2014 Lucki Dev contro Svezia del 27 Novembre 2014 Kiivari contro Finlandia del 10 febbraio 2015 Grande Chambre, A e B contro Norvegia del 15 novembre 2016

  • detenuto
  • regime penitenziario
  • amministrazione penitenziaria

CAPITOLO III

QUESTIONI IN TEMA DI ORDINAMENTO PENITENZIARIO

(di Luigi Giordano )

Sommario

1 Premessa. - 2 Il divieto di concessione dei benefici di cui all’art. 4-bis ord. pen.  - 3 (segue). I limiti all’operatività del divieto. - 4 (segue). L’utile collaborazione con la giustizia. - 5 (segue). La sentenza della Corte costituzionale n. 149 del 2018. - 6 Assistenza all’esterno dei figli minori. - 7 Permessi per eventi familiari di particolare gravità. - 8 Permessi premio. - 9 Rimedi conseguenti alla violazione dell’art. 3 Cedu. - 10 (segue). La natura del rimedio di cui all’art. 35-ter ord. pen. e le conseguenze sulla determinazione del termine di prescrizione del diritto. - 11 (segue). Reclamo dell’amministrazione e assistenza dell’Avvocatura di Stato. - 12 (segue). La condanna dell’amministrazione al pagamento delle spese nel caso si rigetto del reclamo. - 13 (segue). I presupposti per la tutela. - 14 (segue). Profili relativi alla competenza. - 15 (segue). Altri aspetti procedimentali. - 16 (segue). L’inammissibilità dell’eccezione di compensazione. - 17 Il trattamento detentivo di cui all’art. 41-bis ord. pen.: la sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 2018. - 18 La sentenza della Corte EDU nel caso Provenzano c. Italia. - 19 Il “contenuto” trattamento detentivo speciale. - 20 (segue). La videosorveglianza continua. - 21 (segue). Il trattenimento della corrispondenza. - 22 (segue). Il diritto alla salute e all’alimentazione sana. - 23 (segue). La permanenza all’aria aperta. - 24 I presupposti per la nuova emissione del decreto ministeriale. - 25 L’applicabilità agli internati. - 26 Conseguenze del trattamento penitenziario differenziato sullo svolgimento del dibattimento. - 27 Misure alternative alla detenzione: Affidamento in prova al servizio sociale. - 28 (segue). L’affidamento in prova “allargato” e la sospensione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive brevi. - 29 (segue). L’affidamento per ragioni terapeutiche. - 30 (segue). I presupposti per la revoca della misura. - 31 Detenzione domiciliare. - 32 (segue). L’insorgenza della malattia psichica e l’applicabilità della detenzione domiciliare “in deroga”. - 33 (segue). La sentenza della Corte costituzionale n. 211 del 2018. - 34 (segue). I presupposti della revoca. - 35 Liberazione anticipata: limiti alla concedibilità. - 36 (segue). La liberazione anticipata “speciale”. - 37 Il divieto di concessione dei benefici di cui all’art. 58-quater ord. pen.  - 38 (segue). La sentenza della Corte costituzionale n. 149 del 2018. - 39 Funzioni e provvedimenti del magistrato di sorveglianza. - 40 (segue). Il reclamo al tribunale di sorveglianza. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Il contributo che segue ha ad oggetto una ricognizione della giurisprudenza di legittimità del 2018 sulla disciplina dell’ordimento penitenziario, con particolare riguardo alle pronunce che sembrano segnare un’evoluzione negli indirizzi interpretativi precedentemente affermati ovvero il definitivo consolidamento di recenti approdi ermeneutici.

Anche nel corso del 2018, la giurisprudenza della Corte ha continuato a prediligere interpretazioni del dato normativo che mirano a conseguire l’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena. In tale prospettiva, ad esempio, diverse pronunce hanno precisato i limiti delle preclusioni all’ottenimento dei benefici penitenziari con riferimento, tra l’altro, al presupposto della collaborazione con la giustizia o alla sua impossibilità di cui all’art. 4-bis ord. pen. Di recente, sul tema, la Sez. 1, con ordinanza emessa alla camera di consiglio del 20/11/2018, non ancora depositata al momento in cui si scrive, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis ord. pen. «nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio». Altre decisioni, inoltre, hanno ribadito la necessità di un trattamento penitenziario “individualizzante”, che tenga conto, tra l’altro, dell’insorgenza di una malattia psichica. Si allude a pronunce come Sez. 1, ord. n. 13382 del 23/11/2017 -dep. 2018 –, n.m., Montenero, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 2, 3, 27, 32 e 117 della Cost., dell’art. 47-ter, comma primo-ter, ord. pen., nella parte in cui non prevede l’applicazione della detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena).

La tensione a garantire la funzione assegnata alla pena dall’art. 27 Cost., d’altra parte, ha caratterizzato anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale che, nel corso del 2018, ha emesso importanti sentenze, di cui si darà conto, con cui sono state superate alcune rigide preclusioni previste dalla legge al conseguimento di benefici. Si allude alla sentenza della Corte costituzionale n. 149 del 2018 che, per la prima volta, ha dichiarato l’illegittimità di una forma di ergastolo “ostativo”, sia pure relativo ad un ristretto novero di destinatari, o a quella n. 211 del 2018 che ha ritenuto in contrasto con l’art. 3 Cost. il diverso trattamento assicurato dalla legge all’allontanamento ingiustificato del padre ammesso alla detenzione domiciliare “ordinaria” per prendersi cura dei figli rispetto a quello del padre ammesso alla diversa misura della detenzione domiciliare speciale in caso di decesso o impossibilità assoluta della madre, se non vi è modo di affidare ad altri la prole, di cui all’art. 47-quinquies, comma settimo, ord. pen. 

Un’altra linea evolutiva che ha caratterizzato gli orientamenti giurisprudenziali di legittimità nel corso del 2018, è rappresentata dall’obiettivo di garantire un trattamento penitenziario pienamente rispettoso dei diritti umani. Al riguardo, saranno illustrate diverse pronunce che hanno fissato i presupposti perché il trattamento penitenziario sia conforme all’art. 3 Cedu. Anche in questo caso, peraltro, la giurisprudenza di legittimità appare pienamente in linea con l’indirizzo della Corte costituzionale che, nel 2018, ha emesso un’importante decisione sul regime detentivo speciale. Si allude alla sentenza n. 186 del 12/10/2018, con la quale la Corte, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), ord. pen., come modificato dall’art. 2, comma 25, lett. f), n. 3) della legge 15 luglio 2009, n. 94, nella parte in cui fa divieto di cuocere cibi in carcere per i condannati sottoposti al regime differenziato, ha affermato la conformità ai principi costituzionali delle sole prescrizioni funzionali al perseguimento delle finalità di tale trattamento detentivo.

Sul punto verranno illustrate anche talune pronunce della Corte EDU, che incidono su questi profili e che hanno avuto, o verosimilmente avranno, riflessi sulla giurisprudenza della Corte di cassazione. Tra queste, in particolare, la sentenza emessa nel caso Provenzano c. Italia, con la quale la Corte di Strasburgo è tornata sul regime detentivo differenziato previsto dall’art. 41-bis ord. pen., ritenendo violato l’art. 3 Cedu per aver consentito il nostro Paese la continuazione del predetto regime speciale detentivo fino alla morte di un detenuto, malgrado la sussistenza di una grave patologia.

Nella trattazione, tra l’altro, ci si soffermerà sul rimedio compensativo di cui all’art. 35-ter ord. pen, illustrando la sentenza Sez. U, n. 3775 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Ministero della Giustizia in proc. Tuttolomondo, Rv. 271648-49-50 e quella delle Sezioni unite civili n. 11018, del 20/01/2018, Ministero della Giustizia c. Cellini, che hanno fissato alcuni importanti orientamenti sui rimedi conseguenti alla violazione dell’art. 3 Cedu.

La ricognizione giurisprudenziale delle sentenze di legittimità sull’ordinamento penitenziario è apparsa altresì utile perché, nel corso del 2018, è intervenuta la riforma della materia. Si fa riferimento ai decreti legislativi che hanno dato attuazione alla legge delega 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. riforma Orlando) e, in particolare, del d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121, recante la “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 81, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, del d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 123, relativo alla “Riforma dell’ordinamento; penitenziario, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), d), i), l), m), o), r), t) e u), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, e del d.lgs. 2 ottobre 2028, n. 124, intitolato “Riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettere g), h) e r), della legge 23 giugno 2017, n. 103”. Con questo un nuovo tessuto normativo, necessariamente, dovrà confrontarsi la successiva giurisprudenza della Corte.

2. Il divieto di concessione dei benefici di cui all’art. 4-bis ord. pen. 

Anche nel corso del 2018, numerose pronunce della Corte di cassazione hanno riguardato l’applicazione dell’art. 4-bis ord. pen. Questa disposizione, come è noto, all’esito di diversi interventi normativi, detta una complessa disciplina ai fini della concessione dei benefici penitenziari che è stata sintetizzata da Sez. 1, n. 51877 del 21/09/2018, Hu, n.m., nei seguenti termini:

- per tutti i delitti dolosi, può precludere l’accesso ai benefici, compresa la liberazione anticipata, la comunicazione da parte del Procuratore nazionale o distrettuale antimafia di collegamenti attuali con la criminalità organizzata (art. 4-bis, comma terzo-bis, ord. pen.);

- nel caso di condanna per delitti di prostituzione e pornografia minorile (artt. 600bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies cod. pen.), delitti di violenza sessuale (artt. 609-bis non di lieve entità, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 609-undecies cod. pen.), l’accesso alle misure alternative, esclusa la liberazione anticipata, richiede assenza di prova di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e positiva osservazione scientifica della personalità condotta per un anno (art. 4-bis, comma 1-quater, ord. pen.);

- nel caso di condanna per i reati di cui agli artt. 575 cod. pen., 628, comma terzo, cod. pen., 629, comma secondo, cod. pen., 416, commi primo e terzo, cod. pen. finalizzato al compimento dei delitti di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen., 416 cod. pen. finalizzato al compimento dei delitti di cui agli artt. 600-604 cod. pen.; art. 73 aggravato ai sensi dell’art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990; art. 12, commi 3, 3-bis, 3-ter d.lgs. n. 286 del 1998, l’accesso ai benefici, esclusa la liberazione anticipata, richiede assenza di prova di collegamenti attuali con la criminalità organizzata (art. 4-bis, comma 1-ter, ord. pen.);

- nel caso di condanna per delitti con finalità di terrorismo od eversione dell’ordine democratico commessi mediante atti di violenza, delitti di cui agli artt. 416-bis e 416-ter cod. pen., delitti commessi avvalendosi delle condizioni ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, delitti di riduzione in schiavitù e tratta di persone (artt. 600, 601, 602 cod. pen.), art. 630 cod. pen., art. 12, commi 1 e 3, d.lgs. n. 286 del 1998, art. 291-quater d.P.R. n. 43 del 1973, art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, è ammissibile l’accesso ai benefici penitenziari, esclusa la liberazione anticipata, solo in caso di collaborazione ai sensi dell’art. 58-ter ord. pen. (art. 4-bis, comma 1) ovvero, in caso di collaborazione impossibile od oggettivamente irrilevante, se vi è prova della assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e, in caso di collaborazione impossibile, risulti la limitata partecipazione al fatto o l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità ovvero, in caso di offerta di collaborazione oggettivamente irrilevante, vi sia stato riconoscimento delle attenuanti di cui agli artt. 62, primo comma, n. 6, 114 e 116 cod. pen. o l’avvenuto risarcimento del danno dopo la condanna (art. 4-bis, comma 1-bis).

Tra le decisioni che hanno riguardato l’applicazione di questa disciplina si segnala Sez. 1, n. 18496 del 31/01/2018, Terracciano, Rv. 273070, secondo cui il divieto di concessione di benefici penitenziari costituisce un effetto processuale derivante dalla condanna per taluni reati o per il riconoscimento nella pronuncia di talune circostanze. Tale effetto, pertanto, non è soggetto al principio di irretroattività. Ne consegue che l’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 628, comma terzo, 3-quinquies, cod. pen., preclude, ai sensi degli artt. 4-bis ord. pen., la sospensione dell’esecuzione della pena, anche se la circostanza sia entrata in vigore successivamente alla commissione del fatto.

Secondo Sez. 2, n. 39961 del 19/07/2018, Rv. 273923, inoltre, anche in presenza della sola impugnazione dell’imputato, non costituisce violazione del divieto di “reformatio in peius” la nuova e più grave qualificazione giuridica data al fatto dal giudice dell’appello, quando da essa consegua, ferma restando la pena irrogata, un più grave trattamento penitenziario ai sensi dell’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354.

Va infine sottolineata l’ordinanza Sez. 1, n. 51877 del 21/09/2018, Hu, che ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. nella parte in cui non esclude dal novero dei reati ostativi, ivi indicati, il reato di cui all’art. 630 cod. pen., nel caso in cui per lo stesso sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di lieve entità. Secondo questa decisione, la ratio del divieto risiede nella presunzione che il delitto di sequestro di persona costituisca espressione di criminalità organizzata o comunque particolarmente pervasiva. Tale giustificazione non è apparsa ragionevole nel caso in cui sia stata riconosciuta la live entità del fatto.

3. (segue). I limiti all’operatività del divieto.

L’art. 4-bis, comma 1-bis, ord. pen., come è stato illustrato, delimita l’operatività del divieto dapprima illustrato, stabilendo che i benefici citati possano essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti di cui al catalogo contenuto nella stessa norma, purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e, altresì, nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia (nonché nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’art. 62, n. 6), cod. pen. anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’art. 114 ovvero dall’art. 116, comma secondo, cod. pen).

È stato precisato che il presupposto dell’impossibilità della collaborazione dell’interessato con la giustizia o della sua irrilevanza per la limitata partecipazione al fatto o per l’avvenuto integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, condizioni equiparate dalla disposizione normativa al requisito della collaborazione, deve necessariamente concorrere con quello della mancanza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata (Sez. 1, n. 7409 del 05/10/2017 – dep. 2018 –, Abbate, Rv. 272059).

Ai fini del superamento delle condizioni ostative alla fruizione di benefici penitenziari, peraltro, la sentenza Sez. 1, n. 36457 del 09/04/2018, P.G. in proc. Fava, Rv. 273610, ha affermato che non sussiste un obbligo dell’autorità inquirente di sollecitare il condannato a collaborare con la giustizia e di indicare al medesimo i temi del suo possibile apporto informativo. Non può configurarsi, pertanto, in assenza di tali iniziative, un caso di impossibilità o irrilevanza della collaborazione.

È stato ribadito che i delitti per i quali può essere pretesa la collaborazione del condannato, estranei o meno alla previsione dell’art. 4-bis ord. pen., devono essere compresi nel provvedimento in esecuzione, in conseguenza di condanna irrevocabile. Occorre evitare, infatti, che il condannato, in particolare per fatti di criminalità organizzata, sia ritenuto in grado, per la sola posizione rivestita, di riferire su situazioni di fatto e relazioni non ben individuate, con la conseguente assoluta indeterminatezza dei presupposti richiesti ed eccessiva discrezionalità per l’organo giudicante e corrispondente compromissione dei diritti di difesa. (Sez. 1, n. 11313 del 06/12/2017 – dep. 2018 –, Gallo, Rv. 272611; in precedenza, Sez. 1, n. 36999 del 28/6/2012, Rannesi, n.m..; Sez. 1, n. 35621 del 20/6/2013, Spada, n.m.).

La stessa sentenza ha chiarito che non costituisce ipotesi di inesigibilità della collaborazione, equipollente alla collaborazione positivamente prestata, l’impossibilità di rendere una collaborazione processualmente rilevante determinata da condotta volontaria (Sez. 1, n. 11313 del 06/12/2017 – dep. 2018 –, cit., in una fattispecie in cui è stato ritenuto che l’apporto informativo del condannato avrebbe potuto fare definitiva chiarezza sulle proprie ed altrui responsabilità in relazione al reato associativo per il quale era stato condannato).

È noto, nondimeno, che, ai fini dell’ammissione a benefici penitenziari che presuppongano la prova della collaborazione con la giustizia dell’interessato, gli elementi che qualificano tale collaborazione devono essere accertati dal giudice anche d’ufficio, ma il condannato ha l’onere di allegare e di prospettare le circostanze idonee a dimostrare l’impossibilità della utile collaborazione (cfr. ex plurimis, Sez. 1, n. 50484 del 2/10/2018, Mondella, n.m.; Sez. 1, n. 47044 del 24/01/2017, Sorice, Rv. 271474). Nell’istanza l’interessato è tenuto a indicare, almeno nelle linee generali, elementi specifici circa l’impossibilità o l’irrilevanza della sua collaborazione, così da consentire l’esame del merito dell’istanza stessa (Sez. 1, n. 10427 del 24/02/2010, P.M. in proc. C., Rv. 246397). Secondo Sez. 1, n. 7409 del 05/10/2017 – dep. 2018 –, Abbate, cit., tuttavia, il dubbio sulla sussistenza dei presupposti citati non può risolversi in danno dell’istante, dovendo trovare applicazione, anche in questa materia, la regola di giudizio secondo cui, se due significati possono ugualmente essere attribuiti a un dato probatorio, deve privilegiarsi quello più favorevole all’interessato, che può essere accantonato solo ove risulti inconciliabile con altri univoci elementi di segno opposto.

4. (segue). L’utile collaborazione con la giustizia.

L’art. 4-bis, comma 1-bis, ord. pen., come è stato precisato, al fine del superamento del divieto alla concessione dei benefici, equipara l’impossibilità della collaborazione con la giustizia (o la sua irrilevanza) alla collaborazione con la giustizia richiesta dall’art. 58-ter ord. pen. Una recente pronuncia ha affermato che quest’ultima condizione ricorre non solo nel caso di comportamenti di collaborazione che ineriscono al delitto per cui è in esecuzione la pena, ma anche quando sono stati offerti contributi informativi, che consentono la repressione o la prevenzione di condotte criminose diverse, sempre che costituiscano un “aiuto concreto” per l’autorità di polizia o per quella giudiziaria, da intendersi come apporto non oggettivamente irrilevante e, quindi, dotato di una reale efficacia ai fini della ricostruzione dei fatti e dell’accertamento delle responsabilità, che contribuisce alla formazione in dibattimento di prove indispensabili per dimostrare la responsabilità degli imputati e determinarne la condanna (cfr. Sez. 1, n. 41196 del 12/04/2018, Cesarano, n.m., che rimarca la differente sfera applicativa derivante dai presupposti diversi richiesti rispettivamente dagli artt. 4-bis e 58-ter ord. pen.; in precedenza, Sez. 1, n. 58075 del 26/10/2017, P.G.in proc. Cagnazzo, Rv. 271616).

Una sentenza del 2018, inoltre, ha precisato che, in relazione esclusivamente alla disciplina dei permessi premio, soltanto una collaborazione effettiva con la giustizia può, unitamente alle altre condizioni di legge, rimuovere la condizione delle soglie minime di pena espiata previste dall’art. 30-ter dello stesso ord. pen., senza che a detta collaborazione possa equipararsi la cd. collaborazione impossibile o inesigibile, che incide soltanto sull’astratta possibilità per il condannato di accedere al beneficio eliminando l’ostatività della pena, ma non anche le predette soglie (Sez. 1, n. 26073 del 20/12/2017 – dep. 2018 –, cit.).

Con la sentenza Sez. 1, n. 8668 del 12/01/2018, Cologna, Rv. 272312, inoltre, è stato affermato che nei confronti dei soggetti che abbiano collaborato con la giustizia non opera il divieto di concessione di benefici penitenziari al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa, previsto dall’art. 58-quater, comma 2 e 3, ord. pen. per un periodo di tre anni dal momento in cui è ripresa l’esecuzione della custodia o della pena ovvero è stato emesso il provvedimento di revoca. In motivazione, la Corte ha precisato che la disposizione dell’art. 16-nonies, comma 4, del d.l. 16 gennaio 1991, n. 8, conv. in legge 15 marzo 1991, n. 82, che consente di applicare benefici penitenziari anche a soggetti condannati per delitti ostativi che abbiano collaborato con la giustizia, è svincolata dai limiti contenuti nell’ordinamento penitenziario vigente, con la sola eccezione di quello di cui all’art. 58-quater, comma quarto, ord. pen. relativo ai condannati per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 cod. pen., che non è espressamente incluso tra le norme derogate dal citato art. 16-nonies.

5. (segue). La sentenza della Corte costituzionale n. 149 del 2018.

Va segnalato, inoltre, che la Corte costituzionale, per la prima volta, ha dichiarato l’illegittimità di una forma di ergastolo “ostativo”, sia pure relativo ad un ristretto novero di destinatari. Con la sentenza n. 149 del 20/06/2018, dep. 11/07/2018, infatti, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 58-quater, comma 4, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui impedisce ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 cod. pen., che abbiano cagionato la morte del sequestrato, l’accesso a tutti i benefici indicati dall’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. (lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà e liberazione condizionale) finché non abbiano effettivamente espiato almeno ventisei anni di pena, non riducibili per effetto della liberazione anticipata, e pur in presenza di una loro collaborazione o delle condizioni equiparate. Secondo la Corte, il carattere automatico della preclusione temporale all’accesso ai benefici, impedendo al giudice qualsiasi valutazione individuale sul concreto percorso di rieducazione compiuto dal condannato, in ragione soltanto del titolo di reato che supporta la condanna, contrasta con la ineliminabile finalità di rieducazione della pena, che deve sempre essere garantita anche nei confronti degli autori di reati gravissimi.

Appare appena il caso di aggiungere che il tema del cd. “ergastolo ostativo” presenta più ampi risvolti, riguardando le conseguenze che derivano per il condannato all’ergastolo nel caso di assenza della collaborazione con la giustizia ai sensi degli artt. 4-bis e 58-ter ord. pen. o della condizione equipollente, situazione nella quale è precluso l’accesso ai benefici penitenziari, con l’effetto pratico di rendere la condanna perpetua, ancorché, secondo la Corte costituzionale pur sempre per una autonoma scelta del condannato, libera e reversibile (Corte cost. n. 135 del 9/04/2003).

Il tema, invero, è stato affrontato anche dalla Corte di Cassazione. La Sez. 1, con ordinanza emessa alla camera di consiglio del 20/11/2018, non ancora depositata al momento in cui si scrive, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis ord. pen. «nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio».

6. Assistenza all’esterno dei figli minori.

L’art. 21-bis ord. pen. prevede che le condannate e le internate possono essere ammesse alla cura e all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci. Nel corso del 2018 la Corte costituzionale, con la sentenza 23/07/2018, n. 174, ha dichiarato l’illegittimità di questa disposizione nella parte in cui, attraverso il rinvio al precedente art. 21 ord. pen., con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, della medesima legge n. 354 del 1975, non consente l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci oppure lo subordina alla previa espiazione di una frazione di pena, salvo che sia stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58-ter sempre della stessa legge, cioè la collaborazione con la giustizia. secondo la Corte, «Subordinare la concessione di tale beneficio alla collaborazione con la giustizia significa condizionare in via assoluta e presuntiva la tutela del rapporto tra madre e figlio in tenera età ad un indice legale del “ravvedimento” della condannata». È possibile condizionare alla collaborazione con la giustizia l’accesso ad un beneficio, nei casi in cui quest’ultimo abbia di mira in via esclusiva la risocializzazione dell’autore della condotta illecita; «una tale possibilità non vi è quando al centro della tutela si trovi un interesse “esterno” e, in particolare, il peculiare interesse del figlio minore, garantito dall’art. 31, secondo comma, Cost., ad un rapporto quanto più possibile normale con la madre (o, in via subordinata, con il padre)».

7. Permessi per eventi familiari di particolare gravità.

Nel corso del 2018, la Corte ha precisato che, ai fini della concessione del permesso di necessità previsto dall’art. 30, comma secondo, ord. pen. devono sussistere i tre requisiti dell’eccezionalità della concessione, della particolare gravità dell’evento giustificativo e della correlazione dello stesso con la vita familiare. Il relativo accertamento deve essere compiuto tenendo conto dell’idoneità del fatto ad incidere nella vicenda umana del detenuto (Sez. 1, n. 26062 del 27/11/2017 – dep. 2018 –, PG in proc. Birra, n.m.; Sez. 1, n. 3428 del 19/07/2017 – dep. 2018 –, Zaccagna, n.m.). Il permesso in questione, infatti, è un beneficio di eccezionale applicazione rispondente a finalità di umanizzazione della pena e non un istituto di natura “trattamentale”; pertanto, può essere concesso esclusivamente al verificarsi di situazioni di particolare gravità ridondanti nella sfera personale e familiare del detenuto, come ad esempio la nascita di un figlio (Sez. 1, n. 48424 del 26/05/2017, Perrone, n.m.), ma non anche in funzione dell’esigenza di attenuare l’isolamento del medesimo attraverso il mantenimento delle relazioni familiari e sociali (Sez. 1, n. 57813 del 04/10/2017, Graviano, Rv. 272400).

8. Permessi premio.

La sentenza Sez. 1, n. 36456 del 9/04/2018, Corrias, Rv. 273608 ha affermato che, ai fini della concessione del permesso premio previsto dall’art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, il magistrato di sorveglianza deve verificare, oltre ai requisiti della regolare condotta del detenuto e dell’assenza di pericolosità sociale, che corrispondono alla funzione premiale dell’istituto, il profilo della funzionalità rispetto alla cura degli interessi affettivi, culturali e di lavoro del detenuto, acquisendo a tale ultimo riguardo le informazioni necessarie a valutare la coerenza del beneficio con il trattamento complessivo e con le sue finalità di risocializzazione.

Nella valutazione della richiesta di permesso premio presentata da un detenuto già ammesso al “lavoro esterno”, in particolare, il magistrato di sorveglianza, pur in assenza di un rapporto di necessaria implicazione tra i due istituti, non può omettere di considerare, nel contesto della verifica dell’attuale pericolosità sociale dell’interessato e della corrispondenza del permesso a esigenze di risocializzazione, il modo in cui il detenuto ha fruito degli spazi di libertà già concessi per effetto del provvedimento emesso ai sensi dell’art. 21 ord. pen. (Sez. 1, n. 36456 del 9/04/2018, cit.).

È stato già riportato che, secondo Sez. 1, n. 26073 del 20/12/2017, Ardizzone, Rv. 273123, in tema di concessione di permesso – premio a soggetti condannati per delitti ostativi di prima fascia, ai sensi dell’art. 4-bis, comma primo, ord. pen., soltanto una collaborazione effettiva con la giustizia può, unitamente alle altre condizioni di legge, rimuovere la condizione delle soglie minime di pena espiata, senza che a detta collaborazione possa equipararsi la cd. collaborazione impossibile o inesigibile, che incide soltanto sull’astratta possibilità per il condannato di accedere al beneficio eliminando l’ostatività della pena, ma non anche le predette soglie.

9. Rimedi conseguenti alla violazione dell’art. 3 Cedu.

Con la sentenza 8/01/2013, Torreggiani c. Italia, come è noto, la Corte EDU, rilevata la strutturale violazione dell’art. 3 Cedu da parte dell’Italia, a causa del “grave sovraffollamento” dei relativi istituti penitenziari, condannava il nostro Paese e dichiarava sospesi tutti i ricorsi dei detenuti italiani, aventi ad oggetto il riconoscimento della violazione patita, concedendo allo Stato il termine di un anno a partire dal maggio 2013 (successivamente posticipato al giugno 2015), entro il quale adottare le misure necessarie per rimediare. In risposta alla sentenza “pilota” della Corte europea, con il d.l. n. 92 del 2014, conv. con modif. nella legge n. 117 del 2014, sono stati introdotti nell’ordinamento penitenziario nuovi rimedi preventivi e risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’art. 3 Cedu.

La tutela, in estrema sintesi, si concretizza in due autonome azioni, disciplinate agli artt. 35-bis e 35-ter ord. pen., che consentono al detenuto di essere sottratto con rapidità da una situazione che genera la violazione del suo fondamentale diritto a non subire trattamenti inumani e, al contempo, di conseguire un ristoro per la violazione subita.

I due istituti non sono alternativi, essendo, al contrario, consentito all’interessato di rivolgersi al magistrato di sorveglianza al fine di ottenere l’immediato ripristino della legalità e la riduzione della pena da espiare (nella misura di un giorno per ogni dieci giorni di pregiudizio subito) o, in via subordinata, il risarcimento in forma monetaria (nella misura di 8 euro per ogni giorno di pregiudizio patito).

Nel caso disciplinato dall’art. 35-bis ord. pen., il magistrato di sorveglianza, accertate la sussistenza e l’attualità del pregiudizio, ordina all’amministrazione di porvi rimedio (comma terzo). Avverso la decisione del magistrato di sorveglianza è ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza (comma quarto). In caso di mancata esecuzione del provvedimento non più soggetto ad impugnazione, l’interessato o il suo difensore munito di procura speciale possono richiedere l’ottemperanza al magistrato di sorveglianza che ha emesso il provvedimento (comma quinto).

Nella seconda ipotesi, il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio ovvero, se non è possibile, una somma di denaro pari a euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio; è altresì prevista una tutela sussidiaria davanti al tribunale ordinario, da adire entro sei mesi dalla cessazione della pena, qualora il pregiudizio non sia computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero il soggetto che assume di averlo patito abbia terminato di espiare la pena detentiva.

In entrambe le ipotesi, il procedimento innanzi al magistrato di sorveglianza si svolge secondo le previsioni degli artt. 666 e 678 cod. proc. pen., con la necessaria estensione del contraddittorio all’amministrazione interessata; nell’ipotesi residuale di competenza del Tribunale civile in composizione monocratica, la disciplina è quella fissata dagli artt. 737 e ss. cod. proc. civ. e il risarcimento del danno è da liquidare nella stessa misura stabilita per le ipotesi in cui a decidere sia il magistrato di sorveglianza.

L’art. 2, del d.l. n. 92 del 2014, regolamenta due ipotesi di diritto transitorio, su cui si è soffermata, tra le altre, Sez. 1, n. 16913 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Assegnati:

- la prima, concerne la legittimazione all’azione ex art. 35-ter, comma terzo, ord. pen., entro il termine di decadenza di sei mesi decorrenti dalla data di entrata in vigore della normativa, da parte di coloro i quali, alla data anzidetta, abbiano cessato di espiare la pena detentiva o non si trovano più in stato di custodia cautelare in carcere;

- la seconda, consente, invece, di presentare domanda, ai sensi dell’art. 35-ter cit., ai soggetti detenuti o internati, che, al momento dell’entrata in vigore del predetto d.l. abbiano già presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, qualora non sia ancora intervenuta una decisione della stessa Corte sulla ricevibilità del ricorso.

10. (segue). La natura del rimedio di cui all’art. 35-ter ord. pen. e le conseguenze sulla determinazione del termine di prescrizione del diritto.

La sentenza delle Sezioni unite civili n. 11018, del 20/01/2018, Ministero della Giustizia c. Cellini, ha avuto ad oggetto la disciplina transitoria prevista dall’art. 2, comma 1, del d.l. n. 92 del 2014, che regola la situazione di coloro che, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto legge, hanno già cessato di espiare la pena detentiva o non si trovano più in stato di custodia cautelare in carcere, riconoscendo il diritto di proporre azione dinanzi al tribunale entro il termine di decadenza di sei mesi decorrenti dalla stessa data. Secondo questa decisione, nonostante che, nella formulazione letterale si faccia esplicitamente riferimento al “risarcimento dei danni”, la norma ha introdotto un indennizzo, poiché mancano gli elementi tipici del risarcimento ovvero il rapporto tra specificità del danno e quantificazione economica nonché la valutazione del profilo soggettivo. La qualificazione in termini di indennizzo del diritto spettante al detenuto in condizioni disumane conduce ad escludere l’applicazione del termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 2947, comma primo, cod. civ., dovendo farsi ricorso alla regola generale della prescrizione decennale. Quest’ultima, inoltre, nel caso di detenzione cessata prima dell’introduzione del diritto all’indennizzo, decorre dalla data di entrata in vigore della legge (28 giugno 2014). È stato affermato, pertanto, il seguente principio di diritto: «il diritto ad una somma di danaro pari a 8 euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all’art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, previsto dall’art. 35-ter, comma terzo, ord. pen., si prescrive in dieci anni che decorrono dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni. Coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, se non sono incorsi nelle decadenze previste dall’art. 2, d.l. 92/2014 convertito in l. 117/2014 hanno anch’essi diritto all’indennizzo ex art. 35-ter, terzo comma, ord. pen., il cui termine di prescrizione in questo caso non opera prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del decreto legge».

Le affermazioni delle sezioni unite civili risultano in linea con la corrispondente giurisprudenza della Corte di legittimità penale. Secondo l’indirizzo consolidato, infatti, le peculiarità del rimedio risiedono nell’ispirazione solidaristica e nella connotazione pubblicistica dell’istituto introdotto nell’ordinamento con finalità non risarcitorie, ma riparatorie e di riequilibrio ed in parte compensatrici della lesione della libertà rivelatasi ingiusta (cfr., ex plurimis, Sez. 1, n. 876 del 16/07/2015, dep. 2016, Ruffolo, Rv. 265856). Questa opzione interpretativa è stata recepita da Sez. U, n. 3775 del 21/12/2017, dep. 2018, Ministero della Giustizia in proc. Tuttolomondo, Rv. 271649, la quale ha rilevato come sia consonante con la richiesta della Corte di Strasburgo di introduzione nell’ordinamento italiano di procedure attivabili dai detenuti per porre fine a condizioni di detenzione o a trattamenti carcerari in contrasto con l’art. 3 Cedu.

Dalla natura indennitaria e pubblicistica dell’istituto è tratta un’importante conseguenza: il rimedio non è sottoposto alla prescrizione quinquennale stabilita dall’art. 2947 cod. civ. in tema di fatto illecito e, in applicazione del principio espresso dall’art. 2935 cod. civ., per il tempo antecedente all’introduzione della relativa disciplina non è giuridicamente possibile rilevare alcuna ipotesi di prescrizione poiché il diritto non poteva essere fatto valere (cfr. Sez. 1, n. 47333, del 16/03/2017, P.G. in proc. Chargui Khatoui, Rv. 271173; Sez. 1, n. 31475 del 15/03/2017, Zito, Rv. 270841; Sez. U, n. 3775 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Ministero della Giustizia in proc. Tuttolomondo, cit.).

11. (segue). Reclamo dell’amministrazione e assistenza dell’Avvocatura di Stato.

Dalla natura indennitaria e pubblicistica del giudizio, invero, è tratta un’altra importante conseguenza sul piano procedimentale, che è stata evidenziata dalla sentenza Sez. U, n. 3775 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Ministero della Giustizia in proc. Tuttolomondo, cit.

Questa pronuncia, invero, ha affrontato il tema relativo alla possibilità o meno per l’Amministrazione penitenziaria di esercitare la facoltà di impugnazione prevista dall’art. 35-bis, comma quarto, ord. pen. senza l’assistenza dell’Avvocatura generale dello Stato. Al riguardo, secondo un indirizzo giurisprudenziale, l’atto di impugnazione proposto dall’amministrazione penitenziaria avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza è inammissibile in mancanza del patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato (Sez. 1, n. 11248 del 17/11/2016 – dep. 2017 –, Arfaoui, Rv. 269377; Sez. 1, n. 11249 del 17/11/2016 – dep. 2017 –, Condello, Rv. 269513).

Le Sezioni unite non hanno condiviso questo assunto.

Il rimedio risarcitorio ex art. 35-ter, commi primo e secondo, ord. pen. si esplica mediante un paradigma procedimentale ispirato a criteri di rapidità ed effettività di tutela, nell’ambito di una giurisdizione di prossimità, nella quale l’amministrazione penitenziaria interviene nella qualità di responsabile del trattamento dei detenuti. Deve essere esclusa, pertanto, la natura civilista degli interessi di cui si fa portatrice. L’amministrazione «interviene quale plesso amministrativo preposto alla custodia, partecipe della realizzazione delle finalità costituzionali della pena, e proprio per questo essa è in grado di realizzare l’effettività della tutela che il nuovo strumento è volto ad assicurare al detenuto». L’intervento nel giudizio consente di offrire al magistrato di sorveglianza le informazioni che riguardano la concreta posizione del detenuto che lamenta condizioni di vita inumane, tali da comprimere un diritto fondamentale della persona durante il tempo di privazione della libertà ad opera degli organi dello Stato preposti alla custodia; nel contempo, l’amministrazione è l’unico soggetto in grado di ripristinare condizioni di legalità della detenzione.

La natura pubblicistica della funzione svolta ed il ruolo assunto in concreto dall’amministrazione penitenziaria incidono anche sulle modalità della sua partecipazione alla fase impugnatoria. Le Sezioni unite, infatti, hanno escluso l’applicabilità delle disposizioni che riguardano l’impugnazione proposta per i soli interessi civili (art. 573 cod. proc. pen.) dalle altre parti private presenti nel giudizio penale, come pure della norma che impone, nei casi da ultimo richiamati, il ministero di un difensore (art. 100 cod. proc. pen.), per la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento. In assenza di ragioni limitative di ordine sistematico, derivanti dalle forme di partecipazione delle parti private al processo penale, pertanto, deve ritenersi la possibilità di costituzione informale da parte dell’amministrazione e la proponibilità del reclamo – impugnazione di cui all’art. 35-bis, comma quarto, ord. pen. senza il patrocinio e l’assistenza dell’Avvocatura dello Stato.

12. (segue). La condanna dell’amministrazione al pagamento delle spese nel caso si rigetto del reclamo.

La natura del rimedio, secondo Sez. U, n. 3775 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Ministero della Giustizia in proc. Tuttolomondo, cit., determina un’ulteriore importante conseguenza, che consiste nell’esclusione della condanna al pagamento delle spese processuali ed eventualmente al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, nel caso di rigetto o d’inammissibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.

Sul punto, difatti, si registrava un contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità.

Ad un indirizzo che riteneva applicabili, nella materia di interesse, i principi di diritto espressi in riferimento al procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, ove il Ministero dell’economia e delle finanze viene condannato al pagamento delle spese processuali in caso di rigetto o di declaratoria inammissibilità del ricorso proposto avverso l’ordinanza della corte di appello quale giudice della riparazione (Sez. 1, n. 53012 del 27/11/2014, Ministero Giustizia, Rv. 261306), si contrapponeva un diverso orientamento che esclude la condanna alle spese nei confronti del Ministero della giustizia, ritenuto privo della qualità di parte privata richiesta dall’art. 616 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 31475 del 15/03/2017, Zito, Rv. 270841).

Le Sezioni unite hanno affermato che il Ministero della Giustizia, ricorrente per cassazione avverso il provvedimento del tribunale di sorveglianza emesso ai sensi degli artt. 35-bis e 35ter ord. pen., nel caso di rigetto o di inammissibilità del ricorso, non deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e della somma in favore della cassa delle ammende. L’amministrazione penitenziaria, infatti, interviene, nel “procedimento di prossimità” in esame, quale responsabile del trattamento dei detenuti e non facendosi portatrice di interessi di natura civilistica. Non sussistono, pertanto, i presupposti sostanziali per accomunare l’amministrazione penitenziaria alle parti private presenti nel processo penale, diversamente da quanto accade nel giudizio di riparazione per ingiusta detenzione. Le funzioni svolte dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, dunque, hanno natura sostanzialmente pubblicistica. «Conseguentemente, neppure nella fase di legittimità del procedimento in esame il Ministero della Giustizia ricorrente può essere assimilato ad una parte privata, rispetto al disposto di cui all’art. 616 cod. proc. pen.».

Conducono ad escludere la possibilità della condanna alle spese della parte pubblica soccombente anche ragioni di ordine sistematico. La norma di cui all’art. 616, comma 1, cod. proc. pen. è strutturata in riferimento ai soggetti tipici del processo penale, ove solo il pubblico ministero assume il ruolo di parte pubblica, come da tempo chiarito dalla giurisprudenza (Sez. U, n. 9616 del 24/03/1995, Boido, Rv. 202018). Diversamente, nel procedimento di prossimità di cui si tratta, che pure si svolge ai sensi degli artt. 666 e 678, cod. proc. pen., è previsto l’inedito intervento dell’Amministrazione penitenziaria, quale soggetto che esercita la funzione pubblica relativa alle modalità di gestione della popolazione detenuta.

13. (segue). I presupposti per la tutela.

Nel corso del 2018, quanto alle modalità di determinazione dello “spazio vitale minimo” in cella collettiva, la cui violazione consente di attivare i rimedi in esame, è stato ribadito il costante orientamento per cui ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati da assicurare a ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 CEDU, dalla superficie lorda della cella devono essere detratte l’area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto a castello, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente amovibili (Sez. 1, n. 13377 del 10/10/2017 – dep. 2018 –, Ministero della Giustizia ed altri, Rv. 272564; cfr, in precedenza, Sez. 1, n. 52819 del 9/09/2016, Sciuto, Rv. 268231; Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017, Gobbi, Rv. 271087). La porzione di spazio individuale minimo, infatti, va intesa come superficie funzionale alla libertà di movimento del recluso, già di per sé fortemente limitata dall’esperienza segregativa. Non può essere considerata superficie utile alla integrazione della quota di spazio minimo individuale, pertanto, quella occupata da arredi fissi che, seppur necessari, assolvono a finalità diverse rispetto a quella del movimento del corpo nello spazio. Tale linea interpretativa, secondo la Corte di legittimità, non si pone in contrasto con i criteri funzionali espressi dalla Corte EDU, Grande camera, 20/10/ 2016, Mursic c. Croazia, posto che è la stessa decisione in parola a segnalare come l’esistenza di tale superficie minima debba garantire lo spazio utile ad assicurare il movimento. Nella sentenza della Corte di Strasburgo, infatti, lo spazio dei tre metri quadri viene indicato come “floor space”, dunque “spazio al suolo”, con l’ulteriore precisazione per cui la superficie complessiva della cella deve consentire al detenuto di muoversi liberamente tra gli articoli di arredo. In tal senso, essa tende esclusivamente a imporre la necessità di un ulteriore spazio separato e destinato ad altra finalità (il bagno) ma certo non consente, né di includere nello spazio vitale la superficie occupata dal letto, né di ridiscutere il dato di fondo per cui la superficie complessiva della cella non coincide con lo spazio destinato al movimento, posto che vanno detratte le frazioni di spazio ingombrate da ‘cose’ che servono ad altro e la cui esistenza è peraltro indispensabile al fine di garantire la legalità del trattamento (Sez. 1, n. 13377 del 10/10/2017 – dep. 2018 –, cit.).

14. (segue). Profili relativi alla competenza.

Nel corso del 2018, numerose decisioni della Corte di cassazione hanno affrontato questioni sulla competenza sull’istanza di cui all’art. 35-ter ord. pen. 

La Corte ha ribadito che sussiste la competenza del magistrato di sorveglianza a provvedere sulla richiesta prevista dall’art. 35-ter ord. pen., sia nell’ipotesi in cui sussistano le condizioni per accordare il ristoro in forma specifica, sia nell’ipotesi in cui detto ristoro può riconoscersi soltanto in forma monetaria (Sez. 1, n. 16915 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Gerbino, n.m.; Sez. 1, n. 40909 del 24/03/2017, Harnifi, Rv. 271363). Spetta al magistrato di sorveglianza e non al giudice civile la competenza a provvedere anche sull’istanza presentata dal detenuto condannato all’ergastolo che promuova l’azione durante la detenzione, non assumendo rilievo, ai fini del riparto di competenza, l’impraticabilità in tal caso del rimedio in forma specifica consistente nella riduzione della pena (Sez. 1, n. 36501 del 6/06/2018, Skripeliov, Rv. 273613), in quanto il rimedio pecuniario è alternativo a quello della riduzione di pena in tutte le ipotesi in cui, pur in presenza di un trattamento inumano o degradante, il magistrato di sorveglianza versa nell’impossibilità di operare nell’immediatezza siffatta riduzione di pena (Sez. 1, n. 32280 del 29/03/2018, Nolis, Rv. 273851).

Il presupposto per radicare la competenza del Magistrato di sorveglianza, peraltro, è il perdurante stato di restrizione del richiedente e non l’attualità del pregiudizio, in quanto il richiamo contenuto nell’art. 35-ter ord. pen. al pregiudizio di cui all’art. 69, comma sesto, lett. b), ord. pen. opera ai fini dell’individuazione dello strumento processuale di cui si può avvalere il detenuto e del relativo procedimento, ma non si riferisce al presupposto della necessaria attualità del pregiudizio che rileva, invece, ai fini del diverso rimedio del reclamo, previsto dal citato art. 69 la cui finalità è quella di inibire la prosecuzione della violazione del diritto individuale da parte dell’amministrazione penitenziaria. (Sez. 1, n. 19674 del 29/03/2017, Basso, Rv. 269894, in motivazione la Corte ha aggiunto che deve, comunque, considerarsi attuale il pregiudizio che non è stato eliminato attraverso una forma di riparazione, anche se la causa che lo ha prodotto si sia temporalmente verificata nel passato).

Il perdurante stato di restrizione del richiedente, che radica la competenza del Magistrato di sorveglianza, sussiste anche con riferimento a periodi pregressi di esecuzione pena che, tuttavia, siano stati considerati nel provvedimento di cumulo della pena che fonda la detenzione in atto (Sez. 1, n. 16335 del 20/04/2017 – dep. 2018 –, Cassano, n.m.).

Coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere o che hanno subito il pregiudizio in stato di custodia cautelare non computabile nella determinazione della pena, invece, possono unicamente proporre azione entro sei mesi al tribunale del capoluogo del distretto per ottenere il ristoro in forma monetaria, dovendo escludersi, nel caso di successivo inizio di un nuovo periodo di detenzione del tutto slegato dal primo, la possibilità di richiedere la riduzione della detenzione per il danno subito durante la precedente carcerazione (Sez. 1, n. 16915 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Gerbino, Rv. 272830). La domanda, dunque, deve riguardare pregressi periodi di carcerazione relativi alla pena in corso di esecuzione (Sez. 1, n. 983 del 11/04/2017 – dep. 2018 –, Vaiani, Rv. 272286).

Ai fini della competenza sul rimedio riparatorio del magistrato di sorveglianza, allo stato di detenzione è equiparata l’espiazione della pena in affidamento in prova ai servizi sociali (Sez. 1, n. 32280 del 29/03/2018, Nolis, n.m.; Sez. 1, n. 13377 del 10/10/2017 – dep. 2018 –, Ministero della Giustizia ed altri, cit.; Sez. 1, n. 47052 del 18/05/2017, Fazio, Rv. 271129)

15. (segue). Altri aspetti procedimentali.

La Corte, anche nel 2018, ha precisato che la natura essenzialmente compensativa dell’azione finalizzata a ottenere una riparazione effettiva delle violazioni dell’art. 3 Cedu esclude che la domanda debba essere corredata dalla indicazione precisa e completa degli elementi che si pongono a fondamento della stessa, essendo sufficiente l’indicazione dei periodi di detenzione, degli istituti di pena e delle specifiche condizioni detentive, in relazione ai quali l’interessato deduce un trattamento penitenziario subito in violazione della Convenzione europea (Sez. 1, n. 16335 del 20/04/2017 – dep. 2018 –, Cassano, cit.).

Le allegazioni dell’istante sul fatto costitutivo della lesione, addotte a fondamento di una domanda sufficientemente determinata e riscontrata sotto il profilo dell’esistenza e della decorrenza della detenzione, inoltre, sono assistite da una presunzione relativa di veridicità del contenuto, per effetto della quale incombe sull’amministrazione penitenziaria l’onere di fornire idonei elementi di valutazione di segno contrario (Sez. 1, n. 23362 del 11/05/2018, Lucchese, Rv. 273144, in una fattispecie in cui la direzione della casa di reclusione in cui l’istante era stato ristretto non era stata in grado di fornire elementi conoscitivi sulle condizioni della detenzione atteso il cospicuo lasso di tempo trascorso).

Il giudice del procedimento è tenuto a valutare il provvedimento con il quale, ai sensi degli artt. 35-bis e 69 ord. pen., è stata inibita all’amministrazione la protrazione delle modalità di detenzione giudicate lesive dei diritti soggettivi del condannato, fermo restando che non sussiste alcun automatismo tra il riconoscimento di tale forma di tutela e l’esito del giudizio risarcitorio (Sez. 1, n. 13381 del 10/10/2017 -dep. 2018 –, Querci, Rv. 272566).

È stata ritenuta abnorme l’ordinanza del tribunale di sorveglianza il quale, giudicando sul reclamo proposto dall’interessato avverso il decreto de plano adottato dal magistrato di sorveglianza che ha dischiarato inammissibile il reclamo proposto ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen., ne disponga l’annullamento perché ritenute illegittime le premesse di merito poste a fondamento della iniziativa difensiva e restituisca gli atti al magistrato di prima istanza per la decisione nel merito (Sez. 1, n. 29059 del 28/03/2018, conflitto Uff. di Sorveglianza Torino, n.m.).

È stato ritenuto inammissibile, inoltre, il ricorso per cassazione proposto in via incidentale dal Ministero della Giustizia, nel giudizio introdotto dall’impugnazione del detenuto avverso l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 dal Tribunale di sorveglianza sul reclamo contro il provvedimento del magistrato di sorveglianza, non essendo detto mezzo di impugnazione previsto da alcuna disposizione di legge (Sez. 1, n. 41587 del 6/07/2017, Esposito, Rv. 271319).

16. (segue). L’inammissibilità dell’eccezione di compensazione.

Secondo un’interessante pronuncia della Corte, il Ministero della Giustizia, convenuto in giudizio dal detenuto per il risarcimento dei danni patiti a causa delle condizioni di detenzione, non può opporre in compensazione ex art. 1243 cod. civ. il credito maturato verso il medesimo detenuto per le spese di mantenimento, trattandosi di un credito che non è certo ed esigibile prima della definizione del procedimento previsto dall’art. 6 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, che può concludersi anche con la remissione del debito, e che, comunque, non è configurabile con riferimento al periodo di trattamento detentivo inumano (Sez. 1, n. 13377 del 10/10/2017 – dep. 2018 –, Ministero della Giustizia ed altri, cit.). Secondo questa pronuncia, «Non appare possibile, …, per i periodi di detenzione caratterizzati dalla accertata illegalità convenzionale del trattamento, mantenere in vita il credito all’amministrazione, posto che l’offerta trattamentale è, in tal caso, causativa di danno … e, per principio generale … la condotta contra legem non può comportare l’esistenza di un contestuale onere a carico del soggetto che quel danno ha subito».

17. Il trattamento detentivo di cui all’art. 41-bis ord. pen.: la sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 2018.

Le prescrizioni imposte con il decreto ministeriale adottato ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen., nel corso del 2018, sono state oggetto di una importante decisione della Corte Costituzionale con la quale è stato rimosso uno specifico divieto per i detenuti sottoposti a tale regime. Con la sentenza n. 186 del 12/10/2018, infatti, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), ord. pen., come modificato dall’art. 2, comma 25, lett. f), n. 3) della legge 15 luglio 2009, n. 94, nella parte in cui fa divieto di cuocere cibi in carcere per i condannati sottoposti a tale regime differenziato, in quanto contrario al senso di umanità della pena ed in quanto integrante una disparità di trattamento tra i detenuti comuni. La Corte ha ribadito che il regime penitenziario differenziato «mira a contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all’esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno che lo stesso ordinamento penitenziario normalmente favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale». Si vuole evitare che «gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando il regime penitenziario normale, possano continuare ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dall’interno del carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa».

L’assoluta impossibilità, per i detenuti, di cuocere cibi non è stata ritenuta funzionale al perseguimento di tale finalità.

I detenuti in regime differenziato, infatti, possono svolgere limitati acquisti di generi alimentari al “sopravvitto”: «non è certo il divieto di cottura dei cibi a risultare congruo e funzionale all’obbiettivo di recidere i possibili contatti con l’esterno che tali acquisti potrebbero comportare».

È stato rilevato anche che «i detenuti in regime differenziato … dispongono comunque del fornello personale, anche se possono allo stato utilizzarlo, a differenza degli altri, solo per riscaldare liquidi e cibi già cotti, oppure per preparare bevande. E poiché le esigenze di sicurezza personale dei detenuti trovano protezione in varie altre regole del complessivo regime carcerario, il divieto di cottura dei cibi non è ovviamente idoneo ad aggiungere nulla alla pur indispensabile opera di prevenzione degli utilizzi impropri di tale strumento, che risultino pericolosi per il detenuto stesso o per gli altri». Ne deriva che la disparità di trattamento rispetto agli altri detenuti non trova giustificazione nelle finalità poste a base dell’imposizione del regime di cui all’art. 41-bis ord. pen.

Va segnalato che, di recente, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 122 del 26/05/2017, aveva ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) e c), ord. pen., sollevate in riferimento agli artt. 15, 21, 33, 34 e 117, comma 1, Cost., nella parte in cui, secondo il diritto vivente, consente all’amministrazione penitenziaria di adottare, tra le misure di elevata sicurezza interna ed esterna volte a prevenire contatti del detenuto in regime differenziato con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri e riviste a stampa. La Corte ha rilevato che «la misura che, secondo il “diritto vivente”, può essere adottata dall’amministrazione penitenziaria in base alla norma denunciata non limita il diritto dei detenuti in regime speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di loro scelta, ma incide solo sulle modalità attraverso le quali dette pubblicazioni possono essere acquisite. Al detenuto non è impedito l’accesso alle letture preferite e al loro contenuto, ma gli è imposto di servirsi, per la relativa acquisizione, dell’istituto penitenziario, nell’ottica di evitare che – secondo quanto è emerso dall’esperienza – il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di comunicazioni occulte con l’esterno, di problematica rilevazione da parte del personale addetto al controllo». Nel momento stesso in cui impone al detenuto di avvalersi esclusivamente dell’istituto penitenziario per l’acquisizione della stampa, peraltro, l’amministrazione deve ritenersi impegnata a fornire un servizio efficiente, evitando lungaggini e «barriere di fatto» che penalizzino, nella sostanza, le legittime aspettative del detenuto, traducendosi in una negazione surrettizia del diritto.

Nel corso del 2018, peraltro, anche la Corte di cassazione ha ritenuto manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis ord. pen., prospettata sotto diversi profili. La sentenza Sez. 1, n. 3447 del 27/11/2017 – dep. 2018 –, Tagliavia, n.m., in particolare, ha escluso che la sospensione dell’applicazione delle regole del regime detentivo ordinario si fondi su presupposti giustificativi coincidenti con quelli che conducono all’applicazione di una misura di prevenzione personale, producendo effetti equiparabi

li.Infatti, «l’art. 41-bis ord. pen. postula la ricorrenza di condizioni oggettive di emergenza e sicurezza pubbliche ed altre soggettive riguardanti il detenuto, derivanti dalla condanna o dalla sottoposizione a misura coercitiva custodiale per reati di particolare gravità e motivo di allarme sociale, oltre che la perdurante esistenza ed operatività dell’organizzazione cui egli appartiene. Per contro, le misure di prevenzione vengono imposte per fronteggiare il rischio della commissione di reati nei confronti di chi sia ritenuto pericoloso in dipendenza, non necessariamente di condanne o di misure cautelari, ma dello stile di vita». Anche per gli effetti è stato rilevato che «la sospensione delle regole detentive ordinarie riguarda l’esecuzione della pena nei confronti di quei detenuti che manifestino capacità di mantenere collegamenti con le associazioni di appartenenza e di trasmettere ordini e direttive all’esterno del carcere e comporta una limitazione dei diritti soggettivi, non già la loro radicale privazione».

18. La sentenza della Corte EDU nel caso Provenzano c. Italia.

Nel corso del 2018 anche la Corte EDU si è occupata del regime detentivo differenziato previsto dall’art. 41-bis ord. pen. con una decisione che ha avuto un notevole risalto mediatico. Con la sentenza Sez. I, 25/10/2018, n. 55080/13, infatti, valutando la legittimità della decisione delle autorità italiane di prorogare il regime detentivo differenziato nei confronti del detenuto Bernardo Provenzano nonostante questi fosse affetto da una patologia che rendeva difficile la sua prosecuzione, la Corte di Strasburgo, pur escludendo che vi fosse stata una violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU con riferimento all’asserita insufficienza dell’assistenza sanitaria prestatagli in carcere, ha tuttavia ritenuto violata la predetta norma convenzionale per aver consentito il nostro Paese la continuazione del predetto regime speciale detentivo fino alla morte del detenuto. Secondo la Corte europea, i provvedimenti di proroga avrebbero dovuto tener conto del deterioramento cognitivo del detenuto che era già stato descritto come “serio” in una perizia medico – legale del dicembre 2013 e che si era progressivamente evoluto. Al contrario, il limitato spazio dedicato a tali questioni nella motivazione del provvedimento non ha permesso di accertare se, in che modo e fino a che punto tali circostanze fossero state ponderate dal Ministero della Giustizia al momento della valutazione del rinnovo delle restrizioni connesse al regime carcerario detentivo.

Questa decisione, peraltro, ha ribadito che il regime detentivo speciale per i detenuti affetti da patologie è compatibile con il diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti sancito dall’art. 3 della Cedu, sempre che sia assicurata una cura medica “adeguata”. La norma della Convenzione, invero, afferma uno dei valori fondamentali di una società democratica, proibendo in termini assoluti la tortura o il sottoporre una persona a trattamenti o pene inumane o degradanti, indipendentemente dalle circostanze e dal comportamento della vittima. Secondo la giurisprudenza della Corte, tuttavia, il maltrattamento deve raggiungere un livello minimo di severità per poter ricadere nell’ambito del divieto (cfr. Corte EDU, GC, 06/04/2000, caso Labita c. Italia). La valutazione di questo livello minimo è relativa, in quanto dipende dalle circostanze del caso, quali la durata del trattamento, i suoi effetti fisici e mentali e, in alcuni casi, il sesso, l’età e, per quello che qui interessa, lo stato di salute della vittima

È appena il caso di segnalare, invece, che, quanto alla compatibilità del regime detentivo in esame con l’art. 3 della Cedu, la Corte più volte ha ritenuto che esso non comporta una violazione della norma convenzionale, anche quando è stato imposto per lungo periodo (cfr. ex plurimis Corte EDU 24/09/2015, n. 37648/02, caso Paolello c. Italia; Corte EDU 27/03/2008, n. 28320/02, caso Guidi c. Italia; Corte EDU 11/07/2006, n. 24358/02, caso Campisi c. Italia; Corte EDU, Sez. II, 28/09/2000, n. 25498/94, caso Messina c. Italia; Corte EDU 28/09/2000, n. 26772/95, caso Ganci c. Italia).

Una ricaduta di questo indirizzo della giurisprudenza europea sembra potersi cogliere sul tema della motivazione del provvedimento di proroga del regime detentivo speciale. Secondo l’indirizzo consolidato, ribadito dalla Corte di cassazione anche nel 2018, ai fini della proroga, non va tanto considerata la sussistenza di concreti momenti di collegamento esterno con il contesto di criminalità organizzata in ragione dell’elusione delle particolari disposizioni già predisposte per impedirli, quanto più propriamente la necessità di rendere ancora vigenti tali prescrizioni, riscontrandosi – non necessariamente in considerazione di elementi sopraggiunti – la permanenza di quelle apprezzabili condizioni di pericolo che avevano giustificato originariamente il regime speciale (cfr. di recente, Sez. 1, n. 37312 del 17/04/2018, Biondo, n.m.)

19. Il “contenuto” trattamento detentivo speciale.

Le prescrizioni in cui si sostanzia il regime detentivo differenziato, invero, sono state ridefinite dalla recente Circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del 2 ottobre 2017, n. 3676/616. Tale atto si apre con un’importante premessa nella quale è sottolineato, tra l’altro, che «il regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario è una misura di prevenzione che ha come scopo quello di evitare – al di fuori dei casi consentiti dalla legge – contatti e comunicazioni tra esponenti della criminalità organizzata, detenuti o internati, all’interno degli istituti di pena nonché contatti e comunicazioni tra gli esponenti detenuti delle varie organizzazioni e quelli ancora operanti all’esterno». Tale obiettivo è perseguito con le prescrizioni imposte con il decreto del Ministro le quali «non sono volte a punire e non devono determinare un’ulteriore afflizione, aggiuntiva alla pena già comminata, per i soggetti sottoposti al regime detentivo in esame».

In tema di colloqui con figli e nipoti infra-dodicenni, l’art. 16 della suddetta circolare statuisce che il detenuto può chiedere di essere ammesso a sostenere i colloqui, per l’intera durata, senza vetro divisorio, con la presenza del minore nello spazio riservato al detenuto e la contestuale presenza dei familiari dall’altra parte del vetro. La Corte di cassazione ha rilevato che questa disciplina comporta una novazione della fonte regolatoria in senso pienamente satisfattivo degli interessi del detenuto, cui l’amministrazione penitenziaria è tenuta, per il futuro, a conformarsi, determinando la cessazione della materia del contendere in ordine al reclamo concernente un provvedimento limitativo di detti colloqui adottato in applicazione della disciplina anteriore (Sez. 1, n. 22292 del 6/03/2018, PG in proc. Russo, Rv. 273298).

Va rilevato, infine, che l’art. 11, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 123 del 2018 ha modificato l’art. 18 della legge n. 354 del 1975, stabilendo che i detenuti e gli internati hanno diritto di conferire con il difensore, sin dall’inizio dell’esecuzione della misura cautelare o della pena ed hanno altresì diritto di avere colloqui e corrispondenza con i garanti dei detenuti. Questa norma, secondo la giurisprudenza di legittimità, non ha inciso sul regime dei colloqui di cui all’art. 41-bis della legge n. 354 del 1975 (Sez. 1, del 7/12/2018, di cui al momento in cui si scrive si conosce solo la notizia di decisione).

20. (segue). La videosorveglianza continua.

Con la sentenza Sez. 1, n. 44972 del 16/04/2018, Madonia, allo stato n.m., la Suprema Corte ha affrontato un’altra delicata questione relativa alle prescrizioni connesse alla sotto-posizione al trattamento detentivo speciale. Con questa sentenza è stato rigettato il ricorso avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia che, a sua volta, aveva rigettato un’istanza con cui il detenuto si doleva del controllo tramite videosorveglianza continua, attuato con una telecamera nella cella di pernottamento con inquadratura verso il locale bagno. La Corte ha ribadito l’indirizzo secondo cui «la cella e gli ambienti penitenziari non sono luoghi di privata dimora nel “possesso” del detenuto, al quale dunque non compete la titolarità dello ius excludendi alios con riguardo agli spazi in questione, essendo gli stessi, di contro, nella disponibilità dell’Amministrazione penitenziaria che ne può fare sempre uso secondo le finalità e i modi consentiti dalle previsioni di legge (cfr. Sez. 7, n. 21506 del 16/03/2017, Roman, Rv. 269781; Sez. 1, n. 32851 del 06/05/2008, Sapone, Rv. 241228). Ciò avviene, in particolare, per esercitare la dovuta vigilanza sui detenuti secondo le finalità di legge, alla stregua delle specifiche modalità individuate caso per caso e attuando forme di controllo tanto più giustificate, ove continue e penetranti, in presenza di soggetti di particolare pericolosità, come coloro che sono ristretti al regime detentivo differenziato.

L’esercizio del controllo con i mezzi in concreto ritenuti idonei, in forza di scelte rimesse all’amministrazione penitenziaria, peraltro, non deve trasmodare nella sottoposizione a torture o trattamenti inumani o degradanti. La giurisprudenza della Corte Edu ha costantemente affermato che, per ravvisare un trattamento di quel genere, tuttavia, occorre che si superino certe soglie di gravità, da valutare nel caso concreto secondo alcuni concorrenti parametri, considerando contemporaneamente le ragioni della tutela e fermo restando che ci si deve pur sempre trovare in presenza di una sofferenza o di una umiliazione di livello significativamente superiore a quello che ordinariamente accompagna il tipo di afflizione restrittiva in corso di esecuzione. Tale superamento, come riconosciuto dalla stessa giurisprudenza della Corte EDU (cfr. Corte EDU 01/09/2015, caso Paolello c. Italia, cit.), non si verifica solo per effetto della videosorveglianza all’interno della cella ai fini della tutela di esigenze di ordine pubblico, nel caso del detenuto in regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. Nel caso di specie, il provvedimento impugnato dà atto che le riprese tramite la telecamera sono appositamente circoscritte solo ad un certo punto dei locali, diverso dalla toilette e, così come predisposte, possono in ogni caso riprodurre soltanto immagini “non a fuoco”. La reale attuazione del controllo, dunque, valutata in modo oggettivo, secondo la Corte, non raggiunge soglie di umiliazione e di sofferenza tali da potere essere ravvisata una violazione dell’art. 3 della CEDU.

21. (segue). Il trattenimento della corrispondenza.

La Corte, inoltre, con la sentenza Sez. 1, n. 4994 del 20/07/2017 – dep. 2018 –, Attanasio, n.m., ha ribadito che il potere del magistrato di sorveglianza di disporre il trattenimento della corrispondenza indirizzata al detenuto sottoposto al regime speciale di cui all’art. 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, è finalizzato ad evitare pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblica, oltre che ad impedire contatti con l’esterno ritenuti pericolosi perché attinenti a finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, indipendentemente dalla commissione di fatti integranti reato, ben potendo il pericolo derivare anche da condotte che non hanno raggiunto la soglia della punibilità o che non sono specificamente previste come reato dalla legge penale. Questa sentenza si segnala perché la Suprema Corte ha confermato il provvedimento del Tribunale di sorveglianza che aveva rigettato il reclamo avverso il trattenimento di una missiva scritta in lingua inglese, indirizzata dal detenuto alla propria nipote. È stato rilevato che le censure e i controlli della corrispondenza, incidendo su diritto fondamentale le cui limitazioni, ai sensi dell’art. 15 Cost., sono soggetti a riserva di legge rinforzata dalla garanzia giurisdizionale e possono essere attuati, anche nei confronti dei detenuti e degli internati, soltanto con provvedimento dell’autorità giudiziaria e nei soli casi previsti. La relativa disciplina, avente effetto nei confronti di persone soggette a restrizione della libertà personale, è regolata dall’art. 18-ter ord. pen., il quale stabilisce come regola generale che le limitazioni e le censure nonché i provvedimenti di trattenimento vanno adottati esclusivamente per esigente attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza e di ordine dell’istituto. La carenza di immediata comprensibilità della lettera in inglese e la possibilità che potesse contenere un testo criptico, secondo la decisione citata, giustificavano il provvedimento limitativo della libertà costituzionale. È stato anche ribadito da Sez. 1, n. 28309 del 5/04/2018, Falsone, n.m. che, sia in ragione della finalità del regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. pen., sia di quella della limitazione della corrispondenza di cui all’art. 18-ter ord. pen., per il mancato inoltro della corrispondenza non è necessaria la prova della commissione di reati o della pericolosità della missiva, ma è sufficiente il ragionevole timore di un pericolo per l’ordine e la sicurezza degli istituti. Questa decisione ha rigettato il reclamo avverso il provvedimento di trattenimento di una missiva con la quale il detenuto chiedeva alla destinataria di inviare una somma di euro 200 al proprio legale per la iscrizione al Partito Radicale ma, in realtà, indirizzata a sostenere l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, aggirando il divieto imposto da una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. In detta sentenza, la Corte ha rilevato che il divieto di corrispondenza con l’associazione citata era stato imposto al fine di evitare l’insorgere di proteste da parte della popolazione detenuta.

È stata annullata con rinvio da Sez. 1, n. 56197 del 16/11/2018, Lioce, infine, la decisione con la quale era stato trattenuto un vaglia postale perché il provvedimento non indicava i dati essenziali a comprendere la concretezza del pericolo di collegamento diretto tra il detenuto in regime speciale e l’organizzazione criminale esterna.

22. (segue). Il diritto alla salute e all’alimentazione sana.

Una recente decisione ha sostenuto che anche l’offerta in materia di cura e assistenza sanitaria rientri nell’area di tutela di cui all’art. 3 Cedu. Nella specie, la Corte ha affermato che la mancata prestazione di un trattamento fisioterapico ad un detenuto sottoposto al regime detentivo in esame può integrare un’ipotesi di trattamento inumano e degradante, purché raggiunga un livello minimo di gravità, da valutare, tra l’altro, in base agli effetti prodotti sul detenuto (Sez. 1, n. 52526 del 16/06/2018, Zagaria, n. n.).

È stata altresì annullata l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza con la quale era stata dichiarata infondata la doglianza del detenuto, ristretto al regime detentivo di cui all’art. 41bis ord. pen., il quale si lamentava che dalla sua dieta era stato eliminato totalmente il pesce, dal momento che si era dichiarato intollerante al “pesce azzuzzo” (Sez. 1, n. 51209 del 25/09/2018, n. 51209, Onda, n.m.). Secondo la Corte, il Tribunale, piuttosto che rigettare il reclamo sul presupposto che il detenuto non aveva provato la suddetta intolleranza alimentare, avrebbe dovuto verificare se effettivamente la “tabella vittuaria” includesse o meno il pesce.

23. (segue). La permanenza all’aria aperta.

Una decisione del 2018 ha precisato che la permanenza del detenuto all’aria aperta risponde ad esigenze igienico-sanitarie, mentre lo svolgimento delle attività in comune in ambito detentivo mira a favorire «la funzione rieducativa della pena, che non può essere del tutto pretermessa neppure di fronte ai detenuti connotati da allarmante pericolosità sociale, come appunto quelli sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. pen.» (Sez. 1, n. 40761 del 8/06/2018, Pesce, n.m.). Si tratta, pertanto, di due distinte situazioni che perseguono una differente finalità. Con questa motivazione la Corte ha rigettato il ricorso del Ministero della Giustizia avverso il provvedimento del Magistrato di Sorveglianza di Sassari che aveva disapplicato il decreto ministeriale del regime detentivo speciale nella misura in cui prevedeva una sola ora d’aria, che si aggiungeva all’ora di attività comuni.

24. I presupposti per la nuova emissione del decreto ministeriale.

Nel corso del 2018, la Corte ha affrontato il tema dei presupposti per la riemissione del provvedimento ministeriale applicativo del regime penitenziario previsto dall’art. 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354. È stato affermato che costituisce fatto nuovo la pronuncia di una sentenza di condanna, ancorché non definitiva, emessa a carico del detenuto e relativa a reati (nella specie, art. 416-bis cod. pen.) già presi in considerazione in sede di revoca del precedente regime differenziato, determinato dall’annullamento, da parte del tribunale del riesame della misura cautelare custodiale per mancanza di gravi indizi di reità (Sez. 1, n. 38643 del 27/11/2017 – dep. 2018 –, Di Giacomo, Rv. 273859). In motivazione, la Corte ha chiarito che, ai fini della configurabilità dell’aliquid novi richiesto dall’art. 41-bis, comma 2-sexies, ord. pen., come modificato dalla legge 23 dicembre 2002, n. 279, può rilevare anche la rinnovata valutazione dei medesimi elementi di prova, già oggetto di giudicato cautelare, a seguito delle acquisizioni verificatesi nel contraddittorio tipico della fase dibattimentale, che possono apportare un contributo conoscitivo nuovo o modificare precedenti interpretazioni favorevoli al condannato. Questa decisione appare in contrasto con orientamento più risalente, espresso da Sez. 5, n. 26399 del 5/04/2004, Rv. 229865 secondo cui è illegittimo il provvedimento con cui il Tribunale di sorveglianza ritenga fatto nuovo rilevante al fine di legittimare la riemissione di un decreto di applicazione del regime penitenziario previsto dall’art. 41-bis ord. pen., il passaggio in giudicato di una delle sentenze emesse a carico del detenuto e relativa a reati già presi in considerazione in sede di revoca del precedente regime differenziato, in quanto l’elemento di novità deve consistere in un fatto riferibile alla condotta del recluso e manifestatosi in un momento successivo a quello della decisione di revoca oppure prima di quest’ultima, ma non conosciuto né valutato in tale sede.

25. L’applicabilità agli internati.

Il regime penitenziario previsto dall’art. 41-bis ord. pen., secondo Sez. 1, n. 10619 del 27/11/2017 – dep. 2018 –, Nobis, Rv. 272310, è applicabile anche agli internati cui sia stata applicata una misura di sicurezza detentiva, potendo ricorrere, nei confronti di costoro, le medesime esigenze tutelate con la sottoposizione a regime differenziato dei detenuti in esecuzione di una pena.

26. Conseguenze del trattamento penitenziario differenziato sullo svolgimento del dibattimento.

La sottoposizione al regime detentivo di cui all’art. 41-bis ord. pen. comporta l’importante conseguenza della partecipazione a distanza al dibattimento ai sensi dell’art. 146-bis disp. att. cod. proc. pen. L’art. 146-bis, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen., inserito dall’art. 1, comma 77, lett. c), della legge 23 giugno 2017, n. 103, in particolare, ha previsto che il giudice può disporre con decreto motivato, anche su istanza di parte, la presenza alle udienze delle persone che dovrebbe essere collegate a distanza qualora lo ritenga necessario, “ad esclusione del caso in cui sono state applicate le misure di cui all’art. 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni”. Secondo una decisione del 2018 della Suprema Corte, l’art. 146-bis disp. att. cod. proc. pen. può trovare applicazione solo nel caso in cui l’imputato si trovi alla data dell’udienza dibattimentale sottoposto al regime speciale e non anche nei confronti di chi, in precedenza, sia stato sottoposto a tale regime detentivo (Sez. 4, n. 22039 del 12/04/2018, Trovato, n.m.).

27. Misure alternative alla detenzione: Affidamento in prova al servizio sociale.

Il capo della legge n. 354 del 1975 dedicato alle misure alternative alla detenzione si apre con l’art. 47 che disciplina l’affidamento in prova ai servizi sociali. Anche nel 2018, la Corte ha ribadito l’indirizzo secondo cui, ai fini della concessione delle misure alternative alla detenzione, se per un verso non può essere trascurata la tipologia e la gravità dei reati commessi, per altro verso si deve avere riguardo al comportamento e alla situazione del soggetto dopo i fatti per i quali è stata inflitta la condanna in esecuzione, onde verificare concretamente se sussistano o meno i sintomi di una positiva evoluzione della sua personalità e condizioni che ne rendano possibile il reinserimento sociale attraverso la misura alternativa, verificando non solo l’assenza di indicazioni negative, ma anche la presenza di elementi positivi che consentano un giudizio prognostico di buon esito della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva (Sez. 1, n. 38972 del 27/06/2018, Vettese, n.m.). Nell’ambito di tale valutazione, la decisione deve essere adeguatamente motivata in ordine alle ragioni della prevalenza accordata ad aspetti appartenenti al passato criminale del detenuto, a scapito degli eventuali progressi riscontrati nel corso del trattamento. L’adozione della misura alternativa, dunque, presuppone una valutazione prognostica compatibile con la pericolosità del condannato  ©(Sez. 1, n. 39944 del 10/07/2017 – dep. 2018 –, Pellegrini, n.m.), dovendo essere formulabile una ragionevole prognosi di completo reinserimento sociale all’esito della misura alternativa (Sez. 1, n. 5011 del 14/09/2017 – dep. 2018 –, Tarquini, n.m.). Il condannato che, dopo aver chiesto l’affidamento in prova al servizio sociale, non fornisca notizie esatte in ordine alla sua situazione sociale, familiare e lavorativa, informazioni utili per la predisposizione del programma di intervento, dimostra la mancanza di volontà collaborativa con gli operatori del servizio sociale, tenendo un comportamento che ben può essere valutato in chiave negativa dal Tribunale di Sorveglianza ai fini della concessione della misura (Sez. 1, n. 50169 del 25/05/2017, Erbo, Rv. 271296).

Secondo un indirizzo giurisprudenziale, ai fini del diniego della concessione del beneficio dell’affidamento in prova al servizio sociale, il tribunale può legittimamente valutare l’ingiustificata indisponibilità del condannato a risarcire la vittima, non ostando a ciò la mancata previsione del risarcimento dei danni quale condizione per la concessione del beneficio suddetto (Sez. 1, n. 39266 del 15/06/2017, Miele, Rv. 271226). L’affidamento in prova al servizio sociale, infatti, deve essere concesso se questa misura, anche attraverso le prescrizioni, contribuisce alla rieducazione del condannato. Tra le prescrizioni previste dalla norma vi è anche quella di “adoperarsi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato”. In questa prospettiva assume rilievo l’iniziativa risarcitoria e la prova di resipiscenza da parte del condannato (Sez. 1, n. 8681 del 24/01/2018, Jouvenal, n.m.).

28. (segue). L’affidamento in prova “allargato” e la sospensione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive brevi.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 41 del 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede che il pubblico ministero sospenda l’esecuzione della pena, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché quattro. In questo modo è stato sanato il difetto di coordinamento sussistente tra la disciplina dell’affidamento in prova c.d. “allargato” di cui all’art. 47, comma terzo-bis, ord. pen., introdotto dal d.l. n. 146 del 2013 e la previsione dell’art. 656 cod. proc. pen. 

Un indirizzo giurisprudenziale, invero, optando per un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., riteneva che si dovesse procedere alla sospensione dell’ordine di carcerazione per tutte le pene comprese tra tre anni e un giorno e i quattro anni (cfr., Sez. 1, n. 37848 del 4/03/2016, Trani, n.m.; Sez. 1, n. 51864 del 31/05/2016, Fanini, Rv. 270007).

Un diverso indirizzo, invece, sosteneva che solo l’ordine di esecuzione di pene entro i tre anni di reclusione dovesse essere sospeso (Sez. 1, n. 10733 del 27/10/2017, dep. 2018, pm in proc. Guerrero, Rv. 272490; Sez. 1, n. 11916 del 23/02/2018, P.M. in proc. Ndao, Rv. 272314; Sez. 1, n. 1784 del 30/11/2017, dep. 2018, P.M. in proc. Marchese, Rv. 272055).

La Corte costituzionale ha rilevato che, allo scopo di permettere la riduzione del numero dei detenuti, sulla base della comune presunzione di una ridotta pericolosità dei condannati a pene di limitata entità, l’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. prevede la sospensione delle pene detentive nel limite di tre anni. Questo limite corrisponde a quello fissato dall’art. 47, comma primo, ord. pen. ai fini dell’affidamento in prova. Il nuovo art. 47, comma 3-bis, ord. pen., tuttavia, ha introdotto un’ulteriore ipotesi di affidamento in prova, che può essere concesso “al condannato che deve espiare una pena detentiva, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, quando abbia già serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire” un giudizio positivo circa la rieducazione del condannato e la prevenzione del pericolo che commetta altri reati. Questa nuova ipotesi risponde alla medesima ratio della precedente, distinguendosi da essa solo perché il periodo di osservazione del comportamento del condannato è di almeno un anno, anziché di almeno un mese come è invece previsto dall’art. 47, comma secondo, ord. pen. Secondo la Corte «mancando di elevare il termine previsto per sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l’art. 3 Cost. Si è infatti derogato al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato».

A seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., Sez. 1, n. 34427 del 20/07/2018, Calabrese, Rv. 273857 ha precisato che il giudice dell’esecuzione ha il dovere di esaminare la domanda del detenuto di sospensione temporanea dell’ordine di esecuzione relativo a pena superiore a tre anni ma inferiore a quattro e, in presenza degli altri presupposti di legge, di provvedere al ripristino della facoltà del medesimo di proporre, da libero, istanza di misura alternativa, con tempestiva sospensione dell’esecuzione, a condizione che analoga istanza di misura alternativa, proposta dopo l’inizio dell’esecuzione della pena cui l’istanza stessa si riferisce, non sia già stata oggetto di decisione da parte del tribunale di sorveglianza. Secondo questa sentenza, infatti, «La decisione del giudice delle leggi … impone il ripristino della legalità costituzionale (ai sensi dell’art. 30 della legge n. 87 del 11/3/1953) in campo processuale, a far data dal momento del censurato “disallineamento” (tra le disposizioni sulla sospensione dell’esecuzione e quella sulla misura alternativa n. d.r.), con esclusiva necessità di individuare il limite delle cd. situazioni esaurite», cioè che l’esecuzione della pena già stata completata.

29. (segue). L’affidamento per ragioni terapeutiche.

Nel 2018, la Corte si è pronunciata anche sulle condizioni per l’affidamento in prova al servizio sociale per ragioni terapeutiche. Il provvedimento di cui all’art. 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 si fonda su presupposti di duplice natura: a) uno soggettivo, costituito dallo stato di tossicodipendenza o di alcool dipendenza del soggetto detenuto, che, a pena di inammissibilità, deve essere certificato da una struttura sanitaria pubblica; b) l’altro oggettivo, rappresentato dai limiti edittali massimi della sanzione complessivamente inflitta al soggetto o del residuo di maggiore pena da scontare e dalla mancata, pregressa concessione per più di due volte dell’affidamento stesso. In presenza di queste pre-condizioni l’Autorità giudiziaria deve svolgere una complessa valutazione circa il probabile conseguimento delle finalità del programma, concordato dal soggetto interessato con un’unità sanitaria locale o con uno degli enti previsti D.P.R. n. 309 del 1990, art. 115, oppure, con organismi privati, tenuto conto della pericolosità del condannato e dell’attitudine del trattamento a realizzare un suo effettivo reinserimento sociale. Il provvedimento, pertanto, può essere adottato all’esito di una complessa valutazione circa il probabile conseguimento delle finalità del programma terapeutico, tenendo conto della pericolosità del condannato e dell’attitudine del trattamento a realizzare un suo effettivo reinserimento sociale (Sez. 1, n. 16905 del 20/12/2017, dep. 2018, Frattasio, Rv. 273293).

30. (segue). I presupposti per la revoca della misura.

Nel corso del 2018, inoltre, la Corte è tornata sul profilo relativo alla revoca della misura. È stato ribadito da Sez. 1, n. 36503 del 6/06/2018, Galiano, Rv. 273614 che l’emissione di ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di condannato determina la sospensione dell’esecuzione della misura alternativa per la durata della misura custodiale, ma non ne comporta automaticamente la revoca dell’intervenuto affidamento in prova al servizio sociale che è, invece, correlata alla valutazione della condotta attribuita all’affidato con il provvedimento cautelare e alla sua incompatibilità con la prosecuzione della prova. Nella fattispecie, peraltro, il tribunale di sorveglianza aveva omesso di considerare l’intervenuto annullamento della misura cautelare da parte del tribunale della libertà.

Una interessante pronuncia ha affermato che, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, non è indennizzabile la pena espiata in regime di affidamento in prova al servizio sociale, trattandosi di misura alternativa non implicante privazione della libertà personale (Sez. 4, n. 35705 del 20/06/2018, Pallitta, Rv. 273425). In senso opposto si era determinata una recente sentenza sempre della Suprema Corte (Sez. 3, n. 43550 del 8/07/2016, Balkoci, Rv. 267928).

Ai sensi dell’art. 47, comma dodicesimo, ord. pen. l’esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale. L’estinzione di ogni effetto penale determinata dall’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale comporta che delle relative condanne non possa tenersi conto agli effetti della recidiva (Sez. 3, n. 39550 del 04/07/2017, Mauri, Rv. 271342). Il tribunale di sorveglianza, qualora l’interessato si trovi in disagiate condizioni economiche, può dichiarare estinta anche la pena pecuniaria che non sia stata già riscossa. Secondo Sez. 1, n. 18720 del 12/12/2017 – dep. 2018 –, Albertin, Rv. 273121, nel caso di condannato ammesso all’affidamento in prova al servizio sociale, competente a decidere sull’istanza cautelare di sospensione dell’esecuzione della pena pecuniaria in attesa dell’esito della misura alternativa è il tribunale di sorveglianza e non il giudice dell’esecuzione.

31. Detenzione domiciliare.

L’art. 47-ter ord. pen., come è noto, prevede che la pena detentiva possa essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza per talune categorie di soggetti (comma primo) o quando non sia superiore a quattro anni, ricorrendo talune condizioni (comma secondo). Il giudice chiamato a decidere sull’applicazione della detenzione domiciliare, anche se in via subordinata rispetto ad una richiesta di differimento dell’esecuzione della pena per motivi di salute, deve effettuare un bilanciamento tra le istanze sociali correlate alla pericolosità del detenuto e le condizioni complessive di salute di quest’ultimo con riguardo sia all’astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili, sia alla concreta adeguatezza della possibilità di cura ed assistenza che nella situazione specifica è possibile assicurare al predetto valutando anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico (Sez. 1, n. 37062 del 09/04/2018, Acampa, Rv. 273699).

La detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1, lett. a), ord. pen., in particolare, è istituto teso alla tutela di interessi costituzionalmente garantiti, come la protezione della maternità, dell’infanzia e del rapporto tra figlio-genitore in una fase delicata dello sviluppo psico-fisico del minore, laddove è sancita la preminenza della tutela del minore e della salvaguardia dei rapporti familiari sull’interesse dello Stato all’esecuzione in forma carceraria della sanzione penale. Il diniego del beneficio fondato sulla pericolosità sociale è consentito nella misura in cui, nella tutela degli interessi cui mira tale istituto, deve comunque essere rispettata la condizione della sussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori reati; va, dunque, operato un bilanciamento tra il diritto all’affettività del minore e le istanze di difesa sociale e spetta al giudice il compito di contemperare le opposte esigenze (Sez. 1, n. 5500 del 5/07/2017 – dep. 2018 –, Cerasulo, n.m.).

La norma esclude dall’applicazione della misura alternativa i condannati per alcuni reati. Al riguardo, è stato precisato che il condannato per uno dei delitti ostativi, indicati nell’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975 n. 354 non può fruire della detenzione domiciliare, neanche se ultrasettantenne, in quanto il catalogo dei divieti fissati dall’art. 47-ter, comma 1, della medesima legge opera mediante rinvio recettizio alla suddetta disposizione nella sua mera formalità di elencazione di reati nella sua mera formalità di elencazione di reati, escludendo la possibilità di ritenere operanti le relative deroghe (Sez. 1, n. 1541 del 28/11/2017, dep. 2018, Paliani, Rv. 271986).

32. (segue). L’insorgenza della malattia psichica e l’applicabilità della detenzione domiciliare “in deroga”.

La linea interpretativa seguita nel tempo dalla Corte di legittimità (cfr. Sez. 1 n. 37615 del 28/01/2015, Pileri, Rv 264876) tende a distinguere l’ipotesi della infermità fisica da quella della infermità “meramente” psichica, che non determini anche una compromissione fisica. Il soggetto portatore di infermità esclusivamente di tipo psichico – sopravvenuta alla condanna – non può accedere, secondo l’orientamento interpretativo costante della Corte, agli istituti del differimento obbligatorio o facoltativo della pena previsti dagli artt. 146 e 147 cod. pen., né alla particolare ipotesi di detenzione domiciliare “in deroga” ai limiti di pena ed ostatività del titolo di reato di cui all’art. 47-ter, comma 1, ord. pen. (Sez. 1, n. 17208 del 19/02/2001, Mangino, Rv 218762; Sez. 1, n. 8993 del 13/2/2008, Squeo, Rv 238948), perché nel corpo di tale disposizione vengono richiamate esclusivamente le condizioni di infermità di cui agli artt. 146 e 147 cod. pen. (infermità fisica) e non anche quelle evocate nel testo dell’art. 148 cod. pen. La sola ipotesi che contempla in modo indifferenziato le “condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedono costanti contatti con i presidi territoriali”, infatti, è rappresentata dalla disposizione di cui all’art. 47-ter, comma 1, lett. c ord. pen., in tema di detenzione domiciliare. La Sez. 1, con ordinanza n. 13382 del 23/11/2017 – dep. 2018 –, Montenero, n.m., ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 2, 3, 27, 32 e 117 della Cost., dell’art. 47-ter, comma primo-ter, ord. pen., nella parte in cui non prevede l’applicazione della detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena. Secondo questo provvedimento, il dubbio di legittimità costituzionale, in riferimento ai indicati, non superabile in via interpretativa, consista sia nella indebita contrazione dei poteri giurisdizionali, sia nel bisogno di garantire effettività alla tutela dei diritti inviolabili della persona umana. È stato altresì aggiunto che «l’obbligo di interruzione (nelle forme del differimento o della misura alternativa di cui all’art. 47-ter, comma primo-ter, ord. pen.) della detenzione non conforme ai contenuti dell’art. 3 della Convenzione Europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, è patrimonio giurisdizionale accresciuto dalle decisioni emesse dalla Corte di Strasburgo, più volte intervenuta (anche nei confronti dell’Italia) con decisioni accertative di violazione, proprio nel delicato settore del diritto alla salute del soggetto recluso e del correlato obbligo di valutare, a fronte di gravi patologie, la opportunità di mantenere o meno lo stato detentivo carcerario».

Va segnalato che un indirizzo della giurisprudenza di merito, ricorrendo alla disciplina dell’analogia, ha ritenuto possibile l’applicazione estensiva degli artt. 147 cod. pen. e 47-ter, comma primo-ter, ord. pen., quali espressioni dei generali principi di umanità della pena, della tutela della salute e della rieducazione del condannato, «all’ipotesi in cui sopraggiunga, in corso di esecuzione della pena, un’infermità psichica», in quanto tale analogia «colmando una lacuna ordinamentale, produce effetti favorevoli al condannato. Infatti, non solo non incide negativamente sulla sua libertà personale, ma consente di evitare la protrazione di uno stato detentivo incompatibile con le condizioni di salute del soggetto» (cfr. Tribunale di Sorveglianza di Messina 28/02/2018, n. 999/2017).

33. (segue). La sentenza della Corte costituzionale n. 211 del 2018.

L’art. 47-ter, comma primo, lett. b), ord. pen. consente che, in caso di decesso o impossibilità assoluta della madre a dare assistenza alla prole di età inferiore ad anni dieci, la detenzione domiciliare sia concessa al padre. Al successivo comma ottavo della medesima disposizione è stabilito che il condannato che si allontani dalla propria abitazione è punito ai sensi dell’art. 385 cod. pen., quale che sia la durata dell’allontanamento.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 211 del 25/10/2018, dep. 22/11/2018 ha ritenuto tali disposizioni in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto l’allontanamento ingiustificato del padre ammesso alla detenzione domiciliare “ordinaria” per prendersi cura dei figli è regolato in modo deteriore rispetto a quello del padre ammesso alla diversa misura della detenzione domiciliare speciale in caso di decesso o impossibilità assoluta della madre, se non vi è modo di affidare ad altri la prole, di cui all’art. 47-quinquies, comma settimo, ord. pen. In tale seconda ipotesi, infatti, secondo quanto disposto dal successivo art. 47-sexies ord. pen., l’allontanamento dal domicilio, senza giustificato motivo, è punito, ex art. 385 cod. pen., solo se si protrae per più di dodici ore. La Corte, in difetto di ragioni che giustifichino un diverso trattamento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma primo, lett. b), e ottavo, ord. pen., nella parte in cui non limita la punibilità, ai sensi dell’art. 385 cod. pen., al solo allontanamento che si protragga per più di dodici ore, come stabilito dall’art. 47-sexies, commi secondo e quarto, della medesima legge, sul presupposto che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.

34. (segue). I presupposti della revoca.

Appare opportuno menzionare anche una recente sentenza che ha precisato che, ai fini della revoca della detenzione domiciliare concessa nel caso in cui potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della pena per motivi di salute, debbono essere valutate comparativamente le esigenze di tutela della collettività con quelle del rispetto del principio dell’umanità della pena per verificare se la situazione attuale del soggetto sia compatibile con il ripristino della detenzione in carcere (Sez. 1, n. 55049 del 07/06/2017, Levi, Rv. 271891).

35. Liberazione anticipata: limiti alla concedibilità.

Ai sensi dell’art. 54 ord. pen., come è noto, al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione è concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata. Secondo Sez. 1, n. 21974 del 9/01/2018, Teano, n.m., ai sensi dell’art. 4-bis, comma terzo-bis, ord. pen., il beneficio può essere concesso anche ai condannati per la partecipazione ad un sodalizio di tipo mafioso, essendo escluso solo in caso di prova dell’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Ai fini dell’esclusione della misura, peraltro, occorre l’autonomo accertamento, in sede di procedimento di sorveglianza, dell’attualità ed effettività di perduranti legami del medesimo con la criminalità organizzata, non potendo detta partecipazione esser fatta coincidere con l’atteggiamento meramente psichico di chi “si senta mafioso” anche in detenzione, né esser dedotta esclusivamente dal mancato ravvedimento dell’interessato (Sez. 1, n. 12841 del 31/01/2017, Melodia, Rv. 269506).

36. (segue). La liberazione anticipata “speciale”.

Per completezza appare utile dare atto dell’indirizzo consolidato secondo cui la disciplina della liberazione anticipata “speciale”, introdotta dall’art. 4 del d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertita in legge 21 febbraio 2014, n. 10 per porre rimedio al sovraffollamento carcerario, ha natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella generale di cui all’art. 54 della legge 26 luglio 1975, n. 354, potendo trovare applicazione, pertanto, solo in relazione a periodi di detenzione sofferti nella vigenza temporale prevista, compresa tra il 1 gennaio 2010 e il 23 dicembre 2015, e non per quelli posti “a cavallo” della data iniziale, non determinandosi in tal modo alcuna disparità di trattamento in considerazione della ragione della sua introduzione (Sez. 7, n. 2112 del 29/09/2017, Floris, dep. 2018, n.m.; Sez. 1, n. 26482 del 2/03/2018, Tecce, n.m.; Sez. 1, n. 58080 del 26/10/2017, Ramaro, Rv. 271617).

37. Il divieto di concessione dei benefici di cui all’art. 58-quater ord. pen. 

Con ordinanza Sez. 1, n. 32331 del 10/10/2018, Giugliano, n.m. la Corte di cassazione ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma primo, secondo e terzo, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui essi, nel loro combinato disposto, prevedono che non possa essere concessa, per la durata di tre anni, la detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art. 47-quinquies della stessa legge n. 354 del 1975, al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa, ai sensi dell’art. 47, comma 11, dell’art. 47-ter, comma 6, o dell’art. 51, primo comma, della legge medesima. Secondo questo provvedimento, «L’art. 58-quater, primo e secondo comma, ord. pen. – nell’inibire, nei confronti del condannato resosi responsabile di condotte che hanno determinato la pregressa revoca di una delle misure alternative ivi indicate, l’accesso alla detenzione domiciliare «speciale» – pone una siffatta presunzione assoluta, da ritenere in contrasto, per tutte le considerazioni svolte, sia con il principio di eguaglianza formale (art. 3 Cost.), per l’indebita parificazione di situazioni di espiazione soggettivamente differenziate, sia con le disposizioni costituzionali a tutela della famiglia (art. 29, primo comma), del rapporto di genitorialità (art. 30, primo comma) e dell’infanzia (art. 31, secondo comma), che restano compromesse al di fuori del necessario prudente apprezzamento delle circostanze della vicenda concreta. Il vulnus ai citati principi costituzionali, inoltre, non è escluso dal fatto che la preclusione, indotta dal citato art. 58-quater, seppur assoluta, ha una durata limitata nel tempo; il terzo comma della disposizione fa coincidere tale durata con il tempo di tre anni dall’intervenuta revoca della misura alternativa. Tale circostanza non appare dirimente perché tre anni sono un tempo assai significativo nel processo di crescita del minore di tenera età, cui l’art. 47-quinquies ord. pen. ha principale riguardo; tanto più significativo, quanto più ridotta sia l’età del bambino nel momento in cui la preclusione inizi a decorrere. «Durante tale periodo ben possono verificarsi quelle importanti, e difficilmente riparabili, alterazioni del suo equilibrio psicofisico che solo l’eliminazione dell’automatismo – e con essa la riespansione del potere discrezionale del giudice, orientato a una logica di attento bilanciamento dei valori in campo – è in grado di sventare».

38. (segue). La sentenza della Corte costituzionale n. 149 del 2018.

Va segnalato che la Corte costituzionale, per la prima volta, ha dichiarato l’illegittimità di una forma di ergastolo “ostativo”, sia pure relativo ad un ristretto novero di destinatari. Con la sentenza n. 149 del 20/06/2018, dep. 11/07/2018, infatti, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 58-quater, comma 4, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui impedisce ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 cod. pen., che abbiano cagionato la morte del sequestrato, l’accesso a tutti i benefici indicati dall’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. (lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà e liberazione condizionale) finché non abbiano effettivamente espiato almeno ventisei anni di pena, non riducibili per effetto della liberazione anticipata, e pur in presenza di una loro collaborazione o delle condizioni equiparate. Secondo la Corte, il carattere automatico della preclusione temporale all’accesso ai benefici, impedendo al giudice qualsiasi valutazione individuale sul concreto percorso di rieducazione compiuto dal condannato, in ragione soltanto del titolo di reato che supporta la condanna, contrasta con la ineliminabile finalità di rieducazione della pena, che deve sempre essere garantita anche nei confronti degli autori di reati gravissimi.

Appare appena il caso di aggiungere che il tema del cd. “ergastolo ostativo” presenta più ampi risvolti, riguardando le conseguenze che derivano per il condannato all’ergastolo nel caso di assenza della collaborazione con la giustizia ai sensi degli artt. 4-bis e 58-ter ord. pen. o della condizione equipollente, situazione nella quale è precluso l’accesso ai benefici penitenziari, con l’effetto pratico di rendere la condanna perpetua, ancorché, secondo la Corte costituzionale pur sempre per una autonoma scelta del condannato, libera e reversibile (Corte cost. n. 135 del 9/04/2003).

39. Funzioni e provvedimenti del magistrato di sorveglianza.

Ai sensi dell’art. 69, comma sesto, ord. pen., il magistrato di sorveglianza provvede a norma dell’art. 35-bis sempre della legge n. 354 del 1975, sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti:

a) le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell’organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa;

b) l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti.

Un’interessante pronuncia del 2018 ha precisato che, in tema di reclamo del detenuto avverso l’irrogazione di una sanzione disciplinare, la locuzione “condizioni di esercizio del potere”, adoperata dalla norma citata per delineare l’ambito del controllo demandato al magistrato di sorveglianza, deve intendersi riferita alla verifica della preesistenza rispetto al fatto di una disposizione regolamentare, caratterizzata da chiarezza e precisione, non contrastante con la normativa primaria, che, in forza del rinvio contenuto nell’art. 38, comma primo, ord. pen., abbia elevato ad illecito disciplinare la condotta addebitata al soggetto ristretto, oltre che alla corrispondenza tra il fatto concreto, come accertato in sede disciplinare, e la fattispecie astratta (Sez. 1, n. 11308 del 12/10/2017, dep. 2018, Lo Piccolo, Rv. 272784). Secondo questa decisione, l’art. 77, comma 1, n. 16 del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 costituisce una norma in bianco che permette l’irrogazione di una sanzione disciplinare per qualunque inosservanza di ordini o prescrizioni ovvero anche solo per l’ingiustificato ritardo nell’esecuzione di essi, purché tale previsione sia espressamente contemplata da una disposizione del regolamento connotata da chiarezza e precisione.

Appare opportuno segnalare che, secondo un indirizzo giurisprudenziale, il reclamo giurisdizionale di cui agli artt. 35-bis e 69, comma sesto, lett. b), ord. pen. - a differenza del reclamo generico ex art. 35, comma primo, n. 5, ord. pen. - non è volto alla tutela di un mero interesse del detenuto alla corretta esecuzione della pena, ma ha ad oggetto la verifica di un pregiudizio concreto ed attuale sofferto dal medesimo in conseguenza di un comportamento dell’amministrazione lesivo di una sua posizione di diritto soggettivo, che, pur in difetto di un espresso riconoscimento di legge, ben può consistere nella proiezione di un diritto intangibile della persona (Sez. 1, n. 54117 del 14/06/2017, Costa, Rv. 271905).

40. (segue). Il reclamo al tribunale di sorveglianza.

Avverso l’ordinanza del magistrato di sorveglianza, pronunciata ai sensi dell’art. 69, comma sesto, ord. pen. in materia disciplinare, non è ammesso il ricorso immediato per cassazione, essendo tale provvedimento privo della natura di sentenza ed espressamente impugnabile con il reclamo al tribunale di sorveglianza ex art. 35-bis, comma 4, ord. pen. (Sez. 1, n. 16914 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Palumbo, Rv. 272785). Analogamente, può essere oggetto di reclamo al tribunale di sorveglianza avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza che approvi la revoca dell’ammissione al lavoro all’esterno, trattandosi di una decisione idonea ad incidere su un diritto fondamentale del detenuto (Sez. 1, n. 37368 del 10/07/2018, Brandoli, Rv. 273862). Anche i provvedimenti di assegnazione del detenuto ad un determinato circuito carcerario, che comportano la sottoposizione a un regime penitenziario differenziato o, comunque, il suo mantenimento, possono essere oggetto di reclamo al Magistrato di Sorveglianza ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma sesto, n. 2, ord. pen., ove siano adottati in violazione dei criteri sulla destinazione dei detenuti, fissati in via generale ed astratta dall’amministrazione, risolvendosi in una lesione del diritto soggettivo al trattamento “comune” (Sez. 1, n. 16911 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Fabiano, Rv. 272704).

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. U, n. 9616 del 24/03/1995, Boido, Rv. 202018 Sez. 1, n. 17208 del 19/02/2001, Mangino, Rv 218762 Sez. 5, n. 26399 del 5/04/2004, Rv. 229865 Sez. 1, n. 8993 del 13/2/2008, Squeo, Rv. 238948 Sez. 1, n. 32851 del 06/05/2008, Sapone, Rv. 241228 Sez. 1, n. 10427 del 24/02/2010, P.M. in proc. C., Rv. 246397 Sez. 1, n. 36999 del 28/6/2012, Rannesi Sez. 1, n. 35621 del 20/6/2013, Spada Sez. 1, n. 53012 del 27/11/2014, Ministero Giustizia, Rv. 261306 Sez. 1 n. 37615 del 28/01/2015, Pileri, Rv. 264876 Sez. 1, n. 37848 del 4/03/2016, Trani Sez. 1, n. 51864 del 31/05/2016, Fanini, Rv. 270007 Sez. 3, n. 43550 del 8/07/2016, Balkoci, Rv. 267928 Sez. 1, n. 52819 del 9/09/2016, Sciuto, Rv. 268231 Sez. 1, n. 11248 del 17/11/2016 – dep. 2017 –, Arfaoui, Rv. 269377 Sez. 1, n. 11249 del 17/11/2016 – dep. 2017 –, Condello, Rv. 269513 Sez. 1, n. 47044 del 24/01/2017, Sorice, Rv. 271474 Sez. 1, n. 12841 del 31/01/2017, Melodia, Rv. 269506 Sez. 1, n. 31475 del 15/03/2017, Zito, Rv. 270841 Sez. 7, n. 21506 del 16/03/2017, Roman, Rv. 269781 Sez. 1, n. 40909 del 24/03/2017, Harnifi, Rv. 271363 Sez. 1, n. 19674 del 29/03/2017, Basso, Rv. 269894 Sez. 1, n. 47333, del 16/03/2017, P.G. in proc. Chargui Khatoui, Rv. 271173 Sez. 1, n. 983 del 11/04/2017 – dep. 2018 –, Vaiani, Rv. 272286 Sez. 1, n. 16335 del 20/04/2017 – dep. 2018 –, Cassano Sez. 1, n. 47052 del 18/05/2017, Fazio, Rv. 271129 Sez. 1, n. 50169 del 25/05/2017, Erbo, Rv. 271296 Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017, Gobbi, Rv. 271087 Sez. 1, n. 48424 del 26/05/2017, Perrone Sez. 1, n. 55049 del 07/06/2017, Levi, Rv. 271891 Sez. 1, n. 54117 del 14/06/2017, Costa, Rv. 271905 Sez. 1, n. 39266 del 15/06/2017, Miele, Rv. 271226 Sez. 3, n. 39550 del 04/07/2017, Mauri, Rv. 271342 Sez. 1, n. 5500 del 5/07/2017 – dep. 2018 –, Cerasulo Sez. 1, n. 41587 del 6/07/2017, Esposito, Rv. 271319 Sez. 1, n. 39944 del 10/07/2017 – dep. 2018 –, Pellegrini Sez. 1, n. 3428 del 19/07/2017 – dep. 2018 –, Zaccagna Sez. 1, n. 4994 del 20/07/2017 – dep. 2018 –, Attanasio Sez. 1, n. 5011 del 14/09/2017 – dep. 2018 –, Tarquini Sez. 7, n. 2112 del 29/09/2017 – dep. 2018 –, Floris Sez. 1, n. 57813 del 04/10/2017, Graviano, Rv. 272400 Sez. 1, n. 7409 del 05/10/2017 – dep. 2018 –, Abbate, Rv. 272059 Sez. 1, n. 13377 del 10/10/2017 – dep. 2018 –, Min. Giustizia ed altri, Rv. 272564 Sez. 1, n. 13381 del 10/10/2017 – dep. 2018 –, Querci, Rv. 272566 Sez. 1, n. 11308 del 12/10/2017 – dep. 2018 –, Lo Piccolo, Rv. 272784

Sez. 1, n. 58075 del 26/10/2017, P.G. in proc. Cagnazzo, Rv. 271616

Sez. 1, n. 58080 del 26/10/2017, Ramaro, Rv. 271617

Sez. 1, n. 10733 del 27/10/2017 – dep. 2018 –, Pm in proc. Guerrero, Rv. 272490

Sez. 1, n. 3447 del 27/11/2017 – dep. 2018 –, Tagliavia

Sez. 1, n. 26062 del 27/11/2017 – dep. 2018 –, PG in proc. Birra

Sez. 1, n. 38643 del 27/11/2017 – dep. 2018 –, Di Giacomo, Rv. 273859

Sez. 1, n. 10619 del 27/11/2017 – dep. 2018 –, Nobis, Rv. 272310

Sez. 1, n. 1541 del 28/11/2017 – dep. 2018 –, Paliani, Rv. 271986

Sez. 1, n. 1784 del 30/11/2017 – dep. 2018 –, P.M. in proc. Marchese, Rv. 272055

Sez. 1, n. 11313 del 06/12/2017 – dep. 2018, Gallo, Rv. 272611

Sez. 1, n. 11313 del 06/12/2017 – dep. 2018

Sez. 1, n. 18720 del 12/12/2017 – dep. 2018 –, Albertin, Rv. 273121

Sez. 1, n. 16905 del 20/12/2017 – dep. 2018 –, Frattasio, Rv. 273293

Sez. 1, n. 26073 del 20/12/2017, Ardizzone, Rv. 273123

Sez. 1, n. 16915 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Gerbino

Sez. 1, n. 16915 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Gerbino, Rv. 272830

Sez. 1, n. 16913 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Assegnati:

Sez. 1, n. 16911 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Fabiano, Rv. 272704

Sez. 1, n. 16914 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Palumbo, Rv. 272785

Sez. U, n. 3775 del 21/12/2017 – dep. 2018 –, Min. Giustizia in proc. Tuttolomondo, Rv. 271649

Sez. 1, n. 21974 del 9/01/2018, Teano

Sez. 1, n. 8668 del 12/01/2018, Cologna, Rv. 272312

Sez. 1, n. 8681 del 24/01/2018, Jouvenal, n. m

Sez. 1, n. 11916 del 23/02/2018, P.M. in proc. Ndao, Rv. 272314

Sez. 1, n. 18496 del 31/01/2018, Terracciano, Rv. 273070

Sez. 1, n. 26482 del 2/03/2018, Tecce

Sez. 1, n. 22292 del 6/03/2018, PG in proc. Russo, Rv. 273298

Sez. 1, n. 29059 del 28/03/2018, conflitto Uff. di Sorveglianza Torino

Sez. 1, n. 32280 del 29/03/2018, Nolis, Rv. 273851

Sez. 1, n. 28309 del 5/04/2018, Falsone

Sez. 1, n. 36456 del 9/04/2018, Corrias, Rv. 273608

Sez. 1, n. 36457 del 9/04/2018, P.G. in proc. Fava, Rv. 273610

Sez. 1, n. 37062 del 09/04/2018, Acampa, Rv. 273699

Sez. 4, n. 22039 del 12/04/2018, Trovato

Sez. 1, n. 41196 del 12/04/2018, Cesarano,

Sez. 1, n. 44972 del 16/04/2018, Madonia,

Sez. 1, n. 23362 del 11/05/2018, Lucchese, Rv. 273144

Sez. 1, n. 36501 del 6/06/2018, Skripeliov, Rv. 273613

Sez. 1, n. 36503 del 6/06/2018, Galiano, Rv. 273614

Sez. 1, n. 40761 del 8/06/2018, Pesce

Sez. 1, n. 52526 del 16/06/2018, Zagaria

Sez. 1, n. 37368 del 10/07/2018, Brandoli, Rv. 273862

Sez. 2, n. 39961 del 19/07/2018, Rv. 273923

Sez. 1, n. 34427 del 20/07/2018, Calabrese, Rv. 273857

Sez. 4, n. 35705 del 20/06/2018, Pallitta, Rv. 273425 Sez. 1, n. 38972 del 27/06/2018, Vettese Sez. 1, n. 51877 del 21/09/2018, Hu, Sez. 1, n. 51209 del 25/09/2018, Onda Sez. 1, n. 50484 del 2/10/2018, Mondella Sez. 1, n. 32331 del 10/10/2018, Giugliano Sez. 1, n. 56197 del 16/11/2018, Lioce

SEZIONE VIII RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE

  • estradizione

CAPITOLO I

ESTRADIZIONE

(di Raffaele Piccirillo )

Sommario

Premessa

. Premessa

L’elaborazione giurisprudenziale dell’anno 2018 in materia di estradizione non si è ancora confrontata con le innovazioni introdotte in questo settore dal d.lgs. 3 ottobre 2017, n. 149 recante la riforma del Libro XI del codice di rito.

Ciò è probabilmente dovuto alla dimensione limitata dell’intervento legislativo su questo settore della cooperazione giudiziaria internazionale, rispetto alla più ampia riconfigurazione che ha avuto luogo nel settore dell’assistenza investigativa e probatoria, in ragione anche della concomitante attuazione della Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea (Bruxelles, 2000) e della Direttiva 2014/41/UE in tema di ordine europeo di indagine e di prova.

Lo stesso tema degli effetti processuali della clausola di specialità estradizionale, per quanto interessato in maniera più significativa dalla riforma, almeno per quanto attiene ai procedimenti estradizionali dall’estero (modifica dell’art. 721 cod. proc. pen., introduzione dell’art. 721-bis cod. proc. pen.), è venuto in rilievo con riferimento ad un aspetto (attinente al rapporto con il principio di fungibilità della detenzione sancito dall’art. 657 cod. proc. pen.) non interessato dalla riforma.

Ciononostante, l’analisi delle decisioni più rilevanti emesse in materia estradizionale offre una panoramica interessante, sia per la ricchezza e varietà delle questioni affrontate, sia per il metodo e i contenuti delle soluzioni adottate.

Si segnalano, in particolare:

- l’analisi comparativa dei sistemi sottesa alle decisioni in tema di verifica del presupposto della doppia incriminazione (art. 13, comma secondo, cod. pen.), di controllo della base indiziaria della misura restrittiva estera da eseguire per via estradizionale, di riscontro della compatibilità convenzionale dei regimi sanzionatori ed esecutivi degli Stati richiedenti l’estradizione (artt. 698 e 705 cod. proc. pen.), questioni che hanno soprattutto riguardato procedure di cooperazione con gli Stati Uniti d’America (Parte I, parr. 4, 5 e 6);

- la sottolineatura delle differenze, in materia di motivi obbligatori di rifiuto, tra la disciplina estradizionale e quella del mandato di arresto europeo;

Di notevole rilievo sono anche le decisioni che consolidano un quadro giurisprudenziale già uniforme o assecondano orientamenti già emersi, sulla base però di un più raffinato e aggiornato apparato argomentativo, come potrà riscontrarsi nelle sentenze dedicate alle conseguenze della violazione della condizione sanzionatoria apposta dallo Stato estradante (Parte II, par. 1) e al rapporto tra arresto a fini estradizionali all’estero e impedimento a comparire nel giudizio interno (Parte II, par. 3).

Di interesse è, infine, il contributo della Corte alla demarcazione dei ruoli, rispettivamente assegnati all’autorità politica e a quella giudiziaria nelle diverse fasi della procedura estradizionale, che viene particolarmente in rilievo negli arresti in tema di difformità sanzionatoria, di litispendenza e di concorrente giurisdizione interna per i fatti oggetto della domanda di consegna dello Stato estero (Parte I, parr. 2 e 6).

  • detenuto
  • diritto degli stranieri
  • estradizione

PARTE I

ESTRADIZIONE PER L’ESTERO

Sommario

1 Requisiti formali e documenti a sostegno della domanda. - 2 La condizione ostativa della litispendenza internazionale e il tema della giurisdizione concorrente. - 3 L’estradizione e la condizione dello straniero non cittadino UE radicato nel territorio nazionale. - 4 Il principio della doppia incriminazione e i rapporti tra la conspiracy statunitense e le fattispecie associative interne. - 5 La verifica della base indiziaria. - 6 Trattamento sanzionatorio e prescrizione della pena. - 7 Il controllo della Corte di cassazione ex art. 706 cod. proc. pen.  - 8 Misure cautelari a fini estradizionali.

1. Requisiti formali e documenti a sostegno della domanda.

Sez. 6, n. 3079 del 06/12/2017, (dep. 2018), Magni, Rv. 272142 ha dato continuità a un orientamento antiformalista in tema di omessa allegazione dei dati segnaletici richiesti dall’art. 700, comma secondo, lett. c), cod. proc. pen. La massima recita che “quando dagli atti del procedimento risulti compiutamente identificato l’estradando come la persona destinataria del provvedimento restrittivo della libertà personale emesso dall’autorità giudiziaria straniera, a nulla rileva che l’autorità richiedente non abbia fornito i dati segnaletici o gli altri requisiti di identificazione previsti dall’art. 700, comma 2, lett. c), cod. proc. pen.”. Nella fattispecie, la certezza dell’identificazione era stata conseguita compulsando la documentazione delle indagini trasmessa dalle autorità straniere che includeva video e foto-riprese e gli indirizzi di residenza dell’estradando. La decisione si conforma a Sez. 6, n. 18306 del 12/03/2004, Matic, Rv. 229413 e Sez. 6, n. 1620 del 17/04/1996, Radosalvgevic, Rv. 205022 e, più in generale, si raccorda a una linea interpretativa che, guardando alla sostanza della garanzia sottesa a un determinato requisito formale, reputa irrilevante che l’informazione sia contenuta nell’atto deputato a contenerla o in altro atto allegato alla domanda di estradizione. In tal senso Sez. 6, n. 28299 del 09/06/2003, Kurkani, Rv. 225968 per la quale “in tema di estradizione per l’estero, non rileva che la esposizione dei fatti per i quali la richiesta è formulata sia contenuta nei provvedimenti cautelari allegati e non già nel documento di richiesta, come prescrive l’art. 12 cpv. lett. b) Convenzione europea di estradizione di Parigi del 13 dicembre 1957 e l’art. 700 cod. proc. pen., rilevando unicamente che dagli atti risultino descritti i fatti in modo da consentire la verifica dell’assenza delle condizioni ostative per l’estradizione”. Per altro verso, la linea anti-formalista della decisione Magni trova espressione nell’affermazione per la quale l’omessa traduzione della domanda di estradizione presentata dalle autorità statunitensi in lingua italiana, non essendo sanzionata dall’art. 201 disp. att. cod. proc. pen., non dà luogo ad alcuna ipotesi di nullità; né proietta effetti sulla congruità e completezza della decisione impugnata, quando questa svolge una puntuale disamina dell’ipotesi accusatoria formulata a carico dell’estradando, giovandosi della documentazione allegata alla domanda, integralmente tradotta, nel caso di specie, in lingua italiana.

2. La condizione ostativa della litispendenza internazionale e il tema della giurisdizione concorrente.

Intervenendo su un caso di estradizione richiesta dalla Confederazione elvetica ai sensi della Convenzione europea del 1957, Sez. 6, n. 48097 del 12/09/2018, C. ha risposto al motivo di ricorso incentrato sulla violazione da parte della Corte d’appello del disposto degli artt. 705, comma primo, cod. proc. pen. e dell’art. 8 della Convenzione ribadendo il principio secondo il quale la condizione ostativa della pendenza di un procedimento penale sussiste soltanto quando nei confronti dell’estradando, per lo stesso fatto, è stata esercitata l’azione penale ovvero è stata emessa un’ordinanza applicativa della custodia cautelare.

Nella fattispecie, risultando unicamente l’iscrizione dell’estradando nel registro degli indagati e l’emissione nei suoi confronti di un decreto di perquisizione, è stata ritenuta immune da censure la dichiarazione di sussistenza delle condizioni per la consegna.

La pronuncia si conforma al maggioritario indirizzo della giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, n. 26920 del 28/05/2013, Paredes, Rv. 256565; Sez. 6, n. 38850 del 18/09/2008, Rukaj, Rv. 241262; Sez. 6, n. 727 del 18/10/2006, Miah, Rv. 235549), il cui apparato argomentativo è incentrato sulla seguente considerazione.

La valutazione di identità del fatto per cui è richiesta la consegna rispetto a quello per il quale pende in Italia un procedimento penale – postulando l’analitico raffronto degli elementi costitutivi del reato, delle circostanze di tempo e di luogo, delle modalità attuative, delle parti offese, di eventuali concorrenti ecc. – non può fondarsi sulla mera iscrizione nel registro delle notizie di reato, ma esige l’intervento di atti dai quali risulti chiaramente delineata un’imputazione o almeno un significativo progetto di imputazione, sia pure nella forma ancora flessibile e fluida degli atti di indagine preliminare, purché recante i dati essenziali necessari per accertare o escludere la corrispondenza storico-naturalistica e giuridica dei fatti costituenti illecito penale nei due paesi (in questi termini si esprime la motivazione di Sez. 6, n. 38850 del 18/09/2008, Rukaj, Rv. 241262, ripresa integralmente da Sez. 6, n. 26920 del 28/05/2013, Paredes).

Un indirizzo più restrittivo – che pare, invero, superato dalla più recente evoluzione giurisprudenziale – legge il riferimento dell’art. 705, comma primo, cod. proc. pen. alla pendenza in termini strettamente aderenti alle categorie del diritto nazionale, e dunque esige l’esercizio dell’azione penale in una delle forme previste dall’art. 405 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 21351 del 17/05/2002, Stankovic, Rv. 222030).

Un indirizzo più estensivo, per converso, declina il presupposto della litispendenza, escludendo sì la sufficienza della mera iscrizione nel registro delle notizie di reato, ma includendovi – oltre agli atti di esercizio dell’azione penale e all’ordinanza cautelare personale – tutte le “iniziative investigative potenzialmente finalizzate all’esercizio dell’azione penale in relazione a un fatto coincidente con quello per il quale è stata presentata domanda di estradizione da parte dell’autorità straniera”, ivi inclusi gli addebiti provvisori formulati dal pubblico ministero nel contesto “della richiesta di misure cautelari personali o reali” e anche le iniziative che comunque implichino l’intervento del giudice per le indagini preliminari (ad es., richieste di decreti autorizzativi di intercettazioni telefoniche, di assunzione di incidente probatorio, di proroga del termine per le indagini” (si esprimeva in questi termini la motivazione di Sez. 6, n. 48496 del 19/12/2008, Lusenti, Rv. 242431, intervenuta in una fattispecie nella quale fu ritenuta insufficiente la mera iscrizione della notizia di reato, fondata peraltro su una autodenuncia strumentale dell’estradando).

Con riferimento ai presupposti sostanziali della litispendenza, deve nuovamente richiamarsi Sez. 6, n. 3079 del 06/12/2017 Cc. – dep. 2018 –, Magni, Rv. 272143 che, con specifico riferimento al motivo facoltativo di rifiuto per “litispendenza totale” previsto dall’art. VII del Trattato Italia – U.S.A. del 13 ottobre 1983, ratificato con legge 26 maggio 1984, n. 225, ha affermato la necessità di “avere riguardo al criterio della identità sostanziale dei fatti oggetto dei relativi procedimenti, indipendentemente dall’eventuale diversa qualificazione giuridica attribuita all’episodio dalle autorità dello Stato richiedente e di quello richiesto”.

Veniva in gioco la previsione dell’art. VII del trattato Italia – USA (“L’estradizione può essere rifiutata se la persona richiesta è sottoposta a procedimento dalla parte richiesta per gli stessi fatti per i quali l’estradizione è domandata”) che la Corte ha interpretato sulla falsariga di precedenti arresti in tema di litispendenza o di ne bis in idem internazionale, intervenuti nel contesto di procedure estradizionali passive regolate dalla Convenzione europea del 1957 (artt. 8 e 9) e dall’art. 705, comma primo, cod. proc. pen.

In motivazione la decisione ha richiamato Sez. 6, n. 26414 del 15/06/2012, F., Rv. 253046 che, con riferimento all’art. 9 della Convenzione europea del 1957, accoglieva il criterio dell’identità sostanziale dei fatti oggetto dei rispettivi giudicati, quale approdo di un percorso evolutivo segnato da importanti pronunce della Corte EDU, della Corte di giustizia UE e della Corte interamericana dei diritti dell’uomo che, in chiave di maggior tutela dei diritti e delle libertà individuali, ricusano il criterio formalistico dell’idem legale per privilegiare quello che lega l’effetto preclusivo all’identità dei fatti materiali, indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica.

Si armonizza con questo approccio Sez. 6, n. 48496 del 19/12/2008, Lusenti, Rv. 242431 che individua la condizione ostativa della consegna con riferimento all’assunzione, da parte del P.M., di iniziative investigative potenzialmente finalizzate all’esercizio dell’azione penale per un fatto storico coincidente con quello per il quale è stata presentata domanda di estradizione da parte dell’Autorità estera.

Un esito, questo, che corrisponde a quanto affermato, in relazione alla preclusione interna di cui all’art. 649 cod. proc. pen., da Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799, per la quale l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.

Applicato al caso di specie, il criterio ha condotto la Corte ad escludere la ricorrenza della condizione ostativa, ravvisandosi tra il procedimento iscritto in Italia per alcuni fatti di riciclaggio ed evasione fiscale e il procedimento per conspiracy in corso negli Stati Uniti una coincidenza soltanto parziale.

Avendo poi gli estradandi rappresentato, con qualche fondamento, che i fatti contestati nel procedimento statunitense erano stati commessi in territorio italiano secondo i criteri dettati dall’art. 6 cod. pen., la Corte ha avuto modo di ribadire i principi affermati, tra le altre, da Sez. 6, n. 9119 del 25/01/2012, Topi, Rv. 252040 e Sez. 6, n. 24474 del 02/04/2009, Gjoni, Rv. 244359, secondo i quali “in tema di estradizione per l’estero, la commissione del reato in Italia non esclude la concorrente giurisdizione straniera, né impedisce l’estradizione fondata sulla Convenzione europea del 1957, in virtù della quale siffatta ipotesi può dar luogo solo al rifiuto facoltativo di estradizione (ex art. 7), che non è di competenza dell’autorità giudiziaria, ma rientra nelle attribuzioni esclusive del Ministro della Giustizia v. Corte cost., n. 58 del 1997 Quest’ultimo profilo costituisce un importante elemento differenziale rispetto al regime del mandato di arresto europeo dove, invece, l’art. 18, comma primo, lett. p) della legge 22 aprile 2005, n. 69 configura il caso della commissione del reato in Italia come motivo obbligatorio di rifiuto.

3. L’estradizione e la condizione dello straniero non cittadino UE radicato nel territorio nazionale.

Un’altra importante differenza della disciplina dei motivi di rifiuto dell’estradizione rispetto a quella del mandato di arresto europeo è sottolineata da Sez. 6, Sentenza n. 5225 del 15/12/2017 Cc. – dep. 2018 –, Ciomirtan, Rv. 272127 che affronta il tema dell’estensione all’ambito dell’estradizione passiva del motivo obbligatorio di rifiuto previsto dall’art. 18, lett. r) della legge 22 aprile 2005, n. 69, ai sensi del quale la Corte d’appello rifiuta la consegna “se il mandato di arresto europeo è stato emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano, sempre che la corte d’appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno”.

Veniva in considerazione il caso di un cittadino moldavo che assumeva di essere ormai stabilmente radicato in Italia e perciò invocava l’applicazione della disposizione sopra citata, così come manipolata dalla sentenza Corte cost. n. 227 del 24 giugno 2010, che ha sancito l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., l’art. 18, comma 1, lett. r), della legge 22 aprile 2005, n. 69, nella parte in cui non prevede il rifiuto di consegna anche del cittadino di un altro Paese membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al diritto interno.

La Sesta sezione ha risposto al motivo di ricorso, escludendo che la descritta causa ostativa sia applicabile al di fuori del suo contesto di riferimento: “In tema di estradizione per l’estero, la causa ostativa prevista dall’art. 18, lett. r), legge 22 aprile 2005, n. 69, non è applicabile nei confronti di cittadini di Stati non membri dell’Unione Europea, anche qualora siano stabilmente radicati nel territorio nazionale, in quanto l’art. 705, comma 2, cod. proc. pen. non contempla analogo motivo di rifiuto alla consegna dell’estradando”.

In motivazione, la Corte ha evidenziato che nel testo dell’art. 705 cod. proc. pen. risultante dalla modifica operata dalla legge 3 ottobre 2017, n. 149 l’invocato motivo di rifiuto non è stato inserito nella disciplina dell’estradizione passiva, soggiungendo che neppure dal citato arresto della Corte costituzionale possono trarsi argomenti in favore dell’estensione della garanzia a cittadini non appartenenti allo spazio giudiziario comune del quale il sistema del mandato di arresto europeo costituisce espressione.

In effetti, il Giudice delle leggi imperniò la sua decisione sul fatto che la norma interna si poneva in contrasto il divieto di discriminazione in base alla nazionalità sancito dall’art. 12 del Trattato CE (oggi art. 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), divieto che consente sì di differenziare la situazione del cittadino di uno Stato membro dell’Unione rispetto a quella del cittadino di un altro Stato membro, ma soltanto sulla base di una giustificazione legittima e ragionevole, sottoposta ad un rigoroso test di proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito. La radicale esclusione dell’ipotesi che il cittadino di altro Stato membro potesse beneficiare del rifiuto di consegna, e dunque dell’esecuzione della pena in Italia, si traduceva – nella prospettiva della Consulta – in una discriminazione soggettiva del cittadino di altro Paese dell’Unione in quanto straniero, che, in difetto di una ragionevole giustificazione, non è proporzionata.

Al cospetto di un quadro siffatto, la Sesta sezione ha ritenuto che l’estensione del trattamento agli stranieri cittadini di Paesi non membri dell’Unione “implicherebbe l’individuazione di una disciplina normativa singolare, frutto dell’interpolazione di quella in tema di MAE con quella stabilita dal codice di procedura penale, riservata in via esclusiva al legislatore e preclusa non solo all’interprete ma anche allo stesso giudice delle leggi”.

Per ragioni analoghe, Sez. 6, n. 40612 del 31/10/2006, Sochiu, Rv. 235445 ritenne manifestamente infondata una questione di costituzionalità sollevata in tema di mancata estensione alla procedura estradizionale del motivo obbligatorio di rifiuto previsto, in materia di mandato di arresto europeo, dall’art. 18 lett. s) della legge n. 69 del 2005:

«In tema di estradizione per l’estero, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 705, comma secondo cod. proc. pen., dedotta con riferimento ad una pretesa disparità di trattamento riservato alla persona richiesta in consegna che sia madre di prole di età inferiore a tre anni, rispetto all’art. 18, lett. s) della legge 22 aprile 2005, n. 69, in quanto la diversa disciplina del mandato di arresto europeo trova la sua giustificazione nella circostanza che la consegna avviene tra Paesi che fanno parte dell’Unione europea, e che per questo presentano una forte omogeneità culturale e giuridica».

4. Il principio della doppia incriminazione e i rapporti tra la conspiracy statunitense e le fattispecie associative interne.

Interpellata dai ricorrenti sulla conformità della dichiarazione di estradabilità pronunciata dalla Corte d’appello al principio della doppia incriminazione sancito dall’art. 13 cod. pen., la decisione Sez. 6, n. 3079 del 06/12/2017 – dep. 2018 –, Magni, Rv. 272144 ha affermato: «il delitto associativo configurato nella legislazione statunitense trova riscontro nel delitto di associazione per delinquere previsto da quella italiana, atteso che le due fattispecie di reato presentano elementi fondamentali comuni, con la sola differenza che la norma straniera è maggiormente restrittiva, richiedendo per la sua applicazione l’avvenuta consumazione dei reati fine».

Veniva in gioco la previsione dell’art. II par. 1 del Trattato Italia – USA del 1983 (“Un reato, comunque denominato, dà luogo ad estradizione solamente se è punibile secondo le leggi di entrambe le parti contraenti con una pena restrittiva della libertà per un periodo superiore ad un anno o con una pena più severa”), che la Corte ha interpretato secondo il canone enunciato da Sez. 6, n. 42777 del 24/09/2014, Francisci, Rv. 260432 (relativa a un soggetto ricercato per frode bancaria) e da Sez. 6, n. 297 del 20/01/1999, Sardinas, Rv. 214137 (soggetto ricercato per impresa criminale continua e detenzione di stupefacenti), secondo il quale il requisito della doppia incriminazione “non postula l’esatta corrispondenza della configurazione normativa e del trattamento della fattispecie, ma solo l’applicabilità della sanzione penale, in entrambi gli ordinamenti, ai fatti per cui si procede”.

Nello stesso senso si era espressa Sez. 6, n. 15927 del 28/03/2013, D’Angelantonio, Rv. 254818, con riferimento a una fattispecie nella quale la Corte di merito aveva ritenuto irrilevante la circostanza che talune condotte oggetto dei reati ipotizzati dallo Stato estero non integrassero uno specifico reato per l’ordinamento italiano ma solo segmenti della truffa perpetrata ai danni della J.P. Morgan Bank.

Nel caso trattato dalla decisione Magni, si trattava di due soggetti ricercati per due ipotesi di conspiracy, una finalizzata al riciclaggio di denaro (Titolo 18, sezione 1956 (h) del Codice USA), l’altra alla commercializzazione di sostanze stupefacenti (Titolo 21, sezione 846). Non era loro contestato alcuno specifico reato-fine.

Occorreva allora confrontarsi con il metodo di verifica indicato dalla decisione Sez. 6, n. 28825 del 17/05/2002, Buti, Rv. 222136.

Detta decisione – raccordando il dato testuale del citato par. 1 dell’art. II del Trattato con la previsione del paragrafo successivo, specificamente dedicata al rapporto tra conspiracy e associazione per delinquere (“Ogni forma di associazione per commettere reati di cui al paragrafo 1 del presente articolo, così come previsto dalle leggi Italiane, e la conspiracy per commettere un reato di cui al paragrafo 1 del presente articolo, così come previsto dalle leggi statunitensi, è altresì considerato reato che dà luogo all’estradizione”) – perviene ad affermare una regola di giudizio che distingue il caso nel quale l’addebito dello Stato estero riguardi sia la fattispecie associativa che i reati-fine, da quello nel quale, invece, esso riguarda la sola conspiracy.

Nella prima ipotesi, il giudice potrà esimersi dal confronto tra le fattispecie associative, italiana e statunitense, purché la condizione della previsione bilaterale del fatto sia soddisfatta per i reati che costituiscono il fine dell’associazione criminosa.

Laddove, invece, sia richiesta l’estradizione soltanto per il reato associativo, l’estradizione è possibile solo se i fatti per cui si procede presentino i caratteri fondamentali di entrambe le figure di reato, come previsti rispettivamente dal diritto italiano e da quello statunitense.

Tanto aveva fatto la Corte d’appello nel caso Magni, pervenendo alla conclusione che i fatti contestati agli estradandi dalle autorità statunitensi sarebbero stati punibili anche nel nostro sistema, ai sensi dell’art. 416-648-bis cod. pen. e 74 del d.P.R. n. 309 del 1990.

La conclusione si armonizza con quanto affermato da Sez. 1, n. 4407 del 14/09/1995, Ara-mini, Rv. 202384 e, più di recente, da Sez. 6, n. 40169 del 09/11/2010, Schuchter, Rv. 248930, per la quale:

“Ai fini della concedibilità dell’estradizione per l’estero, il delitto associativo configurato nella legislazione statunitense (“R.I.C.O. Act”) trova riscontro nel delitto di associazione per delinquere previsto da quella italiana, atteso che le due fattispecie di reato presentano elementi fondamentali comuni, con la sola differenza che la norma straniera è maggiormente restrittiva, richiedendo per la sua applicazione l’avvenuta consumazione dei reati fine”.

Un altro aspetto della verifica del principio di previsione bilaterale del fatto è stato affrontato, in un obiter, dalla decisione Magni e, con dirette implicazioni sulla fattispecie, da Sez. 6, n. 14941 del 26/02/2018, Yarrington, Rv. 272765.

Si tratta di stabilire se il principio impone che il fatto sia previsto come reato, dai due ordinamenti coinvolti, al momento della sua commissione.

La questione era rilevante, essendo state contestate all’estradando Yarrington, tra l’altro, due fattispecie associative finalizzate all’auto-riciclaggio, con riferimento a un’epoca anteriore a quella dell’introduzione nel nostro sistema del delitto di cui all’art. 648-ter.1 cod. proc. pen. (art. 3 della legge 15 dicembre 2014, n. 186, entrata in vigore il 1° gennaio 2015).

Sul punto, la decisione Yarrington ha affermato che, per la sussistenza del requisito della doppia incriminazione di cui all’art. 13 cod. pen., è necessario che l’ordinamento italiano contempli come reato, al momento della decisione sulla domanda, il fatto per il quale la consegna è richiesta, mentre non è necessaria la rilevanza penale del medesimo alla data della sua commissione.

In motivazione, la Corte ha evidenziato che né la previsione interna dell’art. 13, comma secondo, cod. pen., né quella dell’art. II del Trattato bilaterale Italia – USA contengono riferimenti al tempus commissi delicti.

Ha quindi richiamato il criterio direttivo indicato da Sez. 6, n. 21348 del 27/04/2016, Corniglia, Rv. 266932, che distingue la valutazione di doppia incriminabilità, a seconda che si tratti di dar corso ad una forma di collaborazione giudiziaria ovvero di far discendere autonomamente un effetto penale dal provvedimento straniero; solo in quest’ultimo caso sarà necessario ancorare la verifica al momento della commissione del reato (nella fattispecie veniva in rilievo il riconoscimento di una sentenza penale straniera, ex artt. 12 cod. pen. e 730 cod. proc. pen., ai fini dell’applicazione di una pena accessoria).

Alla radice di questo approccio sta tanto la giurisprudenza della Corte EDU (decisioni 6/06/1976, X c. Paesi Bassi; 6/03/1991, Polley c. Belgio; 18/01/1996, Bakthiar c. Svizzera), quanto da quella della Corte di Giustizia (sentenza Grande sezione, 3 maggio 2007, C-303/05), per le quali la collaborazione giudiziaria si pone al di fuori del perimetro del principio di legalità di cui all’art. 7 CEDU, in quanto l’arresto e la consegna, azioni nelle quali si traduce l’esecuzione di tali procedure, non hanno carattere punitivo, non dovendo il giudice incaricato di attuare la cooperazione addentrarsi nel merito del procedimento penale, né pronunciare “un qualsiasi giudizio di colpevolezza”.

In tema di mandato di arresto europeo, la posizione espressa dalla decisione Yarrignton e, incidentalmente, dalla decisione Magni è da tempo decisamente prevalente (Sez. 6, n. 42042 del 04/10/2016, Ferraretto, Rv. 268072; Sez. 6, n. 5749 del 09/02/2016, Caldaras, Rv. 266039; Sez. 640110 del 10/10/2012, Nicoi, Rv. 253351; Sez. 6, n. 22453 del 04/06/2008, Paraschiv, Rv. 240133: tutte relative a mandati di arresto emessi per reati di guida senza patente; diff. Sez. 6, n. 12724 del 19/03/2009, Cimpu, Rv. 243669).

5. La verifica della base indiziaria.

Sez. 6, n. 14941 del 26/02/2018, Yarrington, Rv. 272766 ha affrontato il tema con riferimento alla previsione dell’art. X, par. 3, lett. b) del Trattato Italia – USA, a termini del quale le richieste di estradizione processuale devono essere accompagnate “da una relazione sommaria dei fatti, delle prove pertinenti e delle conclusioni raggiunte che fornisca una base ragionevole per ritenere che la persona richiesta abbia commesso il reato per il quale viene domandata l’estradizione”.

La Sesta sezione ha affermato che “ai fini della verifica della base ragionevole per ritenere che l’estradando ha commesso il reato, prevista dall’art. X, par. 3, lett. b), del Trattato, l’autorità giudiziaria italiana non è tenuta a valutare autonomamente la consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ma deve soltanto verificare che la relazione sommaria dei fatti, allegata alla domanda di estradizione, sia in concreto idonea ad evocare le ragioni per le quali, nella prospettiva del sistema processuale dello Stato richiedente, appare probabile che l’estradando abbia commesso il reato oggetto dell’estradizione”.

La decisione si allinea alla già citata Sez. 6, n. 42777 del 24/09/2014, Francisci, Rv. 260431 e a Sez. 6, n. 5760 del 04/02/2011, Anokhin, Rv. 249455, nella quale veniva ritenuta irrilevante la segretazione dell’identità di alcuni testimoni, alle cui dichiarazioni faceva riferimento la relazione sommaria allegata alla domanda estradizionale sia perché “al giudice italiano non è richiesta una valutazione diretta delle prove, dovendo il suo compito limitarsi alla verifica della consistenza del quadro probatorio così come rappresentato dallo Stato richiedente”; sia perché la segretazione dell’identità dei testimoni nella fase delle indagini non costituisce violazione dei diritti del fair trial garantiti dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come comprovato dalla giurisprudenza della Corte EDU (ex plurimis, sent. 26/03/1996, Doorson c. paesi Bassi) e dalla norma interna dell’art. 146-bis disp. att. cod. proc. pen. in tema di identità fittizia del personale di polizia giudiziaria impiegato in operazioni sotto copertura.

Nella vicenda Yarrington, il principio della base ragionevole, quale standard valutativo diverso da quello della gravità indiziaria, richiesta dall’art. 705, comma primo, cod. proc. pen. con esclusivo riferimento alle estradizioni extra-convenzionali e a quelle regolate da convenzioni silenti sul punto, è stato enunciato per convalidare l’approccio della Corte territoriale.

Questa aveva scrutinato gli addebiti, attenendosi alla relazione sommaria dei fatti redatta dal Prosecutor e agli allegati affidavit degli agenti di polizia, recanti, secondo le previsioni del trattato, il dettaglio delle prove raccolte. Gli stessi materiali erano stati compulsati dalla Corte di legittimità, nell’esercizio del controllo di merito assegnatole dall’art. 706 cod. proc. pen., e da questa confermati nella loro valenza evocativa.

Non compete all’autorità giudiziaria italiana valutare autonomamente né la consistenza della piattaforma indiziaria secondo i parametri dell’ordinamento interno, né l’effettiva tenuta della ricostruzione, secondo le regole dello Stato richiedente, dice la Corte, rispondendo a un motivo con il quale il ricorrente si doleva di alcune lacune dell’indictment, del controllo sommario esercitato dal Grand Jury sulla prospettazione unilaterale del Prosecutor, della peculiare condizione di alcuni informatori chiave (che avevano stipulato, con il governo dello Stato richiedente, accordi di collaborazione compensati con misure premiali).

Quanto ai margini di valutazione delle prove di innocenza fornite dalla difesa dell’estradando (si contestava dai ricorrenti la mancata valorizzazione e l’omesso approfondimento, ex art. 704 cod. proc. pen., di una prova d’alibi e di altri elementi “atti a perturbare la coerenza del quadro probatorio”), la Corte ha ribadito il principio affermato da Sez. 6, n. 16287 del 19/04/2011, Xhatolli, Rv. 249648, secondo il quale “le eventuali prove di innocenza, non conosciute dall’autorità giudiziaria dello Stato richiedente e sottoposte per la prima volta alla cognizione del giudice italiano, sono rilevanti purché risultino manifeste ed incontrovertibili”.

Discende da quanto detto anche la preclusione per il giudice italiano di operazioni ricostruttive guidate dalla struttura della fattispecie di reato interna, ha osservato la Corte, rispondendo a una doglianza con la quale il ricorrente tentava di disarticolare, sulla base della struttura del reato associativo, qual è conosciuta nel nostro sistema, gli addebiti di conspiracy formulati dalle Autorità statunitensi nei confronti dell’estradando (par. 2.2.1 della motivazione).

6. Trattamento sanzionatorio e prescrizione della pena.

La sentenza Sez. 6, n. 14941 del 26/02/2018, Yarrington assume rilievo anche per l’affermazione di un principio attinente al rispetto della prescrizione dell’art. 705, comma secondo, lett. c) in tema di pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti e di atti che comunque configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona.

Veniva in rilievo, in particolare, la compatibilità della pena detentiva a vita, prevista dall’ordinamento statunitense per alcuni dei delitti contestati all’estradando.

La massima (Rv. 272767) recita: «In tema di estradizione richiesta dagli Stati Uniti d’America, secondo il regime disciplinato dal trattato bilaterale di estradizione del 13 ottobre 1983, la possibilità che venga comminata una pena detentiva a vita non costituisce circostanza ostativa all’emissione di una sentenza favorevole – stante la previsione nell’ordinamento statunitense di vari istituti che, in relazione alla condotta del detenuto raggiunto da una “sentenza a vita”, ne consentono la liberazione anticipata, sia pure sulla base di valutazioni discrezionali di varie autorità pubbliche – salvo che l’estradando non alleghi l’esistenza di un rischio reale di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti, contrari all’art. 3 CEDU».

Richiamando l’analisi comparativa svolta da Sez. 6, n. 5747 del 09/01/2014, Homm, Rv. 258802, la Corte ha evidenziato l’esistenza di diversi istituti dell’ordinamento statunitense che consentono, “sia pure sulla base di valutazioni discrezionali di varie autorità pubbliche”, la liberazione anticipata del condannato raggiunto da una sentenza a vita: la commutazione della pena (cd. grazia esecutiva), concessa dal Presidente degli Stati Uniti; la riduzione del termine di carcerazione, disposta dal giudice su proposta del Direttore del Bureau of Prisons sulla base di straordinari e convincenti motivi; la riduzione della pena in caso di condotta collaborativa; gli sconti di pena collegati al rispetto delle norme disciplinari dell’istituto di detenzione; la liberazione condizionale per l’ultimo 10 per cento del periodo detentivo.

La sentenza Homm si era già confrontata con la pertinente giurisprudenza della Corte EDU e, in particolare, con la decisione Vinter c. Regno Unito del 2013, pervenendo alla conclusione che i diversi istituti sopra indicati compongono un quadro decisamente diverso da quello dell’ordinamento britannico, che era stato censurato dalla Corte di Strasburgo per il fatto di prevedere, quale unica forma di riduzione in executivis della sentenza a vita, un provvedimento eccezionale del ministro, adottabile in caso di grave invalidità o di malattia incurabile in fase terminale del detenuto.

La sentenza Yarrington ha attualizzato la valutazione di compatibilità convenzionale del sistema statunitense, secondo il canone del “rischio concreto e non meramente ipotetico”, alla stregua del quale la stessa Corte EDU ha scrutinato, anche di recente, alcune estradizioni disposte dagli Stati Parte della Convenzione verso gli Stati Uniti d’America.

In dette decisioni (Lopez Elorza c. Spagna del 12/12/2017; Clovkis c. Lettonia del 24/07/2014; Findikoglu c. Germania del 07/06/2016) si aggiunge alla considerazione degli istituti sopra elencati, la valorizzazione delle U.S. Federal Sentencing Guidelines e di alcuni pre-trial factors, quali gli accordi di collaborazione con il governo che possono determinare una riduzione della pena.

In materia di pene temporanee, Sez. 6, n. 16507 del 20/03/2018, Napolitano, Rv. 272911 ha riguardato un’estradizione richiesta dal Governo della Repubblica di Romania (fatti commessi prima dell’entrata in vigore della disciplina del mandato di arresto europeo), per l’esecuzione della pena di anni dieci di reclusione, irrogata per i delitti di detenzione e messa in circolazione di monete contraffatte e induzione alla truffa.

Il motivo di ricorso attinente alla difformità dell’irrogato trattamento sanzionatorio rispetto ai parametri interni è stato respinto dalla Corte, sulla base del principio così massimato: «Ai fini della concedibilità dell’estradizione per l’estero, non assume rilievo l’eventuale difformità del trattamento sanzionatorio previsto nello Stato richiedente, potendo l’aspetto sanzionatorio rientrare tra le condizioni ostative all’estradizione solo nell’ipotesi in cui il trattamento sia del tutto irragionevole e manifestamente in contrasto con il principio di proporzionalità della pena».

La decisione è in linea con un consolidato assetto della giurisprudenza di legittimità, relativo sia alla difformità di durata delle pene irrogate dal giudice della cognizione rispetto alle cornici edittali interne (Sez. 6, n. 7183 del 02/02/2011, Ghita, Rv. 249225; Sez. 6, n. 38137 del 24/09/2008, Vasile, Rv. 241263; Sez. 6, n. 25413 del 01/02/2007, David, Rv. 236848, tutte concernenti estradizioni richieste dalla Repubblica di Romania); sia all’assenza, nel sistema dei Paesi richiedenti, di istituti assimilabili alla sospensione esecutiva delle pene detentive brevi di cui all’art. 656 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 4263 del 02/12/2008, Sascau, Rv. 242146).

Tanto in tema di ergastolo quanto in tema di pene temporanee difformi, la Corte ha altresì ribadito il principio per il quale le riserve inerenti la severità e rigidità del sistema punitivo dello Stato richiedente, quando non siano sussumibili nei motivi di rifiuto obbligatorio demandati alla verifica dell’autorità giudiziaria, possono rilevare ai fini della valutazione politica, rimessa al Ministro della giustizia ai sensi dell’art. 708 cod. proc. pen. (sul punto, ex plurimis, Sez. 6, n. 5747 del 09/01/2014, Homm, Rv. 258802).

Con riferimento al profilo concreto della compatibilità tra il trattamento penitenziario che potrebbe essere riservato all’estradando e i diritti umani – condizione ostativa che, come noto, gli artt. 698, comma primo e 705, comma secondo, cod. proc. pen. consegnano alla doppia valutazione dell’autorità giudiziaria e di quella politica – la decisione Yarrington (non massimata sul punto) ha riaffermato l’obbligo della Corte d’appello di «valutare se sussiste un generale rischio di trattamento disumano o degradante nel Paese richiedente, utilizzando, a tal fine, elementi oggettivi, attendibili, precisi ed opportunamente aggiornati in merito alle condizioni di detenzione vigenti nello Stato richiedente e, verificata la sussistenza di tale rischio, deve svolgere un’indagine mirata, anche attraverso la richiesta di informazioni complementari, al fine di accertare se, nel caso concreto, l’interessato alla consegna sarà sottoposto, o meno, ad un trattamento inumano o degradante» (Sez. 6, n. 28822 del 28/06/2016, Diuligher, Rv. 268109).

In base a tale principio, la Corte ha annullato con rinvio la decisione favorevole assunta dalla Corte d’appello sulla domanda estradizionale presentata dal governo messicano (concorrente con quella presentata dal governo USA), avendo questa sostanzialmente eluso la valutazione della documentazione difensiva prodotta a sostegno della cronica, costante e sistematica violazione dei diritti umani nelle carceri di quel Paese.

A tale riguardo, la Corte ha ribadito la necessità di prendere in considerazione non soltanto la documentazione istituzionale, ma anche i rapporti elaborati da organizzazioni non governative (quali, ad es., Amnesty International e Human Rights Watch), la cui affidabilità sia generalmente riconosciuta sul piano internazionale (Sez. 6, n. 54467 del 15/11/2016, Resneli, Rv. 268933; Sez. 6, n. 32685 del 08/07/2010, P.G., Rv. 248002).

In tema di verifica dell’intervenuta prescrizione della pena irrogata con la sentenza di condanna straniera, alla cui esecuzione sia finalizzata la domanda di estradizione, Sez. 6, n. 17999 del 29/03/2018, Reut, Rv. 272892 ha confermato che il termine finale per il calcolo della prescrizione della pena è rappresentato dalla data di presentazione della richiesta di estradizione e non da quella di emissione della sentenza con cui la corte di appello dichiara sussistenti le condizioni per il relativo accoglimento.

Nello stesso senso si era espressa Sez. 6, n. 44604 del 15/09/2015, P.G. in proc. Wozniak, Rv. 265454, sulla base della considerazione che “è con la formale presentazione della domanda di estradizione che lo Stato richiedente fa valere la pretesa alla consegna del soggetto e dimostra il suo concreto interesse all’esecuzione della pena oggetto della sentenza di condanna, costituente titolo per l’attivazione della procedura estradizionale”.

7. Il controllo della Corte di cassazione ex art. 706 cod. proc. pen. 

Con riferimento al compito della Corte di cassazione in tema di verifica della compatibilità della procedura estradizionale con i diritti umani (ma anche di altri presupposti e condizioni ostative), merita di essere segnalata Sez. 6, n. 25264 del 17/05/2018, Scutaru, Rv. 273418 la quale ha delimitato la portata della disposizione dell’art. 706 cod. proc. pen., che attribuisce alla Corte un controllo eccezionalmente esteso al merito della controversia.

La Corte ha affermato che detta estensione non può giungere al punto di onerarla di attività istruttoria, restando fermo il principio che deve essere effettuato solo l’esame cartolare “limitato, peraltro, alle informazioni allo stato acquisite”.

La decisione consolida la linea interpretativa affermata da Sez. 2, n. 37023 del 29/09/2011, Colombo, Rv. 251141, in tema di verifica del termine di prescrizione del reato previsto dallo Stato richiedente; da Sez. 6, n. 44785 del 24/09/2003, Ndreca, Rv. 227048, in tema di identificazione dell’estradando; da Sez. 6, n. 2690 del 13/07/1999, Mbanaso, Rv. 215209, in tema di verifica della pendenza in Italia di un procedimento per gli stessi fatti.

In senso contrario si erano espresse, per il passato, Sez. 6, n. 4511 del 01/12/1995, Koklowsky, Rv. 203819 e Sez. 6, n. 3597 del 12/10/1995, Venezia, Rv. 202665, valorizzando la previsione del secondo comma dell’art. 706 cod. proc. pen. che estende al giudizio di cassazione celebrato in questa materia le previsioni dell’art. 704 cod. proc. pen. in tema di giudizio d’appello, tra le quali doveva intendersi inclusa quella relativa all’espletabilità degli accertamenti integrativi, ritenuti necessari per la decisione.

8. Misure cautelari a fini estradizionali.

L’ordinanza Sez. 6, n. 17773 del 13/04/2018, Oprea, Rv. 272923 è intervenuta sul tema della competenza della Corte di cassazione a provvedere in ordine alla richiesta di revoca o di sostituzione delle misure cautelari, ai sensi dell’art. 718, comma primo, cod. proc. pen., per affermare che detta competenza sussiste “solo nel caso in cui gli atti del procedimento si trovino presso la Corte per il giudizio concernente l’esistenza delle condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione”.

In applicazione di tale principio, la Corte ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte di appello, essendo stata l’istanza presentata dopo l’esaurimento della fase giudiziaria e amministrativa del procedimento estradizionale, quando cioè la Corte di cassazione non era più investita del giudizio.

La Sesta sezione ha motivato la propria posizione restrittiva, evocando il carattere eccezionale della disposizione che conferisce alla Corte di cassazione il compito di decidere in prima battuta sulle istanze de libertate.

Ha quindi svolto due considerazioni.

Il principio costituzionale dettato dall’art. 111, settimo comma, Cost. in tema di ricorribilità per cassazione dei provvedimenti sulla libertà personale, esprime l’esigenza di esercitare un controllo sulla decisione de libertate, controllo che non sarebbe espletabile sulle decisioni assunte in prima battuta dalla stessa Corte di legittimità, posto che, in materia di cautela estradizionale sono pacificamente esclusi i rimedi del riesame e dell’appello de libertate ed è invece ammesso, dall’art. 719 cod. proc. pen., soltanto il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti adottati dalla Corte d’appello o dal Presidente della Corte d’appello.

La decisione sulla revoca o sostituzione della misura cautelare può implicare la necessità di accertamenti, anche d’ufficio, da parte del giudice in tema di “condizioni di salute” o “altre condizioni o qualità personali” (art. 299, comma 4-ter, cod. proc. pen.). Detta possibilità mal si concilia con il principio di diritto (evidenziato nel capitolo precedente) che preclude alla Corte l’espletamento di attività istruttorie.

Con riferimento alle misure cautelari reali, Sez. 6, n. 48284 dell’11/09/2018, I. ha affrontato una questione a cavallo tra la disciplina dell’estradizione e quella rogatoriale.

Nel contesto di un procedimento di estradizione processuale verso il Regno Unito, si era disposto il sequestro di alcuni beni appartenenti all’estradando, in base a rogatorie presentate dallo Stato richiedente, collaterali alla domanda estradizionale.

Il decreto ministeriale di estradizione, mai eseguito per l’irreperibilità del ricercato, era stato poi revocato su richiesta delle Autorità britanniche che avevano comunicato al Ministero della giustizia italiano l’intervenuta assoluzione dell’imputato all’esito del giudizio, facendo conseguire anche il ritiro delle collegate commissioni rogatorie.

Il Ministro della giustizia italiano aveva allora richiesto alla Corte d’appello competente, ai sensi dell’art. 718, cod. proc. pen., la revoca di “ogni misura cautelare eventualmente ancora in essere a scopo di estradizione”.

La Corte d’appello aveva revocato la misura cautelare personale adottata a fini estradizionali e il decreto di latitanza, disponendo contestualmente la restituzione dei beni caduti in sequestro, limitatamente a quelli non ancora effettivamente consegnati alle autorità estera.

La Corte di cassazione ha annullato la decisione della corte territoriale “relativamente alla parte in cui limita la restituzione ai beni non ancora consegnati”, sulla base di due referenti normativi:

- la violazione del dettato dell’art. 718, comma secondo, cod. proc. pen., per il quale la revoca delle misure cautelari, siano esse di natura personale o reale, è sempre disposta, quando sia il Ministro della Giustizia a farne richiesta;

- la violazione dell’art. 6, par. 2, della Convenzione europea di assistenza giudiziaria, fatta a Strasburgo il 20 aprile 1959, applicabile ai beni sequestrati in esecuzione della rogatoria, che impone allo Stato parte che richiede l’assistenza giudiziaria di restituire “il più presto possibile” allo Stato richiesto gli oggetti che gli siano stati consegnati in esecuzione della rogatoria, salvo che quest’ultimo vi rinunci.

Nella condizione data, il ritiro della rogatoria ha determinato il venir meno delle ragioni giustificative dell’apprensione dei beni, ragioni che fanno capo allo Stato richiedente, al quale soltanto appartiene la competenza a decidere sia sulla necessità del sequestro richiesto ed eseguito all’estero, sia sul suo mantenimento ai fini del procedimento penale.

A tale riguardo, la Sesta sezione ha richiamato Sez. 1, n. 5938 del 23/10/1997 (dep. 1998), Confl. in proc. Russo, Rv. 209890 che, esprimendosi su un caso a parti invertite (domanda di assistenza presentata dalle autorità italiane), spiegava che soltanto “lo Stato richiedente ha la possibilità di stabilire, in base al reato per cui procede e agli altri elementi in suo possesso, se il sequestro eseguito dall’autorità giudiziaria straniera, sia utile, o non, per il procedimento e si inquadri in uno dei casi in cui, secondo la propria legislazione interna, è consentito il sequestro di quella determinata cosa”.

  • estradizione

PARTE II

ESTRADIZIONE DALL’ESTERO

Sommario

1 Estradizione e violazione della condizione posta dallo Stato estradante e accettata dal Ministro. - 2 Specialità estradizionale in executivis. - 3 Arresto estradizionale all’estero e legittimo impedimento a comparire. - Indice delle sentenze citate

1. Estradizione e violazione della condizione posta dallo Stato estradante e accettata dal Ministro.

La sentenza Sez. 1, n. 1776 del 30/11/2017 – dep. 2018 –, Burzotta, Rv. 272053 è intervenuta sulle conseguenze della violazione, da parte del giudice della cognizione, della condizione apposta dallo Stato estero estradante con riferimento alla pena massima irrogabile, condizione accettata dal Ministro della giustizia nell’esercizio dei poteri di cui all’art. 720, comma quarto, cod. proc. pen. 

Veniva in rilievo una condizione particolarmente frequente nei rapporti di cooperazione giudiziaria con la Spagna e con la maggior parte dei Paesi latino-americani che – ripudiando l’ergastolo (cadena perpetua) quale trattamento contrario ai diritti umani e alla finalità rieducativa della pena (v. art. 15 Costituzione spagnola) – subordinano, di norma, la consegna all’assicurazione delle autorità dello Stato richiedente di non irrogare la pena perpetua (nel caso di estradizione processuale) o di commutarla in pena temporanea (nel caso di estradizione esecutiva).

Nel caso in esame, il ricorrente, già estradato dalla Spagna per alcuni fatti di reato, era stato poi giudicato anche per un delitto di omicidio plurimo aggravato commesso in epoca anteriore rispetto alla consegna, previa concessione da parte dello Stato di rifugio dell’estradizione suppletiva prevista dall’art. 721 cod. proc. pen.

Il giudice della cognizione aveva condannato l’estradato all’ergastolo con sentenza divenuta irrevocabile.

Il ricorrente aveva allora proposto incidente di esecuzione, chiedendo la commutazione dell’ergastolo in pena detentiva temporanea, da determinarsi entro la cornice edittale compresa tra i 21 e i 25 anni, assumendo che in tal senso – come di consueto – era stata condizionata l’estradizione suppletiva concessa dal governo spagnolo.

Il giudice dell’esecuzione aveva disatteso la prospettazione sul duplice rilievo che: a) l’istante non aveva documentato l’apposizione di limitazioni all’estradizione suppletiva; b) la questione doveva essere ricondotta al tema del principio di specialità estradizionale (specialità “condizionata”) che, afferendo, secondo un consolidato insegnamento giurisprudenziale, alla procedibilità dell’azione penale, non può essere fatto valere dopo la formazione del giudicato.

La Corte ha anzitutto evidenziato l’errore di prospettiva commesso dal giudice territoriale. Essendo pacifica l’intervenuta concessione dell’estradizione suppletiva, non viene in gioco il principio di specialità. Si tratta piuttosto di stabilire le conseguenze della violazione della condizione asseritamente apposta dallo Stato estradante e accettata dal Ministro.

Sul punto, Sez. 1, n. 26202 del 17/06/2009, Licciardi, Rv. 244186 aveva affermato che non può ottenersi, in sede di incidente di esecuzione, la commutazione della pena dell’ergastolo, sul presupposto della violazione della condizione apposta, in sede di estradizione dall’estero, del divieto di condanna a pena perpetua. La decisione era fondata sul recepimento della nozione tradizionale di giudicato e sui limiti del controllo demandato al giudice dell’esecuzione, che non avrebbe potuto spingersi oltre il riscontro dell’esistenza e validità del titolo esecutivo.

L’orientamento era stato disatteso da Sez. 1, n. 24066 del 11/06/2009, Noschese, Rv. 24009 (che aveva ammesso, in identico caso di estradizione “condizionata” dal governo spagnolo, la commutazione della pena in sede di incidente di esecuzione) e da Sez. 1, n. 6278 del 16/07/2014 – dep. 2015 –, Esposito, Rv. 262646. La motivazione di quest’ultima decisione era incentrata: sul principio costituzionale che prescrive la conformità del nostro ordinamento alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, ivi inclusa quella che impone di rispettare i patti e gli accordi con altri Stati; sul generale riconoscimento, da parte della giurisprudenza della Corte di legittimità, della possibilità di correggere in sede esecutiva la pena illegale, quale deve intendersi la pena che, in base all’ordinamento giuridico, non poteva essere irrogata; sulla tendenza, affermatasi in particolare a seguito della decisione Corte EDU nel caso Scoppola c. Italia del 17/09/2009, a utilizzare lo strumento dell’incidente di esecuzione per effettuare correzioni dell’entità della pena inflitta nel processo di cognizione.

La decisione Burzotta si è uniformata a quest’ultima linea giurisprudenziale:

«La concessione dell’estradizione sul presupposto dell’irrogabilità di una pena detentiva temporanea per reati astrattamente punibili con l’ergastolo da uno Stato che non ammette la detenzione perpetua comporta che la pena detentiva eseguibile non può superare la durata indicata nella richiesta di estradizione; ne consegue che la successiva irrogazione dell’ergastolo da parte del giudice della cognizione costituisce applicazione di pena illegale, la quale deve essere corretta attraverso il rimedio dell’incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen.».

La Corte ha seguito lo schema logico della decisione Esposito, affinandone e aggiornandone l’apparato argomentativo, con particolare riguardo: alla nozione di pena illegale e violazione dell’art. 117 Cost.; alla crisi del dogma dell’intangibilità giudicato; alla latitudine dei poteri del giudice dell’esecuzione.

Sul primo tema, la Corte ha affermato che la connotazione di illegalità della pena irrogata nel caso di specie, deriva dal fatto che “la disposizione dell’art. 720, comma quarto, cod. proc. pen. concorre, insieme alla norma incriminatrice interna, a delimitare, nella specie, la cornice edittale astratta del reato, che risulterà dalla combinazione della previsione di pena originariamente stabilita con gli adattamenti e le limitazioni che formano oggetto della condizione internazionalmente vincolante”. Detta condizione, dovendo rispettare i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico interno (in particolare, l’art. 25, secondo comma Cost.), “non potrà importare aggravamenti del trattamento sanzionatorio; mentre ne sarà possibile la mitigazione, se accettata dall’Italia, al fine di assicurare comunque la “giustiziabilità” interna della vicenda e nel quadro della reciproca cooperazione tra Stati in materia estradizionale”. L’inosservanza della condizione – ha aggiunto – “costituisce inadempimento degli obblighi internazionali convenzionali, la cui tutela poggia direttamente (non diversamente da quanto accade per gli obblighi derivanti dalla CEDU) sull’art. 117, primo comma, Cost.”.

L’abbandono del dogma dell’intangibilità del giudicato è stato argomentato con ampi riferimenti agli interventi delle Sezioni unite in materia: di retroattività della lex mitior e violazione del sistema convenzionale EDU (Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013 – dep. 2014 –, Esposito, Rv. 258651); di conseguenze della sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente però sulla determinazione del trattamento sanzionatorio (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697, con riferimento al divieto di prevalenza di un’attenuante speciale prevista dal

T.U. stup. sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.); di rideterminazione della pena applicata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.), a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione che fissava la cornice edittale e della reviviscenza della previgente cornice edittale più favorevole (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205, conseguente alla sentenza Corte cost., n. 32 del 2014, in materia di stupefacenti).

Per quanto attiene alla latitudine dei poteri del giudice dell’esecuzione, la decisone Burzotti, ben consapevole delle implicazioni che questo tema assume nel caso di specie (una volta rimossa la pena perpetua contrastante con la condizione estradizionale, il giudice dell’esecuzione sarebbe investito della commisurazione di quella temporanea secondo gli indici previsti dall’art. 133 cod. pen.), ha richiamato la sentenza Corte cost., n. 210 del 2013.

Detta sentenza ha sottolineato come il giudice dell’esecuzione – essendo abilitato a conoscere di questioni ulteriori rispetto a quelle inerenti la validità e l’efficacia del titolo esecutivo e ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma terzo, 671, 672 e 673 cod. proc. pen.) – è anche dotato di incisivi strumenti di intervento, più complessi di quelli richiesti da una commutazione della pena “a rime obbligate”.

In linea con questa decisione si pongono numerose decisioni delle Sezioni unite e delle sezioni semplici della giurisprudenza di legittimità.

Tra le molte richiamate nella sentenza, si riprendono qui, exempli causa, la già citata Sez. U, Gatto, nella parte in cui ammette la rideterminazione del trattamento sanzionatorio da parte del giudice dell’esecuzione, anche quando il provvedimento correttivo non ha contenuto predeterminato, potendo questi avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione; la decisione Sez. U, Jazouli che, in caso di mancato accordo sulla pena patteggiata da rideterminare o di pena concordata ritenuta incongrua, riconosce al giudice dell’esecuzione il potere di provvedere autonomamente ai sensi degli artt. 132 e 133 cod. pen.; la sentenza Sez. 1, n. 18546 del 13/07/2016 – dep. 2017 –, Mansi, Rv. 269817 che, a seguito della dichiarata incostituzionalità dell’aumento obbligatorio di pena per la recidiva reiterata, chiama il giudice dell’esecuzione a verificare se l’applicazione della recidiva fu sorretta, indipendentemente dalla previgente obbligatorietà, dal concorrente apprezzamento di merito della valutazione dei precedenti penali.

Da quanto detto la Corte ha desunto che, anche al caso di illegalità della pena derivante dalla violazione della condizione apposta all’atto dell’estradizione, il giudice dell’esecuzione deve porre rimedio “riconducendo la pena nei limiti consentiti ed esercitando a tal fine i necessari poteri di accertamento e valutazione”.

Così ricostruito il dovere di intervento del giudice dell’esecuzione e il suo ambito operativo, la Corte si è confrontata con il rigetto opposto, nel caso di specie, all’istanza di acquisizione del foglio di informazione complementare recante, secondo il difensore, l’accettazione della condizione in thesi apposta dalle autorità spagnole.

La Corte ha ritenuto detto rigetto contrastante con il consolidato orientamento che, in tema di incidente di esecuzione, assegna all’istante non un onere probatorio, ma un mero onere di allegazione, consistente nel dovere di prospettare e indicare al giudice i fatti sui quali la sua richiesta si basa, incombendo poi sull’autorità giudiziaria il compito di procedere ai relativi accertamenti (Sez. 3, n. 31031 del 20/05/2016, Giordano, Rv. 267413; Sez. 1, n. 34987 del 22/09/2010, Di Sabatino, Rv. 248276; Sez. 1, n. 46649 del 11/11/2009, Nazar, Rv. 245512).

2. Specialità estradizionale in executivis.

A pochi mesi dall’entrata in vigore della riforma del Libro XI del codice di rito (d.lgs. 3 ottobre 2017, n. 149) che ha, tra l’altro, riconfigurato le ricadute processuali del principio di specialità estradizionale, mediante la riformulazione dell’art. 721 e l’introduzione dell’art. 721-bis cod. proc. pen., Sez. 5, n. 47536 del 12/07/2018, B. è intervenuta sul rapporto tra il principio di specialità e quello affermato dall’art. 657 cod. proc. pen. in tema di fungibilità della detenzione, tema che non è invero investito dall’intervento legislativo di riforma.

Si controverteva di un provvedimento di determinazione di pene concorrenti nel quale la Procura competente aveva inserito, oltre alla condanna per un omicidio che aveva dato luogo all’estradizione dalla Spagna, alcune condanne riportate per reati commessi in epoca anteriore alla consegna e diversi da quelli posti a fondamento dell’estradizione.

Nel caso di specie, però, di dette ultime condanne si era tenuto conto non al fine di darvi esecuzione, ciò che sarebbe stato certamente precluso, in assenza di un apposito provvedimento di estradizione suppletiva, data la pacifica estensione alla fase esecutiva della portata del principio (ex plurimis: con specifico riferimento all’estradizione, Sez. 1, n. 44858 del 05/11/2008, Mazzelli, Rv. 241976; con riferimento alla disciplina del mandato di arresto europeo, Sez. 1, n. 4457 del 17/01/2017, Wahid, Rv. 269189; Sez. 1, n. 53695 del 16/11/2016, Morejon Rodriguez, Rv. 268663).

Le condanne relative ai fatti anteriori e non coperti dal provvedimento estradizionale erano state, infatti, interamente espiate dal ricorrente in custodia cautelare. Sicché, di esse il provvedimento di cumulo aveva tenuto conto al solo fine di detrarre i periodi di carcerazione patiti (“quali crediti di pena maturati dal condannato in applicazione del principio di fungibilità”) dall’unica pena eseguibile, che restava quella irrogata per l’omicidio.

La Corte ha rigettato il ricorso, confermando la legittimità della decisione del giudice dell’esecuzione che aveva disatteso le istanze proposte dal condannato avverso il descritto provvedimento di cumulo.

3. Arresto estradizionale all’estero e legittimo impedimento a comparire.

In materia di ricadute della detenzione a fini estradizionali all’estero sul diritto dell’imputato di partecipare al processo, è intervenuta Sez. 1, n. 50021 del 12/12/2017 – dep. 2018 –, C., Rv. 273988.

Un ormai consolidato assetto giurisprudenziale configura la detenzione dell’imputato all’estero, comunque motivata e purché risultante dagli atti, come legittimo impedimento a comparire rilevante ex art. 420-ter c.p.p., tale da impedire la regolare costituzione del rapporto processuale e da imporre la sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 420-quater c.p.p.

Il principio è stato affermato anche nel caso in cui la detenzione all’estero è collegata alla pendenza di una procedura estradizionale verso l’Italia, senza che in tale ipotesi assuma rilievo il fatto che l’imputato abbia negato il proprio consenso all’estradizione, così precludendo le forme semplificate di estradizione previste da taluni strumenti convenzionali. Detto diniego, si è detto, rappresenta l’estrinsecazione di un diritto, dal quale non può derivare all’imputato alcun pregiudizio (così Sez. U, n. 21035 del 26/03/2003, Caridi, Rv. 224133-224134).

La decisione del 2018 affronta il tema della valutazione, in termini probatori, di tale fatto impediente, in un contesto nel quale la Procura generale presso la Corte d’appello aveva ricevuto tempestiva comunicazione dal competente servizio del Ministero dell’Interno dell’avvenuto arresto estradizionale dell’imputato e non aveva trasmesso detta informazione alla Corte d’appello procedente, che aveva quindi proseguito il giudizio sul presupposto che l’imputato fosse ancora latitante.

La Corte ha ribadito la necessità, sancita dall’art. 420-ter cod. proc. pen., che dell’evento impeditivo in parola, in quanto fatto esterno al processo, il giudice sia messo in condizione di apprezzare la sussistenza, escludendo un generalizzato e automatico onere del giudice di verificare, motu proprio, le cause dell’assenza dell’imputato e l’eventuale cessazione dello stato di latitanza (Sez. 4, n. 36780 del 30/06/2004, Rv. 229760; Sez. 2, n. 24535 del 29/05/2009, Volpe, Rv. 244252; Sez. 1, n. 15410 del 25/03/2010, Arizzi, Rv. 246751).

Su questa linea si colloca anche Sez. U, n. 18822 del 27/03/2014, Avram, Rv. 258793 che, affrontando la questione delle ripercussioni dell’arresto dell’imputato all’estero sulla regolarità delle notifiche eseguite nelle forme previste dall’art. 165 cod. proc. pen., ha affermato: «La cessazione dello stato di latitanza, a seguito di arresto avvenuto all’estero in relazione ad altro procedimento penale, non implica la illegittimità delle successive notificazioni, eseguite nelle forme previste per l’imputato latitante, fino a quando il giudice procedente non abbia avuto notizia dell’arresto».

La Prima sezione ha sviluppato questa linea di ragionamento, individuando i due possibili canali di conoscenza giudiziale del fatto processuale in questione.

Il primo, come indicato dalla decisione Avram, è costituito dalla polizia giudiziaria incaricata delle ricerche del latitante alla quale compete di procedere alla costante verifica di tutte le informazioni, desumibili, tra l’altro, dai sistemi informativi nazionali ed internazionali e di comunicare prontamente alla autorità giudiziaria procedente l’eventuale arresto della persona ricercata.

Il secondo canale è lo stesso imputato, soggetto “direttamente interessato dalla specifica azione di cattura e dalla cessazione della condizione di latitanza”, che può far valere l’impedimento anche nel corso dell’udienza, non essendo configurabile a suo carico, diversamente da quanto accade per il difensore, alcun onere di tempestiva comunicazione (Sez. U, n. 37483 del 26/09/2006, Arena, Rv. 234600).

Incombe sull’imputato “una regola di lealtà immanente al sistema processuale”, che gli impone di non omettere deliberatamente la comunicazione dell’intervenuto arresto al fine di precostituire un elemento invalidante cui sarebbe egli stesso a dar causa. Tale comportamento non costituirebbe legittimo esercizio, ma una forma di abuso, del diritto di presenziare al processo.

Nel caso in esame, non erano stati allegati elementi indicativi dell’impossibilità per l’imputato di comunicare con l’autorità giudiziaria procedente italiana o con il suo difensore. Risultava anzi che, immediatamente dopo l’arresto, egli era stato collocato in regime di arresti domiciliari. L’imputato doveva ritenersi dunque corresponsabile del difetto di cognizione giudiziale della sua condizione.

Il principio affermato dalla Corte è allora il seguente: «Lo stato di detenzione all’estero dell’imputato latitante (nella specie, nell’ambito di una procedura di estradizione) non integra un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire, ai sensi dell’art. 420-ter cod. proc. pen., se non è portata a conoscenza del giudice dalla polizia giudiziaria o dall’imputato anche attraverso il suo difensore».

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di cassazione

Sez. 1, n. 4407 del 14/09/1995, Aramini, Rv. 202384 Sez. 6, n. 3597 del 12/10/1995, Venezia, Rv. 202665 Sez. 6, n. 4511 del 01/12/1995, Koklowsky, Rv. 203819 Sez. 1, n. 5938 del 23/10/1997 – dep. 1998 –, Confl. in proc. Russo, Rv. 209890 Sez. 6, n. 2690 del 13/07/1999, Mbanaso, Rv. 215209 Sez. 6, n. 28825 del 17/05/2002, Buti, Rv. 222136 Sez. 6, n. 21351 del 17/05/2002, Stankovic, Rv. 222030 Sez. U., n. 21035 del 26/03/2003, Caridi, Rv. 224133-134 Sez. 6, n. 28299 del 09/06/2003, Kurkani, Rv. 225968 Sez. 6, n. 44785 del 24/09/2003, Ndreca, Rv. 227048 Sez. 4, n. 36780 del 30/06/2004, Arcuri e altro, Rv. 229760 Sez. U, n. 37483 del 26/09/2006, Arena, Rv. 234600 Sez. 6, n. 25413 del 01/02/2007, David, Rv. 236848 Sez. 6, n. 22453 del 04/06/2008, Paraschiv, Rv. 240133 Sez. 6, n. 38137 del 24/09/2008, Vasile, Rv. 241263 Sez. 1, n. 44858 del 05/11/2008, Mazzelli, Rv. 241976 Sez. 6, n. 4263 del 02/12/2008, Sascau, Rv. 242146 Sez. 6, n. 12724 del 19/03/2009, Cimpu, Rv. 243669 Sez. 2, n. 24535 del 29/05/2009, Volpe, Rv. 244252 Sez. 1, n. 24066 del 11/06/2009, Noschese, Rv. 24009 Sez. 1, n. 26202 del 17/06/2009, Licciardi, Rv. 244186 Sez. 1, n. 46649 del 11/11/2009, Nazar, Rv. 245512 Sez. 1, n. 15410 del 25/03/2010, Arizzi, Rv. 246751 Sez. 6, n. 32685 del 08/07/2010, P.G., Rv. 248002 Sez. 1, n. 34987 del 22/09/2010, Di Sabatino, Rv. 248276 Sez. 6, n. 40169 del 09/11/2010, Schuchter, Rv. 248930 Sez. 6, n. 7183 del 02/02/2011, Ghita, Rv. 249225 Sez. 6, n. 5760 del 04/02/2011, Anokhin, Rv. 249455 Sez. 6, n. 16287 del 19/04/2011, Xhatolli, Rv. 249648 Sez. 2, n. 37023 del 29/09/2011, Colombo, Rv. 251141 Sez. 6, n. 40110 del 10/10/2012, Nicoi, Rv. 253351 Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013 – dep. 2014 –, Esposito, Rv. 258651 Sez. 6, n. 5747 del 09/01/2014, Homm, Rv. 258802 Sez. U, n. 18822 del 27/03/2014, Avram, Rv. 258793 Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260697 Sez. 1, n. 6278 del 16/07/2014 – dep. 2015 –, Esposito, Rv. 262646 Sez. 6, n. 42777 del 24/09/2014, Francisci, Rv. 260431 Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205 Sez. 6, n. 44604 del 15/09/2015, P.G. in proc. Wozniak, Rv. 265454 Sez. 6, n. 5749 del 09/02/2016, Caldaras, Rv. 266039 Sez. 6, n. 21348 del 27/04/2016, Corniglia, Rv. 266932 Sez. 3, n. 31031 del 20/05/2016, Giordano, Rv. 267413 Sez. 6, n. 28822 del 28/06/2016, Diuligher, Rv. 268109 Sez. 1, n. 18546 del 13/07/2016 – dep. 2017 –, Mansi, Rv. 269817 Sez. 6, n. 42042 del 04/10/2016, Ferraretto, Rv. 268072 Sez. 6, n. 54467 del 15/11/2016, Resneli, Rv. 268933 Sez. 1, n. 53695 del 16/11/2016, Morejon Rodriguez, Rv. 268663 Sez. 1, n. 4457 del 17/01/2017, Wahid, Rv. 269189 Sez. 1, n. 1776 del 30/11/2017 – dep. 2018 –, Burzotta, Rv. 272053 Sez. 1, n. 50021 del 12/12/2017 – dep. 2018 –, C., Rv. 273988 Sez. 6, n. 14941 del 26/02/2018, Yarrington, Rv. 272765-766 Sez. 6, n. 16507 del 20/03/2018, Napolitano, Rv. 272911 Sez. 6, n. 17999 del 29/03/2018, Reut, Rv. 272892 Sez. 6, n. 17773 del 13/04/2018, Oprea, Rv. 272923 Sez. 6, n. 25264 del 17/05/2018, Scutaru, Rv. 273418 Sez. 5, n. 47536 del 12/07/2018, B. Sez. 6, n. 48284 dell’11/09/2018, I.

Sentenze della Corte costituzionale

Corte cost., sent. n. 58 del 1997 Corte cost., sent. n. 227 del 2010 Corte cost., sent. n. 32 del 2014 Corte cost., sent. n. 210 del 2013

  • procedura penale
  • azione dinanzi a giurisdizione penale

CAPITOLO II

ROGATORIE

(di Raffaele Piccirillo )

Sommario

1 Premessa. La trasmissione spontanea di informazioni nella giurisprudenza della Corte e nei recenti interventi del legislatore nazionale e dell’Unione europea. - 2 Condizioni di utilizzabilità nel procedimento interno degli atti spontaneamente trasmessi dall’autorità estera. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa. La trasmissione spontanea di informazioni nella giurisprudenza della Corte e nei recenti interventi del legislatore nazionale e dell’Unione europea.

Le questioni affrontate dalla Corte nel 2018 in materia di assistenza internazionale investigativa e probatoria attengono essenzialmente all’utilizzabilità nei giudizi interni degli atti, di diversa natura, assunti all’estero dalle autorità di polizia e giudiziarie di altri Paesi e da queste spontaneamente trasmessi alle autorità italiane, saltando il percorso rogatoriale.

In tale contesto, la Corte ha confermato una linea ispirata alla conservazione del valore probatorio di tali atti, ribadendo alcuni principi (per esempio, in tema di sottrazione della cooperazione spontanea alle regole di utilizzabilità sancite dall’art. 729, cod. proc. pen. per gli atti stricto sensu rogatoriali; di presunzione di legittimità delle attività svolte dalle autorità giudiziarie e di polizia estere; di riserva al giudice straniero delle verifiche di regolarità delle procedure acquisitive) che sottendono la consapevolezza del carattere fisiologico, e perfino desiderabile, della spontanea collaborazione istituzionale tra le amministrazioni dei diversi Paesi, alla quale si frappone il solo limite del rispetto delle norme inderogabili e dei diritti fondamentali dell’ordinamento interno.

Sembrano dunque consolidate le basi che garantiscono lo sfruttamento ottimale delle potenzialità dello scambio spontaneo di informazioni, della cui fondamentale importanza costituiscono testimonianza le previsioni contenute in numerose fonti internazionali e alcuni recenti interventi del legislatore italiano, a partire dalla nuova disposizione dell’art. 729-bis cod. proc. pen., in tema di acquisizione di atti e informazioni da autorità straniere, inserita nel Libro XI del codice di rito dal d.lgs. 3 ottobre 2017, n. 149, entrato in vigore il 31 ottobre 2017.

La disposizione, finalizzata a disciplinare l’utilizzazione di questi atti nei rapporti di cooperazione giudiziaria con Paesi estranei all’ambito UE, evidenzia plasticamente la distinzione del regime di utilizzazione nel processo degli atti spontaneamente trasmessi rispetto a quelli acquisiti attraverso il canale rogatoriale e reca un contenuto coerente con gli arresti della Corte fondati sul quadro normativo preesistente, solo che si pensi al valore vincolante che il comma secondo attribuisce alle condizioni di utilizzabilità dell’atto eventualmente apposte dallo Stato che lo trasmette.

In ambito UE, è rilevante la disposizione dell’art. 7 della Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 29 maggio 2000 (MAP), ratificata dall’Italia con il d.lgs. 5 aprile 2017, n. 52, entrato in vigore il 23 febbraio 2018, il cui art. 9 recita:

«1. È consentito, nell’ambito di un procedimento penale o di un procedimento amministrativo, lo scambio diretto e spontaneo di informazioni utili e di atti con l’autorità competente di altro Stato Parte. 2. Le informazioni e gli atti ricevuti sono utilizzabili nel rispetto dei limiti indicati dall’autorità competente dello Stato Parte. 3. Resta fermo quanto disposto dall’art. 78 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271».

Con riferimento al più esteso ambito degli Stati parte del Consiglio d’Europa, è ripreso il processo legislativo di ratifica e attuazione del II Protocollo Addizionale alla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale (fatto a Strasburgo, 8 novembre 2001). L’art. 11 del Protocollo contiene una disposizione in tema di trasmissione spontanea di informazioni, gemella di quella contenuta nella MAP.

Un’importante riprova della sensibilità dell’istituto nella strategia di potenziamento della capacità di reazione degli Stati alla sfida lanciata dai nuovi network terroristici e dai foreign terrorist fighters si ricava dalla recente Direttiva n. 2017/541/UE sulla lotta contro il terrorismo.

L’art. 22 della Direttiva modifica l’art. 2, par. 6 della previgente fonte dell’Unione (Decisione 2005/671/GAI), prevedendo un obbligo di condivisione informativa così declinato: “Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie per garantire che le informazioni pertinenti raccolte dalle sue autorità competenti nel quadro di procedimenti penali collegati a reati di terrorismo siano accessibili il più rapidamente possibile alle autorità competenti di un altro Stato membro, quando dette informazioni potrebbero essere utilizzate a fini di prevenzione, accertamento, indagine o azione penale in relazione ai reati di terrorismo di cui alla direttiva UE 2017/541 in tale Stato membro, su richiesta o a titolo spontaneo, conformemente al diritto nazionale e ai pertinenti strumenti giuridici internazionali”.

Sono inoltre aggiunti al predetto art. 2 nuovi paragrafi (7 e 8), che:

- circoscrivono l’inapplicabilità dell’obbligo di condivisione ai casi in cui la sua attuazione “comprometta le indagini in corso o la sicurezza di una persona (…) o sia in contrasto con gli interessi essenziali della sicurezza dello Stato membro interessato);

- prescrive agli Stati membri di prendere “le misure necessarie affinché le loro autorità competenti adottino, all’atto del ricevimento delle informazioni di cui al paragrafo 6, misure tempestive conformemente al proprio diritto nazionale, secondo necessità”.

Concludendo, occorre segnalare il forte impulso che la cooperazione informale ha ricevuto dall’attuazione della decisione quadro in tema di squadre investigative comuni (2002/465/GAI trasposta con d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 34), da alcune disposizioni dei menzionati interventi di riforma del Libro XI e di attuazione della MAP, nonché dall’attuazione della Direttiva 2014/41/UE in tema di ordine europeo di indagine e di prova.

Ci si riferisce, in particolare, al mutato assetto della competenza a decidere del riconoscimento e dell’eseguibilità delle rogatorie e degli ordini di indagine emessi dalle autorità estere.

L’abolizione del compito delibativo assegnato per il passato alle Corti d’appello e alle Procure generali e il suo trasferimento alle Procure della Repubblica presso i capoluoghi di distretto e ai relativi giudici per le indagini preliminari (art. 724 cod. proc. pen.; art. 8 del d.lgs. n. 52 del 2017; art. 4 del d.lgs. 21 giugno 2017, n. 108, recante attuazione della Direttiva 2014/41/UE in tema di ordine europeo di indagine e di prova), ha evidentemente ampliato la possibilità di conoscere l’esistenza di procedimenti esteri collegati a procedimenti interni o riferiti a soggetti già interessati da indagini interne, sì da stimolare quei contatti informali tra i magistrati inquirenti che generalmente preludono agli scambi informativi e documentali.

2. Condizioni di utilizzabilità nel procedimento interno degli atti spontaneamente trasmessi dall’autorità estera.

Sez. 6, n. 12387 del 12/12/2017 – dep. 2018 –, Aiello, Rv. 272528 ha affrontato il tema dell’utilizzabilità in ambito cautelare delle informazioni relative ad atti compiuti all’estero dalla polizia straniera (nella specie, l’arresto di due cittadini italiani all’aeroporto di Bogotà), acquisite dalla polizia giudiziaria italiana ed entrate nel procedimento senza attivare il canale rogatoriale.

La massima ufficiale sottolinea l’eterogeneità del caso rispetto a quello delle informazioni confidenziali o provenienti da fonte anonima:

«Le informazioni relative ad atti compiuti dalla polizia straniera non assunte per rogatoria, ma direttamente acquisite dalla polizia giudiziaria italiana nell’ambito di un rapporto di collaborazione transnazionale con la polizia che ha operato, non sono equiparabili ad un’informazione acquisita da informatori privati o da fonte confidenziale e, pertanto, ai fini della loro utilizzabilità, non trova applicazione l’art. 203 cod. proc. pen.».

In motivazione, la Corte ha aggiunto che non è necessaria l’attivazione della commissione rogatoria col paese straniero, se le autorità competenti di quel paese, come nel caso concreto, hanno messo spontaneamente ed autonomamente a disposizione dello Stato italiano i verbali di arresto dei corrieri e gli atti collegati; e che perciò non trovano applicazione le regole dettate dall’art. 729 cod. proc. pen. in tema di utilizzabilità della prova acquisita all’estero.

Sez. 3, n. 20421 del 27/02/2018, Sozzi, n.m., con riferimento alla documentazione spontaneamente trasmessa dalla polizia britannica e confluita in un giudizio per emissione di fatture relative a prestazioni inesistenti, ha ritenuto detta documentazione legittimamente utilizzabile secondo la disciplina dell’art. 234 cod. proc. pen. 

La Corte ha richiamato il carattere speciale della disposizione dell’art. 729, comma primo, cod. proc. pen., dal quale discende la sua inapplicabilità al di fuori del contesto strettamente rogatoriale (ex plurimis, Sez. 2, n. 44673 del 12/11/2008, Zummo, Rv. 242209; Sez. 6, n. 9960 del 27/01/2005, Biondo, Rv. 231048; Sez. 2, n. 20100 del 08/03/2002, Pozzi, Rv. 222026).

Analoga questione è stata affrontata da Sez. 2, n. 30389 del 11/01/2018, Iacopetta, n.m. in relazione ad un’ordinanza cautelare personale basata, tra l’altro, sui risultati delle attività intercettive autonomamente svolte dalle autorità elvetiche e da queste spontaneamente messe a disposizione delle autorità italiane.

Rigettando il motivo di ricorso incentrato sull’inutilizzabilità di detti elementi, la Corte ha dato continuità all’orientamento che esclude la necessità di una verifica del giudice italiano in ordine alla regolarità degli atti di indagine compiuti in territorio estero, evocando la “presunzione di legittimità dell’attività svolta” e l’esclusiva competenza del giudice straniero in tema di verifica della correttezza della procedura e di risoluzione di ogni questione relativa alle irregolarità riscontrate. Gli argomenti ricalcano quelli esibiti da Sez. 5, n. 1405 del 16/11/2016 Cc. (dep. 2017), Russo, Rv. 269015, per rigettare la doglianza relativa alla mancata trasmissione degli originali dei decreti autorizzativi e dei verbali di ascolto delle intercettazioni effettuate dalle autorità olandesi e da queste trasmesse a quelle italiane, a seguito di rogatoria.

Nello stesso senso si esprimeva Sez. 5, n. 45002 del 13/07/2016, Crupi, Rv. 268457, aggiungendo che l’utilizzazione nel procedimento interno della documentazione di atti compiuti autonomamente da autorità straniere, in un diverso procedimento penale all’estero, non soffre le restrizioni stabilite dagli artt. 238 cod. proc. pen. e 78 disp. att. cod. proc. pen. Si configura il solo limite del contrasto con le norme inderogabili e i principi fondamentali dell’ordinamento interno (“che, però, non si identificano necessariamente con il complesso delle regole dettate dal codice di rito”). Detto contrasto dovrà essere provato da colui che lo eccepisce, data la presunzione di legittimità anzidetta, che è particolarmente stringente quando vengano in rilievo atti assunti in paesi appartenenti allo spazio giuridico comune dell’Unione Europea.

Da ultimo, la decisione Iacopetta richiama la massima di Sez. 1, n. 42478 del 31/10/2002, Moio, Rv. 222984 che, trattando di materia del tutto analoga in un contesto regolato dalla Convenzione europea di assistenza giudiziaria del 1959, evoca l’ulteriore limite delle condizioni di utilizzabilità eventualmente apposte dal Paese che ha spontaneamente trasmesso gli le risultanze intercettive:

«In tema di utilizzabilità di atti assunti per rogatoria, le intercettazioni telefoniche ritualmente compiute da un’Autorità di Polizia straniera e da questa trasmesse di propria iniziativa, ai sensi dell’art. 3, comma 1, della Convenzione Europea di assistenza giudiziaria firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959, ratificata con l. 23 febbraio 1961 n. 215, e dell’art. 46 dell’Accordo di Schengen, ratificato con l.30 settembre 1993 n. 388, senza l’apposizione di condizioni all’utilizzabilità, alle Autorità italiane interessate alle informazioni, rilevanti ai fini dell’assistenza per la repressione di reati commessi sul loro territorio, possono essere validamente acquisite al fascicolo del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 78, comma 2, disp. att. c.p.p., trattandosi di atti non ripetibili compiuti dalla polizia straniera».

. Indice delle sentenze citate

Sez. 2, n. 20100 del 08/03/2002, Pozzi, Rv. 222026 Sez. 1, n. 42478 del 31/10/2002, Moio, Rv. 222984 Sez. 6, n. 9960 del 27/01/2005, Biondo, Rv. 231048 Sez. 2, n. 44673 del 12/11/2008, Zummo, Rv. 242209 Sez. 5, n. 45002 del 13/07/2016, Crupi, Rv. 268457 Sez. 5, n. 1405 del 16/11/2016 – dep. 2017 –, Russo, Rv. 269015 Sez. 6, n. 12387 del 12/12/2017 – dep. 2018 –, Aiello, Rv. 272528 Sez. 2, n. 30389 del 11/01/2018, Iacopetta, n.m. Sez. 3, n. 20421 del 27/02/2018, Sozzi, n.m.

  • arresto
  • giurisdizione internazionale
  • esecuzione della pena

CAPITOLO III

LA GIURISPRUDENZA SUL MANDATO DI ARRESTO EUROPEO

(di Andrea Venegoni )

Sommario

1 Premessa. - 2 Presupposti. - 3 Sindacato dall’autorità giudiziaria italiana. - 4 Motivi di rifiuto: La violazione del ne bis in idem. - 4.1 Fatti commessi in parte nel territorio dello Stato. - 4.2 Esecuzione della pena nel Paese richiesto. - 4.3 Trattamento inumano e degradante. - 4.4 Giusto processo. - 4.5 Mancata allegazione di documenti. - 4.6 Doppia punibilità. - 5 Motivi di rinvio. - 6 Questioni procedurali. - 7 Principio di specialità. - Indice delle sentenze citate

1. Premessa.

Nel corso del 2018, a differenza dei due anni precedenti, non vi sono state rilevanti novità legislative nel settore della cooperazione giudiziaria penale, ma la giurisprudenza della Corte ha continuato ad approfondire ed affinare una serie di tematiche che si sono presentate nella pratica.

Interessanti novità sono, invece, intervenute ad opera della Corte di Giustizia dell’Unione. In particolare, in tema di mandato di arresto europeo, la Corte ha emesso una interessante pronuncia, anche se, per certi versi, preoccupante perché dà conto dei pericoli che oggi in Europa tornano a correre principi che si ritenevano ormai acquisiti, come quello del “rule of law”, o, noi diremmo, stato di diritto.

Nel caso C-216/18, la Corte ha, in sostanza, avallato il rifiuto di consegna di una persona, sulla base di un mandato di arresto europeo, verso un altro Stato Membro le cui riforme interne sul sistema giudiziario avevano fatto dubitare della loro compatibilità con il principio del rispetto dello stato di diritto, essenziale per gli Stati Membri dell’Unione Europea.

Si è trattato di un precedente interessante, anche se determinato da una situazione preoccupante, che conferma il ruolo della Corte nel preservare il territorio dell’Unione come spazio giuridico basato su principi comuni, che sono, poi, quelli su cui si fonda il mutuo riconoscimento delle decisioni, che è alla base del funzionamento degli strumenti di cooperazione all’interno della UE, a partire proprio dal mandato di arresto europeo.

A livello nazionale, poi, numerose e variegate sono le questioni di cui la giurisprudenza della Corte di cassazione si è occupata nel corso del 2018 in tema di mandato di arresto europeo.

2. Presupposti.

In tema di m.a.e. c.d. “esecutivo” nella procedura passiva, cioè quando l’Italia è richiesta di consegnare una persona, per la cui applicazione l’art. 7, comma 4, legge 22 aprile 2005, n. 69 prevede la misura minima della pena o della misura sicurezza non inferiore ai quattro mesi, Sez. 6, n. 13867 del 22/03/2018, Clinck, Rv. 272721, ha statuito che occorre fare riferimento non alla pena in concreto ancora da eseguire, ma a quella pronunciata dall’autorità giudiziaria straniera; ne consegue che, qualora il m.a.e. riguardi l’esecuzione di una pluralità di sentenze di condanna, ferma restando l’applicazione del limite previsto dal citato art. 7, ogni questione relativa al residuo della pena da scontare deve essere posta all’autorità giudiziaria dello Stato richiedente.

3. Sindacato dall’autorità giudiziaria italiana.

Il m.a.e. si basa, come noto, sul principio del mutuo riconoscimento, uno dei cardini della normativa dell’Unione in tema di cooperazione giudiziaria che, fino al Trattato di Lisbona, rappresentava il c.d. Terzo Pilastro dell’Unione, in particolare dopo i Trattati di Amsterdam (1997) e Nizza (2001). Oggi il mutuo riconoscimento continua ad essere il principio fondamentale in tema di cooperazione giudiziaria, ma è mutato il quadro istituzionale dell’Unione, non esistendo più la distinzione in diversi Pilastri – che si traduceva anche in una differenza nelle procedure legislative – ma, piuttosto, un quadro istituzionale tendente alla maggiore uniformità.

Tale principio presuppone la fiducia reciproca tra gli Stati, e comporta che il provvedimento di cui viene chiesta l’esecuzione non debba essere sottoposto ad un sindacato particolarmente pregnante nel merito da parte delle autorità dello Stato richiesto, salvi i casi di rifiuto. La legge italiana, in realtà, sembra richiedere qualche valutazione ulteriore laddove subordina la concessione di misure cautelari alla sussistenza dei requisiti previsti dal codice di procedura penale nazionale, fatta eccezione per gli articoli 273, commi 1 e 1-bis, 274, comma 1, lettere a) e c), e 280, (art. 9 comma 5 legge 69 del 2005), e laddove subordina la consegna finale alla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza (art. 17 comma 4 legge 69 del 2005). La giurisprudenza compie quindi un’opera di chiarimento all’interno del perimetro normativo sui limiti del sindacato dall’autorità giudiziaria italiana per l’esecuzione di un m.a.e.

In tema di m.a.e. c.d. “esecutivo”, cioè emesso per l’esecuzione di una sentenza definitiva, Sez. 6, n. 20254 del 04/05/2018, Markuns, Rv. 273276, si è espressa nel senso che, una volta che l’autorità di emissione ha affermato che, secondo le norme interne, la sentenza di condanna a carico del soggetto di cui si chiede la consegna è divenuta esecutiva, non spetta all’autorità giudiziaria italiana sindacare sulla base di quali presupposti normativi dell’ordinamento dello Stato di emissione sia stata affermata la esecutività della sentenza di condanna.

4. Motivi di rifiuto: La violazione del ne bis in idem.

Sez. 6, n. 35290 del 19/07/2018, Sniadecki, Rv. 273780, ha ritenuto che il principio del ne bis in idem trova applicazione con riguardo alla sentenza irrevocabile con la quale è stata rifiutata la consegna, per effetto del mancato invio da parte dello Stato richiedente della documentazione integrativa richiesta; pertanto, la Corte d’appello non può, a seguito della successiva ricezione della predetta documentazione, pronunciarsi nuovamente sulla medesima richiesta, modificando la precedente decisione di rifiuto. In motivazione, la Corte ha precisato che solo nel caso in cui il rifiuto sia motivato dal serio pericolo di sottoposizione a trattamenti non consentiti, ai sensi dell’art. 18, comma 1, lett. h), legge 69 del 2005, la sentenza deve considerarsi adottata “allo stato degli atti” ed è, quindi, suscettibile di una nuova valutazione ove l’impedimento alla consegna venga rimosso.

Sez. 6, n. 18872 del 26/04/2018, Di Lallo, Rv. 273134, ha, invece, ritenuto che non configura violazione del principio del ne bis in idem la pronuncia di una successiva decisione che dispone la consegna dell’interessato all’autorità giudiziaria dello Stato richiedente quando una precedente decisione abbia negato detta consegna definendo soltanto questioni attinenti al rito o meramente pregiudiziali, senza deliberare sul merito della richiesta.

4.1. Fatti commessi in parte nel territorio dello Stato.

Preliminarmente, Sez. 6, n. 4444 del 25/01/2018, Grigorie, Rv. 272126, ha ritenuto che tale causa ostativa è applicabile solo quando la richeista di consegna sia formulata per ragioni processuali, e non anche nel caso in cui lo Stato richiedente intenda procedere all’esecuzione di una condanna definitiva.

Sez. 6, n. 27992 del 13/06/2018, H., Rv. 273544, si è occupata dell’interpretazione di tale motivo ostativo, ed ha ritenuto che quando la richiesta di consegna riguarda fatti commessi in parte nel territorio dello Stato, il motivo obbligatorio di rifiuto della consegna, previsto dall’art. 18, comma 1, lett. p), l. 22 aprile 2005, n. 69, è ravvisabile solo quando sussiste non un potenziale interesse dell’ordinamento interno ad affermare la giurisdizione, ma una situazione oggettiva, dimostrata dalla presenza di indagini sul fatto oggetto del mandato di arresto, sintomatica dell’effettiva volontà della Stato di affermare la propria giurisdizione. In motivazione la Corte si è anche occupata del rapporto tra l’art. 18, lett. p), l. n. 69 del 2005 con l’art. 4, par. 7 della Decisione quadro 2002/584 GAI – in forza del quale la Corte di appello aveva disapplicato la norma interna – escludendo un contrasto tra le due norme in considerazione dei seguenti criteri: a) la decisione quadro non è immediatamente applicabile in quanto, pur facendo riferimento alla possibilità e non all’obbligo del rifiuto della consegna, non indica i parametri cui informare tale valutazione discrezionale; b) la l. n. 69 del 2005, pur essendo attuativa della decisione quadro del 2002, non richiama espressamente il principio sancito dall’art. 31, che fa, comunque, salve le intese bilaterali o multilaterali volte a semplificare le procedure di consegna, cosicchè non può assumere rilevanza quanto previsto dall’art. 7 della Convenzione europea di estradizione in merito al carattere facoltativo di tale motivo di rifiuto.

Sez. 6, n. 15866 del 04/04/2018, Spasiano, Rv. 272912, ha, per contro, precisato che quando la richiesta di consegna riguarda fatti commessi in parte nel territorio dello Stato, o in altro luogo allo stesso assimilato, il motivo obbligatorio di rifiuto della consegna, previsto dall’art. 18, comma 1, lett. p), legge 22 aprile 2005, n. 69, sussiste solo quando risulta già pendente un procedimento penale per il fatto oggetto del mandato di arresto europeo; inoltre, ha aggiunto che, in tal caso, il conflitto di giurisdizione tra i due Stati trova la propria soluzione nel meccanismo disciplinato dalla decisione quadro 2009/948/GAI e dal d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 29, anche al fine di evitare una violazione del principio del ne bis in idem sancito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Sez. 6, n. 13868 del 22/03/2018, Akinyemi, Rv. 272776, ha, invece, ritenuto che il motivo di rifiuto della consegna previsto dall’art. 18, comma 1, lett. p), legge 22 aprile 2005, n. 69, configurabile quando una parte della condotta si sia verificata in territorio italiano, non opera in presenza di un accordo bilaterale che preveda la possibilità per lo Stato richiesto di concedere l’estrazione per fatti in parte commessi nel suo territorio, ove si ritenga opportuno far giudicare tutte le imputazioni dallo Stato richiedente. Nella fattispecie, in particolare, la Corte ha ritenuto applicabile l’art. 2 dell’Accordo bilaterale italo-tedesco del 24 ottobre 1979, ratificato con legge 11 dicembre 1984, n. 969, in quanto l’art. 31 della decisione quadro 2002/584/GAI, stabilisce che continuano ad applicarsi gli accordi o intese bilaterali o multilaterali vigenti al momento dell’adozione della decisione quadro nella misura in cui questi consentono di agevolare ulteriormente la consegna del ricercato.

Sez. 6, n. 5548 del 01/02 2018, Manco, Rv. 272198, ha ritenuto che il motivo di rifiuto della consegna previsto dall’art. 18, comma 1, lett. p), legge 22 aprile 2005, n. 69, sussiste quando una parte della condotta, anche minima e consistente in frammenti privi dei requisiti di idoneità e inequivocità richiesti per il tentativo, purché preordinata al raggiungimento dell’obiettivo criminoso, si sia verificata in territorio italiano.

4.2. Esecuzione della pena nel Paese richiesto.

Ai sensi dell’art. 18 lett. r) legge 69 del 2005, nelle procedure “passive”, cioè quelle in cui l’Italia è richiesta di consegnare una persona ad un altro Stato, la Corte d’Appello rifiuta la consegna se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano, sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno. Sez. 6, n. 780 del 19/02/2018, Stinga, Rv. 272388, interpretando tale norma, ha affermato che, in tal caso, la persona richiesta in consegna, invocando tale motivo di rifiuto, presta implicitamente il proprio consenso al riconoscimento della sentenza straniera, ai sensi e per gli effetti di cui al d.lgs. n. 161 del 2010, tuttavia ciò non determina il venir meno dell’interesse a dedurre, con ricorso per cassazione, la sussistenza di eventuali fattori ostativi al recepimento del contenuto ed all’esecuzione delle statuizioni della sentenza di condanna pronunciata dallo Stato di emissione.

In senso analogo, Sez. 6, n. 8439 del 16/02/2018, Ciociu, Rv. 272379, ha ritenuto che nella deduzione della suddetta causa di rifuto alla consegna è implicita la manifestazione del consenso dell’interessato all’esecuzione della sentenza straniera, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. d), del citato d.lgs. In tal caso, la corte di appello deve, comunque, verificare che ricorrano le condizioni previste dagli artt. 10 e 11 del citato d.lgs. e che non sussistano le condizioni ostative al riconoscimento di cui al successivo art. 13.

Sez. 6, n. 5225 del 15/12/2017, dep. 2018, Ciomirtan, Rv. 272127, ha, invece, precisato che la causa ostativa prevista dall’art. 18, lett. r), legge 22 aprile 2005, n. 69, non è applicabile nei confronti di cittadini di Stati non membri dell’Unione Europea, anche qualora siano stabilmente radicati nel territorio nazionale, in quanto l’art. 705, comma 2, cod. proc. pen. non contempla analogo motivo di rifiuto alla consegna dell’estradando. Tale conclusione si basa sul principio per cui la disciplina del mandato di arresto europeo è espressione dell’appartenenza ad uno spazio giudiziario comune, sicchè non è estensibile nei confronti di cittadini aventi nazionalità diverse.

4.3. Trattamento inumano e degradante.

Il tema del rifiuto di esecuzione del m.a.e. per il timore che l’interessato sia sottoposto, nello Stato richiedente, a trattamenti inumani e degradanti ha continuato ad essere al centro dell’attenzione anche nel 2018, proponendosi come uno dei temi più spinosi in materia, anche perché, come è stato notato, può esporre uno Stato dell’Unione Europea – la quale dovrebbe rappresentare anche uno spazio di civiltà nel trattamento dei detenuti – ad un giudizio, proveniente da altro Stato dell’Unione, sul proprio sistema carcerario o di esecuzione della pena, e quindi ad un giudizio che, direttamente o indirettamente, potrebbe andare a colpire uno degli aspetti di manifestazione esteriore della sovranità statuale. Inoltre, l’argomento potrebbe apparire in contrasto con il principio del mutuo riconoscimento, e cioè la fiducia reciproca che gli Stati si sono concessi creando il sistema basato sul m.a.e. La materia è, per questo, estremamente delicata ed è stata oggetto di attenzione anche da parte della Corte di Giustizia dell’Unione, la quale, peraltro, ha ritenuto il divieto di pene o trattamenti inumani come facente parte di quelli fondamentali dell’Unione, anche prevalente, se necessario, su quello del mutuo riconoscimento (si vedano, tra le altre, le sentenze 5 aprile 2016 nel caso C-404/15, Aaranyosi, e C-659/15, Caldararu).

Così, Sez. 6, n. 26383, del 05/06/2018, P.G. in proc. Chira, Rv. 273803, relativa ad un mandato di arresto europeo c.d. esecutivo, emesso dall’Autorità Giudiziaria romena, che si riferiva ad una modalità di esecuzione dell apena attraverso un regime definito “semiaperto di detenzione”, che comporta una totale libertà di movimento del detenuto, tale per cui costui usufruisce degli spazi della cella solo per la ristorazione, per servirsi dei servizi sanitari e per il pernottamento, mentre il resto del tempo può trascorrerlo liberamente negli spazi comuni, ha affermato che per accertare l’effettiva sussistenza di un pericolo di trattamento inumano e degradante, ostativo alla consegna del detenuto all’autorità dello Stato membro di emissione occorre l’acquisizione, da parte dell’autorità giudiziaria remittente, di informazioni “individualizzate” sul regime di detenzione.

Sez. 6, n. 9391 del 28/02/2018, Jovanovic, Rv. 272341, ha affermato, a proposito di un mandato di arresto europeo emesso dall’Autorità Giudiziaria belga, che è legittima la sentenza della corte di appello che dispone la consegna dell’interessato senza chiedere preventivamente informazioni circa il rischio di sottoposizione ad un trattamento disumano o degradante, atteso che, in assenza di una specifica allegazione da parte dell’interessato, le misure adottate dal Belgio, secondo quanto rilevato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel settembre del 2016, evidenziano un miglioramento della situazione carceraria che rendono ingiustificata la verifica d’ufficio.

4.4. Giusto processo.

Sez. 6, n. 931 del 11/01/2018, Yordanov, Rv. 271962, ha affermato che la mancata previsione del doppio grado di giudizio non è ostativa alla richiesta di consegna fondata su un provvedimento, nella specie ordinanza di applicazione di una pena concordata con l’imputato, secondo uno schema processuale assimilabile al patteggiamento, trattandosi di ipotesi diversa da quella basata sulla condanna emessa all’esito di un giudizio ordinario.

4.5. Mancata allegazione di documenti.

Sez. 6, n. 931 del 11/01/2018, Yordanov, Rv. 271961, ha ritenuto che la mancata allegazione del “testo delle disposizioni di legge applicabili”, richiesta dall’art. 6, comma 4, lett. b), della legge 22 aprile 2005, n. 69, non costituisce di per sé causa di rifiuto della consegna, trattandosi di documentazione necessaria solo quando sorgano particolari problemi interpretativi la cui soluzione necessiti della esatta cognizione della portata della norma straniera, come nel caso della verifica della “doppia punibilità”.

4.6. Doppia punibilità.

È noto che la legge italiana ha introdotto tra i motivi di rifiuto generalizzato per la consegna il requisito della doppia punibilità, per quanto il principio fondante della decisione quadro dell’Unione, e cioè quello già ricordato sopra del mutuo riconoscimento, tendesse a superare proprio l’impostazione basata sulla doppia incriminazione, rendendola non necessaria per una serie di reati elencati nel testo normativo (art. 2 comma 2 della decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002 relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri (2002/584/GAI).

Al di fuori di tali reati, occorre la verifica di tale requisito. La giurisprudenza afferma che non occorre che la due fattispecie di reato (quella dello Stato richiedente e quella dello Stato richiesto) siano formalmente identiche, essendo sufficiente che siano ontologicamente assimilabili.

Così, Sez. 6, n. 10251 del 01/03/2018, Correale, Rv. 272643, ha affermato che sussiste la condizione per l’esecuzione della consegna prevista dall’art. 7, comma 2, della legge 22 aprile 2005, n. 69, in relazione ad un mandato d’arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria croata per il reato di contrabbando di tabacchi lavorati esteri, trattandosi di ipotesi assimilabile alla fattispecie di cui all’art. 291 del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, indipendentemente dal superamento delle soglie di punibilità prevista dalla legge italiana. In particolare, la Corte ha precisato che in materia di tasse ed imposte, di dogana e di cambio, l’art. 7, comma 2, della legge n. 69 del 2005, esclude la necessità di una perfetta sovrapposizione tra la fattispecie prevista dall’ordinamento estero e quella contemplata dall’ordinamento italiano, purché le stesse risultino analogicamente assimilabili.

Sez. 6, n. 2059 del 16/01/2018, Coltan, Rv. 272137, ha ritenuto che per soddisfare la condizione della doppia punibilità prevista dall’art. 7, comma 1, legge 22/04/2005, n. 69, è sufficiente che il fatto sia previsto come reato in entrambi gli ordinamenti, essendo, invece, irrilevanti l’eventuale eterogeneità delle previsioni inerenti alle circostanze aggravanti, a condizione che la natura ed il contenuto dell’elemento circostanziale non determinino un mutamento del fatto, ovvero le eventuali discrezionali valutazioni relative alle possibili condizioni di non punibilità previste nell’ordinamento interno. Nella specie, in particolare, il ricorrente lamentava la violazione della condizione di doppia punibilità in relazione ad un m.a.e. relativo all’esecuzione di una sentenza di condanna per furto aggravato, deducendo sia la mancata previsione nell’ordinamento interno della contestata aggravante della consumazione del furto in orario notturno che la non punibilità della condotta per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.

5. Motivi di rinvio.

La legge italiana prevede anche la possibilità di rinviare la consegna della persona, in presenza di determinate condizioni. Una di queste, prevista dall’art. 20 della L. n. 69 del 2005, è che la persona da consegnare debba essere allo stesso tempo sottoposta in Italia ad altro procedimento penale per un reato diverso da quello oggetto del m.a.e.

Al riguardo, Sez. 6, n. 13994 del 20/03/ 2018, Ademi, Rv. 272768, ha statuito che la facoltà riconosciuta alla Corte d’appello di rinviare la consegna per consentire alla persona richiesta di essere sottoposta a procedimento penale in Italia per un reato diverso da quello oggetto del mandato, implica una valutazione di tipo discrezionale, basata sui criteri desumibili dall’art. 20, legge 22 aprile 2005, n. 69, del cui mancato esercizio il consegnando non può dolersi, a meno che egli non l’abbia espressamente sollecitato, adducendo al riguardo uno specifico interesse. Nella specie, si trattava di un m.a.e. emesso per il perseguimento del ricorrente per reati di traffico di stupefacenti commessi in Francia, in cui la Corte ha ritenuto manifestamente infondato il motivo di ricorso relativo all’omessa considerazione dell’interesse del ricorrente ad impugnare una sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 497-bis cod. pen. ed a scontare in Italia la pena inflitta, in quanto lo stato di detenzione all’estero non avrebbe impedito l’impugnazione di tale sentenza, né comportato una celebrazione in sua assenza dell’eventuale giudizio di appello, configurandosi quale legittimo impedimento.

6. Questioni procedurali.

A proposito dei documenti che l’autorità richiedente deve produrre a sostegno della domanda di consegna, Sez. 6, n. 6758 del 06/02/2018, P.G. in proc. Kus, Rv. 272162, ha ritenuto, a proposito di un mandato di arresto europeo “esecutivo”, che l’omessa allegazione o acquisizione in via integrativa della copia della sentenza di condanna a pena detentiva non legittima il rigetto della richiesta qualora la documentazione in atti contenga tutti gli elementi conoscitivi necessari e sufficienti per la decisione.

Secondo Sez. 6, n. 20849 del 26/04/2018, H., Rv. 272935, non è impugnabile il decreto con cui il presidente della corte di appello, o il consigliere da lui delegato, dispone la sospensione dell’esecuzione della consegna allo Stato di emissione, ai sensi dell’art. 23, commi 2 e 3, legge 22 aprile 2005, n. 69. In motivazione la Corte ha anche aggiunto che le questioni sull’efficacia della sentenza irrevocabile con cui è stata data esecuzione al mandato di arresto europeo e quelle relative allo “status libertatis”, una volta decorso inutilmente il termine per la consegna, possono essere dedotte con incidente di esecuzione dinanzi alla competente corte di appello.

Sempre oggetto di analisi, poi, sono le differenze, nella procedura “passiva”, tra la procedura “ordinaria” della eventuale restrizione della libertà personale della persona da consegnare e quella in cui quest’ultima è arrestata dalla polizia giudiziaria.

Sez. 6, n. 16868 del 20/03/2018, Rejeb, Rv. 272920, ha ritenuto il termine di ventiquattro ore, previsto dall’art. 10, comma 2, legge 22 aprile 2005, n. 69, per l’avviso al difensore dell’interessato nei cui confronti la corte di appello ha applicato una misura coercitiva, non trova applicazione con riferimento all’udienza di convalida dell’arresto eseguito su iniziativa della polizia giudiziaria per la cui celebrazione l’art. 13, legge cit., prevede il più breve termine di quarantotto ore dalla ricezione del verbale di arresto. In motivazione la Corte ha aggiunto che, sulla base della specifica disciplina dell’iter procedurale prevista dall’art. 13, legge n. 69 del 2005, e delle cadenze temporali più ristrette rispetto alle ipotesi disciplinate dagli artt. 9 e 10, legge cit., il rinvio a tali norme contenuto al secondo comma dell’art. 13 deve essere riferito esclusivamente alla necessaria pronuncia dell’ordinanza di convalida, una volta escluso che l’arresto sia stato eseguito per errore di persona o fuori dai casi previsti dalla legge

7. Principio di specialità.

Delicato è anche il tema del principio di specialità, attinente alla possibilità o meno si sottoporre l’imputato, nello Stato richiedente, a procedimenti diversi da quelli per cui è avvenuta la consegna.

Sez. 1, n. 20767 del 23/02/2018, Mariani, Rv. 272834, ha affermato che non costituisce violazione del principio di specialità l’assoggettamento della persona consegnata ad esecuzione della pena, relativa a condanna per fatto per il quale la consegna era stata concessa, già oggetto di indulto, poi revocato per fatti successivi alla consegna, avendo il condannato commesso un nuovo reato nel quinquennio.

. Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di Cassazione

Sez. 6, n. 5225 del 15/12/2017 – dep. 2018 –, Ciomirtan, Rv. 272127 Sez. 6, n. 931 del 11/01/2018, Yordanov, Rv. 271962 Sez. 6, n. 2059 del 16/01/2018, Coltan, Rv. 272137 Sez. 6, n. 4444 del 25/01/2018, Grigorie, Rv. 272126 Sez. 6, n. 5548 del 01/02/2018, Manco, Rv. 272198 Sez. 6, n. 6758 del 06/02/2018, P.G. in proc. Kus, Rv. 272162 Sez. 6, n. 7801 del 09/02/2018, Stinga, Rv. 272388 Sez. 6, n. 8439 del 16/02/2018, Ciociu, Rv. 272379 Sez. 1, n. 20767 del 23/02/2018, Mariani, Rv. 272834 Sez. 6, n. 9391 del 28/02/2018, Jovanovic, Rv. 272341 Sez. 6, n. 10251 del 01/03/2018, Correale, Rv. 272643 Sez. 6, n. 13994 del 20/03/2018, Ademi, Rv. 272768 Sez. 6, n. 16868 del 20/03/2018, Rejeb, Rv. 272920 Sez. 6, n. 13867 del 22/03/2018, Clinck, Rv. 272721 Sez. 6, n. 13868 del 22/03/2018, Akinyemi, Rv. 272776 Sez. 6, n. 15866 del 04/04/2018, Spasiano, Rv. 272912 Sez. 6, n. 18872 del 26/04/2018, Di Lallo, Rv. 273134 Sez. 6, n. 20849 del 26/04/2018, H., Rv. 272935 Sez. 6, n. 20254 del 04/05/2018, Markuns, Rv. 273276 Sez. 6, n. 26383 del 05/06/2018, P.G. in proc. Chira, Rv. 273803 Sez. 6, n. 27992 del 13/06/2018, H., Rv. 273544 Sez. 6, n. 35290 del 19/07/2018, Sniadecki, Rv. 273780

Sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea

CGUE, 25 luglio 2018, caso C-216/18